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DANUBIANA INTERSEZIONI

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DirettoriGiovanni MUniversità degli Studi di Bari “Aldo Moro”

Gisèle VUniversità della Calabria

Comitato scientifico

Corin BUniversità “Babes–Bolyai” di Cluj–Napoca

Paul CUniversità di Bucarest

Monique JUniversità di Tel–Aviv

Annafrancesca NUniversità della Calabria

Antonio PUniversità “Alexandru Ioan Cuza” di Iasi

Laura PUniversità “Babes–Bolyai” di Cluj–Napoca

Yannick PUniversità della Calabria

Calin TUniversità “Babes–Bolyai” di Cluj–Napoca

Alexandra VUniversità di Bucarest

Rodica ZUniversità di Bucarest

Comitato redazionale

Serban AAccademia di Romania, Filiale di Iasi

Danilo D SUniversità della Calabria

Giovanni MUniversità degli Studi di Bari “Aldo Moro”

Annafrancesca NUniversità della Calabria

Yannick PUniversità della Calabria

Gisèle VUniversità della Calabria

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DANUBIANA

INTERSEZIONI

La nuova collana Danubiana si propone di costruire un pontetra l’Italia e la Romania, creando un fecondo dialogo intercul-turale tra i due paesi. In essa si collocano sia opere di criticaletteraria, di filologia e di linguistica che intendono diffondere,presso un pubblico ampio e non limitato a quello dei soli specia-listi, la conoscenza della lingua, della letteratura e della culturarumena in Italia, sia traduzioni di testi di prosa, poesia e teatroprovenienti dallo spazio rumeno moderno e contemporaneo.Essa offre ai lettori la possibilità di entrare in contatto con unarealtà culturale variegata, complessa e ancora poco esplorata,ma verso la quale negli ultimi anni l’interesse è cresciuto.

La collana si articola in tre sezioni: Philologica, Intersezioni e Romania Francofona. Philolo-gica propone ricerche nei campi della linguistica, della filologia e della critica letteraria,offrendo strumenti validi per approfondire tematiche relative alla lingua, alla lettera-tura e alla cultura rumena. Intersezioni raccoglie traduzioni di opere di autori rumeni,appartenenti a diversi generi letterari (prosa, poesia, teatro) e a diverse epoche. Lasezione Romania Francofona, unica nel suo genere, propone traduzioni e studi criticidedicati ad autori rumeni che hanno scelto il francese come lingua d’espressione. Lacollana, che ha una forte vocazione comparatistica e interdisciplinare, adotta un sistemadi valutazione dei testi basato sulla revisione paritaria e anonima (blind peer review).I criteri di valutazione riguarderanno il rigore metodologico, la qualità scientifica edidattica e la significatività dei temi proposti. Per ogni proposta editoriale, tali requisitisaranno accertati da almeno due revisori prescelti all’interno del Comitato Scientifico.

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Radu Tuculescu

Stalin, con la zappa in spalla

Traduzione di Danilo De Salazar

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I edizione: giugno

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Indice

Breve nota all’edizione italiana

Stalin, con la zappa in spalla

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ai miei genitori, Maria e Dumitru

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… datemi una casa, affinché abbia anch’io un punto fisso

su questa terra che ruota…

Isaak Babel’

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Breve nota all’edizione italiana

Si ringrazia l’autore, Radu Ţuculescu, per la disponibi- lità e l’attenzione dimostrate in fase di traduzione. Si se-gnala inoltre che, su esplicita richiesta dello stesso autore, nella presente edizione sono state effettuate alcune modifi-che rispetto al testo originale in lingua romena.

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C’era una volta un aeroplano color alluminio brillante. Era piccolo quanto il pugno di un bambino grassoccio. Aveva tre ruote, che sembravano monete da cinque centesimi. Due avanti e una dietro, sotto la coda. Attraverso le minuscole finestrelle della carlinga si vedeva la testa dell’aviatore. Portava il casco e gli occhiali. A volte immaginavo di essere io il pilota dell’aeroplano argentato. Non volava. Si doveva girare una chiavetta che tendeva una molla. Quando non riuscivi più a gi- rarla, la rilasciavi. La minuscola elica iniziava a girare rapida- mente, ronzando come un calabrone, mentre l’aereo avanzava sul pavimento con un moto lineare. Poi, di colpo, si fermava. Da sotto spuntava una leva che gli faceva alzare la coda e com- piere un giro completo su se stesso. Uno solo. Poi riprendeva ad avanzare. Ad intervalli di tempo regolari, si fermava ed esegui- va la capriola. Certe volte mi aspettavo che si trasformasse in un drago o in una creatura simile. Come nelle fiabe. Invece, l’aereo continuava a ripetere i suoi movimenti finché la molla non ri- tornava nella posizione iniziale. Allora si fermava, e vedevo il pilota sorridere felice.

Con lui, rideva anche l’aeroplano. Era il mio sorriso riflesso sul suo lucido corpo argentato. Sebbene non si staccasse mai dal pavimento, io volavo con lui tra le nuvole e le stelle. Ritornavo a terra, come se mi fossi svegliato da un sogno.

C’era una volta un aeroplano argentato che non volava, fa-

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ceva solo capriole. Così come facciamo noi nell’erba o sulla ne-ve. L’aeroplano della mia infanzia. Non ricordo nessun altro giocattolo. Soltanto i fagioli che usavamo come pedine per un gioco da tavola, Non ti arrabbiare fratello. Durante una lite, ne avevo infilato uno nella narice destra di un mio amichetto. Senza cattiveria, ma con decisione. Lo dovettero portare in o- spedale per togliergli quel fagiolo, grande, bianco con dei pun- tini marroni, altrimenti gli sarebbe marcito lì dentro andando a guastare anche il sangue che gli scorreva nelle vene. La puni- zione di mio padre fu proporzionale alla gravità del mio gesto.

L’aeroplano mi accompagnò per un bel pezzo di vita. Poi, un bel giorno, lo persi. Oppure fu lui a perdere me. Prima sparì il pilota, in modo misterioso. Com’era uscito dalla sua cabina? Non si era rotto nemmeno un vetrino. Non esistevano porte o botole. Era come se si fosse sciolto. Come una pastiglia in un bicchiere d’acqua. Come un vapore nell’aria del mattino. Nes-suno riuscì mai a spiegarmi come fosse sparito. Di fatto, nessu-no credeva fosse mai successo. Era solo la mia immaginazione. Cose del genere le potevano fare solo i grandi illusionisti. Me lo aveva raccontato mia madre. Si calavano chiusi in delle casse con tanti lucchetti. Ne venivano fuori senza che alcun lucchetto fosse sfiorato. Ma gli illusionisti non sparivano per sempre, così com’era accaduto al pilota, e poi anche al mio aeroplano argen-tato.

*

Zio Pintea aveva una voce grave, melodiosa. I capelli petti-

nati all’indietro. Ondulati, brillanti e profumati. Veniva spesso a trovarci. Si sedeva su un ceppo, accanto a papà, nel cortile, tra le cataste di legna. Fumavano, bevevano vino e chiacchierava- no. Spesso, mi metteva a sedere sulle sue ginocchia. Qualche

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volta mi dava un bacio. Sulla guancia, su un orecchio, sulla nu- ca. Diceva che sembravo una mela rosolata al forno, che ti dà voglia di morderla. O un angioletto paffuto, biondo e con gli occhi celesti. Ridevano entrambi. Poi papà gli diceva di la- sciarmi stare, puntandogli il dito contro.

— Che giochi da un’altra parte, qui gli entra il fumo nel na- so e respira vapori tossici di alcol... Mio padre era un medico. Zio Pintea era un poeta. Era appena uscito di galera. Lo guarda- vo con grande curiosità, con meraviglia e ammirazione, come se fosse atterrato, fra le nostre cataste di legna, da un altro pianeta. Come può essere tanto elegante e tanto profumato un ex galeot- to? mi chiedevo. Camicia inamidata, abito giallino, fazzoletto viola nel taschino della giacca. Portava un grosso anello, d’oro, al mignolo della mano destra, una mano che sembrava muoversi nell’aria a ritmo di danza. Gli piaceva bere, ridere e raccontare storie. Credo non lavorasse da nessuna parte. Per mio padre era rilassante incontrarsi con lui, dopo tante ore passate a visitare i pazienti. Anche a mia madre stava simpatico. Il poeta Pintea le portava sempre qualche fiore. Giusto uno. Faceva un grosso in-chino e le baciava la mano come fosse una regina. Mamma era piccola di statura, magrolina e con gli occhi celesti. Il poeta Pintea era alto e aveva due occhi grandi che sembravano co- sparsi di miele. Mia madre non partecipava alle discussioni tra uomini, lì fra le cataste di legna. Preparava da mangiare. Quan- do finiva, ci chiamava in casa.

Molti anni più tardi, seppi da lei che il poeta non amava le donne, ma le rispettava. Amava gli uomini, persino quelli più giovani di lui. Per i bambini provava solo tenerezza, diceva an- cora mia madre. I motivi del suo arresto rimasero oscuri. Co- munque, quando venni a conoscenza di tutti questi particolari, il poeta Pintea era già morto da tempo. Aveva pubblicato un solo volume, intitolato Piaghe d’oro. Un titolo che ben si addiceva al

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colore dei suoi occhi. Cercai il suo libro nelle biblioteche. Non lo trovai. Era sparito insieme all’autore, sembra per sempre. Co-sì come erano spariti il pilota e l’aeroplano argentato.

questa tastiera mi dà sui nervi. non risponde prontamente ai comandi. forse sbaglio a premere con le dita. non ci capisco molto. non riesco nemmeno a redigere correttamente un testo. batto come su una vecchia macchina da scrivere. con due dita. a me più che altro piace scrivere steso sul letto con la penna su un quaderno a righe. solo sulla pagina di destra. la sinistra ri- mane vuota per correzioni e aggiunte. in questo modo mi sento più sicuro.

ohi ohi ohi la mia vita. è il giovane spilungone con la testa piccola da dinosauro che sta al decimo piano del palazzo accanto. il troglodita ha mes-so le casse sulla finestra. a tutto volume. manda musica a tutto il quartiere. hanno pure il coraggio di considerarla musica quella sottospecie di canzoni che loro chiamano manele. il troglodita passa la vita sulle scale o nell’entrata del nostro palazzo dove si riunisce con ragazzi e ragazze del quartiere. mangia semi di girasole rutta e scoreggia. lancia fiammiferi accesi sul soffitto dà fuoco ai pulsanti dell’ascensore rompe le lampadine aloge-ne. di notte a volte piscia sui gradini dell’entrata a causa delle troppe lattine di birra bevute. quando parla grida. sono un masochista. invece di mettermi del cotone nelle o-recchie o di comprarmi dei tappi in farmacia e di legarmi poi un foulard intorno alla testa ho spalancato la finestra. che il suono mi colpisca dritto sul muso. che mi entri nel cervello co- me un ago da cucito. il fachiro dovevo fare. cosa accadrebbe se mettessi anch’io le casse fuori sul davanzale della finestra e al-zassi il volume al massimo affrontando il troglodita con una sinfonia di mahler o di bruckner o con qualcosa di wagner.

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suoni germanici invaderebbero il quartiere. ma le mie casse sono troppo piccole e deboli. non ho nemmeno sinfonie di ma- hler o di bruckner. solo preludi di wagner e arie di alcune ope- re. nel letto scrivo steso sulla schiena. sistemo un cuscino sulle ginocchia e vi poggio su il quaderno. se sto troppo tempo sedu- to mi fa male il culo. mi viene da ridere e appunto rido. mi sono ricordato chissà poi perché di uno di quegli scrittori stalinisti che ti obbligavano a studiare a scuola. ohi ohi ohi la mia vita. proprio così.

Mia madre trascorreva in cucina gran parte della giornata. A

mio padre piaceva mangiare bene. In ospedale, i malati non gli concedevano un attimo di respiro. Le visite interminabili gli producevano un grande vuoto allo stomaco. A pranzo dovevano esserci due portate di cibo e un dessert. Senza eccezioni.

Quel giorno mi trovavo in cucina, concentrato su un libro da colorare. La radio era sull’armadio. Era una grande scatola di legno marrone. Davanti aveva una tela giallina, due bottoni e un lungo vetro rettangolare con lineette e numeri, sotto il quale si muoveva un’asticella rossa. Era un apparecchio tedesco. Crede- vo che in quella scatola si nascondessero dei nanetti grandi quanto Pollicino che parlavano e cantavano tutto il giorno. Men-tre mia madre lavorava in cucina, la radio restava accesa. Seb-bene fossi impegnato a colorare, nelle mie orecchie entravano parole e musica. Quella mattina i nanetti avevano parlato con vo-ce grave, piagnucolosa, e avevano suonato musica lenta, triste. Era morto un uomo che si chiamava Stalin. Il nome mi sembra-va conosciuto, lo avevo già sentito pronunciare in casa o tra le cataste di legna.

Coloravo con il naso quasi incollato alla pagina. Mia madre non mi sgridò per la posizione in cui stavo lavorando, come faceva altre volte, dicendomi che sarei diventato un guercio con

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gli occhiali. Era troppo impegnata a cucinare. La sera avremmo avuto ospiti. Mi sembrava abbastanza strana quella festa proprio nel bel mezzo della settimana.

— Chi era Stalin? chiesi a mia madre, senza staccare gli oc- chi dalla pagina.

— Il capo di uno Stato vicino, rispose, senza smettere di ta- gliare la cipolla che le inumidiva gli occhi.

I nanetti all’interno dell’apparecchio tedesco continuavano a parlare e a cantare con lo stesso tono. Saranno dispiaciuti per la morte del vicino, mi dissi, e presi a colorare un lupo acquattato vicino a dei funghi giganteschi. Il lupo lo colorai di nero e i funghi, invece, li feci rossi con dei puntini verdi.

— A vederli così, quei funghi devono essere molto velenosi, disse mamma sorridendo. Meglio che il lupo non li mangi!

— Il lupo è furbo, replicai, convincerà gli altri a mangiarli, lui fa solo finta.

Quando alla radio i nanetti avevano iniziato a comunicare il livello delle acque del Danubio in diverse lingue, mamma si ac-corse che non le bastavano lo zucchero e la cannella. Doveva uscire a fare la spesa, il che mi produceva una gioia esplosiva. Mi piaceva accompagnarla per negozi. Anche a mia madre pia- ceva. Le facevano sempre i complimenti per il ragazzino carino che era riuscita a tirare su. Il dottore Dumitru Loga lo conosce- vano tutti in quella piccola città. Erano in tanti ad avere bisogno di lui. Dopo i complimenti per il mio visino angelico, inevita- bilmente arrivava la domanda: come sta il dottore, è a lavoro? Dove diavolo vuoi che sia a quell’ora, se non a visitare pazienti e a scrivere ricette!?

Andammo al negozio giù in centro. C’era quasi tutto nella nostra cittadina. Mia madre mi aveva preso per mano. A volte accettavo, altre volte storcevo il naso. Ero grande, avevo quasi cinque anni, potevo anche camminare da solo.

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Dovevamo attraversare il parco. Non potei astenermi dal

raccogliere alcuni sassolini bianchi lungo il viale. Poi li lanciai, uno alla volta, nell’acqua verdastra di una piccola fontana che funzionava solo nei giorni festivi. Mi piacevano i cerchi che si formavano dopo che i sassolini colpivano il pelo dell’acqua. Mia madre mi esortò a finire in fretta. I preparativi per la sera erano pronti solo a metà. Il tono della sua voce era pacato, non sembrava infastidita. Restò accanto a me fino all’ultimo lancio. Anche a lei piaceva veder increspare il pelo dell’acqua. Non c’erano molte distrazioni nella nostra piccola città. Le feste a casa con gli amici, un matrimonio, un battesimo, un anniversa-rio, e un cinema con tanto di galleria e il tavolato che emanava odore di gasolio. A volte veniva il circo. Altre volte si orga-nizzava qualcosa alla Casa della Cultura. La domenica qualcu-no osava persino andare in chiesa.

Giunto sulla strada principale, dove a quell’ora non passava quasi nessuno, tutt’a un tratto mi misi a cantare. Mi venne così, non ho la più pallida idea del come e del perché. Mi capitava di canticchiare ogni tanto, mentre giocavo da solo. Proprio quel giorno, con un sole radioso, in pieno centro, il mio canto pro- ruppe aspro, impetuoso, rivoluzionario. Aggrottai persino le sopracciglia. Le parole fischiavano tra le labbra come sassolini nell’aria, facendole tremare.

Avanti Stalin, allegro e fiero! Con la zappa in spalla va per il cimitero…

Quasi urlavo, a ritmo di marcia. Tenevo le gambe dritte e colpivo il marciapiede con la suola delle scarpe. Biondo e con gli occhi celesti, sembravo un piccolo tedesco in marcia durante una parata.

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Avanti Stalin, allegro e fiero! Con la zappa in spalla va per il cimitero!!!

Alcuni passanti accennarono un sorriso. Io lo presi come un

segno d’incoraggiamento. Gonfiai il petto, per gridare più forte. Quei versi suonavano più che naturali nel contesto della giorna- ta. Ma da dove mi era uscita la parola allegro? Quali connessio- ni bizzarre si erano prodotte nella testolina di un bambino di nemmeno cinque anni? Perché “allegro”, dal momento che gli omini dentro la scatola della radio avevano parlato con un tono tanto grave e avevano suonato delle canzoni tristissime? Mam- ma mi prese dal colletto e mi spinse in un vicolo, facendomi un po’ male. La sua mano si posò con forza sulla mia nuca. Mia madre non mi picchiava mai, solo papà lo faceva. Per lo stupo- re, le parole mi si bloccarono in gola, trasformate in cristalli di ghiaccio.

— Taci, smettila di strillare come un forsennato. Non voglio più sentirti fiatare!!

Fu la mia prima creazione artistica, stroncata sul nascere. Censurata. Vietata proprio da mia madre. Si dispiacque subito per avermi dato un ceffone. Mi accarezzò la testa.

— È brutto urlare per strada in questo modo, in pieno gior- no, cercava di scusarsi mamma.

— Cantavo forte, non urlavo, risposi, e ricordo che mi si i- numidirono gli occhi, contro il mio volere.

— Non piangere…, mi pregò mamma. — Non piango… Mi prese per mano e uscimmo dal vicoletto. Andando verso

il negozio di alimentari, incontrammo diversi conoscenti. Con alcuni mamma si fermava a scambiare due parole, altri li salu- tava soltanto.

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Mentre facevamo la spesa, la negoziante provò a dialogare

un po’ con me. La mia bocca era serrata. Dalle mie labbra non uscì nemmeno un suono. Lei sorrideva. In realtà a me sembrava che sogghignasse, con le labbra tese fino alle orecchie. Mia ma- dre le spiegò il motivo per cui ero arrabbiato in quel momento. Risero entrambe.

— Ma qui posso cantare? domandai, all’improvviso. Mia madre non disse nulla. La signorina sogghignante la

precedette. — Ma certo, pulcino, dai, sentiamo la canzoncina… Gridai così forte da far tremare i barattoli sugli scaffali:

Avanti Stalin, allegro e fiero! Con la zappa in spalla va per il cimitero! Lalala la la!!

Nel negozio non c’era nessuno oltre a noi. La negoziante si

portò la mano alla bocca. Il ghigno le era sparito o forse si sfor- zava di nasconderlo. Nel suo sguardo ora si scorgeva un vivace luccichio. Ripetei i versi e chiusi lo spettacolo con una specie di canto di guerra, pestando i piedi a ritmo di marcia. Mia madre sembrava rassegnata. Sorvegliava la porta d’ingresso. Ma non entrò nessuno, finché non furono rotolate via dalla mia gola tut- te le parole. Invece di lodarmi, sia pure in maniera formale, così come si fa con i bambini per incoraggiarli e affinché in futuro non si sviluppi in loro nessuna frustrazione, la negoziante mi domandò, cinguettando:

— Dove hai imparato tu, Adrian, questa canzoncina? La guardai con attenzione e scoprii una vaga ombra di baffi

sotto il suo naso. — L’ho inventata giusto adesso, per strada, risposi con voce

fiera, provando a immaginare la barba sul viso della negoziante.