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A11606

Fabio Bertini

GILLIATT ELA PIOVRA

IL SINDACALISMO INTERNAZIONALEDALLE ORIGINI A OGGI (1776–2006)

Copyright © MMXIARACNE editrice S.r.l.

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via Raffaele Garofalo, 133/A–B00173 Roma(06) 93781065

ISBN 978–88–548–3923–6

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con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

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I edizione: marzo 2011

A Maria Grazia, anima ribelle e tenera, che sa ancora indignarsi quando l’in-giustizia è nell’aria, donna dalla mente libera, con un grazie per il continuo e dialogante confronto.

Ma cotesto accrescimento continuo del prodotto e dell'umano sapere, spande e-gualmente la prosperità su tutti? Suscita nell'uomo il sentimento del proprio dirit-to, della dignità? Garantisce la libertà, garantisce il popolo dall'usurpazione di pochi, rende forse impossibile, sotto ogni forma, la schiavitú, ed assicura l'indi-pendenza dell'uomo dall'uomo, o almeno ne libra su giusta lance le correlazioni? [...]. Ognuno che vuol manifestare fran-camente la propria opinione, ognuno che studia la storia, che osserva il presente, risponderà: no [...].

(Carlo Pisacane, La Rivoluzione)

Indice

11 Introduzione 23 Capitolo I

Dall’individualismo all’internazionalismo (1776-1907)

1.1. Il lavoro e il pauperismo, 23 – 1.2. Rivelazione della questione sociale tra statistica e politica, 52 – 1.3. L’Internazionale e l’analisi del capitali-smo, 83 – 1.4. La tela di Penelope: la ricostruzione dell’Internazionalismo, 116 – 1.5. Capitalismo, socialismo e corporativismo economico, 161

211 Capitolo II

Le sconfitte dell’internazionalismo (1907-1956) 2.1. Nuovo capitalismo e nuova organizzazione del lavoro nel tintinnar di spade, 213 – 2.2. Ristrutturazioni e tentazioni autoritario-corporative, 254 – 2.3. Il lavoro e il totalitarismo nel modello produttivo che cambia, 293 – 2.4. “La nave non correa che un tempo breve”: l’Odissea dell’internazionalismo, 338

375 Capitolo III

Visione internazionale e ritorno all’individuale (1956-2006) 3.1. La divisione dei sindacati internazionali nell’agenda dei piani produt-tivi, 375 – 3.2. Il Sindacalismo internazionale nella palude della crisi, 419 – 3.3. Incerti e smarriti: magnifiche sorti e progressive della competitività mondiale, 471 – 3.4. Due mondi e due Europe in cerca di modello, 516

577 Indice dei nomi e dei soggetti notevoli 609 Indice dei luoghi

Introduzione

Quando Victor Hugo scrisse I lavoratori del mare, ambientandolo a Guernesey, guardava a luoghi dove aveva riflettuto sulla catastrofe della democrazia e vi inseriva un simbolo del lavoro. Gilliatt, che combatteva per recuperare la “macchina” della Durand, fu a lungo il “lavoratore eroico e generoso” di una lotta contro la natura e contro una “volontà malvagia” talvolta ripreso dal movimento operaio che vi vide sintetizzati i valori del popolo1. Adolf Sturmthal, socialista e stu-dioso delle relazioni industriali, si chiedeva, nel 1944, perché tanti sto-rici si fossero applicati a conoscere le ragioni della catastrofe europea e molti meno a comprendere il declino e la caduta del movimento ope-raio europeo che non era meno eclatante:

La catastrofe che ha sprofondato la democrazia europea ha impegnato moltissimi storici […]. Molta meno attenzione, invece, è stata dedicata al de-clino e alla caduta del movimento operaio, nonostante che la distruzione dei sindacati e dei partiti socialisti e comunisti sul continente europeo fosse non meno spettacolare e politicamente significativa della caduta della democrazia. Mi pare inoltre che sia impossibile comprendere che cosa è accaduto in Eu-

1 «D'un côté les étendus, les vacue, le vent, les éclairs, les météores, de l’autre un homme! d’un coté la tempête, la pieuvre, la faim, le froid, la nuit, de l’autre Gilliatt, et Gilliatt viens à bout de tout, parce qu’il réfléchi et parce qu’il agit, parce qu’il prévoit et pourvoit: comme le peuple les despotes, il met à la raison l’océan par des barricades; mieux, il fait servir les elements à ses fins, il domestique les obstacles, asservit les furies, il connait cette joie ironique, si douce pour l’intelligence combat-tante de constater la vaste stupidité des forces furieuses aboutissant à des services rendus» (POL GAILLARE, recensione a VICTOR HUGO, Gilliatt le malin, Paris, Edi-teurs Français Réunis, 1952, in «La Pensée. Revue du Rationalisme moderne. Arts Science Philosophie», nouvelle série, 1952, 42-43, mag-giu, ago. set., p. 308). Cfr. l’interessante ragionamento di WILLIAM PAULSON, L’Anankè des choses : capita-lisme et sacrifice dans Les travailleurs de la mer, in DAVID ELLISON-RALF

HEYNDELS (a cura), Les modernités de Victor Hugo, Fasano-Parigi, Schena-Université de Paris, Sorbonne, 2004, pp. 27-39.

Introduzione 12

ropa senza riferirsi al destino di quelle organizzazioni del lavoro che erano, come non erano mai state negli USA, le più forti di tutte le forze democrati-che. La radice del collasso della democrazia europea è il fallimento dell’integrazione dei gruppi sociali con i loro interessi in conflitto in una so-cietà industriale funzionante. Questo fallimento, preannunciato dalla breve depressione del primo dopoguerra e dall’ascesa del fascismo in Italia, diven-ne universale durante il grande crollo degli anni trenta. La crisi della demo-crazia europea fu una crisi sociale. Espresse la disintegrazione di una società che mancò di risolvere i suoi vitali problemi economici e sociali. La gran par-te delle organizzazioni del movimento operaio europeo erano fermamente in-tese alla difesa della democrazia. Ciò aveva loro impedito di diventare una potente forza sociale e di sviluppare istituzioni che fossero tra le più alte rea-lizzazioni della civiltà europea. Ma esse hanno fallito il test decisivo. Non sono state in grado di fermare la progressiva disgregazione della democrazia e offrire un punto di convergenza per la ricostruzione della società democra-tica. Il difetto di democrazia nel continente europeo è dovuto non meno a questo fallimento del movimento operaio che al crollo del capitalismo. Il mo-vimento operaio era forte abbastanza per interferire con la normale vicenda delle istituzioni esistenti nella società, ma ciò non era né sufficientemente forte, né sufficientemente costruttivo per ricostruire la società2.

Possiamo chiederci oggi: Gilliatt è scomparso per sempre? E l’attuale declino del lavoratore come soggetto collettivo e organizzato potrebbe preludere a una nuova catastrofe della democrazia e perfino spiegarla? Una storia di organizzazioni, di strumenti sindacali e poli-tici, si innesta su un’altra storia più impalpabile e ne segue le tappe. È un divenire di valori. Così fu quando, mettendo a punto i propri valori, le classi dirigenti cercarono un compromesso cosciente con le eviden-ze uscite dall’Illuminismo. L’essere in una piramide gerarchica co-struita da Dio non bastava più e colludeva con la ragione. Quell’as-sioma messo in crisi poneva a contatto la coscienza politica con il fra-goroso emergere di un problema che la rivoluzione francese metteva a fuoco, ma che era già latente da tempo, il tema dell’”eguaglianza”. Per un nuovo equilibrio le classi dirigenti migliori si attestarono su un principio di “equità” morale e di rispetto, riconoscendo doveri prima inesistenti.

2 ADOLF STURMTHAL, Preface a The tragedy of European democracy, London, Vic-tor Gollancz, 1944, p. 5. La Prefazione era datata Berd college, Ammandale-on-Hudson, New York, 20 dicembre 1942.

Introduzione 13

Si diressero dunque verso il valore dell’educazione e dell’ide-ntificazione di concetti che il popolo potesse gestire soggettivamente. Si trattava di dare al principio di gerarchia una nuova armonia e una nuova ragione “laica”, cedendo quel tanto che era oggettivamente giu-sto e bastevole concedere. Per i lavoratori fu più difficile e complesso collocarsi in una nuova dimensione. Su di essi operava una minore ve-locità nel cogliere il divenire degli ideali. Quando fu possibile, l’ideologia si compose stabilendo un legame tra eguaglianza e libertà, ma non poté prescindere dal concetto di bisogno come dipendenza og-gettiva.

La storia del lavoro si snoda in un insieme complesso, tra storia so-ciale, storia delle idee, storia dell’economia e storia politica ed ha il suo perno in un grande tema di riferimento, la questione sociale. È un problema per cui stabilire un termine a quo è veramente impossibile, perché non c’è una cesura da cui far partire la questione sociale e, se il termine ha notorietà dall’Ottocento, le sue radici si perdono nel tempo. Poiché non è neppure mai morta in quanto vive intorno a noi è altret-tanto impossibile stabilire un termine ad quem. Quel che possiamo fa-re è tentare di coglierne le metamorfosi3.

In questo senso si giustifica la scelta di partire, per la storia del mo-vimento sindacale, dagli albori della società industriale e di cercare di ricostruire, per quanto possibile, il farsi delle organizzazioni su larga scala in relazione al mutamento dei processi produttivi. L’unico dato certo, infatti, è la sincronia fra tre fenomeni. Il primo è l’imporsi con-creto di un tema, l’evolvere del sistema produttivo fin dalla rivoluzio-ne industriale, fenomeno sul cui inizio la discussione è ancora aperta4.Il secondo è il ridefinirsi dei rapporti sociali a fronte della trasforma-zione produttiva. Il terzo è il generarsi di un pensiero economico e po-litico legato a quel sistema. Quella sincronia è ancora in atto. Un pun-to focale consiste nell’organizzazione del lavoro e, per questo, lo stu-dio non può prescindere dal prendere in esame la trasformazione che il

3 ROBERT CASTEL, Les metamorphoses de la question sociale. Une chronique du sa-lariat, Paris, Gallimard, 2006, pp. 26 segg. 4 DAVID CANNADINE, The Present and the Past in the English Industrial Revolution 1880.1980, in «Past and Present», n. 103, (maggio 1984), pp. 131-172; PIERFERNANDO GIORGETTI, La prima rivoluzione industriale tra politica economia ed etica. Vincolismo, liberismo, socialismo, democrazia, Pisa, ETS, 2009.

Introduzione 14

sistema produttivo ha avuto storicamente sui lavoratori o, a meglio di-re, sul concetto di “valore-lavoro”, essendo esso il dato sensibile della grande trasformazione dal punto di vista etico-sociale.

Dall’antico principio del lavoro come disonore, al principio del la-voro come castigo conseguente al peccato, al lavoro come manifesta-zione di un ascetismo etico nel quale riconoscere l’elezione divina, al-la valorizzazione liberale del lavoro come fattore di indipendenza e di cittadinanza, un cammino si è svolto fino al tempo in cui il valore la-voro è diventato fonte di riconoscimento individuale e di gruppo, at-traversando quella che è stata definita la “metamorfosi della questione sociale” 5.

Il farsi della soggettività operaia fu alla base del primo associazio-nismo che s’innestava nella società urbana e industriale ma che non si limitava alle classi operaie attive nella nuova economia. S’intrecciava all’inizio con una prassi corporativa che faceva parte dello schema precedente e che si era dissolta, più apparentemente che nell’integrale sostanza, per via di legge e per via fisiologica. Tutto lo sviluppo suc-cessivo, dal primo associazionismo su base territoriale a quello di va-sta dimensione internazionale, si muove in forme convulse e contrad-dittorie, intrecciando prassi, cultura, organizzazione, interessi sociali e prospettiva politica. Soprattutto non avviene come un processo deter-ministicamente evolutivo. Alla fine del secondo millennio ci si è posti il problema se l’entrata in crisi del concetto di piena e sicura occupa-zione coincidesse con il mutamento di valore del lavoro in rapporto al-la società. Sarebbe venuto meno il sistema di valori fondato sul lavoro salariato per lasciare il posto a un più generale concetto di attività dell’individuo. In altri termini, si sarebbe affermata la perdita della centralità del lavoro, curiosa convenzione intellettuale somigliante all’”isola che non c’è” di Peter Pan, nel senso che mai come oggi il lavoro svolge un ruolo centrale per la vita degli individui e dunque per la società, per così dire per l”economia generale” e per “l’anima indi-viduale”.

5 ROBERT CASTEL, Les metamorphoses de la question sociale, cit.; TIM

STRANGLEMAN-TRACEY WARREN, Work And Society: Sociological Approaches, Themes And Methods, London-New York, Routledge, 2008.

Introduzione 15

Opere come la Metamorfosi del lavoro, di André Gorz6, hanno contribuito alla messa a punto della scissione tra occupazione (passi-vo-dipendente) e attività (autonomo-creativa). Altri autori, come Ro-bert Castel, affrontando il tema della metamorfosi della questione so-ciale, hanno sottolineato la perdita di autostima “sociale” nelle catego-rie allontanate o escluse dal processo produttivo. Non è un caso che quegli studi abbiano affrontato simili temi, in quanto si collocano in una stagione, influente anche sulla storiografia, considerata di “fine della classe operaia” o, almeno, dell’egemonia operaia sulla “classe” più estesamente definita,e di estinzione della società che aveva legato i suoi valori al salario7.

Quel che è certo è che, a fronte delle teorie economiche che con-dannano la sicurezza del lavoro come contraria allo sviluppo e a fronte delle teorie della scissione tra “lavoro eteronomo” e “lavoro liberato”, la realtà dimostra che le giovani generazioni legano la loro possibilità di futuro all’impiego stabile a tempo indeterminato, ritenendo che lì consista la loro speranza di effettiva “liberazione”. Apparentemente nuovo, il tema è vecchio e afferisce all’antinomia tra la contrattazione individuale che per un lungo periodo seguito alla rivoluzione indu-striale ha imperato concettualmente come sacro principio e la contrat-tazione collettiva che, assai faticosamente, si è imposta attraverso dure lotte sindacali e politiche.

Se la convinzione dello stesso Gorz e di altri è che la precarietà predisponga una sorta di esercito “rivoluzionario”, e che nella stessa libertà dal lavoro prodotta dalla precarietà vi sia una formidabile alter-nativa di modello, l’esperienza storica dimostra che l’organizzazione sindacale di lavoratori dall’impiego “solido” ha prodotto prove di so-cietà più equa. L’idea per cui l’organizzazione del lavoro, non dipen-dendo più dal sistema di fabbrica che caratterizzava l’epoca fordista, possa essere soppiantata dall’organizzazione del lavoro sociale pro-

6 ANDRE GORZ, Métamorphoses du travail. Quete du sens. Critique de la raison économique, Paris, Galilée, 1988. 7MARCEL VAN DER LINDEN, Transnationalizing American Labor History, «The Journal of American History», The Nation and Beyond: Transnational Perspectives on United States History: A Special Issue, 1999, vol. 86, dic., n. 3, pp. 1078-1092; JEREMY RIFKIN, La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l'avvento dell'era post-mercato, [1995] Milano, Baldini e Castoldi, 1997.

Introduzione 16

dotta da grandi centri di aggregazione libera nella società civile, è for-se una moderna utopia.

Non è male, se si pensa al ruolo propulsivo delle utopie nella storia, ma non risolve il problema né sul piano dei rapporti economici né sul piano dell’individuo in situazione. Ciò, infatti, ricondurrebbe il tema dello sviluppo a una dialettica duale tra l’ente Stato, comunque “con-figurato”, e la società civile, a qualcosa dunque che richiama il sociali-smo reale senza averne le teoriche pretese egualitaristiche per il sem-plice fatto che esiste un terzo soggetto dotato di propria strategia, ciò che un tempo si definiva “il capitale”.

È pur vero che anche il “capitalismo” ha seguito una metamorfosi identitaria con la rivoluzione informatica e soprattutto con l’evo-luzione che ha condotto alla globalizzazione contemporanea. Ma, se si è passati dal vetturino, all’automedonte, al guidatore con cambio au-tomatico, il mezzo ha sempre una sua modalità di guida, per cui anco-ra oggi – e probabilmente domani – l’impresa svolge il suo ruolo or-ganizzativo che comprende l’impostazione del lavoro.

Ciò riconduce al tema iniziale, il rapporto tra capitale e lavoro che, nella società attuale, sembra caratterizzarsi per un ritorno all’in-dividualismo del rapporto contrattuale. La tendenza della nuova dia-lettica del lavoro è a contrapporre il salariato come contrattante indi-viduale anche ad alta qualificazione, con sotto il braccio magari il mezzo di produzione (ad esempio il portatile) di sua proprietà, e un’azienda provvista di strumenti amministrativi agguerriti e di ben più ampia forza contrattuale. È ancora una volta una lotta impari.

Come provare ad analizzare il problema dal punto di vista storico, cioè dandone ragione a fronte di uno scenario completamente diverso rispetto al punto di partenza? Se la vicenda del lavoro nell’età con-temporanea affonda le sue radici nel mondo parcellizzato delle nazio-ni, e ancor più in quella delle aree nazionali, i decenni recenti hanno posto la questione nelle coordinate della globalizzazione.

Gilliatt era solo contro la piovra. La storia del sindacalismo è inve-ce la storia di grandi soggetti collettivi in tutte le aree del mondo. Tale è il senso dell’internazionalismo, più volte intravisto e cercato e altret-tante veduto svanire, come dimostrano le vicende ricostruite in queste pagine. È un percorso che muove dall’individuo, intraprende la rotta dell’internazionalismo, la perde dietro alle sirene del nazionalismo, la

Introduzione 17

ritrova per perderla nuovamente, mentre il soggetto antagonista veleg-gia sicuro verso una dimensione planetaria. Se c’è un paradosso, nella vicenda, è quello che vede, da una parte, il filo rosso di continue lotte per il salario, per i diritti, per condizioni dignitose dell’esistenza in tut-te le parti del mondo, dall’altra il costituirsi di formidabili aggregazio-ni sindacali internazionali che non hanno la forza di esprimere un ge-nerale e grande potere di contrattazione, un valore che, invece, è anda-to via via declinando.

Un simile problema coinvolge lo storico. Si può provare a fare la storia del Sindacalismo internazionale ricercando un filo conduttore che vada al di là dei quadri di area o nazionali? Da tempo si è lavorato in questo senso, producendo un lavoro prezioso che si è andato arric-chendo di preziosi raffronti comparativi e rassegne dei diversi sinda-calismi d’area. Ciò ha fornito un ricco materiale di ricostruzione e ri-flessione ed è un presupposto fondamentale per questo volume. Alcuni buoni studi hanno indicato la strada di una ricostruzione più ampia e costituiscono un indispensabile riferimento di questo lavoro8.Sull’Europa sociale, rappresentativa di un’anima sindacale, ci sono studi e ricostruzioni importanti9.

Il tentativo di questo lavoro consiste nel cercare di far sì che lo stu-dio segua le linee planetarie del mercato, immediatamente riconoscen-do i limiti che lo graveranno. È indubbia la difficoltà di una ricostru-

8 Tra gli altri, Tra gli altri, WOLFGANG ABENDROTH, Histoire du mouvement ouvrier en Europe, Paris, Maspéro, 1967; Jean Auger, Syndicalisme des autres. Syndicats d’Europe, les internazionales syndicales, Paris, Les Editions ouvrières, 1980; BARBARA BARNOUIN, The European Labour Movement and European Integration,London and Wolfebors, Francis Pinter, 1986; GUILLAUME DEVIN (a cura), Syndica-lisme: dimensions internationales, La Garenne-Colombes, Éditions européennes Erasme, 1990; SERGE WOLIKOW-MICHEL CORDILLOT (a cura), Prolétaires de touss les pays, unissez-vous? Les difficiles chemins de l’Internationalisme (1848-1956),Dijon, EUD, 1993; ADELE MAIELLO, Sindacati in Europa. Storia, modelli, culture a confronto, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002; MICHEL.PIGENET- PATRICK

PASTURE- JEAN-LOUISE ROBERT (a cura), L’apogée des syndicalisme en Europe oc-cidentale, 1960-1985, Paris, Publications de la Sorbonne, 2005; EMILIO GABAGLIO-JUAN MORENO PRECIADO, La sfida dell'Europa sociale. Trentacinque anni della Confederazione europea di sindacati, Roma, Ediesse, 2007. 9 ANDREA CIAMPANI-EMILIO GABAGLIO, L’Europa sociale e la Confederazione eu-ropea dei Sindacati, con prefazione di JACQUES DELORS, Bologna, il Mulino, 2010.

Introduzione 18

zione diacronica in una materia tanto frastagliata e sottoposta a fattori endogeni come l’ideologia e la politica10 o sottoposta a contesti pro-duttivi variegati anche all’interno di un medesimo paese. È poi molto difficile sottrarsi al magnetismo dell’esperienza nazionale che fornisce abbondanti punti di riferimento al “cittadino-storico” ed è difficile sot-trarsi, nel caso dello studioso europeo, alla più recente categoria dell’eurocentrismo.

È un rischio che occorre tenere in conto, ma che non può impedire di ricercare riferimenti a un quadro più ampio, perché è indubbia la re-ciproca influenza tra i centri di produzione e i mercati, tra le modalità dell’organizzazione del lavoro in un’area e il loro riflettersi in un’altra. Per esemplificare, s’imposta il modello fordista negli Stati Uniti e co-mincia, senza che se ne abbia rapida consapevolezza, a mutare il si-stema di vita del lavoratore europeo. Si mettono le fondamenta del to-yotismo in Asia e, senza averne alcun intento, si comincia a cambiare la vita del lavoratore americano, e così via.

Tenendo conto di questo, il lavoro qui svolto, sarà scarsamente “nazionalista”, largamente “europeo” e, in qualche misura, mondiale. Cercherà cioè di cogliere cesure e svolte ad ampio raggio, ma l’insieme continentale sarà oggettivamente prevaricante. La materia che si tratta impone di pensare in modo multidisciplinare11. Nella con-siderazione di chi scrive non v’è dubbio che la Storia del movimento sindacale costituisca a tutto titolo una branca fondamentale – per così dire primaria – della Storia sociale e, dunque, della Storia senza agget-tivazione. Nello specifico, la ricostruzione deve anche rivolgersi al ricco materiale che offrono gli studi di relazioni industriali, la cui ca-pacità di indicare modelli strutturali e indirizzi di comportamento all’interno del mondo del lavoro è riconducibile in coordinate storiche.

10 Avant-propos, in GENEVIEVE BIBES-RENE MOURIAUX (a cura), Les syndicats eu-ropéens à l’épreuve, Paris, Presses de la Fondation nationale des sciences politiques, 1990, p. 15. 11 DOMINIQUE BARJOT, Introduction a DOMINIQUE BARJOT-ALAIN BELTRAN-MICHEL HAU-ISABELLE LESCENT-MICHELE MERGER-SUZY PASLEAU-GUY

VANTHEMSCHE, Industrialisation et sociétés en Europe occidentale, du début des années 1880 à la fin des années 1960 France Allemagne-RFA Italie Royaume-Uni et Benelux, Paris, CNED-SEDES, 1997, pp. 31.

Introduzione 19

Quando si dia il dovuto rilievo ai contesti politici esterni ed alle dia-cronie, risulterà dunque pienamente feconda12.

Con il tempo dell’industrializzazione si passa da un tipo di preca-rietà, quella agricola, provvista di una sorta di “ammortizzatori socia-li” compresi quelli della pubblica e privata bienfaisance, a quella in-dustriale, assai meno protetta e, anzi, in certo modo criminalizzata e condannata. Ma è l’inizio di un cammino circolare che conduce, attra-verso lo stretto legame tra occupazione e “valore-lavoro” alla lunga lotta per il superamento della precarietà della vita su cui si costruisce la storia sindacale in tutto il mondo.

La storia ha davvero una certa circolarità. Si va dall’acquisizione di strumenti di difesa dell’occupazione via via più forti e coesi, fino al progressivo diluirsi di quegli strumenti per un ritorno al dominio della precarietà. Si parte dall’individualità del contratto, si compie un lungo cammino di costruzione della contrattualità collettiva, si torna al punto di partenza dell’individualità del contratto.

In filigrana, si svolge un percorso che è in larga parte storia di un cammino antropologico tutt’altro che deterministicamente evolutivo, ma che, nella migliore delle ipotesi, può essere vichianamente consi-derato il primo cerchio di una spirale destinata a riprendere. Questo approdo coincide con la definizione largamente condivisa di vistoso declino del modello storico del lavoro, nell’emergere prepotente degli impieghi nei servizi, nel terziario, nel cosiddetto terzo settore, ecc. e, più ancora, dell’idealtipo operaio nel lavoro di fabbrica per l’ampio af-fermarsi degli automatismi con il relativo esercito di tecnici.

In tutto questo si snoda, e con larga influenza, un confronto di ideo-logie che, di volta in volta, assume i caratteri della dialettica intellet-tuale, ma che è essenzialmente il manifestarsi di posizioni e interessi diversi. È il conflitto culturale dell’economia politica tra i sostenitori del liberismo individualista, la cui forza ideologica costituisce un grande filo di continuità nel periodo qui osservato, e i loro avversari,

12 ROBIN COHEN, Theorising International labour, in ROSALIND E. BOYD-ROBIN

COHEN-PETER C.W. GUTKIND, International Labour and the Third World: The Making of a New Working Class, Hong Kong-Singapore-Sidney, Avebury, 1987, pp. 3-25; JONATHAN ZEITLIN From Labour History to the History of Industrial Rela-tions, «Economic History Review», XL (1987), II serie, n. 2, p. 159-184.

Introduzione 20

più variegati e oscillanti tra diverse scuole, riconducibili a un venta-glio di posizioni, dal solidarismo più generico alle concezioni forti dello Stato sociale13. E un altro filo ininterrotto, talora specificamente evidenziabile, talora affiorante tra le vicende della lunga storia è l’irrisolto problema della dialettica tra l’”economico” e il “politico”.

Le coordinate ideali son date dalle concezioni del capitalismo e dell’imperialismo, da una parte, del socialismo, del solidarismo o del liberalismo democratico dall’altra, e si sviluppano senza soluzione di continuità e con largo effetto sul farsi della politica. È indubbio che larga parte delle politiche dei governi in tema di questione sociale so-no dipese, e non sempre felicemente, dal modello di economia politica scelto. Anche per questo la ricostruzione storica del movimento sinda-cale non può prescindere, se intende essere svolta alla luce della que-stione sociale, dal dibattito ideologico-intellettuale che ha accompa-gnato il farsi (e il disfarsi) dei modelli.

Interpretabile in prima battuta come storia delle istituzioni sindaca-li, questa storia è ancor più la storia di una dialettica tra soggetti diver-si nell’organizzazione del lavoro14, e, corrispondentemente, di una dialettica ideale tra il capitale e il lavoro combattuta anche con le armi dell’analisi e del pensiero politico-economico, con un terzo interlocu-tore, lo Stato. È anche, però, una storia di generazioni15. Di questo oc-corre tener conto, perché la dialettica delle opinioni aiuta a sciogliere il presente, ma è nella mente dei protagonisti e nelle pulsioni dei po-poli che meglio che altrove le storie prendono corpo. È dunque al mu-tare delle aspirazioni e dei valori del soggetto collettivo che bisogna guardare, perché, se i problemi che si affrontano in questo lavoro han-no grandi fili comuni, se, per tutto il periodo Gilliatt fronteggia con la sua capacità di lavoro una piovra ostile e vorace, le individualità che,

13 Cfr. CLAUDIO DE BONI (a cura), Lo Stato sociale nel pensiero politico contempo-raneo, vol. I, L’Ottocento, Firenze, Firenze University Press, 2007; vol. II, Il Nove-cento. Da inizio secolo alla seconda guerra mondiale, idem, 2009; vol. III, Il Nove-cento. Parte seconda: dal dopoguerra ad oggi, idem, 2009. 14 PAOLO GIOVANNINI, Tra conflitto e solidarietà. Teorie sociologiche sulla divisio-ne del lavoro, Padova, Cedam, 1987. 15 MICHEL.PIGENET- PATRICK PASTURE- JEAN-LOUISE ROBERT (a cura), L’apogée des syndicalisme en Europe occidentale, 1960-1985, cit., 2005.

Introduzione 21

di volta in volta, si riflettono in quel confronto sono tantissime e tutte insieme fanno il divenire della storia.

A questo libro hanno contribuito con il loro affetto e la loro competenza alcune persone che ho l’obbligo di ringraziare. Prima di tutto coloro che, in un fitto scam-bio di corrispondenza, hanno dato indicazioni importanti, Claudio De Boni, Pietro Leandro Di Giorgi, Giuseppe Gregori, protagonista di un accanito confronto. Poi chi ha fornito preziosi consigli come Maurizio Brotini, Luigi Lama e Arianne Lan-duyt e coloro che hanno contribuito alla riflessione, gli studenti dei miei corsi di Storia dei movimenti sindacali e i Dottorandi di ricerca in “XX Secolo: politica, e-conomia, istituzioni”, incontrati in un’appassionata tavola rotonda alla “Cesare Al-fieri” proseguita in rete. Quindi ancora gli amici del Comitato Livornese per la Promozione dei Valori Risorgimentali, senza i quali non ci sarebbe il necessario se-dimento di passione e di valori, un patrimonio che, a ben vedere, è bene non dare per scontato neppure laddove sarebbe naturale cercarlo. Infine, Gilberto che mi ha donato la sua nascente professionalità di grafico.

ABBREVIAZIONIArchivi:

ANP, Archives Nationales de France, Paris NAKG, National Archives at Kew Gardens of United Kingdom, London

Le sigle di enti e organizzazioni sono sciolte nell’Indice dei nomi e dei soggetti notevoli.

Capitolo I

Dall’individualismoall’internazionalismo (1776-1907)

1.1. Il lavoro e il pauperismo 1.1.1. Lo spirito del secolo, il modello produttivo, la fondazione

dell’economia politica

L’industrialismo sorse sulla destrutturazione di altri mondi e i lavo-ratori si adeguarono, percorrendo il cammino che portava dall’agricol-tura, alla proto-industrializzazione, all’alba della manifattura1. Poiché la rivoluzione industriale riguardò progressivamente aree diverse con specifiche tradizioni, vi furono tratti comuni e varianti non trascurabili rispetto al prototipo britannico2. L’Antico regime non era stato privo di concezioni associative, vista la lunga tradizione di confraternite, as-sistenze, compagnie laicali e religiose, gilde, corporazioni, che aveva-no offerto risorse all’abitante della città, ai mercanti, agli sbandati, fi-

1 FRANKLIN MENDELS, Des industries rurales à la protoindustrialisation: historique d'un changement de perspective, in «Annales: E. S. C.», XXXIX (1984), 5, pp. 977-1008. 2 La rivoluzione industriale fu avviata in Inghilterra, poi approdò in Francia in un quadro più complesso di concorrenza tra vecchia siderurgia sostenuta dalla politica doganale e innovazione, decisamente sviluppata con il passaggio alla liberalizzazio-ne pilotata del mercato culminata con il Trattato Cobden-Chevalier del 1860. Il pro-gressivo inserirsi dei paesi europei e degli Stati Uniti in questo processo, dette vita a una sorta di rincorsa durata un secolo. DAVID S. LANDES, Prometeo liberato, Torino, Einaudi, 1978; RAINER FREMDLING, Transfer patterns of British technology to the Continent: The case of the iron industry, «European Review of Economic His-tory», vol. 4, ago. 2000, pp. 195-222.

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no dal Medio Evo3. Le stesse Poor laws inglesi, nate nel XVI secolo, per la parte non repressiva e coercitiva d’obbligo al lavoro, costituiva-no un esempio di assistenza sociale via via inadeguato con lo sviluppo sociale e con il mutamento del sistema di valori4. Anche la tradizione d’intervento dello Stato o delle autorità comunali risalente al Medioe-vo in realtà come quella francese, tedesca e specialmente inglese co-nobbe un precoce arresto, finendo per impattare in una opposta logica della neutralità che lasciava ognuno solo davanti alla contrattazione delle sue condizioni di lavoro:

Non fu che nel XVIII secolo che lo Stato cessò di regolamentare [in Inghil-terra] i salari e affidò ai giudici di pace, nel 1747, il compito di appianare le differenze tra operai e padroni. Il rapido e febbrile sviluppo dell’industria in-glese dopo la metà del secolo, i mutamenti che intervennero nelle concezioni degli economisti e il completo trionfo del principio del non intervento dello Stato nella vita industriale fecero sparire le ultime vestigia di regolamenta-zione legale dei salari. Al Parlamento inglese furono avanzate mozioni che proponevano la definizione di minimi nel 1795, nel 1800 e nel 1808, ma ogni volta senza successo5. In Gran Bretagna, la prima tappa della riorganizzazione fu rappre-

sentata dal disgregarsi di un mondo rurale che vide il riversarsi mas-siccio di forza lavoro verso la manifattura6. Un processo dalle radici indefinite fu alla base di un crescente processo di autocoscienza ope-raia7. Lo smottamento sociale indotto dalla rivoluzione industriale, che 3 GUY FOURQUIN, L'occidente cristiano: società e mentalità, in PIERRE LEON (a cu-ra), Storia economica e sociale del mondo, I, Le origini dell'Età Moderna 1300-1580, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. 247-308. 4 MARK PERLMAN-CHARLES ROBERT MCCANN jr., The pillars of economic under-standing: ideas and traditions, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1998, pp. 253 segg. 5 RUDOLF BRODA, La fixation légale des salaires: expériences de l'Angleterre, de l'Australie et du Canada, Paris, Giard et Brière, 1912, p. 9, traduzione mia. Cfr. anche ROBERT J. STEINFELD, Coercion, contract, and free labor in the nineteenth century, Cambridge et alia, Cambridge University Press, 2001, p. 103. 6 JEREMY RIFKIN, La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l'avvento dell'era post-mercato, cit., pp. 15 segg. 7 Le tesi prevalenti riguardano il cosiddetto “radicalismo plebeo” di EDWARD P. THOMPSON, che affonderebbe a un tempo assai precedente la rivoluzione industriale, in un lungo antagonismo sociale da sempre misuratosi sui ritmi della giornata di la-

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ebbe il primo laboratorio in Inghilterra, via via approdato altrove an-che a distanza di decenni, non aveva solo un risvolto economico, ma ne aveva di rilevanti politici e soprattutto sociali, finendo per coinci-dere con il tempo di un’altra grande rivoluzione, quella francese, de-stinata a far emergere la parola d’ordine più innovativa e più pregnan-te, il concetto di eguaglianza, insieme a quello di libertà8.

La cultura del secolo collegava ovunque, in Europa, lo sviluppo al liberismo o all’antivincolismo e comunque ad una necessaria lievità dello Stato rispetto alla vita economica, qualcosa che, nel 1743, Carlo Antonio Broggia definiva lo “spirito dell’industria”:

Dobbiam riflettere, che per un Tributo per lo più secco, che si rinviene da una prescrizione faticosissima, perché forzosa, e che però riuscirà sempre mai fal-sa; dovrà sconvolgersi il Commercio, e dovrà affievolirli lo Spirito dell'Indu-stria. Dovrà il Governo implicarsi in più guise; e lo Stato debilitarsi, decade-re, e cadere: Così come s'imbarazza, inciampa e cade un uomo, allorché si credesse, che fusse cosa migliore, per agevolarle il Peso e il Cammino, sìtuar la Metà, o buona parte del Carico che ha sulle spalle, e distribuirglielo alle mani, alle braccia, alle gambe, ai piedi: presumendoli di adattar, e ligar le Cose con varie e varie Arti, diligenze, norme, e prescrizioni. Le quali cose ogni un vede di quanta vana Fiducia sarebbono, poiché ad altro non servireb-bono, che a viepiù imbarazzar ed aggravar la Faccenda. E sarebb'astretto il Portator della roba o a starsene immobile, o a gettar via per istrada ad onta del Padrone i Pesi sì mal situati, che lo imbarazzano del tutto; o pure se vo-lesse far cammino, avrebbe tosto a cadere con pericolo di rompersi il collo, pei tanti impedimenti da’ quali è gravemente travagliato9.

voro e del produrre, destinato a esplodere nel tempo della fabbrica nel conflitto tra vecchi e nuovi modelli espresso anche nel complesso fenomeno del luddismo (Rivo-luzione industriale e classe operaia in Inghilterra, [1963] Milano, Mondadori, 1969), o la vitalità rivendicativa del proletariato di ERIC J. HOBSBAWM, fondamento della coscienza di classe dell’epoca industriale analizzata criticamente con un artico-lata lettura dei diversi soggetti operai in un’ottica di lungo periodo (Studi di storia del movimento operaio, [1964]Torino, Einaudi, 1972). 8 ERIC J. HOBSBAWM, Le rivoluzioni borghesi 1789-1848, [1962 ]Milano, Il Saggia-tore, 1963. 9 CARLO ANTONIO BROGGIA, Trattato de’tributi, delle monete: e del governo politico della sanità. Opera di stato, e di commercio, di polizia, e di finanza: "Molto, alla Feli-cità de’Popoli, alla Robustezza degli Stati, ed alla gloria e Possanza maggiore de’Principi conferente e necessaria, Napoli, presso Pietro Palombo, 1743, pp. 34-35.

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Lo “spirito dell’industria” si propose come una sorta di anima del secolo e, più ancora, del futuro e James Boswell ne scrisse da Utrecht a William Johnson Temple, nel 176410. Sul piano teorico, due diversi e convergenti criteri orientati al laissez-faire ebbero particolare fortu-na da allora, quello di Adam Smith e quello di Malthus11.

Adam Smith, costruendo uno schema interpretativo di economia politica, scienza che, di fatto fondava, indicava alcuni postulati fon-damentali del conflitto sociale avviato dall’industrialismo. Il lavoro prodotto da una Nazione, considerato su base annua, era la base per soddisfare bisogni e sussistenza, e la proporzione tra di esso e il nume-ro dei consumatori stabiliva la riuscita o meno dello schema su cui in-fluivano la produttività e il rapporto tra gli impegnati in lavori utili e quelli in opposta situazione. Soprattutto influiva la produttività che si connetteva al grado di civiltà di un popolo, mentre il numero di im-piegati in lavori utili dipendeva dalla quantità e dal modo d’impiego del capitale, a sua volta legato al principio dell’accumulazione. In lar-ga parte, questo schema dipendeva dall’orientamento degli stati, di re-gola non neutri rispetto agli orientamenti dell’economia e spesso in-fluenzati dalle teorie degli “scienziati”. Il capitolo più attinente al mo-dello produttivo riguardava la divisione del lavoro che Smith analiz-zava a partire dal confronto tra le piccole manifatture, le “secondarie” operanti su scala ridotta, dove si poteva ipotizzare una più corrente di-visione del lavoro, e le grandi manifatture, attive per gli ampi bisogni di massa con gran numero di operai:

Sebbene in queste manifatture il lavoro possa essere realmente suddiviso as-sai più che in quelle di minore importanza, la divisione non è altrettanto ov-via ed è stata pertanto osservata molto meno. Prendiamo dunque un esempio da una manifattura di scarsa importanza ma in cui la divisione del lavoro è stata molto spesso notata, quella della fabbricazione degli spilli. Un operaio non addestrato in questa attività […], né abituato all'uso delle sue macchine […], potrebbe forse a malapena, impegnandosi al massimo, fare uno spillo al

10 Lettera di James Boswell a William Johnson Temple, Utrecht, 17 giu. 1764, in THOMAS CRAWFORD (a cura), The Correspondence of James Boswell and William Johnson Temple, 1756-1795, I, 1756-1777, Yale et alia, Yale University- Edinburgh University Press, 1997, p. 102. 11 CLAUDIO DE BONI (a cura), Lo stato sociale nel pensiero politico contemporaneo, cit., pp. 40 segg.

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giorno, e certamente non potrebbe farne venti. Ma nel modo in cui ora viene svolta, non soltanto questa attività è un lavoro specializzato, ma è divisa in molti rami, la maggior parte dei quali parimenti specializzati. Un uomo svol-ge il filo metallico, un altro lo drizza, un terzo lo taglia, un quarto lo appunti-sce, un quinto lo arrota nella parte destinata alla capocchia; per fare la capoc-chia occorrono due o tre distinte operazioni; il montarla è un lavoro particola-re e il lucidare gli spilli è un altro, mentre mestiere a sé è persino quello di in-cartarli. La fabbricazione di uno spillo è così divisa in circa diciotto distinte operazioni, […]. Ognuno, facendo la decima parte di quarantottomila spilli, faceva quindi in media quattromilaottocento spilli al giorno. Ma se avessero lavorato separatamente e indipendentemente, e se nessuno di loro fosse stato addestrato a questo speciale mestiere, essi certamente non avrebbero potuto fare venti e forse nemmeno uno spillo al giorno ciascuno; cioè certamente nemmeno la duecentoquarantesima parte e forse nemmeno la quattromilaot-tocentesima parte di ciò che essi sono ora capaci di eseguire in conseguenza di una adeguata divisione e combinazione delle loro differenti operazioni12. Più avanti, Smith discuteva del prezzo delle merci e del valore del

lavoro. In regime di divisione del lavoro, l’operaio poteva ottenere con la sua fatica solo una parte dei mezzi per sussistenza e bisogni, avendo una più ampia parte dal lavoro degli altri, per cui il suo grado di ric-chezza o povertà dipendeva dalla sua quantità di lavoro e da quella che poteva acquistare. Ciò assegnava al lavoro la funzione di unità di misura del valore di scambio delle merci e di moneta “d’acquisto ori-ginaria” che, concettualmente, soppiantava la considerazione primaria assegnata all’oro dai mercantilisti e definiva anche il potere, ricondot-to a “potere d’acquisto”. Poiché però non era possibile stabilire esat-tamente la proporzione tra due differenti quantità di lavoro, l’esattezza del tempo di produzione o la qualità intellettuale e manuale intrinseca ai diversi tipi di lavoro, a livellare lo scambio tra le merci contenenti diverse quantità di “valore lavoro” era il mercanteggiare13.

Delle tre componenti principali del mondo produttivo, i proprietari terrieri, i capitalisti e i lavoratori salariati, erano gli ultimi due soggetti a riguardare più direttamente il modello indicato, confluendo entrambi nella definizione del valore lavoro. Nel prezzo delle merci, i profitti del capitale costituivano una componente diversa e autonoma dai sala- 12 ADAM SMITH, La ricchezza delle nazioni, Torino, UTET, 2006, p. 79 (An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, London, Methuen, 1776). 13 Ivi, p. 111.

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ri del lavoro, ma contribuivano entrambi a stabilire il prezzo delle merci14. I salari costituivano una parte semirigida, nel senso che la lo-ro destinazione era volta ai bisogni e alla sussistenza, ma poteva es-serci variabilità nel tempo ed anche secondo lo sviluppo delle capacità e competenze. Il capitale aveva una diversa dinamica, in quanto in parte destinato al medesimo scopo, in parte alla reintegrazione dell’investimento, in parte ancora al mantenimento del lavoro impro-duttivo (ad esempio quello dei domestici). La poliedricità del capitale e la sua funzione di corrispondere tanto al lavoro produttivo quanto a quello improduttivo, ne differenziava gli impieghi, e conduceva alla distinzione tra il capitale stesso (legato al lavoro produttivo) e il reddi-to, o profitto (destinato alla rendita e a remunerare il lavoro improdut-tivo). La ricchezza di una nazione si legava all’accumulazione del ca-pitale, per cui interesse dello Stato era favorirla al massimo, ed era ne-cessario lasciare al capitale ampi spazi di autonomia politica. Con A-dam Smith si affermava il principio dell’ «homo oeconomicus», rap-presentativo di una propensione individuale all’economia che era in grado di muovere lo sviluppo attraverso lo strumento del mercato, a-limentato ampiamente dalla ricerca di vantaggio del «birraio» o di altri commercianti e operatori. Il mercato diveniva il punto di riferimento della macroeconomia e di tutti gli alti gradi dell’economia sociale. In quell’ottica, e in generale nell’economia classica, da Adam Smith a David Ricardo, si delineava anche una concezione tripartita delle clas-si sociali determinanti, ricondotte a quella dei proprietari fondiari, le-gati alla rendita, a quella dei capitalisti agrari, commerciali e manifat-turieri, legati al profitto, a quella dei lavoratori dipendenti, legati al sa-lario, con chiara connotazione di una funzione non moderna della pro-prietà fondiaria.

La teoria era assai ricca e complessa, ma non si riduceva ad un ri-gido liberismo. Da una parte, dava largo spazio al “sovrano”, cioè allo Stato, dall’altro teneva conto con realismo dei rapporti di forza con-trattuali sorgenti dal sistema produttivo. Tra le due parti, capitale e la-voro, si determinava un regime contrattuale motivato dalle opposte e-sigenze ed era chiaramente un quadro conflittuale, dai poteri squili-brati: 14 Ivi, p. 132 segg.

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Quale sia il salario comune del lavoro, dipende ovunque dal contratto conclu-so ordinariamente tra le due parti, i cui interessi non sono affatto gli stessi. Gli operai desiderano ottenere quanto più è possibile, i padroni di dare quanto meno è possibile. I primi sono disposti a coalizzarsi per innalzare il salario del loro lavoro, i secondi a coalizzarsi per abbassarlo. Non è però difficile prevedere quali delle due parti deve in tutti i casi ordinari avere il sopravven-to nella disputa e costringere l’altra ad accedere alle sue condizioni. I padro-ni, essendo minor numero, possono coalizzarsi molto più facilmente; inoltre la legge autorizza, o almeno non proibisce, la colazione dei padroni, mentre proibisce quella degli operai. Non abbiamo leggi contro le coalizioni per ab-bassare il prezzo del lavoro, mentre ne abbiamo molte contro le coalizioni per elevarlo. In tutti i contrasti di questo genere, i padroni possono sostenere la lotta per un tempo assai più lungo degli operai. Un proprietario, un fittavolo, un industriale o un commerciante, anche senza dar lavoro ad un solo operaio, potrebbe in generale vivere un anno o due sui capitali che già possiede. Molti operai non potrebbero sussistere una settimana, pochi potrebbero sussistere un mese, e forse nessuno un anno, senza occupazione. A lungo andare, l’operaio può essere altrettanto necessario al suo padrone, quanto il suo pa-drone a lui; ma la necessità non è altrettanto immediata15.

1.1.2. La “piccola classe operaia” e l’orario di lavoro L’affermarsi nel Settecento di una concezione non vincolista, cioè

liberista, aveva scardinato il sistema corporativo, fondato su un con-cetto “familistico” del mestiere, in cui maestri, lavoratori dei ranghi inferiori, apprendisti, vivevano una sorta di fraternità gerarchicamente ordinata, legata assai spesso ai valori e ai simboli religiosi16. Le teorie liberiste dettero una straordinaria forza di governo alla trasformazione tra l’Antico regime e l’era nuova, ma il prezzo maggiore riguardava i lavoratori. Reso libero dall’abolizione del corporativismo e ricondotto, dopo secoli, alla contrattazione “individuale” della condizione di lavo-ro, il salariato si collocava in una condizione tra le più basse della sca-la sociale, in quella che Robert Castel ha definito l’indegnità del sala-riato”, per cui il nuovo principio apriva un’epoca di turbolenza e di

15 Ivi, pp. 60 segg. Cfr. anche MAURIZIO BENETTI-MARCO FORLANI-LUIGI LAMA, Elementi di economia. La dimensione sociale delle attività economiche, Roma, Edi-zioni Lavoro, 2005. 16 GERARD AUBIN-JACQUES BOUVERESSE, Introduction historique au droit du tra-vail, Paris, Presse Universitaire Française, 1995, p. 98.

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conflitti e faceva del salariato un particolare milite dell’esercito del pauperismo17.

In quell’esercito, una non trascurabile parte avevano bambini e bambine delle classi povere. Il tema del lavoro in quel caso assunse speciali caratteri. Era bene o male che quei piccolissimi andassero al lavoro in fabbrica? Il tema del lavoro e il tema pedagogico s’intersecavano, nel periodo in cui, avviata la stagione dei diritti natu-rali e dei diritti dell’uomo, nasceva una nuova sensibilità, segnata su un fronte dalle nuove concezioni di Luigi Pestalozzi, su un altro fronte dalla valutazione di chi, come l’evangelica Hannah More, raccoman-dava di tener conto dei diritti di adolescenti, ragazzi e bambini18. Bi-sognava guardarvi, - secondo la More che pure non spiccava per sim-patie rivoluzionarie, - favorendo l’ingresso nel lavoro, e la cosa aveva senso. A fronte delle agghiaccianti condizioni delle classi popolari specialmente rurali, il lavoro era valida alternativa e costituiva una fonte di reddito che sarebbe ricaduta a favore della famiglia e dunque dei bambini stessi. Ma il punto si rivelò presto un altro, le terribili condizioni di lavoro cui i piccoli si trovarono assoggettati in virtù del meccanismo produttivo indotto dalla concorrenza e dal mercato.

Una relazione dell’ufficio sanitario della città di Manchester, pub-blicata nel 1796, denunciava il collegamento tra l’introduzione dell’invenzione di Arkwright per la cardatura e la filatura del cotone e della lana e l'eccesso del lavoro imposto ai fanciulli nelle manifatture inglesi19. E, se l’aumento di quel tipo di lavoratori di 7-8-9 anni dei due sessi nella manifattura tessile fu effettivamente crescente fino a raggiungere oltre il 50% in alcuni opifici20, la fabbrica rivelò indubbi elementi di attrazione:

17 ROBERT CASTEL, Les metamorphoses de la question sociale. Une chronique du salariat, cit., pp. 341-351. 18 PHILIP E. VEERMAN, The rights of the child and the changing image of childhood, Dordrecht, Martinus Nijhoff, 1992, p. XV. 19 ROBERT S. FITTON, The Arkwrights: spinners of fortune, Manchester, Manchester University Press, 1989, p. 159. 20 ILARIONE PETITTI DI RORETO, Lavoro de'fanciulli nelle manifatture dissertazione, Torino, Stamperia Reale, 1841, p. 11.