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XXVI Seminario Nazionale di Didattica della Matematica Comitato scientifico e organizzatore A. Pesci (Univ. di Pavia), O. Robutti (Univ. di Torino), F. Spagnolo (Univ. di Palermo) Interpretazione e didattica della matematica Una prospettiva ermeneutica relatore Giorgio T. Bagni Dipartimento di Matematica e Informatica Università di Udine Rimini, 18–21 febbraio 2009

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XXVI Seminario Nazionale di Didattica della Matematica

Comitato scientifico e organizzatore

A. Pesci (Univ. di Pavia), O. Robutti (Univ. di Torino), F. Spagnolo (Univ. di Palermo)

Interpretazione e didattica della matematica

Una prospettiva ermeneutica

relatore Giorgio T. Bagni

Dipartimento di Matematica e Informatica Università di Udine

Rimini, 18–21 febbraio 2009

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Indice Premessa e ringraziamenti

Parte I Ermeneutica, presupposizioni

I–1. Il circolo ermeneutico: storia e didattica I–2. Dall’epistemologia all’ermeneutica, tra incommensurabilità e interpretazione I–3. Esempio. Bombelli e i numeri complessi I–4. Esempio. Le serie numeriche, una sequenza di presupposizioni

Parte II Ragionamento diagrammatico

II–1. Peirce e il ragionamento diagrammatico II–2. Esempio. Rappresentazione di insiemi e diagrammi da interpretare II–3. Esempio. Numeri e immagini II–4. Esempio. Problemi di efficienza e il metodo dei tableaux

Parte III Categorie faneroscopiche

III–1. Ragionamento teorematico e corollariale III–2. Esempio. Geometria e triangoli di cartone III–3. Esempio. il “meccanismo” di Wittgenstein III–4. Strumenti iconicamente consistenti

Parte IV Assenza e presenza

IV–1. Dialettica assenza–presenza: la lezione di Hegel IV–2. Esempio. Torniamo a Bombelli IV–3. Esempio. Bacchette da calcolo e mezzi semiotici di oggettificazione IV–4. Verso una conclusione: la radice della catena semiosica Bibliografia

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Uno studente chiamato ad apprendere la matematica si trova di fronte a un ampio di-scorso scientifico formalizzato, a una pratica discorsiva che ancora non conosce e al-l’interno della quale deve penetrare, interpretando le procedure e i concetti espressi mediante segni specifici e convenzioni consolidate. Un sapere formatosi progressiva-mente nel tempo, sulla base di esigenze e motivazioni anche molto diverse e non sem-pre, oggi, immediatamente comprensibili. Pertanto lo studente che si appresta ad ap-prendere si muove, oggi, sul piano dell’ermeneutica; Francesco Speranza (1932–1998) afferma ciò esplicitamente, nell’ “Appello all’ermeneutica”, uno dei suoi ultimi scritti:

L’insegnamento–apprendimento si può interpretare in chiave ermeneutica: che cosa sarebbe altrimenti il passaggio dal savoir savant al savoir de l’élève?

Il riferimento all’ermeneutica è una scelta impegnativa, ad esempio basata sull’inter-pretazione attiva del segno che non può e non deve essere ridotta a un generico studio di esso. In generale, nota ancora Speranza, nella cultura dei giorni nostri

sono evidenti i motivi d’interpretazione nel pensiero scientifico; si tratta ora di esplici-tare questa frase, di rendere consapevoli le “operazioni ermeneutiche”.

È quanto cercheremo di fare.

Desidero ringraziare i numerosi colleghi e amici che mi hanno fornito, in questi ultimi anni, suggerimenti e spunti preziosi. In particolare, il primo ricordo va a Dick Rorty (1931–2007), uno dei massimi filosofi del nostro tempo. Non dimenticherò la sua pa-ziente cortesia e la sua eccezionale disponibilità. Sono inoltre debitore nei confronti di Paolo Boero dell’Università di Genova, Bruno D’Amore dell’Università di Bologna, Willibald Dörfler dell’Università di Klagenfurt (Austria), Jean–Philippe Drouhard del-l’Università di Nizza (Francia), Fulvia Furinghetti dell’Università di Genova, David Kirshner dell’Università della Louisiana (USA), Domingo Paola del Gruppo Ricerca Educazione Matematica di Genova, Luis Radford dell’Université Laurentienne di Su-dbury (Ontario, Canada) e Man–Keung Siu dell’Università di Hong Kong (Cina).

L’invito di Angela Pesci (Università di Pavia), Ornella Robutti (Università di Torino) e Filippo Spagnolo (Università di Palermo) al ruolo di relatore in questo XXVI Semina-rio Nazionale mi ha immensamente onorato. Li ringrazio di cuore.

I miei studenti dell’Università di Udine mi hanno regalato, quotidianamente, innume-revoli occasioni di riflessione.

Il ringraziamento più profondo va a mia moglie Luisa e alle nostre Chiara ed Elena. Senza la loro pazienza e il loro sorriso questo testo non sarebbe stato scritto.

Giorgio T. Bagni

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Parte I Ermeneutica, presupposizioni

I–1. Il circolo ermeneutico: storia e didattica Gianni Vattimo, che definisce l’ermeneutica «come quella filosofia che si sviluppa lun-go l’asse Heidegger–Gadamer» (Vattimo, 2002–a, p. 5), nell’individuare in essa un cli-ma diffuso con cui la cultura occidentale si sente chiamata «a fare i conti», afferma (Vattimo, 2002–a, p. 3):

Sono pensatori ermeneutici non solo Heidegger, Gadamer, Ricoeur, Pareyson, ma an-che Habermas e Apel, Rorty e Charles Taylor, Jacques Derrida ed Emmanuel Lévinas. Ciò che lega tutti questi autori non è una tesi comune, ma piuttosto quella che Wittgen-stein (un altro pensatore ermeneutico, nel senso vago a cui sto alludendo) chiamava una somiglianza di famiglia; o, ancora di meno, un’aria di famiglia, un’atmosfera comune.

Questa citazione si riferisce ad alcuni protagonisti della filosofia del XX secolo, ma la questione di cui andremo a occuparci, riassunta nel termine “circolo ermeneutico”, po-trebbe addirittura essere ravvisata già nel Fedro di Platone (come nota Giovanni Reale, in Introduzione a Gadamer, 2000, p. XII).

Pur senza pretendere di approfondire un quadro teorico completo e organico sul qua-le basare l’approccio ermeneutico, riprendiamo alcune considerazioni (espresse in Ba-gni, 2006–a) che ci consentiranno di mettere a fuoco qualche elemento interessante dal punto di vista didattico. Soffermiamoci innanzitutto a considerare la parola ermeneutica (Speranza, 1999), il cui significato è stato a lungo identificato con interpretazione. Quest’ultimo termine indica un campo di riflessione ampio e, per alcuni versi, vago: non sarebbe semplice accostare, ad esempio, l’accezione classica di ‛ερµηνεία (Platone, Repubblica 523b, Teeteto 209a, Ione 535a, Politico 260d, oppure Aristotele, Περί ‛ερµηνείας) e la celebre affermazione nietzscheana secondo la quale «non ci sono fatti, solo interpretazioni», (Nietzsche, 1975, § 7[60], pp. 299–300). Più precisamente, diremo che «l’ermeneutica è la dottrina del comprendere», come scrive Matthias Jung (2002, p. 7); «tuttavia chi voglia comprendere lo stesso comprendere farà bene a prestare atten-zione alla molteplicità dei fenomeni rispetto a cui c’è qualcosa da comprendere»: una considerazione che potremo tener presente anche occupandoci di didattica della mate-matica. E ricordiamo che Wilhelm Dilthey (1833–1911), nel proprio L’origine dell’er-meneutica, pubblicato nel 1900, osservava: «quel processo nel quale noi conosciamo un’interiorità sulla base dei segni che ci sono dati sensibilmente dall’esterno, noi lo chiamiamo comprendere» (Dilthey, 1986, p. 176). Dunque se non si sono segni da in-terpretare non c’è alcunché da comprendere (Jung, 2002, p. 77) e anche questo rilievo ci spingerà a occuparci, in molte parti di questo scritto, di semiotica.

L’interpretazione rappresenta un momento chiave della stessa storia della cultura umana: Luciano Canfora sottolinea come sia «una storia affascinante quella della libertà di pensiero attraverso il faticoso e contrastato dispiegarsi della libertà di critica sui testi che l’autorità e la tradizione hanno preservato» (Canfora, 2008, capitolo II). Ma l’in-terpretazione non si identifica con una (certamente essenziale) operazione filologica. In effetti tutti noi, continuamente, interpretiamo (Jung, 2002, p. 90), anche senza renderce-

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ne conto. Perfino la visione, che potrebbe pensarsi riducibile a una comprensione ele-mentare, immediata, alla semplice presa d’atto di una realtà “assoluta”, si basa su di un’essenziale fase interpretativa: Rudolf Arnheim (1904–2007), autore di Arte e perce-zione visiva (Arnheim, 2004), sostiene (giustamente) che il vedere è un atto creativo; neppure l’osservazione di una figura può essere considerata alla stregua della semplice ricezione di un “messaggio oggettivo”. In generale, quindi, «il rapporto umano con il mondo non ha, in primo luogo, carattere cognitivo–osservativo, ma piuttosto pratico–comprendente» (scrive Jung, 2002, p. 68).

Friedrich Schleiermacher (1768–1834) aveva indicato la presenza di un «circolo ap-parente, per il quale ogni particolare può essere compreso solo a partire dall’universale di cui è parte e viceversa» (Schleiermacher, 2000, p. 331). Scrive Schleiermacher (in Hermeneutik, 144/455, cit. in Jung, 2002, p. 59):

Partendo dall’inizio di un’opera e progredendo a poco a poco, la comprensione gradua-le di ogni singolo elemento e delle parti della totalità che a partire da essa si organizza-no è sempre soltanto qualcosa di provvisorio. […] Solo che quanto più avanziamo tanto più tutto ciò che precede viene anche illuminato da ciò che segue.

Dunque, osserva Jung (2002, p. 59), «a partire dal circolo chiuso si giunge a una spirale aperta, costituita da ripetuti cammini interpretativi che devono essere sempre ritenuti passibili di una nuova revisione».

In tempi più vicini a noi, diversi autori hanno dovuto fare i conti con tale situazione: è ad esempio significativo rilevare che i pilastri dell’impostazione di Gottlob Frege (1848–1925) sono il principio di composizionalità (in base al quale il significato di una frase viene riferito ai significati dei suoi componenti e alle regole di composizione: Fre-ge, 1992, p. 36) e il principio del contesto. Pur senza con ciò avventurarci nell’analisi della posizione fregeana, non possiamo non rilevare che tali principi sembrano orientati in due direzioni opposte: da un lato il significato è ricondotto da un insieme ai singoli elementi di esso; dall’altro si afferma che ciascun elemento deve essere osservato e in-terpretato all’interno di un contesto (Habermas, 2001, p. 74). In generale, con riferimen-to ad esempio alle espressioni linguistiche (ma senza limitare la nostra considerazione a linguaggi verbali), si pone un problema: come si può ricondurre il significato di una fra-se ai significati dei suoi singoli componenti se il significato di ogni termine dipende dall’intero linguaggio?

La questione alla quale ora facciamo cenno viene ripresa in termini decisivi da Mar-tin Heidegger (1889–1976) che determina la «svolta epocale» (Jung, 2002, p. 85) grazie alla quale la comprensione non viene più a essere orientata sul solo modello della spie-gazione teoretica dei testi, bensì sullo stesso rapporto che gli esseri umani hanno con il mondo. Heidegger riconosce che «l’interpretazione deve sempre muoversi nel compreso e nutrirsi di esso [e] le regole più elementari della logica ci insegnano che il circolo è circulus vitiosus»; tuttavia se si identifica nel circolo ermeneutico «un circolo vizioso e se si mira ad evitarlo o semplicemente lo si “sente” come un’irrimediabile imperfezio-ne, si fraintende la comprensione da capo a fondo» (Heidegger, 2005, p. 188). Una si-mile posizione sarebbe profondamente sbagliata e fuorviante (come vedremo, anche dal punto di vista didattico): «l’importante non sta nell’uscir fuori dal circolo, ma nello starvi dentro nella maniera giusta» (Heidegger, 2005, p. 189). Possiamo pertanto con-cludere, sempre seguendo Heidegger (2005, p. 189), che

il circolo non deve essere degradato a circolo vizioso e neppure ritenuto un inconve-niente ineliminabile. In esso si nasconde una possibilità positiva del conoscere più ori-ginario, possibilità che è affermata in modo genuino solo se l’interpretazione ha com-preso che il suo compito primo, durevole e ultimo è quello di non lasciarsi mai imporre

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pre–disponibilità, pre–veggenza e pre–cognizione dal caso o dalle opinioni comuni, ma di farle emergere dalle cose stesse, garantendosi così la scientificità del proprio tema.

Naturalmente non intendiamo fare riferimento all’intera filosofia heideggeriana che va ben oltre queste considerazioni sul circolo ermeneutico. Ma le pur semplici osservazioni citate sono importanti e per molti versi capovolgono una posizione talvolta implicita-mente assunta secondo la quale la presenza di un pre–giudizio dovrebbe essere conside-rata negativamente, alla stregua di un indice di scarsa disponibilità a una valutazione se-rena. Proprio i “pre–concetti”, invece, le “pre–supposizioni” o i “pre–giudizi” sono, per Reale (Introduzione a: Gadamer, 2000, p. XIV),

ciò che mette in moto il circolo; e la scientificità della ricerca si realizza nella misura in cui i pre–concetti vengono via via rinnovati e sostituiti nel corso del lavoro di interpre-tazione, in modo sempre più adeguato, e sempre più in sintonia con l’oggetto che viene indagato.

Inoltre è immediato rilevare che «nessuno, nelle proprie scelte, parte mai da zero», e ogni scelta presuppone «un insieme di idee direttive, che vengono dall’appartenenza a una comunità concreta, storica, determinata» (Vattimo, 2002–b, p. 91): con Gadamer (2000, p. 573) notiamo che «i pregiudizi dell’individuo sono costitutivi della sua realtà storica più di quanto non lo siano i suoi giudizi».

Non cercheremo di collocare queste riflessioni nella lunga storia della didattica della matematica (per la quale indichiamo i recenti studi: Furinghetti & Somaglia, 2006; Fu-ringhetti, 2007; Radford, Furinghetti & Katz, 2007). Una delle considerazioni sulla base delle quali svilupperemo la nostra riflessione è la seguente: chi si appresta a comprende-re ha sempre delle presupposizioni (e, come vedremo, questo termine deve essere consi-derato «felicemente generico»: Eco, 2004, p. 24). L’importante è che le presupposizioni siano in qualche modo giustificate, nonché passibili di un’eventuale revisione. Come nota Gadamer (2000, p. 555),

il comprendere perviene alla sua possibilità autentica solo se le presupposizioni da cui parte non sono arbitrarie. C’è dunque un senso positivo nel dire che l’interprete non ac-cede al testo semplicemente rimanendo nella cornice delle presupposizioni già presenti in lui, ma piuttosto, nel rapporto col testo, mette alla prova la legittimità, cioè l’origine e la validità, di tali presupposizioni.

Il rapporto di chi si accinge a interpretare un testo (ma ciò deve essere inteso in senso ampio: parleremo ad esempio di “testo” intendendo con ciò un contenuto espresso in un linguaggio) è influenzato e per molti versi determinato da alcune presupposizioni moti-vate, le quali si evolvono dinamicamente, si mettono alla prova ed eventualmente si cor-reggono con il progredire dell’atto interpretativo. I–2. Dall’epistemologia all’ermeneutica,

tra incommensurabilità e interpretazione Com’è noto, Thomas Kuhn (1922–1996) sostiene che la scienza non progredisce gra-dualmente verso la “verità” bensì è talvolta soggetta a rivoluzioni (Kuhn, 1970). Un pa-radigma, per Kuhn, è l’insieme delle teorie, delle leggi e degli strumenti che complessi-vamente definiscono una tradizione di ricerca, nell’ambito della quale le teorie stesse sono accettate universalmente (e proprio la differenza tra scienza e pseudoscienza ver-rebbe a essere riconducibile all’esistenza o alla mancanza di un paradigma). Kuhn chiama scienza normale quella che si sviluppa con riferimento ai paradigmi accettati in un periodo storico considerato; la scienza “anormale” porta invece alla revisione radi-

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cale di tali paradigmi (Gillies & Giorello, 2005, pp. 85–86 e 281–300). Il criterio con cui un paradigma risulta vincitore sugli altri consiste nella sua forza persuasiva e quindi nel grado di consenso ottenuto all’interno della comunità scientifica.

L’importanza dell’impostazione di Kuhn sopra appena schizzata appare evidente quando si faccia riferimento alle scienze sperimentali, quali ad esempio la fisica, la chimica, la biologia: senza dubbio lo sviluppo storico di una scienza sperimentale è sta-to spesso caratterizzato dall’evoluzione di teorie di portata generale, basate su paradigmi diversi (con conseguenti problemi anche sul piano del linguaggio: Grosholz, 2000, p. 82). Ma che dire con riferimento alla matematica? Giusti (1999, p. 35n) scrive:

Rispetto alla fisica, che costituisce il più frequente banco di prova delle teorie di Kuhn, la matematica ha caratteristiche peculiari: le rivoluzioni in fisica – ma lo stesso vale per le scienze naturali – avvengono per lo scontro di teorie alternative, ma concorrenti nella descrizione di una realtà che si vuole sempre la stessa; al contrario, le novità in mate-matica riguardano quasi sempre la generazione di nuovi oggetti e di nuove realtà, solo raramente confrontabili con le teorie esistenti.

Pur senza negare alcune delle particolarità ora rilevate, saremmo prudenti a escludere la matematica dal novero delle scienze per le quali l’approccio teorico di Kuhn ha una va-lidità. Lo stesso Giusti (1999, pp. 35–36n) riconosce che la geometria cartesiana si è configurata come un vero e proprio cambiamento di paradigma («qui non solo assistia-mo alla nascita di nuovi oggetti, le curve–equazione, completi di tutte le loro caratteri-stiche costitutive, allo stesso tempo soluzioni di problemi, strumenti d’indagine e ogget-ti di studio; ma essi vengono a sovrapporsi a oggetti preesistenti, le curve, delle quali cambiano radicalmente la natura»: Giusti, 1999, p. 36; anche per quanto riguarda le scienze sperimentali, ad esempio, alcune caratteristiche della rivoluzione che ha portato all’introduzione della fisica quantistica potrebbero essere utilmente discusse).

Ma quali motivazioni, quali “anomalie” hanno indotto i singoli scienziati a proporre (e quindi la comunità scientifica ad accettare) le variazioni alle quali abbiamo fatto cen-no? Potremmo dire che l’unico motivo che determina un’obbligatoria modifica di una teoria è il rilevamento di un disaccordo con i “fatti”: «con una frase un po’ paradossale potremmo dire che la normale crescita della scienza segue la logica dello “sfruttamento del successo”, mentre le grandi svolte della scienza obbediscono alla logica dello “sfrut-tamento dell’insuccesso”» (De Giorgi, 1996, p. 124).

La necessità di una verifica sperimentale si confermerebbe dunque fondamentale, anche se Karl Popper (1902–1994) sottolinea con forza l’asimmetria tra verificazione e falsificazione di una teoria scientifica (infatti, per quanto numerose esse possano essere, le verifiche sperimentali di una teoria non potranno mai provarla definitivamente, men-tre è sufficiente un solo controesempio per determinare una confutazione: Popper, 1970 e 1972). Da questo punto di vista saremmo indotti a tornare verso la posizione espressa in precedenza: la matematica si differenzierebbe in termini sostanziali dalle scienze co-me la fisica o la chimica. Insistiamo, tuttavia, nell’affermare che la concezione che con-trappone le scienze sperimentali, ancorate alla realtà, alla speculazione matematica, tipi-camente (esclusivamente?) astratta, richiede molta prudenza, per le ragioni che andremo a discutere.

Innanzitutto è necessario occuparsi del problema centrale riguardante l’accordo tra la teoria e i “fatti”: esso, come nota Paul Feyerabend (1924–1994), presuppone «che e-sistano fatti e siano disponibili indipendentemente dalla considerazione o meno di al-ternative alla teoria che dev’essere verificata» (Feyerabend, 2003, p. 32). Questa con-statazione ci porta a occuparci di una questione fondamentale: se è vero «che molti fatti diventano disponibili solo con l’aiuto di teorie alternative, allora il rifiuto di considerare queste ultime avrà come conseguenza l’eliminazione anche di fatti suscettibili di confu-

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tare la teoria accettata» (Feyerabend, 2003, p. 36). Si noti che questi rilievi hanno una conseguenza importante: avrebbe senso, con riferimento a quanto ora notato, fare rife-rimento ai “fatti” in termini assoluti? È cioè sempre corretto basare le nostre revisioni teoriche (l’intera nostra riflessione) su di un’ampia disponibilità di “dati” inconfutabili? (Granger, 1996, p. 43). William James (1842–1910) osserva (1994, pp. 144–145):

Ci lanciamo in un campo di nuove esperienze armati delle credenze che ci vengono dai nostri avi e dalle nostre esperienze passate; queste fanno sì che notiamo una cosa piut-tosto che un’altra. Ciò che notiamo determina quello che facciamo. Quello che faccia-mo determina di nuovo ciò che esperiamo. Così si procede dall’una all’altra cosa: an-che se persiste ostinatamente il fatto che c’è un flusso sensibile, che cosa sia vero di questo flusso sembra essere ampiamente […] una nostra creazione.

In generale, la considerazione della fase di osservazione come momento distinto e indi-pendente da quella di elaborazione teorica, come la fase primaria e fondante, diventa una scelta metodologica tutt’altro che obbligatoria: «non ci sono due atti distinti – l’osservazione di un fenomeno e la sua espressione con l’aiuto di una sua formulazione verbale appropriata – ma soltanto uno» (Feyerabend, 2003, p. 60).

Abbiamo dunque rilevato che quella di considerare i “fatti” alla stregua di dati asso-lutamente oggettivi è una posizione azzardata. Tutti i “fatti” devono essere interpretati: e nel momento stesso in cui esprimiamo tali “fatti” mediante un linguaggio (si può par-lare, in questo caso, sia del linguaggio comune che di un linguaggio matematico) li in-terpretiamo. Constatazioni come le precedenti ci suggeriranno alcune riflessioni anche in ambito didattico: ad esempio, contribuiranno ad allontanarci da una concezione di una matematica assolutamente “oggettiva” da tramandare, dunque da insegnare e da ap-prendere in termini rigidi e immutabili.

Quanto abbiamo notato riguardo alla riflessione kuhniana ci induce ad introdurre al-cune idee di Richard Rorty che si collegano a molte delle possibilità didattiche che an-dremo a discutere (Bagni, 2008). È stato sopra ricordato che Kuhn chiama “scienza normale” quella che si sviluppa con riferimento ai paradigmi accettati in un periodo; la scienza “anormale” porta invece alla revisione di tali paradigmi. Seguendo Rorty (2004, p. 35), diremo che un «discorso normale (una generalizzazione della nozione kuhniana di “scienza normale”) è un qualsiasi discorso (scientifico, politico, teologico o altro) che incorpori criteri condivisi per raggiungere l’accordo; è anormale qualsiasi discorso che manchi di tali criteri»; in questa prospettiva, «il tentativo (che ha caratterizzato la filoso-fia tradizionale) di spiegare la “razionalità” e l’“oggettività” in termini di condizioni di rappresentazione accurata è uno sforzo per eternizzare il discorso normale del giorno». Notiamo sin d’ora che questo tentativo può non apparire estraneo ad alcune posizioni assunte (magari implicitamente) in didattica della matematica.

Il ruolo dell’accordo e dei criteri sulla base dei quali esso può essere raggiunto sarà un punto centrale della nostra riflessione. Per chiarire la situazione, inizieremo col dire che (Rorty, 2004, p. 641)

il discorso normale è quello che viene condotto all’interno di un insieme concordato di convenzioni, su quel che vale come contributo rilevante, su cosa sia la risposta a una domanda, su che cosa significhi disporre di un buon argomento per quella risposta o di una buona critica; […] un discorso anormale è quel che ha luogo quando qualcuno en-tra nel discorso ignorando queste convenzioni o avendole messe da parte. ’Eπιστήµη è il prodotto del discorso normale: quel tipo di asserzione sulla cui verità possono conve-nire tutti i partecipanti considerati “razionali” dagli altri partecipanti. Il prodotto del di-scorso anormale può essere qualsiasi cosa, dal nonsense alla rivoluzione scientifica.

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La distinzione ora evidenziata si collega a quella che Rorty introduce tra epistemologia ed ermeneutica (Marconi & Vattimo, Nota introduttiva a Rorty, 2004, p. XXVIII): secon-do il filosofo americano l’ermeneutica, qui contrapposta alla tradizionale epistemologia, è al contempo una posizione filosofica mirante a sostituire la filosofia fondazionalista e un “esercizio di pensiero”. In questo senso essa non ha come scopo quello di sviluppare la conoscenza nel senso della scienza “normale” (alla ricerca di nuove verità nell’ambito dei paradigmi vigenti), bensì si colloca in una posizione di dialogo con i discorsi “a-normali”, riferiti a paradigmi alternativi a quelli accettati, operando con dei discorsi “in-commensurabili con il discorso corrente”.

Rorty (2004, p. 633) osserva dunque che «l’epistemologia giunge a supporre che tutti i contributi a un dato discorso siano commensurabili», dove «“commensurabile” significa suscettibile di essere sottoposto a un insieme di regole in grado di indicarci come un accordo razionale può essere raggiunto [e] l’importante è che ci sarebbe in tal modo accordo su ciò che renderebbe possibile un accordo». Una riflessione epistemolo-gica presupporrebbe insomma una situazione di commensurabilità; ma in alcuni casi la presenza di uno stesso quadro di riferimento culturale risulta difficile o addirittura im-proponibile: ciò non significa però che si parlino due lingue irrimediabilmente diverse e per questo incomprensibili. Tra due contributi incommensurabili allo stesso discorso non è possibile impostare un confronto sul piano tradizionale dell’epistemologia? Ebbe-ne, subentra allora la possibilità di ricorrere all’ermeneutica, che (Rorty, 2004, p. 631)

non è il nome di una disciplina, né un metodo per conseguire il tipo di risultati che l’epistemologia non ha raggiunto, e nemmeno un programma di ricerca. Al contrario, nell’ermeneutica si esprime la speranza che lo spazio culturale lasciato dall’abbandono dell’epistemologia non venga affatto riempito – che la nostra cultura diventi tale che in essa non si avverta più l’esigenza di cogenze definitive e ultime.

Mentre un confronto epistemologico tra discorsi richiede la presenza di un insieme di concezioni comuni ai parlanti ampio e impegnativo (riguardante almeno la nozione di razionalità e le modalità di raggiungere un accordo razionale: Rorty, 2004, p. 637),

l’ermeneutica coglie le relazioni tra i vari discorsi, come tra le linee di una possibile conversazione, una conversazione che non presuppone matrici disciplinari comuni ai parlanti, ma fin che dura mantiene la speranza dell’accordo. Questa speranza non punta alla scoperta di un terreno comune esistente in precedenza, ma semplicemente al-l’accordo, o almeno a un disaccordo stimolante e fruttuoso.

Il confronto tra un approccio epistemologico e un approccio ermeneutico costituirà uno dei nuclei della nostra riflessione. Potremmo infatti dire che la nostra proposta sarà sin-tetizzabile in un passaggio dall’epistemologia dell’apprendimento all’ermeneutica del-l’apprendimento.

Concludiamo questa sezione con un esempio. Il concetto di limite è certamente uno dei grandi protagonisti della matematica e del-

la sua didattica. Se escludiamo alcune intuizioni dell’antico mondo ellenico, nella tradi-zione occidentale la nozione di limite è introdotta relativamente tardi: nell’Arithmetica infinitorum (1655) di John Wallis (1616–1703) nell’Elementum tertium della Geome-triae speciosae elementa (1659) di Pietro Mengoli (1635–1686) e nella Vera circuli et hyperbolae quadratura (1667) di James Gregory (1638–1675) troviamo alcuni riferi-menti al limite di una successione (Bagni, 2005–a). Una definizione di limite in senso moderno è spesso fatta risalire ad Augustin–Louis Cauchy (1789–1857), autore del fon-damentale Cours d’analyse algebrique (1821) e, successivamente, all’opera di Karl Weierstrass (1815–1897). Tuttavia cercando nella storia (e, non lo si dimentichi, nel-

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l’altrettanto ricca geografia) della matematica si trovano alcuni esempi importanti che, se opportunamente interpretati, possono portare alla considerazione di un limite.

L’indiano Bhaskara (1114–1185), detto anche Bhaskara II e Bhaskara Achārya (“Bhaskara il maestro”), si occupò del valore del kha–hara, una frazione avente deno-minatore nullo. Egli scrisse nella propria opera Bijaganita:

Una quantità divisa per zero diventa una frazione il cui denominatore è zero [kha–hara]. Questa frazione viene denominata quantità infinita. In questa quantità avente ze-ro come divisore non c’è alcuna alterazione, sebbene molti possano essere aggiunti o tolti, così come nessun cambiamento può aver luogo nella divinità immutabile quando i mondi vengono creati o distrutti, anche se numerosi ordini di esseri vengono assorbiti o creati

(cit. in Datta & Singh, 1935, p. 243). Ebbene, come possiamo oggi cercare di esprimere tali considerazioni mediante una scrittura moderna? Una prima ipotesi potrebbe essere:

01

001

00515

01

=+

=⋅+

=+

espressione che aggiungerebbe “molti” (ad esempio “5”, ma ovviamente altri numeri possono essere considerati) a “una frazione il cui denominatore è zero [kha–hara]” che però dobbiamo classificare “matematicamente scorretta”. Essa, nonostante ciò, esprime-rebbe in termini non del tutto banali, con i simboli (e i procedimenti) oggi in uso, la vi-sione di Bhaskara.

Prima di archiviare con il giusto sdegno la scrittura così introdotta, occupiamoci an-cora un po’ del suo significato. Cerchiamo, insomma, di interpretarla: evidentemente essa “estende” la procedura usuale nota a tutti gli studenti per l’addizione di frazioni che vediamo applicata ad esempio a

211

2101

22515

21

=+

=⋅+

=+

alla (gravemente atipica!) situazione precedente. Ovviamente tale estensione non è ac-cettabile, in quanto “1/0” non è una frazione; anzi, nella nostra moderna matematica oc-cidentale, non è un oggetto matematico di alcun tipo.

Per ottenere una scrittura corretta da presentare ai nostri allievi sarebbe opportuno ricorrere al concetto di limite e dunque sostituire

xx

1lim0→

alla “frazione il cui denominatore è zero” (kha–hara). In tal caso avremmo:

xx xx

1lim51lim00 →→

=+

Ma tutto ciò è significativamente diverso da quanto sopra scritto, a parte le palesi diffe-renze legate alla sua “correttezza”: quest’ultima scrittura non fa alcun riferimento alle “regole” per l’addizione di frazioni. Si viene dunque a perdere quella sorta di analogia che, pur essendo in generale potenzialmente rischiosa e necessitando quindi di un atten-to controllo da parte dell’insegnante (e degli studenti), può forse essere discussa anche dal punto di vista didattico:

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corretto

scorretto (per il “punto di partenza”)

Potremmo a questo punto citare l’iconicità, nell’approccio peirceano, delle espressioni algebriche (Peirce, 2003, § 2.279, MS 787; riprenderemo tale questione nelle sezioni se-guenti); ma ci allontaneremmo troppo dalla questione ora in esame. Un aspetto da met-tere subito a fuoco è invece il seguente: è “lecito” (e se sì, in che senso, con quali accor-gimenti) interpretare Bhaskara modernamente, alla luce di Cauchy e di Weierstrass?

Non sembra plausibile ipotizzare un consapevole tentativo di Bhaskara di introdurre l’ “infinito” nel sistema numerico (ciò comporterebbe insormontabili problemi, in quan-to 0 moltiplicato per “infinito” verrebbe uguagliato a ogni numero n, implicando così un’imbarazzante… uguaglianza di tutti i numeri). Il punto cruciale è che non sarebbe possibile far riferimento agli stessi “principi generali” nell’accostare l’argomentazione di un indiano che descrive le caratteristiche del reciproco di 0 pensando all’immensità della divinità alle considerazioni di un moderno matematico occidentale che introduce il concetto di limite con la definizione “dell’ε–δ” o topologicamente. Il matematico occi-dentale comprenderebbe, con ogni probabilità, l’argomentazione dell’indiano (e forse viceversa), la considererebbe curiosa, magari divertente (Bagni, 2006–a). Tra i due per-sonaggi, dunque, non sarebbe inibito il dialogo, la conversazione; tuttavia non potrebbe essere raggiunto un accordo razionale per diversi motivi: innanzitutto per la mancanza di principi generali “matematici” di riferimento condivisi (Feyerabend, 2003); più a monte, per la mancanza di una comune concezione di “razionalità” (per un approfondi-mento sulla razionalità e sulle sue diverse radici: Habermas, 2001, che pur sviluppando-si nell’ambito di un diverso quadro teorico fornisce spunti di sicuro valore anche da un punto di vista didattico). I–3. Esempio. Bombelli e i numeri complessi L’introduzione dei numeri immaginari, nella scuola secondaria può collegarsi ad alcune difficoltà. All’allievo, già a lungo bersagliato da regole che impediscono di estrarre la radice quadrata di un numero negativo, viene improvvisamente chiesto di accettare la presenza, nel proprio mondo matematico, di un “oggetto” nuovo, il preoccupante sim-bolo “ −1” al quale viene assegnata la denominazione i (ci baseremo sui dati della ri-cerca didattica sperimentale illustrata in Bagni, 1997).

Questa fase risulta delicata e può essere fonte di incoerenze nel pensiero degli stu-denti e il problema della corretta e consapevole gestione di un’incoerenza è tutt’altro che semplice: non è ad esempio sufficiente il semplice accostamento di due affermazio-ni contrastanti per sviluppare nell’allievo la consapevolezza di una situazione incoerente e la necessità di un adeguato ripensamento (Tirosh, 1990). Talvolta gli studenti non per-cepiscono come contraddittorie (e come problematiche) situazioni in contrasto tra di lo-ro e possono, in particolari casi, valutare lecite alcune posizioni in precedenza conside-rate non accettabili. Come vedremo, la presentazione degli stessi enti matematici in con-testi diversi, con differenti funzioni, può essere diversamente valutata dagli allievi.

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La storia della matematica può avere un ruolo didattico molto importante (Furin-ghetti & Radford, 2002; Furinghetti, 2005). La risoluzione delle equazioni di terzo (e di quarto) grado è ricondotta all’opera di due studiosi italiani del Rinascimento, Girolamo Cardano (1501–1576), autore di Ars Magna (1545), e Nicolò Tartaglia (1500–1557), che scrisse Quesiti et invenzioni diverse (1546). La contesa tra Cardano e Tartaglia per la priorità dell’introduzione del procedimento risolutivo delle equazioni di terzo grado è rimasta celebre (Maracchia, 2005); osserviamo però che il primo a trovare una tecnica risolutiva per tali equazioni fu probabilmente (nel 1515) il bolognese Scipione del Ferro (1465–1526), il quale morì senza rendere pubblico il proprio risultato (Bottazzini, 1990, p. 3). Possiamo dire tuttavia che Cardano, del Ferro e Tartaglia contribuirono in modi diversi, ma certamente significativi, alla messa a punto di tale tecnica risolutiva.

Il procedimento per trovare una radice dell’equazione di terzo grado si trova sinte-tizzato nella celebre “poesia algebrica” di Tartaglia:

Quando che ’l cubo con le cose appresso Se agguaglia à qualche numero discreto Trovan dui altri differenti in esso.

Da poi terrai questo per consueto Che ’l lor produtto sempre sia uguale Al terzo cubo delle cose neto,

El residuo poi suo generale Delli lor lati cubi ben sottratti Varrà la tua cosa principale

x3+px x3+px = q q = u−v

uv = (p/3)3

x = u v3 3− Viene qui descritta la soluzione dell’equazione di terzo grado

x3+px = q

in cui “’l cubo con le cose appresso / se agguaglia à qualche numero discreto” (notiamo che l’esempio che andremo a esaminare, tratto dall’Algebra di Bombelli, è leggermente diverso, del tipo x3 = px+q; ma l’espressione “ben sottratti” usata da Tartaglia può indi-care la necessità di operare la sottrazione tenendo conto dei segni dei termini in gioco in modo corretto: si vedano le note di Umberto Forti in Bombelli, 1966, p. XIX).

Per risolvere tale equazione si descrive un procedimento che porta alla soluzione se-guente, per il caso esaminato da Tartaglia:

x = 3

32

3

32

322322⎟⎠⎞

⎜⎝⎛+⎟

⎠⎞

⎜⎝⎛−+⎟

⎠⎞

⎜⎝⎛+⎟

⎠⎞

⎜⎝⎛+

pqqpqq

Anticipiamo che per l’equazione x3 = px+q, che come vedremo sarà trattata da Bombel-li, la soluzione sarà:

x = 3

32

3

32

322322⎟⎠⎞

⎜⎝⎛−⎟

⎠⎞

⎜⎝⎛−+⎟

⎠⎞

⎜⎝⎛−⎟

⎠⎞

⎜⎝⎛+

pqqpqq

(tenendo conto, come osservato, dei segni dei coefficienti dei termini di primo grado). Rafael Bombelli (1526–1572) è uno dei protagonisti della storia dell’algebra. Il tito-

lo completo del suo capolavoro è Algebra, divisa in tre libri, con la quale ciascuno da sé potrà venire in perfetta cognitione della teoria dell’Aritmetica, trattato pubblicato in due edizioni (pressoché identiche) nel 1572 e nel 1579 (Bombelli, 1966; Loria, 1929–

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1933, pp. 316–317). Nella figura seguente riportiamo la pagina (p. 169) dell’edizione originale dell’Algebra in cui compaiono le regole moltiplicative per i e per –i: Bombelli indicava i con la scrittura pdm, “più di meno”, –i con mdm, “meno di meno”, 1 con più e –1 con meno. Dunque la quarta riga dal basso si legge, modernamente:

i×i = –1

Per quanto riguarda il nostro studio, importante è la presenza, nell’Algebra di Bombelli, di equazioni di terzo grado che, se risolte con il procedimento di Cardano, del Ferro e Tartaglia, portano a radicali con quantità non reali (ci riferiremo a Bombelli, ma anche Cardano aveva preso in considerazione situazioni di questo tipo). Ad esempio, la risolu-zione dell’equazione (che troviamo in Bombelli) modernamente espressa nella forma:

x3 = 15x+4

coinvolge la radice quadrata di (q/2)²–(p/3)³ = –121 (si ricordino le precedenti osserva-zioni sui segni) e si conclude con la somma di radicali doppi con radicando non reale:

x = 2 11 2 113 3+ + −i i

Si prova, sviluppando i cubi dei binomi, che è possibile scrivere:

2+11i = (2+i)3 e 2–11i = (2–i)3

La soluzione (reale, ovvero complessa con parte immaginaria nulla) dell’equazione pro-posta è (Maracchia, 1979, p. 41):

x = (2+i) + (2−i) = 4

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Questo procedimento non si svolge interamente nell’ambito dei numeri reali: il risultato ottenuto, tuttavia, è reale, come reali sono tutti i coefficienti dell’equazione data. Una verifica diretta della soluzione x = 4 nell’equazione porta all’identità 43 = 15·4+4 ed è dunque possibile utilizzando soltanto numeri reali.

Nell’immagine seguente riportiamo, a destra, la scrittura originale della risoluzione dell’equazione sopra citata tratta dalla pagina 294 dell’Algebra di Bombelli:

x3 = 15x+4 [x3 = px+q]

(4/2)²–(15/3)³ = –121 [(q/2)²–(p/3)³ = –121]

x = 2 11 2 113 3+ + −i i

x = (2+i) + (2–i) = 4

Riportiamo inoltre le “costruzioni in linee” (sia tridimensionale che bidimensionale) che lo stesso Bombelli fornisce alle pagine 296 e 298 del proprio trattato per confermare la validità del procedimento seguito (per i dettagli: Bombelli, 1966).

Diversa sarebbe evidentemente la situazione dell’equazione:

x2 = –1 da cui: x = ±i

Il ruolo degli immaginari i e –i, in quest’ultimo caso, appare senza dubbio rilevante: il risultato stesso dell’equazione (a coefficienti reali) è non reale e la sua accettazione, ad

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esempio dopo una verifica diretta, richiede esplicitamente la considerazione degli im-maginari.

La risoluzione di un’equazione di terzo grado come quella ricordata può contribuire a far sì che gli allievi accettino la presenza dei numeri immaginari? Una recente ricerca è stata dedicata alla questione e si è svolta in due fasi (Bagni, 1997 e 2000–a):

• nella prima fase è stato esaminato il comportamento di 97 studenti di III (16–17 anni) e di IV liceo scientifico (17–18 anni). In tutte le classi, al momento del test, agli allievi erano state proposti i procedimenti risolutivi di equazioni di se-condo grado e di equazioni trinomie riconducibili a equazioni di secondo grado mediante opportune posizioni (del tipo xn = t); ma non erano stati introdotti i numeri immaginari. A questi studenti sono state sottoposte due schede, A e B. Nella scheda A era brevemente descritta la risoluzione di:

x2+1 = 0 ⇒ x = ± −1

Soltanto il 2% del campione considerato ha affermato di accettare la risoluzione (il 92% ha affermato di non accettarla; incerto il 6%). Immediatamente dopo, agli allievi è stata consegnata la scheda B, in cui era de-scritta (con lo svolgimento di alcuni passaggi: Bagni, 1997) la risoluzione di:

x3−15x–4 = 0 ⇒ x = 33 11121112 −−+−+ ⇒ ⇒ x = (2+ 1− ) + (2− −1) = 4

È stata accettata dal 54% (il 35% ha affermato di non accettarla; incerto l’11%). Notiamo sin d’ora che la considerazione delle quantità immaginarie nei passaggi del procedimento risolutivo di un’equazione (non nel risultato) è spesso accetta-ta dagli allievi. La considerazione riservata al risultato è diversa da quella riser-vata ai passaggi intermedi del procedimento: il contratto didattico, ad esempio, assegna notevole importanza alla determinazione dell’esatto risultato finale, e ta-le aspetto sembra far sì che nella stessa espressione del risultato (la scrittura del-la soluzione dell’equazione) sia assai pesante l’influenza delle “regole” prece-dentemente fissate (nella situazione in esame, la tradizionale proibizione di e-strarre la radice quadrata di un numero negativo). Nei passaggi intermedi, inve-ce, l’azione di regole e proibizioni appare meno coercitiva e dunque una parte degli allievi si sente autorizzata a considerare non del tutto illecita la presenza di espressioni numeriche insolite e “rischiose”, dopo aver controllato, naturalmen-te, la correttezza del risultato finale (Bagni, 1997).

• La seconda fase della ricerca si è avvalsa dei risultati di un test proposto a 73 studenti di III (16–17 anni) e di IV Liceo scientifico (17–18 anni). Per quanto ri-guarda il programma svolto, essi erano nelle stesse condizioni in cui si trovava-no gli studenti coinvolti nella ricerca precedentemente citata. A ciascun allievo sono state proposte le schede utilizzate nella prima fase della ricerca, ma in ordine inverso: prima la scheda B e poi la scheda A. Le risposte sono state suddivise nelle seguenti categorie:

Prima scheda esaminata (B, relativa al terzo grado)

Tipologia di risposte Allievi Percentuale

“Accettabile” 30 41% “Non accettabile” 18 25% Incerti 25 34%

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Seconda scheda esaminata (A, relativa al secondo grado)

Tipologia di risposte Allievi Percentuale

“Accettabile” 13 18% “Non accettabile” 48 66% Incerti 12 16%

Cerchiamo di interpretare i risultati ottenuti. I dati relativi alla scheda B sono analoghi a quelli ottenuti con riferimento alla stessa scheda B sottoposta come secondo momento nella ricerca precedente (in questa nuova fase la tendenza appare meno netta: numerosi, ad esempio, sono gli incerti). Questo ci porta a notare che l’esplicita considerazione di un’equazione di secondo grado (x2+1 = 0 ⇒ x = ± −1) prima di un’equazione di terzo grado non ha influenzato in modo sensibile le idee degli allievi a proposito del possibile impiego di −1: del resto negli anni precedenti gli allievi si erano spesso trovati di fronte a situazioni analoghe; e in tali casi (dunque in presenza di radici quadrate con ra-dicando negativo) la risoluzione dell’equazione veniva di norma interrotta.

Dai risultati della scheda A appare che una parte di allievi (il 18% del totale) ha ac-cettato la presenza di −1 nell’equazione di secondo grado (esaminata dopo quella di terzo grado), mentre soltanto il 2% del campione aveva accettato tale presenza nella precedente esperienza. In particolare, interessante può essere il risultato seguente:

– su 30 allievi che hanno risposto accettabile nella scheda B:

– nella scheda A: 13 (43% su 30) hanno risposto accettabile

14 (47% su 30) hanno risposto non accettabile

3 (10% su 30) hanno dato risposte incerte (o non hanno risposto)

I risultati del test ora effettuato sembrano dunque indicare che un interessante percorso di apprendimento potrebbe aver avuto luogo per alcuni, sebbene la percentuale di tali studenti sia ancora piuttosto bassa: in qualche caso l’accettazione della presenza di −1 nell’equazione di terzo grado (scheda B, proposta per prima) potrebbe aver contribuito a costituire un atteggiamento mentale (per alcuni versi assimilabile a una presupposizio-ne) tale da indurre l’allievo stesso a ritenere accettabile la presenza di −1 anche nel-l’equazione di terzo grado (scheda A, considerata successivamente).

Alcuni studenti sono stati invitati a giustificare quanto scritto nel test; in particolare, sono stati intervistati (singolarmente) i 14 studenti che hanno affermato di accettare la risoluzione riportata nella scheda B ma non quella nella scheda A (successiva). A essi è stata posta la seguente domanda: “perché accetti la presenza di −1 nella scheda B e non accetti la presenza di −1 nella scheda A?” Riassumiamo il contenuto delle rispo-ste di questi 14 studenti (11 frequentanti la classe III e 3 la IV):

• 10 allievi (71% su 14) hanno notato, in vari modi, che il risultato dell’equazione di terzo grado (scheda B) è reale (nel corso del procedimento la −1 “si sempli-fica”), mentre quello dell’equazione di secondo grado (scheda A) non è un nu-mero reale;

• 2 allievi hanno affermato di aver considerato gli esempi separatamente e di aver deciso le risposte da dare senza confrontare i casi;

• 2 allievi non hanno fornito giustificazioni.

Quanto emerso dalle interviste conferma che alle considerazioni degli studenti si affian-cano (si sovrappongono) gli effetti determinati dalle clausole del contratto didattico, ad

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esempio la primaria importanza spesso attribuita al risultato. A questo punto assume un ruolo rilevante la posizione seguente:

La considerazione di −1 come “numero” può non essere causa di difficoltà particolari (consentendo la risoluzione dell’equazione)

Tale constatazione (per quanto ancora poco chiara e parziale: per un apprendimento ef-ficace e completo dei numeri complessi non basta riconoscere −1 come un’entità ma-tematica “tale da non causare problemi” in alcuni procedimenti!) appare motivata. È si-gnificativo che la prima considerazione di −1 come “numero” avvenga in un passag-gio del procedimento risolutivo di un’equazione di terzo grado a coefficienti reali e con riferimento a una radice reale: accettando −1 come “numero” (un numero che duran-te la risoluzione “si semplifica”) non si presenta alcuna difficoltà nel ricavo della radice, certamente corretta in quanto verificabile per sostituzione nell’equazione assegnata (e… “costruibile in linee”, nota Bombelli alle pp. 296 e 298 della propria Algebra).

La constatazione precedente appare utile in quanto consente di trovare una radice di un’equazione di terzo grado proposta: proprio questa sua efficacia viene a essere, per al-cuni versi, una garanzia della sua plausibilità. Possiamo dunque considerarla una chiave interpretativa nuova, una sorta di presupposizione (torneremo sulla questione). Essa en-tra però in contrasto con una consolidata pratica didattica: per questo alcuni allievi, co-me abbiamo visto, si limitano ad accettare −1 nel caso dell’equazione di terzo grado, quando cioè “si semplifica”, mentre rifiutano di accettare −1 come “numero” vero e proprio nel caso dell’equazione di secondo grado.

In un certo senso possiamo dire che, nel caso in esame, la presupposizione (facendo riferimento con tale termine a una disposizione mentale almeno “possibilista” nei con-fronti delle radici quadrate dei numeri negativi) non è sufficiente a garantire, da sola, il successo della strategia sulla quale potrebbe basarsi il processo di insegnamento–ap-prendimento. Né ciò, a nostro avviso, può essere ritenuto il “compito” proprio di una presupposizione: essa infatti deve principalmente agevolare l’ingresso dello studente nel circolo ermeneutico. Altri processi, ad esempio collegati con l’attività dell’insegnante, favoriranno o determineranno un apprendimento più completo e maturo. I–4. Esempio. Le serie numeriche, una sequenza di presupposizioni Anche l’introduzione delle serie è un momento delicato del curriculum, in quanto il con-cetto di serie numerica si sovrappone a quello di addizione, uno dei capitoli più familiari della storia scolastica di qualsiasi studente. Una serie non è riconducibile a un’addizione con “tantissimi” addendi, anche se i simboli usati possono avallare un’analogia del ge-nere: un’addizione di numeri, ad esempio, ha sempre uno e un solo risultato, mentre una serie può essere convergente (con somma finita), divergente (tendente all’infinito) o in-determinata (quando non ammette somma). Ma queste considerazioni non sono sempre presenti nella mente degli allievi che si accostano alle “addizioni con infiniti addendi”. Come avviene dunque l’ingresso di uno studente nel mondo delle serie, soprattutto quando esso non sia “preparato” da una precedente trattazione del concetto di limite?

In termini informali, l’allievo ha spesso a che fare con il termine “infinito” e anche questo fa sì che l’ “infinito” costituisca un possibile risultato per queste strane “addizio-ni”: spesso una “somma di infiniti addendi” non nulli è intuitivamente considerata “in-finitamente grande” (D’Amore, 1996) e la possibilità di indicare un controesempio sa-rebbe dunque preziosa. La storia può aiutarci a orientare correttamente i nostri studenti:

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possiamo riferirci a Zenone d’Elea (490–430 a.C.) e al celebre paradosso di Achille e della Tartaruga che, modernamente interpretato, porta a considerare una serie conver-gente. L’uso di un esempio basato sulla serie delle potenze di ½ può essere efficace: la velocità di Achille potrebbe essere il doppio di quella della Tartaruga e il vantaggio con-cesso dal primo alla seconda unitario. In tale caso andremmo a considerare la scrittura

1+21 +

41 +

81 +

161 +… che non supererebbe 2, qualsiasi sia la quantità di addendi consi-

derata. Infatti in ogni passo di questa “addizione” si aggiunge la metà di quanto servi-rebbe per raggiungere 2 (i metodi grafici possono essere utilissimi: Barra, 2001).

Questo esempio (Bagni, 2000–b) può però abbinarsi a un potenziale equivoco: ad esempio, qualche allievo potrebbe notare che gli addendi così sommati sono “sempre più piccoli” (indefinitamente piccoli): c’è dunque il rischio di interpretare la condizione che prevede che il termine generale sia infinitesimo come sufficiente affinché una serie sia convergente, mentre essa è solo necessaria. Potrà allora essere utile un altro riferi-

mento storico: la serie armonica ( ...51

41

31

211 +++++ ), la cui divergenza è stata provata

già nel XIV secolo (senza con ciò affermare una considerazione moderna di una serie nel Medioevo). Gli allievi potranno così constatare che la condizione che prevede che il termine generale sia infinitesimo non basta a garantire la convergenza.

La prova della divergenza della serie armonica, seguendo Nicola d’Oresme (1323–1382), può essere proposta al livello della scuola secondaria. Si scrive:

...81

71

61

51

41

31

211 +⎟

⎠⎞

⎜⎝⎛ ++++⎟

⎠⎞

⎜⎝⎛ +++

Abbiamo così raggruppato le frazioni considerate entro parentesi contenenti 1, 2, 4, 8, … frazioni. La somma delle frazioni in ciascuna parentesi è non minore di ½, ed essen-do possibile ottenere un qualsiasi numero di parentesi, si può avere una somma maggio-re di ogni costante positiva (si noti che la serie armonica cresce “lentamente”: per supe-rare 20 servono 272 400 200 termini – ovviamente quanto scritto è un’interpretazione moderna delle considerazioni trecentesche, anche per la simbologia impiegata).

Ricapitoliamo ora le situazioni che si sono presentate al nostro studente che si acco-sta alle serie. Questo accostamento è influenzato da atteggiamenti mentali decisivi nella fase interpretativa di un “discorso matematico” nuovo; per questo ci riferiremo a essi come a delle “presupposizioni”. L’allievo, che conosce le operazioni aritmetiche, è por-tato a interpretare una serie come un’addizione “con infiniti addendi”:

Presupposizione originale (errata) (i) una “addizione con infiniti addendi”

è pur sempre un’addizione e dunque avrà un “risultato”; (ii) essendo infinito il numero degli addendi,

tale “risultato” sarà infinito. Essa è errata da due punti di vista: è falso che una “addizione di infiniti addendi” sia una particolare addizione e abbia sempre un “risultato”; inoltre non è vero che tale “risulta-to” (anche ammesso che esista) sia sempre infinito.

Per correggere questa presupposizione iniziamo dal punto (ii) e ricorriamo al primo esempio storico: il paradosso di Achille e della Tartaruga, interpretato modernamente con riferimento alla serie delle potenze di ½. Esso smentisce il fatto che una “somma di

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infiniti addendi” sia sempre “infinita”, ma induce l’allievo a darsi una spiegazione della situazione. La risposta può portare a una seconda presupposizione errata:

Seconda presupposizione (errata) (i) una “addizione con infiniti addendi”

è pur sempre un’addizione e dunque avrà un “risultato”; (ii) il “risultato” non è infinito

quando gli addendi diventano indefinitamente piccoli La correzione di (ii) può basarsi sulla dimostrazione della divergenza della serie armo-nica. L’allievo potrà notare che il fatto che il termine generale sia infinitesimo non basta a garantire la convergenza (l’insegnante mostrerà che la condizione è necessaria):

Terza presupposizione (parzialmente errata) (i) una “addizione con infiniti addendi”

è pur sempre un’addizione e dunque avrà un “risultato”; (ii) il “risultato”, quando gli addendi diventano indefinitamente piccoli,

può essere finito o infinito Il punto (ii) è sotto controllo ed è ora necessario occuparsi del punto (i). Lo studente de-ve rendersi conto che una serie non è un’addizione (né una “somma algebrica”). Questa esigenza ha forti motivazioni teoriche, ma può essere considerata anche praticamente.

Pensiamo ancora alla serie delle potenze di ½. Una volta che l’allievo ha constatato che il suo “risultato” non è “infinito”, si pone il problema di capire quale esso sia (una serie è ancora vista come un’addizione e ogni addizione deve avere un risultato). In ef-

fetti, abbiamo mostrato che 1+21 +

41 +

81 +

161 +… non supererà 2; al più possiamo rile-

vare praticamente che più addendi si fanno entrare in gioco più la somma parziale si av-vicina a 2. Ma è sufficiente ciò per dire che la somma di “tutti gli infiniti addendi” è 2? Si potrebbe essere tentati di procedere nel (pericoloso) modo seguente: dopo aver posto

1+21 +

41 +

81 +

161 +… = s, si “raccoglie” ½ tra i termini dal secondo in poi, ottenendo:

1+21

⎟⎠⎞

⎜⎝⎛ +++++⋅ ...

161

81

41

211 = s 1+

21 s = s da cui s = 2

Abbiamo qui applicato le proprietà delle operazioni aritmetiche: è però lecito fare ciò con un’ “addizione di infiniti addendi”? Il procedimento ci ha portato a una conclusione corretta (la somma è davvero 2!), ma può costituire un precedente grave.

Prendiamo in considerazione ad esempio la “serie di Grandi”. Nel 1703, Guido Grandi (1671–1742) affermò (Silov, 1978, I, p. 185): «mettendo in modo diverso le pa-rentesi nell’espressione 1−1+1−1+… io posso, volendo, ottenere 0 o 1. Ma allora l’idea della creazione ex nihilo è perfettamente plausibile». Ci si riferisce a:

(1−1)+(1−1)+(1−1)+(1−1)+... = 0+0+0+0+... = 0 1+(−1+1)+(−1+1)+(−1+1)+... = 1+0+0+0+... = 1

Ora, quale di queste due opzioni, 0 o 1, dovremmo privilegiare per dare un “risultato” a 1−1+1−1+…? Nel XVIII secolo la scelta cadeva spesso sulla media aritmetica di tali va-

lori: la serie che oggi scriviamo ( )∑+∞

=

−0

1i

i era eguagliata da Grandi e da altri matematici

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del periodo a ½ (Leibniz, 1716). Per Grandi la “dimostrazione” di ciò poteva essere ri-condotta allo sviluppo seguente (che oggi sappiamo essere valido soltanto per |x|<1):

11

10

2 3

+= − = − + − +

=

+∞

∑xx x x xi

i

( ) ...

Con x = 1 (che non rispetta la condizione |x|<1) avremmo la convergenza di 1–1+1–1+… a ½ (Bagni 2005–b).

Da un punto di vista più elementare, il risultato di convergenza della serie di Grandi a ½ potrebbe essere ottenuto anche attraverso un procedimento (pericolosamente) vicino a quello che, poco fa, ci ha condotto ad affermare che la somma di tutte le potenze di ½ è 2. Posto 1−1+1−1+… = s, si “raccoglie” –1 tra tutti i termini dal secondo in poi:

1−(1−1+1−...) = s s = 1–s da cui s = ½

Questa volta le conclusioni sono errate (la stessa ammissione che 1−1+1−1+… indichi un numero s non è giustificata); oggi sappiamo che la successione delle somme parziali associata alla serie di Grandi non ammette limite, dunque tale serie non ammette somma (anche nel XVIII secolo era stata suggerita una tale conclusione: Riccati, 1761, I, p. 87; non ci si occuperà, in questa sede, della convergenza secondo Cesaro: Bagni, 2006–a).

Quanto osservato ci induce a ribadire che l’identificazione tra le “addizioni normali” e le serie intese come “addizioni con infiniti addendi” non è accettabile: l’ultimo esem-pio storico può essere didatticamente utile in tal senso.

Un primo approccio alle serie potrebbe però avvenire anche senza far riferimento al-la nozione di limite (Bagni, 2005–a). In tale caso non sarà possibile invocare l’assenza del limite delle successione delle somme parziali per escludere la presenza di un “risul-tato” per 1–1+1–1+… Una strategia alternativa si basa sulla possibilità di ottenere di-versi “risultati” per 1–1+1–1+… applicando (impropriamente!) i procedimenti:

s = (1−1)+(1−1)+(1−1)+(1−1)+... = 0+0+0+0+... = 0 s = 1+(−1+1)+(−1+1)+(−1+1)+... = 1+0+0+0+... = 1

1−1+1−1+… = s ⇒ 1−(1−1+1−…) = s ⇒ s = 1–s ⇒ s = ½

Essi non sono accettabili in quanto applicano a un’ “addizione di infiniti addendi” delle proprietà che valgono per operazioni propriamente dette. La discordanza dei risultati ot-tenuti potrebbe indurre l’allievo a comprendere che la presenza di questi “infiniti ad-dendi” cambia radicalmente le cose, sia da un punto di vista pratico che da un punto di vista teorico. Dunque alla terza presupposizione si potrà sovrapporre la seguente:

Quarta presupposizione (i) una “addizione con infiniti addendi”

non è una vera e propria addizione; (ii) essa può avere un “risultato” finito o infinito

oppure non avere alcun “risultato” Quest’ultima presupposizione, così progressivamente costruita, potrà finalmente con-sentire anche agli allievi principianti (dunque non sorretti dalla trattazione del concetto di limite) di entrare nel mondo delle serie senza l’eredità di un’analogia, quella tra la se-rie e l’addizione aritmetica, che spesso ostacola in maniera decisiva l’apprendimento.

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Parte II Ragionamento diagrammatico

II–1. Peirce e il ragionamento diagrammatico Parlando dell’«interpretazione del fenomeno del segno», Heidegger (2005, p. 106) nota che «per l’uomo primitivo esso coincide con la cosa significata. Il segno stesso può rap-presentare la cosa, non soltanto nel senso di sostituirla, ma nel senso che il segno è sempre la cosa significata». Diversa però può essere la situazione in un ambito culturale più evoluto. Ancora Heidegger (2005, pp. 104–105) osserva che «l’istituzione di un se-gno non richiede però necessariamente la costruzione di un mezzo fino allora inesisten-te. Si istituiscono segni anche assumendo come segno un utilizzabile preesistente»; na-turalmente «ciò che è assunto come segno deve essersi reso accessibile già prima in se stesso ed essere colto prima della sua funzione di segno».

Ma la scelta di assumere un “utilizzabile preesistente” come segno per un’altra enti-tà è sempre neutra? La risposta, negativa, suggerisce che anche nell’istituzione (e nell’uso) di un segno possono essere evidenziate posizioni che superano la semplice scelta di indicare α con β. Ci sono influenze, riflessi, progetti. Un segno, comunque, va interpretato, e questo momento interpretativo non si limita alla sua fruizione “a posterio-ri”. La stessa istituzione di un segno, ad esempio, è un momento nel quale possono ope-rare atteggiamenti mentali assimilabili a presupposizioni.

È infatti essenziale notare che nella nozione di interpretazione si annida una caratte-ristica che va ben oltre l’ordinaria comprensione: c’è un aspetto dinamico che conferisce a questo momento una potenzialità del tutto particolare. Per alcuni versi, interpretando noi immaginiamo, ipotizziamo un ruolo, un impiego futuro per l’oggetto della nostra considerazione: «l’interpretazione non è la presa di conoscenza del compreso, ma la e-laborazione delle possibilità progettate nella comprensione» (Heidegger, 2005, p. 183).

La pur sintetica presentazione del pensiero di Charles Sanders Peirce (1839–1914), uno dei pionieri nella ricerca della logica formale e della logica delle relazioni, nonché padre della semiotica, ci porterà a esaminare alcune idee molto stimolanti.

Anche secondo Peirce, ogni rapporto che un essere umano ha con il mondo o con le altre persone è essenzialmente frutto di un’interpretazione (sebbene un accostamento di Peirce ad altri autori sia da gestire con prudenza). Sulla base di ciò appare difficile rife-rirsi a una realtà oggettiva di fronte alla quale si troverebbe il soggetto sensibile e pen-sante che si limita, almeno in una prima fase, a recepirla. Le cose che costituiscono il mondo che ci circonda non sono più oggetti a sé stanti, bensì “segni di se stesse”, rap-presentazioni (Peirce usa spesso il termine representamen) che stimolano la nostra atti-vità interpretativa (osservazioni importanti sono in Heidegger, 2005, pp. 100–107).

In qualità di segni le cose rinviano chiaramente al proprio significato, ma la relazio-ne tra il segno e il significato, come vedremo, richiede la presenza di un interpretante, la reazione dell’interprete che si basa su di un sistema a sua volta costituito di segni, di e-lementi della cultura, di comportamenti collettivi propri di un periodo e di un ambiente sociale. Osserviamo che anche da questo punto di vista il ruolo delle presupposizioni è essenziale: affinché si sviluppi l’interpretante è indispensabile che l’interprete abbia già

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un minimo di “conoscenza” dell’oggetto in questione. L’assenza completa di presuppo-sizioni avrebbe dunque l’effetto di inibire il sorgere di qualsiasi interpretante.

L’approccio peirceano potrà avere alcune importanti applicazioni nella didattica del-la matematica e merita di essere approfondito. Iniziamo a osservare che il segno, secon-do Peirce, è essenzialmente un rimando (Peirce, 2003, § 2.228, pp. 147–148):

Un segno, o representamen, è qualcosa che per qualcuno sta per qualcosa sotto qualche aspetto o capacità. Si rivolge a qualcuno, ossia crea nella mente di quella persona un segno equivalente, o forse un segno più sviluppato. Quel segno che crea lo chiamo in-terpretante del primo segno. Il segno sta per qualcosa, il suo oggetto. Sta per quel-l’oggetto non sotto tutti gli aspetti, ma in riferimento a una specie di idea, che a volte ho chiamato ground della rappresentazione.

Può inoltre essere utile osservare la presenza, negli scritti di Peirce, sia del termine se-gno che di quello, più tecnico, representamen. Queste espressioni non sono del tutto e-quivalenti (Eco, 2004, p. 28): la seconda, generale, viene infatti riferita anche ai processi che non hanno un interprete dotato di mente. Peirce dunque considera anche le situazio-ni in cui un oggetto suscita un effetto grazie alla presenza di un representamen, senza coinvolgere un soggetto con una mente ovvero con una coscienza (questa situazione è però meno frequente con riferimento alla didattica della matematica).

Il celebre triangolo semiotico è alla base dell’impostazione peirceana:

L’oggetto è rappresentato da un segno, che può essere un’icona, un indice o un simbolo:

• un’icona è un segno che assomiglia all’oggetto rappresentato; ci sono tre tipi di icone: l’immagine (l’icona assomiglia all’oggetto per una qualità); il diagramma (basato su di un’analogia strutturale o relazionale); la metafora (se la somiglian-za è mediata da un terzo termine);

• un indice è un segno fisicamente collegato all’oggetto a cui si riferisce (il fumo è indice del fuoco da cui è causato, una sorta di effetto metonimico “concreto”);

• un simbolo è un segno il cui rapporto con l’oggetto rappresentato è definito da una legge; è generale e convenzionale.

Prima di proseguire è opportuno mettere in guardia i lettori da un’accezione troppo rigi-da e letterale di questa classificazione. Ad esempio, chiunque sarebbe portato a conside-rare una moderna formula algebrica come un senso tipicamente simbolico (Whitehead, 1998, p. 4); ebbene, Peirce (1980, p. 157) afferma:

Così, una formula algebrica è un’icona, ed è resa tale dalle regole di commutazione, as-sociazione e distribuzione dei simboli. Chiamare un’espressione algebrica icona può sembrare a prima vista una classificazione arbitraria; perché potrebbe altrettanto bene o ancora meglio essere considerata come un segno convenzionale composto. Ma non è così: perché una proprietà altamente distintiva dell’icona è che attraverso osservazione diretta di essa si possono scoprire riguardo al suo oggetto verità nuove oltre a quelle che sono sufficienti a determinare la costruzione dell’icona stessa.

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Riprenderemo le possibilità qui riconosciute alla rappresentazione iconica quando ci oc-cuperemo del ragionamento diagrammatico in relazione ad alcune esperienze didattiche.

Per ora, ribadiamo che ogni segno suscita un interpretante, cioè una reazione in chi si trova a interpretare. Ma nell’approccio peirceano un segno non fa conoscere diretta-mente un nuovo oggetto: quest’ultimo deve essere già in qualche modo accessibile al-l’interprete, in modo che il segno porti ulteriore informazione su di esso e susciti l’in-terpretante (è in questo senso che è possibile un riferimento al circolo ermeneutico e alla presenza di presupposizioni). L’interpretante non è qualcosa da contemplare per com-prendere il segno, per conoscere l’oggetto: fondamentale è l’aspetto attivo, inferenziale.

Un esempio elementare (riassunto nella frase: “un cane abbaia e suscita paura in chi percepisce tale segno”) ci consentirà di mettere a fuoco alcune caratteristiche della se-miotica di Peirce che saranno utili in chiave didattica:

Osserviamo innanzitutto la necessità di mantenere ben distinti l’interprete (chi percepi-sce il segno, in questo caso chi sente abbaiare il cane) e l’interpretante, cioè la reazione dell’interprete (lo spavento e il grido “attenti al cane”). Ma il punto cruciale è il seguen-te: l’interpretante è a sua volta un segno e quindi può (deve) essere interpretato.

e così via (stimolante è il confronto con: Wittgenstein, 1995, p. 109). Ad esempio:

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A parte la potenziale presenza di più interpreti (elemento non trascurabile per la didatti-ca della matematica), qual è l’oggetto del secondo segno? L’oggetto originale oppure l’oggetto originale in quanto in relazione con il primo segno?

In Peirce (in particolare nella Grammatica speculativa) si trovano passi che conducono a entrambe le risposte. Queste modalità non sono forse rigorosamente alternative:

• la prima sottolinea il fatto che un segno non corrisponde a un significato unico, “bloccato”, ma porta a considerare altri segni mediante i quali il significato stes-so si arricchisce progressivamente;

• la seconda sottolinea che l’oggetto rappresentato si lega in termini decisivi con i vari segni.

Nonostante la presenza di più segni che rimandano al proprio oggetto, questo “oggetto” (qualsiasi cosa si intenda con ciò) sembra sottrarsi alla percezione. La catena di interpre-tanti è potenzialmente infinita (semiosi illimitata: è come se, attraverso l’accumulazione degli interpretanti, si definisse il significato in un processo asintotico). Eco (2004, p. 38) riprende Peirce nella distinzione tra oggetto immediato (l’oggetto colto nel segno, dal quale si sviluppa il processo interpretativo) e oggetto dinamico:

L’Oggetto Immediato stabilito dalla definizione mette a fuoco l’Oggetto Dinamico cor-rispondente solo sotto qualche rispetto, e cioè prende in considerazione solo l’infor-mazione semantica sufficiente a inserire il termine in un universo di discorso […]. In-vece il modello regolativo di una enciclopedia prevede vari “sensi” ovvero diverse di-sgiunzioni possibili di uno spettro semantico idealmente completo.

Per Eco dunque l’oggetto dinamico è l’oggetto in sé, che non siamo in grado di cogliere completamente perché non abbiamo mai una visione completa della realtà, ma riuscia-mo a percepirla solo da un certo punto di vista (la stessa opposizione tra dizionario ed enciclopedia si chiarisce pensando al dizionario come all’insieme di conoscenze lingui-stiche costitutive dei singoli significati, mentre l’enciclopedia si riconduce all’insieme delle conoscenze sul mondo, indefinitamente aperto).

A questo punto (ed è impossibile qui non fare riferimento alla concept image e alla concept definition di David Tall) si pone il problema “pratico” dell’individuazione dell’oggetto rappresentato. Con Peirce (2003, § 1.339) possiamo notare che

l’oggetto della rappresentazione non può essere altro che una rappresentazione di cui la prima rappresentazione è l’interpretante. Ma una serie senza fine di rappresentazioni, ciascuna rappresentando quella che le sta dietro, può essere concepita come avente un oggetto assoluto quale suo limite.

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Non è semplice formalizzare un simile processo infinito (si vedano le annotazioni in Eco, 2004, pp. 39–46); del resto lo stesso Peirce (2003, § 2.519, § 2.520 e § 6.401) non è chiarissimo in proposito. La presenza di un interpretante finale viene spesso collegata, in termini pragmatici, alle azioni intese a suscitare alcuni effetti percepibili (Goudge, 1950, p. 155). Eco (2004, pp. 43 e 45) nota che, in questo senso,

capire un segno è imparare cosa occorre fare per produrre una situazione concreta in cui si possa ottenere l’esperienza percettiva dell’oggetto a cui il segno si riferisce. […] Peirce non è mai interessato negli oggetti come insieme di proprietà ma come occasioni e risultati di esperienza attiva.

Dunque, a proposito della conclusione del processo di interpretazione, Peirce parla di un interpretante logico finale che deve essere considerato alla stregua di un “effetto” men-tale, ma non di un “segno” che richiederebbe, a sua volta, un nuovo interpretante. Esso sarebbe un mutamento d’abito o d’abitudine (habit–change). Il significato di un concet-to può essere descritto come la consuetudine da esso “causata”, e questo punto eviden-zia la connessione fra la semiotica peirceana e il pragmatismo: la descrizione di un con-cetto viene infine a coincidere con la descrizione di un habit prodotto dal concetto stes-so, ovvero che si ritiene che il concetto produrrà. Ancora Eco osserva che non possiamo limitarci ad accettare «un reticolo testuale in cui i motivi e le azioni, le espressioni e-messe a fini palesemente comunicativi così come le azioni che esse provocano, diventa-no elementi di un reticolo semiosico in cui qualsiasi cosa interpreta qualsiasi altra». La nostra stessa quotidianità «impone la scelta di limiti, la delimitazione di direzioni inter-pretative e dunque la progettazione di universi di discorso» (Eco, 2004, p. 47).

Una lunga citazione ci consentirà ora di accostarci alla nozione di ragionamento dia-grammatico. Seguiamo Peirce nella nota Pensiero e scrittura (MS 956, Marietti, 2005):

Le due parole logica e ragione hanno origine da due opposte concezioni della natura del pensiero. Logica, da lògos, che significa parola, mentre ragione, incorpora l’idea greca che il ragionamento non possa venir portato avanti senza il linguaggio. Ragione, dal latino ratio, che in origine indica un conto, implica che il ragionamento sia una questione di computazione, che richiede non parole bensì qualche tipo di diagramma o abaco o figure. La logica formale moderna, specialmente la logica dei relativi, mostra che la concezione greca è sostanzialmente erronea, e che quella romana è sostanzial-mente corretta. Le parole, sebbene indubitabilmente necessarie al pensiero già svilup-pato, giocano un ruolo solo secondario nel processo; mentre il diagramma, o icona, che può venire manipolato e sul quale si possono fare esperimenti, è importantissimo. I dia-grammi sono stati sempre usati in logica, fin dal tempo di Aristotele; e nessun ragio-namento complicato può venir eseguito senza di loro. L’algebra ha le sue formule, che sono un tipo di diagramma. E a cosa servono questi diagrammi? Servono per compierci sopra esperimenti. I risultati di questi esperimenti sono spesso assolutamente sorpren-denti. […] Tutto il ragionamento è sperimentazione, e tutta la sperimentazione è ragio-namento. Se le cose stanno così, la conclusione per la filosofia è importantissima, vale a dire che davvero non esiste ragionamento che non abbia la natura del ragionamento diagrammatico, o matematico; e dunque non dobbiamo ammettere alcun concetto che non sia suscettibile di venire rappresentato in forma diagrammatica. Idee troppo pom-pose per essere espresse in diagrammi non sono altro che spazzatura per gli scopi della filosofia. […] Il buon ragionamento ha a che fare con forti immagini visive. Le idee auditive sono la fonte della maggior parte del pensiero scorretto.

Per valutare le conseguenze della posizione peirceana (seguiamo Marietti, 2001), dob-biamo ricordare ancora che il simbolo è un segno che denota l’oggetto in virtù di una re-lazione di carattere mentale e convenzionale: si collega al contesto culturale in cui è e-laborato e possiede una significazione cognitiva di cui le icone e gli indici sono privi.

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Queste considerazioni sembrano sufficienti a sottolineare l’importanza della rappresen-tazione simbolica nella matematica e nella didattica: un “contenuto matematico” (qual-siasi cosa si intenda con ciò) sarebbe rappresentato da un “segno” simbolico. Eppure il simbolo viene così a basarsi essenzialmente, come accennato, sull’aspetto convenziona-le, un aspetto che non può garantire l’universalità e la certezza della matematica.

È invece iconica la relazione che collega il diagramma alla relazione matematica: l’icona costituita dal diagramma dovrebbe trasmettere insomma una caratteristica gene-rale, pur essendo un soggetto individuale e osservabile, un elemento sul quale i matema-tici (ovvero i nostri studenti) possono operare per elaborare e ottenere ulteriori caratteri-stiche del diagramma stesso (il ragionamento diagrammatico ha trovato applicazioni in-teressanti in didattica della matematica: Dörfler 2006).

Proponiamo un primo esempio assai significativo dal punto di vista didattico: ci ri-feriamo a Leonhard Euler (1707–1783) e alla celebre rappresentazione di un insieme con una figura chiusa (ci basiamo su Lettere a una Principessa d’Alemagna, Terres, Napoli 1787, una delle prime edizioni dopo quella originale in francese; l’opera euleria-na risale al 1760–1762, ma fu edita solo tra il 1768 e il 1772; una moderna edizione è Euler, 2007).

Esaminiamo ad esempio quanto Eulero scrive nella lettera CII (datata 14 febbraio 1761), dopo avere ricordato la classificazione delle proposizioni aristoteliche (Euler, 1787, II, pp. 111–112):

Per esprimere sensibilmente la natura di queste […] proposizioni, possiam rappresen-tarle per mezzo di figure, le quali son di un gran soccorso per ispiegare con somma di-stinzione qual sia l’esattezza di un raziocinio. E poiché una nozione generale contiene un’infinità di oggetti individuali, si può supporre a guisa di uno spazio, in cui questi oggetti son racchiusi: per esempio si forma uno spazio per la nozione di uomo (Tav. 1. fig. 1.) in cui si suppone che tutti gli uomini sien radunati. Per la nozione di mortale se ne forma un altro (Tav. 1. fig. 2.) dove si suppone che sia compreso quanto vi è di mor-tale. E quando io pronunzio che tutti gli uomini son mortali, intendo che la prima figura sia contenuta nella seconda. Dunque la rappresentazione di una proposizione universale affermativa sarà quella della Tav. 1. fig. 3., in cui lo spazio A che dinota il soggetto del-la proposizione vien tutto intero racchiuso nello spazio B che è il predicato.

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Nella successiva lettera CIII (datata 17 febbraio 1761) il grande matematico di Basilea propone di utilizzare le rappresentazioni così introdotte per una riflessione sui sillogismi e scrive (Euler, 1787, II, pp. 113 e 115–116):

Questi cerchj o sien questi spazj (imperciocché è indifferente qualunque figura lor si dia) son molto a portata per facilitare le nostre riflessioni sopra questa materia, e per metterci in chiaro quanti misteri la logica si vanta di avere, i quali somma pena han co-stata per poterli dimostrare, mentre coll’ajuto di tai segni in un istante tutto salta agli occhi. […] Quanto sin qui si è detto può essere sufficiente a far capire a Vostra Altezza, che tutte le proposizioni possono essere rappresentate con figure; ma il massimo van-taggio si manifesta ne’ raziocinj, i quali qualora si esprimon con parole chiamansi sil-logismi, in cui si tratta di tirare una conclusione esatta da alcune date proposizioni. Con tale invenzione noi potremo subito scandagliare le giuste forme di tutti i sillogismi. Cominciamo da una proposizione affermativa universale ogni A è B. […] Se la nozione C è contenuta interamente nella nozione A, sarà contenuta anche interamente nello spa-zio B (Tav. 1. fig. 8.), donde risulta questa forma di sillogismo: Ogni A è B, ma Ogni C è A, dunque Ogni C è B e quest’ultima è la conclusione. Per esempio. Si disegni la no-zione A tutti gli alberi, la nozione B tutto ciò che ha radici, e la nozione C tutti i ciriegi, in tale caso il nostro sillogismo sarà il seguente: Ogni arbore ha radici, ma Ogni cirie-gio è un arbore, dunque Ogni ciriegio ha radici.

Qual è il ruolo del diagramma? A tale domanda ha risposto lo stesso Eulero: «tutte le proposizioni possono essere rappresentate con figure; ma il massimo vantaggio si mani-festa ne’ raziocinj, i quali qualora si esprimon con parole chiamansi sillogismi, in cui si tratta di tirare una conclusione esatta da alcune date proposizioni»; e «coll’ajuto di tai segni in un istante tutto salta agli occhi» (Euler, 1787, II, pp. 115 e 113).

Non intendiamo proclamare sbrigativamente una sorta di isomorfismo tra la visua-lizzazione grafica e il sillogismo; ma è evidente che l’applicazione della proprietà tran-sitiva dell’inclusione insiemistica, proprietà che trova una chiara espressione nella rap-presentazione grafica proposta da Eulero, rende assai incisiva la struttura del sillogismo esaminato. Anche sillogismi… meno immediati possono essere utilmente rappresentati (e ciò è interessante dal punto di vista didattico) ricorrendo a queste raffigurazioni. II–2. Esempio. Rappresentazione di insiemi e diagrammi da interpretare Talvolta i concetti di insieme, appartenenza e inclusione sono considerati “facili”, spon-tanei. Tuttavia, come vedremo (seguendo Bagni, 2006–b), nonostante il contenuto intui-tivo (già sottolineato nella presentazione euleriana), i loro significati matematici e le modalità di esprimere tali significati coinvolgono aspetti concettuali precisi e piuttosto complessi. Storicamente, i concetti in questione giunsero a una formulazione specifica solo nel XIX secolo, quando Georg Cantor (1845–1918) introdusse la nozione di insie-me attraverso alcuni sinonimi. Per Cantor, un insieme era una “collezione” di oggetti definiti che potevano essere considerati dalla mente, in modo che fosse sempre possibile stabilire se un elemento facesse parte o no di tale collezione. Anche Frege faceva rife-rimento al concetto di insieme mediante descrizioni verbali (nella celebre lettera a Rus-sell del 1902). Una caratteristica del concetto di insieme secondo Cantor era la sua “so-stanzialità” (Casari, 1964, p. 21) cioè la possibilità di appartenere ad altre collezioni.

Naturalmente tali descrizioni non possono essere considerate alla stregua di defini-zioni: una definizione di insieme, com’è noto, non esiste, almeno se facciamo riferimen-to all’impostazione assiomatica (ad esempio alla teoria di Zermelo–Fraenkel), peraltro difficilmente applicabile a livello di insegnamento primario e secondario. Anche in clas-se, dunque, si ricorre spesso a descrizioni verbali, ma in generale queste sono seguite da

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altre rappresentazioni semiotiche, tra le quali i diagrammi di Eulero–Venn. Esaminere-mo ora alcune caratteristiche di queste rappresentazioni sulla base dei dati di due case studies.

Premettiamo un’osservazione generale: i registri rappresentativi (intesi nel senso di Duval, 1995) non hanno soltanto un ruolo pratico (consentire allo studente di risolvere un esercizio), ma hanno anche una dimensione storico–sociale che determina, almeno in parte, il modo con cui i registri stessi ci “influenzano” quando li impieghiamo. Ciò è ac-caduto anche nella didattica: ad esempio, negli anni Settanta l’influenza del gruppo Bourbaki ha portato a privilegiare alcuni tipi di rappresentazione a scapito di altri (le rappresentazioni visuali), favorendo un approccio simbolico alla matematica e quindi, in ultima analisi, un “pensare analiticamente” a scapito del “pensare per immagini”. Non è dunque possibile, parlando del problema della rappresentazione della conoscenza, scin-dere l’aspetto “politico” da quello epistemologico (Radford, 2002–b, p. 237).

Nel momento in cui uno studente disegna una linea chiusa per costituire, al suo inter-no, una collezione di oggetti, l’insieme viene concettualizzato metaforicamente come un “contenitore” (la “metafora del contenitore” è discussa in: Lakoff & Núñez, 2005). Na-turalmente i diagrammi di Eulero–Venn non possono essere identificati con il concetto di insieme (Ferro, 1993, p. 1086):

Mediante i diagrammi si evoca l’appartenenza di un elemento, indicato da un punto, ad una collezione. Ma come proporre la situazione se l’elemento indicato dal punto è a sua volta una collezione o se la collezione indicata da una regione è pensata come elemento? L’idea di indicare un elemento con una regione interna non va bene perché fa confondere l’appartenenza con la relazione di sottocollezione, che è tutt’altro.

Dal punto di vista didattico (come rilevato chiaramente in Freudenthal, 1983), quindi, è senz’altro importante considerare la differenza tra:

• appartenenza x ∈ I • inclusione: {x} ⊆ I

cioè appartenenza all’insieme delle parti {x} ∈ ℘(I)

Tale differenza, in generale abbastanza chiara nel caso di espressioni verbali o simboli-che, potrà creare qualche problema nel caso di rappresentazioni visuali (si tenga tuttavia presente che un approccio matematico avanzato non ci porterebbe a situazioni di in-compatibilità: un insieme a tale che ∀x (x ∈ a → x ⊆ a) si definisce insieme transitivo).

Il punto cruciale con il quale saremo chiamati a confrontarci è il seguente: alcuni concetti fondamentali della teoria degli insiemi, ad esempio quelli di appartenenza e di inclusione, hanno un significato intuitivo per il bambino, significato che sarà precisato e formalizzato in una fase più avanzata dello studio della matematica (e questa, com’è no-to, è una delle caratteristiche dei concetti scientifici secondo Vygotskij, 1990). Il pas-saggio da un significato intuitivo a uno formalmente più elevato può creare tensione tra gli aspetti figurali e concettuali. Fischbein (1993) afferma che un’integrazione tra pro-prietà figurali e concettuali tale da produrre strutture mentali unitarie non è un processo naturale, ma deve essere un obiettivo primario dell’insegnante (un confronto critico con Maracci, 2006 è stimolante). Fischbein e Baltsan (1999) osservano che gli studenti tal-volta generalizzano alcuni spunti derivanti dall’insegnamento ben prima di sviluppare delle complete ed efficaci capacità critiche: i bambini ai quali sia stata presentata una qualche attività tendono a costruire uno schema che solo più tardi sarà sostituito da schemi alternativi; ma tale rimpiazzamento non porta sempre alla scomparsa del vec-chio modo di pensare. Pertanto quel vecchio schema può diventare un modello che taci-

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tamente influenza il ragionamento degli studenti, nonostante la presenza di schemi più avanzati e corretti (Linchevski & Livneh, 2002).

I diagrammi di Eulero–Venn, in particolare, geometrizzano la struttura predicativa delle espressioni fondamentali delle relazioni insiemistiche. Certamente essi sono uno strumento didattico assai importante, utile; ci chiederemo tuttavia: possono completa-mente “rimpiazzare” tale struttura predicativa? I vari sistemi semiotici, senza dubbio, sono culturalmente collegati agli “oggetti” matematici rappresentati in modo diverso, specifico (Radford, 2003–b, p. 136). Partendo da queste considerazioni esamineremo due case studies mediante i quali rifletteremo su alcune difficoltà incontrate dagli stu-denti nella distinzione dei concetti di inclusione e di appartenenza: nel primo ci occupe-remo dell’introduzione degli insiemi ad allievi di 11 anni (all’inizio della Scuola Me-dia); nel secondo avremo a che fare con una studentessa ginnasiale di 15 anni.

Presenteremo il primo case study mediante la trascrizione di un breve estratto regi-strato (1 min 30 sec). Due allieve della prima classe di una Scuola Media (a Treviso) vengono invitate dall’insegnante a rappresentare un insieme mediante un diagramma di Eulero–Venn. Al momento dell’esperienza (in classe, durante un’ora di lezione, in un’occasione non valutativa), gli allievi coinvolti conoscevano le nozioni fondamentali di insieme, appartenenza, sottoinsieme nonché le rappresentazioni con i diagrammi di Eulero–Venn.

L’insegnante scrive alla lavagna:

Rappresentare mediante una figura l’insieme dei lati di un triangolo

Due allieve, S. e G., sono alla lavagna; come vedremo, la prima di esse cercherà due volte di eseguire l’esercizio assegnato, mentre G. proporrà alcuni commenti.

S. (disegna): “Ecco”.

Insegnante: “Non è sbagliato, hai fatto un bel disegno. Però guardando potrebbe essere un insieme con un elemento solo”. S.: “Perché uno? Ho fatto tre lati”. Insegnante: “Sì, ma fanno parte del triangolo: è un triangolo che ti viene in mente, tutta la figura, non i tre lati”. G. (intervenendo): “Eh, anch’io ci vedo il triangolo e no i tre lati!” S. (all’altra allieva): “Già, e cosa devo fare? Devo romperlo?” (cancella il triangolo e disegna tre segmenti).

G.: “No, così non è un triangolo, l’esercizio diceva triangolo”.

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Insegnante (a S.): “Momento, la tua risposta andava bene se si interpreta bene la figura. Provi a pensare a un’altra rappresentazione?” S.: “Ancora con quei disegni lì?” Insegnante: “Sì, coi diagrammi di Eulero–Venn”. S. (dopo qualche istante): “Mm, no”. Insegnante: “Senti, cerco di darti un’idea. Ti ricordi che quando facciamo geometria u-siamo le lettere per dare i nomi ai punti e ai lati? Proviamo anche qui. Eh, ti va?” (Dise-gna le figure seguenti).

G.: “Secondo me è questo disegno che va bene perché si vede che ce ne hai tre”. S. (un po’ perplessa): “Sì però dentro non c’è mica scritto che quelli lì sono i lati, cioè come faccio a saperlo, devo guardare fuori…”

Fermiamoci qui: chiaramente le tre rappresentazioni sono caratterizzate da una ben di-versa “somiglianza” alla situazione geometrica alla quale si riferiscono:

• nella prima rappresentazione gli elementi dell’insieme considerato sono dise-gnati, riprodotti come segmenti e come lati di un (particolare) triangolo, più che semplicemente rappresentati;

• nella seconda rappresentazione (introdotta da S. dicendo: “Già, e cosa devo fa-re? Devo romperlo?”) gli elementi restano segmenti, ma vengono disegnati in una posizione che non corrisponde del tutto a quella dei lati di un triangolo;

• infine, nella terza rappresentazione, gli elementi sono rappresentati da punti singoli, isolati. La loro interpretazione come lati di un triangolo richiede una fi-gura esplicativa, esterna alla rappresentazione.

Il peso diverso assunto dalla componente iconica nelle tre rappresentazioni è dunque diverso e ha come conseguenza una diversa importanza attribuita ad alcuni aspetti. Ciò può determinare atteggiamenti diversi negli allievi e diverse forme di apprendimento.

I diagrammi di Eulero–Venn, dunque, non sono solamente contenitori nei quali col-locare gli elementi: ridurre tale rappresentazione a frasi come “l’elemento a è nell’in-sieme A”, suggerita dalla rappresentazione geometrica, può essere riduttivo. Inoltre è in-teressante considerare l’affermazione dell’insegnante secondo la quale una rappresenta-zione deve essere interpretata (“Momento, la tua risposta andava bene se si interpreta bene la figura”). Avremo occasione di tornare su posizioni come questa.

Esaminiamo un secondo case study: K. è un’allieva del primo anno di corso del Gin-nasio–Liceo Classico (IV ginnasio, a Treviso). Il suo rendimento è mediamente buono. Riportiamo alcuni passi tratti dal libro di testo di matematica utilizzato da K.:

• a proposito di insiemi, elementi, appartenenza: “In matematica si usa la parola insieme per indicare un raggruppamento, una raccolta, una collezione di elemen-ti: questi possono essere oggetti, individui, simboli, numeri, figure geometriche etc. Riterremo che gli elementi di un insieme siano ben definiti e distinti tra loro. […] Generalmente gli insiemi si indicano con lettere maiuscole; gli elementi di

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un insieme si indicano con lettere minuscole. La scrittura a∈A si legge a appar-tiene ad A”.

• diagrammi di Eulero–Venn: “Si dà una rappresentazione geometrica: si delimita con una linea chiusa una regione del piano e si rappresentano gli elementi dell’insieme mediante punti all’interno di tale regione (eventualmente indicando il nome di ciascun elemento accanto al punto che lo rappresenta)”; il testo ripor-ta il seguente esempio, riferito alle lettere della parola studente:

• sottoinsiemi, inclusione: “Considerati due insiemi A e B si dice che B è un sot-toinsieme di A quando ogni elemento di B appartiene anche ad A. In simboli si scrive B ⊆ A che si legge B è contenuto in A o è uguale ad A o B è incluso in A o è uguale ad A”; ad esempio:

• insieme delle parti: “Dato un insieme A si definisce insieme delle parti di A quell’insieme, indicato con ℘(A), che ha per elementi tutti i possibili sottoin-siemi di A. […] In generale, se A contiene n elementi, ℘(A) ha 2n elementi”.

Prima di proseguire sono necessarie due osservazioni. Innanzitutto va sottolineato l’uso ambiguo del termine contiene: parlando di sottoinsiemi sono equiparate le espressioni è incluso ed è contenuto; ma parlando dell’insieme delle parti si afferma: se A contiene n elementi, ℘(A) ha 2n elementi e si utilizza contiene con riferimento all’appartenenza. Inoltre è interessante notare l’uso diverso dei diagrammi di Eulero–Venn nei due esem-pi: nel primo, gli elementi sono indicati da punti, con il nome dell’elemento a fianco; nel secondo, invece, i singoli elementi non sono specificati: tutti i punti della parte di piano interna alla linea chiusa potrebbero essere considerati elementi dell’insieme.

Ricordiamo inoltre che nel corso delle lezioni, in classe a K. erano stati presentati e-sempi collegati principalmente a insiemi di oggetti e di numeri; non raramente è stata indicata la rappresentazione visuale con i diagrammi di Eulero–Venn. Erano stati propo-sti esempi riguardanti figure geometriche in generale, per illustrare la nozione di sot-toinsieme (ad esempio: l’insieme dei quadrati è un sottoinsieme dell’insieme dei rettan-goli, il quale è un sottoinsieme dell’insieme dei parallelogrammi etc.).

Presenteremo il secondo case study mediante la trascrizione di due brevi estratti regi-strati: nel primo (1 min 10 sec), a K. viene richiesto di risolvere, alla lavagna, un eserci-zio. Nel secondo (1 min 30 sec), K. riconsidererà la propria risoluzione. L’interlocutore di K. è uno sperimentatore presente in classe, con l’insegnante e gli altri studenti, al

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momento dell’esperienza (un’esercitazione, non occasione di valutazione). A K. è pro-posto l’esercizio seguente:

I è l’insieme dei punti del piano. R è l’insieme dei punti di una retta data nel piano. S è l’insieme dei punti di una retta data nel piano perpendicolare alla precedente. A è l’insieme che ha per elementi R e S. A appartiene all’insieme delle parti di I?

Scritti tali dati, K. (senza parlare) traccia sulla lavagna due rette perpendicolari e le con-trassegna con R e S.

Subito dopo, K. racchiude quanto tracciato con una linea ellittica e scrive “A”.

K.: “Questo è l’insieme A”. (Rilegge l’esercizio). “Adesso guardiamo se appartiene all’insieme delle parti di I”. K. (dopo pochi secondi): “L’insieme delle parti di I contiene tutti i sottoinsiemi. Le fi-gure” (riferendosi a S e R) “sono fatte di punti e quindi tutte le figure sono elementi dell’insieme delle parti di I”. K.: “A contiene le due rette” (indica le rette) “e allora è una figura del piano”. K. (dopo pochi secondi): “Sì, sì, A è un elemento dell’insieme delle parti”.

Esaminiamo il ragionamento di K. dal punto di vista della sua espressione verbale:

• “L’insieme delle parti di I contiene i sottoinsiemi di I”. • “Tutte le figure del piano sono degli elementi dell’insieme delle parti di I”. • “A contiene le due rette ed è una figura del piano”. • “Dunque A è un elemento dell’insieme delle parti di I”.

Qui emerge l’ambiguità del termine contiene: nella prima frase K. si riferisce a una si-tuazione di appartenenza; ma nella terza frase dice “A contiene le due rette” e in base a ciò “è una figura del piano”: dunque intende: R ⊆ A e S ⊆ A. Possiamo quindi confer-mare sin d’ora l’impressione già sopra segnalata a proposito della potenziale problema-ticità dell’uso di un termine il cui significato non sia stato sufficientemente chiarito.

Riassumiamo le fasi della risoluzione di K.:

• l’esercizio dato è espresso verbalmente; • subito K. traduce la situazione in un registro visuale e traccia le due rette; • in tale registro K. accorpa le rette tracciando attorno a esse una linea ellittica;

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• poi continua a riferirsi al disegno e parla dell’insieme A dicendo “le due rette”.

L’uso (forse “precipitoso”) di un registro visuale sembra quindi impedire a K. di ap-prezzare la sfumatura chiave: A è l’insieme che ha per elementi i due oggetti R e S. In-vece K. fa riferimento all’intera “figura” A = R ∪ S: le rette perpendicolari tracciate hanno probabilmente indotto l’allieva a considerare una figura unica (e il termine con-tiene viene collegato all’inclusione).

È essenziale rilevare che nella propria ri-soluzione K. ha costruito l’insieme A in un registro visuale, ma utilizzando questo regi-stro (cioè interpretando i diagrammi di Eule-ro–Venn) impropriamente.

Questa situazione (a cui K. si riferisce) ha indotto l’allieva a considerare R, S sottoin-siemi di A: il diagramma di Eulero–Venn è utilizzato in modo improprio.

Una situazione come quella qui a lato (in cui il diagramma verrebbe usato “adeguata-mente”) suggerirebbe invece l’appartenenza di R e di S all’insieme A.

La rappresentazione alla quale fa riferimento K. è impropria perché la rappresenta-zione geometrica delle rette perpendicolari non è rilevante rispetto al concetto di insie-me: in altri termini, la scelta di stabilire una relazione tra gli elementi dell’insieme è ar-bitraria e quindi fuorviante.

Quale avrebbe potuto essere una strategia per raggiungere il risultato esatto? A parte l’uso corretto dei diagrammi di Eulero–Venn, a cui abbiamo sopra fatto cen-

no, una possibilità è la seguente: invece di passare subito a un registro visuale, K. a-vrebbe potuto mantenere il riferimento alla traccia dell’esercizio (espressa verbalmente) e quindi costruire l’insieme A soltanto sulla base di quanto indicato in tale traccia.

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Pur senza con ciò affermare che registri simbolici e verbali siano da impiegare in modo strettamente analogo, potremmo prospettare un procedimento come il seguente:

• per la definizione: {R; S} ∈ ℘(I) significa {R; S} ⊆ I • dunque: R ∈ I e S ∈ I • nel nostro caso: ciò non è vero • dunque la risposta alla domanda: “A = {R; S} appartiene a ℘(I)?” è: No.

Come vedremo, il ruolo degli esempi e delle definizioni nelle spiegazioni date da K. è importante. Proponiamo la prosecuzione dell’esperienza:

Sperimentatore: “Torniamo un po’ alle definizioni”. (Cancella il disegno e scrive):

{R; S} ∈ ℘(I) significa {R; S} ⊆ I cioè R ∈ I e S ∈ I

“Adesso pensa: è vero o non è vero che R appartiene a I e S appartiene a I?” K.: “I è il piano e R e S sono delle rette” (sta per disegnarle ancora). Sperimentatore: “No, per favore, non disegnare per adesso. Hai detto che I è il piano, ecco, puoi dirlo meglio, insomma puoi essere più precisa?” K. (dopo qualche secondo; rilegge la traccia dell’esercizio): “Beh, I sarebbe l’insieme di punti, dei punti del piano. Sì, cioè non è una cosa da sola, è un insieme, si scrive con la maiuscola”. Sperimentatore: “Ma un insieme di… che cosa?” K. (a bassa voce): “Mm, punti. Punti del piano”. Sperimentatore (indica R∈I e S∈I): “Allora R e S, sono elementi di I?” K. (dopo qualche secondo): “Ah no, già, è vero, R e S sarebbero insiemi, mica elementi. Anche loro si scrivono con la maiuscola”.

L’argomentazione non appare convincente (né, peraltro, convinta): sembra basata su di un’alternativa tra insiemi ed elementi e non evidenzia il fatto più semplice: R e S non sono “punti del piano” e pertanto non appartengono a I. In particolare il fatto che R, S (e I) siano “scritti con le maiuscole” è poco significativo per la risoluzione. Ciò rende opportuna un’annotazione: l’uso tradizionale delle lettere minuscole per gli elementi e delle maiuscole per gli insiemi può avere controindicazioni. Si rischia una “suddivisio-ne” degli oggetti matematici in due categorie separate: dal punto di vista didattico una tale distinzione può essere utile, ma l’appartenenza di un insieme a un altro, ad esempio quando si considera l’insieme delle parti, può determinare conflitti con le tradizioni di notazione simbolica. Si potrebbe giungere alla pericolosa misconcezione secondo la quale un insieme non può appartenere a un altro insieme (si noti però che la presenza di “catene” di oggetti matematici del tipo a ∈ b ∈ c … è piuttosto rara nei libri di matema-tica, a parte i testi specifici di teoria degli insiemi; dunque il tradizionale impiego delle lettere minuscole per gli elementi e delle maiuscole per gli insiemi può essere accettabi-le, se chiarito).

Esaminando il precedente case study possiamo osservare che, nonostante lo Speri-mentatore cerchi di chiarire la situazione, K. non applica le definizioni formali: l’allieva cerca di ricorrere ancora al registro visuale. Infatti i registri visuali appaiono concreti, rassicuranti, aderenti all’esempio considerato: l’argomento ha a che vedere con oggetti della geometria, uno dei settori tradizionalmente associati all’uso di figure e dunque di registri visuali (spunti importanti possono essere visti in Mariotti, 2005). I registri sim-bolici sono invece più generali (anche se non raramente si usano simboli con un valore implicito: si pensi alla differenza tra x e x0, a n per indicare un naturale, a p per un nu-mero primo etc.) e richiedono una più impegnativa astrazione.

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Possiamo inoltre notare che i diversi sistemi di rappresentazione si collegano all’e-sperienza (spaziale e temporale) degli studenti in molti modi. L’uso dei diagrammi di Eulero–Venn da parte degli allievi ci ricorda ad esempio l’importanza delle azioni me-diante le quali alcuni elementi vengono “raggruppati” mediante una linea ellittica. Que-sta connessione tra azioni e concetti è evidenziata dall’uso di termini deittici (come “questo”) e di gesti (una dimensione, quest’ultima, sempre più considerata nella didatti-ca della matematica). Ma si noti che il concetto di inclusione di un insieme I in un in-sieme J, a partire da Cantor, richiede l’analisi di tutti gli elementi che appartengono all’insieme I; il passaggio ai diagrammi di Eulero–Venn può nascondere questo punto essenziale e risultare addirittura fuorviante, da questo punto di vista. Dunque l’uso di un registro rappresentativo con un forte caratterizzazione iconica (come i diagrammi di Eulero–Venn) coinvolge molti aspetti concettuali. Il ragionamento dia-grammatico può risultare “delicato” in quanto fa riferimento a un caso particolare e ri-chiede quindi una generalizzazione non banale (ci occuperemo di ciò nella sezione se-guente); può inoltre contribuire a porre l’accento su elementi non rilevanti rispetto al contenuto matematico in gioco. Eppure esso è utile per sviluppare un’argomentazione ed è spontaneo, ovvero tale da indurre l’allievo a ricorrere a esso (ad esempio per la ge-ometria). Possiamo concludere dunque con la necessità di controllare attentamente la componente iconica; con Habermas notiamo che «l’originale, […] in sé, assume forse il ruolo di un gesto dimostrativo o di una caratterizzazione; essa si riferisce a un determi-nato oggetto e serve pertanto a dare rilievo soltanto a questo in mezzo alla grande quan-tità di tutti i possibili oggetti e quindi a identificarlo. Ma il disegno non rappresenta in sé uno stato di cose. Non è l’equivalente di un’asserzione che potrebbe essere vera o falsa» (Habermas, 2006, p. 139). II–3. Esempio. Numeri e immagini Abbiamo esaminato alcune caratteristiche semiotiche della tradizionale rappresentazio-ne degli insiemi. Ci dedicheremo ora ad alcuni esempi introduttivi di giustificazioni (di “dimostrazioni”, ma si tenga presente Balacheff, 1992) nonché, nella prossima sezione, a un’osservazione sull’efficacia di alcune modalità iconiche di rappresentazione.

Iniziamo a considerare la proposizione che afferma che la somma dei numeri natura-li dispari da 1 a 2n–1 (per n intero positivo qualsiasi) è n2. Un approccio simbolico po-trebbe portare alla sua dimostrazione per induzione: per n = 1 si ha 1 = 12 e dalla 1+3+…+(2n–1) = n2 si ricava: 1+3+…+(2n–1)+(2n+1) = n2+2n+1 = (n+1)2. Nonostante le formule algebriche, per Peirce, abbiano un’essenziale componente iconica (come pre-cedentemente osservato), l’aspetto simbolico è legato ad esempio alla generalità. Esa-mineremo ora altri due approcci.

Un classico procedimento (a volte detto “pitagorico”) è il seguente:

L’aspetto iconico qui è senz’altro prevalente. Il punto da discutere è: in che modo si ge-neralizza il procedimento dalla raffigurazione per n = 4 sopra proposta a un n intero po-

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sitivo qualsiasi? Peirce farebbe riferimento alla stessa “intenzione convenzionale”, ma dal punto di vista didattico una tale generalizzazione non è del tutto banale. Sintetizzia-mo il processo descritto nello schema seguente:

Un’altra possibilità (vicina alla tecnica detta del “piccolo Gauss”) per giustificare il ri-sultato in questione si riassume in:

Sotto la linea c’è “il doppio” di 1+3+…+2n–1 e il totale dei numeri sotto la linea è 2n². La componente iconica è ancora forte e possiamo quindi far riferimento a un diagram-ma, ma l’uso di simboli è evidente (il ricorso ai “puntini” elude la dimostrazione per in-duzione). Sintetizziamo il processo ora descritto nello schema seguente:

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Abbiamo dunque visto alcune argomentazioni per provare che la somma dei primi n in-teri positivi dispari è n² e abbiamo constatato che il ricorso a diagrammi (dunque a rap-presentazioni di tipo iconico) può agevolare l’approccio dello studente ma richiede un’attività specifica di generalizzazione.

Non sarà inutile osservare che l’importanza di giustificazioni alternative a quella generale simbolica, nel caso ora esaminato, è relativa: le giustificazioni proposte sono infatti abbastanza semplici. Occupiamoci però dell’identità:

(1+2+…+n)² = 1³+2³+…+n³.

In questo caso la dimostrazione per induzione è un po’ più impegnativa: per n = 1 si ha: 12 = 1³; quindi dalla (1+2+…+n)² = 1³+2³+…+n³ si ricava: [1+2+…+n+(n+1)]² = 1³+2³+…+n³+(n+1)³ utilizzando l’identità: 1+2+…+n = n(n+1)/2.

Il procedimento visualizzato nella figura seguente ha una forte componente iconica, ma è anch’esso non del tutto banale.

In particolare, la generalizzazione del procedimento (riassunta nella frase “analogamen-te per casi successivi”) è tutt’altro che immediata.

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Riassumiamo: il diagramma rappresenta iconicamente la relazione matematica e l’icona costituita dal diagramma trasmette una caratteristica generale, pur essendo un soggetto individuale e osservabile (sul quale il matematico può operare per ottenere ulteriori ca-ratteristiche generali del diagramma). Rimane tuttavia il problema dell’individualità dell’oggetto sul quale si sviluppa la dimostrazione contrapposta all’universalità delle conclusioni: una dimostrazione matematica, con la sua universalità, non può ridursi a un diagramma iconico. Riprenderemo dettagliatamente questo punto nella sezione III. II–4. Esempio. Problemi di efficienza e il metodo dei tableaux Nel 2008 ricorre il centenario della nascita di Evert W. Beth (1908–1964), il grande ma-tematico e logico olandese al quale è ricondotta l’introduzione del metodo dei tableaux semantici (Beth, 1955). Ricordiamo tale metodo facendo riferimento al calcolo degli enunciati. Si tratta, com’è noto, di un procedimento per confutare un enunciato compo-sto, cioè per provare che esso è insoddisfacibile, per dimostrare che è falso qualsiasi siano i valori di verità degli enunciati componenti (si dice interpretazione di un enuncia-to composto una funzione che assegna uno dei due valori di verità, vero oppure falso, a ciascun enunciato atomico componente e che quindi assegna un valore di verità all’e-nunciato composto sulla base delle tavole di verità).

Ovviamente il metodo dei tableaux può essere utilizzato anche per provare che un enunciato è logicamente valido, cioè che è una tautologia (enunciato composto vero per ogni interpretazione): per fare ciò si confuta la negazione dell’enunciato in esame.

I tableaux semantici sono grafi ad albero costituiti da una disposizione piana di nodi ciascuno dei quali contenente uno o più enunciati; il primo nodo contiene l’enunciato che deve essere confutato. A partire da questo si costruisce una tabella ramificata, con enunciati sempre meno complicati: tale costruzione ha un termine, ad esempio quando tutti gli ultimi nodi dei rami contengono soltanto enunciati atomici. A un ramo possono essere aggiunti nodi in base a regole che si riconducono alle seguenti:

Regola α

X∧Y ↓ ⏐ X Y

Regola β

X∨Y ↓

⏐ ⏐ X Y

Giustifichiamo informalmente il procedimento che andiamo a proporre (che peraltro si basa su dimostrazioni rigorose: il metodo si conclude dopo un numero finito di passi; si prova inoltre che tale metodo è sia corretto che completo: detto T un tableau completo per P, l’enunciato P è insoddisfacibile se e soltanto se il tableau T è chiuso).

A∧(¬A), ad esempio, è falso; per rappresentare tale enunciato in un tableau collo-cheremo i suoi componenti (A, ¬A) in uno stesso nodo (per la regola α); la presenza nello stesso nodo di un enunciato e della sua negazione si collega dunque a una situa-zione di falsità. Quindi la contemporanea presenza di A e ¬A in uno stesso nodo rende inutile procedere nell’analisi e il ramo al quale il nodo appartiene viene detto chiuso.

Consideriamo ora le regole precedenti relative ai connettivi ∧, ∨:

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• in quale caso si può dire che X∧Y è falso? Basta che (almeno) uno degli enun-ciati X e Y sia falso. Dunque nel caso di X∧Y, come sopra visto, possiamo effet-tivamente collocare entrambi gli enunciati componenti X, Y nello stesso nodo (regola α); ma nel caso di X∨Y le cose cambiano…

• in quale caso, si può dire che X∨Y è falso? Se e solo se X è falso e contempora-neamente anche Y è falso. Il metodo propone allora creare una biforcazione del grafo (si veda la regola β): infatti non è sufficiente che sia falso uno solo tra X e Y per determinare la falsità di X∨Y, ma è necessario che siano falsi entrambi.

In generale, tutte le regole (di tipo α) che si riferiranno al connettivo ∧ determineranno l’aggiunta di un singolo nodo al tableau; le regole (di tipo β) che si riferiranno a ∨ de-termineranno, graficamente, una biforcazione del tableau, dunque l’aggiunta di due nuo-vi nodi.

Come anticipato, se all’ultimo nodo di un ramo appartengono sia A che la sua nega-zione ¬A, allora il ramo si dice chiuso; quando tutti i rami sono chiusi, il tableau è chiu-so e la confutazione dell’enunciato di partenza è completata. Naturalmente i vari con-nettivi presenti devono essere interpretati mediante regole di tipo α o di tipo β. Ad e-sempio sappiamo che X→Y equivale a (¬X)∨Y; dunque X→Y porta all’uso di una re-gola β.

Illustriamo con un esempio il metodo. Si voglia provare la validità logica dell’enun-ciato:

[(A→B)∧(B→C)]→(A→C).

Dovremo allora confutare la negazione di esso:

¬{[(A→B)∧(B→C)]→(A→C)}

e ciò, come sappiamo, può essere fatto applicando il metodo dei tableaux. Facciamo innanzitutto ricorso alla regola α, in quanto è noto che ¬(X→Y) equivale

a X∧(¬Y). Scriviamo dunque:

¬{[(A→B)∧(B→C)]→(A→C)}

⏐ (A→B)∧(B→C)

¬(A→C) Applichiamo ancora la regola α al primo degli enunciati così ottenuti:

¬{[(A→B)∧(B→C)]→(A→C)} ⏐

(A→B)∧(B→C) ¬(A→C)

⏐ A→B B→C

¬(A→C) nonché all’enunciato ¬(A→C):

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¬{[(A→B)∧(B→C)]→(A→C)} ⏐

(A→B)∧(B→C) ¬(A→C)

⏐ A→B B→C

¬(A→C) ⏐

A→B B→C

A ¬C

Applichiamo quindi la regola β al primo enunciato dell’ultimo nodo (introducendo così una prima biforcazione nel tableau – proprio questo elemento grafico risulterà significa-tivo):

¬{[(A→B)∧(B→C)]→(A→C)} ⏐

(A→B)∧(B→C) ¬(A→C)

⏐ A→B B→C

¬(A→C) ⏐

A→B B→C

A ¬C

⏐ ⏐ B→C B→C

A A ¬C ¬C ¬A B

♦ Il ramo che termina con ¬A (quello a sinistra) è chiuso, in quanto nell’ultimo nodo tro-viamo sia A che ¬A.

Dopo aver contrassegnato con un apposito simbolo (ad esempio “♦”) il ramo chiu-so, è necessario proseguire la formazione del tableau con il solo ramo a destra.

Applichiamo la regola β a B→C (ulteriore biforcazione!):

¬{[(A→B)∧(B→C)]→(A→C)} ⏐

(A→B)∧(B→C) ¬(A→C)

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⏐ A→B B→C

¬(A→C) ⏐

A→B B→C

A ¬C

⏐ ⏐ B→C B→C

A A ¬C ¬C ¬A B

♦ ⏐ ⏐ A A ¬C ¬C B B ¬B C ♦ ♦

I rami formati sono entrambi chiusi: quello a sinistra per la presenza contemporanea di B e ¬B nell’ultimo nodo, quello a destra per la presenza di C e ¬C nell’ultimo nodo. L’enunciato di partenza risulta dunque confutato e ciò significa che la sua negazione, [(A→B)∧(B→C)]→(A→C), è una tautologia.

Torniamo ora alla questione di cui ci stiamo occupando e domandiamoci: qual è il ruolo dell’aspetto grafico (con Peirce potremmo dire “diagrammatico”) in questo proce-dimento? Prima di rispondere osserviamo che:

• per dimostrare la validità logica di un enunciato è possibile ricorrere anche ad al-tri procedimenti, ad esempio al metodo delle tavole di verità. Esso consiste nell’esame, caso per caso, di tutte le combinazioni dei valori di verità attribuibili ai componenti, stabilendo in ciascun caso il valore di verità dell’enunciato com-posto. Tale procedimento può però risultare lungo: per un enunciato con n enun-ciati componenti la costruzione delle tavole di verità porta a esaminare 2n casi;

• la costruzione di un tableau semantico, in generale, non è unica: essa richiede la scelta di alcune “strategie” da parte dell’operatore (ad esempio la scelta di con-siderare i connettivi presenti secondo un ordine particolare, dunque di applicare una regola prima di un’altra), strategie dalle quali può dipendere l’efficacia del metodo. Con ciò non intendiamo dire che la stessa possibilità di ottenere la pro-va della validità logica di un enunciato mediante il metodo dei tableaux richieda l’adozione di specifiche strategie; tuttavia alcune scelte consentono talvolta al-l’operatore di costruire un tableau in termini più veloci e dunque più efficaci di altre (pensiamo all’opportunità di usare una regola di tipo α, che non comporta una biforcazione, prima di una regola di tipo β che la prevede, opzione che può rendere più veloce la costruzione del tableau). Considerazioni analoghe a queste possono essere proposte per i tableaux semantici applicati al calcolo dei predica-ti (non ci occuperemo di ciò; rimandiamo ad esempio a: Ben–Ari, 1998).

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Dunque il ricorso al metodo dei tableaux semantici consente di stabilire la validità logi-ca di un enunciato composto, anche in presenza di numerosi enunciati componenti, in termini veloci ed efficaci, soprattutto se si operano alcune scelte “strategiche” durante l’esecuzione. Queste scelte dipendono da aspetti che si collegano alla visualizzazione del procedimento (ad esempio alla possibilità di evitare ovvero di ritardare le biforca-zioni del grafo), aspetti che Peirce chiamerebbe diagrammatici.

Sottolineiamo una questione: in linea teorica, perfino il metodo delle tavole di verità garantisce la possibilità di stabilire se un enunciato composto è o non è una tautologia. Eppure la caratteristica ora in discussione non è meno importante: si tratta di garantire l’efficacia di un procedimento che, in caso di scelte poco avvedute da parte dell’ope-ratore, può risultare tale da non condurre alle conclusioni in tempi ragionevoli.

Consideriamo inoltre una confutazione “fallita”. Si voglia ad esempio tentare di pro-vare l’insoddisfacibilità di:

P∧[(¬Q)∨(¬P)]

Il metodo delle tavole di verità consente, dopo qualche passaggio, di stabilire che tale enunciato non è insoddisfacibile (cioè non risulta falso per tutte le interpretazioni):

P Q ¬P ¬Q (¬Q)∨(¬P) P∧[(¬Q)∨(¬P)] V V F F F F V F F V V V F V V F V F F F V V V F

Si noti che questo metodo, nonostante la sua lunghezza (nel caso in esame accettabile, ma che per formule più complicate può rivelarsi problematica), non solo ci permette di affermare che la confutazione ipotizzata è impossibile, ma consente di stabilire anche il perché di ciò. Infatti è l’interpretazione esaminata nella seconda riga (con P vero, Q fal-so) a portarci a un enunciato composto, P∧[(¬Q)∨(¬P)], vero.

Ci chiediamo ora: quest’ultima importante informazione può essere ottenuta anche operando con il metodo dei tableaux? Proviamo a costruire il tableau di tale enunciato (lasciamo al lettore il compito di motivare i passaggi, peraltro molto chiari):

P∧[(¬Q)∨(¬P)] ⏐ P

(¬Q)∨(¬P) ⏐ ⏐

P P ¬Q ¬P ♦

Non abbiamo, come previsto, ottenuto un tableau chiuso in quanto tale non risulta il ra-mo a sinistra. Consideriamo ora l’ultimo nodo di questo ramo non chiuso: contiene gli enunciati atomici P e ¬Q. L’informazione veicolata da ciò è preziosa: è infatti immedia-to notare che se P e ¬Q sono entrambi veri, cioè se P è vero e Q è falso, l’enunciato di partenza è vero e dunque abbiamo trovato un’interpretazione che impedisce di conside-rare insoddisfacibile l’enunciato assegnato.

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Pertanto la scelta del metodo dei tableaux rispetto a quello delle tavole di verità non ci ha fatto perdere informazioni importanti. Possiamo dire che l’analisi dei due rami (al posto delle quattro righe) ci ha consentito di “accorpare” alcune interpretazioni il cui esame singolo sarebbe stato poco utile, per valutare l’insoddisfacibilità dell’enunciato composto. Il ramo a destra (chiuso) riassume le ultime due righe della tavola di verità:

P Q ¬Q ¬P (¬Q)∨(¬P) P∧[(¬Q)∨(¬P)] V V F F F F V F F V V V F V V F V F F F V V V F

Per stabilire il valore di verità di P∧[(¬Q)∨(¬P)] quando P è falso non è necessario ana-lizzare i diversi valori di verità assunti dall’espressione tra le parentesi quadre al variare delle interpretazioni: la congiunzione di un enunciato falso e di un qualsiasi altro enun-ciato risulta infatti sempre falsa. È proprio la scelta di procedere per via grafica che si rivela decisiva per accorpare i casi non “singolarmente significativi” e per ottenere la semplificazione del procedimento.

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Parte III Categorie faneroscopiche

III–1. Ragionamento teorematico e corollariale Un aspetto importante del pensiero peirceano è la presenza delle categorie denominate della primità, secondità e terzità che secondo alcuni riprenderebbero le categorie kan-tiane della possibilità, dell’esistenza e della necessità (anche se nel quadro teorico del fi-losofo americano assumono portata più vasta, riferendosi al contempo sia alle modalità in cui si organizza l’attività conoscitiva che alle categorie del reale: Peirce, 1992):

• primità: è la categoria delle pure qualità e possibilità, dello spirito. Come cate-goria dell’esperienza è una sensazione, non ancora collegata a un ben preciso e-sistente. È la categoria del presente immediato.

• secondità: è la categoria della realizzazione, della materia. È dunque collegata a ciò che accade e che quasi vincola il soggetto. Essendo la categoria dell’appena percepito, si riferisce al passato.

• terzità: è infine la categoria della mediazione, del segno e della razionalizzazio-ne. Pertanto considera anche i due aspetti precedenti (possibilità qualitativa e fat-to) e per alcuni versi li sintetizza, ma non va identificata semplicemente con il loro accostamento. Può riferirsi al futuro, in quanto una finalità influisce sull’a-zione con la mediazione della coscienza.

A queste categorie possiamo ricondurre i tre tipi fondamentali di segno della semiotica peirceana. In particolare, l’icona, segno collegato alla sensazione immediata di pura ras-somiglianza, si riconduce alla primità; l’indice, segno che si connette al proprio oggetto mediante una “concreta” relazione di causa ed effetto, alla secondità; il simbolo, il cui rapporto con l’oggetto è mediato da una legge, da una convenzione, alla terzità.

Torniamo ora alla questione introdotta nelle sezioni precedenti seguendo Marietti (2001, pp. 63–64):

Il diagramma, strumento principe della matematica, non è un concetto generale, volto a raffigurare i tratti comuni di una pluralità di enti matematici. Piuttosto, esso è un’im-magine singolare dello specifico stato di cose investigato. Per usare una formula più puntuale, definiamo allora il diagramma come “un sistema di elementi individuali in re-lazione tra loro”. È con degli individui che il matematico ha a che fare quando lavora alle proprie strategie, costruisce una figura supplementare, modifica il sistema di rela-zioni iniziale. […] Ora, però, quando la catena inferenziale sarà portata a termine, l’argomento si riapproprierà dei termini generali di partenza, e il teorema dimostrato potrà a buon diritto essere dichiarato valido.

Il problema cruciale sarà proprio quello di controllare l’ultima fase: come l’argomento introdotto operando su di un diagramma potrà “riappropriarsi” delle essenziali caratteri-stiche di generalità? Marietti (2001, p. 64) insiste su questo aspetto fondamentale:

Il lavoro del matematico si svolge sopra un diagramma particolare. Ma, se questo sarà stato costruito secondo i dettami delle premesse generali, e se inoltre nessun carattere individuale eccetto quelli comuni all’intero ambito di generalità sarà stato utilizzato nel

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ragionamento, le conclusioni raggiunte non potranno che risultare valide per qualsiasi elemento del dominio concettuale di partenza.

Questa descrizione, sostanzialmente condivisibile, merita di essere sviluppata in termini più dettagliati. Rimane infatti aperto il problema dell’individualità dell’oggetto sul quale si sviluppa una dimostrazione, contrapposta all’universalità delle conclusioni (Bagni, 2007): in effetti, come precedentemente notato, una dimostrazione matematica (e par-liamo sia con riferimento alla ricerca che pensando a situazioni di insegnamento–ap-prendimento), con la sua fondamentale universalità, non può ridursi a un diagramma i-conico se non si approfondisce il problema della generalità di quanto viene provato.

Sarebbe ad esempio sufficiente esibire una figura (un diagramma) come la seguente:

per considerare senz’altro “dimostrato” il Teorema di Pitagora? Questa particolare figu-ra riguarda un ben preciso triangolo rettangolo, non “tutti” i triangoli rettangoli (a os-servazioni di questo genere si collegano molte esperienze didattiche aventi a che fare con la considerazione – non raramente impropria – di “casi particolari” da parte degli studenti). E notiamo che la generalità alla quale cerchiamo di fare riferimento non è una sorta di “somma di (infiniti) casi particolari”. Afferma Wittgenstein in una lezione del 1930 al Trinity College di Cambridge (Wittgenstein, 1995, lezione A–X, n. 4, p. 35) a proposito di una dimostrazione “generale”:

Una generalità che abbia un’infinità di casi particolari è di una specie totalmente diffe-rente da questa. Essa non asserisce un numero infinito di proposizioni. Una prova eu-clidea non è infinitamente complessa. La prova che gli angoli interni di un triangolo sono uguali a 180° è una prova che concerne lo spazio e non già un qualunque triango-lo particolare.

Per uscire da questo dilemma, da questa tensione tra simbolo (generale) e icona (legata inevitabilmente a una specifica individualità), possiamo notare con Peirce che se da un lato un diagramma ha senza dubbio le caratteristiche di un’icona, dall’altro dovrà asso-ciarsi, come ogni segno, a un interpretante. Proprio questo interpretante, di carattere simbolico, avrebbe le volute caratteristiche di generalità (Wittgenstein, 1995, p. 60).

Possiamo dunque riassumere quanto descritto in una sequenza di fasi:

• inizialmente ci troviamo di fronte a un enunciato (ad esempio di un teorema ge-ometrico) che può essere considerato un segno di carattere simbolico;

• questo enunciato simbolico ha come interpretante un diagramma, di carattere i-conico, che traduce l’enunciato stesso in base ad alcune convenzioni;

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• ma il diagamma–icona è a sua volta un segno e determina un nuovo interpretante simbolico; esso è universale quando viene recepito alla luce della stessa “inten-zione convenzionale” che aveva portato alla costruzione del diagramma.

Così si completano gli schemi delle dimostrazioni descritte nella sezione precedente:

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Secondo l’approccio ora tratteggiato (anche se Peirce non spiega dettagliatamente le modalità di quest’ultimo passaggio) il momento iconico, cioè il diagramma, costituireb-be una fase transitoria fra i due momenti simbolici, fase della massima importanza in quanto consente la realizzazione di elaborazioni su di essa; e queste elaborazioni fini-scono per riferirsi alla forma generale grazie all’ “intenzione convenzionale” che collega l’enunciato (simbolico) al diagramma (iconico).

Non intendiamo affermare senz’altro che la descrizione ora proposta sia tale da e-saurire ogni problema. Alcuni punti meriterebbero una discussione critica approfondita: che cos’è, ad esempio, l’ “oggetto” iniziale, quel “contenuto matematico” che viene rap-presentato dal primo segno simbolico? («L’oggetto matematico non sussiste al di qua della propria capacità di divenire un segno, di garantirsi esistenza presso un interpretan-te», osserva Marietti, 2001, p. 139). Inoltre: in che modo l’ “intenzione convenzionale” collega il diagramma all’enunciato simbolico e alla dimostrazione? Come sopra notato, neppure in Peirce troviamo una descrizione esauriente di questa fase cruciale.

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Appare tuttavia difficile eludere il ricorso essenziale al diagramma, sia nelle varie fasi di ricerca che nelle situazioni di insegnamento–apprendimento: il lavoro del mate-matico è spesso ricondotto alla realizzazione di strategie inferenziali sulla materialità del diagramma, sulla sua concretezza individuale (Marietti, 2001, p. 122). Inoltre, come anticipato, possiamo rilevare alcuni elementi interessanti: un segno (l’enunciato) porta a considerare utilmente altri segni (il diagramma) mediante i quali si sviluppa il processo semiotico e, in ultima analisi, viene ottenuta la dimostrazione; inoltre il “contenuto ma-tematico” rappresentato (sempre ammettendo di attribuire a ciò una qualche realtà) si lega in termini decisivi con i vari segni, di carattere sia iconico che simbolico.

In questa descrizione, comunque, Peirce identifica il “fare matematica” con un pro-cesso che coinvolge, alternativamente, sia simboli che icone. Un simile approccio apre numerose questioni (è interessante domandarsi, ad esempio, se la stessa costruzione di un diagramma, nell’accezione peirceana, possa essere considerata alla stregua di una presupposizione). L’aspetto propriamente didattico si inserirà in questo quadro teorico con caratteristiche nuove e specifiche. Una citazione di Peirce (1981, pp. 170–171) ci sarà utile per introdurre un elemento molto importante in ottica didattica:

Per lungo tempo è stato considerato enigmatico il fatto che la matematica da un lato sia di natura puramente deduttiva e tragga le sue conclusioni in modo apodittico e, d’altro lato, presenti una serie assai ricca e apparentemente senza fine di scoperte come ogni scienza di osservazione. Molteplici tentativi sono stati compiuti per sciogliere il para-dosso facendo cadere ora l’una ora l’altra delle precedenti affermazioni, e però senza alcun successo.

Peirce intende superare questo dualismo e propone una distinzione tra ragionamento te-orematico e ragionamento corollariale. Il riferimento si mantiene a un diagramma («non si può prescindere dall’oggetto di osservazione che il diagramma costituisce», ri-badisce Marietti, 2001, p. 84): Peirce nota che un teorema non banale viene molto spes-so dimostrato facendo ricorso a un’idea estranea al diagramma (ad esempio a una figu-ra) costruita sulla base delle ipotesi: «solamente dei corollari minori nei quali nessuna nuova idea viene introdotta, sono dimostrabili per mezzo di una deduzione che non fac-cia uso di costruzioni supplementari» e dunque «il ragionamento corollariale si limita a rendere conto di un contenuto già in qualche forma presente nelle premesse della dimo-strazione» (Marietti, 2001, pp. 48–49). Ma, nota Gadamer (1996, p. 164),

Le costruzioni artificiali […] che rendono possibile per così dire una dimostrazione ge-ometrica, non vengono dedotte dalla cosa stessa con necessità. Esse debbono prima ve-nire in mente a chi dimostra, anche se la loro esattezza viene infine resa evidente dalla dimostrazione.

Torniamo ad Aristotele (Metafisica Θ 9, 1051 a 21–24; seguiremo: Reale, 2004, p. 427):

Anche i teoremi di geometria si dimostrano per mezzo dell’atto, infatti si dimostrano operando delle divisioni nelle figure. Se queste divisioni fossero già operate, quei teo-remi sarebbero immediatamente evidenti; invece sono contenute nelle figure solamente in potenza.

Lo Stagirita introduce due esempi: riportiamo il primo di essi (Metafisica Θ 9, 1051 a 25–27: Reale, 2004, p. 427):

Perché gli angoli del triangolo assommano a due retti? Perché gli angoli intorno a un punto su una retta sono uguali a due angoli retti. Se, infatti, fosse già tracciata la paral-lela a un lato del triangolo, alla semplice visione la cosa risulterebbe immediatamente evidente.

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Dunque Aristotele si riferisce a un’iniziale rappresentazione come la seguente (Reale, 2004, p. 1142):

Questa prima figura rappresenta la situazione geometrica alla quale l’enunciato si riferi-sce, ma non consente ancora di condurre la dimostrazione del teorema proposto.

Tuttavia intervenendo creativamente su di essa e costruendo le due semirette indica-te nella figura seguente (la scelta illustrata non è da considerarsi obbligatoria)

la dimostrazione appare facilmente ottenibile, ricordando le ben note congruenze degli angoli alterni interni e degli angoli corrispondenti formati da una coppia di rette paralle-le tagliate da una trasversale. Il ruolo decisivo della costruzione della retta parallela al lato del triangolo comune agli angoli α e β appare fuori discussione.

Questa fase creativa viene talvolta collegata all’inferenza denominata abduzione. Com’è noto in Peirce vengono analizzati tre tipi di inferenza: la deduzione, l’induzione e l’abduzione. Un’inferenza di tipo abduttivo è schematizzabile nei termini seguenti:

Ogni x di tipo A ha la proprietà B (regola) x ha la proprietà B (risultato)

x è di tipo A (caso)

(in cui la conclusione – non certa, soltanto plausibile – è riportata nell’ultima riga). Il momento creativo del ragionamento teorematico, secondo Marietti (2001, pp. 53) deve collegarsi a «un passaggio di ordine abduttivo. Ed è ovviamente nella costruzione sup-plementare che questo passaggio va ricercato».

Nonostante l’indicazione del carattere abduttivo della “costruzione supplementare” che caratterizza il ragionamento teorematico possa non essere chiarissima, riprendiamo l’esempio relativo alla somma degli angoli interni di un triangolo per evidenziare il ruo-lo e le modalità di tale costruzione. In particolare, isoliamo una fase intermedia tra il diagramma originale e quello “elaborato” (nel quale risulta evidente la dimostrazione):

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Una questione importante è: nel momento in cui vengono tracciate le semirette che con-sentiranno di applicare i noti teoremi sulla congruenza degli angoli che si formano ta-gliando una coppia di rette parallele con una trasversale, l’operatore (il matematico, lo studente) è già consapevole di come la dimostrazione verrà condotta? Oppure la costru-zione stessa viene a essere tale da “suggerire” la strategia dimostrativa? Non è semplice assumere una delle due posizioni ora delineate. Indubbiamente i due momenti

costruzione “supplementare” nel diagramma

argomentazione dimostrativa

(uso del diagramma modificato)

si influenzano a vicenda: potremmo tornare a quella «spirale aperta, costituita da ripetuti cammini interpretativi che devono essere sempre ritenuti passibili di una nuova revisio-ne», nelle parole di Jung (2002, p. 59). In diversi scritti Peirce fa riferimento a un “istin-to ipotizzante” (guessing instinct) che ci spingerebbe a formulare congetture.

Ci troviamo insomma in una situazione nella quale non è difficile ravvisare analogie con il circolo ermeneutico: da un lato, l’operatore traccia nel diagramma alcune nuove linee che gli consentiranno di applicare un’argomentazione; ma dall’altro proprio la pre-senza di questa argomentazione può suggerire il tracciamento di quelle linee. La “co-struzione supplementare” che si suppone utile per realizzare la dimostrazione è dunque l’elemento che consente di forzare il circolo? È assimilabile a una presupposizione?

Forse associare in termini troppo decisi il ragionamento teorematico e le presuppo-sizioni heideggeriane può costituire un’operazione teorica rischiosa, non del tutto fonda-ta: la stessa nozione di interpretazione, in Peirce, ha una portata diversa, in generale, dalla classica interpretazione ermeneutica (Eco & Sebeok, 2000; Eco, 2004). Studi spe-cialistici sul pensiero di Peirce potranno affrontare questo e altri problemi. Preferiamo qui concentrarci sulle connessioni che l’intervento sul diagramma stabilisce tra il “con-tenuto matematico” e la prassi (Marietti, 2001, p. 143):

Il teorema matematico, che non costituisce affatto una proposizione solo interna ai con-fini dell’intelletto, si mischia invece in senso forte con il livello della prassi, stabilendo il proprio significato sulle azioni sperimentali che vengono indotte dal sistema matema-tico arricchito dalla sua acquisizione.

L’arricchimento del “sistema matematico”, determinato dal momento abduttivo, induce dunque delle azioni. E questa considerazione può assumere una valenza notevole in am-bito didattico, in particolare nell’inquadramento dei processi mediante i quali i nostri al-lievi comprendono la matematica. III–2. Esempio. Geometria e triangoli di cartone Come abbiamo visto, Peirce sottolinea spesso l’importanza dell’icona e la didattica del-la matematica recepisce tale posizione: il ricorso a metodi grafici, dunque al ragiona-mento diagrammatico, è fondamentale (come notato, anche in ambiti tradizionalmente

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riservati all’espressione simbolica, come l’algebra o la logica). Tutto ciò non deve però indurci a sottovalutare l’importanza della secondità, cioè del segno di tipo indicale.

Riprendiamo il teorema che afferma che la somma degli angoli interni di un triango-lo è di un angolo piatto, sopra citato. In tale prospettiva, il segno in gioco, cioè il dia-gramma, è di tipo iconico e il processo dimostrativo viene schematizzato come segue (in termini analoghi a quanto fatto precedentemente):

La dimostrazione elogiata da Aristotele non è però l’unica via che può condurci, in am-bito didattico, a giustificare l’affermazione in gioco. Potremmo ad esempio “costruire” un triangolo in cartoncino e “ritagliare” i suoi angoli (le “punte”, come dicono gli stu-denti molto giovani…), disponendoli poi in modo da formare un angolo piatto. Avrem-mo in tale caso uno schema come il seguente:

Qual è la differenza tra i due modi di argomentare? Quest’ultimo è certamente utile per convincere gli allievi che nel caso del triangolo in esame la somma degli angoli interni è pari a un angolo piatto: nulla di meglio che una verifica concreta, diretta (anche se si potrebbero avanzare dei dubbi, ad esempio, sulla precisione del procedimento). Ma la sua generalizzazione appare problematica. Perché, infatti, il segno fortemente caratteriz-zato dall’aspetto indicale dovrebbe indurre un (secondo) interpretante generale e simbo-

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lico? Perché, insomma, ritagliando gli angoli di un altro triangolo (di un qualsiasi trian-golo) dovrei ottenere un risultato analogo a quello ora rilevato? Il punto debole del pro-cesso sembra essere questo…

Una strada “intermedia” tra un approccio diagrammatico e uno legato alla concre-tezza potrebbe ricondursi a una terna di “piegature” come quelle illustrate nella figura:

Tali piegature potrebbero essere realizzate concretamente su di un modello in cartonci-no, ma anche rappresentate mediante un diagramma, grazie al quale evidenziare le con-gruenze di alcuni angoli (dimostrabili considerando le proprietà di simmetria).

Il processo, in questo caso, può essere rappresentato con lo schema seguente:

Notiamo che privilegiando l’aspetto diagrammatico si ottiene una sequenza di fasi vici-na a quella descritta da Aristotele. Facendo invece riferimento solo alla concretezza del-le “piegature” si andrebbe incontro a una situazione più vicina a quella sopra esaminata, difficilmente generalizzabile. III–3. Esempio. il “meccanismo” di Wittgenstein Un esempio tratto dagli scritti di uno dei più importanti filosofi del Novecento ci porterà a riflettere ancora sul ruolo della secondità. In alcuni celebri passi delle Osservazioni sopra i fondamenti della matematica, opera pubblicata nel 1956, Wittgenstein descrive un dispositivo meccanico (mechanism) mediante il quale è possibile “suggerire” o “de-terminare” la dimostrazione di una proposizione (Wittgenstein, 1971, § III–49, p. 168 e

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§ V–51, p. 256). Un primo accenno alla questione si trova nella III parte del lavoro (il ri-ferimento è alla figura seguente, tratta da Wittgenstein, 1971, § III–49, p. 168):

Supponiamo che io abbia davanti a me le fasi del movimento di

sotto forma di immagine. Questo mi aiuta a formulare una proposizione che io ricavo, per così dire, dalla lettura di quest’immagine. […] È strano che dalla lettura di un’immagine si debba poter ricavare una proposizione. Tuttavia la proposizione non trat-ta dell’immagine che io vedo. Non dice che in quest’immagine si può vedere questo e quest’altro. Ma non dice nemmeno che cosa farà il meccanismo reale, per quanto lo fac-cia capire.

Wittgenstein riprenderà l’argomento, con alcune significative variazioni, nel paragrafo conclusivo del libro (Wittgenstein, 1971, § V–51, p. 256):

Considera un meccanismo:

Mentre il punto A descrive un cerchio, B descrive una figura a forma di otto. Questa proposizione la scriviamo come una proposizione della cinematica. Mettendo in moto il meccanismo, il suo movimento mi prova la proposizione, proprio come farebbe una co-struzione disegnata sulla carta. La proposizione corrisponde, poniamo, a un’immagine del meccanismo in cui siano disegnate le traiettorie descritte dai punti A e B. Dunque, per un certo aspetto, la proposizione è un’immagine di quel movimento. Tien fermo ciò di cui la prova mi convince.

L’enfasi, ora, non è più sulla possibilità che la raffigurazione del meccanismo avrebbe di suggerire la proposizione, ma sul fatto che «la proposizione è un’immagine di quel movimento». Non c’è il riferimento a una semplice indicazione: è il movimento stesso che «prova la proposizione». Prosegue Wittgenstein: «Se la prova registra il procedere secondo la regola allora, così facendo, produce un nuovo concetto». La conclusione è importante: «La prova deve mostrare il sussistere di una relazione interna […] perché la relazione interna è l’operazione che produce una struttura dall’altra […] – così che il passaggio conforme a questa successione di immagini è, eo ipso, un passaggio confor-me a quelle regole di operazione» (Wittgenstein, 1971, § V–51, p. 256).

Le Osservazioni sopra i fondamenti della matematica furono accolte dalla comunità scientifica con reazioni diverse. Già G. Kreisler, nel commentare la prima edizione, notò criticamente come Wittgenstein ritenesse «che tutti i problemi filosofici significativi [per la matematica] si manifestino al livello dei calcoli elementari», con successive «in-controllate generalizzazioni da questa limitata regione della matematica alla matematica

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in generale» (Kreisler, 1958, p. 135, traduzione nostra). Nonostante la validità di tale osservazione, è evidente la precisa volontà di Wittgenstein di concentrare il proprio ap-proccio sull’aspetto fondazionale. E tale approccio non esclude il ruolo dell’immagine: tra il funzionamento fisico e la proposizione matematica si colloca la mediazione essen-ziale della rappresentazione visuale.

Proprio questo collegamento può essere discusso in termini critici, in quanto la figu-ra riportata da Wittgenstein non è particolarmente accurata: ad esempio la figura “a ot-to” descritta dal punto B quando A si muove sulla circonferenza tratteggiata dovrebbe risultare simmetrica rispetto alla retta passante per il centro di tale circonferenza e per il punto per il quale l’asta è vincolata a scorrere (inoltre, quando A si trova nella posizione indicata, B, invece di essere disegnato nella posizione a destra, dovrebbe trovarsi al cen-tro della figura “a otto”: Brown, 1999, pp. 131–132).

Dal punto di vista didattico, inoltre, il grafico di Wittgenstein, presentato in un’aula scolastica, potrebbe indurre a qualche conclusione scorretta: ad esempio, potrebbe far pensare a una traiettoria del punto B simmetrica non solo rispetto alla retta passante per il centro del cerchio e per il punto per il quale l’asta è vincolata a passare (nella figura seguente, il punto S), ma anche rispetto al punto S stesso. Invece questa simmetria cen-trale non c’è: anche scegliendo le caratteristiche della figura (e quindi “del meccani-smo”) in modo che il segmento ES sia congruente a SF, si nota che i due “anelli” che costituiscono la figura “a otto” non risultano congruenti.

Limitare l’approccio di Wittgenstein a una componente iconica, in cui il segno sia lega-to al proprio oggetto da una semplice somiglianza, sarebbe però riduttivo. Senza dubbio la figura riportata nel testo è un’icona, relativamente al meccanismo. Ma è (solamente) quella raffigurazione a suscitare l’interpretante che chiamiamo “prova della proposizio-ne”? È insomma la sola figura a “dimostrare” la proposizione in esame?

Ricordiamo che nella sezione III delle Osservazioni sopra i fondamenti della mate-matica si parla dell’immagine come di un elemento che «aiuta a formulare una proposi-zione», e tale immagine «non dice nemmeno che cosa farà il meccanismo reale, per quanto lo faccia capire» (Wittgenstein, 1971, § III–49, p. 168). Ma nell’ultima parte dell’opera Wittgenstein passa direttamente dal suggerimento dato dall’immagine alla concreta esecuzione del movimento del “meccanismo”: «Mettendo in moto il meccani-smo, il suo movimento mi prova la proposizione, proprio come farebbe una costruzione disegnata sulla carta» (Wittgenstein, 1971, § V–51, p. 256). Se dunque l’importanza del-la “costruzione disegnata sulla carta” non viene accantonata, a questo punto si ricorre esplicitamente a qualcosa di nuovo, a una pratica “esecuzione” come elemento di prova. È l’aspetto concreto, dunque un segno di tipo indicale, che assume il ruolo principale.

Potremmo pertanto ipotizzare una situazione come la seguente: da un lato l’im-magine del meccanismo rappresenta iconicamente il meccanismo stesso (pensiamo alla

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prima figura riportata nell’opera di Wittgenstein), meccanismo nel quale è “incorpora-to” il contenuto matematico (e possiamo qui ricordare le “procedure oggettualizzate” esaminate in Giusti, 1999, p. 26). Ma qual è l’interpretante? Quale reazione tale imma-gine provoca in chi è chiamato a interpretare?

Ci aiuta a rispondere lo stesso Wittgenstein che in Causa ed effetto (una raccolta di note tratte da un manoscritto del 1937), osserva (Wittgenstein, 2006, pp. 26 e 27):

Usiamo la macchina, o l’immagine di una macchina, come simbolo di un determinato modo di funzionare. […] Potremmo dire che la macchina, o la sua immagine, stanno all’inizio di una successione di immagini che noi abbiamo imparato a derivare da quest’immagine.

C’è un collegamento stretto tra l’immagine della macchina e la macchina concreta, dun-que il suo funzionamento. L’interpretante che si collega all’iniziale rappresentazione i-conica può essere il meccanismo in movimento (e possiamo qui anche pensare alla se-conda immagine proposta da Wittgenstein). Ma questo interpretante, come sappiamo, è a sua volta un segno e come tale deve essere interpretato. È nella considerazione e nel-l’interpretazione di questo ulteriore segno, il meccanismo in movimento, che emerge il ruolo della categoria della secondità, dell’aspetto indicale: il meccanismo in movimento descrive fisicamente la traiettoria.

Nella figura si evidenziano il percorso che porta dal meccanismo concreto che incorpora il “contenuto” matematico all’immagine di tale meccanismo, quindi alla seconda imma-gine che evoca il meccanismo in movimento e infine alla proposizione (si noti che in questo schema e in quello seguente il “meccanismo in movimento” è collegato alla se-conda immagine di Wittgenstein; potrebbe essere opportuno sostituire tale immagine o-riginale – che abbiamo notato essere inesatta – con la sua versione corretta).

Osserviamo che questo schema differisce leggermente da quello riportato preceden-temente, riferito alla dimostrazione del teorema di Pitagora. In quel primo schema infatti il “contenuto” matematico era espresso da un enunciato (di tipo simbolico) e generava un interpretante iconico, il diagramma.

Per mantenersi aderenti a quell’impostazione si potrebbe sostituire allo schema ora proposto quello seguente, in cui si evidenzia che il “contenuto matematico” viene e-spresso simbolicamente dall’enunciato e quindi dal meccanismo concreto:

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Quest’ultimo schema analizza il processo in un modo più completo rispetto a quanto fatto con lo schema precedente. Ma i due modi di esprimere la situazione differiscono per la considerazione data al “contenuto” matematico: nel secondo è infatti necessario accettare un riferimento forte, esplicito a un “oggetto” matematico, riferimento che nel primo schema è sostituito dal ricorso alla “procedura oggettualizzata” (Giusti, 1999). Il lettore è libero di optare per uno schema particolare, ricordando peraltro che l’interpre-tazione di una rappresentazione può essere condotta, in generale, in modi diversi.

Torniamo alla pratica didattica. Consideriamo due diverse versioni di un problema (liberamente ispirato a un quesito degli Esami di Maturità Scientifica 1993):

• P (cosθ; senθ) appartiene alla circonferenza di centro O (0; 0) e raggio OA con A (1; 0). Il punto Q (0; yQ) appartiene al semiasse maggiore delle ordinate e PQ è il doppio del raggio. Determinare il mas-simo e il minimo assunti da yQ al variare di θ.

• Il disco di centro O e raggio OA di misura unitaria ruota intorno a O. P appartiene al bordo di tale disco. Una semi- retta di origine O è perpendicolare a OA. La sbarra PQ è lunga il doppio del rag-gio e Q è vincolato a muoversi sulla semiretta data. Trovare i valori massimo e minimo assunti da OQ (il riferimento è alla seconda immagine).

Alcune esperienze didattiche hanno mostrato che risolvendo il problema nella prima versione gli allievi (studenti della V classe del Liceo Scientifico) tendono a ricavare e a studiare dettagliatamente la funzione espressa da:

y = sinθ+(sin2θ+3)1/2

il cui diagramma cartesiano è riportato nella figura seguente. Tale funzione è:

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• massima per θ = π/2, in tal caso risulta y = 3 (massimo richiesto dalla traccia) • minima per θ = 3π/2, in tal caso risulta y = 1 (minimo richiesto dalla traccia)

Questo procedimento, tuttavia, viene non raramente eluso quando la risoluzione si rife-risce alla seconda versione della traccia. In tale caso molti allievi danno le risposte

ymax = 3 ymin = 1

senza ricorrere allo studio completo della funzione e al tracciamento del suo grafico. Naturalmente è importante considerare qui l’influenza del contratto didattico: nella

prima versione, la presenza di un sistema cartesiano e l’indicazione esplicita della va-riabile (l’ampiezza dell’angolo AOP, θ) inducono gli allievi a inquadrare il problema come un tradizionale studio di funzione, esercizio tra i più diffusi per la V classe del Li-ceo Scientifico italiano. È comunque interessante osservare che spesso il riferimento a un “disco” rotante, dunque a un “meccanismo concreto”, svincola gli studenti dall’ap-plicazione di una procedura sostanzialmente non necessaria. III–4. Strumenti iconicamente consistenti Il ruolo didattico della scelta di considerare un movimento fisico connesso a una propo-sizione matematica potrà essere esaminato in ulteriori ricerche. Ma ci sembra significa-tivo sottolineare che, plausibilmente, dal novero dei registri mediante i quali esprimere un contenuto matematico non deve essere escluso il ricorso alla concreta causalità. Que-sto aspetto può spingersi oltre l’esempio illustrato nel paragrafo precedente, riferito a una situazione geometrica sostanzialmente abbastanza semplice: può superare la fase della dimostrazione di un risultato già intuito per consentire l’esplorazione di situazioni più complicate e dunque la formulazione di congetture.

La considerazione di una prospettiva indicale può utilmente riflettersi in un costrutto teorico introdotto alcuni anni fa da Yves Chevallard (1989; si veda inoltre: Chevallard, 1990) che scrive (la traduzione è nostra): «La matematica implicita è […] la matematica “incorporata”, “cristallizzata” o “congelata” in oggetti di tutti i tipi – matematici e non

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matematici, materiali e non materiali –, per la produzione dei quali essa è stata usata e “consumata”. […] La quantità di matematica cristallizzata presente in un oggetto è pre-cisamente quanto io chiamo grado (o contenuto, o tenore) matematico di tale oggetto» (Chevallard, 1989, p. 50).

Al tenore matematico dell’oggetto si affianca il “valore” di esso, cioè la quota di at-tività e di tempo necessaria per predisporre e per utilizzare tale oggetto; e «mentre il grado degli strumenti matematici aumenta progressivamente, il loro valore matematico […] diminuisce» (Chevallard, 1989, p. 52). Questo duplice processo (che Chevallard chiama “mathematisation/demathematisation”: Chevallard, 1989, p. 52) porta a una «“semplificazione” degli oggetti matematici, consistente nell’incorporare in essi (espli-cita) matematica, ovvero nel mutare matematica “viva” in matematica morta, cristalliz-zata» (Chevallard, 1989, p. 53).

Dal punto di vista didattico, il ricorso all’indicalità (ovvero, e più in generale, alla secondità) può essere considerato un tentativo di utilizzare uno strumento caratterizzato da un minore grado matematico. Ciò può avere alcuni aspetti degni di nota: innanzitutto il ricorso a uno strumento dal grado matematico (eccessivamente) elevato può compor-tare un inutile approfondimento della trattazione (nel caso visto nel paragrafo preceden-te, lo studio di funzione appare certamente “sovradimensionato” rispetto a quanto ri-chiesto dalla traccia). Se si fa inoltre riferimento a una ben determinata attività matema-tica, è plausibile supporre che una risoluzione ottenuta mediante uno strumento caratte-rizzato da un minore grado matematico richieda un maggiore “valore” aggiunto da parte dell’operatore. Ulteriori ricerche potranno essere dedicate a questo aspetto.

Resta un punto importante da chiarire: quelle descritte sono veramente delle “scel-te”? L’essere umano (l’allievo che vive all’interno di una società) può liberamente pre-ferire un registro semiotico rispetto a un altro? Addirittura, è indotto o costretto a farlo? Qual è il ruolo di elementi extra–scolastici, del contesto culturale, della tradizione? Se in alcune situazioni la presenza di un momento creativo (della fase abduttiva, direbbe Peirce) implicasse, ad esempio, il ricorso al ragionamento diagrammatico, oppure l’uso di strumenti concreti, la didattica della nostra disciplina e lo stesso avanzamento della matematica dovrebbero tener conto di ciò in termini urgenti.

Non dimentichiamo inoltre che i vari contenuti matematici possono essere diversa-mente “idonei” a un certo tipo di rappresentazione. Il frequente uso della rappresenta-zione, in particolare, iconica nella didattica della matematica suggerisce di esaminare questo aspetto con attenzione. Ad esempio, la funzione di Dirichlet che assume valore 1 per x reale razionale e valore 0 per x reale non razionale non è integrabile secondo Rie-mann per nessun intervallo di integrazione di ampiezza non nulla, ma è integrabile se-condo Lebesgue (e il suo integrale vale 0). Ebbene, il grafico della funzione di Dirichlet non può essere disegnato correttamente, se non per un numero finito di punti. Questa osservazione ci porta a supporre che lo strumento matematico “integrale secondo Lebe-sgue” si colleghi alle rappresentazioni iconiche in termini meno diretti rispetto allo strumento “integrale secondo Riemann” che possiamo dunque dire più iconicamente consistente.

In generale si può notare che contenuti matematici di “livello elevato” (di alto grado matematico) sembrano meno suscettibili di un efficace collegamento a segni di tipo ico-nico, dunque sarebbero meno iconicamente consistenti. Tuttavia questa posizione do-vrebbe essere approfondita, anche dal punto di vista didattico: si pensi alla nozione di curva, termine che può riferirsi a linee familiari e tracciabili senza difficoltà ma anche alla curva di Peano–Hilbert…

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Ci limitiamo infine a osservare che l’importanza dell’iconicità deve essere considerata anche in relazione a espressioni (anche di contenuti matematici) che non si riducono a una tradizionale figura. Ricordiamo ad esempio che F. Arzarello e O. Robutti (2004, p. 307) definiscono “gesti iconico–rappresentazionali” dei gesti che si riferiscono «a rap-presentazioni grafiche di fenomeni». L’analisi del ruolo di elementi come questo è di grande importanza nella didattica della matematica.

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Parte IV Assenza e presenza

IV–1. Dialettica assenza–presenza: la lezione di Hegel Dopo aver introdotto e discusso alcune posizioni riconducibili, in diversi modi, all’in-terpretazione della matematica, della sua storia e dei segni mediante i quali essa viene espressa, in questa sezione ci occuperemo di un altro momento in cui ricercatori, inse-gnanti e studenti di matematica sono chiamati a interpretare. Anticipiamo che il “segno” di cui andremo a occuparci dovrà essere considerato per molti versi atipico (difficilmen-te inquadrabile nella classificazione triadica peirceana icona–indice–simbolo). Ma, co-me vedremo, il suo ruolo nell’elaborazione e nella trasmissione del sapere matematico potrà risultare vivace e stimolante. Questo “segno” è l’assenza.

Parlando di inferenze abduttive si considerano dei processi in cui dall’osservazione Θ si passa a ricercare una regola H→Θ, dunque in grado di spiegare Θ nell’ipotesi di un caso H; quindi si inferisce che plausibilmente la presenza di Θ suggerisce che siamo nel caso H (spunti importanti possono essere tratti da: Arzarello, Olivero, Paola & Robutti, 1999). Abbiamo in particolare esaminato la situazione di uno studente che cerchi atti-vamente fra le proprie conoscenze una regola adatta a “spiegare” l’osservazione (il sog-getto “esplora la teoria”), ovvero che provi a costruirne una (il soggetto “opera nella te-oria”). Pertanto chi osserva il risultato Θ è tenuto a cercare una regola: regola che, in una prima fase, manca.

Prima di discutere il ruolo didattico dell’ “assenza” proporremo alcune considerazio-ni teoriche. Il lettore che ci ha seguito finora si sarà reso conto che la nostra posizione, generalmente, non si identifica con l’idealismo. Tuttavia la dialettica di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770–1831) ci conduce verso considerazioni delle quali una riflessione sulla matematica e sulla sua didattica può (deve) tener conto, qualsiasi sia l’approccio teorico sul quale essa si basa (i legami tra ermeneutica e dialettica sono discussi in ter-mini stimolanti in: Bubner, Cramer & Wiehl, 1970; Gadamer, 1996). Con la celebre sin-tesi degli opposti, Hegel insegna che non si comprende un concetto senza la sua nega-zione (si veda ad esempio l’importante – anche dal punto di vista didattico – introduzio-ne dello spazio nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche, Hegel, 2000, pp. 435–439). E nota Gadamer (1996, p. 38):

Leggere esattamente ha in Hegel – e non soltanto in Hegel – sempre la strana conse-guenza che proprio ciò che si è raggiunto in faticosi tentativi di interpretazione del pas-so letto viene descritto espressamente nel passo susseguente del testo.

È del resto possibile constatare che la considerazione di due impostazioni teoriche op-poste determina spesso una situazione culturalmente produttiva. Ciò accade, per quanto riguarda in generale la matematica, in diversi momenti e con riferimento a diversi ap-procci: ad esempio l’idea di una teoria realista del significato (non solo in rapporto agli “oggetti” matematici, naturalmente) si contrappone a quella di una teoria pragmatica già con le osservazioni di Franz von Kutschera (1971: D’Amore & Godino, 2006, pp. 10–13, e 2007); nella riflessione sui fondamenti della didattica della matematica, il confron-to dei punti di vista antropologico e ontosemiotico viene discusso da Bruno D’Amore,

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Vicenç Font e Juan Godino (2007), portando a una riflessione di notevole ampiezza. I diversi usi didattici dei riferimenti storici secondo Guy Brousseau e secondo Luis Ra-dford (esaminati in Radford, Boero & Vasco, 2000) mettono in evidenza sia le opportu-nità che i limiti delle due impostazioni (D’Amore, Radford & Bagni, 2006).

Proprio i confronti di posizioni opposte rendono dunque possibile la piena valuta-zione di un ruolo, delle sue conseguenze. Parlando di una teoria matematica e degli e-lementi (assiomi, definizioni, teoremi etc.) che in essa compaiono, possiamo in generale dire che la stessa “presenza” diventa inscindibile dalla considerazione di un’ “assenza”.

Sia nella ricerca matematica che nei processi di insegnamento–apprendimento una “mancanza” si rivela un punto di partenza fecondo. Uno studente può infatti domandar-si: che cosa ci potrebbe (ci dovrebbe) essere qui? Proprio il fatto di non trovare un ele-mento, un concetto, una definizione etc., può costituire lo stimolo per una ricerca, per una nuova costruzione. Una simile lettura viene a ricondursi a un’essenziale questione di motivazione (del resto l’approccio vygotskijano sottolinea il ruolo dell’intenzionalità e la pratica didattica conferma la notevole importanza della motivazione). Tuttavia quanto andremo a notare avrà significativi risvolti anche in termini più generali.

Osserviamo innanzitutto che, ad esempio in una teoria assiomatica, la “mancanza” di un teorema può essere considerata alla stregua di una situazione provvisoria: “man-ca”, insomma, una cosa che in effetti è presente, “c’è” già. Heidegger (in Sein und Zeit, § 48: Heidegger, 2005, p. 291) scrive: «in riferimento a qual genere di ente si può parla-re di mancanza? L’espressione indica qualcosa che ‘è proprio’ di un ente, ma che gli manca ancora. […] Mancare viene perciò a significare la riunione non ancora completa di ciò che costituisce un tutto unico. Sul piano ontologico ciò implica la non utilizzabili-tà delle parti mancanti, che hanno il medesimo modo di essere delle parti già presenti e utilizzabili».

Tutto questo sembrerebbe ricondursi a una forma di platonismo: ciò che apparente-mente manca, “là fuori” c’è, e si tratta di raggiungerlo. A lungo l’esistenza di queste “entità da scoprire” è stata data per scontata, sebbene lo stesso Kant (nelle aggiunte e-splicative alla Prefazione della seconda edizione della propria Kritik der reinen Vernuft: Kant, 2004, p. 61) reputasse uno «scandalo, per la filosofia e per la ragione umana in generale, il dover ammettere l’esistenza delle cose fuori di noi solo per fede»; e «se mai a qualcuno venisse in mente di metterla in dubbio», altrettanto scandaloso sarebbe «il non poter opporgli nessuna dimostrazione soddisfacente» (Heidegger, 2005, p. 247). Heidegger (2005, p. 249) però contesta esplicitamente questa posizione kantiana e af-ferma che «lo ‘scandalo della filosofia’ non consiste nel fatto che finora questa dimo-strazione non è ancora stata data, ma nel fatto che tali dimostrazioni continuino a essere richieste e tentate». Il grande filosofo di Meßkirch propone una revisione della stessa nozione di verità (Heidegger, 2005, p. 264; inoltre: Vattimo 2002–a, soprattutto pp. 7 e 39):

Che un’asserzione sia vera significa: essa scopre l’ente in se stesso: enuncia, mostra, “lascia vedere” (α̉πóφανσις) l’ente nel suo esser–scoperto. Esser–vero (verità) dell’as-serzione significa essere–scoprente. La verità non ha quindi la struttura dell’adegua-zione del conoscere all’oggetto nel senso dell’assimilazione di un ente (il soggetto) a un altro ente (l’oggetto).

Da ciò seguono conseguenze importanti; ad esempio «la confutazione abituale dello scetticismo, cioè della negazione dell’essere e della conoscibilità della ‘verità’, rimane a mezza strada. Ciò che essa fa vedere, con argomentazioni formali, è semplicemente il principio che, quando si giudica, si presuppone la verità. […] Ciò che resta oscuro è perché debba essere così e in che cosa consista il ‘fondamento’ ontologico di questa connessione d’essere necessaria tra giudizio e verità» (Heidegger, 2005, p. 275). Questa

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nozione di verità supera la vetusta impostazione dell’ “adeguamento”, anche se non è in contrasto con essa. Riflette un’impostazione più attiva, rivaluta il ruolo di chi agisce (ef-ficacemente). Prima e dopo l’esistenza dell’essere umano (l’Esserci), nota Heidegger (2005, p. 273), «non c’era e non ci sarà verità alcuna, perché la verità, in quanto apertu-ra, scoprimento ed esser–scoperto non può essere senza che l’Esserci sia».

Davvero, dunque, le considerazioni sopra introdotte rendono indispensabile il ricor-so a un approccio vicino al platonismo? È insomma davvero fondamentale domandarsi se l’oggetto della presunta “scoperta” preesiste all’azione del soggetto oppure, in qual-che modo, “nasce con essa”? Non approfondiremo tale problema: la nostra discussione non è incentrata su pure questioni di filosofia (per le quali sarebbe necessario impegnar-si in ulteriori distinzioni: ad esempio, la contemporanea citazione di Heidegger e di He-gel dovrebbe essere accompagnata da precisazioni – si pensi alla grande distanza tra i due pensatori a proposito della nozione di tempo: Hegel, 2000, pp. 439–445; Heidegger, 2005, § 82, pp. 501–509). Ci limitiamo qui a osservare che la creatività può essere rav-visata non soltanto in una forma di scoperta, ma anche (soprattutto) nell’invenzione; e ciò vale sia per l’elaborazione del savoir savant che per la costruzione del savoir de l’élève.

Torniamo alla dialettica presenza–assenza. Abbiamo notato che in ambito didattico la percezione di un’assenza può indurre motivazione. Il suo ruolo può però essere più tipicamente teorico: possiamo “colmare un’assenza” (un’assenza “matematica”) ope-rando all’interno di una teoria oppure uscendo da essa, intervenendo su di un assioma mediante il quale cambiare la teoria in questione. Atteggiamenti di questo tipo sono ide-almente riferibili al circolo ermeneutico: se (anche) quanto sto leggendo mi fa progres-sivamente comprendere il senso di quello che leggo, analogamente quello che definisco mi fa comprendere, progressivamente, il ruolo di ciò che definisco…

Partiamo, per fissare le idee, dalla constatazione di un’assenza: l’introduzione del-l’elemento X (attualmente assente) potrebbe “funzionare” per giungere a Y. Questa supposta efficacia deve però essere verificata: possono servire revisioni e correzioni. Ad esempio, X potrebbe non rivelarsi sufficiente per farci giungere a Y (in tal caso X ver-rebbe abbandonato o ripreso per altri scopi: dimostrare il risultato Z1, introdurre il con-cetto Z2 etc.). Riprendendo l’osservazione proposta poco fa, c’è, qui, un’analogia alme-no procedurale con uno schema di tipo abduttivo: inizialmente si individua un possibile risultato interessante Y, si cerca una “regola” X→Y che in qualche modo permetta di ottenere tale risultato; quindi si inferisce l’opportunità di introdurre X (e questa ricerca della “regola” presenta alcuni aspetti vicini alle presupposizioni). È poi essenziale, lo ri-petiamo, la fase di verifica: ad esempio, X è in grado di coesistere con la teoria svilup-pata in precedenza? Potrebbe addirittura essere necessario, come notato, “uscire” dalla teoria (cambiarla, ad esempio intervenire sugli assiomi).

Nell’Aritmetica di Peano (Formulario Mathematico, § II–1.1: Peano, 1960, p. 27), gli assiomi originali 0–5 si riferiscono ai numeri, allo zero, al successivo. In un secondo momento vengono introdotte l’addizione (§ II–1.3: Peano, 1960, p. 29) e la moltiplica-zione (§ II–2.1: Peano, 1960, p. 32; per una valutazione che tenga conto del contesto storico–culturale: Segre, 1994). La scelta di definire prodotto di a per b e di indicare con ab la somma di b addendi a si rivela assai feconda: si pensi al concetto di numero pri-mo, al teorema fondamentale dell’aritmetica; il fatto di indicare con bc il prodotto di c fattori b può forse apparire meno urgente, almeno dal punto di vista dell’aritmetica ele-mentare.

Spesso, didatticamente, si introducono “oggetti” matematici nuovi in quanto essi consentono di operare con efficacia. Abbiamo ricordato che, nella storia, l’introduzione

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di i = −1 avvenne in quanto permise di determinare una radice reale di alcune equa-zioni di terzo grado. Ad esempio, l’esistenza della radice x = 4 per l’equazione

x3 = 15x+4

era (è) constatabile mediante una verifica da eseguire direttamente nell’ambito dei nu-meri reali. Mancava tuttavia il procedimento per trovare tale radice: proprio questo pro-cedimento, come sappiamo, richiede il ricorso a quantità immaginarie. Il nuovo “ogget-to” i = −1 non è stato introdotto per dare una soluzione a x2+1 = 0. In un certo senso, in quest’ultimo caso l’assenza di una soluzione può essere ritenuta meno problematica: non c’è infatti alcun “risultato” (come la radice x = 4 per x3 = 15x+4) da raggiungere…

Nelle nostre aule scolastiche, il concetto di limite può essere introdotto mediante una semplice definizione. Ma didatticamente appare molto più incisivo presentare agli allievi delle situazioni in cui il ricorso al limite rende possibile “fare una certa cosa” (ad esempio, valutare una funzione “nelle immediate vicinanze di un punto”), operazione che risulterebbe impossibile altrimenti (de Finetti, 2006, p. 125).

L’introduzione di i = −1 ha dunque consentito di trovare una radice reale di alcune equazioni; l’introduzione dei limiti rende possibile operare con gli infinitesimi (anche in senso attuale); per limitarci a segnalare un ulteriore esempio, l’introduzione dei negativi rende possibile formalizzare la visualizzazione di (a–b)(c–d) ottenuta in “algebra geo-metrica”. Quindi certe “assenze” vengono efficacemente colmate realizzando importanti ampliamenti della matematica.

Può essere interessante riflettere, da questo punto di vista, sull’introduzione delle geometrie non–euclidee. Fino all’Ottocento i frequenti tentativi di dimostrare il Postula-to delle Parallele presupponevano che esso fosse, in effetti, un teorema della Geometria Assoluta (coincidente quindi con la Geometria Euclidea). Secondo tale approccio, ciò che mancava era una dimostrazione. Ma i matematici di allora si erano concentrati sull’assenza sbagliata. Il momento chiave per ottenere di una nuova impostazione della questione fu, all’inizio del XIX secolo, il riconoscimento della “differenza” tra Geome-tria Assoluta e Geometria Euclidea: la seconda accetta il Postulato delle Parallele nella versione data di esso negli Elementi, mentre la prima prescinde sia da tale postulato che dalle sue negazioni. Scorporando il Quinto Postulato dalla Geometria Assoluta si è dun-que creato un vuoto, un’assenza feconda: tale vuoto ha infatti potuto essere colmato sia in senso euclideo che non–euclideo (Putnam, 1987, pp. 70–71), in contrasto con una concezione puramente naturalistica della matematica.

Il radicale mutamento della prospettiva teorica che si collega al passaggio dalla con-cezione di un’unica geometria (quella euclidea) all’accettazione di prospettive non–euclidee non porta comunque a una variazione di “principi generali” tale da implicare, seguendo Rorty (2004), il superamento di un approccio epistemologico in favore di un dialogo ermeneutico. Si ricordi che un confronto sul piano dell’epistemologia richiede il riferimento a un complesso di principi generali tale da chiarire che cosa consente un ac-cordo razionale, mentre un confronto ermeneutico richiede un dialogo e basta (Rorty, 2004, p. 631). Tra Euclide, che chiamò “postulato” il Postulato delle Parallele (pur ri-correndo a esso, nella propria trattazione, il più tardi possibile), gli innumerevoli geo-metri che, nel corso dei secoli, affrontarono senza successo il problema della dimostra-bilità di quella celebre proposizione, d’Alembert, il quale classificò “scandalosa” la mancanza di una chiarificazione della situazione, Gauss, che tacque per paura delle “strida dei beoti”, e infine Lobacewskij, Bolyai e Riemann, non assistiamo a una varia-zione dei “principi generali”: non cambia ciò che consente il raggiungimento di un ac-cordo razionale. Cambia la concezione dell’ “unica vera geometria”, ma questo non sembra implicare un obbligatorio passaggio dal confronto epistemologico a quello, nuo-

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vo, sul piano dell’ermeneutica (anche se questa distinzione rortiana è criticata da Vatti-mo, 2002–a, il quale – giustamente – invita a non schematizzare troppo).

Possiamo domandarci, più in generale: colmando una lacuna, introducendo una nuova definizione o un assioma, si possono variare i “principi generali”? Si può insom-ma cambiare in termini radicali il paradigma ottenendo un nuovo impianto teorico in-commensurabile con il precedente? Tutto ciò appare difficile, sembra lasciar trasparire il rischio dell’incoerenza. Affermare però un’assoluta impossibilità, qui, richiederebbe una dimostrazione che non ci sentiamo di azzardare (in omaggio alla prudenza metodo-logica suggerita da Vattimo). Lasciamo dunque questa considerazione all’attenzione cri-tica del lettore. IV–2. Esempio. Torniamo a Bombelli Ci ispireremo ora ad alcune nozioni del quadro teorico di Peirce per indicare una lettura del processo interpretativo della matematica che possa trovare applicazioni didattiche degne di nota. La nostra riflessione dovrà tuttavia ritenersi… ispirata liberamente alle idee peirceane.

Abbiamo parlato, spesso in termini critici, di “oggetti matematici” e sappiamo che Peirce distingue l’oggetto immediato, quello rappresentato da un certo punto di vista nel segno che l’interprete coglie, dall’oggetto dinamico che per alcuni versi si forma con lo sviluppo del processo di semiosi illimitata. Il limite a cui tende tale processo è detto da Peirce interpretante logico finale e, come sappiamo, è descritto come un habit change (non è dunque un segno vero e proprio, altrimenti susciterebbe un nuovo interpretante). L’elemento più difficile da mettere a fuoco è il “punto di partenza”: esiste, ad esempio, in matematica (e nella sua didattica) un qualche “oggetto” dal quale si sviluppa la cate-na semiosica? Quali caratteristiche potrebbe o dovrebbe avere un tale “punto di parten-za”?

Per inquadrare la situazione ci rifaremo ancora ad alcuni punti sviluppati in prece-denza. Sappiamo che ogni fase del processo interpretativo (a parte, eventualmente, l’ultima) porta alla produzione di un nuovo “interpretante n” il quale diventa “segno n+1” e si collega in qualche modo con l’oggetto. La concezione degli oggetti matemati-ci dal punto di vista dell’oggettualizzazione di procedure (Giusti, 1999, p. 26) ci con-sente di ridimensionare l’importanza di un “oggetto matematico tradizionalmente inte-so”, di un’entità “reale” – anche se un qualche oggetto resta necessario se si intende mantenersi non lontani dall’impostazione teorica di Peirce. Si porrebbe però il problema del “primo segno” da associare a tale oggetto: dovremmo dunque cercare un segno che non possa essere considerato interpretante di segni precedenti?

Per cercare di dare una risposta a questo interrogativo tratteggiamo la prospettiva seguente: il nostro oggetto matematico (pensiamo per ora a una “procedura oggettualiz-zata”, ma dovremo essere più precisi) potrebbe avere come primo segno un atteggia-mento (habit) originario dal quale prende le mosse la (o una) catena di segni. La semiosi illimitata, dunque, troverebbe un primo e un ultimo anello in due “non–segni” per alcuni versi analoghi: un habit originale e l’habit change, l’interpretante logico finale, entram-bi riferiti all’interprete o, in termini a nostro avviso più propri, alla comunità degli in-terpreti. Parlare di “atteggiamento”, però, è ancora vago: è infatti plausibile che anche un atteggiamento, in generale, possa essere indotto come interpretante da qualche “se-gno” precedente. Neppure questa iniziale considerazione riferita al “primo segno” appa-re soddisfacente.

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Abbiamo osservato che l’ “assenza” può essere considerata alla stregua di un segno, sebbene sui generis. Si potrebbe dunque ipotizzare che la constatazione di un’assenza sia il punto da cui prende le mosse il processo di semiosi illimitata. Ciò sarebbe influen-zato, dal punto di vista didattico, da diversi elementi, tra i quali la teoria in cui si opera, i soggetti coinvolti (studenti, insegnante), sia intesi singolarmente, che collocati in un contesto socio–culturale (ambiente scolastico ed extra–scolastico, concezione della ma-tematica, credenze, usi; spunti importanti sono in: Zan, 2007).

Con ciò non intendiamo proclamare che, dato un qualsiasi “oggetto matematico”, un “punto di partenza” del genere esista e sia unico (molti esempi possono essere esaminati a tale riguardo; per quanto riguarda i vettori si veda: Caparrini, 2003). Potremmo co-munque visualizzare quanto suggerito in questo primo diagramma (che approfondire-mo):

Il punto di partenza sarebbe in questo caso individuabile in una sorta di “oggetto–segno–interpretante” (nella figura, il settore racchiuso dalla linea tratteggiata), senza una rigida scansione “cronologica”: un atteggiamento (habit) collegato con l’assenza di un oggetto, di una procedura oggettualizzata o da oggettualizzare.

La situazione iniziale può essere caratterizzata da sensazioni intuitive, dalla presen-za di elementi legati all’emotività etc., senza con ciò trascurare la dimensione sociale, l’appartenenza dei soggetti a una comunità, con esigenze e vincoli derivanti dalla tradi-zione. Con il progredire della catena semiosica si sviluppa spesso la componente forma-le: l’oggetto può così assumere caratteristiche di rigore, diventare “matematico” (con ri-ferimento, ovviamente, a standard di rigore e a concezioni della matematica anch’esse in evoluzione).

L’applicazione del modello ora descritto in ambito didattico richiede ulteriore rifles-sione; opportune sarebbero ad esempio alcune verifiche sperimentali. Anche dal punto di vista storico, tuttavia, non sembra implausibile inquadrare qualche momento dell’e-voluzione del pensiero matematico nella direzione indicata. Ad esempio, nell’iniziale accostamento di Bombelli ai numeri complessi, precedentemente esaminato, abbiamo la percezione di un’assenza riferita a un “oggetto” che può essere interpretato nei termini di una “procedura oggettualizzata”. Dunque l’habit che si collega a tale situazione sa-rebbe l’adozione di una procedura efficace che faccia utilmente ricorso a questo “ogget-to” nuovo per la risoluzione di alcune equazioni. Proprio da questo antico spunto si è sviluppata, nei secoli successivi, una catena semiosica (nonché concettuale) che ha con-dotto la comunità scientifica alla costruzione di un “oggetto matematico” sempre più ricco.

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Potremmo così ipotizzare lo sviluppo iniziale di tale catena e approfondire il dia-gramma sopra proposto: una sorta di “oggetto potenziale” si collega alla messa a punto di una procedura mediante la quale è possibile risolvere un’equazione di terzo grado. In questa fase è l’efficacia della procedura a essere fondamentale: non c’è ancora un ogget-to matematico vero e proprio al quale fare riferimento.

La possibilità di giustificare (ad esempio mediante le “costruzioni in linee” indicate da Bombelli) quanto svolto inizia a fornire concretezza alla procedura: essa diventa una “procedura da oggettualizzare” (si ricordi quanto visto a proposito della catena semiosi-ca nella quale il “nuovo oggetto” è l’oggetto originale in quanto in relazione con il pri-mo segno).

Quindi si giunge a una prima oggettualizzazione:

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Le regole di calcolo enunciate da Bombelli per pdm e mdm indicano un atteggiamento nuovo: grazie ad esse pdm e mdm diventano “oggetti”, si svincolano dall’esempio intro-duttivo e possono trovare applicabilità a situazioni anche molto diverse. In prospettiva didattica questa fase si può caratterizzare mediante l’emergenza e il consolidamento di uno schema d’azione ovvero d’uso delle regole e quindi dell’oggetto (che può intendersi come artefatto: Rabardel, 1995). Si noti tuttavia che non è detto che il percorso descritto si sviluppi in termini analoghi per tutti: alcuni studenti, come abbiamo visto discutendo i dati sperimentali, si limitano ad accettare la presenza di −1 in qualche caso particola-re, mentre più in generale rifiutano di considerare −1 come “numero” vero e proprio.

Con il progredire della catena semiosica (e con il trascorrere del tempo) si sviluppa, come anticipato, la componente formale e l’oggetto in questione può assumere caratteri-stiche di rigore, diventare più propriamente matematico: a Gauss sono riconducibili i termini “numero complesso” e “unità immaginaria”, nonché l’uso sistematico di i per −1 (Loria, 1929–1933, p. 820) e sarà Cauchy a essere considerato il fondatore della

teoria delle funzioni di variabile complessa. Ovviamente sviluppi di questo genere sono solo in parte collegabili con le pionieristiche ricerche di Bombelli: se desiderassimo mantenere la nostra riflessione aderente alla dimensione storica, saremmo tenuti a con-siderare l’evoluzione dell’ambiente sociale, dei contesti culturali. Una tale analisi, senza dubbio importante, esula per ora dai nostri scopi; tuttavia il fatto che l’adozione di una prospettiva storica di questo genere abbia portato ad alcuni risultati degni di nota anche in ambito didattico ci induce a supporre che il percorso delineato meriti attenzione. IV–3. Esempio. Bacchette da calcolo e mezzi semiotici di oggettificazione «La matematica non è (direttamente) comunicabile, cioè non può essere mostrata agli studenti e concretamente manipolata», nelle parole di W. Dörfler, e «la ricerca didattica è stata ed è impegnata nella messa a punto di ‘buone’ rappresentazioni che possano ren-dere possibile costruzioni mentali da parte dei discenti» (Dörfler, 2006, p. 101).

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L’antica rappresentazione cinese dei numeri con bacchette da calcolo può essere ri-ferita alle dita di una mano (e questo è didatticamente interessante: ricerche sperimentali hanno evidenziato che i bambini contano oggetti più che numeri: Hoffmann, 2007). Quando si raggiungono le cinque unità (corrispondenti a cinque dita) è necessario ricor-rere all’altra mano e tener conto del fatto che è stata già considerata una mano completa:

Viene utilizzato il sistema posizionale in base 10: le bacchette sono disposte in colonne affiancate, con la colonna a destra che rappresenta le unità, seguita da quella delle deci-ne etc. Per evitare malintesi (prima del VII–VIII secolo non sono noti simboli cinesi scritti per indicare lo zero), i matematici cinesi ricorrevano a due diverse disposizioni: le Tsung, sopra presentate, per unità, centinaia etc. e le Heng per decine, migliaia etc.:

Le bacchette da calcolo rendevano possibile la rappresentazione di numeri in forma concreta: erano collocate su di una “tavola da calcolo” dove venivano svolte le opera-zioni aritmetiche. Molte tecniche di calcolo erano basate sull’uso di bacchette, dal pe-riodo Han (206 a.C.–220 d.C.) al periodo Yuan (1279–1368): secondo una congettura l’abaco cinese fu una derivazione delle bacchette da calcolo (Martzloff, 1997, p. 216).

Useremo ora le bacchette da calcolo per introdurre la risoluzione di sistemi di equa-zioni lineari seguendo un procedimento analogo al moderno metodo di eliminazione (Bagni, 2006–c) e considereremo una classe del primo anno di una Scuola Secondaria di I grado (senza con ciò affermare che i sistemi lineari vadano introdotti in tale livello scolastico). Tuttavia l’idea di utilizzare un metodo cinese per risolvere un sistema di e-quazioni ci darà l’opportunità di discutere alcuni elementi collegati all’uso dei segni.

Il nostro principale scopo sarà infatti collegato alla dimensione cognitiva coinvolta in alcune procedure di problem solving, e questo richiederà una riflessione sui segni e sugli artefatti (Wartofsky, 1979; Bartolini Bussi, Mariotti & Ferri, 2005; Bartolini Bussi & Maschietto, 2006). Dunque la nostra ricerca riguarderà sia l’insegnamento della ma-tematica (un modo di introdurre le equazioni in classe) che le relazioni tra artefatti, se-gni e cognizione in un particolare contesto (come vedremo, un contesto collegato al gio-co). La risoluzione di un sistema lineare non è un problema didattico primario, almeno per giovani studenti; potremo comunque chiederci: sono in grado i nostri allievi di ri-solvere un sistema di equazioni mediante una procedura basata sugli antichi metodi ci-nesi? Qual è il ruolo dei segni? Quale quello del contesto? Andremo a discutere un case study non incluso nel tradizionale approccio didattico e culturale, per il quale dunque l’influenza di attività precedenti è minima (considereremo, come notato, studenti giova-ni in modo da evitare l’influenza di esperienze collegate alla risoluzione di sistemi).

In On the Algebra of Logic, Peirce sottolinea l’importanza dell’iconicità; nota (1931–1958, § 3.363) che «il ragionamento consiste nell’osservare che quando dove sussistono certe relazioni se ne trovano anche altre, e ciò richiede che le relazioni su cui si ragiona siano mostrate in un’icona»; inoltre «la deduzione consiste nel costruire un’icona o un diagramma con le parti aventi relazioni che siano in completa analogia con quelle delle parti dell’oggetto sul quale si ragiona, nell’immaginare delle sperimen-tazioni su questa immagine e nell’osservare il risultato, quindi la scoperta di relazioni non notate o nascoste tra le parti» (Peirce distingueva diversi tipi di icona – immagini, metafore e diagrammi). Secondo Radford (2003–a e in via di pubblicazione), dato che il ruolo epistemologico del “ragionamento diagrammatico” consiste nel rendere apparenti alcune relazioni nascoste, esso si collega alle azioni di oggettualizzazione, e un dia-

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gramma può essere considerato un mezzo semiotico di oggettualizzazione. È importante notare che «le attività diagrammatiche saranno sempre inserite in un contesto discorsivo che offre un ricco linguaggio mediante il quale parlare dei diagrammi e delle loro tra-sformazioni» e «i principianti dovranno imparare questo linguaggio parallelamente allo sviluppo delle azioni pratiche sul diagramma» (Dörfler, 2006, p. 108).

Qual è la differenza, da un punto di vista peirceano, tra le nostre formule algebriche e l’antico modo cinese di esprimere quantità e procedure? Se consideriamo le espressio-ni cinesi con le bacchette da calcolo, i segni sono evidentemente diversi da quelli im-piegati nelle scritture moderne (“icone complesse”, per Bakker & Hoffmann, 2005; al-cune considerazioni importanti possono essere viste in Kirshner & Awtry, 2004, e in Antonini, 2006). La loro iconicità è più esplicita (si veda la differenza tra 5 e per e-sprimere “cinque” – sebbene, ad esempio, nel caso di per “sei”, la bacchetta oriz-zontale sia da collegare a un ruolo simbolico); potremo inoltre rilevare una componente secondaria di indicalità, tenendo conto della presenza concreta delle bacchette. Andre-mo a considerare tutte queste caratteristiche per interpretare i nostri dati sperimentali.

Jiuzhang Suanshu (Nove Capitoli sull’Arte Matematica: gli storici forniscono data-zioni tra il 200 a.C. e il 50 d.C.) è un manuale anonimo contenente 246 esempi di meto-di per risolvere alcuni problemi pratici (Chemla & Shuchun, 2004; Siu, 1995). Conside-reremo due problemi tratti dal capitolo 8 (Fangcheng) di Jiuzhang Suanshu. Martzloff (1979, p. 250) sottolinea che, dalla fine del XIX secolo, il termine fancheng è stato usa-to per equazione, ma il tradizionale significato è diverso: in particolare, fancheng shu può essere tradotto indicazioni su come distribuire numeri in colonne parallele in modo da formare un quadrato, dunque il termine fancheng può collegarsi a matrici. Nel capi-tolo 8 di Jiuzhang Suanshu troviamo 18 problemi che possono essere impostati in ter-mini di sistemi lineari di equazioni. Il metodo proposto si riferisce alla matrice dei coef-ficienti e i problemi coinvolgono fino a sei equazioni in sei incognite. La matrice viene ridotta a forma triangolare mediante operazioni elementari come nel moderno metodo di eliminazione: la principale differenza rispetto al procedimento di Gauss consiste in uno scambio di ruoli tra righe e colonne (anche se un simile confronto richiede molta pru-denza, considerate le differenze dei rispettivi contesti storici e culturali).

Consideriamo il seguente problema (originale, con alcune variazioni di dati): (Problema 1) Cinque covoni di grano di tipo A aggiunti a tre covoni di grano di tipo B

hanno il rendimento di 19 dou. Tre covoni di grano di tipo A aggiunti a due covoni di grano di tipo B hanno il rendimento di 12 dou. Quali ren-dimenti hanno un covone di tipo A e un covone di tipo B?

Il testo porta al sistema (in notazione moderna): 5x + 3y = 19 3x + 2y = 12

Una forma del metodo (settimo esempio del capitolo 8 di the Jiuzhang Suanshu) è sintetizzata in questa sequenza di tabelle (riferita al Problema 1):

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Il precedente esempio utilizza, per chiarezza, le cifre indo–arabe. La rappresentazione può però essere ottenuta anche mediante bacchette da calcolo:

Nella nostra esperienza abbiamo proposto agli studenti due regole per variare la tabella: (1) moltiplicazione di tutti i termini di una riga per un numero diverso da zero; (2) sottrazione di due righe termine a termine. La tecniche sopra vista è una delle molte possibilità per risolvere il sistema appli-

cando regole come queste. Esamineremo ora il comportamento degli studenti. Abbiamo raccolto alcuni dati empirici in un’esperienza che ha coinvolto un gruppo

di allievi di 11 anni di una classe I media (a Treviso). Al momento dell’esperienza gli studenti si trovavano nel primo periodo della scuola media e provenivano da diverse scuole elementari. Non conoscevano le equazioni (solo alcuni, durante la scuola prima-ria, avevano affrontato esercizi del tipo “qual è il numero conosciuto se il doppio o il triplo di tale numero è …”); non conoscevano i numeri negativi.

L’esperienza ha avuto luogo in classe, in occasione non valutativa: erano presenti 18 allievi, l’insegnante e il ricercatore (che non era l’insegnante della classe). Illustriamo le tre fasi: • inizialmente l’insegnante ha presentato agli allievi la rappresentazione cinese dei

numeri mediante bacchette da calcolo. Ha proposto alcuni esempi e gli studenti sono stati invitati a rappresentare alcuni numeri.

• quindi è stata predisposta una tabella con appropriate etichette e sono stati rappresentati semplici problemi mediante bacchette (“in due pacchetti uguali ci sono in tutto quattro biscotti. Quanti biscotti ci sono in ciascun pacchetto?”). Tenendo conto che ogni pacchetto contiene lo stesso numero di biscotti, la soluzione è stata ottenuta dividendo i numeri nei quadrati. Si noti che lo scopo di “ottenere disposizioni di bacchette con una singola bacchetta per il pacchetto” non è stato indicato dall’insegnante: è stato ricavato dagli allievi tenendo conto dell’esempio.

Nella fase successiva, gli studenti utilizzeranno le regole (1) e (2), sopra presentate: la divisione non è esplicitamente prevista da tali regole, dunque la fase ora in esame appare necessaria e significativa. Naturalmente la regola (1) da un punto di vista più evoluto potrebbe riferirsi alla moltiplicazione per ½, ma questo approccio collegato con i razionali appare estraneo alla considerazione delle bacchette da calcolo, quan-do il termine “numeri” viene riferito solo a interi non negativi.

• infine, gli allievi sono stati suddivisi in gruppi di tre. L’insegnante ha proposto il problema sopra esaminato e ha rappresentato i dati mediante bacchette da calcolo in una tabella (con appropriate etichette); ha sottolineato che “la disposizione delle bacchette rappresenta i dati del problema” e ha illustrato (con esempi) le regole (1) e (2) mediante le quali cambiare la disposizione. Ha quindi chiesto: “cercate di trovare quanti dou di grano ci sono in un covone di tipo A quanti dou di grano ci sono in un

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covone di tipo B usando le bacchette cinesi”. Gli allievi hanno dunque utilizzato le bacchette e non hanno dovuto scrivere alcunché. Durante l’esperienza l’insegnante non ha dato suggerimenti, ma si è limitato a evidenziare eventuali errori. Agli studenti è stato quindi richiesto di risolvere il Problema 1. Come vedremo nel

primo estratto ([a]: 1 min 20 sec), un gruppo di allievi ha ottenuto la soluzione corretta del problema. Un’allieva (S.), in particolare, ha guidato la procedura e un’altra (F.) ha proposto alcuni commenti interessanti. Il terzo allievo del gruppo (R.) non ha avuto un ruolo attivo.

[a1] [a2] [a3] [a4] [a5] [a6] [a7] [a8] [a9]

S.: “Comincio tipo da sopra che ce n’è di più. Quelli di sopra meno quelli sotto, lì a destra si toglie il dieci… ne restano nove, meno due fa sette” [S. guarda l’insegnante e toglie le bacchette]

F.: “Adesso poi sotto, sono di più, bisogna toglierli, cavarne

più che si può” [indica la seconda riga] S.: “Questi qua meno quelli sopra, dodici meno sette cinque”

[toglie le bacchette] R.: “Va bene, sì, ne abbiamo cavati tanti”. S.: “Ancora sopra meno sotto… il sette meno cinque due” [S.

toglie le bacchette] F.: “Via i B, con quelli di sopra siamo a posto, eh?” S.: “Questo fa due cioè due di quei dou. Adesso si fa ancora…

questi qui meno quelli” [S. indica la seconda riga e succes-sivamente la prima riga, guarda l’insegnante e toglie le bacchette]

F.: “Mm, si riesce quando due diventano uguali” [F. indica i primi quadrati di entrambe le righe]

S.: “Ecco, ne abbiamo uno su e uno giù e lì il grano, due dou e

tre dou. Finito, abbiamo trovato la risposta”.

Per quanto riguarda quanto ora presentato, si noti che in una prima fase ([a1]–[a5]) gli allievi sembrano riferirsi alla necessità di “togliere” il maggior numero di bacchette pos-sibile (essi hanno capito, sulla base degli esempi, che lo scopo del gioco è di ottenere una disposizione di bacchette con un solo elemento per ciascuna riga, a proposito dei covoni) e ciò può essere riferito alla concreta presenza delle bacchette, un elemento di tipo indicale. Tuttavia la sottrazione termine a termine di due righe viene condotta “to-gliendo” il numero di bacchette espresso dalle bacchette della seconda riga (e i gesti de-gli allievi sono significativi, [a2]). In questa fase il confronto di due righe può riferirsi al ragionamento diagrammatico, evidenziando una relazione nascosta (Peirce, 1931–1958, § 3.363, e Radford, in via di pubblicazione). S. afferma:

[a1] “Comincio tipo da sopra che ce n’è di più”

e F. replica:

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[a2] “Adesso poi sotto, sono di più, bisogna toglierli, cavarne più che si può”.

Naturalmente questa strategia non può considerarsi del tutto corretta e comunque appli-cabile (si veda [a4]); la presenza di molte bacchette è considerato un ostacolo da supera-re mediante una loro progressiva riduzione e ciò risulta possibile applicando la regola (2). Le seguenti espressioni di F. sono interessanti e significative:

[a6] “Via i B, con quelli di sopra siamo a posto, eh?” [a8] “Mm, si riesce quando due diventano uguali”.

L’obiettivo è raggiunto e F. finalmente comprende che la procedura impiegata si collega ad alcune specifiche disposizioni delle bacchette sulla tavola da calcolo: una riga è “a posto” quando uno dei quadrati riferiti a un genere di covoni è vuoto ([a6]) e questa si-tuazione potrebbe essere collegata all’indicalità (assenza di bacchette concrete nel qua-drato considerato) ma anche all’iconicità (valutazione a colpo d’occhio dell’assenza di bacchette). Tale situazione può essere raggiunta quando due quadrati riferiti allo stesso tipo di covoni contengono lo stesso numero di bacchette ([a8]) e il confronto dei qua-drati può essere considerato un aspetto iconico. S. e F. applicano solo la regola (2) che consente la sottrazione termine a termine (ma ciò non può essere fatto in tutte le situa-zioni: gli allievi non conoscono i numeri negativi).

Questa prima descrizione ci consente di evidenziare l’importanza di espressioni deit-tiche (“questi”, “quelli”) e dei gesti con i quali gli allievi indicano le righe ([a7]; si veda: Radford, 2003–a, 2003–b). Tali elementi potrebbero essere riferiti a una componente indicale (si noti che l’importanza dell’esperienza corporea può interpretarsi in relazione alla posizione secondo la quale le idee matematiche sono fondate sull’esperienza senso-riale: Lakoff & Núñez, 2005; inoltre: Arzarello & Robutti, 2004).

Allo stesso gruppo di allievi (S., F., R.) abbiamo successivamente proposto un se-condo problema: (Problema 2) Quattro covoni di grano di tipo A aggiunti a un covone di grano di tipo

B hanno il rendimento di 6 dou. Due covoni di grano di tipo A aggiunti a tre covoni di grano di tipo B hanno il rendimento di 8 dou. Quali rendi-menti hanno un covone di tipo A e un covone di tipo B?

Non è possibile risolvere questo problema applicando solo la regola (2) che porte-rebbe a usare dei numeri negativi. Come vedremo dalla trascrizione seguente ([b]: 2 min 10 sec), dopo una prima fase (non molto lunga, con commenti come [b1], [b2]), S. ap-plicherà la regola (1) che permette la moltiplicazione di tutti i termini di una riga per un numero non nullo k (in questo caso la prima riga, k = 3) e la procedura può così avanza-re.

[b1] [b2] [b3] [b4] [b5]

S.: “Mm, no, non si può togliere questi da quelli, non ce ne sono abbastanza lì” [S. indica la seconda riga, quindi la prima riga e tocca le bacchette nel primo quadrato. Guar-da l’insegnante]

F.: “Neanche di là si può… Beh, stavolta ci han dato un eser-cizio impossibile, eh?” [S. tocca le bacchette della secon-da riga più volte. Passa circa un minuto]

S.: “Va bene che si devono togliere però se li aumentiamo… con l’altra, si può moltiplicare questi cioè… sì… finché non diventano abbastanza”.

F.: “O quelli di sopra”. S.: “Facciamo qui… per tre” [S. indica il secondo quadrato

della prima riga]

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[b6] [b7] [b8] [b9] [b10] [b11] [b12] [b13]

F.: “Eh sì, sì, bisogna far diventare questo uguale a questi!” [indica il secondo quadrato della prima riga e della secon-da riga]

S.: “Dai, qui, facciamo qui per tre. Questo uno diventa tre, quattro per tre dodici e il grano, sei, fa diciotto” [cambia la disposizione delle bacchette]

S.: “Adesso si toglie, cioè qui va via, dodici, dieci, e dieci an-che qui”. [S. toglie le bacchette]

F.: “Sono uguali”. S.: “La prima è già fatta”. [S. toglie le bacchette] S.: “Adesso mi serve mandare via quello” [indica il primo

quadrato della seconda riga] “basta moltiplicare per due” [S. aggiunge le bacchette]

[S. toglie le bacchette] F.: “Fatta”. S.: “Ecco, si fa diviso come al solito, sei, fa due” [S. toglie le

bacchette] “il grano è uno qui e due qui”.

La prima fase ([b1]–[b2], dopo un periodo di incertezza, circa un minuto di silenzio) è interessante: c’è un conflitto tra la situazione concreta e lo scopo precedentemente indi-viduato ([a1]–[a5]), la necessità di togliere il maggior numero possibile di bacchette:

[b1] “Mm, no, non si può togliere questi da quelli, non ce ne sono abbastanza lì”. [b2] “[…]Beh, stavolta ci han dato un esercizio impossibile, eh?”

Questo conflitto porta F. a una conclusione errata; l’affermazione di S. è importante:

[b3] Va bene che si devono togliere però se li aumentiamo… con l’altra, si può moltiplicare questi cioè… sì… finché non diventano abbastanza”.

Le ultime parole sono significative: è necessario che le bacchette siano “abbastanza”, e ciò può essere interpretato sia con riferimento all’aspetto iconico (suggerito anche dalla presenza della regola da applicare: Peirce, 1931–1958, § 2.279) che a quello indicale del segno (collegato alla concreta presenza delle bacchette). Si noti che quando gli allievi usano correttamente la regola (1) che permette di moltiplicare tutti i termini della se-conda riga per k = 3, F. si rende conto che la sua precedente conclusione (“stavolta ci han dato un esercizio impossibile”) era errata, indica i diversi quadrati e nota:

[b6] “Eh sì, sì, bisogna far diventare questo uguale a questi!”.

Dunque l’allieva collega l’applicazione della regola considerata all’effetto sulla disposi-zione delle bacchette: come rilevato nell’analisi del precedente estratto [a], F. è final-

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mente consapevole della necessità dell’assenza di bacchette in un quadrato per ottenere la risoluzione del problema e capisce che per arrivare a ciò è necessario che i quadrati riferiti allo stesso tipo di covoni contengano lo stesso numero di bacchette. L’iconicità dei segni considerati permette di valutare il numero di bacchette a colpo d’occhio.

L’esperienza presentata deve essere considerato un case study (per trarre conclusioni generali sarebbe necessario esaminare un ampio ventaglio di casi e identificare i criteri di campionamento). I nostri dati non intendono provare che le bacchette da calcolo pos-sono essere usate per introdurre in termini nuovi e produttivi i sistemi di equazioni. In una prospettiva vygotskiana un artefatto è un mediatore ed è necessario usarlo corretta-mente (Vygotskij, 1974 e 1987; Chassapis, 1999). Nell’esperienza descritta le potenzia-lità dell’artefatto dipendono dalle sue caratteristiche semiotiche e i dati sperimentali suggeriscono che l’importanza delle bacchette da calcolo (per gli allievi considerati) è da collegarsi alla loro notevole componente iconica e a un secondario aspetto indicale.

Una delle principali differenze tra l’antica rappresentazione cinese dei numeri e la nostra notazione numerica indo–araba si collega al fatto che le bacchette sono oggetti concreti e non segni tracciati sulla carta. Ciò ha alcune conseguenze pratiche: ad esem-pio, una differenza tra un processo con carta e matita in notazione indo–araba e il meto-do cinese con le bacchette da calcolo si collega al fatto che nel secondo non rimane trac-cia dei passaggi realizzati (in ogni fase del processo non c’è memoria di quanto svolto in precedenza). In un’ottica peirceana, tuttavia, il punto principale si collega all’aspetto iconico e alla (secondaria) componente indicale. Ad esempio, le espressioni deittiche sono significative: sebbene nel nostro caso i gesti non sono direttamente collegati alla produzione di segni di tipo algebrico (Steinbring, 2006), essi hanno un ruolo importante che può essere messo in relazione con la presenza concreta delle bacchette. Abbiamo ri-cordato che le nostre espressioni algebriche possono essere considerate icone complesse (Bakker & Hoffmann, 2005), ora concludiamo che esse sono “più complesse” delle rap-presentazioni cinesi con le bacchette, la cui iconicità rilevabile nei comportamenti degli allievi è spesso evidente, decisa ed efficace.

Nell’esperienza, gli studenti hanno dato la preferenza alla regola basata sulla pre-senza delle bacchette, alla loro stessa immagine: queste sono dunque icone e determina-no un interpretante sulla base di alcune caratteristiche della loro iconicità. Ciò ha sugge-rito agli studenti alcune strategie risolutive (possiamo ancora riferirci al ragionamento diagrammatico di Peirce: gli allievi si rendono conto che una riga è “a posto” quando uno dei quadrati è vuoto, [a6], e questo obiettivo può essere raggiunto quando sue qua-drati riferiti allo stesso tipo di covoni contengono lo stesso numero di bacchette, [a8]).

Consideriamo inoltre un aspetto importante: qual è la trasparenza (Meira, 1998) de-gli artefatti considerati? In effetti essi devono essere considerati non trasparenti: ad e-sempio, per un allievo non c’è modo di sapere perché alcuni elementi di una tabella qua-drata debbano essere addizionati, o perché gli elementi della colonna a destra rappresen-tino i totali, ovvero perché le trasformazioni suggerite preservino alcune caratteristiche delle disposizioni di bacchette. Qual è il significato delle trasformazioni considerate? Quale concezione di incognita algebrica e di equazione emerge da questo artefatto? Non possiamo dare una risposta a queste domande in questa fase dell’analisi: tuttavia gli stu-denti hanno usato efficacemente una rappresentazione basata su segni (sia icone che in-dici), relazioni spaziali e regole. Un possibile percorso di ricerca da seguire può colle-garsi al ruolo del gioco: questo contesto concreto può rendere possibile una prima intro-duzione di significati riferibili alla rappresentazione algebrica astratta.

Per quanto riguarda le nostre “regole del gioco”, le regole convenzionali introdotte non sono indispensabili per rendere possibile un’azione fisica con gli artefatti. Il lin-guaggio però non è solamente un codice le cui possibilità siano riferite solo all’aspetto

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sintattico: le sue possibilità creative vanno ricercate in come il linguaggio stesso è col-legato al resto dell’umana attività e, nel caso considerato, nel contesto del gioco. Il pro-blema è: questo gioco ha un ben definito significato algebrico, per gli studenti? A volte lo scopo dei nostri allievi sembra essere quello di abbassare il numero delle bacchette, senza rendersi conto del significato di ciò (analogamente a quanto accade agli studenti di algebra che cercano di rendere più corte le espressioni simboliche). Abbiamo tuttavia un gioco nuovo da esplorare e da giocare (un gioco riferito a una tradizione culturale di-versa) e questo può essere utile per dar senso alla procedura considerata (Jones, 2007). IV–4. Verso una conclusione: la radice della catena semiosica Per interpretare più a fondo i nostri dati sperimentali torniamo alla semiosi illimitata. Ogni fase del processo interpretativo produce un nuovo “interpretante n” che può essere considerato come “segno n+1” collegato all’oggetto (considerato nel senso di una pro-cedura oggettualizzata: Giusti, 1999, p. 26). Possiamo ora chiederci, come fatto in pre-cedenza: esiste un punto di partenza del processo?

Abbiamo supposto che l’oggetto matematico (una procedura) possa essere rappre-sentato da un primo “segno”: un’ “assenza”. Si noti che non stiamo qui riferendoci al-l’assenza di oggetti concreti (ad esempio di un gruppo di bacchette). Peirce (1931–1958, § 5.480) parlava di «un forte, ma più o meno vago, senso di necessità» che porta ai «primi interpretanti logici dei fenomeni». Dunque possiamo pensare che questo genere di assenza sia il punto di partenza del processo semiotico.

Quindi nel primo approccio al gioco gli allievi hanno la percezione di un’assenza, riferita alla strategia da seguire (alla procedura da oggettualizzare): ciò descrive la situa-zione caratterizzata dal gioco che deve essere giocato, all’inizio della nostra esperienza. Gli esempi proposti agli allievi con i pacchetti e i biscotti hanno indotto gli studenti a considerare come scopo “ottenere disposizioni con una singola bacchetta per i covoni”, sebbene ciò non sia stato esplicitamente affermato dall’insegnante. Una vera e propria strategia è assente e un “oggetto potenziale” è collegato alla possibilità di trovare una procedura efficace per giocare il (singolo, particolare) gioco considerato:

Come sopra accennato, un elemento chiave è l’efficacia della procedura: gli studenti si trovano di fronte a un gioco che può e deve essere giocato, dunque la possibilità di dare una prima “struttura” alle proprie strategie (ad esempio considerando alcune azioni standard, [a2]) le rende una procedura che può essere oggettualizzata.

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La procedura è caratterizzata da una strategia risulta ripetibile per alcuni casi analoghi.

Una prima oggettualizzazione può essere rilevata, in parte, in [a8] e in [b6], sebbene l’esperienza esaminata non consenta di affermare che gli allievi raggiungano una com-pleta oggettualizzazione (l’interpretante 2 è collegato a una procedura oggettualizzata). In seguito la nostra strategia potrà diventare un oggetto autonomo. Non sarà più collega-ta a una singola situazione e potrà essere applicata a molti casi anche nettamente diversi. Dal punto di vista didattico tale fase potrà essere caratterizzata dalla comparsa e dal consolidamento di uno schema d’azione che consentirà l’uso di regole e di oggetti (ci-tiamo ancora Rabardel, 1995). Questo ci spinge a concludere che proprio il contesto del gioco può essere rilevante per l’oggettualizzazione di una procedura, sebbene sia neces-sario considerare i diversi studenti di volta in volta potranno essere coinvolti in espe-rienze come questa (in particolare il loro background culturale).

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Queste riflessioni ribadiscono l’importanza primaria del linguaggio anche sulle fasi dell’esperienza non direttamente influenzate dalla simbolizzazione. Commentando la posizione peirceana, Habermas sottolinea tale influenza: «ogni base d’esperienza sulla quale poggiamo per pensare è mediata attraverso interpretazioni implicitamente inferen-ti. Queste inferenze per quanto rudimentali sono legate a segni simbolici. Perciò anche le percezioni si muovono già nella dimensione della rappresentazione mediante segni»; da ciò segue che «neppure esistono elementi ultimi della percezione che siano immedia-tamente certi indipendentemente dalle nostre interpretazioni» (Habermas, 1983, pp. 97–98). Dunque il linguaggio in generale assume un ruolo determinante nello stabilire le condizioni del costituirsi degli oggetti dell’esperienza, in particolare attraverso la sua funzione simbolizzante (qui, come ben rilevato da Andrea Sartori, 1996, p. 89, si può considerare la nota tesi di Karl Otto Apel sulla trasformazione semiotica del trascenden-tale kantiano: Apel, 1977).

Per concludere, riprendiamo brevemente la prospettiva ermeneutica che ci ha fornito il supporto teorico per sviluppare la nostra ricerca.

Abbiamo constatato, con Gadamer, che la realtà umana è calata nella storia e ogni forma di conoscenza può essere ricondotta all’interpretazione: ciò significa, in generale, riconsiderare i significati in funzione di un’autocomprensione dell’uomo nel mondo. Dunque la ricerca della verità non va perseguita solo in termini astratti (“matematici”): non dobbiamo sentirci turbati dalla tesi della circolarità del comprendere, secondo la quale la comprensione viene inevitabilmente anticipata dalla prospettiva di partenza. Questo è il punto di vista nel quale si inquadrano le presupposizioni heideggeriane: in tale prospettiva abbiamo esaminato alcuni processi di insegnamento–apprendimento.

L’analisi storica è importante, avendo interessanti ricadute, ad esempio, sull’uso dei riferimenti tratti dalla storia nella didattica. Per quanto riguarda tale aspetto, la com-prensione del passato nel suo orizzonte ci fa mettere in gioco l’orizzonte di verità del presente. I ruoli della tradizione e dell’interprete sono fondamentali: in generale, il pas-sato e il presente si collocano in una situazione di feconda tensione. La mediazione fra i diversi orizzonti avviene sul piano del linguaggio. Si noti che (Vattimo, 1988, p. 31)

il carattere ermeneutico di ogni esperienza non dipende solo dal fatto che si scopre una “analogia” (in linguaggio scolastico: una analogia di proporzionalità) tra l’esperienza linguistica e gli altri modi dell’esperienza (noi siamo “appellati” dalle varie “realtà” dell’esperienza come lo siamo dai messaggi trasmessi nel linguaggio); ma, più essen-zialmente, dal fatto che ogni esperienza del mondo è mediata dal linguaggio, è prima di tutto evento linguistico, è discorso, dialogo di domanda e risposta.

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Le esperienze che abbiamo esaminato non intendono proporre al lettore una sorta di chiave applicativa univoca e rigorosamente definita, in quanto non riteniamo possibile (né sensato, almeno nel quadro teorico al quale facciamo riferimento) fornire esempi standardizzati di procedure didattiche. Troppe, peraltro, sarebbero le variabili in gioco per poter pensare di uniformare le scelte e gli atteggiamenti.

Né tali constatazioni didattiche possono essere riassunte nell’ovvia osservazione se-condo la quale “le presupposizioni sono importanti”. Ogni insegnante sa bene che un al-lievo ha sempre un “vissuto” (culturale, ma anche affettivo) che precede l’esperienza in aula e che influenza in modo a volte decisivo l’apprendimento. La nostra conclusione è più generale: rivaluta una posizione attiva del discente, il quale nel momento interpreta-tivo, un momento che si rinnova continuamente, costruisce un senso al sapere in gioco. E l’insegnante è una figura chiave a tale proposito: deve infatti seguire questa fase deli-catissima con la necessaria consapevole prudenza.

Interpretare, quindi, per costruire un senso. L’insegnamento e l’apprendimento della matematica non possono comunque prescindere da una posizione ontologica: per Hei-degger l’essere non esiste oggettivamente al di sotto di un tempo che determina il dive-nire, ma, nota Vattimo (2002–b, p. 48), «è evento. Le cose non sono semplicemente “oggetti”; nella nostra esperienza esse sono innanzitutto strumenti» che ci ostacolano o ci agevolano (Heidegger, 2001, p. 126). Ancora Vattimo (1988, p. 151) rileva:

L’eredità di un pensatore, proprio Heidegger ce lo ha insegnato con le sue esplorazioni della storia della filosofia, è quel nucleo di da–pensare che egli ci trasmette. Non risul-tati acquisiti, ma le vie lungo cui il pensiero si sente chiamato a impegnarsi ancora.

Dunque quanto finora osservato è un da–pensare importante, deve indurci a riflettere e a operare in qualità di docenti e di educatori. Esso infatti vale senz’altro anche per la ma-tematica insegnata e appresa nelle nostre aule scolastiche: la tendenza a concepire l’essere in termini oggettivi è per Heidegger la tendenza della metafisica dai Greci ai giorni nostri; «è nel mondo della scienza moderna che l’essere tende a nascondersi; noi lo confondiamo con l’oggettività perché siamo come prigionieri della forza persuasiva della tecnica» (Vattimo, 2002–b, p. 49; si veda inoltre Heidegger, 2004).

Proprio questa forza persuasiva entra talvolta nelle nostre scuole, come fenomeno collaterale connesso alla peraltro certamente preziosa possibilità di impiegare nuove tec-nologie, sempre più efficienti (in Ferrara, Pratt & Robutti, 2006, troviamo un’interes-sante sintesi di idee e di ricerche). Il rischio, però, è di trovarci di fronte a una matema-tica “oggettificata” dalla tecnica, a una matematica che funziona e che dunque esiste in assoluto. Per parte nostra, preferiamo rivalutare una matematica “inventata”, natural-mente “inventata per uno scopo”, inventata in un contesto culturale e sociale (ulteriore ricerca è urgente in questa direzione): una matematica che sia un po’ meno specchio privilegiato del Vero, oggetto granitico da contemplare e più strumento, da “usare” rela-tivamente a un momento storico, a una tradizione, a una comunità (Bagni, 2007).

Ma l’insegnamento, si dirà, deve fornire certezze. E l’approccio che abbiamo di-scusso finora, vicino al “pensiero debole”, sembra invece lasciare a noi e ai nostri allievi molti dubbi (si veda a tale riguardo il capitolo 18 di Eco, 2007, pp. 517–536). La mate-matica deve dunque rivalutare e rivendicare un (ovvero il) legame con la verità?

Commentando Nietzsche, Vattimo (2002–b, p. 25) scrive: «giacché ogni parola è solo una metafora, non disponendo di un legame necessario e garantito con l’essere del-la cosa, il discorso non può pretendere alla verità oggettiva». Constatazioni di tale teno-re possono portare a quello che lo stesso Nietzsche chiama “nichilismo attivo”, una po-sizione che accetta di fare a meno di certezze assolute, di «inventare sempre nuove tavo-le di valori e nuove forme simboliche, cioè nuovi modi di nominare le cose e di ordinare

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l’esperienza», contrapposta al “nichilismo reattivo”, «il lutto e il lamento per i valori e le certezze perdute» (Vattimo, 2002–b, p. 28). In questo nichilismo attivo si può, forse, inserire una rinnovata concezione della matematica (nonché della sua didattica).

Il termine tedesco Kultur indica la cultura viva, creativa, feconda, spesso contrappo-sta a Zivilisation, cioè un «insieme delle forme consolidate che tendono a degenerare nel formalismo, nella rigidità che ostacola la libera espressione dell’individuo» (Vattimo, 2002–b, p. 3). Dovere e speranza di ogni insegnante è di proporre ai propri allievi non una forma di cultura fredda e sterile, ma la cultura autentica: Kultur. Solo così i nostri allievi saranno in grado non solo si rispondere a delle domande, ma anche, ricordando ancora Gadamer (1996, p. 164), a capirle:

Che cos’è una domanda? È certamente qualcosa che si deve comprendere e che si com-prende solo se la si comprende a partire da qualcosa, cioè se la si comprende come una risposta e, in tal modo, si delimita la pretesa dogmatica di ogni espressione.

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Bibliografia

Nel testo abbiamo indicato in generale traduzioni italiane recenti delle opere citate: ad esse sono riferiti i numeri di pagina. Nella bibliografia, dopo i dati delle edizioni citate, riportiamo anche quelli delle opere originali. Le traduzioni riportate nel testo di opere in lingua non italiana sono nostre. Quando in una citazione compare un corsivo, esso deve essere considerato originale. Antonini S. (2006), Alla conquista delle formule: diversi aspetti di un percorso a ostacoli,

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