Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

116

description

Italian weekly magazine about international news. "Il meglio dai giornali di tutto il mondo" (The best from newspapers all around the world) - no. 971 - 19th-25th october 2012

Transcript of Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Page 1: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)
Page 2: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)
Page 3: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)
Page 4: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)
Page 5: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)
Page 6: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)
Page 7: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 7

Sommario

inte

rnaz

ion

ale.

it/s

omm

ario

La settimana

19/25 ottobre 2012 • Numero 971 • Anno 19

coNfroNto18 Il Nobel per la pace

a un’Europa in crisi Le Monde

europA20 Belgio Le Soir

AfricA e medio orieNte22 Liberia Daily Maverick

Americhe24 Colombia El País

AsiA e pAcifico26 Cambogia

The New Yorker

visti dAgli Altri28 Chi salverà l’Italia? Prospect

iNchiestA48 Haiti ostaggio

degli aiuti Vrij Nederland

isrAele54 Scritto sulla pelle The New York Times

ecoNomiA60 Ricchi

grazie ai debiti Die Zeit

portfolio68 Vivere nell’hotel

fantasma Juan Manuel Castro

Prieto

ritrAtti74 Grigorij Perelman Playboy

viAggi78 Benvenuti

nella biovalle Libération

grAphic jourNAlism82 Angola Claire Eisenzopf

libri84 Ridere in faccia

all’apocalisse Le Monde

pop98 Legami catalani Antonio Muñoz

Molina

scieNzA 102 Tutti i virus

che respiriamo in un minuto

Le Monde

promemoriaiN copertiNA

Internet ci rende pazzi?Panico, depressione, psicosi. Stare sempre online modiica il nostro cervello. L’articolo di Newsweek (p. 40). Foto di H. Armstrong Roberts (Corbis).

tecNologiA107 Passaparola

digitale The Atlantic

ecoNomiA e lAvoro108 Cina 21 Shiji Jingji Baodao

cultura86 Cinema, libri,

musica, video, arte

Le opinioni

23 Amira Hass

25 Jason Horowitz

25 Yoani Sánchez

34 James Surowiecki

36 Juan Villoro

88 Gofredo Foi

90 Giuliano Milani

92 Pier Andrea Canei

94 Christian Caujolle

100 Tullio De Mauro

103 Anahad O’Connor

109 Tito Boeri

le rubriche14 Posta

17 Editoriali

112 Strisce

113 L’oroscopo

114 L’ultima

“Da quando Ettore ha sidato Achille sapendo di morire, la risposta ci è nota: gli eroi sono normali”

juAN villoro, pAgiNA

Newsweek Insieme a Time, è uno dei più importanti newsmagazine statunitensi. L’articolo a pagina 40 è uscito il 9 luglio 2012 con il titolo Is the web driving us mad? Playboy Fondato nel 1953, è un mensile statunitense noto per le foto erotiche ma anche per gli articoli dalla scrittura brillante. L’articolo a pagina 74 è uscito a luglio del 2012 con il titolo Shattered genius. Prospect È un mensile britannico di attualità, politica e cultura. L’articolo a pagina 28 è uscito a ottobre

del 2012 con il titolo Saving Italy. Vrij Nederland È un settimanale olandese di orientamento progressista. L’articolo a pagina 48 è uscito il 10 ottobre 2012. Die Zeit È un settimanale tedesco di centrosinistra. L’articolo a pagina 60 è uscito l’11 ottobre 2012 con il titolo Sie haben die Schulden – wir den Proit. Internazionale pubblica in esclusiva per l’Italia gli articoli dell’Economist.

le principali fonti di questo numero

Deputati e senatori del Partito democratico che il 29 aprile 2013, quando è previsto che scada l’attuale legislatura, avranno raggiunto il limite dei quindici anni in parlamento e non potranno più ricandidarsi, come previsto dall’articolo 3 dello statuto del partito salvo deroghe in casi particolari. Così, per promemoria.

Giovanni De [email protected]

25

24

19

19

19

18

18

17

16

16

16

16

15

302

20

15

15

15

333

257

14

356

356

356

356

278

Deputati

Livia Turco

Massimo D’Alema

Rosy Bindi

Mimmo Lucà

Giovanna Melandri

Walter Veltroni

Pierluigi Castagnetti

Cesare Marini

Gianclaudio Bressa

Lino Duilio

Giuseppe Fioroni

Giorgio Merlo

Francesco Tempestini

Anni + giorni

Fonte: elaborazione del Post su dati OpenPolis

Senatori

Anna Finocchiaro

Franco Marini

Emma Bonino

Anna Maria Seraini

Mariapia Garavaglia

Giuseppe Lumia

Enrico Morando

Mauro Agostini

Antonello Cabras

Marco Follini

Paolo Giaretta

Tiziano Treu

25

21

21

20

19

19

19

17

16

16

16

16

302

6

350

334

300

15

15

14

356

356

356

356

Page 8: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Immagini

Parola miaHempstead, Stati Uniti16 ottobre 2012

Barack Obama e Mitt Romney durante il secondo dibattito televisivo della campagna presidenziale. Il confronto si è svolto alla Hofstra university di Hemp stead, nello stato di New York, e ha avuto la forma di un dibattito libero: i due candidati si muovevano sulla sce-na interrompendosi, lanciandosi accu-se reciproche e rispondendo alle do-mande di undici elettori indecisi. Oba-ma e Romney s’incontreranno il 22 ot-tobre alla Lynn university di Boca Ra-ton, in Florida, per l’ultimo dibattito televisivo prima del voto. Foto di Mike Segar (Reuters/Contrasto)

Page 9: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)
Page 10: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)
Page 11: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Immagini

I segni della guerraJuba, Sud Sudan10 ottobre 2012

I pazienti del centro di riabilitazione di Juba, specializzato nella cura di persone che hanno subìto amputazioni. La strut-tura, donata dalla Croce rossa alle auto-rità locali nel 2009, dà assistenza a cen-tinaia di persone ogni anno. Vent’anni di guerra tra Sudan e Sud Sudan hanno duramente colpito la popolazione civile e si stima che almeno 40mila persone abbiano bisogno di protesi. Un terzo dei pazienti del centro di riabilitazione di Juba è vittima delle mine, gli altri sono stati feriti in guerra o hanno contratto delle infezioni gravi che non sono state curate. Foto di Camille Lepage (Afp/Getty Images)

Page 12: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Immagini

Caduta liberaNew Mexico, Stati Uniti14 ottobre 2012

Il paracadutista austriaco Felix Baum-gartner si lancia da una capsula a 39mila metri d’altezza in New Mexico, negli Stati Uniti. Baumgartner, che ha rag-giunto la velocità di 1.342 chilometri all’ora, è diventato il primo essere uma-no a superare il muro del suono in cadu-ta libera. La sua discesa è durata circa nove minuti, di cui quattro in caduta li-bera. I dati ottenuti saranno usati per contribuire allo sviluppo di tecnologie per la sicurezza di piloti e astronauti. (Red Bull Stratos/Content Pool via Getty Images)

Page 13: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)
Page 14: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

14 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

[email protected]

Medici come noi u Mi spiace vedere un artico-lo come quello sui medici (28 settembre) profondamente deprimente e forse ofensivo per chi come me ha assistito un proprio caro malato di can-cro. Si associa il riiutare acca-nimenti terapeutici al riiuto di qualunque cura, mentre è ormai dimostrato che la che-mio assicura non solo la so-pravvivenza ma molto spesso la qualità della vita. Gianni Balduzzi

u Sono un oncologo e molte volte ho seguito pazienti e i lo-ro familiari in scelte delicate. Spesso i pazienti sono protetti dai parenti che non vogliono rivelare una prognosi poco fa-vorevole. La decisione su co-me afrontare le terapie onco-logiche deve basarsi su una scelta consapevole, e per que-sto il paziente dev’essere in-formato nel modo più comple-to possibile. Si ridurrebbero così i trattamenti inutili, e si eviterebbe il rischio di non trattare pazienti curabili.Diego Dongiovanni

Satira a New York

u La pagina delle vignette è una delle migliori di Interna-zionale. Non riesco però a condividere la vostra passione per le vignette del New Yor-ker, che sono allo stesso livel-lo di banalità di quelle delle ri-viste di enigmistica degli anni sessanta.Roberto Lanza

I libri di Rusbridger

u La foto del direttore del Guardian Alan Rusbridger nel suo studio di Londra (5 otto-bre) è una di quelle immagini che si potrebbero studiare per mezz’ora con una lente d’in-grandimento. Che libri legge il direttore di uno dei princi-pali quotidiani del mondo? E se ce n’è uno particolarmente utile, posso averlo anch’io?Fabio Galli

Le stelle di Parma

u Abito a Parma e mi dispiace leggere articoli come quello (5 ottobre) in cui l’amministra-zione 5 stelle appare come una

follia di un paese politicamen-te all’ultimo stadio. Questa giunta sta realizzando prove di democrazia diretta e parte-cipata. Le associazioni di vo-lontariato sono convocate e ascoltate, così come i genitori e gli insegnanti. È questa la politica che vogliamo, fatta di buone intenzioni, buon senso ed esperimenti mai fatti pri-ma. Ramona Pagnottaro

Errata corrige

u Nel numero 970 lo studio ovale della Casa Bianca è stato chiamato erroneamente stanza ovale.

PER CONTATTARE LA REDAZIONE

Telefono 06 441 7301 Fax 06 4425 2718Posta viale Regina Margherita 294, 00198 RomaEmail [email protected] internazionale.it

INTERNAZIONALE È SU

Facebook.com/internazionaleTwitter.com/internazionaleFlickr.com/internazYouTube.com/internazionale

Le lettere possono essere modiicate per ragioni di spazio e chiarezza.

Dopo aver letto inavverti-tamente un sms in cui mia iglia mi apostrofa come “quella rompipalle di mia madre”, sento di aver sbagliato qualcosa. Che ine ha fatto la mia piccola? –Antonia

E invece ti è andata proprio bene. Perché quando si legge “inavvertitamente” un sms di un iglio, si può trovare di tutto: “Se non è un iPhone 5 non m’interessa, scordati le mie foto nuda”, oppure: “Siamo scappati all’arrivo della polizia, ma la roba è ri-masta nel locale”. O, di certo

la più terriicante di tutti: “Ne parlo con mia madre perché lei è la mia migliore amica”.

Allora sì, avresti sbagliato tutto. Perché, non so te, ma io al mio migliore amico non gli ho mai pulito la cacca dal sedere, non l’ho mai imboc-cato, non gli ho mai messo una supposta. E, anche se non posso negare di averci pensato, non ho mai passato la notte abbracciato a lui. I i-gli non sono nostri amici. Anzi, i igli sono i nostri ne-mici. Adorabili, afettuosi e insopportabili nemici. E noi siamo i rompipalle. Quelli

che devono dire “no”. Siamo i cancelli contro cui sbattono la testa queste piccole belve alla ricerca di libertà.

La tua piccolina è ancora lì, nascosta sotto vari strati di brufoli, istinto ribelle e ondate ormonali. E sono certo che, se riuscirai a rom-perle le palle ancora per qualche anno, quell’sms di-venterà: “Chiedo consiglio a mia madre, perché mi ido della sua opinione”.

Claudio Rossi Marcelli è un giornalista di Internazio-nale. Risponde all’indirizzo [email protected]

Dear daddy

A letto con il nemico

Le correzioni

u Quasi non c’è bisogno di dir-lo: Internazionale non ama le maiuscole. Dovunque si giri, le elimina: a nord, a sud, a est e a ovest. Abbassa la m del monte Everest e inabissa la o dell’oce-ano Atlantico. In qualunque epoca: nel cinquecento, negli anni ottanta, dopo l’illumini-smo o prima della resistenza. Fa scendere il pil e l’iva, rim-picciolisce perino il web. Ridi-mensiona strade e piazze, da boulevard Saint-Germain a Wall street. Agli enti, ai partiti e alle associazioni concede so-lo una maiuscola, la prima: Partito repubblicano, Amnesty international, Croce rossa. Per questioni di copyright, però, deve accettare non solo la Nu-tella ma anche eBay e iTunes. Dietro una maiuscola c’è a vol-te la manifestazione di una certa riverenza. Internazionale invece rispetta tutti e non rive-risce nessuno, ministro o papa che sia. Neanche le istituzioni: tutte minuscole, dalla camera dei deputati alla presidenza del consiglio, dalla commissio-ne giustizia a tutto il parlamen-to. Fedele alla vocazione scrit-ta nel suo nome, fa però ecce-zione per alcune istituzioni in-ternazionali, come il Consiglio d’Europa e il Tribunale penale internazionale per il Ruanda. Dà due maiuscole alle Nazioni Unite ma una all’Unione euro-pea: non per svilire il Nobel, ma perché l’Unione ha scelto così.

Giulia Zoli è una giornalista di Internazionale. L’email di questa rubrica è [email protected]

Abbassole maiuscole

Page 15: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

WWW.WOOLRICH.IT - SHOP ONLINE WOOLRICH.WPSTORE.COM

-

1982 2012

AN

NI V E R S

A

RY

Page 16: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)
Page 17: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 17

Editoriali

Per caso avete sentito tremare la terra, la notte del 15 ottobre? Non era un terremoto nel sud del Maine, ma Mitt Romney che si preparava per il dibattito con Obama della sera successiva. “Non taglierò le tasse ai più ricchi”, ha detto il candida-to repubblicano. “Ogni cittadino statunitense dovrebbe avere accesso ai contraccettivi. Per troppo tempo il nostro partito si è concentrato sulle grandi aziende”. Come disse una volta Bill Clinton, ci vuole una bella faccia tosta. Ma dopo 90 minuti di discussione animata (per non dire aggressiva), pochi elettori sintonizzati sul dibat-tito in tv avrebbero confuso Romney con Obama. Nonostante la recente virata al centro del repub-blicano, i due candidati appaiono profondamen-te divisi nelle convinzioni e nella visione del futu-ro degli Stati Uniti, e nel dibattito del 16 ottobre la distanza che li separa è emersa chiaramente.

Romney punta sui mercati in politica interna e sul machismo in politica estera: vuole brandire la scimitarra contro Iran e Cina e cancellare mez-zo secolo di conquiste sociali distruggendo im-pietosamente il welfare. È apparso più grintoso e convincente quando ha promesso di agevolare le

aziende e lasciare spazio al libero mercato. “So come fare per creare posti di lavoro”, ha ripetuto più volte. Obama, al contrario, crede in un ap-proccio collettivo. All’estero costruisce con pa-zienza solide alleanze, mentre sul fronte interno promuove un patto sociale condiviso. Il presiden-te ha dato il meglio di sé quando ha risposto all’ul-tima domanda, tracciando una divisione netta tra il suo approccio aperto e l’atteggiamento sprezzante di Romney verso la parte meno bene-stante del paese. “Noi siamo diversi”, ha sottoli-neato.

Entrambi i candidati hanno cercato di con-quistare le donne di provincia, spesso attente alla contabilità familiare quanto ai diritti e alle que-stioni di principio. Il problema è che i tagli previ-sti da Romney colpiscono proprio le cose che stanno a cuore alle madri di famiglia: l’istruzio-ne, l’assistenza sanitaria e le biblioteche. Rom-ney ha interrotto il presidente per dichiarare che “lo stato non crea posti di lavoro”. Forse dovreb-be andarlo a dire alle migliaia di insegnanti, in-fermiere scolastiche e poliziotti che lavorano non per il governo, ma per tutti i cittadini. u as

Obama e Romney atto secondo

Separatismi europei

Renée Loth, The Boston Globe, Stati Uniti

Financial Times Deutschland, Germania

“Dovremmo essere noi ad avere il controllo del nostro successo”. Il primo ministro scozzese Alex Salmond si è espresso così per motivare la sua aspirazione all’indipendenza. Sembra un discor-so ragionevole, che però aggira una domanda cruciale: che dire degli insuccessi come quello della Royal Bank of Scotland, soccorsa con un pacchetto di salvataggio di 46 miliardi di sterline e oggi proprietà del governo britannico?

È questo il nocciolo della questione che si po-ne ai movimenti separatisti: i nuovi stati potreb-bero sopravvivere anche in caso di crisi? Di certo in Catalogna, nei Paesi Baschi, nelle Fiandre e in Italia settentrionale questa possibilità viene so-stenuta con discorsi di fuoco, non sempre del tut-to insensati. Sarebbe facile liquidare questi di-scorsi come follia. Ma in posti come la Scozia sono spesso persone ragionevoli a sostenere il separa-tismo, che ha profonde radici storiche. Inoltre, la rivendicazione dell’autonomia non è rivolta con-tro l’Europa, ma contro uno stato centrale che da anni decide senza consultare la popolazione. L’Europa è un’unione eterogenea di tante identità

regionali e nazionali. Perché negare l’autodeter-minazione a uno scozzese o a un catalano?

L’aspirazione all’indipendenza è giustiicabi-le, ma non ofre risposte agli interrogativi crucia-li che l’Europa deve afrontare oggi. Solo il supe-ramento dei conini e del pensiero nazionale ha assicurato benessere e sicurezza all’Europa. Lo stesso vale per le crisi bancarie, economiche e i-nanziarie che hanno colpito paesi piccoli come l’Irlanda. Solo una comunità estesa può aiutare a risolvere problemi che uno stato non potrebbe afrontare da solo. Di questo si rendono conto an-che i separatisti. I catalani, per esempio, vorreb-bero staccarsi dalla Spagna, ma poi bussano alla porta di Madrid per chiedere aiuto. Non è possibi-le rivendicare successi e ricchezze da una parte mentre dall’altra si delegano problemi e oneri allo stato centrale o all’Unione europea.

L’Europa deve conservare la sua eterogeneità regionale. Ma per ottenere questo risultato non bisogna proclamare ogni volta un nuovo stato: alla lunga si rischia così di compromettere la ca-pacità dell’Unione di risolvere i problemi. u fp

“Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio,di quante se ne sognano nella vostra ilosoia”William Shakespeare, Amleto Direttore Giovanni De MauroVicedirettori Elena Boille, Chiara Nielsen, Alberto Notarbartolo, Jacopo ZanchiniComitato di direzione Giovanna Chioini (copy editor), Stefania Mascetti (Internazionale.it), Martina Recchiuti (Internazionale.it), Pierfrancesco Romano (copy editor)In redazione Annalisa Camilli, Carlo Ciurlo (viaggi, visti dagli altri), Giovanna D’Ascenzi, Camilla Desideri (America Latina), Simon Dunaway (attualità), Mélissa Jollivet (photo editor), Alessandro Lubello (economia), Alessio Marchionna (inchieste), Maysa Moroni (photo editor), Andrea Pipino (Europa), Francesca Sibani (Africa e Medio oriente), Junko Terao (Asia e Paciico), Piero Zardo (cultura), Giulia Zoli (Stati Uniti) Impaginazione Pasquale Cavorsi, Valeria Quadri Segreteria Teresa Censini, Luisa Cifolilli Correzione di bozze Sara Esposito, Lulli Bertini Traduzioni I traduttori sono indicati dalla sigla alla ine degli articoli. Giuseppina Cavallo, Manuel Ciccarelli, Diana Corsini, Stefania De Franco, Andrea De Ritis, Désirée Marianini Torta, Giusy Muzzopappa, Floriana Pagano, Francesca Rossetti, Fabrizio Saulini, Andrea Sparacino, Bruna TortorellaDisegni Anna Keen. I ritratti dei columnist sono di Scott Menchin Progetto graico Mark Porter Hanno collaborato Gian Paolo Accardo, Giovanni Ansaldo, Luca Bacchini, Francesco Boille, China Files, Catherine Cornet, Gabriele Crescente, Sergio Fant, Andrea Ferrario, Antonio Frate, Francesca Gnetti, Anita Joshi, Lore Popper, Fabio Pusterla, Marta Russo, Marc Saghié, Andreana Saint Amour, Angelo Sellitto, Laura Tonon, Pierre Vanrie, Guido VitielloEditore Internazionale srl Consiglio di amministrazione Brunetto Tini (presidente), Giuseppe Cornetto Bourlot (vicepresidente), Emanuele Bevilacqua (amministratore delegato), Alessandro Spaventa (amministratore delegato), Antonio Abete, Giovanni De Mauro, Giovanni Lo StortoSede legale via Prenestina 685, 00155 Roma Produzione e difusione Francisco Vilalta Amministrazione Tommasa Palumbo, Arianna CastelliConcessionaria esclusiva per la pubblicità Agenzia del marketing editorialeTel. 06 809 1271, 06 8066 0287 [email protected] Download Pubblicità S.r.l.Stampa Mondadori printing, via Luigi e Pietro Pozzoni 11, 24034 Cisano B.sco (Bg) Distribuzione Press Di, Segrate (Mi)Copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Signiica che può essere riprodotto a patto di citare Internazionale, di non usarlo per ini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Per questioni di diritti non possiamo applicare questa licenza agli articoli che compriamo dai giornali stranieri. Info: [email protected]

Registrazione tribunale di Roma n. 433 del 4 ottobre 1993Direttore responsabile Giovanni De MauroChiuso in redazione alle 20 di mercoledì 17 ottobre 2012

PER ABBONARSI E PER

INFORMAZIONI SUL PROPRIO

ABBONAMENTO

Numero verde 800 156 595(lun-ven 9.00-19.00),dall’estero +39 041 509 9049Fax 030 319 8202Email [email protected] internazionale.it/abbonati

LO SHOP DI INTERNAZIONALE

Numero verde 800 321 717(lun-ven 9.00-18.00)Online shop.internazionale.itFax 06 4555 2945

Imbustato in Mater-Bi

Page 18: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

18 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Confronto

In questi tempi di disfattismo euro-peo, l’attribuzione del premio Nobel per la pace all’Unione europea deve essere accolta con gioia. È un ricono-

scimento per la strada fatta finora e allo stesso tempo un incoraggiamento per il fu-turo.

Il comitato per il Nobel ha premiato un progetto politico. L’Europa non è solo la somma delle sue gravi diicoltà economi-che attuali. È anche una volontà politica: quella di fondare la pace su una comunità di valori che non nega gli stati nazionali ma li sublima. È una strada diicile. Le Monde ne è consapevole e ha sempre sostenuto la costruzione europea in dalla dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950, con cui l’allo-

ra ministro degli esteri francesi propose di mettere in comune il carbone e l’acciaio eu-ropei. Allora Le Monde deinì la dichiara-zione “una proposta rivoluzionaria” e parlò di “un contributo che potrebbe essere deci-sivo per la causa dell’unità europea e della pace”.

Quell’iniziativa ha dato al vecchio con-tinente sessant’anni di prosperità e di pace. Certo, questi obiettivi sono stati garantiti anche grazie alla protezione della Nato e agli aiuti economici degli Stati Uniti. Ma nulla sarebbe stato possibile senza la ricon-ciliazione francotedesca. L’intesa tra Parigi e Berlino è laboriosa e diicile. Ma rimane indispensabile per l’Europa.

Oltre i coniniL’Unione europea è sopravvissuta alla ca-duta del muro di Berlino e alla riuniicazio-ne tedesca, un trauma accettato con dii-coltà dai francesi, che consideravano l’Ue alla stregua di una Francia allargata. Nel frattempo è arrivato l’allargamento ai paesi dell’est. È stato un successo, come testimo-nia il successo economico della Polonia. E

anche se esistono serie minacce antidemo-cratiche in Ungheria e in Romania, la situa-zione sarebbe ancora più diicile se questi paesi fossero rimasti ai margini dell’Ue.

Rimane l’euro. Nel 1992 Le Monde ha difeso il trattato di Maastricht e oggi rifa-rebbe la stessa cosa, senza esitazioni. An-che in quel caso il progetto era politico. Il trattato era incompleto e la moneta unica presentava gravi difetti di costruzione, che però oggi sono in via di correzione.

L’Unione europea ha ricevuto il premio Nobel per la sua “pace interna”. Impotente di fronte alle guerre scoppiate in Jugosla-via, l’Ue non è stata capace di diventare una forza in grado di agire oltre i suoi conini. Anche se rappresenta un’entità commer-ciale internazionale, da un punto di vista militare, diplomatico, in altre parole politi-co, semplicemente non esiste. L’eurodepu-tato verde Daniel Cohn-Bendit chiede da tempo l’attribuzione all’Ue di un seggio al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Ma è una pia illusione, visto che il paciismo tedesco sembra inconciliabile con le velleità di po-tenza britanniche e francesi.

La scelta del comitato per il Nobel pone all’Europa anche un altro spinoso proble-ma: nessuno sa chi pronuncerà il discorso di ringraziamento, se il presidente della Commissione José Manuel Barroso o quel-lo del Consiglio europeo Herman van Rom-puy. Forse sarebbe ora di fondere le funzio-ni. In questo modo l’Europa acquisterebbe anche un volto riconoscibile. u adr

Il Nobel per la pacea un’Europa in crisi

L’Unione europea è stata premiata per aver saputo garantire al vecchio continente sessant’anni di pace. Un riconoscimento che è anche un uno stimolo per il futuro

Le Monde, Francia

u “L’Unione europea ha sempre ignorato i conlitti del continente, specialmente quelli nei Balcani”, scrive sul quotidiano România

Liberă lo storico romeno Ovidiu Pecican. “Ma c’è di peggio: oggi l’Ue sembra sul punto di espellere la sua più importante componente balcanica e ortodossa, la Grecia. Solo perché Atene non riesce a tenere il passo delle sue aspettative economiche e non riesce a soddisfare pienamente le richieste di Bruxelles, l’Ue è pronta a smantellare l’intero sistema di valori su cui è costruita. Se l’Europa si allontanasse dalla Grecia, un’idea con cui molti politici europei stanno lirtando, volterebbe le spalle a una parte della sua storia, alla sua stessa ragion d’essere”. Invece di premiarla, conclude Pecican, il comitato per il Nobel avrebbe dovuto “ricordare all’Unione europea tutte le discriminazioni che ancora tollera. Perché la cosa più importante per l’Ue non è vincere premi, ma guadagnarsi la iducia dei suoi cittadini”.

Contro Senza coraggio

FAB

RIz

IO B

EN

SCH

(RE

Ut

ER

S/C

ON

tR

ASt

O)

Page 19: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 19

L’assegnazione del premio Nobel al presidente Barack Obama al-la ine del primo anno del suo mandato fu una curiosa scom-

messa sul futuro: un giorno, forse, sarebbe diventato un paladino della pace. L’annun-cio dell’assegnazione del premio all’Unione europea, arrivato il 12 ottobre, è una scom-messa ancora più curiosa sul passato. È ve-ro, l’Ue ha portato la pace dove per secoli c’era stata la guerra e ha integrato i paesi dell’est in un’Europa allargata. Qualche an-no fa sarebbero stati degli ottimi motivi per assegnarle il Nobel per la pace. Questi suc-cessi storici, tuttavia, fanno sembrare il mi-sero presente dell’Ue ancora più fosco. Più che un’iniezione di iducia in tempi di au-sterità, il premio è un triste ricordo di come sia caduto in basso il sogno europeo. Que-sta visione è stata tradita dalle lotte interne su una crisi dell’euro ancora irrisolta, che ha smascherato la mancanza di volontà politi-ca dei leader europei.

Il Nobel, tuttavia, viene assegnato per quello che un candidato ha fatto all’estero. E qui il silenzio del comitato che ha premia-to l’Ue è eloquente perché, detto brutal-mente, una politica estera europea non esiste. Su qualsiasi tema – dal processo di pace in Medio Oriente alla primavera ara-ba, dall’Iran alle relazioni con la Cina, l’Afri-ca o l’America Latina – l’Europa conta meno della somma delle sue parti. Oggi Bruxelles ha ambasciate in tutto il mondo, e nessun vertice internazionale può dirsi completo senza una nutrita presenza di funzionari che parlano “a nome dell’Europa”. È un te-atrino di riti e protocolli dall’esito spesso avvilente. Alle Nazioni Unite, su molti temi l’Europa viene rappresentata da un solo

ambasciatore. In questo modo ci si rispar-mia lo spettacolo della parata dei relatori, ma anche questa scelta ha un prezzo. Le po-sizioni europee, anche per gli standard dell’Onu, il più delle volte sono talmente vaghe da rasentare l’assurdo. E questo per-ché sono il frutto di un compromesso tra tutti gli ambasciatori dell’Ue.

Nessuna autorevolezza

Per quanto riguarda la Turchia, il comitato per il Nobel sostiene che il negoziato con Bruxelles “ha favorito la democrazia e i di-ritti umani nel paese”. Peccato che l’opposi-zione di diversi paesi europei all’integrazio-ne turca abbia spinto Ankara a guardare al-trove in cerca di amicizie e partnership. Quanto alla primavera araba, che ine ha fatto la leadership che l’Ue aveva esercitato in modo tanto autorevole nei paesi dell’est dopo il 1989? Gli aiuti economici e il soft po-wer avevano dato all’Europa un ruolo di pri-mo piano che la crisi sembra aver eroso.

Sui negoziati per il nucleare in Iran, l’Ue ha la leadership formale, ma le decisioni vengono prese ancora a Washington (e sempre più spesso a Gerusalemme, a quan-to sembra). Anche nel processo di pace in

Una scelta

imbarazzante

Il premio è un omaggio sentimentale e stravagante al passato di un’istituzione gloriosa. Che oggi mostra tutta la sua debolezza e una totale mancanza di coraggio

Mark Malloch-Brown, Financial Times, Regno Unito

Medio Oriente l’Europa, che è storicamen-te vicina a Israele ed è anche tra i maggiori sostenitori economici della Palestina, con-tinua a latitare.

È questo il dilemma: anche tralasciando l’attuale crisi della governance economica, l’Europa è un mercato, una società, una cul-tura, più che un sistema di governo. Ci ha ricordato i nostri valori condivisi e la nostra storia, e in tempi migliori ci ha avvolti nella prosperità e nel calore della cittadinanza comune dopo secoli di guerre. Ma la forza e il coraggio di promuovere la pace oltre i suoi conini, al servizio dei diritti umani e della democrazia, sono l’antitesi dei valori di questa Ue molle e autocompiaciuta. Sulla Cina, per esempio, la battaglia per i diritti umani è relegata in secondo piano perché gli stati membri sono troppo impegnati a farsi concorrenza a caccia di accordi com-merciali. Oggi, inoltre, in un momento di estrema difficoltà economica, Bruxelles sembra meno coraggiosa che mai. I Nobel non dovrebbero premiare l’ossessione per i processi e le procedure. Quelli più sensati sono andati a individui e istituzioni corag-giosi, che hanno sidato le convenzioni del-la loro epoca per promuovere la pace. E per questo sono spesso stati discussi e criticati.

Il Nobel dovrebbe ricompensare questi sforzi e celebrare le migliori capacità dell’essere umano. Per questo motivo il ri-conoscimento all’Unione ci sembra un omaggio stravagante e sentimentale al pas-sato dell’Europa, che ne mortiica ancora di più il presente. Solo un premio per l’econo-mia sarebbe stato più improbabile. u fas

A favore I meriti di Bruxelles“Il lungo periodo di pace vissuto dall’Unione euro-pea rende il Nobel di quest’anno più giustiicato rispetto a quello a Barack Obama del 2009”, scrive il quotidiano estone Posti-mees. “Eppure, perché concederlo ora e non nel 2004, dopo l’integrazione dei paesi dell’est? Il valore del riconoscimento è so-prattutto simbolico. Anche in una fase di profonda cri-si, oggi l’Europa non ri-schia di scivolare verso un conlitto vero e proprio, come sarebbe successo

cent’anni fa”. Secondo lo slovacco Sme, “il merito principale dei sessant’anni di pace in Europa va certa-mente al piano Marshall e alla forza militare degli Stati Uniti e della Nato. Ma questo non signiica che la riconciliazione tra Francia e Germania non abbia avuto un ruolo fondamen-tale. Anche il mercato co-mune e il libero movimen-to delle persone hanno contribuito alla pace. E l’integrazione dei paesi ex comunisti ha ampliato lo spazio di pace, sicurezza e

libertà. Nonostante tutte le sue deformazioni, i pia-ni di salvataggio e le trop-pe regole, la vita al di fuori di questa istituzione sareb-be più pericolosa e pove-ra”. Nelle attuali diicoltà, scrive il danese Jyllands-Posten, “c’è bisogno di più Europa. Ma questo vuol dire che certe que-stioni sull’identità e il ruo-lo dell’Ue vanno discusse prima del voto del 2014. Unità nella diversità, mag-giore iducia in se stessi e più coraggio. Ecco cosa chiede questo premio”. u

Page 20: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

20 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

EuropaLa scommessadi De Wever

Bart Sturtewagen, De Standaard, Belgio

B art De Wever è il vincitore indi-scusso delle elezioni ammini-strative che si sono svolte in Bel-gio il 14 ottobre. Il suo partito, la

Nuova alleanza iamminga (N-Va), ha con-quistato Anversa e lui diventerà sindaco. Nella capitale fiamminga l’N-Va ha rag-giunto la soglia del 40 per cento. Ma il trion-fo dei iamminghi interessa tutte le Fiandre. L’N-Va ha ottenuto due importanti risultati: ha conquistato la città simbolo della regio-ne e il radicamento locale che gli mancava per consolidare il suo potere politico, inora legato soprattutto alla popolarità del suo leader. In molti comuni la vittoria dell’N-Va è stata ottenuta soprattutto grazie ai voti sottratti al Vlaams Belang. Questo è di certo un punto a favore della formazione di We-ver, che è riuscita a fermare l’estrema de-stra. Ma da qui a chiedere ai partiti franco-foni di negoziare subito il passaggio a una confederazione, il passo è troppo lungo. Per due motivi. Innanzitutto perché queste era-no elezioni comunali e non politiche. De Wever non è diventato primo ministro né ha ottenuto l’incarico di formare un gover-no. È diventato sindaco di Anversa. E dovrà dimostrare di essere all’altezza del compi-to. Inoltre, il risultato del voto non gli per-mette di trasformare la vittoria di Anversa

in un referendum contro il primo ministro Elio Di Rupo e i socialisti. Perché nelle Fian-dre il partito più votato rimangono i cristia-nodemocratici, alleati di Di Rupo a livello federale. In secondo luogo ad Anversa De Wever non ha battuto il socialismo ma Pa-trick Janssens. La cui sconitta è dovuta an-che al successo dei verdi e dei laburisti.

Nuovi segnaliNon dobbiamo farci illusioni, però: il suc-cesso dell’N-Va è un fattore destabilizzante per il paese. Ad Anversa, De Wever ha vinto la seconda tappa della sua corsa verso la na-scita di una confederazione e il separati-smo. Il risultato del voto non ha spalancato la porta all’indipendenza, ma i francofoni farebbero un grave errore a ignorare questo nuovo segnale in arrivo dalle Fiandre. Que-sta zwart-gele zondag (domenica giallo-ne-ra, dai colori della bandiera fiamminga) rende ancora più incerto il futuro del Bel-gio. Anche perché la sconitta dei socialisti indebolisce la posizione del primo ministro nel governo federale. Non è più il momento di lamentarsi, di fare i conti o di tergiversa-re. Quello che succede nelle Fiandre ha bi-sogno di una risposta. Altrimenti De Wever imporrà la sua linea. Perché ha un obiettivo e sa come raggiungerlo. u adr

I nazionalisti iamminghitrionfano ad Anversa

Béatrice Delvaux, Le Soir, Belgio

La Nuova alleanza iamminga (N-Va) di Bart De Wever è stata la vera trionfatrice del voto del 14 ottobre. La scommessa del suo

leader, che ha trasformato le elezioni in un’anticipazione del voto politico del 2014, è stata vinta a mani basse. De Wever non ha ottenuto solo Anversa, si è imposto anche dal mare del Nord alla Mosa. Il segnale lan-ciato non lascia spazio a dubbi. I partiti na-zionali che, seppur controvoglia, hanno deciso di sostenere il governo di Elio Di Ru-po, non sono stati in grado di dare credibili-tà alla coalizione. Per questo De Wever li ha ignorati e si è rivolto al premier per negozia-re la nascita di un Belgio confederale.

De Wever è il primo nazionalista iam-mingo a diventare sindaco di Anversa. E nei prossimi anni forse si limiterà a gestire il comune. Tuttavia, spinto dalla storia, oggi guarda di nuovo verso Bruxelles. E a Di Ru-po ha già imposto un negoziato sulla forma istituzionale del paese. Altrimenti i conti si faranno alle elezioni del 2014. In poco tem-po l’N-Va è diventato il protagonista della politica iamminga. Per De Wever, tuttavia, conciliare la funzione di sindaco e quella di presidente del partito sarà un inferno. Chi vuole sidare l’N-Va, sempre che vi siano partiti così ambiziosi, può unicamente spe-rare che l’incubo scompaia da solo. Intanto i cristianodemocratici e i democratici libe-rali, che sostengono il governo iammingo, si trovano di fronte a un dilemma. Cambia-re il presidente delle Fiandre con i tempi che corrono è un rischio. Ma senza un nuo-vo slancio le prossime elezioni rischiano di diventare una severa punizione. u adr

FR

AN

Co

Is L

EN

oIR

(RE

uT

ER

s/C

oN

TR

AsT

o)

Bart De Wever (al centro) ad Anversa, il 14 ottobre 2012

Page 21: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 21

L’opposizione di centrosinistra ha vinto il primo turno delle elezioni politiche del 14 ottobre e ha già avviato le consultazioni per la formazione del governo. I più votati sono stati i laburisti di Viktor Uspaskich (19,9 per cento dei consensi), seguiti dai socialdemocratici di Algirdas Butkevičius (18,4 per cento), mentre l’Unione della patria del premier Andrius Kubilius, negli ultimi quattro anni alla guida di una coalizione di centrodestra che ha varato politiche di austerità molto severe, si è fermata al 15 per cento. In attesa del secondo turno, che si terrà il 28 ottobre e assegnerà 68 seggi sui 141 del parlamento di Vilnius, la situazione non è ancora chiarissima e diverse soluzioni sono possibili. “Ma il vero vincitore è Uspaskich e a lui spetta decidere chi formerà il governo”, scrive Lietuvos Rytas. “Ma è chiaro che la nuova coalizione, qualunque forma assumerà, non avrà la forza di quella precedente”. u

Lituania

Sconitta l’austerità

MIn

dA

Ug

As

KU

LB

Is (A

P/L

AP

RE

ssE

)

An

dR

EJ I

sAK

OV

IC (A

FP/

gE

TT

Y IM

Ag

Es)

RuSSia

Torna il voto per le regioni Il partito del presidente russo Vladimir Putin, Russia unita, ha ottenuto l’ennesima vittoria nel voto che si è svolto il 14 ottobre per eleggere governatori e sin-daci in cinque regioni e più di quattromila comuni. Era dal 2005 che i governatori delle re-gioni non venivano scelti con un voto popolare, sottolinea Neza-visimaja Gazeta. secondo il quotidiano, il successo di Russia unita “è dovuto soprattutto alla

iducia che i russi continuano a nutrire nei confronti di Putin”, anche se va rilevato che la parte-cipazione al voto è stata bassissi-ma, meno del 25 per cento. L’op-posizione ha denunciato ovun-que brogli e irregolarità, soprat-tutto a Khimki, vicino a Mosca, città simbolo della lotta degli ecologisti contro il progetto del Cremlino per la costruzione di un’autostrada nelle foreste cir-costanti. Qui l’attivista dell’op-posizione Evgenia Čirikova, protagonista di quella battaglia e candidata alla poltrona di sin-daco, è stata sconitta dal candi-dato di Russia unita Oleg Šakov.

Vilnius, 14 ottobre 2012

Regno uniTo

un referendumper la Scozia Il referendum sull’indipenden-za della scozia si farà. Lo hanno deciso il 15 ottobre il premier britannico david Cameron e il irst minister scozzese Alex sal-mond (nella foto con Cameron), con la irma dell’accordo di Edimburgo. La consultazione, spiega il Glasgow Herald, do-vrebbe svolgersi nell’autunno del 2014. Potranno votare gli scozzesi dai 16 anni in su, e il quesito conterrà una domanda secca sull’indipendenza. non sono previste proposte su altre forme di autonomia. stando ai sondaggi, però, gli scozzesi sono favorevoli a una maggiore auto-nomia, ma sempre nell’ambito del Regno Unito.

Spagna

el país tagliae licenzia Un terzo dei giornalisti licenzia-ti e tagli agli stipendi del 15 per cento. Anche El País, il più pre-stigioso quotidiano spagnolo e giornale di punta del gruppo Pri-sa, “accusa i colpi della crisi del-la carta stampata e della reces-sione”, scrive il Guardian. Il comitato di redazione ha convo-cato nove giorni di sciopero to-tale tra il 25 ottobre e l’8 novem-bre e ha chiesto le dimissioni del direttore Javier Moreno. di re-cente anche altri due grandi giornali spagnoli, El Mundo e Abc, hanno fatto pesanti tagli all’organico.

JER

EM

Y s

UT

TO

n-H

IBB

ER

T (g

ET

TY

IMA

gE

s)

in bReve

Montenegro La coalizione gui-data dal Partito democratico dei socialisti (dps) guidato da Milo Đukanović ha vinto le elezioni legislative del 14 ottobre, per la nona volta di ila dal 1990.Repubblica Ceca L’opposizio-ne socialdemocratica (Cssd) e comunista (Kscm) ha vinto le elezioni regionali e senatoriali del 12 ottobre. Spagna Il 16 ottobre si è aperto a La Coruña il processo per il naufragio della petroliera Pre-stige, avvenuto il 19 novembre 2002. Alla sbarra ci sono il co-mandante greco Apostolos Mangouras e altre tre persone.

ex jugoSLavia

Karadžić alla sbarra È cominciata all’Aja il 16 ottobre la difesa di Radovan Karadžić di fronte al Tribunale penale inter-nazionale per la ex Jugoslavia. L’ex leader serbo-bosniaco, alla sbarra per genocidio e crimini di guerra, ha scelto una linea di di-fesa basata sulle provocazioni: come scrive Oslobodjenje, ha afermato di avere fatto “tutto il possibile per evitare la guerra e limitare il numero di vittime”. Karadžić, che si difende da solo, senza avvocati, si è inoltre dei-nito “un uomo tollerante e pie-no di comprensione per il pros-simo, che meriterebbe un pre-mio per il bene che ha fatto”. nelle prossime settimane chia-merà a testimoniare in sua dife-sa numerose persone, tra le qua-li diversi funzionari e osservato-ri dell’Onu.

Page 22: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

22 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Africa e Medio Oriente

Dopo le dure critiche per aver premiato Barack Obama nel 2009, quand’era ancora all’ini-zio del suo mandato presiden-

ziale, nel 2011 il comitato del premio Nobel per la pace ha fatto una scelta più sicura ri-conoscendo il ruolo delle donne nella poli-tica globale. I giurati hanno assegnato il premio alla yemenita Tawakkul Karman e a due liberiane: Ellen John son Sirleaf, la pri-ma donna eletta come presidente in Africa, e Leymah Gbowee, un’attivista della socie-tà civile.

Tuttavia, come dimostra l’esempio di Obama, è pericoloso tessere le lodi di presi-denti ancora in carica. Non tutti in Liberia hanno accolto bene la notizia della premia-zione di Johnson Sirleaf, in parte per l’atmo-sfera tesa prima delle elezioni presidenziali liberiane del novembre del 2011 (vinte poi

da Johnson Sirleaf ), ma anche per alcuni interrogativi sulla sua leadership. Il gover-no liberiano è accusato di corruzione e ne-potismo, e Johnson Sirleaf è stata duramen-te criticata per i suoi vecchi legami con il si-gnore della guerra Charles Taylor.

Gli incarichi dei igliDi recente Leymah Gbowee ha inferto un nuovo colpo alla reputazione di Johnson Sirleaf dimettendosi dall’incarico di capo della commissione governativa per la pace e la riconciliazione. Secondo Gbowee, John son Sirleaf non fa abbastanza per com-battere la corruzione e il nepotismo in Libe-ria. “Se non avessi parlato, sarei stata com-plice delle cose che stanno succedendo nel

paese”, ha dichiarato. Il nepotismo nell’am-ministrazione di Johnson Sirleaf è simbo-leggiato dagli incarichi assegnati ai suoi tre igli: Robert dirige l’azienda petrolifera di stato ed è consulente economico della pre-sidente, Fumba è a capo dell’agenzia per la sicurezza nazionale, mentre Charles è vice-governatore della banca centrale (al mo-mento è stato sospeso per non aver dichia-rato il suo patrimonio). Gbowee sostiene anche che Johnson Sirleaf non ha fatto ab-bastanza per lottare contro la povertà: “Du-rante il suo primo mandato ha sviluppato le infrastrutture. Ma a cosa servono le infra-strutture se i liberiani non hanno da man-giare? Il divario tra ricchi e poveri aumenta. In Liberia o si è ricchissimi o si è poverissi-mi, non esiste la classe media”.

Queste critiche, che possono sembrare sorprendenti all’estero, in Liberia non fan-no notizia. “Le questioni sollevate da Gbo-wee sono discusse in tutti i settori della so-cietà”, dichiara un dipendente di un’ong internazionale attiva in Liberia. “Da mesi, se non da anni, si denuncia il fatto che gli incarichi più importanti sono affidati ad amici e parenti. I ministri ricevono ogni me-se stipendi da trentamila dollari mentre un semplice funzionario ne guadagna cento”.

Un consulente del governo liberiano conferma che il nepotismo è molto difuso: “Un gran numero di incarichi importanti sono assegnati su designazione del presi-dente e, grazie a questo potere, Johnson Sirleaf ha praticamente riempito il governo di parenti e alleati. Alcuni difendono le sue scelte sostenendo che in Liberia ci sono po-che persone qualiicate. La presidente per-ciò non avrebbe fatto altro che nominare le uniche persone qualiicate, che però, in un modo o nell’altro, sono legate a lei. C’è un fondo di verità in questo, ma non è abba-stanza per giustiicare la portata del feno-meno”.

A quanto pare Gbowee ha ragione su un punto: corruzione e nepotismo sono davve-ro un problema per Johnson Sirleaf. Ma questo non dovrebbe compromettere il giu-dizio complessivo sulla sua presidenza: te-nuto conto della storia violenta della Libe-ria, si tratta di questioni d’importanza rela-tivamente minore, un piccolo prezzo da pagare per la stabilità e lo sviluppo econo-mico favorito da Johnson Sirleaf. Tuttavia se la presidente non sarà in grado di risolve-re questi problemi, lo sviluppo non andrà molto lontano, e lo stesso vale per la sua re-putazione. u gim

La reputazione ofuscatadi Ellen Johnson Sirleaf

Nel 2011 avevano vinto insieme il Nobel per la pace. Oggi l’attivista Leymah Gbowee ha preso le distanze dalla presidente liberiana, accusandola di corruzione e nepotismo

Simon Allison, Daily Maverick, Sudafrica

ESP

EN

RA

SMU

SSE

N (P

AN

OS/

LU

ZP

HO

TO

)

Monrovia, novembre 2011. Ellen Johnson Sirleaf alla tv liberiana

Page 23: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 23

“Qualunque sia il risultato del-le elezioni amministrative, creeremo un comitato per vigi-lare sul comportamento delle autorità di El Bireh”, una città della Cisgiordania. La promes-sa è arrivata a conclusione di un incontro elettorale organiz-zato da El Bireh per tutti, una delle due liste in gara. La lista rivale, Indipendenza e svilup-po, aveva organizzato un altro incontro alla stessa ora, in una sala più grande. Le elezioni si svolgeranno il 20 ottobre in 94 comuni. In altri 181 (in gran parte villaggi) gli abitanti si so-

no messi d’accordo per una li-sta unica. In 36 dei 94 comuni in bilico le formazioni di sini-stra sono riuscite a formare una lista unica, superando vec-chie rivalità. Finalmente i ten-tativi dei leader della sinistra di costruire una terza forza che possa sidare Al Fatah e Hamas cominciano a dare i loro frutti.

El Bireh per tutti è una di queste liste. Quella rivale è in-vece ailiata ad Al Fatah. Oggi il partito al potere deve misu-rare la sua forza elettorale do-po la pesante sconitta del 2006 (ma all’epoca in gara

c’era anche Hamas). La cam-pagna elettorale di Al Fatah è piena di promesse di mettere ine all’occupazione.

“Sono chiacchiere senza senso”, spiega uno dei candi-dati di El Bireh per tutti. “Noi siamo qui per migliorare i ser-vizi. Un contesto sociale più equo aumenta la nostra capa-cità di combattere per la causa nazionale”. La storia personale dei candidati (condanne alla prigione, anni di lavoro nei sin-dacati, attivismo femminista) rende credibile la loro promes-sa. u as

Da Ramallah Amira Hass

Una lista unica per la sinistra

“L’Egitto è di tutti”: è lo slogan scandito dai manifestanti che il 12 ottobre sono tornati a piazza Tahrir, al Cairo, per denunciare lo strapotere dei Fratelli musulmani nella commissione che deve redigere la costituzione. Quel giorno sono scoppiati degli scontri con i partecipanti di una manifestazione

rivale, indetta dai sostenitori della Fratellanza e del presidente Mohamed Morsi per protestare contro il proscioglimento dei poliziotti accusati della repressione sanguinosa dei manifestanti durante la “battaglia dei cammelli”, nel febbraio del 2011. Dopo la sentenza, pronunciata il 10 ottobre, Morsi ha chiesto le dimissioni del procuratore generale Abdel Meguid Mahmoud, proponendogli un altro incarico. Ma il procuratore ha riiutato perché il presidente non ha l’autorità per licenziarlo. Si è creata così l’impressione che i giudici (molti dei quali nominati dal vecchio regime) assicurino l’impunità ai poliziotti accusati di aver ucciso dei manifestanti. “Chiediamo un’indagine sui massacri di Maspero, di Tahrir e di Port Said”, scrive Tahrir, elencando le più gravi violenze dell’ultimo anno. u

Egitto

Rivali in piazza

Tahrir, Egitto

nigERia

i contadini contro la Shell L’11 ottobre si è aperto nei Paesi Bassi il processo che vede quat-tro contadini nigeriani, appog-giati dal gruppo Friends of the earth, contro la Shell. L’azienda petrolifera, spiega Vanguard, avrebbe infranto la legge perché non ha riparato in fretta i suoi oleodotti, inquinando acque e terreni. L’azione legale potrebbe creare un precedente nelle cau-se per risarcimento legate alle attività delle multinazionali.

in bREvE

Israele Il 15 ottobre il governo ha indetto le elezioni legislative anticipate per il 22 gennaio 2013.Libia Il 14 ottobre l’assemblea nazionale ha eletto primo mini-stro Ali Zeidan. Il nuovo pre-mier dovrà formare un governo entro due settimane.Mauritania Il presidente Mo-hamed Ould Abdel Aziz è rima-sto ferito il 13 ottobre in un mi-sterioso incidente ed è stato tra-sferito a Parigi per le cure. Sa-rebbe stato ferito da un soldato.

SiRia

La propostadi brahimi Ad Aleppo i combattimenti tra esercito e ribelli hanno colpito la moschea degli Omayyadi (nella foto), la più grande e antica della città. Gli abitanti del nord della Siria continuano a scappare ver-so la Turchia, dove i profughi sono diventati più di centomila, “un numero che va oltre le capa-cità di accoglienza”, scrive Al Akhbar. La tensione tra Ankara e Damasco è ancora più alta do-po che l’aviazione turca ha co-stretto all’atterraggio due aerei diretti in Siria. Lakhdar Brahimi, inviato dell’Onu e della Lega araba, ha visitato vari paesi della regione (tra cui l’Iran) per pro-porre una tregua per le vacanze dell’Aid al Adha, il 26 ottobre.

coSta D’avoRio-MaLi

contattipericolosi “Cosa sono andati a fare, lo scorso giugno, i sostenitori dell’ex leader ivoriano Gbagbo al conine tra Senegal e Maurita-nia?”, chiede Slate Afrique. Se-condo un rapporto dell’Onu, “sono andati a reclutare merce-nari da Ansar Eddine, uno dei gruppi islamisti che controllano il nord del Mali, per scatenare il caos in Costa d’Avorio. I sosteni-tori di Gbagbo (che il 14 ottobre hanno attaccato vari obiettivi vi-cino ad Abidjan) hanno formato tre gruppi armati in esilio, che a luglio, in Ghana, hanno unito le forze contro l’attuale governo”.

RE

UT

ER

S/C

ON

TR

AST

O

Page 24: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

24 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Americhe

La Colombia ha imparato la lezio-ne. Dopo cinquant’anni di guerri-glia e dopo molti processi di pace falliti, il paese non si fa più illusio-

ni davanti all’ennesimo tentativo di risolve-re paciicamente il conlitto armato interno. L’atteggiamento dei colombiani potrebbe essere deinito con la nota formula di Anto-nio Gramsci: “Il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà”.

L’intelligenza ci suggerisce che la cosa più probabile è un altro fallimento. La vo-lontà ci spinge a cercare di raggiungere un accordo di pace, perché non è possibile che la Colombia sia l’unico paese di tutto il con-tinente americano dove c’è ancora una guerra civile. Due fattori, più della persi-stente ingiustizia sociale comune a tutta la regione, hanno determinato l’insolita dura-ta del conlitto colombiano: la complessità geograica del paese (500mila chilometri quadri di montagne coperte dalla foresta), che ofre un nascondiglio quasi inespugna-bile ai ribelli, e il traico di cocaina, che ar-ma e alimenta un esercito irregolare di più di diecimila uomini.

Popolarità bassaDal punto di vista militare, gli ultimi dieci anni non sono andati bene per le Farc. Più di diecimila combattenti hanno deposto le armi volontariamente, sono stati arrestati o uccisi in combattimento. Il leggendario lea- der Manuel Marulanda, alias Tirofijo, è morto di vecchiaia, ma alcuni dei capi più importanti della guerriglia sono morti nei bombardamenti o in operazioni militari di grande precisione. La popolarità della guer-riglia è molto bassa: secondo alcuni son-daggi indipendenti, oggi meno del 3 per

cento della popolazione sostiene le Farc.Il contesto politico latinoamericano do-

vrebbe aiutare i negoziati. Hugo Chávez, che è stato un alleato clandestino della guerriglia, oggi è il primo sostenitore di una pace negoziata. Il presidente venezuelano vorrebbe trovare nella Colombia un alleato per il suo progetto bolivariano continentale. Un altro segnale incoraggiante è il fatto che le conversazioni di preparazione segrete tra le parti (che si svolgevano a Cuba) non si sono interrotte neanche nel novembre del 2011, quando l’esercito colombiano ha ucci-so il leader della guerriglia Alfonso Cano.

Anche il governo dà segnali di serietà e realismo. Se è vero che s’impara dal passa-to, dopo una storia di processi di pace pieni di errori e di fallimenti, Juan Manuel Santos sembra afrontare questo nuovo negoziato con attenzione e pragmatismo. Primo: si parla, ma si rimanda il cessate il fuoco a una fase più avanzata dei colloqui. Secondo: non si concede alla guerriglia neanche un centimetro di territorio e le conversazioni si portano avanti all’estero (Norvegia e Cuba,

C’è speranza per le trattativetra le Farc e la Colombia

Dal 17 ottobre Oslo ospita i colloqui di pace tra la guerriglia e il governo colombiano. Se tutti faranno tesoro degli errori passati, questa volta i negoziati potrebbero avere successo

Héctor Abad Faciolince, El País, Spagna

con il sostegno di Cile e Venezuela). Terzo: è stata creata una squadra piccola e seria di negoziatori che comprende gli avversari diretti della guerriglia, l’esercito e la polizia. Il fatto che tra i cinque negoziatori ci siano due noti generali a riposo (uno della polizia, il generale Óscar Naranjo, e un altro dell’ala più dura dell’esercito, il generale Jorge Mo-ra) indica che le forze armate s’impegne-ranno a rispettare gli accordi.

Foresta più vulnerabileIn passato lo sterminio dei militanti di un partito vicino alla guerriglia (Unión pa-triótica) ha scoraggiato i guerriglieri dal deporre le armi, per paura di essere uccisi una volta tornati alla vita civile o se avesse-ro tentato di fare politica per via elettorale. In varie occasioni le Farc si sono alzate dal tavolo dei negoziati dopo aver fatto grandi passi avanti.

Ma oggi non ci guadagnerebbero niente, a parte la probabilità di morire, con la barba ormai bianca, in una foresta che la tecnolo-gia militare ha reso più vulnerabile. u fr

Héctor Abad Faciolince è uno scrittore colombiano. Il suo ultimo libro è L’oblio che saremo (Einaudi 2009).

DE

RM

OT

TA

TL

OW

(LA

IF/C

ON

TR

AST

O)

Colombia, 2006. Un elicottero sorvola la giungla alla ricerca di piantagioni di coca

Page 25: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 25

Il 16 ottobre alla Hofstra uni-versity, nello stato di New York, Barack Obama si è risve-gliato. Dopo la prova iacca del primo dibattito contro Mitt Romney, ha recuperato. Il pre-sidente ha attaccato l’ex go-vernatore del Massachusetts su donne, lavoro, tasse, ener-gia, immigrazione e perino sulla Cina, accusando il suo avversario di aver investito in aziende che permettono al go-verno cinese di spiare i cittadi-ni statunitensi.

Quando gli hanno chiesto che diferenze ci fossero tra Romney e George W. Bush,

Obama ha risposto che Rom-ney “è ancora più estremista sulle politiche sociali”.

Obama ha spesso strappato applausi, specialmente quan-do ha usato contro Romney quello che dovrebbe essere il punto di forza dell’ex governa-tore, ovvero la sua carriera di uomo d’afari. Il presidente ha chiesto a Romney se, da inve-stitore, avrebbe mai accettato un accordo da ottomila miliar-di di dollari senza avere spie-gazioni sulla copertura. Natu-ralmente no, ha detto Obama, rispondendosi da solo. “Sareb-be un afare sospetto”.

Per la prima volta Obama ha difeso con convinzione il suo operato in pubblico, ab-bozzando anche una visione per il futuro. Ma soprattutto, ha provato ad allontanare Romney dal territorio mode-rato che il suo avversario era riuscito a conquistare nel pri-mo dibattito, riportandolo sul-le posizioni di estrema destra delle primarie repubblicane. Obama è riuscito nel suo in-tento, tanto che Romney si è lamentato perché lo staf del presidente lo ha dipinto “in modo completamente diverso da come sono”. ◆ fas

Da Washington Jason Horowitz

La rivincita

ARGENTINA

Giustizia dopoquarant’anni “Il 15 ottobre”, scrive il Clarín, “il tribunale di Comodoro Riva-davia ha condannato all’erga-stolo tre ex uiciali della marina argentina per il massacro di Tre-lew, avvenuto il 22 agosto 1972, quando furono fucilati 19 mili-tanti di vari gruppi armati del paese”. La sentenza, ricorda Pá-gina 12, segna un precedente perché anticipa la data d’inizio del terrorismo di stato nel paese.

IN BREVE

Brasile Il 14 ottobre la polizia ha efettuato un’operazione nel-le favelas di Manginhos e Jaca-rezinho, due delle più violente di Rio de Janeiro.Stati Uniti Il 16 ottobre la corte d’appello federale di Washing-ton ha annullato la condanna di Salim Ahmed Hamdan, ex auti-sta di Osama bin Laden ed ex detenuto a Guantanamo, perché il sostegno materiale al terrori-smo non può essere considerato un crimine di guerra.

Dall’Avana

◆ Per venti volte in cinque an-ni mi hanno negato il permes-so di viaggiare. Ma avevo im-parato a vivere nella mia reclu-sione insulare. Mi ero consola-ta dicendomi che, in in dei conti, la materia prima della mia scrittura si trovava qui, nella realtà dell’isola, e che per me sarebbe stato molto duro separarmi anche solo per qualche settimana dalla mia famiglia. Erano frasi che mi ri-petevo perché la frustrazione e l’indignazione per l’impossibi-lità di viaggiare non mi feris-sero troppo.

Questa settimana è stata approvata una nuova legge sulla migrazione che entrerà in vigore il 13 gennaio 2013. A partire da quella data i cubani non avranno più bisogno di un permesso per uscire dal paese e non servirà neanche una let-tera d’invito di uno straniero o di un parente emigrato. Una notizia che è stata accolta con gioia da milioni di cubani den-tro e fuori dell’isola. Bisogna ancora provare nei fatti i limiti e la portata della nuova dispo-sizione, perché sembra che il governo manterrà un iltro per i professionisti e i critici del si-stema. Nel frattempo sto già preparando la valigia. Mi dico che sarà possibile, che mi la-sceranno viaggiare, che a gen-naio riuscirò a prendere quell’aereo. Forse è solo un pensiero ottimistico. Tra pochi mesi lo saprò. ◆ fr

Yoani Sánchez è una blogger cubana.

Cuba aprele porte

Stati Uniti

“Una delle cose più interessanti che scopriremo il 6 novembre è se negli Stati Uniti esiste un movimento per il cibo degno di questo nome, cioè una forza politica organizzata in grado di battersi per cambiare il sistema alimentare”. Michael Pollan, l’autore di In difesa del cibo e Il dilemma dell’onnivoro, interviene

sul New York Times Magazine a sostegno della Proposition 37, il referendum con cui gli elettori della California decideranno se mettere sui prodotti alimentari un’etichetta che indichi se contengono organismi geneticamente modiicati (ogm). “La proposta potrebbe cambiare le politiche sul cibo a livello nazionale”. E non è solo una questione di sicurezza alimentare e ambientale. “La battaglia è contro il potere delle multinazionali come Monsanto, che sono il simbolo di tutto quello che la gente non ama dell’agricoltura industriale: la prepotenza delle aziende, la mancanza di trasparenza, le regole imposte agli allevatori, la pioggia di pesticidi sulle monocolture intensive e il monopolio dei semi, cioè delle risorse genetiche da cui dipende l’umanità”.

The New York Times Magazine, Stati Uniti

La garanzia dell’etichetta

Page 26: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

26 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Asia e Paciico

La prima cosa da ricordare a propo-sito di Norodom Sihanouk, re della Cambogia fino al 2004 e morto il 15 ottobre a Pechino, è

che negli anni settanta era il capo onorario dei Khmer rossi. Sotto il comando di Pol Pot regnò sul paese mentre quasi due milioni di cambogiani venivano sterminati. E pazien-za se lo stesso Pol Pot (cresciuto nel palazzo reale di Phnom Penh prima di essere man-dato a studiare a Parigi, dove diventò comu-nista) in precedenza aveva incitato al regi-cidio, definendo nel 1952 la monarchia “una piaga infetta che solo il popolo può eli-minare”. Sihanouk pensava solo a se stes-so.

Dopo aver provato con efetti disastrosi a mettere gli uni contro gli altri i contenden-ti della guerra fredda alla vigilia del conlit-to in Vietnam ed essere stato spodestato dal

Il fantasma

di re Sihanouk

I cambogiani piangono la scomparsa del re che consideravano il simbolo della gloria nazionale. Mentre era la personiicazione della tragica storia del paese

Philip Gourevitch, The New Yorker, Stati Uniti

Da

MIr

Sa

go

lj (

rE

ut

Er

S/C

oN

tr

aSt

o)

Phnom Penh, 15 ottobre 2012

trono, Sihanouk vide in Pol Pot uno stru-mento per riconquistare il potere. Pol Pot, a sua volta, considerava Sihanouk come una storia di copertina ideale per la sua rivolu-zione, una facciata monarchica per la can-cellazione totale della storia cambogiana e l’illusione dell’anno zero.

Quando ho visitato la Cambogia nel 1998, poco dopo la morte di Pol Pot, ho scritto che il nome di Sihanouk era “diven-tato il principale strumento di reclutamento dei Khmer rossi, e alla ine il movimento comunista più estremo della storia ha con-quistato il potere a rimorchio di un re”. Ep-pure, invece di pagare per aver scatenato un inferno in terra, Sihanouk si comportava come se fosse una vittima al pari della mag-gior parte dei khmer. la seconda cosa da ricordare a proposito di Sihanouk è che quando decise di andare all’estero, dopo aver riconquistato il trono negli anni novan-ta, si trasferì a Pyongyang. Di tutti i posti sulla terra scelse proprio la capitale della Corea del Nord, dove Kim Il-sung stava la-sciando morire di fame milioni di persone È lì che Sihanouk si sentiva a casa, crogiolan-dosi nel lusso in un posto dove nessun altro essere umano, potendo scegliere, avrebbe voluto farsi vedere, ospite di un altro signo-

re che pretendeva di essere l’incarnazione del popolo che stava massacrando senza chiedere scusa. la terza cosa da ricordare su Sihanouk è la prima che leggerete in tutti i necrologi: i cambogiani l’hanno sempre rispettato, e a tratti perino venerato. Invece di considerarlo la personiicazione della lo-ro tragica storia del ventesimo secolo, i cambogiani in lutto che nei giorni scorsi a Phnom Penh piangevano la sua scomparsa fuori dal palazzo imperiale, lo vedevano co-me la gloria nazionale che non è mai stato, eccetto forse nella sua fantasia.

Le radici della violenza

Come l’idea perversa della distruzione da compiere nel nome dell’autenticità nazio-nalista concepita da Pol Pot, anche il mirag-gio del monarchismo khmer, secondo cui il re non era altro che la personiicazione della gloria nazionale, era nato a Parigi. Quando, alla ine dell’ottocento, i francesi colonizza-rono l’Indocina, scoprirono nel cuore della giungla la magniicenza dei palazzi e del tempio di angkor. gli studiosi francesi ali-mentarono nei cambogiani del novecento l’illusione che la loro famiglia reale portasse con sé tutte le promesse della grandezza passata dei khmer. a Phnom Pehn i francesi costruirono un nuovo palazzo reale, lo stes-so dove Sihanouk è stato allevato per diven-tare un dio-re. Dunque non bisogna sor-prendersi del fatto che, purtroppo, mentre i Khmer rossi inauguravano il loro regno ge-nocida, Pol Pot e Sihanouk si facevano foto-grafare insieme tra le rovine di angkor.

Nel 1998 sottolineavo l’inluenza biz-zarra che la gloriicazione francese del pas-sato della Cambogia aveva avuto sulla sto-ria contemporanea del paese: “Sentirsi dire che si è potenti mentre la realtà dimostra il contrario è come sentirsi dire che si sta sba-gliando qualcosa. Se una frattura così umi-liante tra immagine e sostanza non è ricom-posta, ci si può ritrovare appesi al patibolo della formula di Salman rushdie: ‘Impu-denza, vergogna: le radici della violenza’”. Dopo la morte di Pol Pot, Hun Sen – l’ex quadro dei Khmer rossi che guida il paese dal 1985 – è riuscito a schiacciare la monar-chia e la democrazia, consolidando il suo potere. Questa settimana, recuperando le mie note mentre i giornali pubblicavano i necrologi di Sihanouk, ho trovato una vec-chia dichiarazione del re. “Il tempo svelerà le bugie e la disonestà: la storia non ha spa-zio per loro”. Mi sembra impossibile che Sihanouk ci credesse davvero. u as

Page 27: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 27

“Nessuno oggi vorrebbe essere nei panni di Robert Vadra”, scrive Tehelka riferendosi al genero di Sonia Gandhi al centro di un nuovo scandalo che coinvolge politica e mondo degli afari. Il 5 ottobre Arvind Kejriwal, nuovo volto del movimento anticorruzione che ha da poco fondato un partito, ha accusato

Vadra di aver ottenuto denaro dal gigante immobiliare Dlf in cambio di favori, o di promesse di favori. Il patrimonio di Vadra e di sua madre Maureen, denuncia Kejriwal, è aumentato in maniera spropositata negli ultimi anni, dopo l’acquisizione, tra il 2007 e il 2010, di 31 proprietà immobiliari a prezzi molto inferiori rispetto al loro valore attuale. Su questo Kajriwal chiede l’apertura di un’inchiesta. Vadra nega ogni accusa e il partito del Congress, guidato da Sonia Gandhi, lo difende a spada tratta. Il 16 ottobre è stato trasferito Ashok Khemka, ispettore generale per l’agenzia per il territorio nello stato dello Haryana. Pochi giorni prima aveva ordinato un’indagine su alcuni acquisti di terreni conclusi da Robert Vadra. ◆

India

Imbarazzo per il Congress

Tehelka, India

KIRGHIZISTAN

Maxim Bakiyevin manette Il 12 ottobre Maxim Bakiyev (nella foto), iglio dell’ex presi-dente kirghiso Kurmanbek Ba-kiyev, è stato arrestato a Londra. Era ricercato per appropriazione indebita di decine di milioni di dollari in fondi statali. Maxim Bakiyev, scrive Eurasianet, vi-veva nel Regno Unito da quando suo padre aveva lasciato il Kir-ghizistan in seguito alla solleva-zione popolare del 7 aprile 2010. Da allora Maxim, che durante il regime era a capo dell’agenzia centrale per lo sviluppo, gli inve-stimenti e l’innovazione, gode-va di asilo temporaneo. Diicil-mente sarà concessa l’estradi-zione perché Londra e Bishkek non hanno un accordo in questo senso e per molti paesi occiden-tali il sistema giudiziario kirghi-so non è in grado di garantire un giusto processo.

CINA

Minorenniin fabbrica La Foxconn ha ammesso di aver fatto lavorare nel suo stabili-mento di Yantai alcuni minori di sedici anni nei mesi estivi, scri-ve il South China Morning Post. L’azienda, che dice di non aver controllato i documenti de-gli stagisti, punta il dito contro la scuola che ha mandato i suoi studenti in fabbrica a fare un mese di “pratica sociale”. Gli stage sarebbero stati promossi dal governo dal 2010.

VL

AD

IMIR

PIR

oG

oV

(RE

UT

ER

S/C

oN

TR

AST

o)

THAILANDIA

A corto di infermieri

ogni anno centinaia di infer-mieri degli ospedali pubblici tai-landesi lasciano l’impiego a cau-sa delle dure condizioni di lavo-ro e delle scarse garanzie oferte da contratti temporanei, scrive The Nation. In Thailandia il rapporto tra il numero degli in-fermieri e la popolazione è 1,5 ogni mille abitanti, mentre in Norvegia, dove c’è il miglior si-stema sanitario al mondo, è 31,9. A causa della scarsità di in-fermieri, molti ospedali sono costretti a chiudere interi repar-ti. Altri per fare interventi chi-rurgici devono ricorrere al per-sonale degli ospedali privati. Entro il 2017 il paese avrà biso-gno di cinquantamila infermieri nel settore pubblico e in quello privato per assistere la popola-zione.

IN BREVE

Pakistan Malala Yousafzai, l’attivista di 14 anni rimasta feri-ta in un attacco dei taliban nel distretto di Swat, il 15 ottobre è stata trasferita in un ospedale di Birmingham, nel Regno Unito.Birmania Il 15 ottobre il gover-no ha negato all’organizzazione della conferenza islamica (oci) l’autorizzazione ad aprire una sede nel paese. Nei giorni prece-denti migliaia di monaci buddi-sti avevano manifestato contro l’oci.Cina L’11 ottobre Amnesty in-ternational ha denunciato l’au-mento degli espropri forzati nel paese.

L’India avrà l’uranio australianoStabilire le basi di un accordo sul nucleare civile è stato uno degli obiettivi della visita di tre giorni in India della premier australiana Julia Gillard. Nel dicembre del 2011 il Partito laburista al governo, che per anni ha sostenuto il bando alla vendita di uranio a New Delhi in quanto non irmataria del Trattato di non proliferazione, ha cam-biato posizione. Canberra, che produce il 40 per cento dell’uranio mondiale, rifornisce già Cina, Giappone, Taiwan e Stati Uniti.

MA

NIS

H S

wA

RU

P (A

P/L

AP

RE

SSE

)

AA

MIR

QU

RE

SHI (

AF

P/G

ET

TY

IM

AG

ES)

Gillard e Manmohan Singh, New Delhi, 17 ottobre 2012

Page 28: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

28 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

è uno strano ma irresistibile dramma politico, economico e morale. Strano, perché i prin-cipali protagonisti non sono uomini politici convenzionali: sono un professore, un comico

capellone e un miliardario amante delle barzellette. Irresistibile, perché il paese in questione è l’Italia, la terza economia dell’eurozona, che arranca sotto il peso del terzo debito pubblico del mondo. Un dram-ma, perché gli sviluppi di questa storia de-termineranno il destino dell’euro, e dunque diranno se il mondo si avvierà verso la ripre-sa o afonderà in una nuova grande depres-sione.

Quando è cominciata questa storia? Se-condo molti, nel novembre del 2011, quan-do un’improvvisa impennata dei tassi d’in-teresse sui titoli di stato, una discussione durata quattro mesi su tagli necessari ma non realizzati e un sostegno parlamentare vacillante hanno portato alle dimissioni Sil-vio Berlusconi, il miliardario barzellettiere e amante delle donne che governava l’Italia da otto anni. Il presidente della repubblica Giorgio Napolitano ha nominato al suo po-sto Mario Monti, un professore di fama in-ternazionale ed ex commissario europeo, aidandogli la guida di quello che gli italia-ni deiniscono un “governo tecnico”, for-mato soprattutto da altri professori.

Fuori dall’Italia la nomina apparente-mente improvvisa del professor Monti, all’epoca tranquillo rettore dell’università

Bocconi di Milano, è apparsa non democra-tica, soprattutto se si considera che stava succedendo la stessa cosa in Grecia, con l’incarico a Lucas Papademos, ex governa-tore della banca centrale. Il professor Mon-ti è stato fatto entrare in fretta e furia in par-lamento con la nomina a senatore a vita voluta da Giorgio Napolitano.

Però solo pochi italiani hanno giudicato non democratico questo passaggio: la piaz-za davanti al Quirinale era piena di gente, soprattutto giovani, che festeggiavano la caduta di Berlusconi. Alcuni di loro hanno intonato l’Hallelujah di Händel per sancire la liberazione da un governo sommerso da-gli scandali che aveva ridicolizzato l’Italia sulla scena internazionale (qualche mese prima la cancelliera tedesca Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, all’epoca presidente francese, avevano perfino ammiccato in modo umiliante parlando di Berlusconi du-rante una conferenza stampa congiunta al termine di un vertice europeo). Un coro di alleluia per festeggiare l’arrivo di un nuovo messia, Mario Monti, che avrebbe redento l’Italia dai suoi peccati.

Mali antichiLa storia però non è cominciata nel novem-bre del 2011, ma vent’anni fa, quando l’Ita-lia afrontò una crisi inanziaria e politica dalla quale non si è ancora ripresa: la lira uscì dal Sistema monetario europeo (Sme) sotto il peso, allora come oggi, di un debito pubblico pari al 120 per cento del pil, e la vecchia classe politica uscì fragorosamente di scena travolta da scandali e corruzione, e dall’azione della magistratura (Mani puli-te), che spazzò via i due partiti al potere da decenni, la Democrazia cristiana e il Partito socialista.

Anche nel 1992 la risposta fu un governo tecnico, a dire il vero due, e secondo alcuni tre. Il primo fu quello presieduto da Giulia-

no Amato, un’astuto politico dal piglio pro-fessorale; poi toccò a Carlo Azeglio Ciampi, governatore della Banca d’Italia; inine fu la volta di Lamberto Dini, ex diplomatico. Al-la guida di quelli che in altri paesi sarebbero stati deiniti “governi di unità nazionale”, tutti cercarono di introdurre una serie di ri-

Chi salveràl’Italia?Bill Emmott, Prospect, Regno UnitoFoto di Simone Donati

Nel 1992 il paese cercò di uscire dalla crisi con i governi tecnici. La ricetta non funzionò.L’ex direttore dell’Economist si chiede se oggi Monti ha più probabilità di farcela

TE

rr

AP

ro

jEC

T/C

oN

Tr

AST

o

Visti dagli altri

Page 29: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 29

forme sperando di rimettere l’Italia in car-reggiata.

Ecco perché gli italiani non considerano antidemocratico il governo Monti e sono tranquilli: tutto è perfettamente costituzio-nale, viene sottoposto al voto di iducia del parlamento e sarà seguito abbastanza pre-

sto da elezioni democratiche. Ma sanno anche che vent’anni fa non ha funzionato. Da allora la corruzione è aumentata, lo sta-to di diritto è compromesso e il debito pub-blico ha raggiunto di nuovo il 120 per cento del pil. Quindi le domande che si pongono sono altre. Perché dovrebbe funzionare

adesso? Quali nuove misure e nuovi leader riempiranno il vuoto attuale, come fece Sil-vio Berlusconi quando irruppe sulla scena politica nel 1994?

Anche Mario Monti si pone queste do-mande. Sa che l’Italia ha bisogno di una ri-voluzione, di una drastica trasformazione in tema di giustizia, politica e istruzione, già necessaria vent’anni fa ma che non è stata ancora realizzata. Sa però altre tre cose: pri-mo, che il suo incarico terminerà con le ele-zioni politiche del prossimo aprile, mentre altrove le rivoluzioni hanno richiesto anni; secondo, che le rivoluzioni di solito vengo-no guidate da leader carismatici e determi-nati, e anche se lui si dimostrasse abbastan-za determinato, di certo non ha il carisma; terzo, che le sue misure di austerità e una recessione sempre più grave intaccheranno la popolarità di cui godeva inizialmente, e che i politici riprenderanno il suo posto.

Tra loro ce ne sono due che per stile e idee sono all’opposto del cauto professore europeista e devotamente cattolico: Beppe Grillo e Silvio Berlusconi. Grillo, come Monti, è un outsider, un antipolitico, ma le somiglianze iniscono qui. Grillo è un comi-co diventato politico, leader del neonato Movimento 5 stelle, spauracchio dei partiti tradizionali dopo i successi alle ultime ele-zioni amministrative e con il 20 per cento di preferenze stando agli ultimi sondaggi. Grillo propone l’uscita dell’Italia dall’euro e questo è ciò che preoccupa più Monti.

Il mondo conosce già Berlusconi, che si è dimesso perché sconfessato dai mercati, permettendo a Monti di “salvare” il paese. Uicialmente Berlusconi non è un comico, ma un miliardario che con le sue bufonate ha indotto molti a sottovalutarlo durante i suoi 18 anni in politica. Alcuni sono stati in-gannati a tal punto da credere che dopo le dimissioni si sarebbe fatto da parte deiniti-vamente. Era una befa. Ma invece è seria la sua ricerca di una ricetta populista per tor-nare a essere presidente del consiglio o co-munque grande manovratore della vita politica italiana. È proprio a Grillo e Berlu-sconi che Monti si riferiva quando, non molto tempo fa, ha avvertito gli altri leader dell’Unione europea, soprattutto Angela Merkel, del pericolo che in Italia possa dif-fondersi un clima politico ostile all’euro e antitedesco. Un processo che potrebbe su-bire un’accelerazione se la Germania non

Pellegrini a San Giovanni Rotondo, Foggia, l’11 settembre 2010

Page 30: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

30 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

dimostrasse alcun senso di solidarietà. Grillo e Berlusconi sono politicamente agli antipodi, ma insieme rappresentano una percentuale compresa fra il 35 e il 45 per cento dell’elettorato italiano.

Non potrebbero in alcun modo allearsi, ma hanno in comune due elementi perico-losi: un talento nel condurre le campagne politiche parlando il linguaggio delle perso-ne comuni, e lo scetticismo nei confronti dell’euro. Berlusconi, a capo del partito che dovrebbe dare un pieno sostegno al gover-no Monti in parlamento, ino a oggi ha pun-tato sulla retorica contro l’euro, afermando che parlare di un ritorno alla lira “non do-vrebbe essere considerata una bestemmia”. Inoltre il quotidiano il Giornale, di proprietà della famiglia Berlusconi, all’inizio di ago-sto ha attaccato in prima pagina Angela Merkel, deinendo la Germania un “quarto reich”.

Pericoli e risorsePer Mario Monti questo sentimento ostile all’euro rappresenta un pericolo e al tempo stesso una risorsa. È un pericolo per il suo tentativo di avviare un nuovo corso per l’Italia che combini austerità iscale e libe-ralizzazione dei mercati, chiedendo sacrii-ci in un momento in cui la recessione sta aumentando il tasso di disoccupazione (che tocca l’11 per cento della forza lavoro) e ri-ducendo i redditi delle famiglie. L’ultima cosa di cui Monti ha bisogno in questo mo-mento è l’opposizione di un partito che in teoria dovrebbe sostenerlo.

Nelle trattative con la Germania e con altri paesi creditori dell’eurozona, però, questo clima può essere una risorsa. Monti potrebbe dire: se non appoggiate me e le mie politiche iscali virtuose aiutandomi a ridurre gli interessi sul debito, ecco le forze politiche che avreste al mio posto. Un conto è vedere partiti come la coalizione della si-nistra radicale Syriza e i neonazisti di Alba d’oro guadagnare consensi in un paese pic-colo come la Grecia. Immaginate invece le conseguenze se la politica italiana andasse fuori controllo: sarebbe come se una gigan-tesca valanga travolgesse l’euro.

Si tratta di un equilibrio rischioso per un uomo che non si è mai candidato a una cari-ca elettiva, che non ha un partito o un movi-mento politico alle spalle e che ha un tempo estremamente limitato per portare a termi-ne il suo compito. Monti ha dichiarato di non voler partecipare alle prossime elezio-ni, e comunque nei sondaggi la sua popola-

rità è calata da quando il governo di “salva-tori” è apparso più a suo agio a chiedere che non a concedere.

Tuttavia sono molte le speculazioni sul suo futuro politico dopo le elezioni. Le voci più insistenti lo vorrebbero presidente della repubblica al posto di Giorgio Napolitano, il cui mandato termina a maggio. Si tratta di una carica prevalentemente simbolica ma con un certo potere di inluenza, come di-mostrato dagli atti compiuti a novembre da Napolitano.

Altre voci riguardano la possibilità che Monti infranga la sua promessa di non can-didarsi alle prossime elezioni. Potrebbe farlo guidando uicialmente una coalizione di partiti, oppure accettando – ingendo una certa riluttanza – un invito a fare il premier da parte della coalizione vincente.

Non c’è alcun dubbio che se si dovesse presentare l’occasione di restare, Monti la coglierebbe al volo. Il sospetto è che alla i-ne sceglierà di rimanere perché le sue quo-tazioni sono alte e perché gli è stato aidato un compito molto diicile. L’Italia rischia davvero di uscire rovinosamente dall’euro – proprio come nel 1992, quando con il Re-gno Unito uscì dal Sistema monetario euro-peo – se la politica italiana assumesse toni pesantemente antitedeschi e se i mercati dovessero concludere che la sua economia ha poche possibilità di riformarsi e cresce-re.

Una persona che ha portato a termine due mandati come commissario europeo (dal 1995 al 2004) e che comprende piena-mente i rischi economici non se ne starà in

disparte a guardare se avrà l’opportunità di fare qualcosa. Ma è drammaticamente con-sapevole del fatto che il suo governo tecnico non può, per mancanza di tempo, essere il vero strumento del cambiamento dell’Ita-lia. Sa bene che deve gettare le basi per una trasformazione più duratura.

L’esempio di EinaudiQuando ha preso il posto dell’esuberante Berlusconi, travolto dagli scandali, molti osservatori hanno evidenziato le diferenze tra i due: l’Italia passava da un uomo anno-iato dall’economia a uno che ha dedicato tutta la sua vita a questa materia; da un uo-mo reduce da due divorzi e amante dei “bunga bunga” con ragazze adolescenti a un uomo tranquillo e monogamo; da uno che era a stento in grado di decifrare un me-nù in inglese in un fast food a un esperto internazionalista dall’inglese luente, che sa esprimersi anche in francese e in tede-sco.

La diferenza più importante però non è nello stile, ma nell’agenda politica. Berlu-sconi ha governato attraverso annunci cla-morosi e comizi pubblici, pur avendo di fatto concluso poco. Monti, invece, è con-vinto che chi va piano va sano e va lontano. I leader che Berlusconi ha incontrato più spesso sono stati Vladimir Putin e Muam-mar Gheddafi. Monti, invece, in appena dieci mesi al governo è stato già ricevuto sette volte dal ponteice.

Questo rilette la sua fede cattolica (la devozione religiosa non è certo la prima co-sa che viene associata a Berlusconi) e il de-siderio di assicurarsi che la più grande e ricca organizzazione religiosa e perfino commerciale del paese, la chiesa cattolica, non sia troppo scontenta del suo operato. Eppure si sarebbe tentati di trarre un’ulte-riore conclusione: il ruolo che Monti vor-rebbe giocare in Italia nel lungo periodo, per garantire la trasformazione economica e politica da lui auspicata, è più simile a quello di una sorta di papa secolare – una guida pacata ma salda, dietro le quinte, che ogni tanto si afaccia a un balcone.

Per fare questo sono necessarie vivacità e fermezza. Monti possiede sicuramente quest’ultima qualità. Quando è stato com-missario europeo per la concorrenza, tra il 1999 e il 2004, ha combattuto con giganti come Microsoft e General Electric. L’Eco-nomist, di cui all’epoca ero direttore, lo so-prannominò “Super Mario”, come il perso-naggio di un videogioco, e scrisse che il

Chi ha portato a termine due mandati come commissario europeo non starà in disparte a guardare se avrà l’opportunità di fare qualcosa

Visti dagli altri

Page 31: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 31

mondo degli afari statunitense lo conside-rava “l’equivalente di Saddam Hussein per le grandi multinazionali”, una deinizione che Monti ha citato a sua difesa l’anno scor-so durante uno dei primi discorsi in parla-mento, quando gli italiani lo accusavano di essere troppo tenero con le grandi istituzio-ni economiche.

Quello che Monti di sicuro non possiede è il carisma o la capacità di esprimersi con scioltezza. È un uomo spiritoso, con senso dell’umorismo, che però non emerge molto quando parla in pubblico. Inoltre, si espri-me in modo troppo pacato e lento per avere successo in un’epoca dominata dalle frasi a efetto.

Come molti professori, ha una scarsa capacità di sintonizzarsi con l’opinione pubblica. Di fronte all’ennesimo scandalo che ha coinvolto il calcio, Monti è arrivato a

suggerire l’immediata sospensione del campionato per due o tre anni. Un politico che attua politiche iscali di austerità e pro-pone di eliminare la forma di intratteni-mento più popolare: gli italiani non l’hanno presa bene.

Posso dare una testimonianza sul rap-porto di Monti con le telecamere e le inter-viste. Stavo realizzando un documentario sull’Italia intitolato Girlfriend in a coma e ho chiesto a questo improbabile leader rivolu-zionario chi fosse il suo modello. Gli ho fat-to qualche esempio: Mikhail Gorbaciov? Margaret Thatcher? Nelson Mandela?

Monti mi è sembrato imbarazzato dalla domanda. Ci ha pensato un po’ in silenzio, con la testa inclinata di lato. Alla ine ha esordito dicendo che il suo modello non era un leader straniero, ma italiano.

L’italiano da lui scelto è stata una rivela-zione: Luigi Einaudi. Un uomo, secondo Monti, che lavorò con tranquilla determi-nazione al servizio della cosa pubblica per aiutare il suo paese a emergere da un perio-do molto diicile. Era il periodo immedia-tamente successivo alla caduta di Mussolini e alla sconitta nella seconda guerra mon-diale. Einaudi, come Monti, era un insigne

economista, attratto da idee liberali, che aveva anche lavorato come giornalista per il Corriere della Sera e per l’Economist. Du-rante il fascismo dovette lasciare il Corriere della Sera, ma continuò a scrivere per l’Eco-nomist. Questa collaborazione si interrup-pe quando diventò il primo governatore della Banca d’Italia del dopoguerra e poi, nel 1948, il secondo presidente della repub-blica.

La sponda di DraghiIl parallelo con un economista che diventò presidente è solo uno dei motivi che rendo-no la scelta interessante, ma non il più im-portante. Dopo il fascismo Einaudi fu uno dei pochi leader politici a porre le basi per il miracolo economico italiano. Sembra im-possibile da credere adesso, ma nei due de-cenni precedenti alla crisi petrolifera degli anni settanta, l’economia italiana era quella che in Europa cresceva più in fretta ed era al terzo posto nel mondo per aumento del pil, dopo il Giappone e la Corea del Sud.

Quei risultati scaturirono da diversi fat-tori: la stabilità politica, un mercato inter-nazionale reso più libero dall’Accordo ge-nerale sulle tarife e sul commercio (Gatt),

Sopra, Poggiomarino, Napoli, 17 giugno 2012, il concerto del cantante neo melodico Rosario Miraggio. In alto a destra, Salsomaggiore Terme, luglio 2012, selezione delle Veline per Striscia la notizia. In basso, Milano, 26 settembre 2009, festa della libertà

TE

rr

AP

ro

jEC

T/C

oN

Tr

AST

o (2

)

TE

rr

AP

ro

jEC

T/C

oN

Tr

AST

o

Page 32: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

32 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

entrato in vigore nel 1948, la nascita della Comunità economica europea in seguito al Trattato di Roma nel 1957. Il primato dell’Italia dipendeva anche dal fatto che il paese partiva da una condizione di relativo sottosviluppo. Ma altri due aspetti furono fondamentali: una politica monetaria e i-scale stabile, che attirava gli investimenti, e un’ondata di liberalizzazioni internazionali che smantellò molti (ma non tutti) gli ele-menti dello stato corporativo di Mussolini. La stabilità macroeconomica del paese e le politiche microeconomiche liberali devono molto a Einaudi.

Monti vorrebbe mettere in pratica quel-la ilosoia economica nell’Italia di oggi, e sta cercando di farlo in uno stile molto ei-naudiano: con determinazione e con poche fanfare. La stabilità monetaria è sia nelle mani del suo connazionale Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, e sia un risultato delle politiche dell’eurozo-na. Il premier italiano ha però perso rapida-mente il sostegno di Berlino, perché in no-me della stabilità monetaria ha cercato so-prattutto di convincere i tedeschi ad accet-tare la condivisione del debito dell’eurozo-na. La cancelliera Angela Merkel non ha apprezzato, nonostante la proposta arrivi da un uomo che ama deinirsi “il più tede-sco degli economisti italiani”.

La politica iscale, però, è nelle mani di Monti, e in questo campo si è assunto un compito gravoso, tagliando le spese, alzan-do le tasse, dando vigore alla campagna contro l’evasione fiscale e spostando al 2014 l’impegno preso dal governo Berlu-sconi che aveva promesso di raggiungere il pareggio di bilancio entro il 2013. Sarà stato deluso scoprendo che i mercati non sono stati poi così colpiti dai suoi sforzi: l’Italia è l’unico tra i paesi dell’eurozona fortemente indebitati a seguire le regole del nuovo pat-to di stabilità e il suo deicit annuale è pari al 2,7 per cento del pil (un terzo di quello del Regno Unito e metà di quello spagnolo), eppure i tassi di interesse sui suoi titoli di stato continuano a essere molto alti.

La recessione che colpisce il paese è una delle ragioni di questa situazione: le ultime previsioni parlano di una contrazione dell’economia pari al 2,1 per cento per il 2012. Un’altra ragione sta nella preoccupa-zione generale sulla stabilità dell’eurozona: se l’uscita della Grecia dovesse provocare un attacco alla Spagna, il contagio si difon-derebbe inevitabilmente all’Italia. E gli in-vestitori stanno valutando anche questo ri-

schio. Una terza ragione va cercata nei di-scorsi contro l’euro di Beppe Grillo, ripresi anche da Berlusconi. Ma esiste una quarta e più importante ragione: il problema prin-cipale dell’Italia non è quello iscale, ma il fatto che la sua economia non cresce da vent’anni. Se i mercati non cominceranno a credere che questa tendenza possa cambia-re, un debito pari al 120 per cento del pil, per un totale di duemila miliardi di euro, rap-presenterà sempre un rischio, a prescindere dal debito pubblico.

Sistema parassitarioDopotutto il debito italiano, a diferenza di quello greco, irlandese o spagnolo, non è una novità. È stato accumulato in seguito agli enormi debiti di bilancio dei governi degli anni settanta e ottanta, un’epoca in cui il terrorismo e le lotte operaie portarono i politici a costruire la pace sociale attraver-so pensioni generose e la creazione del ser-vizio sanitario nazionale. Tra il 1973 e il 1995 i deicit pubblici avevano la sconvolgente media annua del 9,8 per cento del pil. L’Ita-lia ha sostenuto la sua crescita economica in questo modo artiiciale, oltre che con pe-riodiche svalutazioni della lira, ma ha paga-to un prezzo particolarmente salato: un’in-lazione molto alta e, nel 1992, una crisi i-nanziaria e politica.

L’abitudine a una determinata situazio-ne può, tuttavia, rendere più difficile un’eventuale soluzione, e in Italia è accadu-to proprio questo. Un certo grado di tolle-ranza, unito a un sistema politico parassita-rio e corrotto e a un elettorato che disprezza profondamente la politica nazionale ha af-fossato qualsiasi possibilità di riforma negli anni tra il 1992 e il 2012.

L’Italia e il suo presidente del consiglio ora si trovano in questa situazione: devono combattere contro l’egoismo e lo scettici-smo con cui vengono accolte eventuali so-luzioni liberali. La ricetta per la trasforma-zione del paese è basata soprattutto sull’economia e sul raforzamento della le-galità, ma è la politica a decidere se questa ricetta si concretizzerà.

Le riforme liberali sono cominciate po-co alla volta, ma hanno a malapena scalito la supericie. In questo momento nessun investitore internazionale responsabile presterebbe soldi all’Italia sulla base di un’ondata di liberalizzazioni o di riforme strutturali che di fatto non si stanno verii-cando. Al contrario, gli investitori si trovano a dover scommettere sulla politica e le acro-

bazie dei suoi protagonisti in vista delle prossime elezioni.

Né Grillo né Berlusconi ofrono speran-ze alla causa liberale di Monti. Ma non sono gli unici al centro dell’attenzione sulla sce-na politica italiana.

Ci sono i discorsi sferzanti di Matteo Renzi, 37 anni, sindaco di Firenze, ammira-tore di Tony Blair, che spera di far fuori il vecchio establishment del Partito demo-cratico alle primarie che decideranno il candidato premier alle elezioni politiche. C’è anche un altro esponente chiave del go-verno Monti, l’ex amministratore delegato di Banca Intesa, Corrado Passera, da molti invitato a passare dal suo attuale ruolo di ministro per lo sviluppo economico a quello di politico di professione. A contendere il posto a Berlusconi come grande manovra-

Firenze, 2 giugno 2009, sostenitori di Silvio Berlusconi in piazza Ognissanti

TE

RR

AP

Ro

jEC

T/C

oN

TR

AST

o

Visti dagli altri

Page 33: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 33

tore c’è anche Pier Ferdinando Casini, lea-der dell’Unione di centro (Udc), erede della Democrazia cristiana. Tra Renzi, Passera e Casini c’è un barlume di speranza per una coalizione in cui Mario Monti possa sentirsi a suo agio, libero di inluenzare gli eventi dalla vecchia residenza papale del Quirina-le come presidente della repubblica. Fare in modo che nasca questa coalizione da sogno è un’impresa ardua.

Tuttavia qualsiasi investitore, economi-sta o semplice sostenitore dell’euro dovreb-be sperare e pregare per un’evoluzione di questo tipo. Solo un governo simile, di lun-ga durata ed eletto democraticamente, sa-rebbe in grado di realizzare la visione di Monti e di Einaudi. u gim

Bill Emmott è stato direttore dell’Econo-mist tra il 1993 e il 2006. Il suo ultimo libro uscito in Italia è Forza, Italia: comeripartire dopo Berlusconi (Rizzoli 2010).

Quando Mario Monti si è insedia-to, nell’autunno del 2011, il suo governo tecnico ha aumentato

le tasse in modo drastico, sorprenden-do i mercati e contribuendo a restitui-re un po’ di credibilità all’Italia. Le nuove misure iscali appena proposte dal governo contengono una bella sor-presa anche per i cittadini: il taglio del-le due aliquote più basse dell’imposta sul reddito.

Probabilmente Monti avrebbe fatto meglio ad abbassare le tasse sul reddi-to da lavoro dipendente, ancora trop-po alte. In questo modo avrebbe favo-rito la competitività e l’occupazione. Ma la strategia di spostare il carico i-scale dal lavoro è corretta e dovrebbe essere un esempio per gli altri paesi europei.

Le misure non vanno viste come un allentamento dell’austerità. L’impe-gno dell’Italia sul pareggio di bilancio in termini strutturali entro il 2013 im-pone che i tagli alle tasse siano accom-pagnati da nuovi sacriici. Nel com-plesso, le nuove misure sono restritti-ve, non espansive. Ma Monti ha dimo-

strato buon senso nello scegliere dove calare l’accetta. Insistere sulla riduzio-ne della spesa pubblica, a livello sia nazionale sia regionale, è la strada giu-sta. La pubblica amministrazione ita-liana è piena di sprechi, tagliare le ri-sorse non comprometterà la qualità dei servizi.

Anzi, il governo avrebbe dovuto es-sere più coraggioso e tagliare ulterior-mente. Ha scelto invece di aumentare di un punto percentuale l’imposta sul valore aggiunto. È vero, l’iva si applica anche alle importazioni e quindi i suoi efetti recessivi non colpiranno solo i produttori interni. Ma l’aumento de-primerà ancora di più i consumi, già ai minimi storici.

Risvolto politicoLe misure di Monti hanno un risvolto politico che contraddice la natura tec-nica del suo governo. Ma questo non è un male. La riduzione dell’imposta sul reddito darà un po’ di speranza a una popolazione alle prese con una reces-sione sempre più dura. Nessun pro-gramma di austerità può funzionare se non c’è coesione sociale.

I tagli di Monti sono anche un mo-nito per i partiti politici italiani. Con le elezioni politiche alle porte, cresce la tentazione di fare promesse irrealizza-bili. Come ha dimostrato Monti, si possono varare misure politicamente popolari ed economicamente sosteni-bili senza rinunciare al consolidamen-to iscale.

La Banca centrale europea ha tem-poraneamente dato un po’ di iato al debito pubblico italiano. Ma con Ma-drid sempre più vicina a chiedere un salvataggio, Roma potrebbe ritrovarsi presto nell’occhio del ciclone. Finora gli investitori hanno concesso a Monti il beneicio del dubbio. Non avranno la stessa pazienza con i trucchi elettorali dei politici. u fas

La riduzione dell’imposta sul reddito darà un po’ di speranza a un paese alle prese con una recessione sempre più dura

Nella giusta direzione

Financial Times, Regno Unito

L’opinione

Varare misure popolari ed economicamente sostenibili senza rinunciare al consolidamento iscale è possibile

Page 34: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

34 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Le opinioni

All’inizio il candidato repubblicano al-la Casa Bianca Mitt Romney sembra-va un tecnocrate moderato. Ma come ci ha fatto capire la sua gafe sul pre-sunto vittimismo del 47 per cento degli americani, ora gli piace presen-

tarsi come un sostenitore dello stato “leggero”, che promette la ine della cultura dei diritti acquisiti. Eppu-re, anche se attacca le persone che usufruiscono del programma di assistenza sanitaria Me-dicaid e della previdenza sociale o del credito d’imposta sul reddito da lavoro accusandole di “dipendere dallo stato”, Romney non dice nulla su un’altra cate-goria “che dipende dallo stato”, le molte aziende statunitensi i cui proitti sono garantiti, in un modo o nell’altro, dal go-verno.

Dai tempi delle altissime tarife do-ganali e delle concessioni di terreni alle società ferroviarie, negli Stati Uniti im-prese e governo sono sempre stati stret-tamente intrecciati. Ma da qualche decennio quello che potremmo deinire il welfare delle imprese è au-mentato. Le società energetiche detengono in aitto quasi 160 milioni di ettari di territorio e ancora di più al largo delle coste, e intascano la maggior parte dei pro-itti derivanti dal petrolio e dal gas naturale che estrag-gono. Tutto bene in teoria, perché pagano l’aitto e i diritti di sfruttamento, ma in pratica spesso non fun-ziona così. Nel 1996, per esempio, quando il prezzo del petrolio era basso, il governo ha ridotto i diritti sul pe-trolio estratto nel golfo del Messico per far aumentare le trivellazioni. Però la riduzione non è stata annullata quando il prezzo del petrolio è salito, e questo ha fatto incassare alle compagnie petrolifere miliardi di dollari in più.

Anche nell’industria mineraria, grazie a una legge del 1872 mai modiicata, le imprese possono aittare terreni federali per poco più di un dollaro a ettaro, e te-nersi tutto l’oro, l’argento o l’uranio che trovano. E ai cittadini non entra in tasca nulla. Negli ultimi dieci an-ni il prezzo dei metalli è salito alle stelle, ma ad appro-ittarne sono stati solo i proprietari delle miniere.

In altri casi il governo ofre sovvenzioni dirette, co-me quelle che hanno permesso a molti progetti per la ricerca di energie rinnovabili di andare avanti. Gli agri-coltori, nonostante il prezzo dei prodotti alimentari sia a livelli da record, ricevono ogni anno sovvenzioni per quasi cinque miliardi di dollari. Le aziende produttrici di zucchero hanno un vantaggio ancora maggiore: una quota di importazioni che mantiene il prezzo dello zuc-

chero statunitense più o meno al doppio di quello che dovrebbe essere, garantendo enormi proitti.

Anche il sistema iscale è un utile strumento di aiu-to alle imprese. Nel complesso, i nostri produttori han-no agevolazioni iscali per circa venti miliardi di dollari all’anno. Le amministrazioni statali e locali concedono ogni anno 70 miliardi di sconti iscali e di sovvenzioni per attirare (o non far fuggire) le imprese.

In modo più indiretto, lo stato incrementa i proitti delle imprese attraverso le leggi. È il caso ovviamente delle banche, ma anche dell’industria dell’etanolo, una vacca sa-cra della politica statunitense. Lo stato impone alle raffinerie di incorporare ogni anno miliardi di litri di etanolo nella benzina, e per questo concede uno scon-to iscale. Di conseguenza il 40 per cento del granturco degli Stati Uniti viene usa-to per produrre etanolo. Questo fa salire il prezzo dei prodotti alimentari, perché si coltiva meno granturco per i mangimi e il consumo umano, e i vantaggi per

l’ambiente sono tutt’altro che accertati. Ma le aziende agricole e le rainerie ci guadagnano, e perciò l’obbligo viene mantenuto.

Forse il vantaggio maggiore che il governo ofre alle aziende è il diritto d’autore e la protezione dei brevetti. Come dimostra l’economista Dean Baker nel suo libro The end of loser liberalism (La ine del liberismo perden-te), solo per l’industria farmaceutica la protezione dei brevetti vale miliardi di dollari all’anno. E anche se la maggior parte di noi non riesce a immaginare di poter fare a meno dei diritti d’autore e dei brevetti, questo non giustiica l’enorme allargamento dei diritti di pro-prietà intellettuale a cui abbiamo assistito ultimamen-te: la durata della loro validità è aumentata undici volte dal 1962, e anche la lista delle cose che possono essere brevettate si è molto allungata, perino in settori che comportano pochi vantaggi economici per la società.

Aiutare le imprese non è per forza una cosa negati-va. Alcune di queste concessioni probabilmente sono utili. Ma le aziende che ricavano dei vantaggi da queste politiche dipendono dallo stato quanto le persone che ottengono il credito d’imposta sul reddito da lavoro. E quando Romney attacca i cittadini invece delle azien-de, viene naturale chiedersi se il suo problema sia l’as-sistenza dello stato in sé o solo quella ai poveri e ai lavo-ratori.

Romney può anche sostenere che vuole uno stato più leggero, ma in realtà ciò che chiede è uno stato leg-gero quando si tratta di aiutare le gente comune e pe-sante quando si tratta di aiutare le imprese. u bt

Lo stato leggerodi Romney

James Surowiecki

JAMES SUROWIECKI

è un giornalista statunitense. Questo articolo è uscito sul New Yorker. Altre column di James Surowiecki sono su newyorker.com. In Italia ha pubblicato La saggezza della folla (Fusi orari 2007).

Dai tempi delle tarife doganali e delle concessioni di terreni alle società ferroviarie, negli Stati Uniti imprese e governo sono sempre stati strettamente intrecciati

Page 35: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)
Page 36: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

36 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Le opinioni

Il calcio si gioca negli stadi, ma quello che succe-de in campo inluisce sulla borsa e sull’umore dei clienti dei bar. Cristiano Ronaldo non ha fe-steggiato i due gol che ha segnato contro il Gra-nada in una delle prime partite del campionato spagnolo. Da quando i Rolling Stones hanno

cantato (I can’t get no) Satisfaction, la cultura di massa non era più stata testimone di una mancanza di gratii-cazione così evidente. Acclamato dal Santiago Ber-nabéu, il numero 7 del Real Madrid ha assunto l’espres-sione di un burocrate che ha appena messo un timbro. Poi ha detto che era triste “per ragioni professionali”. Cosa manca all’attaccante per sorridere? In questo periodo di crisi può contare su uno stipendio annuale di dieci milioni di euro, gioca nella squadra che ha vinto la Liga nella scorsa stagione, gode dell’af-fetto di una modella russa e di quello, più diicile da ottenere, del massimo mani-polatore del calcio mondiale: José Mou-rinho. Ma al gladiatore manca qualcosa. Non ha vinto il Pallone d’oro (che è stato assegnato a Iniesta) e non ha potuto tira-re l’ultimo rigore della serie con cui la Spagna ha piegato il Portogallo agli Euro-pei. È ammirato da tutti, ma il suo ego reclama di essere idolatrato. Ha detto che il mondo lo invidia perché ha successo ed è bello (nell’iconograia metrosexual com-pete con le statue greche del giovane Kouros).

Il mestiere di calciatore è il più commentato del pia-neta terra. Dai tempi del paradiso terrestre, la specie dipende da miti che si forgiano sui campi. Cristiano ha scatenato la terapia di gruppo più afollata della storia. Tutti hanno qualcosa da dire sulla sua malinconia. La domanda decisiva è: quanto può essere egoista una persona che pratica uno sport di squadra? Innamorato del suo rilesso sullo schermo al plasma, il Narciso dei nostri giorni dimentica di dipendere dagli altri. È possi-bile che resti una persona semplice chi fa vendere con la sua immagine milioni di scarpe, deodoranti o yogurt? Anzi, meglio: è possibile che sia normale? Da quando Ettore ha sidato Achille sapendo di morire, la risposta ci è nota: gli eroi sono normali.

Il prestigioso premio spagnolo Principe delle Astu-rie è stato da poco concesso a due calciatori che, essen-do eccezionali, dimostrano che la gloria è sensata. Iker Casillas, capitano del Real Madrid, e Xavi Hernández, capitano del Barcellona, hanno portato la Spagna a con-quistare il Mondiale nel 2010 e gli Europei nel 2012. Fin dall’adolescenza hanno condiviso la maglia della na-zionale pur militando nelle due acerrime rivali del cal-cio spagnolo. Nella stagione 2010-2011 i tifosi hanno

assistito a degli scontri senza precedenti. Il Barça e il Real Madrid si sono afrontati nella Liga, nella Copa del Rey e nella Champions. José Mourinho ha avvelenato le conferenze stampa, ha accusato gli arbitri di essere i responsabili delle sue sconitte, ha insinuato che il Bar-cellona ricorreva al doping e ha inilato un dito nell’oc-chio al tecnico Tito Vilanova. Il difensore portoghese Pepe ha distribuito calci sul campo e ha pestato la mano di Messi. Disposto a vincere a qualsiasi prezzo, Mouri-nho pensa che l’etica sia una signora che dà solo dispia-ceri e che l’odio sia la vitamina dell’atleta. Le tensioni tra il Barça e il Real sono state sul punto di creare una

frattura nella nazionale spagnola, ino a quando Xavi e Casillas non si sono parla-ti per metter ine alla tensione. Se l’avida società dello spettacolo voleva il sangue, i capitani hanno creato un’anti-notizia: hanno deciso di rispettarsi.

Il premio Principe delle Asturie rende onore alla solidarietà dei nemici. Nessu-no ha reso più grandi i gol del Barcellona dell’impareggiabile Casillas, e Xavi è il giocatore più bravo nei passaggi della storia del calcio spagnolo: il Real non ha mai goduto tanto come quando gli toglie

la palla. Nel 2008 Santiago Segurola ha scritto di Casil-las: “Il Real gioca con un uomo in più non solo perché Casillas è un grande portiere, ma perché la sua presen-za turba visibilmente gli avversari”. Nel 2009 invece ha scritto sul centrocampista blaugrana: “Xavi ha educato noi tifosi spagnoli, ha cambiato il nostro sguardo, ci ha fatto passare dall’ovvio al sottile, ci ha dimostrato l’in-calcolabile valore della pazienza, dell’astuzia, dell’in-ganno e della scelta adeguata dei tempi, ci ha dimostra-to che il suo piccolo corpo non gli impedisce di difende-re il pallone dai suoi malcapitati avversari, ci ha spiega-to come si governa una partita”. A questi attributi spor-tivi si aggiunge il loro spirito da capitani: Casillas e Xavi rendono migliori gli altri. Cristiano Ronaldo (conosciu-to con la sigla CR7, come se fosse un gadget tecnologico famoso) raramente si congratula con i suoi compagni quando non partecipa al gol ed esce dal campo mentre Casillas riunisce gli altri per applaudire il pubblico.

Il calcio è più di uno sport. Lo smisurato interesse che risveglia nel mondo lo trasforma in un modello di comportamento e in uno specchio ingigantito della so-cietà. Le sue passioni furono anticipate dal primo can-tore degli eroi. Il mondo non è cambiato molto da quan-do Omero ha fatto afrontare Achille, piè veloce, ed Et-tore, il domatore di cavalli. Cristiano Ronaldo gioca a essere un dio. Iker Casillas e Xavi Hernández giocano a essere uomini. u fr

Gli eroisono normali

Juan Villoro

JUAN VILLORO

è un giornalista e uno scrittore messicano. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Il libro selvaggio (Salani 2010). Questo articolo è uscito sul quotidiano Reforma.

Il calcio è più di uno sport. Lo smisurato interesse che risveglia nel mondo lo trasforma in un modello di comportamento e in uno specchio ingigantito della società

Page 37: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Scopri tutte le varianti di Excellence su lindt.com

Novità

Lascia cheil gusto ti porti lontano.

Lindt Excellence 70% Cacao è un’esperienza.Nata dalla passione dei Maîtres Chocolatiers Lindt,la straordinaria miscela dà vita a un cioccolatofondente dal carattere deciso ed aromatico e lafragranza armoniosa. Ti piacerà, tanto, così tantoche da lì dove ti porterà, non vorrai più tornare.

LINDT EXCELLENCE. UN VIAGGIO NEL GUSTO.

Page 38: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)
Page 39: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)
Page 40: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

40 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

In copertina

Internet ci renL

UZ

PH

OT

O

Page 41: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 41

Prima di lanciare il video più condiviso della storia di in-ternet, Jason Russell non era un appassionato della rete. Il suo account su You-Tube era morto e le sue pa-

gine Twitter e Facebook contenevano po-che foto di bambini e qualche aggiorna-mento sul giardino di casa. Russell era uno di quelli convinti che la rete non è fatta per “controllare a quanta gente piaci”. Quando le sue abitudini tecnologiche lo facevano sentire “un genio, un drogato o un megalo-mane”, staccava la spina per giorni interi. Era convinto che – come ha detto il comico Andy Borowitz in un tweet che Russell ave-va messo tra i suoi preferiti – “è importante spegnere il computer e fare qualcosa nel mondo reale”.

Poi, nel marzo del 2012, Russell ha ten-tato di spegnere tutto. È successo dopo che ha fatto circolare un link a Kony 2012, il suo documentario sul signore della guerra afri-cano Joseph Kony. L’idea era di usare i so-cial network per far conoscere a tutti Kony e fermare i suoi crimini. E ha funzionato: il ilm ha attraversato la rete ed è stato visto 70 milioni di volte in meno di una settima-na. Ma nel frattempo a Russell è successo qualcosa. Gli stessi strumenti digitali che hanno sostenuto il suo progetto hanno di-laniato la sua psiche, sottoponendola a un iume continuo di lodi e stroncature e for-zando il suo tiepido rapporto con i nuovi mezzi d’informazione.

I primi quattro giorni ha dormito due

ore producendo un turbine di tweet a dir poco bizzarri. Ha pubblicato un link a I met the walrus, un breve cortometraggio ani-mato con un’intervista a John Lennon, esortando i suoi follower a “cominciare ad allenare la mente”. Ha postato una foto del suo tatuaggio, “Timshel”, un termine bibli-co sulla scelta dell’uomo tra bene e male. A un certo punto ha messo online e commen-tato la foto di un sms di sua madre. Poi ha paragonato la sua vita al cervellotico ilm Inception: “un sogno in un sogno”.

All’ottavo giorno di questo strano vor-tice ha mandato un ultimo tweet, una cita-zione di Martin Luther King: “Se non puoi volare, corri; se non puoi correre, cammi-na; se non puoi camminare, striscia; ma qualunque cosa tu faccia, devi continuare ad andare avanti”. Poi è rientrato nel mon-do reale. Si è spogliato e ha raggiunto l’an-golo di un incrocio molto traicato poco lontano da casa sua, a San Diego, dove ha ripetutamente sbattuto le mani contro il marciapiedi farneticando del diavolo. An-che questo è diventato un video virale.

In seguito a Russell è stata diagnostica-ta una “psicosi reattiva”, un disturbo men-tale di breve durata. Non aveva niente a che fare con droghe o alcol, ha sottolineato in un post la moglie Danica. Dipendeva esclu-sivamente dal computer, che continuava a tenerlo connesso alla rete perino quando stava andando a pezzi. “Noi non ne sapeva-mo niente”, ha scritto Danica, “ma i medici dicono che si tratta di un fenomeno comu-ne”, considerando “l’improvviso passaggio

ci rende pazzi?Tony Dokoupil, Newsweek, Stati UnitiFoto di Philip Toledano

Tweet, post, chat, email. Tra smartphone e social network, trascorriamo online gran parte della nostra vita. Eppure studi recenti indicano che internet ci fa sentire soli e depressi. E potrebbe essere all’origine di alcuni disturbi psicologici

Page 42: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

In copertina

da un relativo anonimato all’attenzione mondiale, con reazioni di grande entusia-smo ma anche di scherno”. Dopo che Jason è uscito dall’ospedale, la moglie ha deciso di fare “un mese di silenzio” su Twitter.

Gli interrogativi sui possibili contrac-colpi di internet sulla mente umana sono vecchi almeno quanto i link. Ma perino per chi non si ida di internet, l’idea che una nuova tecnologia possa inluenzare il no-stro modo di pensare e di sentire è conside-rata sciocca e ingenua, come agitare un bastone contro una lampadina o dare la colpa alla tv per la maleducazione dei bam-bini. Fino a poco tempo fa, insomma, inter-net era considerata solo un altro mezzo di comunicazione di massa, un sistema di tra-smissione, non una macchina diabolica. Rendeva le persone più felici e più produt-tive. Dov’era la prova del contrario?

Oggi le prove cominciano ad accumu-larsi. Stanno uscendo le prime ricerche se-rie e il quadro è molto più preoccupante di quanto fossero disposti ad ammettere gli utopisti del web. La versione attuale di in-ternet – portatile, sociale, accelerata e on-nipervasiva – potrebbe renderci non solo più stupidi e soli, ma anche più depressi e ansiosi, tendenti a disordini ossessivo-compulsivi e al disturbo da deicit di atten-zione, e perino psicotici. Le immagini del-la nostra mente digitalizzata arriveranno a somigliare a quelle dei tossicodipendenti. Persone normalissime stanno andando a pezzi in modi nuovi.

Fusi con le macchineNell’estate del 1996 sette giovani ricerca-tori dell’Mit cancellarono la separazione tra uomo e computer vivendo contempora-neamente nel mondo isico e in quello vir-tuale. Avevano una tastiera in tasca, una radiotrasmittente nello zaino e un monitor agganciato con una clip davanti agli occhi. Si deinivano cyborg ed erano tipi strampa-lati. Ma come osserva Sherry Turkle, una psicologa dell’Mit, “oggi siamo tutti cyborg”. Questa vita sempre connessi or-mai ci sembra normale, ma questo non vuol dire che sia sana e sostenibile, dal mo-mento che la tecnologia – per parafrasare la vecchia battuta sull’alcol – diventa la causa e la soluzione di tutti i problemi della vita.

In un arco temporale inferiore a quello di un’infanzia, gli statunitensi si sono fusi con le loro macchine e hanno cominciato a issare lo schermo per almeno otto ore al giorno: più di quante ne dedicano a qualun-que altra attività, sonno compreso. Gli ado-lescenti in media riescono a inilare sette ore davanti allo schermo in una qualunque

giornata di scuola, addirittura undici se si calcola il tempo che passano su diversi di-spositivi contemporaneamente. Oggi negli Stati Uniti gli smartphone sono più difusi dei vecchi telefonini, e oltre un terzo degli utenti si connette online appena sveglio, prima di alzarsi dal letto.

Nel frattempo un messaggio di testo si è trasformato in un battito di ciglia: indipen-dentemente dall’età, ogni persona manda e riceve in media 400 messaggi al mese, quattro volte di più che nel 2007. Un adole-scente ha a che fare in media con qualcosa come 3.700 messaggi al mese, il doppio ri-spetto al 2007. E più di due terzi di questi cyborg normali, quotidiani, compreso il sottoscritto, hanno la sensazione che il loro telefono vibri anche quando non lo fa. I ri-cercatori la chiamano “sindrome della vi-brazione fantasma”.

Nell’insieme, i cambiamenti digitali de-gli ultimi cinque anni fanno pensare a un cavallo che è schizzato via da sotto il suo cavaliere, trascinandosi dietro chi prima teneva le redini. Nessuno si augura un futu-ro da amish. Ma le ricerche rivelano che internet non è semplicemente un altro si-

stema di comunicazione. La rete sta crean-do un ambiente mentale completamente nuovo, uno stato di natura digitale in cui la mente diventa un pannello di controllo che funziona a un ritmo vorticoso, e pochi di noi riescono a sopravvivere incolumi.

“È un problema importante e nuovo, come il cambiamento climatico”, dice Su-san Greenield, una docente di farmacolo-gia dell’università di Oxford. Greenield sta scrivendo un libro su come la tecnolo-gia digitale ci riprogramma, e non per il meglio: “Potremmo creare un mondo me-raviglioso per i nostri igli, ma non succe-derà se ci ostiniamo a negare i fatti e adot-tiamo queste tecnologie senza rilettere su quello che sta succedendo”.

Internet ci rende pazzi? Le scoperte che arrivano da più di una quindicina di paesi dicono che stiamo andando in questa dire-zione. Peter Whybrow, direttore dell’istitu-to Semel di neuroscienza e comportamen-to umano alla University of California di Los Angeles, sostiene che “il computer è come una forma di cocaina elettronica”, capace di scatenare cicli maniacali seguiti da periodi di depressione.

Internet “spinge a comportamenti che sappiamo essere negativi e che ci rendono ansiosi, facendoci agire in modo compulsi-vo”, dice Nicholas Carr, candidato al Pulit-zer per il libro Internet ci rende stupidi? (Raf-faello Cortina 2011), sugli efetti cognitivi della rete. “Incoraggia le ossessioni, la di-pendenza e le reazioni da stress”, aggiunge Larry Rosen, uno psicologo californiano che studia gli efetti della rete da decenni. “Favorisce o addirittura provoca l’infermi-tà mentale”.

Il timore che internet e la tecnologia mobile creino dipendenza – che spesso si accompagna a disordini ossessivo-com-pulsivi e al disturbo da deicit di attenzione e iperattività – circola da decenni, ma ino a poco tempo fa a prevalere erano soprattut-to gli ottimisti, spesso armati di ironia. “Cosa ci aspetta ancora? L’abuso di forno a microonde e la dipendenza da burro di ca-cao?”, ha scritto nel 2006 uno studioso che si occupa di valutare le ricerche per uno dei maggiori giornali di psichiatria. Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (Dsm) non ha mai previsto una categoria di interazioni macchina-uomo.

Ma oggi l’opinione degli ottimisti è con-testata. Il Dsm che uscirà nel 2013 com-prenderà per la prima volta il disordine da dipendenza da internet, anche se in un’ap-pendice riservata ad argomenti che richie-dono “ulteriori studi”. La Cina, Taiwan e la Corea del Sud negli ultimi mesi hanno ac-

42 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

La rete sta creando un ambiente nuovo, uno stato di natura digitale in cui la mente diventa un pannello di controllo che funziona a un ritmo vorticoso

Da sapere

Utenti ogni 100 abitanti

Europa

Americhe

Paesi dell’ex Unione Sovietica

Paesi arabi

Asia e Paciico

Africa

Fonte: Itu

65,0

55,0

46,0

24,9

21,9

9,6

Difusione di internet nel mondo, 2010.

Page 43: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 43

garsi per 24 ore dalla rete e da qualunque tecnologia mobile e di registrare le loro sensazioni. “Sono chiaramente dipenden-te e la dipendenza è disgustosa”, ha am-messo uno studente. “I mezzi di comunica-zione sono la mia droga”, ha scritto un al-tro. Almeno due scuole non sono neppure riuscite a lanciare un esperimento simile per mancanza di volontari. “Molti studenti universitari non solo non sono disposti, ma sono funzionalmente incapaci di rinuncia-re ai loro collegamenti mediatici con il mondo”, ha concluso l’università del Mary-land.

Dipendenza da FacebookSempre nel 2010 due psichiatri di Taiwan hanno conquistato la ribalta della cronaca con l’idea del disordine da dipendenza da iPhone. Hanno documentato due casi: il primo riguardava un liceale ricoverato in un istituto per malattie mentali perché usa-va l’iPhone 24 ore al giorno. Il secondo ri-guardava una rappresentante di commer-cio di 31 anni che usava il telefono quando era al volante. Entrambi i casi avrebbero

cettato la diagnosi, cominciando a trattare l’uso problematico del web come una grave emergenza sanitaria nazionale. In questi paesi, dove decine di milioni di persone (e ino al 30 per cento degli adolescenti) sono considerate dipendenti da internet, e so-prattutto dai giochi online, dalla realtà vir-tuale e dai social network, la questione è ormai sulle prime pagine dei giornali. Una giovane coppia ha trascurato il iglio ino a farlo morire mentre si prendeva cura di un bambino virtuale online. Un ragazzo ha picchiato a morte la madre perché gli aveva suggerito di spegnere il computer (e poi ha usato la sua carta di credito per rimanere connesso molte altre ore). Almeno dieci utenti forti del web sono morti di trombosi per essere rimasti seduti troppo a lungo.

Il governo coreano inanzia centri di as-sistenza e sta pensando a una chiusura not-turna della rete per i giovani. Intanto la Ci-na ha lanciato una crociata delle madri per promuovere abitudini online più sicure. L’iniziativa è nata quando è emerso che al-cuni medici usavano l’elettroshock e le per-cosse per trattare gli adolescenti dipenden-

ti da internet. “C’è qualcosa nella rete che provoca dipendenza”, dice Elias Abouja-oude, uno psichiatra della scuola di medi-cina della Stanford university, dove dirige la clinica dei disordini ossessivo-compulsi-vi e la clinica dei disturbi del controllo degli impulsi. “Ho visto molti pazienti senza una storia di comportamenti a rischio o di abu-so di sostanze che sono diventati dipen-denti a causa di internet”.

Il suo studio del 2006 sulle abitudini problematiche online è la base di Virtually you, un libro su come la travolgente capaci-tà di attrazione del web agisce sulla nostra psiche. Perino studiando un campione di utenti di mezza età con linea telefonica is-sa – l’intervistato medio aveva più di qua-rant’anni, era bianco e guadagnava oltre 50mila dollari l’anno – Aboujaoude ha sco-perto che uno su otto mostrava almeno un segno di dipendenza dalla rete. Secondo le indagini più recenti, i numeri statunitensi sono al livello di quelli asiatici.

Poi c’è stato un esperimento condotto nel 2010 dall’università del Maryland. È stato chiesto a duecento studenti di scolle-

LU

zP

Ho

To

Page 44: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

44 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

In copertina

potuto essere liquidati con una risata se contemporaneamente non fosse apparso uno studio di Stanford sulle abitudini colle-gate all’iPhone di duecento persone. La ri-cerca afermava che un utente su dieci si sentiva “totalmente dipendente” dal cellu-lare. Fatta eccezione per il 6 per cento del campione, tutti ammettevano un qualche livello di compulsione, mentre il tre per cento degli intervistati non permetteva a nessuno di toccare il suo smartphone.

Negli ultimi due anni, le preoccupazio-ni per l’uso patologico della rete si sono ul-teriormente aggravate. Ad aprile sul Times of India alcuni medici hanno parlato di pro-ve aneddotiche di un incremento della “di-pendenza da Facebook”. Gli ultimi dettagli sull’ossessione statunitense per il web si possono trovare nel nuovo libro di Larry Rosen, iDisorder, che malgrado il titolo am-miccante è stato pubblicato dalla più gran-de casa editrice universitaria del mondo. La sua équipe ha studiato un campione di 750 persone, adolescenti e adulti rappre-sentativi della popolazione della California del sud, descrivendo in dettaglio le loro abitudini tecnologiche, i loro sentimenti su queste abitudini e i loro punteggi in una se-rie di test standard sui disordini psichiatri-ci. La maggior parte degli intervistati, con l’eccezione di quelli al di sopra dei cin-quant’anni, controllava gli sms, la posta elettronica o il loro social network “conti-nuamente” o “ogni quarto d’ora”. Cosa ancora più preoccupante, Rosen ha scoper-to che chi passava più tempo online aveva un maggior numero di “tratti della perso-nalità compulsiva”.

Potrebbe sembrare un’ovvietà: quelli che vogliono passare più tempo online si sentono obbligati a farlo. Ma in realtà non è questo che vogliono davvero. Uno studio del 2011 aferma che se gran parte dei gio-vani impiegati aziendali (fino a 45 anni) tiene a portata di mano il suo Blackberry in camera da letto non è per una scelta libera. Secondo un altro studio del 2011, non è una scelta libera che spinge l’80 per cento delle persone a portarsi in vacanza computer portatili e smartphone per essere informa-ti su cosa succede al lavoro quando non ci sono. E non è una scelta libera neppure quella che spinge i possessori di smartpho-ne a controllare chiamate e messaggi prima di andare a letto, nel cuore della notte e ap-pena si svegliano.

Può sembrare che usare questa tecnolo-gia sia una nostra scelta, ma in realtà siamo attirati dal suo potenziale di gratiicazioni a breve termine. Ogni squillo potrebbe se-gnalare un’occasione sociale, sessuale o

professionale, e quando rispondiamo otte-niamo una minigratiicazione, un rapido rilascio di dopamina. “Queste gratiicazio-ni sono come scosse di energia che ricari-cano il motore della compulsione, parago-nabili al fremito del giocatore quando sul tappeto verde viene calata una nuova car-ta”, ha spiegato alla rivista Scientiic Ame-rican una studiosa di mezzi di comunica-zione dell’Mit, Judith Donath. “Nell’insie-me, è un efetto potente a cui è diicile resi-stere”.

AtroizzatiNegli ultimi anni è diventato possibile os-servare come questo uso della rete modii-chi il cervello. Nel 2008 Gary Small, il capo del centro di ricerca sulla memoria e l’in-vecchiamento della University of Califor-nia a Los Angeles, è stato il primo a docu-mentare i cambiamenti del cervello in se-guito a un uso anche moderato di internet. Ha preso 24 persone, per metà utenti esper-ti del web e per l’altra metà principianti, e le ha sottoposte alla risonanza magnetica. La diferenza era impressionante, perché gli utenti della rete mostravano una corteccia

prefrontale sensibilmente alterata. Ma la vera sorpresa è quello che è successo dopo. Small ha chiesto ai principianti di passare un totale di cinque ore online e di tornare dopo una settimana per un’altra risonanza. “In queste persone il cervello si è modiica-to subito”.

Il cervello degli internet-dipendenti so-miglia a quello dei tossicodipendenti e de-gli alcolisti. In uno studio pubblicato a gen-naio, i ricercatori cinesi hanno trovato “materia bianca anomala” – sostanzial-mente cellule nervose in più che servono alla velocità – nelle aree preposte all’atten-zione, al controllo e alle funzioni esecutive. Uno studio parallelo ha riscontrato altera-zioni simili nel cervello dei dipendenti da videogiochi. Ed entrambi gli studi sono ap-parsi sulla scia di altri risultati cinesi che collegano la dipendenza da internet ad “anomalie strutturali nella materia grigia”, più precisamente a una riduzione dal 10 al 20 per cento nell’area del cervello respon-sabile della parola, della memoria, del con-trollo motorio, delle emozioni, dell’infor-mazione sensoriale e di altra natura. Peg-gio ancora, la riduzione non si ferma mai: più tempo si passa online, più il cervello mostra segni di “atroia”.

Le immagini della risonanza non rivela-no se è venuto prima l’abuso o il cambia-mento cerebrale, ma molti medici ritengo-no che si tratti di una conferma delle loro osservazioni. “Ci sono pochi dubbi sul fatto che stiamo diventando più impulsivi”, dice Aboujaoude di Stanford, e una delle cause è l’uso delle tecnologie. Lo studioso ricorda l’aumento delle diagnosi di disordini os-sessivo-compulsivi e del disturbo da deicit di attenzione e iperattività, che nell’ultimo decennio è cresciuto addirittura del 66 per cento: “C’è un rapporto causa-efetto”.

E non prendiamoci in giro: il divario tra un internet-dipendente e l’uomo della stra-da è quasi inesistente. Nei primi studi, pas-sare più di 38 ore alla settimana online era un indicatore di dipendenza. In base a quella deinizione oggi siamo tutti dipen-denti, e molti di noi lo sono già il mercoledì pomeriggio, addirittura il martedì se è una settimana piena di impegni. I test attuali per la dipendenza da internet sono qualita-tivi e disegnano una rete sgradevolmente ampia di cui fanno parte persone pronte ad ammettere di essere irrequiete, poco co-municative o ossessionate dal web e di aver fatto numerosi tentativi per staccare la spi-na. Ma se è vero che tutto questo non è sa-no, è anche vero che molte persone non hanno nessuna intenzione di stare bene.

Come la dipendenza, anche il collega-

Se una madre è innervosita dagli sms, il bambino percepisce quel nervosismo. E tenderà ad attribuire la tensione al suo rapporto con la madre

Da sapereSms inviati al secondo nel mondo. Fonte: Itu

2007 201020092008

56.432

89.289

136.683

192.192

Page 45: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 45

mento digitale con la depressione e l’ansia un tempo era considerato una tesi ridicola. Uno studio condotto dalla Carnegie Mel-lon university nel 1998 evidenziava che l’uso della rete per un periodo di due anni era legato a umore malinconico, solitudine e alla perdita di amici nel mondo reale. Ma alcuni fecero notare sghignazzando che le persone esaminate vivevano tutte a Pittsburgh. E poi, il web magari non ti pre-para la minestrina, ma signiica la ine della solitudine, un villaggio globale di amici e gente che ancora non conosci. Di fatto, quando la Carnegie Mellon ricontrollò lo studio sugli abitanti della città, qualche an-no dopo, erano più felici che mai.

Ma negli ultimi cinque anni, numerosi studi hanno replicato e ampliato i primi ri-sultati della Carnegie Mellon mostrando che se una persona passa molto tempo nel villaggio globale tende a sentirsi peggio. L’uso della rete spesso prende il posto del sonno, dell’attività isica e degli scambi a tu per tu, e questo può influire anche sulle persone più serene. E l’impatto digitale può durare non solo un giorno o una settimana,

ma anni interi. Un recente studio statuni-tense basato sull’uso che gli adolescenti facevano del web negli anni novanta ha trovato un collegamento tra il tempo che si trascorre online e i disordini dell’umore nella prima età adulta. Anche i ricercatori cinesi hanno trovato “un efetto diretto” tra l’intenso uso della rete e lo sviluppo di una vera e propria depressione, mentre gli studiosi della Case Western Reserve uni-versity hanno individuato un rapporto tra l’abuso dei messaggi, l’uso dei social net-work e lo stress, la depressione e i pensieri suicidi.

In risposta a questo lavoro, un articolo della rivista Pediatrics ha rilevato la com-parsa di “un nuovo fenomeno, la ‘depres-sione da Facebook’”, spiegando che “l’in-tensità del mondo online può spingere alla depressione”. Secondo il rapporto pubbli-cato dall’accademia statunitense di pedia-tria, i medici dovrebbero inserire domande sull’uso della tecnologia digitale in tutti i loro checkup annuali.

Rosen, l’autore di iDisorder, sottolinea la prevalenza di ricerche che mostrano “un

rapporto tra uso di internet, messaggi, email, chat e la depressione negli adole-scenti”, così come “una forte relazione tra videogiochi e depressione”.

Ma il problema sembra essere qualitati-vo oltre che quantitativo: le esperienze in-terpersonali negative – così frequenti onli-ne – possono portare a potenziali spirali di disperazione. Per il suo libro Insieme ma

soli (Codice 2012), la psicologa dell’Mit Sherry Turkle ha intervistato più di 450 persone, quasi tutti adolescenti o tra i venti e i trent’anni, sulla loro vita online. E anche se in passato ha scritto due libri favorevoli alla tecnologia aggiudicandosi perino una copertina della rivista Wired, oggi denun-cia un mondo di persone tristi e stressate chiuse in un rapporto distopico con le loro macchine.

Nelle testimonianze che ha raccolto, le persone dicono che i telefoni e i computer portatili sono “il luogo della speranza”, il luogo “da cui viene la dolcezza” nella loro vita. I bambini descrivono madri e padri sostanzialmente poco disponibili, presenti eppure altrove. “Le madri oggi allattano il

LU

zP

ho

To

Page 46: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

46 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

In copertina

email e ai suoi videogiochi preferiti. Ha detto a Turkle che la vita reale è “solo un’al-tra inestra”, e “di solito non quella miglio-re”. Come andrà a inire? È questa la do-manda che fa più paura.

Negli ultimi mesi gli scienziati hanno cominciato a suggerire che il nostro mondo digitalizzato può alimentare forme di ma-lattia mentale ancora più estreme. A Stan-ford, il dottor Aboujaoude sta studiando se certe identità digitali possano essere consi-derate una sorta di vero e proprio alter ego patologico, come quelli documentati nei casi di disordine da personalità multipla (che nel Dsm oggi è chiamato disordine dissociativo dell’identità). Per veriicare la sua idea, Aboujaoude ha dato a uno dei suoi pazienti, Richard, un garbato dirigen-te delle risorse umane con una spietata abi-tudine al poker online, il test uiciale per il disordine da personalità multipla. L’esito è stato sorprendente. Il suo punteggio era uguale a quello del paziente tipo.

I fratelli Gold – Joel, uno psichiatra della New York university, e Ian, un ilosofo e psichiatra della McGill university – stanno

cercando di capire ino a che punto la tec-nologia possa troncare i legami delle perso-ne con la realtà, alimentando allucinazioni, manie e una psicosi, come forse è successo a Jason Russell, il regista di Kony 2012. L’idea è che la vita online somiglia a quella in una grande metropoli, cucita e tenuta insieme da cavi e modem, ma a livello mentale non meno concreta – e dura – della vita a New York o a Hong Kong. “I dati con-fermano la tesi che chi vive in una grande città è più esposto al rischio di psicosi di chi risiede in una cittadina di provincia”, spie-ga Ian Gold. “Se internet è una specie di città immaginaria, potrebbe avere lo stesso tipo di impatto psicologico”.

Una squadra di ricercatori dell’univer-sità di Tel Aviv sta seguendo una strada si-mile. Alla ine del 2011 ha pubblicato quelli che considera i primi casi documentati di “psicosi correlata a internet”. Le caratteri-stiche della comunicazione online sono in grado di generare “veri fenomeni psicoti-ci”, hanno concluso gli autori. E poi hanno lanciato un allarme alla comunità medica: “La vertiginosa ascesa dell’uso di internet e il suo potenziale coinvolgimento nella psicopatologia sono nuove conseguenze dei nostri tempi”.

Che fare quindi? Alcuni risponderebbe-ro che non dobbiamo fare nulla, perché perino le ricerche migliori si arenano da-vanti all’eterno dilemma di cosa viene pri-ma. Sono i mezzi di comunicazione a spez-zare l’anima delle persone normali con la loro presenza implacabile, le sue ininite distrazioni e la minaccia dello scherno? O sono le anime spezzate a essere attirate dal mezzo?

In un certo senso, non importa se il no-stro fervore digitale sta provocando la ma-lattia mentale o se si limita a incoraggiarla. Quello che conta è che la gente soffre. Schiacciati dalla velocità della vita, ci rivol-giamo alle droghe legali, e questo contribui sce a spiegare perché gli Stati Uni-ti vanno avanti a Xanax (e perché i ricoveri per il recupero da benzodiazepina, il prin-cipio dello Xanax e di altri ansiolitici, sono triplicati dalla ine degli anni novanta). Op-pure ci affidiamo alla falsa salvezza del multitasking, che assorbe la nostra atten-zione anche quando il computer è spento. E tutti noi, da quando è cominciata la rela-zione con internet, abbiamo mostrato la tendenza ad accettarla per quello che è, senza pensare troppo a come vogliamo che sia o a cosa vogliamo evitare. Dobbiamo reagire. Internet è ancora nostra e possia-mo rimodellarla. In gioco c’è la nostra mente. u gc

loro bambino oppure gli danno il biberon e intanto scrivono messaggi”, ha detto Turkle all’American psychological associa-tion l’estate scorsa. “Se una madre è inner-vosita dagli sms, il bambino percepisce quel nervosismo. E tenderà ad attribuire la tensione al suo rapporto con la madre. È un fenomeno che va seguito con la massima attenzione”. E ha aggiunto: “La tecnologia può farci dimenticare alcune cose impor-tanti della vita”.

Questa scomparsa del vero sé si poteva riscontrare anche tra i liceali e gli universi-tari che Turkle ha intervistato. Lottavano con identità digitali in una fase della vita in cui la vera identità è ancora in formazione. “Quello che ho imparato al liceo”, ha detto a Turkle un ragazzino di nome Stan, “è il proilo, il proilo, il proilo: come creare un me”. È una curva di apprendimento sner-vante, una vita vissuta totalmente in pub-blico con la webcam accesa, ogni errore registrato e condiviso, ridicolizzato inché non arriva qualcosa di ancora più ridicolo.

L’anno scorso Mtv ha condotto un son-daggio sulle abitudini web dei suoi spetta-tori tra i 13 e i 30 anni. Quasi tutti si sentiva-no “deiniti” da quello che mettevano onli-ne, “spossati” dall’obbligo di pubblicare sempre qualcosa e assolutamente incapaci di distogliere lo sguardo per paura di per-dersi chissà che. “Ho visto le menti miglio-ri della mia generazione distrutte dalla pazzia, afamate, isteriche, nude”: comin-cia così la poesia Urlo di Allen Ginsberg, un vaneggiamento beat che si apre con giova-ni che “si trascinano” all’alba cercando “una dose rabbiosa” di eroina. Non è dii-cile immaginare lo scenario corrisponden-te dei nostri tempi.

Solo un’altra inestraL’ultimo studio su rete e depressione è for-se il più sconsolante. Con il consenso degli interessati, la Missouri state university ha seguito in tempo reale le abitudini web di 216 ragazzi, il 30 per cento dei quali mo-strava segni di depressione. I risultati, pub-blicati a maggio del 2012, rivelano che i ra-gazzi depressi erano i più fanatici frequen-tatori di internet, quelli che trangugiavano più ore di email, chat, videogiochi e pro-grammi di ile sharing. Erano anche quelli che aprivano, chiudevano e cambiavano inestre di internet più spesso, cercando – possiamo supporre – e non trovando quello che speravano di trovare.

Somigliano tutti a Doug, uno studente della Midwestern che aveva quattro avatar e teneva ciascun mondo virtuale aperto sul suo computer insieme ai compiti, alle

Non importa se il nostro fervore digitale sta provocando la malattia o se si limita a incoraggiarla. Quello che conta è che la gente sofre

Da sapereUtenze di telefoni cellulari nel mondo,in miliardi. Fonte: Itu

3g

2g

5

4

3

2

1

02005 2006 2007 2008 2009 2010

Page 47: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)
Page 48: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

48 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Inchiesta

Perfino ai tempi del colera gli haitiani non hanno bisogno di molto per sopravvivere. Nella maggior parte dei casi il batte-rio che provoca la malattia si

sconigge bevendo un cucchiaino di sale e otto zollette di zucchero sciolti in un litro d’acqua, ino a quando la diarrea non si fer-ma. Per i casi più gravi serve una lebo.

“Dopo tre giorni i pazienti tornano a ca-sa da soli”, spiega Wester Lambert, un me-dico haitiano che dirige un piccolo centro per la cura del colera a Delmas 1, un campo della capitale Port-au-Prince dove vivono le persone rimaste senza casa dopo il terre-

Haitiostaggiodegli aiutiLinda Polman e Kathie Klarreich, Vrij Nederland, Paesi Bassi. Foto di Stanley Greene

La sopravvivenza del paese dipende dai donatori stranieri e dalle ong. Che prendono le decisioni al posto del governo. Ma non fanno quasi niente per fermare l’epidemia di colera

moto del gennaio 2010. La tenda dove Lambert reidrata i suoi pazienti si trova all’estremità del campo, il più lontano pos-sibile dalle altre tende. Ventiquattro pa-zienti, emaciati e immobili, sono collegati alle lebo che dondolano dolcemente dai paletti della tenda. Un leggero venticello porta un po’ di sollievo in un ambiente che altrimenti sarebbe sofocante.

L’epidemia di colera è scoppiata nell’ot-tobre del 2010, dieci mesi dopo il terremo-to. Gli haitiani erano “immunologicamente vergini” al batterio, che sembra sia stato portato dal personale nepalese della mis-sione di pace delle Nazioni Unite. In un an-no il numero di persone contagiate è passa-to da zero a mezzo milione, il 5 per cento della popolazione. Il sistema sanitario hai-tiano non era attrezzato per affrontare i normali problemi di salute pubblica, igu-riamoci un’epidemia così rapida, la più ve-loce dal 1994, quando il colera colpì i campi profughi di Goma, nella Repubblica Demo-cratica del Congo. Le organizzazioni uma-nitarie internazionali, con le competenze, i fondi e il personale necessari per interveni-re, hanno fatto meno del solito. Con il pas-sare del tempo la distribuzione di acqua

potabile gratuita nelle tendopoli è stata so-spesa. I donatori hanno deciso che i servizi gratuiti non erano “aiuti sostenibili”, per-ché spingevano le persone a rimanere nei campi che stavano cercando di svuotare. Quando è scoppiata l’epidemia, il 50 per cento degli occupanti delle tende aveva ac-cesso all’acqua pulita. Meno di un anno e mezzo dopo, la percentuale è scesa al due.

Il batterio del colera si trova nelle feci umane. Ma nel marzo del 2012 c’erano ap-pena quattromila bagni chimici per mezzo milione di sfollati. Questi gabinetti di fortu-na non venivano quasi mai sturati o riparati. Ogni bagno era usato in media da trecento persone, mentre secondo le indicazioni delle organizzazioni umanitarie il numero massimo è di trenta persone. Molti preferi-scono le buste di plastica, che poi gettano nei fossi o nei campi, aumentando il rischio di difusione della malattia. Fuori dai campi i donatori non hanno investito quasi nulla in acqua pulita e servizi igienici. Prima e dopo il terremoto solo metà degli haitiani ha avuto accesso all’acqua trattata e solo il 20 per cento ha usato dei servizi igienici de-centi.

Sono già morte 7.500 persone e l’epide-

NO

OR

/LU

zP

hO

tO

Page 49: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 49

mia non si ferma. La divisione panamerica-na dell’Organizzazione mondiale della sa-nità, la Paho, teme che entro la ine del 2012 ci saranno altri duecentomila casi di colera, anche perché le ong che si occupano dell’epidemia sono diminuite, passando da 128 a 40.

“Nessuno costringe le ong a fare di più o a lavorare in più posti, né i donatori a impe-gnarsi per l’acqua e per i servizi igienici”, sostiene Lambert. “I fondi raccolti sono per gli haitiani, ma sono i donatori a stabilire le priorità, anche se sono in gioco delle vite umane”.

I paesi come Haiti, che per sopravvivere dipendono dai donatori stranieri e dalle or-ganizzazioni umanitarie internazionali, sono soprannominati “repubbliche delle ong”. Nel gergo delle Nazioni Unite, invece, si chiamano Ldc, least developed countries

(paesi meno sviluppati). Il 12 per cento della popolazione mondiale, 880 milioni di per-sone, vive in uno di questi 49 paesi, dove i donatori decidono come saranno spesi i soldi degli aiuti.

I governi donatori incanalano la mag-gior parte dei fondi verso organizzazioni umanitarie e istituzioni internazionali co-

me l’Onu e la Banca mondiale. Creano stati paralleli, repubbliche delle ong appunto, che sono più ricchi e più potenti dei governi uiciali. La cifra che il sistema degli aiuti stanzia per Haiti cambia ogni anno, ma è sempre superiore al reddito che lo stato rie-sce a generare. Nel 2005 le donazioni da parte di altri paesi erano il 113 per cento del-le entrate dello stato e nel 2009 il 130 per cento. Nel 2010, l’anno del terremoto, sono state il quadruplo, senza contare le raccolte di fondi delle ong private , per un totale di due o tre miliardi di dollari.

Una messinscena

I donatori più importanti, compresi i gover-ni di Stati Uniti, Canada, Francia e Unione europea, decidono – “coordinano” nel ger-go degli aiuti – come spendere i miliardi degli aiuti ufficiali. Dopo il terremoto, quando il lusso degli aiuti ad Haiti è diven-tato inarrestabile, a questi coordinatori si sono aggiunte decine di altri governi dona-tori e di ong internazionali, che avevano il controllo totale dei propri fondi.

Il governo haitiano non può toccare questi soldi. Solo l’1 per cento dei fondi rac-colti per l’emergenza sanitaria e il 10 per

cento di quelli per la ricostruzione (che nel 2010 e nel 2011 ammontavano a cinque mi-liardi di dollari) è arrivato nelle casse dello stato. La maggior parte dei soldi viene ver-sata sui conti delle ong internazionali, della Banca mondiale, delle Nazioni Unite, dell’Inter-American development bank e di varie società di consulenza e imprese di co-struzioni occidentali. Solo queste organiz-zazioni sanno come vengono gestiti i soldi, e quasi nessuna deve rendere conto di co-me li spende.

Lo dimostra il fatto che nessuno, tanto-meno il governo haitiano, sa quante ong operano nel paese né quello che fanno. Se-condo Bill Clinton, il rappresentante spe-ciale dell’Onu per Haiti, prima del terremo-to nel paese ce n’erano circa diecimila. L’ex ministro haitiano della pianiicazione e co-operazione internazionale, Jean-Max Bel-lerive, pensava che fossero tremila. Fino al giorno del terremoto solo 560 organizza-zioni umanitarie si erano prese la briga di registrarsi presso il ministero come stabili-sce la legge haitiana. E di quelle, solo 150 presentavano il rapporto annuale obbliga-torio.

Dopo il terremoto pochissime ong si so-no registrate e hanno presentato un rappor-to, ma nessuna è stata multata o espulsa per non averlo fatto. Ho chiesto a un alto fun-zionario di una delle agenzie Onu di Haiti se il governo gli avesse mai detto come spendere i soldi dei donatori. “Mai”, ha ri-sposto. “Non può farlo perché non è econo-micamente indipendente. In teoria lavoria-mo in collaborazione con il governo, ma è solo una messinscena. Poco tempo fa c’è stata una conferenza stampa del governo, ma l’abbiamo organizzata noi e abbiamo suggerito quello che dovevano dire”. Il fun-zionario ha chiesto di restare anonimo: “Ho due igli che devono studiare e non voglio perdere il lavoro”, ha spiegato.

Altre organizzazioni dicono la stessa co-sa con parole diverse: devono rendere con-to solo ai loro donatori. “Rispettiamo il go-verno ma non vogliamo essere sotto il suo controllo”, aferma Yolette Etienne, che di-rige Oxfam Haiti. “Dobbiamo difendere la nostra sovranità, i nostri princìpi e il nostro modo di lavorare”.

Quando l’alto funzionario dell’Onu ci ha detto: “Dobbiamo rendere conto di tutto, solo per spostare una penna da una parte all’altra della scrivania ci vogliono quindici irme”, si riferiva a quelle dei donatori, non a quelle delle autorità haitiane.

La Repubblica delle ong è governata dalla base Log, il quartier generale logistico delle Nazioni Unite, che si trova sulla strada

Port-au-Prince, 2010. Aspettando l’autobus per la scuola

Page 50: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Inchiesta

per l’aeroporto Toussaint Louverture. È cir-condata da alte mura dipinte di bianco, con la striscia blu delle Nazioni Unite in alto e in basso. Tutte le mattine i venditori ambu-lanti ci appoggiano oggetti in legno intar-siato, disegni e altri souvenir per i turisti. Per attraversare il conine tra la repubblica reale e quella delle ong bisogna avere un documento d’identità e un appuntamento con qualcuno. Quasi nessun haitiano ce l’ha. I caschi blu che sono dietro le sbarre di solito rimandano tutti indietro.

Dietro le mura una serie di prefabbricati con l’aria condizionata ospita gli uici, se-parati da viottoli bordati di siepi con i iori gialli e viola e alberi da frutta. Macchine da golf elettriche percorrono le di-stanze più lunghe, costeggiando prati curati pieni di parabole sa-tellitari. La Repubblica delle ong ha la sua bandiera (quella dell’Onu), la sua moneta (il dolla-ro statunitense) e perino il suo clima: nella mensa all’aperto per il personale, il Deck Bar and Grill, rumorose macchine del vento soiano acqua fresca nebulizzata sulle teste degli uiciali di polizia dell’Onu sudcorea-ni, canadesi, statunitensi, cileni e francesi, dei militari brasiliani e indonesiani e degli appaltatori vietnamiti e statunitensi. Oggi sul menù ci sono sushi, riso al gelsomino, kebab e gelato Häagen-Dazs.

Dall’altra parte del muroNella Repubblica delle ong il colera non c’è. La base ha più bagni di qualsiasi tendopoli haitiana, con asciugamani elettrici attacca-ti alle pareti. Le lingue uiciali sono l’ingle-se e il francese. Fuori si parla creolo. Chi vuole parlare con la popolazione locale può ordinare un opuscolo intitolato “Espressio-ni essenziali per comunicare ad Haiti”, che contiene frasi utili come: “C’è un ristorante americano?” (Gen yon restoran Ameriken), “Vuole suicidarsi?” (Ou anvi touye tèt ou?), “La sua tenda è asciutta?” (Èske tant ou a sèk?) e “Non è costretta a fare sesso in cam-bio di cibo” (Ou pa oblije kite moun fè bagay ak ou pou manje ou dwe resevwa gratis).

Il vice rappresentante speciale e coordi-natore dell’Onu ad Haiti, Nigel Fisher, lavo-ra in uno dei prefabbricati, completo di pol-trone di pelle e segretaria che serve il cafè. Sa bene come si vive dall’altra parte del mu-ro. È un diplomatico canadese alto dall’aria gentile, che indica con un movimento vago del braccio le colline intorno a Port-au-Prince dove ci sono gli uici degli appalta-tori delle ong. “Qui ci sono decine, centina-ia di migliaia di persone che portano aiuti, ma svolgono funzioni che sarebbero di

50 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

competenza degli haitiani”, dice. Secondo la maggior parte di questi stranieri, è un male inevitabile. In base alle analisi delle organizzazioni umanitarie e dei paesi do-natori, Haiti è uno “stato fallito” che non sa governarsi da solo. I donatori sostengono che a più di due anni dal terremoto meno della metà dei loro aiuti ha dato risultati concreti perché Haiti ha “una bassa capaci-tà di assorbimento”. Al governo non arriva quasi nulla, perché non è aidabile a causa della “corruzione a tutti i livelli”.

Secondo Fisher è solo una scusa. “Non puoi lamentarti dell’incapacità dello stato haitiano se non lo aiuti a raforzarsi. Per de-cenni non abbiamo investito molto per rag-

giungere quest’obiettivo”. Sono state fatte solo delle promesse. Dopo il terremoto, i donatori e le organizzazioni umanitarie hanno presentato rapporti politicamen-te corretti in cui sostenevano la

necessità di uno stato più forte e più profes-sionale. Hanno creato una Commissione per la ricostruzione, in cui il governo haitia-no e i donatori avrebbero dovuto decidere insieme quali erano le priorità per la rico-struzione. La presiedevano Bill Clinton e Jean-Max Bellerive, che all’epoca era primo ministro di Haiti. L’avvocato haitiano Gary Lissade era uno dei membri scelti dal go-verno. Oggi ride di quell’esperienza. “Non basta fare qualcosa di buono, è più impor-tante apparire in tv mentre lo si fa”, aferma nel suo uicio con i muri crepati dal terre-moto. “I donatori non vogliono che i loro soldi ‘scompaiano’ nei meandri di una com-missione. Vogliono progetti visibili”.

Consideriamo la proposta di rimuovere i venti milioni di metri cubici di macerie

prodotti dal sisma. “I donatori non hanno investito un centesimo nel progetto, perché non potevano attaccare il loro logo alle ma-cerie rimosse. Vogliono che il mondo sap-pia che sono stati loro a regalare quel milio-ne di dollari”, dice scoppiando in una sono-ra risata. La metà delle macerie è ancora lì e la commissione non esiste più. Era destina-ta al fallimento dall’inizio, anche a causa della disparità di poteri. “Gli haitiani non potevano dirigerla. Non avevano le risorse né il personale per analizzare i progetti pro-posti”, spiega un altro ex membro della commissione. “Comandavano i donatori. C’era un vuoto e lo hanno riempito. Hanno pensato: ci avete messo in mano il potere e lo useremo. I donatori dovrebbero essere più altruisti, ma il mondo non funziona co-sì”.

Nel paese circolano molte storie sull’im-potenza dello stato contro la Repubblica delle ong. Al centro della capitale c’è il pa-lazzo presidenziale. Per due anni e mezzo è rimasto com’era il giorno della catastrofe, una torta nuziale rovesciata e sbriciolata. Solo quando un’organizzazione umanitaria internazionale, non il governo haitiano, ha deciso di smantellarlo, è cominciato il lavo-ro di demolizione. Dietro la struttura crolla-ta ci sono montagne di macerie e container pieni di impiegati statali con molte cose da fare e poca autorità.

Di tanto in tanto il settore pubblico op-pone un po’ di resistenza con una specie di maligno piacere. Ogni giorno l’uicio della dogana litiga con le ong che si riiutano di pagare le tasse d’importazione sugli “aiuti umanitari salvavita”. Quando i loro contai-ner sono trattenuti nel porto, le ong parlano di “corruzione” e accusano i funzionari del-la dogana di non curarsi delle vite umane e di sabotare la ricostruzione perché voglio-no essere pagati.

In parte è vero, ma non si tratta solo di questo. Secondo un funzionario doganale, molti container e molte navi sono pieni di automobili, computer, antenne satellitari e materiale d’uicio che le ong avrebbero po-tuto comprare ad Haiti dagli importatori locali che pagano le tasse. “Sono ong non registrate e quindi sono qui illegalmente”, spiega. “Lavorano per noi e in cambio chie-dono di essere esentate dalle tasse. Solo qualche giorno fa un collega ha litigato con una piccola ong statunitense che voleva im-portare quaranta generatori per regalarli alle scuole. Insistevano sull’esenzione spie-gando che si trattava di aiuti umanitari, ma noi li abbiamo fermati. Hanno chiamato i giornali statunitensi sostenendo che i fun-zionari della dogana sono corrotti. Ma sta-

u Il 12 gennaio 2010 un terremoto di magnitudo 7 sulla scala Richter colpisce la capitale di Haiti, Port-au-Prince. Il sisma, il più grave degli ultimi duecento anni, provoca trecentomila vittime e più di un milione di sfollati.u A marzo i donatori internazionali promettono 5,3 miliardi di dollari per la ricostruzione.u All’inizio di ottobre, nel dipartimento dell’Artibonite, si registrano i primi casi di colera. Nel giro di poche settimane, la malattia arriva nella capitale. Le vittime sono più di settemila.u A marzo 2011 il musicista Michel Martelly viene eletto presidente.u Il 15 ottobre 2012 gli haitiani scendono in piazza per protestare contro l’alto costo della vita e chiedere le dimissioni di Martelly. Bbc

Da sapere

Page 51: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 51

vano danneggiando gli importatori haitia-ni”. Nelle amministrazioni statali, regiona-li, provinciali e locali, i sindaci, i consiglieri e i funzionari si sentono umiliati e demoti-vati a causa “delle decine o centinaia di mi-gliaia di persone che svolgono funzioni di competenza degli haitiani”, dice Nigel Fi-sher.

Negli uici spesso deserti, a volte semi-distrutti dal terremoto, quasi tutti senza elettricità, telefoni e computer, i funzionari raccontano le loro storie sulle ong che sono arrivate nelle loro comunità e hanno co-minciato a lavorare senza autorizzazione e senza aver consultato la gente del posto. A diferenza di quello che pensano in molti, ci sono haitiani competenti che hanno buone idee ed esperienza alle spalle.

Joseph Philippe è il coordinatore tecnico del Comité communal de la protection civil di Léogâne. Questo giovane ingegnere agricolo ha cercato di dare qualche consi-glio alle ong che sono arrivate nella sua città dopo il terremoto, ma nessuna gli ha dato ascolto: “Le loro priorità erano diverse dal-le nostre, ma hanno avuto la meglio. Non avevamo altra scelta se non arrenderci”.

Léogâne, una città portuale di 134mila abitanti che si trova quindici chilometri a sud dell’epicentro del terremoto, è stata

quasi rasa al suolo. Decine di migliaia di persone sono morte e più di 32mila case e 510 ediici pubblici sono stati distrutti. Léo-gâne aveva bisogno di case sicure su terreni asciutti. Invece ha avuto tende e costruzio-ni provvisorie su terreni che, come sa ogni bambino, erano piane alluvionali. Léogâne si trova alla conluenza di tre iumi. “La no-stra idea era quella d’investire sul consoli-damento degli argini e sulla creazione di una rete di fognature. Ma tutte le ong, tran-ne una, ci hanno escluso dal tavolo delle discussioni. Erano venute qui per montare le loro tende nel minor tempo possibile, ed è quello che hanno fatto”. Nel dicembre del 2010 l’uragano Tomas ha sommerso gran parte di quelle tende e dei rifugi tempora-nei. “Le ong se n’erano già andate”, dice Philippe. “Lei è il primo bianco che vedia-mo da mesi”.

La fabbrica sudcoreana

Dopo il terremoto il sindaco di Tabarre, Franz Theodat, aveva proibito alle ong in-ternazionali di scavare le latrine per un gruppo di sfollati. “Questa gente prende l’acqua che beve dal terreno. Non possiamo scaricarci i liquami, no? Servivano i bagni chimici, ma non ce li avevano. Il giorno do-po ho controllato e le latrine c’erano co-

munque. Io sono il responsabile, ma loro prendono le decisioni”.

Nel giardino dell’ospedale pubblico di Haiti, al centro di Port-au-Prince, ci sono auto ammaccate con le gomme a terra e pa-zienti scappati dal caldo e dalla puzza delle corsie. Molti sono distesi sui cartoni all’om-bra degli alberi di mango. Sparsi in giro si vedono i resti dell’invasione delle ong dopo il terremoto. I Bomberos unidos di Madrid, Operation blessing international e l’Unicef se ne sono andati, ma le loro tende sono ri-maste. Gli adesivi della Croce rossa statuni-tense e di Usaid sono ancora incollati sulle porte e sulle scatole vuote. Il dottor Jacques Pierre, il direttore sanitario dell’ospedale, parla dello smantellamento dei servizi pub-blici haitiani. Prima di tutto a livello econo-mico. Le ong possono permettersi di pagare stipendi molto più alti. E così le università e le scuole hanno perso gli insegnanti e i mez-zi d’informazione locali hanno perso i gior-nalisti. Pierre ha visto anche molti medici lasciare l’ospedale per andare a lavorare con le ong. Ha parlato di questa “emorra-gia” al ministero della sanità, ma gli hanno risposto che non potevano farci nulla.

A Caracol, all’estremità settentrionale del paese, il consiglio comunale ha avuto la sgradevole sorpresa di veder sorgere un’in-

NO

Or

/LU

zP

HO

TO

Port-au-Prince, 2010. Una casa per le cerimonie vudù

Page 52: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

52 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Inchiesta

tera fabbrica di abbigliamento sudcoreana. Era il progetto prioritario del donatore più forte, gli Stati Uniti, e dell’Inter-American development bank. Un anno e mezzo dopo il terremoto, il congresso statunitense si è accorto che dei 412 milioni di dollari stan-ziati per la ricostruzione di Haiti, ne era sta-to speso solo l’1 per cento. Hillary Clinton doveva fare subito qualcosa e ha speso me-tà della somma disponibile (224 milioni di dollari) per costruire una fabbrica di abbi-gliamento. I coordinatori del progetto han-no scelto come sede Caracol, una piccola città colpita dal terremoto, dove quattro-cento contadini sono stati sfrattati dalle lo-ro terre per fare spazio a un nuovo comples-so industriale. È stato messo da parte anche il progetto appena approvato di creare un ambiente protetto per la foresta di mangro-vie e la barriera corallina che circondano la città.

La Sae-A trading sudcoreana, che rifor-nisce le grandi catene statunitensi come Walmart e Gap, ha promesso di creare ven-timila posti di lavoro. In cambio l’azienda, che fattura più di due miliardi di dollari con le sue fabbriche in Guatemala e in Nicara-gua, è stata esentata dal pagare le tasse al tesoro haitiano per quindici anni. Dispone anche di una centrale elettrica e di lussuose abitazioni per i suoi impiegati.

Cosa ci hanno guadagnato Caracol e le quattro comunità vicine? L’arrivo dei con-sulenti di Usaid, l’organizzazione che gesti-sce gli aiuti umanitari statunitensi. Quello di Caracol è Joanel Chèry, un ex sindaco di Cap-Haïtien che oggi lavora con gli ameri-cani. Quando cerchiamo d’intervistarlo, Chèry bisbiglia le risposte all’orecchio del vicesindaco Rocheny Joseph. Siamo seduti gomito a gomito su sedie pieghevoli donate da Usaid, intorno a un tavolo nuovo con il logo di Usaid, accanto a uno schedario con un altro adesivo di Usaid.

“Il consiglio comunale è in società con i coreani”, dicono i due uomini. “Loro crea-no i posti di lavoro, noi facciamo il resto”.

Il sindaco, Landry Colas, non sa niente di questa società. Lo troviamo davanti al suo uicio appena ristrutturato con un con-sulente di Usaid. “Tutti gli aiuti vanno alla fabbrica”, spiega. I coreani hanno bisogno di strade, elettricità, acqua e case. “Cerco di fare in modo che arrivi qualcosa anche a noi, ma la strada che hanno costruito si fer-ma ai cancelli della fabbrica. È molto dii-cile inluire su quello che succede. Abbiamo già perso una battaglia. Non hanno assunto neanche un haitiano per costruire la fabbri-ca. Hanno dato l’appalto a un costruttore della Repubblica Dominicana”. Solo lo 0,02

per cento degli appalti per la ricostruzione è andato a imprese haitiane.

Il complesso industriale è un vero stato nello stato, nascosto dietro cancelli di ferro e alti muri, come la base Log. All’ingresso ci sono cartelli con le scritte “La Sae-A ama Haiti” e “La Sae-A ti ama”, ma è tutta pro-paganda, tra l’altro in inglese, che quasi nessuno qui sa leggere. Cerchiamo di parla-re con i coreani, ma siamo bloccati ai can-celli dalle guardie armate.

Ogni tanto, ci racconta una donna che abita in una capanna di argilla e paglia da-vanti all’ingresso, un trattore entra nel can-cello guidato da un silenzioso dominicano. Sradica gli alberi da frutta che costeggiano la strada e distrugge gli orti che evidente-mente tolgono spazio a qualcos’altro.

Gli haitiani che lavoreranno nella fab-brica coreana guadagneranno l’equivalente di cinque dollari al giorno, circa 200 gourde haitiani, il surrealistico salario minimo del

paese. Considerate che una banana costa 5 gourde, un uovo 10 e l’autobus 50. Se ogni giorno un operaio, sua moglie e i loro tre i-gli fanno colazione con una banana e un uovo ciascuno, hanno già speso 75 gourde. Il viaggio per andare e tornare dalla fabbri-ca costa altri 100 gourde. La sera la famiglia avrà solo i soldi per una banana e un uovo da dividere in cinque. Vestiti, aitto, scuo-la? Le sue casse sono vuote.

“È scoraggiato?”, chiediamo al sinda-co.

“Ho già superato quella fase”, dice.

Valigie pronteNon tutti i progetti tagliano fuori il sistema pubblico haitiano. A soli 80 chilometri a nord della capitale, nella cittadina di Mire-balais, David Walton sovrintende soddi-sfatto alla costruzione di un nuovo ospeda-le. Questo medico bostoniano di 34 anni dice che i lavori stanno andando bene. Le fondamenta sono state quasi tutte gettate.

Walton è un membro di Partners in health (Pih), un’organizzazione statuniten-se che lavora in collaborazione con il gover-no haitiano. Solo il 12 per cento del suo bud-get annuale viene dai donatori, quindi è abbastanza indipendente da poter decidere quali sono le priorità, e sceglie quelle del popolo e del governo. “Altre ong costruisco-

no cliniche private, ma noi crediamo nella sanità pubblica”, aferma. Walton elogia i funzionari governativi con cui è in contatto. “Sono intelligenti, collaborativi e motivati. Hanno delle idee, ma nessuno li ascolta. Sono poche le ong che cercano di lavorare con il governo. È molto più semplice aggi-rarlo. Nessuno guarda quello che fai, con-trolla i tuoi conti o fa domande”. Cammi-nando sulle assi di legno che coprono il ce-mento ancora fresco, Walton ci mostra gli ediici in costruzione. Non capisce perché gli haitiani non dovrebbero essere curati bene come gli statunitensi e gli europei. “Da qui uscirà l’ossigeno”, dice, “qui mette-remo l’apparecchio per la Tac, il primo del sistema sanitario pubblico del paese. E qui vorrei un bel giardino con le piante e un la-ghetto”.

“Un laghetto?”, chiediamo sorprese. “È una priorità per gli haitiani?”.

“No”, risponde il dottor Walton, “ma anche loro hanno diritto a qualcosa di bel-lo”.

Dipendere dai governi stranieri signii-ca dipendere dalla loro capacità di concen-trazione, che non supera quella di un mo-scerino. Nel 2010 Haiti era la “preferita dei donatori”, ma ad aprile del 2012 era già al penultimo posto della lista. Dei 300 milioni di dollari chiesti dalle Nazioni Unite per portare gli aiuti umanitari a mezzo milione di persone che oggi vivono ancora nelle tendopoli, ne sono arrivati solo la metà. Og-gi i paesi preferiti dei donatori sono il Su-dan, la Somalia, l’Etiopia, il Kenya e i Terri-tori palestinesi.

Già nell’agosto del 2011 l’assistente di Nigel Fisher, Emmanuelle Schneider, ave-va detto: “Le ong stanno preparando le va-ligie per andarsene”.

La mailing list delle ong, creata per scambiarsi informazioni, è diventata un mercato per chi vuole mettere all’asta og-getti personali e veicoli (con tanto di fran-chigia, cioè senza tasse) oppure offrire qualcosa in aitto. Per soli 1.850 dollari al mese si può avere una casa con quattro ca-mere da letto e tre guardie. Senza le guar-die, il prezzo scende a 1.350 dollari.

Queste stesse ong assegnano 500 dolla-ri agli abitanti delle tendopoli per trasferir-si, se dimostrano di aver trovato una casa in aitto per un anno. u bt

LE AUTRICI

Linda Polman è una giornalista olandese. In Italia ha pubblicato L’industria della solidarietà (Mondadori 2009).Kathie Klarreich è una giornalista statunitense che dal 1986 si occupa di Haiti.

Sono poche le ong che cercano di lavorare con il governo. È più semplice aggirarlo

Page 53: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)
Page 54: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

54 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Israele

Quando Eli Sagir ha mostra­to al nonno, Yosef Dia­mant, il suo nuovo tatuag­gio sull’avambraccio sini­stro, lui ha chinato la testa per baciarlo. Diamant ave­

va lo stesso tatuaggio con il numero 157622. Era stato impresso in modo indelebile sulla sua pelle dai nazisti di Auschwitz. Set­tant’anni dopo, al ritorno da una gita scola­stica in Polonia, Sagir si è fatto tatuare quel numero in uno studio nel centro di Gerusa­lemme. La settimana dopo, anche sua ma­dre e suo fratello si sono fatti tatuare le sei cifre. A settembre del 2012 suo zio ha fatto lo stesso.

“La mia generazione non sa niente dell’Olocausto”, spiega Sagir, 21 anni. “Pensa che sia storia antica, come l’esodo dall’Egitto. Ho deciso di tatuarmi per ri­cordarlo ai miei coetanei: voglio raccon­targli la storia di mio nonno e dell’Olocau­sto”.

I familiari di Diamant sono solo alcuni tra i figli e i nipoti dei sopravvissuti di Ausch witz che hanno scelto di ricordare sul loro corpo i giorni più bui della storia. Men­tre il numero dei sopravvissuti ancora in vita è passato dai quattrocentomila di dieci anni fa ai duecentomila di oggi, le istituzio­ni e le persone cercano il modo migliore per ricordare l’Olocausto – che è stato determi­nante per la nascita e per l’identità di Israe­le – anche dopo la morte di quelli che hanno vissuto quest’esperienza in prima persona.

I viaggi nei campi di sterminio, come quello che ha fatto Sagir, sono ormai una consuetudine per gli studenti israeliani delle scuole superiori. Il memoriale Yad Vashem, a Gerusalemme, e altri musei cer­cano di diventare più accessibili, puntando sulle storie individuali e sugli efetti spe­ciali. Si discute del rischio di banalizzare i simboli a lungo considerati sacri e su quale debba essere il messaggio principale: biso­gna concentrarsi sull’importanza di uno stato ebraico indipendente nel prevenire un futuro genocidio o bisogna trasmettere un messaggio più universale, sul razzismo e la tolleranza?

Scelte personali“Stiamo passando dalla memoria vissuta alla memoria storica”, fa notare Michael Berenbaum, professore dell’American jewish university di Los Angeles, uno dei più importanti studiosi dei modi con cui viene commemorato l’Olocausto. “Siamo nel mezzo di una transizione, e i tatuaggi sono un modo forte e d’impatto di creare un ponte tra le due sponde”.

Anche Berenbaum è iglio di sopravvis­suti ma, spiega, “ripetere un’azione che ha distrutto i nomi delle persone e le ha tra­sformati in un numero non è la prima cosa che farei, e nemmeno la seconda o la ter­za”. Tuttavia, aggiunge, “è meglio di tanti altri tatuaggi che si fanno i ragazzi”.

Di certo si tratta di una decisione molto personale, che può creare delle situazioni R

EP

OR

TA

GE

BY

GE

TT

Y IM

AG

ES

Scrittosulla pelleJodi Rudoren, The New York Times, Stati UnitiFoto di Uriel Sinai

Un numero tatuato sul braccio, come nei campi di sterminio nazisti. È così che alcuni giovani israeliani ricordano le soferenze dei loro familiari sopravvissuti all’Olocausto

Page 55: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 55

Daniel Philosoph e sua nonna Livia Ravek a Bnei Zion, il 31 agosto 2012

Page 56: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Israele

spiacevoli: qualcuno potrebbe sentirsi of-feso dalla riappropriazione di uno dei sim-boli più profondi della disumanizzazione delle vittime durante l’Olocausto.

Il fatto che i tatuaggi siano proibiti dalla legge ebraica – alcuni sopravvissuti dei campi di sterminio hanno a lungo temuto di non poter essere sepolti nei cimiteri ebraici a causa di quei numeri – rende il fe-nomeno ancora più spiazzante. “È scon-volgente vedere questi numeri sul braccio di una ragazza molto giovane”, dice Eli Sa-gir. “È davvero sconvolgente. Dovremmo chiederci perché questi tatuaggi ci distur-bano tanto”.

RispettoSecondo l’enciclopedia dell’Olocausto pubblicata dallo United States holocaust memorial museum di Washington, i ta-tuaggi furono introdotti ad Auschwitz nell’autunno del 1941 e a Birkenau nel marzo del 1942. Furono gli unici campi di concentramento ad adottare questo siste-ma e non si sa quante persone furono ta-tuate, all’inizio sul petto e poi sull’avam-braccio sinistro. Solo chi era considerato abile al lavoro portava il tatuaggio, quindi, nonostante l’umiliazione, i numeri in qual-che caso erano mostrati con orgoglio, so-prattutto quelli più bassi, che indicavano la sopravvivenza a vari rigidi inverni nel cam-po. “Ognuno tratterà con rispetto i numeri dal 30.000 all’80.000”, scrisse Primo Levi in Se questo è un uomo, descrivendo i ta-tuaggi come parte della “demolizione di un uomo”.

Dopo la guerra, alcuni sopravvissuti di Auschwitz si afrettarono a farsi cancellare i tatuaggi o li tennero nascosti. Ma, con il passare dei decenni, altri hanno comincia-to a giocarsi i numeri al lotto o a usarli co-me pass word.

Dana Doron, 31 anni, è iglia di un so-pravvissuto. Fa il medico e ha intervistato circa cinquanta sopravvissuti per il docu-mentario Numbered, che ha realizzato in-sieme al fotoreporter Uriel Sinai. Doron ha chiesto ad alcuni dei sopravvissuti se ba-ciare quei numeri equivaleva a baciare una cicatrice. “Alcuni mi hanno guardata come a dire ‘ma sei pazza?’”, racconta. “Invece altri rispondevano ‘naturalmente’”.

“Io credo che sia una cicatrice”, spiega Doron, che ha cominciato a interessarsi ai numeri dopo aver fatto un prelievo di san-gue a una persona con il braccio tatuato. “Il fatto che i giovani si tatuino questi nu-meri signiica che portiamo ancora la cica-trice dell’Olocausto”.

Numbered racconta la storia di Hanna

56 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Rabinovitz, che si è fatta tatuare sulla cavi-glia il numero del padre morto. Ma anche quella di Ayal Gelles, un programmatore di computer di 28 anni, e di suo nonno Avra-ham Nachshon, 86 anni, entram-bi tatuati con il numero A-15510 sul braccio.

“È come un’eredità”, com-menta Gelles. “Immagino si trat-ti di una provocazione. All’inizio tutti rimangono sconvolti”. Gelles raccon-ta di aver avuto un’illuminazione quando ha visto marchiare delle mucche in un ranch in Argentina. Dopo quest’esperienza ha deciso di farsi fare il tatuaggio e di di-ventare vegano. Non ha parlato delle sue intenzioni con il nonno. “Se l’avessi sapu-

to, ti avrei detto di non farlo”, ha detto il nonno al nipote di recente.

“La notte faccio sempre gli stessi sogni su quel periodo”, dice Avraham Nach shon

raccontando la sua esperienza dell’Olocausto. Nach shon tra-scorse molti mesi a Birkenau, dove sua madre e sua sorella mo-rirono nelle camere a gas. “Spes-so scappiamo dai tedeschi. A

volte corro tutta la notte. Forse stavolta non mi prendono”.

Ogni mattina Nachshon nuota, fa yoga o corre sul tapis roulant. Alle due del po-meriggio torna a casa per dar da mangiare ai gatti del quartiere e poi guarda la tv per molte ore. Un paio di volte a settimana il nipote va a trovarlo e cenano insieme. “Ogni volta che vedo questo numero”, dice Gelles indicando il tatuaggio, “mi ricordo di chiamare mio nonno. È diicile avere un legame con persone che non conosco, con posti dove non sono mai stato e con questa cosa chiamata Olocausto. È con mio non-no che ho il rapporto più stretto”.

L’israeliano che ha tatuato il numero di Livia Ravek, il 4559, su suo iglio Oded Ra-vek e su suo nipote Daniel Philosoph, l’ha fatto gratis. Era un venerdì di due anni fa. Oded Ravek, 56 anni, che vive a Ottawa,

Bnei Zion, 4 settembre 2012. Eli Sagir ha sul braccio il numero del nonnoRE

PO

Rt

AG

E B

y G

Et

ty

IMA

GE

S

Eli Sagir fa la cassiera in un minimarket di Gerusalemme. Le fanno delle domande sul suo tatuaggio almeno dieci volte al giorno

Page 57: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 57

era in Israele per fare visita alla sua fami-glia. Dopo aver fatto il tatuaggio ha portato dei iori a sua madre. “All’inizio è rimasta turbata”, racconta Ravek. “Ma quando le ho spiegato le ragioni che mi avevano spin-to a farlo abbiamo pianto insieme. Le ho detto: ‘Sarai sempre con me’”.

Nuove domande

Le persone intervistate per questo articolo sembrano avere tutte le stesse motivazio-ni: vogliono essere legate intimamente e per sempre ai loro familiari sopravvissuti all’Olocausto. Inoltre vogliono vivere il lo-ro impegno a “non dimenticare” attraver-

so qualcosa in grado di suscitare continua-mente nuove domande e discussioni.

Eli Sagir, che fa la cassiera in un mini-market nel centro di Gerusalemme, rac-conta che le fanno delle domande sul ta-tuaggio almeno dieci volte al giorno. Un uomo, ricorda Eli, l’ha deinita “patetica” e, riferendosi a suo nonno, ha aggiunto: “Stai cercando di essere lui e di vivere le sue soferenze”. Una poliziotta ha detto che “Dio ha creato l’oblio perché dobbia-mo dimenticare”. Eli le ha risposto: “Per colpa di persone come lei, che vogliono di-menticare, rivivremo tutto questo”.

Qualche settimana fa, Eli Sagir ha ac-

compagnato suo zio Doron Diamant dal tatuatore. È il quinto discendente di Yosef Diamant, morto nel 2011 a 84 anni, a farsi fare il tatuaggio. Ci ha messo un quarto d’ora e ha pagato l’equivalente di quaranta dollari. Quando il tatuatore, un immigrato russo, ha scherzato dicendo di non essere “abbastanza patriottico” da fargli uno sconto, Diamant non ha risposto, ma era arrabbiato.

“È per questo motivo che lui può stare qui. Per questo tatuaggio e per quello che rappresenta”, dice Diamant. “Se oggi ab-biamo un paese, lo dobbiamo a queste per-sone”. u gim

Bnei Zion, 31 dicembre 2009. Tre sopravvissuti ad Auschwitz mostrano i loro tatuaggiRE

PO

Rt

AG

E b

Y G

Et

tY

IMA

GE

S

Page 58: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)
Page 59: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)
Page 60: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

60 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Economia

Il 6 febbraio 2012 trecento persone erano sedute nella sala congressi di Saarbrücken davanti a un’immagi-ne proiettata su un grande schermo: una donna sorridente e con i capel-

li corti, circondata da bambini allegri. Ai piedi della donna compariva un messaggio lapidario. Dopo aver visto l’immagine e aver letto il messaggio, tra il pubblico in sa-la si era difuso un mormorio di approvazio-ne. Quella frase era piaciuta a tutti i presen-ti. In sala c’erano anche i funzionari della Cdu del Saarland, in gran parte dirigenti di sezioni locali del partito democristiano di Angela Merkel, che si erano riuniti a Saar-brücken per creare nuove speranze tra gli elettori. Mancavano poche settimane al voto per il parlamento regionale. La donna ritratta nell’immagine era Annegret Kramp-Karrenbauer, il primo ministro del land governato dalla Cdu. Kramp-Karren-bauer era in svantaggio nei sondaggi, così i vertici del partito avevano ideato una nuo-va campagna, di cui faceva parte anche lo slogan proiettato sullo schermo. Nei giorni successivi la scritta è apparsa sui manifesti elettorali della Cdu in tutto il Saarland, e Kramp-Karrenbauer l’ha ripetuta nei comi-zi, davanti alle telecamere delle tv e ai mi-crofoni delle radio. La frase era: “Voglio un futuro senza debiti”.

Il 25 marzo 2012 Annegret Kramp-Kar-renbauer ha vinto le elezioni con un vantag-gio sorprendentemente ampio. Lo slogan sui debiti, però, ha continuato a circolare per mesi, anche se in alcuni casi è stato leg-

germente modiicato. Lo hanno fatto pro-prio il candidato della Cdu nel land dello Schleswig-Holstein, la Junge Union (l’orga-nizzazione giovanile della Cdu) e il gruppo parlamentare dei liberali della Fdp al Bun-destag. Tutti, insomma, vogliono un futuro senza debiti. Ed è possibile che queste paro-le continuino a circolare anche nei prossimi mesi, durante la campagna per le legislative tedesche del 2013.

I manifesti elettorali sono sempre un ri-lesso dei desideri della popolazione. I tede-schi non hanno mai amato i debiti. E li te-mono ancora di più adesso che quelli greci, quelli spagnoli e quelli italiani minacciano il benessere della Germania, mentre au-menta la paura della grande bancarotta,

come fu in passato per la guerra nucleare.Un futuro senza debiti. Leggendo que-

sta frase e pensando alla Germania, si po-trebbe concludere che qui non potrà mai succedere come in Grecia, dove durante le manifestazioni di protesta volano perino le molotov. Qui si pensa ai igli e al desiderio che crescano senza debiti; si rilette sul mo-desto benessere personale, per esempio sulla nuova auto e sul fatto che è il frutto di un duro lavoro e che non è stata comprata a rate. Ma nessuno pensa mai al Leopard 2, un carro armato prodotto dall’azienda te-desca Krauss-Mafei Wegmann. Il Leopard 2 può attraversare iumi profondi quattro metri e raggiungere una velocità di settanta chilometri all’ora. Ovviamente può anche sparare ed è considerato il miglior carro ar-mato del mondo. Quattro anni fa la Krauss-Mafei Wegmann ha venduto 170 Leopard 2 a un paese europeo alleato, incassando 1,7 miliardi di euro, una volta e mezzo quello che l’impresa riesce a guadagnare in un an-no. Quei carri armati sono stati comprati dalla Grecia. E se già all’epoca era chiaro che l’acquisto sarebbe stato reso possibile solo da un debito, nessuno se ne preoccupa-va. L’unica cosa importante era che in Ger-mania sarebbero arrivati molti soldi.

Denaro alla VolkswagenNegli ultimi anni in Germania è arrivato un bel po’ di denaro non solo dalla Grecia, ma anche dall’Italia, dalla Spagna e dal Porto-gallo. Prima dell’inizio della crisi, per esem-pio, gli italiani compravano ogni anno

Ricchigrazie ai debitiWolfgang Uchatius, Die Zeit, Germania. Foto di Mario Weigt

In Germania molti politici accusano paesi come la Grecia e la Spagna di mettere a rischio il benessere tedesco con il loro indebitamento irresponsabile. Ma nel sistema capitalistico i prestiti sono da sempre il motore della crescita

Da sapereRapporto tra debito pubblico e pil nel 2011, percentuale. Fonte: Fondo monetario internazionale

Giappone

Grecia

Italia

Portogallo

Irlanda

Stati Uniti

Islanda

Belgio

Francia

Regno Unito

Spagna

0 40 80 120 160 200 240

Page 61: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 61

450mila automobili tedesche, gli spagnoli 330mila e i greci e i portoghesi 50mila. Ogni quattro macchine che i tedeschi hanno ven­duto all’estero in quel periodo, una è arriva­ta in uno dei paesi colpiti dalla crisi. Gli sta­ti che oggi sono accusati di non saper gesti­re i loro soldi hanno mandato molto denaro alla Volkswagen, alla Daimler e alla Bmw.

Quei soldi non sono rimasti chiusi nelle sedi centrali dei grandi gruppi industriali tedeschi, ma sono stati distribuiti ai forni­tori e alle altre aziende legate al settore au­tomobilistico tedesco. Si sono trasformati nei salari degli operai che lavorano alle ca­tene di montaggio in Germania, negli sti­

pendi dei manager e nei dividendi distribui­ti agli azionisti. È probabile che, a loro insa­puta, alcuni cittadini tedeschi abbiano pa­gato l’aitto, un viaggio o il nuovo smart­phone con soldi arrivati dall’Europa del sud. Altri, magari, avranno comprato una nuova automobile.

Di recente le agenzie di stampa hanno fatto sapere che i tedeschi comprano auto sempre più grandi. I garage sotterranei e i grandi parcheggi sono in diicoltà: hanno pochi posti per gli ingombranti fuoristrada e per le monovolume familiari. In Germa­nia anche i posti di lavoro sono più numero­si che mai: il boom delle esportazioni ha

prodotto un altro miracolo economico dopo quello degli anni sessanta. Si può dire che tutto stia andando come i partiti promette­vano da anni. “Più crescita, più lavoro”, si leggeva su un manifesto elettorale della Cdu prima delle elezioni legislative del 2005. “Lavoro, lavoro, lavoro”, era la ver­sione dei socialdemocratici della Spd. “Jobs, jobs, jobs”, scrivevano i Verdi. “Ciò che crea lavoro ha anche un valore sociale”, sosteneva la Fdp.

Se però i posti di lavoro sono stati creati anche con i soldi provenienti dall’Europa meridionale, cosa succederà se i greci, gli spagnoli, gli italiani e i portoghesi comince­

An

zE

nB

Er

GE

r/C

On

tr

ASt

O

Berlino, Germania

Page 62: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Economia

ranno davvero a risparmiare e a ripagare i vecchi debiti invece di contrarne di nuovi? E cosa dire degli statunitensi, dei francesi e dei britannici, che negli ultimi anni hanno chiesto prestiti ingenti per comprare i pro-dotti tedeschi? Cosa ne sarà della Germa-nia se anche loro sceglieranno di risparmia-re?

Sarebbe questo il futuro senza debiti. Ma si tratterebbe anche di un futuro pieno di automobili tedesche che nessuno riesce a vendere e che restano parcheggiate da-vanti alle fabbriche. In Germania le aziende deciderebbero di licenziare i dipendenti. Le nuove generazioni non dovrebbero più provvedere a pagare i debiti di mezza Euro-pa, certo, ma in compenso dovrebbero so-stenere genitori che si sono impoveriti e che sono rimasti senza lavoro e anche senza pensione.

A quanto pare la richiesta di ridurre i de-biti non combacia con quella di creare nuo-vi posti di lavoro. O almeno non subito, non a prima vista, perché a uno sguardo più at-tento sembra che una soluzione esista. E la cancelliera tedesca è convinta di conoscer-la. Il 3 aprile 2012 Angela Merkel ha tenuto un discorso alla facoltà di giurisprudenza dell’Università Carolina di Praga. Nell’isti-tuto dove nel 1348 gli studenti di lingua te-desca cominciarono ad apprendere tutto lo scibile universale la cancelliera è interve-nuta sul tema: “La forma futura dell’Euro-pa”.

Merkel ha parlato del socialismo, dicen-do di averlo vissuto sulla propria pelle e ag-giungendo che per fortuna era ormai supe-rato. Poi ha esaltato gli ideali europei della pace, della libertà e della giustizia. Alla ine è passata alla questione della crisi del debi-to e ha detto: “Vorrei che guardassimo a questa crisi come a un’opportunità”. E quin-di ha aggiunto: “Naturalmente l’obiettivo è la crescita, ma una crescita che non si basi sul debito”.

In quel momento non era chiaro se Mer-kel avesse concepito il suo discorso come ammonimento per gli europei del sud o se fosse consapevole del fatto che anche l’eco-nomia tedesca era cresciuta grazie ai debiti, con la diferenza che non erano stati i tede-schi a chiedere i prestiti. Quello che è certo è che la cancelliera ha tratto una conclusio-

62 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

ne tanto semplice quanto convincente: se i debiti sono una cosa negativa e la crescita è positiva, in futuro avremo bisogno di una crescita senza debiti. Insomma un futuro senza debiti, ma con tanti posti di lavoro.

In seguito Angela Merkel ha tenuto di-scorsi simili, come per esempio davanti ai parlamentari del Bundestag. Questa volta ha sorvolato sul socialismo, ma in compen-so ha illustrato più nel dettaglio la sua visio-ne della crescita economica e ha anche usa-to un’espressione speciica per far capire quello che aveva in mente: crescita sosteni-bile. Questa formula trae origine dal dibat-tito sull’ambiente. In principio il concetto di crescita sostenibile indicava un aumento del benessere in tempi di crisi ecologica: come diventare più ricchi senza bruciare petrolio e senza abbattere le foreste pluvia-li. Angela Merkel ha applicato il principio

alla crisi economica. Il benessere deve au-mentare e devono essere creati nuovi posti di lavoro, ma senza contrarre debiti. Inten-de dire questo la cancelliera quando parla di crescita sostenibile. “Una condizione es-senziale per ottenerla è la solidità delle i-nanze”, ha spiegato Merkel in un’intervista rilasciata di recente.

Perché le inanze siano solide bisogna che le banche smettano di giocare d’azzar-do, che i governi non sprechino i loro soldi e che i consumatori non considerino la loro carta di credito come una cassa a cui attin-gere liberamente.

Il Giura svevo

Quando gli ambientalisti parlano di cresci-ta sostenibile, i loro sembrano discorsi da fantascienza nel sistema attuale. In tutto il mondo non esiste neanche un paese che sia riuscito ad arricchirsi rinunciando al gas, al petrolio e al carbone. Aumentare la ricchez-za nazionale senza provocare una crisi eco-logica è impossibile. In molti casi, semmai, è successo che la ricchezza nazionale sia aumentata senza provocare crisi economi-che: per esempio nella Germania Ovest del dopoguerra, e in particolare in una regione povera dove la temperatura è sempre un paio di gradi più fredda rispetto al resto del paese.

Sui monti del Giura svevo, alla ine della seconda guerra mondiale, le donne spinge-

vano le loro carriole verso gli aridi campi della regione. Gli uomini partivano in cerca di lavoro, e quando alla sera a tavola com-parivano un paio di rape cotte le famiglie erano contente. In alternativa avrebbero mangiato minestra di ortiche. Una ventina d’anni dopo la verdura era stata rimpiazzata da arrosti e ravioli. Davanti alle case erano parcheggiate automobili tirate a lucido e il mutuo della casa era stato pagato. Il benes-sere era aumentato in modo uniforme e senza crisi. Il miracolo economico si era al-largato a tutto il paese.

Com’era stato possibile? Di chi era il merito? Dei tedeschi e delle loro qualità, naturalmente, prima tra tutte la parsimo-nia. I tedeschi non s’indebitano, gli svevi meno che mai. È questo il segreto della cre-scita economica della Germania Ovest del dopoguerra, come fu ripetuto innumerevo-li volte negli articoli di giornale, nei roman-zi e nei discorsi dei politici. Lo si sentiva di-re perino alla radio, quando nel 1964 l’au-tore di canzonette Ralf Bendix cantava:

Schafe, schafe, Häusle baue,

Und net nach de Mädle schaue.

Und wenn unser Häusle steht,

Dann gibt’s noch lang kei Ruh,

Ja da spare mir, da spare mir

Für e Geißbock und e Kuh

(Lavora, lavora, costruisci la casa,e non andare dietro alle ragazze.E quando la casa sarà in piedi,non avrò ancora pace,continuerò a risparmiareper comprare un caprone e una vacca)

Come se avesse proprio questa canzone in mente, 45 anni dopo Angela Merkel ha dichiarato (sempre durante un discorso, stavolta in occasione del congresso della Cdu a Stoccarda) che sarebbe stato facile evitare la grande crisi: “Sarebbe bastato chiedere alla tipica casalinga sveva, che avrebbe risposto con una semplice regola di vita: non si può vivere costantemente al di sopra dei propri mezzi”.

Con queste parole Merkel ha messo in contrasto uno spaventoso presente tormen-tato dai fallimenti con un passato tranquillo e privo di debiti, quando l’euro non esisteva ancora e il marco tedesco aveva una poten-te protettrice: la Bundesbank, la banca cen-trale tedesca. Ma proprio negli archivi della Bundesbank si trovano dei documenti che raccontano il miracolo economico da un altro punto di vista. Dalle tabelle, dai graici e dalle cifre contenute nella cosiddetta bi-lancia delle partite correnti si può conclu-

La richiesta di ridurre i debiti non combacia con quella di creare nuovi posti di lavoro. O almeno non subito, non a prima vista

Page 63: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 63

dere che il passato è in realtà molto simile al presente. Già a quei tempi buona parte dei posti di lavoro della Germania derivava dai pagamenti provenienti dall’estero. Già allo-ra i vicini europei compravano molti pro-dotti tedeschi. Già allora questi acquisti erano inanziati attraverso i debiti. Il mec-canismo era molto simile a quello attuale, e si può dire che allora sia cominciato tutto. Anche il miracolo economico tedesco di quegli anni non è stato altro che una cresci-ta fondata sul debito. Nell’afermare certe cose sembra quasi di svelare un segreto, ma in realtà è vero il contrario. Si tratta di una banalità. Certo che la crescita del passato è stata prodotta da un indebitamento. È sem-pre così e non può essere diversamente.

La produzione di zuppaPer comprendere questo aspetto bisogna cimentarsi in un piccolo gioco d’immagina-zione. Ipotizziamo che in Germania esista una sola azienda che produce, diciamo, zuppa. Poniamo che l’impresa disponga di un capitale iniziale di 500mila euro e che lo impieghi per pagare i suoi operai e gli altri dipendenti impegnati nella produzione della zuppa. Il personale spende tutta la sua paga in consumi, perché in in dei conti ha bisogno di mangiare. I 500mila euro, quin-di, tornano nelle casse del produttore di zuppa e il ciclo economico si chiude.

Poco tempo dopo, però, chiude anche l’azienda. Una ditta del genere, infatti, non può sopravvivere a lungo. Un’entrata di 500mila euro e un’uscita di 500mila euro implicano che il proprietario dell’impresa non incassa nessun utile e che non può au-mentare lo stipendio dei dipendenti. Quin-di non avviene nessun miracolo economi-co. La ricchezza manca e la povertà è difu-sa.

Per avere una crescita economica e quindi maggior benessere, l’impresa deve incassare più denaro di quanto ne spenda. I 500mila euro che rimbalzano tra l’azienda e la manodopera devono trasformarsi in seicentomila. Ma com’è possibile raggiun-gere questo obiettivo?

È questa la domanda cruciale del capi-talismo, il mistero fondamentale dell’eco-nomia di mercato. Già nel 1885 Karl Marx scriveva nel secondo libro del Capitale: “Come fa l’intera classe dei capitalisti a riti-rare costantemente dalla circolazione 600 lire sterline se ne introduce costantemente solo 500?”. Già, come fa? Marx si concentrò a lungo sulla questione, ma non andò molto lontano. Solo anni dopo l’economista au-striaco Joseph Schumpeter trovò una solu-zione: nel 1926 Schumpeter scrisse che A

Nz

eN

be

rG

er

/Co

Nt

rA

Sto

(2)

Berlino, sulle rive della Sprea

Berlino, Alexanderplatz

Page 64: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

64 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Economia

l’imprenditore di talento “insegue il suc-cesso” ricorrendo ai prestiti. In altri termi-ni, si può dire che per permettere all’econo-mia di crescere qualcuno deve contrarre un debito.

Può essere che lo faccia il nostro produt-tore di zuppa o un altro imprenditore che voglia aprire, per esempio, un paniicio e prenda in prestito centomila euro per paga-re i suoi dipendenti. Così i consumatori te-deschi hanno a disposizione un totale di 600mila euro che tornano nelle casse delle aziende. A questo punto il produttore di zuppa comincia a registrare un guadagno, i tedeschi possono mangiare la zuppa insie-me al pane e l’economia cresce. Ma non per molto, perché ben presto il produttore di pane rischia il collasso. Seicentomila euro non bastano per ottenere un aumento delle entrate rispetto alle uscite. Per fare in modo che l’economia continui a crescere occorre

altro denaro. Ma dove andarlo a prendere? Anche questa volta qualcuno dovrà con-trarre un debito. Uno dei nostri due impren-ditori dovrà chiedere un finanziamento oppure dovrà nascere una terza azienda.

Negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale l’economia tedesca è cresciuta proprio in questo modo: le imprese chiedevano soldi in prestito. “L’industria del paese delle meraviglie è molto più indebitata della concorrenza estera”, scriveva Der Spiegel nel 1962. Il passato della Germania, quindi, è stato un passato di debiti.

Alla ine le imprese tedesche sono riu-scite a pagare quanto dovevano ai creditori, ma l’economia ha continuato a crescere. Anche questo si può spiegare attraverso il nostro esperimento immaginario. Se le im-prese non contraggono più debiti, l’econo-mia può crescere comunque, ma solo se al-tri entrano in gioco chiedendo un prestito. Per esempio i consumatori. Se alcuni priva-ti si fanno prestare una certa somma per comprare più zuppa e più pane, le nostre imprese registrano un’entrata maggiore, possono assumere altri collaboratori e pa-gare salari più alti.

Così i debiti degli uni fanno crescere il fatturato degli altri. Gli operai e gli impiega-ti se la passano meglio e poco dopo possono permettersi l’arrosto e i ravioli. Ma i consu-

matori indebitati devono onorare obblighi sempre più ingenti, e prima o poi risulterà evidente che non ce la faranno mai a salda-re il conto. Allora nasce il rischio del falli-mento. È quanto sta succedendo ai greci, agli spagnoli e agli italiani, che un tempo erano ottimi clienti delle aziende tede-sche.

A diferenza delle macchine a vapore, delle lampadine e delle automobili, i debiti non si possono toccare con mano. La prima macchina a vapore fu una rivoluzione, la prima lampadina un miracolo, la prima au-tomobile una rivelazione. Oggi tutte queste invenzioni sono simbolo del progresso e del benessere che si sono difusi all’intera uma-nità negli ultimi due secoli e mezzo. La stes-sa cosa vale per il telegrafo, la locomotiva e l’aeroplano. I debiti, invece, sono solo cifre scritte su carta. Forse è questo il motivo per cui pochi sanno che l’uno non può esistere

senza gli altri: non ci può essere benessere senza debiti.

Nel 1769 lo scozzese James Watt inven-tò la macchina a vapore. Nel 1879 lo statu-nitense Thomas Alva Edison concepì la lampada a incandescenza. Nel 1886 il tede-sco Carl Benz sviluppò la prima automobi-le. Furono menti geniali, importanti nella storia dell’umanità quanto grandi condot-tieri come Alessandro Magno, Federico II o Giulio Cesare. Ma fecero tutto da soli? “Non aveva con sé neanche un cuoco?”, si chiede Bertolt Brecht nella poe sia Doman-

de di un lettore operaio. Alessandro Magno non aveva al seguito nessun soldato pronto a morire per lui, nessun domestico e nessun servitore? E Federico II faceva le sue guerre da solo?

La storiograia non si cura della gente comune: è su questo che Brecht voleva ri-chiamare la nostra attenzione. Ma la storia dimentica anche i debiti. Watt inventò la macchina a vapore? Un risultato straordi-nario. Ma come fece a produrla in massa? Edison concepì la lampada a incandescen-za? Ma dove prese il denaro che servì a lan-ciarla sul mercato? Benz sviluppò l’automo-bile? Un trionfo. Ma come fu possibile che i suoi clienti ne comprassero a centinaia? Con i debiti.

I debiti non sono né positivi né negativi. Semplicemente esistono dovunque si crei ricchezza. Se il benessere aumenta, au-mentano di pari passo anche i debiti, e non esistono esempi contrari. Il mondo moder-no, però, si comporta come se il capitalismo fosse una persona e l’indebitamento un’escrezione poco attraente e in qualche modo perino ripugnante. Qualcosa di fron-te alla quale la casalinga sveva storce il na-so. Ma la casalinga sveva non esisterebbe se non fossero stati contratti tanti debiti. E non ci sarebbero casalinghe neanche in Ba-viera, nello Holstein o in Assia. Le casalin-ghe non esisterebbero afatto, perché nes-suna donna potrebbe permettersi di restare a casa invece di guadagnarsi uno stipendio. In questo povero mondo preistorico non avremmo né auto, né frigoriferi, né lavatri-ci. Ci sarebbero invece contadine che sgob-bano nei campi dalla mattina alla sera e la-voratrici a giornata che in cambio delle loro fatiche ricevono magari un paio di patate, ma di certo né monete, né banconote. Per-ché senza debiti non esisterebbe neanche il denaro.

Il mercante sumeroNel quarto millennio avanti Cristo, in Me-sopotamia – il territorio bagnato dal Tigri e dall’Eufrate corrispondente all’odierno Iraq – vivevano i sumeri, un popolo che svi-luppò la prima forma di scrittura della storia dell’umanità e anche il primo sistema mo-netario. I sumeri erano contadini, artigiani e commercianti. Non conoscevano le mo-nete, che sarebbero state inventate circa tremila anni dopo, ma sapevano benissimo cosa fosse un credito. L’antropologo statu-nitense David Graeber ne parla nel suo li-bro Debito. I primi 5000 anni. Se il mercante sumero A voleva comprare una capra dal mercante B ma non aveva niente da dargli in cambio, emetteva un titolo di debito.

I debiti non sono né positivi né negativi. Esistono dovunque si crei ricchezza. Se il benessere aumenta, aumentano anche i debiti

Da sapereDisoccupazione e pil in Germania, percentuali.

2009

��,�

2010

�,�

2011

�,�

2012

�,�

2013

�,�

2009

�,�2010

�,�2011

�,�2012

�,�

2013

�,�

Prodotto interno lordo

Tasso di disoccupazione

Fonti: Eurostat, Fondo monetario internazionale

Page 65: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 65

Usando la scrittura cuneiforme, incideva un segno particolare su una tavoletta di ter-racotta che poi consegnava a B. Quest’ulti-mo non conservava a lungo la tavoletta, che dava invece al mercante C per procurarsi, per esempio, due sacchi d’orzo. Ben presto le tavolette di terracotta presero a circolare nell’economia sumera come una forma pri-mordiale di banconote e diventarono un mezzo di pagamento. Così fu inventato il denaro.

Ma questo antico denaro di creta venne alla luce solo perché qualcuno aveva con-tratto un debito. Da questo punto di vista, il mondo non è poi cambiato tanto dai tempi dei sumeri. Se ora qualcuno entra in banca e chiede un prestito per comprare un’auto, la cifra viene accreditata sul suo conto. Sembra impossibile da credere, ma questi soldi non sono ritirati da nessuna parte e non vengono sottratti a nessuno. Si tratta di una promessa. Il denaro è lì esattamente come le tavolette sumere, spuntate dal niente come se Dio le avesse appena create. Per questo gli economisti parlano di crea-zione di denaro.

A questo punto il compratore dell’auto può fermarsi a un bancomat e ritirare il con-tante necessario per pagarla. Il denaro di-venta di proprietà del venditore, che può usarlo per comprare un anello a sua moglie. La commessa della gioielleria non sa per quali mani sia passata la banconota prima di arrivare nelle sue, e magari neanche le importa saperlo, ma una cosa è certa: ogni euro esiste solo perché a un certo punto qualcuno ha chiesto in prestito dei soldi. Ogni euro è un euro di debito, come ogni dollaro è un dollaro di debito e ogni franco svizzero è un franco di debito.

Monete di alluminio

Diversamente dall’antica Mesopotamia, oggi la creazione di denaro è un processo complesso regolato dalle grandi banche centrali come la Banca centrale europea (Bce), la Banca d’Inghilterra e la Federal reserve statunitense. Sono loro a coniare gli euro, le sterline e i dollari e a mettere a di-sposizione di banche commerciali come la Deutsche Bank, la Commerzbank o le casse di risparmio il denaro che poi viene conces-so in prestito ai comuni cittadini.

Ma resta comunque vero che l’indebita-mento è l’atto di nascita di ogni banconota e di ogni numero che compare sugli estratti conto. Sono i debiti a far venire al mondo il denaro. Un futuro senza debiti sarebbe dunque un futuro senza denaro. Chi sostie-ne questa visione è più anticapitalista della Sed (Sozialistische Einheitspartei A

nz

En

BE

rg

Er

/CO

nt

rA

StO

(2)

Berlino, davanti al Bundestag

Berlino, Alexanderplatz

Page 66: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

66 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Economia

Deutschlands, il partito comunista che ha governato la Repubblica democratica tede-sca, l’ex Ddr). Nella Repubblica democrati-ca tedesca almeno avevano le monete di alluminio. Prima o poi, comunque, arriva il momento in cui il compratore dell’auto de-ve rendere il dovuto. Allora restituisce alla banca i soldi più gli interessi, estingue il de-bito e la banca cancella il prestito dai libri contabili.

Per evitare che il capitalismo inisca in un’impasse e per fare in modo che l’econo-mia continui a crescere, qualcun altro dovrà chiedere un prestito. Forse si tratterà del rivenditore di auto che ottiene un inanzia-mento per ampliare il negozio, oppure del gioielliere che vuole comprare nuove pietre preziose. Nuovi debitori devono costante-mente entrare in gioco per sostituire i vec-chi: solo in questo modo il denaro continua a muoversi.

L’economista austriaco Thomas Strobl, autore del libro Ohne Schulden läuft nichts (Senza debiti non funziona niente), formu-la la questione in questi termini: “Il capita-lismo è una grande catena di Sant’Antonio”. Già ai tempi dei sumeri i crediti di terracot-ta fecero iorire i commerci. E già allora si notò che i debiti si accumulavano, aumen-tando più in fretta del benessere inché la catena non si spezzava. Allora qualcuno – una persona, una famiglia o mezza città – si trovava sull’orlo della bancarotta. Come oggi in Grecia.

E poi? Poi il sovrano compariva di fronte al popolo, come successe per esempio nel 2402 avanti Cristo, quando il re sumero En-metena fece leggere una dichiarazione e annunciò l’amargi, la libertà. L’amargi per i debitori implicava che le tavolette di terra-cotta venivano distrutte e tutti i debiti di-menticati. Così il denaro poteva riprendere a circolare, creando un nuovo benessere per mezzo di nuovi prestiti.

Per comprendere meglio il capitalismo, da sempre si cerca di suddividere l’econo-mia in classi e categorie. A seconda delle diverse visioni del mondo, si distingue tra avidi capitalisti e proletari sfruttati o tra consumatori iduciosi e imprenditori dina-mici. Se si scelgono i debiti come metro di misura, emerge un quadro diverso. Allora il mondo si può ripartire in due strati. In alto

ci sono i paesi ricchi ma non indebitati, che da anni accumulano ricchezze e producono grazie ai debiti di altri paesi. La Germania fa parte di quest’alta società. Nel comples-so, infatti, non è indebitata. Lo stato ha un debito pubblico elevato, certo, ma il patri-monio dei nuclei familiari è molto più con-sistente. Il paese può essere paragonato a una famiglia in cui la moglie ha prestato molti soldi al marito: l’uomo ha un debito con lei, ma non per questo il patrimonio della famiglia si riduce. In Germania, anzi, la ricchezza aumenta di anno in anno.

In basso, invece, ci sono i paesi comples-sivamente indebitati. Queste famiglie han-no debiti con altre famiglie, e ormai ne han-no contratti tanti che non riescono più a ri-pagarli. Qui siamo in fondo alla catena del debito, dove si trovano la Grecia, la Spagna e il Portogallo. Con i loro debiti, questi stati hanno tenuto in moto l’economia europea

per anni. Ora sono loro i grandi perdenti. Questi paesi possono essere paragonati ai lavoratori a basso costo delle fabbriche dell’Asia, grazie ai quali gli scafali dei ne-gozi tedeschi sono pieni di iPhone e ma-gliette. Il capitalismo ne ha bisogno. Senza di loro l’economia non crescerebbe. Ma da tutto questo processo non traggono un grande vantaggio. Due anni fa negli stabili-menti cinesi della Apple più di una decina di operai si è tolta la vita. Non ce la facevano più. Alla ine di settembre duemila lavora-tori si sono scontrati con la polizia. Sembra che non ne potessero più del loro carico di lavoro.

Anche in Grecia ci sono persone che non sopportano più di vivere. Prima della crisi il tasso di suicidi del paese era il più basso d’Europa. In seguito si è triplicato. C’è chi si butta giù dall’Acropoli, chi si annega in ma-re e chi si impicca nel suo appartamento. Un ex farmacista ha scritto nella sua lettera di addio che non voleva rovistare nella spazzatura e diventare un peso per i suoi i-gli. Si è sparato sotto un albero davanti al parlamento.

Queste vicende si possono minimizza-re, liquidare come sindrome dell’arto fanta-sma di una società viziata e spendacciona che deve inalmente imparare a risparmia-re. Ma si può anche arrivare alla conclusio-ne che la Grecia ha toccato il suo limite di

sopportazione, che è tempo di amargi, della grande remissione dei debiti. È dall’inizio della crisi che si discute di questa proposta: la Grecia dovrebbe dichiararsi insolvente, annunciare la bancarotta. Allora i suoi ob-blighi verrebbero cancellati e il paese sareb-be libero dai debiti. I dirigenti della Linke hanno sostenuto questa scelta, così come alcuni esponenti della Fdp. Persone che per il resto hanno molto poco in comune condi-vidono il desiderio di porre ine al debito. Annullare tutti gli obblighi: sembrerebbe davvero un nuovo inizio. Si direbbe una tra-sposizione dello slogan “Un futuro senza debiti” in un atto politico concreto. Si po-trebbe credere che in quel caso tutto inal-mente cambierebbe.

Annullare gli obblighiIn realtà il termine amargi si traduce in una libertà illusoria, in una realtà lontana dal capitalismo in cui i tassi d’interesse e le ren-dite non hanno nessun peso, almeno inché non sorga una nuova catena del credito con nuovi debiti e un rinnovato benessere. A condizione, però, che tutto vada per il verso giusto. Se qualcosa andasse storto, in Gre-cia le imprese e lo stato non troverebbero più banche o investitori disposti a conce-dergli prestiti. Allora si scoprirebbe che alla libertà dal debito fa seguito tra l’altro la li-bertà dalla crescita e dal benessere, e che amargi si può tradurre anche con un’altra parola: povertà.

Di fronte a questo pericolo, non sor-prende che i capi di stato europei abbiano imboccato inora un’altra strada: invece di cancellare i vecchi debiti, ne stanno contra-endo di nuovi. È la scelta compiuta anche dalla cancelliera tedesca, che pure parla vo-lentieri di crescita sostenibile. E a questa scelta non vuole rinunciare neanche Peer Steinbrück, il candidato della Spd al cancel-lierato. Chi indica questa strada fa un gran parlare di solidarietà europea, di ideali e di valori. Di fatto la questione è che non si nu-trono molte speranze sul fatto che in segui-to alla cancellazione dei debiti si potrebbe produrre una nuova catena del credito e si cerca in ogni modo di prolungare la vecchia catena. Per questo i greci continuano a rice-vere un finanziamento dopo l’altro e per questo le banche riescono a farsi erogare così facilmente nuovi capitali dalla Banca centrale europea. Lo scopo è permettere agli istituti di credito di ricominciare a con-cedere prestiti alle aziende, agli stati e ai consumatori, in modo che il denaro presta-to inneschi una nuova crescita. A quanto pare, i debiti hanno ancora un lungo avve-nire davanti a loro. u fp

Nuovi debitori devono costantemente entrare in gioco per sostituire i vecchi: solo così il denaro continua a muoversi

Page 67: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)
Page 68: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

68 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Portfolio

Viverenell’hotelfantasma

Fiore all’occhiello del Mozambico in epoca coloniale, il Grande hotel di Beira è diventato un rifugio per i poveri.Le foto di Juan Manuel Castro Prieto

I l Grande hotel è stato costruito nel 1952 a Beira, la seconda città del Mozambico. Considerato l’albergo più grande e lussuoso dell’Africa, avrebbe dovuto attirare i ricchi turisti e le aziende occidentali. Ma dopo anni di gestione in perdi-ta, l’hotel è stato chiuso nel 1963. La sala conferenze e la

piscina hanno continuato a essere usate negli anni seguenti, anche dopo l’indipendenza dal Portogallo nel 1975. Durante la guerra civile che ha insanguinato il paese tra il 1977 e il 1992, l’ediicio è servito come campo profughi e prigione per i detenuti politici. Poi alla ine degli anni ottanta è stato occupato da centinaia di famiglie povere, che l’hanno svuotato dei materiali di valore come i marmi e il parquet. Sono scomparse anche le inestre, le vasche da bagno e i lavandini. Oggi ci vivono tra le duemila e le 3.500 persone, sen-za acqua ed elettricità. La piscina è diventata un bacino di raccolta dell’acqua piovana per lavare i panni (foto Vu/Emblema). u

Juan Manuel Castro Prieto è nato a Madrid nel 1958. Questo reportage è stato realizzato nel 2010.

Page 69: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 69

Page 70: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

70 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Portfolio

A pagina 68-69, foto grande: il piano terra del Grande hotel di Beira. A pagina 68, foto piccola: all’esterno dell’ediicio. Qui accanto, foto grande: il gruppo di danza creato dalle donne che abitano nell’ex hotel. Sopra, dall’alto: un’ala dell’ediicio; bambini giocano a calcio; la stanza di una famiglia.

Page 71: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 71

Page 72: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

72 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Qui accanto, foto grande: la fontana usata dagli abitanti dell’ex hotel (l’unica con l’acqua potabile). Sopra, dall’alto: una donna lava i panni; la scala di servizio; bambini sulla terrazza.

Portfolio

Page 73: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 73

Page 74: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

74 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Non avevo mai fatto un appostamento, ma sa-pevo come organizzar-mi. Avevo con me un li-bro, un paio di panini e dalla radio dell’auto

ascoltavo le notizie sul traico in russo. Co-sì mi sono tenuto sveglio mentre aspettavo il matematico.

Ho sentito parlare di Grigorij Perelman per la prima volta nove anni fa, quando la notizia dei suoi successi è iltrata dalla co-munità internazionale dei matematici ino ai giornali. Sembrava che qualcuno fosse riuscito a risolvere un problema matemati-co insoluto. La congettura di Poincaré ha a che fare con le sfere tridimensionali e pre-senta vaste implicazioni per le relazioni spaziali e per la isica quantistica che posso-no servire perfino a descrivere la forma dell’universo. Per quasi un secolo la conget-tura ha impegnato i matematici più brillan-ti del mondo. Negli anni molti di loro hanno afermato di aver risolto il problema, ma regolarmente i loro studi venivano smentiti da veriiche più approfondite. Quando Pe-relman l’ha dimostrata, dopo anni di sforzi e concentrazione, la congettura di Poincaré l’aveva turbato così profondamente che sembrava averlo annientato.

Perelman, che oggi ha 46 anni, è un uo-mo particolare. Quando ha portato a termi-ne la sua dimostrazione, non ha pubblicato i risultati in una rivista specialistica sotto-ponendola alla peer review, come vorrebbe il protocollo, e non ha neanche mostrato le

sue conclusioni ai matematici che conosce-va in Russia, in Europa e negli Stati Uniti. Si è limitato a pubblicare in rete la dimostra-zione in tre parti e a inviarne una sintesi via e-mail ad alcuni colleghi che non sentiva da quasi dieci anni.

Nel 2006 Perelman è stato il primo e i-nora unico studioso a riiutare la medaglia Fields, il più alto riconoscimento della ma-tematica (una disciplina per cui non viene assegnato il premio Nobel). Inoltre, ha de-clinato l’invito a insegnare a Princeton, a Berkeley e alla Columbia university. Nel 2010, quando il Clay mathematics institute di Cambridge, nel Massachusetts, gli ha as-segnato un premio di un milione di dollari per aver dimostrato la congettura di Poin-caré, Perelman l’ha respinto. Disoccupato da sette anni, il matematico abita con la madre in un ex appartamento comunitario a San Pietroburgo, dove vivono con la pen-sione di 160 dollari al mese della donna. “Ho tutto quel che mi serve”, ha detto Pe-relman ai suoi colleghi preoccupati, con i quali ha interrotto tutti i rapporti tranne che per qualche veloce telefonata.

Perelman ha concesso l’ultima intervi-sta sei anni fa. Da allora la stampa naziona-le e internazionale l’ha costretto a una vita da recluso. Ha respinto sdegnosamente tut-te le proposte dei mezzi d’informazione, borbottando qualche parola afrettata da dietro la porta del suo appartamento asse-diato da una calca di giornalisti. “Non vo-glio essere messo in mostra come una be-stia allo zoo”, ha detto a un reporter. “La mia attività e la mia persona non sono inte-ressate alla società”.

Per la società russa Perelman era diven-tato un misantropo pazzoide, ma io lo am-miravo per aver riiutato le promesse del mondo moderno, per la sua dedizione al lavoro e per i risultati che aveva ottenuto. La sua volontà era libera e le sue conclusioni pure, e in questo consisteva la sua gloria. Così, senza nutrire molte speranze, ho pre-notato un volo per San Pietroburgo.

Passato diicileEra primavera. San Pietroburgo si prepara-va alla parata per il giorno della vittoria. I canali del centro erano iancheggiati da car-ri armati, le strade decorate da stendardi. A Kupčino, l’ultima fermata della linea blu della metropolitana, lontano dai palazzi che conferiscono agli abitanti di questa città la loro iera compostezza, sembrava un giorno qualunque. I tram bianchi e rossi correvano lungo le corsie erbose nel centro dei viali. Le persone passeggiavano nei cortili che collegano una casa popolare fatiscente all’altra. Il primo ministro russo Dmitrij Medvedev ha trascorso qui la sua infanzia. Questo quartiere è così lontano dalla fama e dalle istituzioni da essere un rifugio per-fetto per chiunque voglia sfuggire alla noto-rietà.

Come prima cosa, ho pensato di aittare un appartamento afacciato sull’entrata del palazzo del matematico. Un agente immo-biliare mi ha mostrato tutta la zona. “In

◆ 13 giugno 1966 Nasce a San Pietroburgo.◆ 1976 Si iscrive all’istituto di matematica di Sergej Rukšin. Poi frequenta il liceo di matematica e isica N° 239 di Leningrado.◆ 1982 Vince una medaglia d’oro alle Olimpiadi internazionali di matematica di Budapest.◆ Anni novanta Dopo la laurea all’Istituto di matematica Steklov di San Pietroburgo, si trasferisce negli Stati Uniti.◆ 2003 Riesce a dimostrare la congettura di Poincaré. ◆ 2006 Riiuta la medaglia Fields, il più importante riconoscimento nel campo della matematica.◆ 2010 Riiuta un milione di dollari del premio del Clay mathematics institute.

Biograia

Ritratti

Grigorij PerelmanGenio riluttanteÈ uno dei più brillanti matematici della storia, ma ha riiutato la celebrità per vivere con la madre in un’umile casa di San Pietroburgo. Dove un giornalista è riuscito a scovarlo

Brett Forrest, Playboy, Stati Uniti. Illustrazione di Ale&Ale

Page 75: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 75

questo quartiere non abita un famoso scien-ziato?”, gli ho chiesto.

“Vive da qualche parte in questa stra-da”, mi ha risposto l’agente.

“L’ha mai visto?”.“Se l’ho visto? Certo che sì, come ho vi-

sto Putin: in tv”. Poi mi ha portato a vedere una topaia dopo l’altra. Il passo successivo è stato aittare un’auto, una Hyundai, l’unico modello disponibile all’agenzia di autono-leggio in centro. Ho parcheggiato davanti a casa di Perelman. Alto una decina di piani e fatto di semplici pannelli di cemento in ano-nimo stile brežneviano, lo stabile occupava metà isolato. Davanti alla porta in acciaio marrone che dava sulla scala dell’apparta-mento di Perelman, un gruppo di persone fumava passandosi una birra. In giro c’era-no soprattutto anziani appoggiati a esili ba-stoni di legno e adolescenti che passavano la giornata sfrecciando da un chiosco all’al-tro. Un barbone dai capelli biondi e luridi rovistava nella spazzatura.

Per quanto trasandate potessero sem-brare le persone del quartiere, Perelman superava tutti. Da giovane era un bell’uomo con i tratti delicati e i capelli scuri. Ma nelle foto più recenti, scattate con un telefono

cellulare in una vettura della metropolitana e poi difuse in rete, il suo aspetto era cam-biato. I suoi vestiti erano sporchi e sgualciti, la barba lunga e ispida. In testa un cespuglio di capelli arruffati. Guardandosi intorno sotto le folte sopracciglia, si mangiava le unghie e aveva l’aria turbata. Come avrebbe reagito quando lo avrei avvicinato?

Sergej Rukšin è il migliore amico di Pe-relman. Quando l’ho incontrato, nel suo uicio in una scuola superiore di San Pie-troburgo, si è lanciato in quattro ore di rac-conto interminabile su Perelman, come un rubinetto arrugginito che viene aperto dopo anni. Mi ha spiegato che è stato lui, all’epo-ca insegnante in un circolo di matematici di Leningrado, a riconoscere il talento di Pe-relman nel 1976. È stato lui, insieme ad altri sostenitori dell’accademia, ad aiutare Pe-relman a farsi strada nonostante le politiche antisemite sovietiche che avevano rischiato di impedire a quel giovane genio ebreo di procurarsi un’istruzione adeguata al suo ingegno. Ed è sempre lui a dolersi oggi delle condizioni del suo allievo preferito: “È bloc-cato”.

Il secondo giorno del mio appostamento un camion ha accostato e ha parcheggiato

di fronte a me, ostruendomi la vista sull’in-gresso dell’ala dell’ediicio in cui abita Pe-relman. Quando ho aperto la portiera della mia auto, dei tizi con la faccia decorata da ferite fresche mi sono passati davanti con una bottiglia mentre si aggiravano in cerca di qualcosa da fare. Sono rimasto al mio po-sto, mangiucchiando patatine e tenendo d’occhio i due lati del camion, dove riuscivo comunque a vedere le persone che passava-no. Davanti alla macchina si è materializza-to un uomo con un cappotto nero pece. Agi-tava le mani come un pazzo e gridava: “No, no”, poi se n’è andato. Non sono riuscito a capire che cosa volesse dire, ma era eviden-te che la gente del posto cominciava a no-tarmi. Le possibilità di essere aggredito aumentavano di ora in ora.

Non potevo fare altro che aspettare, così mi sono messo a rilettere sull’evoluzione di Perelman. Rukšin mi ha detto che da ra-gazzo Perelman interagiva con altri studen-ti, che non era un asociale. Oltre alla mate-matica, gli piacevano il ping pong e la lirica. Secondo Rukšin e altri che lo conoscono in dall’adolescenza, Perelman è eterosessua-le, ma Rukšin ha anche aggiunto: “Se Griša ha mai rivolto uno sguardo d’amore a qual-

Page 76: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

76 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Ritratti

sembra di capire che lei non si occupa più di matematica”, gli ho detto. “Può dirmi a che cosa sta lavorando?”.

“Ho abbandonato la matematica”, ha risposto. “E non ho nessuna intenzione di dirle che cosa faccio ora”. Avevo già un’altra domanda pronta, ma anche lui ne aveva una. “Davvero non è russo?”, mi ha doman-dato. “Lei parla come uno nato in Russia, che ha abbandonato il paese a otto o nove anni ed è tornato da adulto. È questo il suo accento”. Ci siamo diretti verso l’arcata che sormontava la sua porta di casa. Ho provato a fargli un’altra domanda seria. “Conside-rate le sue capacità e la sua giovane età, pensa che potrebbe mai riprendere a occu-parsi di scienza?”. Perelman ha sbufato. Dopo un breve silenzio, sua madre mi ha chiesto se avessi una microspia nascosta addosso. Ero deciso a prolungare il più pos-sibile il nostro colloquio. Cercando di trova-re un punto d’incontro, ho parlato delle analogie tra la scrittura e la matematica, mettendo l’accento sulla solitudine impo-sta da entrambe le discipline. Gli ho rivolto uno sguardo aperto e cordiale. Lui ha di nuovo guardato il cielo, inespressivo.

Abbiamo raggiunto l’arcata e ci siamo fermati. Perelman e sua madre mi hanno issato, chiedendosi come sarebbe andata a inire. Io ho guardato il matematico e ho do-mandato: “Come va il ping pong?”.

“Non ci gioco da tempo”, ha risposto. Poi ha messo un braccio sulla spalla della madre. Si stava agitando. Avevamo cammi-nato e parlato per venti minuti. Cosa avevo capito? Perelman aveva toccato le mie cor-de emotive, ma non ero venuto a capo del mistero. Avevo tempo per un’ultima do-manda. Gliel’ho fatta in inglese: “Come continuerà la sua vita da qui in poi?”.

Perelman mi si è avvicinato. Ho notato che uno dei suoi denti superiori era marro-ne scuro, marcio. “Come?”, ha detto: il suo inglese era un po’ zoppicante. Perelman ha fatto un’espressione concentrata mentre ripetevo la domanda, e ho quasi pensato che avrebbe risposto. Ma quando ho inito di parlare aveva di nuovo lo sguardo assen-te. Aveva capito quel che volevo sapere: la direzione di quella strana vita. Ha borbotta-to: “Non lo so”. Ci siamo salutati. Attraver-so il parabrezza dell’auto a noleggio ho os-servato Perelman e sua madre che attraver-savano il portone e i barboni, i ragazzini e le neomamme di Kupčino che si occupavano delle loro faccende quotidiane. Perelman e la madre sono scomparsi tra le ombre dell’atrio. La porta di metallo si è richiusa alle loro spalle. Perelman era uscito e rien-trato: aveva preso una boccata d’aria. u fp

cosa, è stato alla lavagna”. Perelman aveva conseguito da poco il dottorato quando l’Unione Sovietica è crollata. Allora si è tra-sferito negli Stati Uniti, dove ha svolto ricer-che alla New York university, a Berkeley e all’Università statale di New York a Stony Brook. Si muoveva sulle sue gambe e inte-ragiva con altri matematici. Era un uomo attivo. In quel periodo aveva già cominciato a lavorare alla congettura di Poincaré, un teorema esposto nel 1904 da Henri Poin-caré, un eclettico scienziato francese che aveva contribuito a fondare la disciplina della topologia, lo studio matematico della forma astratta. Dato che ino ad allora c’era-no state molte dimostrazioni errate del pro-blema, Perelman non parlava con nessuno del suo lavoro per evitare che qualcuno ten-tasse di scoraggiarlo o di confondergli le idee. “Griša si è imposto limiti su tutto”, mi dice Nikolaj Mnyov, amico ed ex collega del matematico russo.

Il pedinamentoIl pomeriggio del terzo giorno il barbone è venuto a elemosinare qualche rublo attra-verso il inestrino della mia auto. Neanche da così vicino riuscivo a capire se fosse un uomo o una donna. L’ho guardato mentre si allontanava con qualche moneta in più, poi ho puntato di nuovo lo sguardo sul portone di Perelman e dopo un po’ mi sono accorto di essere rimasto senza iato. “Eccolo lì!”. Era proprio lui, Perelman. La barba, i capel-li, l’espressione incerta mentre incespicava alla luce del sole con accanto sua madre. Trascinando i piedi, si è diretto verso i bido-ni dell’immondizia come se dovesse co-minciare a frugarci dentro. Portava una giacca nera, una camicia nera e un paio di pantaloni neri. Sua madre indossava un cappotto rosso e un basco bianco. Hanno imboccato il viottolo che conduce al cortile alle spalle dell’ediicio. Sono uscito dalla macchina e li ho seguiti.

Il cortile era grande come un intero iso-lato, con alberi, parcheggi e parchi giochi. Perelman e sua madre si trascinavano attra-verso un prato. Ho deciso di afrontarlo fac-cia a faccia invece di coglierlo alle spalle: dovevo prendere ogni precauzione per evi-tare di innervosirlo. Anche se sapevo che conosce piuttosto bene l’inglese, ho pensa-to che fosse meglio rivolgermi a lui in russo, per metterlo a suo agio. Ho costeggiato i margini del cortile sperando di incontrarlo all’estremità opposta. Sono passato di corsa accanto a un cumulo di spazzatura e ho ag-girato il recinto di un campo da tennis ab-bandonato. Ho fatto il giro intorno a una piccola scuola e quando sono arrivato

dall’altra parte del prato Perelman e sua madre non c’erano più. Li avevo persi. Ho cercato freneticamente in tutto il cortile. Li ho ritrovati accanto a una ila di macchine parcheggiate. Ma quando ho fatto un altro giro per andargli incontro, li ho persi di nuo-vo. Quando li ho individuati, stavano per-correndo la strada al contrario. Non potevo permettermi il lusso di scegliere da che par-te inseguirli: avrei dovuto avvicinarli da dietro. Ho accelerato il passo. Ero a una ventina di metri da Perelman e la distanza si stava riducendo. Ma non sapevo ancora che cosa dirgli.

Alla ine mi sono ritrovato accanto a lui e non avevo più tempo per rilettere. “Gri-gorij Jakovlevič?”, ho detto usando il patro-nimico secondo il costume russo. “È lei?”. Perelman ha girato piano la testa verso di me: mi ha guardato di sbieco senza dire una parola. “Mi scusi, per favore”, ho continua-to. “Non voglio infastidirla, ma sono venuto dagli Stati Uniti per parlare con lei”.

Da vicino Perelman era alto poco meno di un metro e ottanta ed era più magro di quanto immaginassi. Sembrava meno mi-naccioso che in fotograia. Era evidente che non curava il suo aspetto isico. Le spalline della giacca erano coperte di forfora e i ve-stiti erano pieni di macchie. Perelman ha parlato con una voce acuta simile al verso di un uccello. Sapeva bene cosa dire. “Lei è un giornalista?”, mi ha chiesto. La madre mi ha scrutato da dietro la sua spalla, poi si è ri-tratta. Io ho annuito. Perelman ha alzato lo sguardo con un sospiro alitto. Abbiamo fatto qualche passo insieme.

“Di quale giornale?”. Gli ho risposto. Lui ha annuito riconoscendo il nome, ma ha aggiunto: “Non concedo interviste”.

“Lo so”, ho replicato. “Va bene”. Perel-man e sua madre si sono fermati. Mi hanno guardato dall’alto in basso, come se quel che avevo detto li avesse confusi. Non sape-vo come sarebbe andata, ma almeno Perel-man non era scappato. Ho fatto un gran sorriso. “Bel tempo oggi, no?”, ho detto. E con mia grande sorpresa, sia il tremendo eremita sia la sua ansiosa madre sono scop-piati a ridere. Ce l’avevo fatta.

“Le dispiace se la accompagno per un po’?”, ho domandato. Perelman ha alzato le spalle e abbiamo ripreso a camminare. “Mi

Oltre alla matematica, da ragazzo gli piacevano il ping pong e la lirica

Page 77: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

per info e abbonamenti

[email protected]

tel. 199.111.999

dal lunedì al venerdì

ore 8.30 - 18.30

per gli abbonamenti

dall’estero

tel. 030.3198.354

fax attivo 24 ore su 24:

030.31.98.202

Per usufruire di questa

offerta si prega di citare

il codice 723 1105871701

www.eastonline.it

1 anno di east (6 numeri)direttamente a casa tua a soli35 euro anziché 54 euro

1 anno di east in PDF a soli 12 euro

2 anni di east (12 numeri)direttamente a casa tua a soli 50 euro anziché 108 euro

in libreria

e in

edicola

Page 78: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

78 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Viaggi

modo definitivo il paesaggio; assicurare l’autonomia energetica del territorio entro il 2020; ridurre a un quarto i consumi ener-getici di ogni abitante; avere il 100 per cen-to di riiuti organici trattati attraverso com-post entro il 2014; fare in modo che entro il 2015 il 50 per cento degli agricoltori sia in possesso della certiicazione biologica).

Un obiettivo non diicilissimo da rag-giungere, visto che questa zona è isolata naturalmente dai monti del Vercors e inol-tre non ha un’alta densità abitativa. Qui l’ecologia fa già parte integrante del pae-saggio. Il sole alimenta i pannelli fotovoltai-ci; le colture biologiche occupano il 15 per cento della superficie agricola utile (una percentuale cinque volte superiore a quella della media nazionale). L’aria è poco inqui-nata, essendo quella delle montagne. L’ac-qua del iume Drôme è l’orgoglio delle au-torità locali, che afermano (talvolta in mo-do un po’ afrettato) che è “la più pulita di Francia”. Nel 2005 le sue acque hanno rice-vuto il River prize, un riconoscimento inter-nazionale che ogni anno premia i progetti di recupero dei corsi d’acqua. Da tempo la regione attira un turismo amante della na-tura, che durante le calde giornate estive può trovare sollievo nelle acque trasparenti del iume.

Spirito di resistenzaInoltre, in questa parte della regione gli abi-tanti amano fare le cose in modo diverso e distinguersi dal resto del paese. Grazie an-che al fatto di essere circondata dai monti, la zona è caratterizzata da uno spirito di re-sistenza e solidarietà. Rifugio dei repubbli-cani spagnoli durante la guerra civile, e dei partigiani durante la seconda guerra mon-diale sul vicino altopiano del Vercors, la valle della Drôme e il Diois sono dei territo-ri ribelli, orgogliosi della loro autonomia. “Da molti anni qui ci sono iniziative per quanto riguarda il settore dell’ecoedilizia, dell’economia solidale, della iliera corta, delle energie rinnovabili e dell’agricoltura

Il passaggio verso un ambiente ecologicamente sostenibile è già avvenuto. Lo si può avvertire nell’aria quando si arriva nei pres-si del fiume, la Drôme. Questo passaggio ha un nome che suona

come un’etichetta: la Biovallée. Tra Loriol-sur-Drôme e Die, dove s’innalza il massic-cio del Vercors, gli abitanti e le autorità lo-cali cercano di creare il primo laboratorio a grandezza naturale per una società più so-stenibile.

La Biovallée è nata nel 2005 da un’idea di Didier Jouve, all’epoca vicepresidente della regione Rodano-Alpi, incaricato dello sviluppo del territorio. “Ho cercato d’im-maginare quale fosse il progetto adatto per ogni zona della regione”, spiega Jouve. Po-co dopo sono nate diverse iniziative: la città del design di Saint-Etienne, il sito di Roval-tain sull’ecotossicologia, vicino a Valence, la grotta di Chauvet nell’Ardèche. E inine la Biovallée: un territorio di 2.200 chilome-tri quadrati che ospita 102 comuni, per un totale di appena 54mila abitanti, e che rac-chiude come in uno scrigno un centinaio di chilometri della Drôme.

“L’intenzione”, racconta Didier Jouve, “era quella di creare una sorta di versione rurale di Friburgo, in Bresgovia (la città te-desca ha alcuni quartieri ecosostenibili, come quello di Vauban). Volevamo applica-re i princìpi dello sviluppo sostenibile su un territorio vasto. Non ci saremmo acconten-tati di compiacere qualche turista o qualche rappresentante locale”. Il progetto si è dato degli obiettivi chiari: far nascere 15 eco-quartieri entro il 2015; impedire, a partire dal 2015, qualsiasi costruzione che alteri in

Benvenutinella biovalleLaure Noualhat, Libération, FranciaFoto di Eléonore Henry De Frahan

Regione Rodano-Alpi. Dall’alto, da sinistra a destra: un pascolo; la diserbatura in una coltivazione biologica tramite la trazione animale; festeggiamenti durante la distillazio-ne di piante medicali; la costruzione di una rimessa per la legna da ardere

Nella regione Rodano-Alpi, in Francia, c’è un’intera valle ecosostenibile. Fiumi dalle acque limpide, coltivazioni biologiche ed ecoquartieri

biologica”, sottolinea la consigliera regio-nale Corinne Morel-Darleux. Più del 20 per cento degli occupati lavora nell’economia sociale e solidale. Già nel 2006 più del 6 per cento degli alloggi della valle era dotato di una fonte di energia rinnovabile (rispetto alla percentuale dell’1,5 per cento nell’inte-ra regione Rodano-Alpi).

Di conseguenza è stato naturale per gli amministratori locali etichettare queste iniziative sotto un unico nome: Biovallée,

AR

Go

S (4

)

Page 79: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 79

un marchio che è stato già registrato. Per avere il diritto a usarlo, le imprese e le asso-ciazioni devono sottoscrivere uno statuto e scegliere tra 55 azioni (impegni ecologici) che valgono da uno a cinque punti in modo da raggiungere trenta punti in tre anni.

Per stimolare il progetto, la Biovallée ha un bilancio consistente, dieci milioni di eu-ro da spendere in cinque anni. Soldi che arrivano in gran parte dalla regione. In tre anni il progetto ha già sbloccato 4,5 milioni di euro. I primi investimenti sostenuti dal programma sono nati dalla terra: riabilita-zione termica del centro di vacanze Le Mar-touret a Die, sistemazione di un ecoquartie-re di 80 abitazioni a Loriol. Ma la realizza-zione più visibile è il sito ecologico di Eurre, una sorta di gigantesco campus biologico che si estende su nove ettari (con sala con-

◆ Arrivare L’aeroporto più vicino alla regione Rodano-Alpi è quello di Lione. Il prezzo di un volo dall’Italia (Easyjet, Lufthansa, Air France) per Lione parte da 85 euro a/r. Per raggiungere la Biovallée si può prendere il treno da Lione e scendere a Loriol-sur-Drôme (con un cambio a Valence). In media il viaggio dura due ore. Per consultare l’orario dei treni: intern.az/Oxexjf. Dall’Italia la Biovallée è raggiungibile in auto: si passa il traforo del Frejus e si prosegue verso Grenoble. Dal conine italiano

a Loriol-sur-Drôme ci sono circa trecento chilometri.◆ Dormire L’agriturismo La lune en bouche si trova nei pressi della cittadina di Die, nel parco naturale del Vercors, in un’antica costruzione in

pietra. Il prezzo di una doppia è di 55 euro a notte. L’agriturismo ofre la possibilità di aittare un’auto o delle biciclette a prezzi agevolati. La sera si può cenare con 16 euro (intern.az/QY2GdL).◆ Leggere Federica Brunini, Il piccolo libro verde del viaggio, Morellini 2010, 9,90 euro.◆ La prossima settimana Viaggio in Oman con lo scrittore Pico Iyer. Ci siete stati e avete suggerimenti su tarife, posti dove mangiare o dormire, libri? Scrivete a [email protected].

Informazioni pratiche

Page 80: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Viaggi

80 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

ferenze e numerose aziende ecocompatibi-li). È qui che il 28 e 29 settembre si è svolta la manifestazione “Porte aperte” della Bio-vallée.

Tra le iniziative sovvenzionate ci sono anche gli incontri “Ecologia quotidiana”, una manifestazione che da dieci anni si svolge a ine gennaio, ma anche molti studi per futuri ecoquartieri. Poi c’è il progetto dei Compagni della Terra. “Aiutiamo le persone che non hanno la terra e che hanno poca esperienza a diventare coltivatori”, spiega Thierry Mignot, uno degli animatori del programma. “Per tre anni gli diamo i terreni e il materiale, così da mettere alla prova il loro progetto e la loro determina-zione”. Circa otto ettari vicino a Eurre si apprestano ad accogliere un panettiere-contadino, un allevatore e dei coltivatori di frutta.

La Biovallée ha anche aiutato la coope-rativa Jaillance e i suoi 220 produttori di Clairette de Die, un vino frizzante legger-

mente dolce, a risparmiare energia instal-lando dei pannelli fotovoltaici sui capanno-ni dei viticoltori. Con ottomila metri qua-drati di pannelli, Jaillance produce autono-mamente il 60 per cento dell’energia che consuma. “La Biovallée ha sbloccato tren-tamila euro per sostenere il programma”, dice Vincent Lefort. Per alcune persone questi investimenti non sono all’altezza delle ambizioni dichiarate, tanto più che nella zona corre la voce che Biovallée di-sporrebbe di un budget di un miliardo di euro. “Le aziende di consulenza e gli esper-ti intascano la maggior parte dei fondi. A noi rimangono solo le briciole”, si arrabbia un imprenditore in ecoedilizia. “Si può pen-sare di non vedere granché di concreto”, spiega Corinne Morel-Darleux, “perché la Biovallée inanzia molte azioni non imme-diatamente visibili, come per esempio le consulenze per il risparmio energetico o nel campo del rinnovamento termico”.

Per rimediare a questa mancanza di co-municazione, la Biovallée ha deciso di i-nanziare una trasmissione settimanale, Biotop, nel palinsesto della radio locale. La Biovallée capitalizza il lavoro compiuto da una rete di associazioni e di imprese molto attiva in materia di ecologia. “Il nostro ruo-lo consiste anche nel censire e valorizzare

quello che già esiste, talvolta da trent’anni”, osserva Philippe Méjean, che guida le ini-ziative della Biovallée. Tra queste strutture ce ne sono alcune che esistono da molto tempo, come il centro di agroecologia di Les Amanins, l’agriturismo la Lune en bou-che, uno dei primi che dieci anni fa ha otte-nuto un riconoscimento per la sua attenzio-ne ai temi ambientali. L’agriturismo ofre abbondanti colazioni biologiche e invita a “vacanze senz’auto” ofrendo una notte di permanenza gratuita a chi si ferma almeno una settimana e arriva nella regione usando il treno.

I pionieriUno dei successi ecologici della regione è l’Herbier du Diois , un’azienda che vende piante aromatiche fondata da Ton Vink, un olandese arrivato negli anni ottanta a colti-vare la lavanda e ad allevare capre. Trent’anni più tardi il vivaio è stato eredita-to dal iglio Tijlbert: oggi vende quasi mille tonnellate di piante fornite da trecento pro-duttori locali, per un fatturato annuo di 4,7 milioni di euro.

La fabbrica di Chatillon-en-Diois tra-sforma, confeziona e conserva tonnellate di melissa, menta piperita, citronella, gra-migna e biancospino, al riparo di una tettoia di duemila metri quadrati coperta da pan-nelli fotovoltaici. Qui l’ecologia non è una strategia di marketing, è una ilosoia: le piante sono coltivate biologicamente, i di-pendenti hanno una settimana lavorativa di quattro giorni e chi viene in bicicletta, a piedi o con l’auto elettrica più di venti volte al mese ha un premio di cento euro. Per Ti-jlbert la Biovallée è un’iniziativa molto uti-le: “Senza i pionieri non ci sarebbe la Bio-vallée, e senza questo tipo di iniziative sa-rebbe difficile rendere accessibile a tutti l’agricoltura biologica. Questa è una delle poche regioni in Francia dove si trovano an-cora politici, produttori e imprenditori che rispettano l’ambiente. Valorizzare questi elementi rappresenta un vantaggio per tut-ti”.

“Siamo noi che dobbiamo organizzarci per fare la Biovallée”, osserva Yann Louvel, della rete internazionale di organizzazioni non governative BankTrack. Yann preferi-sce l’azione alla polemica: “Questo posto può diventare un territorio esemplare, ma le nostre due debolezze principali sono i trasporti e l’energia. Qui non puoi vivere senz’auto e molti ediici sono dei veri e pro-pri relitti energetici. Per questo sarebbe im-portante che i cittadini e i politici locali an-dassero nella stessa direzione. Il tempo stringe”. u adr

Qui l’ecologia non è una strategia di marketing, è una ilosoia

A tavola

u Il panorama culinario di Lione, capoluogo della regione Rodano-Al-pi e capitale indiscussa della gastro-nomia francese, è dominato da de-cenni da un ristretto gruppo di mo-stri sacri, da Paul Bocuse a Pierre Orsi ino a Jean-Paul Lacombe. Ep-pure, scrive Le Monde, “nonostan-te il rispetto dovuto a questi colossi della cucina lionese, una giovane generazione di cuochi stellati, tutti tra i 35 e i 45 anni, sta cercando di imporsi sulle tavole della città e del-la regione”. Tra di loro, spiega il quotidiano, ci sono Christian Tête-doie, Nicolas Le Bec, Philippe Gau-vreau e Mathieu Viannay. “Invece di farsi concorrenza a oltranza, per promuovere le loro ragioni questi nuovi chef puntano sullo spirito di gruppo e sul cameratismo, seguen-do l’esempio di Thomas Ponson, 36 anni, che nel suo Restaurant Tho-mas propone una cucina del sud ul-trarainata (agnello alla tapenade e carcioi alla barigoule). Intorno al suo locale, Ponson ha dato vita all’associazione Les Gueules de Lyon. L’obiettivo del gruppo è scam-biarsi idee sulla professione, costru-ire una rete di contatti e passare qualche momento piacevole intorno a un corroborante banchetto”. Co-me succede in occasione della sida tra cuochi del Combat des chefs, or-ganizzata una volta al mese.

Tra i cuochi più innovativi di questa nuova ondata c’è Gauvreau, del ristorante dell’albergo Pavillon de la Rotonde a Charbonnières-les-Bains, che ha due stelle Michelin. “Alla cucina lionese di una volta, con le sue salse, le sue preparazioni e il suo cerimoniale”, spiega Gau-vreau a Le Monde, “la nostra gene-razione preferisce un approccio più leggero, aperto e curioso verso l’esterno, accompagnato da una scelta dei vini più audace. Ma que-sta non è afatto una dichiarazione di guerra ai nostri gloriosi predeces-sori”.

La sidadei giovani

Page 81: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)
Page 82: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

82 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Graphic journalism Cartoline da Angola

Page 83: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Claire Eisenzopf è nata nel 1976. Autrice di fumetti e illustratrice, vive nella regione parigina. Ha realizzato diversi reportage disegnati e sta per pubblicare in Francia un poliziesco a fumetti per le edizioni Crimês et Châtiments.

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 83

Page 84: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

84 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Cultura

Libri

N el quartiere Malasaña di Madrid, dove negli anni set-tanta è nata la movida, c’è un bar che si chiama Los Diablos Azules. Due sere a

settimana, nella sala in fondo, un tipo biz-zarro vestito da motociclista, con bandana annodata in testa, pizzetto, tatuaggi sulle braccia e occhiali piccoli dalla montatura in acciaio, recita con voce rauca da fumatore incallito delle poesie dall’andamento on-deggiante, simili a un assolo di sax. La loro musicalità fa venire la pelle d’oca. Non c’è niente di più seducente di una canaglia ro-

mantica, un ragazzo con l’aria del maledet-to, anche se poi non è un vero cattivo. Carlos Salem lo sa, e ci gioca.

In un’altra vita, è stato il direttore di due quotidiani (El Faro a Ceuta ed El Telegrama a Melilla). Poi è inita: da cinque anni, que-sto gigante cinquantenne scrive polizieschi in cui dosa la loquacità latina e la malinco-nia cruda del noir. Perché? “Non ci si butta nel noir per caso o per mancanza di altro da fare”, risponde. “Diciamo che è a causa dell’accecamento che ci impedisce di vede-re che tutto sta crollando”.

Sull’orlo dell’abissoIn Spagna la disoccupazione colpisce il 24,4 per cento della popolazione attiva e rag-giunge il 50,5 per cento delle persone tra i 16 e i 24 anni. In quattro anni di crisi il debito pubblico è raddoppiato, raggiungendo ora il 72 per cento del pil e il paese è stato ricove-

rato d’urgenza per il male che ha colpito anche Islanda, Irlanda, Italia, Portogallo e Grecia.

Ora i giochi sono initi: la movida ha i po-stumi della sbornia. Gli “indignati” scen-dono in strada e le banche, strangolate dalle cattive abitudini, chiedono aiuto per evitare il fallimento. I risparmiatori hanno il mora-le a pezzi e la iducia nel futuro è ai minimi storici. L’elezione di una maggioranza con-servatrice a marzo non ha cambiato nulla. La recessione imperversa. A Madrid si è dif-fusa una nuova parola: nimileurista, uno che guadagna meno di mille euro al mese.

Come raccontare questa crisi? Come accarezzare la storia contropelo nel tentati-vo di capire dove batte il cuore del mondo? La risposta di Carlos Salem è semplice: con l’umorismo. “Questa assurdità quotidiana, questa ‘ordinaria follia’ dev’essere maneg-giata con ironia. È il solo modo per evitare la pesantezza e la ilosoia da quattro soldi. Detesto i libri con una morale esplicita, quelli che cercano di pensare al posto no-stro”. In un libro di qualche anno fa, Pero si-go siendo el rey, Salem racconta l’indagine surreale di un detective privato ingaggiato per riportare a Madrid il re Juan Carlos, fug-gito lungo la costa alla ricerca del suo io adolescente. Nella storia s’incontrano per-sonaggi fuori dal comune, come dei giap-ponesi peronisti che si alleano con i conta-dini spagnoli per destituire la monarchia. Il detective e il re, per sfuggire ai maiosi che

Lo spagnolo Carlos Salem, ex giornalista, poeta e giallista, sopravvive alla crisi grazie ai libri, all’umorismo e al sesso

Ridere in faccia all’apocalisseYann Plougastel, Le Monde, Francia

PIC

TO

GR

AP

HIS

TE

S L

ES/

OPA

LE

/LU

ZP

HO

TO

Carlos Salem

Page 85: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 85

vogliono eliminarli, attraversano la Spagna travestiti da hippy. Dopo aver letto questo caustico gioiello, si ha l’impressione di aver attraversato un pae se sull’orlo di una crisi di nervi, ma ancora venato di una fantasia sfrenata capace di alleviare la sua malinco-nia profonda.

Della letteratura poliziesca spagnola si conosce soprattutto Manuel Vázquez Mon-talbán e il suo detective privato barcellone-ta, Pepe Carvalho, “ex polziotto, ex marxi-sta e gourmet”. Cronista lucido e acido della Spagna postfranchista, Carvalho si situa nella tradizione statunitense inaugu-rata da Raymond Chandler, del detective che attraverso i crimini osserva le fratture e le disfunzioni della società.

Modello Chandler

Dopo aver letto Il lungo addio di Chandler, Carlos Salem ha deciso di lanciarsi a sua volta nel romanzo noir. Poi ha scoperto An-drea Camilleri e il messicano Paco Ignacio Taibo II. Queste inluenze variegate lo por-tano in una dimensione di conine, quasi lirica. Di origini argentine come il suo mae-stro Jorge Luis Borges, adora i giochi di specchi, le impressioni ingannevoli e si di-verte a creare storie nelle storie.

Il suo eroe, l’ex ispettore José María Ar-regui, soprannominato Txema, diventato investigatore privato, ha un rituale che lo aiuta a mettere le idee in ordine: va a vedere un ilm porno nelle cabine dei sexy shop.

“Ne esce pensoso, come se davanti allo schermo su cui scorrono amplessi mediocri trovasse la stessa concentrazione che Sher-lock Holmes raggiunge con il violino e la cocaina. È un eccentrico”, sorride Salem.

Questo vecchio militante trotzkista che ha lasciato Buenos Aires negli anni ottanta scoraggiato dalla situazione politica argen-tina, ha partecipato a due manifestazioni degli indignados, ai quali ha dedicato poesie e testi. Ma non si fa illusioni: scendere in strada è una cosa, ma scegliere di non vota-re per manifestare la propria siducia verso i partiti è un’altra. “In termini politici, il trotzkista un po’ anarchico che sono rima-sto conosce bene la diferenza tra un nemi-co e un avversario. Puoi stringere alleanze con un avversario, ma con il nemico c’è solo la lotta all’ultimo sangue”, aferma.

Per lui il partito socialista spagnolo non è afatto di sinistra, ma sempre meglio del governo conservatore di Mariano Rajoy che, dopo essere salito al potere, ha inan-ziato con centomila euro un istituto di ricer-che storiche, che ha riabilitato Franco, e ha abolito la pillola del giorno dopo. “Ecco le loro soluzioni alla crisi”, s’infervora.

Salem riconosce che la crisi ha inluito sul suo lavoro molto più di quanto pensasse all’inizio. Ha segnato una barriera. C’è un prima e un dopo nel suo modo di vedere la Spagna e l’Europa. “Più passa il tempo più ho l’impressione di vivere in uno dei miei romanzi. Figuratevi che il governo sta per

ofrire dei grandi appezzamenti di terreno alla periferia di Madrid a un imprenditore di Las Vegas. La scusa è quella di creare nuovi posti di lavoro, ma di fatto Madrid sa-rà trasformata nel bordello d’Europa, come La Havana prima di Castro”.

Salem però si riiuta di parlare di ine del mondo. La Spagna può sopportare una ba-tosta economica senza retrocedere al livello del terzo mondo. Da quattro anni la lettera-tura è la sua unica fonte di reddito, e Salem riesce a sopravvivere. “Se gestissi meglio i miei soldi, potrei forse vivere meglio, ma non scriverei quello che scrivo e non piace-rei alle donne a cui piaccio”, ammette. Im-possibile non parlare nei suoi romanzi della situazione economica attuale: “Ci vogliono far credere che la responsabilità della crisi sia nostra e non dei banchieri. Si cercano dei diversivi, come gli attacchi contro le battute di caccia del re in Africa o contro il giudice Garzón. Nel frattempo la disoccu-pazione cresce e la recessione dilaga”.

Per Salem scrivere è meglio del sesso. Nel suo seminterrato lavora contempora-neamente a vari libri. Uno ruota intorno alla vita di Raymond Chandler, nell’altro Arre-gui, il suo detective-feticcio, si trasforma in cacciatore di donne vampiro dopo che gli è stato cavato un occhio. Quanto a Un jamon calibre 45, appena uscito, è un libro erotico e macabro. Come se, oltre all’umorismo, il sesso fosse l’ultimo baluardo per difendersi dalla congiuntura negativa. u nv

Madrid

JAM

ES

RA

JoT

TE

(TH

E N

Ew

Yo

Rk

TIM

ES/

Co

NT

RA

STo

)

JUA

N M

AN

UE

L C

AST

Ro

PR

IET

o (V

U/E

MB

LE

MA

)

Page 86: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

86 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Cultura

CinemaItalieni I ilm italiani visti da un corrispondente straniero. Questa settimana la giornali-sta israeliana Sivan Kotler.

Tutti i santi giorniDi Paolo Virzì. Italia 2012, 102’

●●●●● Una storia d’amore, lontana dai soliti cliché, grazie alla consueta eccellente regia di Paolo Virzì, si trasforma in una sana parabola su una gio-vane coppia circondata da una generazione abituata a consi-derarsi difettosa e comunque priva di iducia in se stessa. La fecondazione assistita trattata e ritrattata nel cinema italia-no, ma di rado con la dovuta intelligenza emotiva, è solo il pretesto per raccontare due vite, vissute come una sola, desideri e sogni che un giorno potranno o potrebbero diven-tare qualcosa di più di una semplice ipotesi. L’attesa di un iglio che non arriva insie-me ad altri sogni sempre più diicili da raggiungere diven-tano terreno fertile per dolori, fallimenti e accuse personali afrontati tra sorrisi e lacrime, sempre accompagnati dai riti e dai santi. Un santo al giorno, ogni giorno, tutti i santi giorni. Sono piccoli riti di piccoli eroi e antieroi, recitati divinamen-te da due attori esordienti o quasi, che riescono a infonde-re un entusiasmo contagioso, spesso dimenticato dal recen-te malcontento lamentoso da cui sembra essere alitta la nostra società. Un Virzì più in-timo che mai e allo stesso tempo capace di raccontarci un’Italia intera. Più sana di quanto sembri, più pulita, a tratti eroica e composta da una generazione di giovani che non hanno smesso di cre-dere nell’amore e nella vita che verrà.

La nave dolce di Daniele Vi-cari (in uscita l’8 novembre) racconta lo sbarco di venti-mila albanesi nel porto di Bari. Un episodio che molti hanno dimenticato Come ha già dimostrato in Diaz, il regista italiano Danie-le Vicari non è tra quelli che hanno bisogno di romanzare eventi già di per sé sensazio-nali. E infatti nel suo nuovo documentario, La nave dolce, l’unico commento alle incredi-bili immagini sono le parole dei testimoni.

Nell’agosto del 1991 la nave albanese Vlora raggiunge il porto di Bari con a bordo ven-

timila profughi albanesi, in fu-ga da un paese isolato e dispe-rato. Sulla nave stracolma li ha spinti il sogno di una vita mi-gliore, in occidente, alimenta-to tra l’altro dalla tv italiana, che in Albania si vede perfet-tamente. Ma ad attenderli sul-le spiagge italiane non c’è ric-

chezza e benessere. Le autori-tà, prese alla sprovvista da questa paciica invasione, chiudono gli albanesi nello stadio, che con il caldo estivo si trasforma in un’arena roven-te. Il cuore del documentario è materiale dell’epoca (in alcuni casi inedito) che, nonostante i segni del tempo, rimane scon-volgente. Sapientemente montato e accompagnato dal-le interviste ad alcuni testimo-ni, questo toccante documen-tario ricostruisce con precisio-ne un avvenimento dimentica-to da molti e suggerisce, senza alcuna forzatura, un parallelo tra passato e presente.Jay Weissberger, Variety

Visti dagli altri

Un carico ingombrante

La nave dolce

Media

Dieci ilm nelle sale italiane giudicati dai critici di tutto il mondo

Massa critica

LE

FIG

AR

O

Francia

TH

E G

UA

RD

IAN

Gran B

retagna

LIB

ÉR

AT

ION

Francia

LE

MO

ND

E

FranciaT

HE

WA

SHIN

GT

ON

PO

ST

Stati

Unit

i

TH

E D

AILY

TE

LE

GR

AP

H

Gran B

retagna

GL

OB

E A

ND

MA

IL

Canada

TH

E IN

DE

PE

ND

EN

T

Gran B

retagna

LO

S AN

GE

LE

S TIM

ES

Stati

Unit

i

TH

E N

EW

YO

RK

TIM

ES

Stati

Unit

i

Legenda: ●●●●● Pessimo ●●●●● Mediocre ●●●●● Discreto ●●●●● Buono ●●●●● Ottimo

L’era gLaciaLe 4 1111111111 - - 11111 - - 11111 11111 11111 11111

canDiDato a… 11111- - 11111 - - 11111 11111 11111 11111-

iL matrimonio… 1111111111 - 11111 11111 11111 - 11111 11111 11111 11111

11111magic miKe 1111111111 - 11111 11111 - 11111 - 11111 11111

teD 1111111111 - 11111 11111 11111 - 11111 - 11111 11111

KiLLer Joe 1111111111 11111 11111 11111 11111 11111 11111 11111 11111 11111

on the roaD 11111 - - 11111 11111 11111 - - 11111 - 11111

totaL recaLL 1111111111 11111 11111 11111 11111 - 11111 11111 11111 11111

taKen. La VenDetta 1111111111 - 11111 11111 11111 - 11111 11111 11111 11111

prometheUS 1111111111 - 11111 11111 11111 11111 11111 11111 11111 11111

Page 87: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 87

In uscita

Cogan. Killing them softlyDi Andrew Dominik. Con Brad Pitt, James Gandolini, Ray Liotta. Stati Uniti 2012, 104’●●●●● Il notevole thriller di Andrew Dominik ha il rigore e l’equili­brio dei grandi ilm polizieschi americani degli anni settanta. È un adattamento molto libero del romanzo di George V. Hig­gins Cogan, spostato da Bo­ston alla New Orleans del 2008, una città devastata dall’uragano Katrina e schiac­ciata dalla recessione. Quasi in ogni scena da una tv escono le promesse di Obama, impe­gnato nella campagna eletto­rale, anche se la storia e gli ar­gomenti del ilm sembrano smentire la sua retorica otti­mista. Brad Pitt interpreta Jac kie Cogan, un sicario paga­to per sistemare i casini di due aspiranti malviventi (Scoot McNairy e Ben Mendelsohn). Cogan adotta un metodo par­ticolare. Gli piace uccidere le persone con dolcezza, anche se raramente le cose vanno co­me lui desidera. Ad assisterlo c’è Mickey (James Gandoli­ni), un mostruoso killer di ri­serva che fa pensare a un ca­vernicolo. Dominik mette in scena l’azione in un’atmosfera di difusa sporcizia, come se l’intera nazione fosse sofoca­ta da un pulviscolo atomico, e la sua sceneggiatura è dura co­me l’acciaio, attraversata da una vena di umorismo pessi­mista, al limite del nichilismo. Il monologo inale di Brad Pitt vale il prezzo del biglietto. È solo il terzo ilm di Andrew Dominik dopo Chopper e L’as-sassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford, ma il regista dimostra la sicurezza di un consumato veterano. Robbie Collin, The Daily Telegraph

Le migliori cose del mondoDi Laís Bodanzky. Con Franci-sco Minguez, Caio Blat, Júlia Barros. Brasile 2010, 105’●●●●● Una novità: inalmente gli adolescenti hanno un buon motivo per andare al cinema. Le migliori cose del mondo di Laís Bodanzky, ispirato alla se­rie di libri Mano, di Paulo Gil­berto Dimenstein ed Heloisa Prieto, segue le vicissitudini di un gruppo di ragazzi di un li­ceo di São Paulo. Al centro di tutto c’è Hermano, detto ap­punto Mano, che insieme ai suoi coetanei è lanciato alla scoperta dell’amore e del ses­so, oltre a dover fare i conti con la separazione dei genito­ri. Il ilm colpisce nel segno coinvolgendo una fetta di pub­blico, gli adolescenti, che rara­mente è rappresentata nel ci­nema brasiliano. Naturalmen­te poggia su alcuni stereotipi, ma la forza della pellicola è proprio questa: afrontare a te­sta bassa tutti quei cliché che sono dei punti di riferimento per i ragazzi di oggi. I giovani si entusiasmeranno e gli adulti potranno accontentarsi di pro­vare un po’ di nostalgia per un’età perduta.Rafael Balsemão, Folha de São Paulo

Il matrimonio che vorreiDi David Frankel. Con Meryl Streep, Tommy Lee Jones, Steve Carell. Stati Uniti 2012, 121’●●●●● Hollywood è sempre di più

una fabbrica di ilm per ragaz­zini, ma ogni tanto si ricorda anche del resto del pubblico. Il matrimonio che vorrei è decisa­mente rivolto a un pubblico più maturo. Meryl Streep e Tom­my Lee Jones intepretano una coppia del midwest il cui ma­trimonio ha ristagnato per la maggior parte dei suoi trent’anni di durata. Jones sembra contento del suo mo­notono lavoro d’uicio e del suo videocorso di golf, ma Streep vuole di più. Perciò insi­ste per andare nel New Eng­land e partecipare a una setti­mana di terapia matrimoniale sotto la guida di Steve Carell. La presenza del comico e l’idea del viaggio fanno pensa­re a una commedia con situa­zioni demenziali in agguato. Invece è una piacevole sorpre­sa scoprire che il ilm è princi­palmente un maturo e quasi teatrale pezzo da camera, in cui per la maggior parte del tempo tre persone adulte di­scutono intorno a un tavolo le complesse dinamiche di una coppia non più giovanissima. Purtroppo il ilm non ha il co­raggio di andare ino in fondo, e proprio quando ci si avvicina alle acque più insidiose dei ve­ri problemi di chi ha ormai su­perato la mezza età, si tira in­dietro, accontentandosi di pro­cedere in modo più ammic­cante e divertente ino a giun­gere a un inale deludente ma almeno rassicurante. Nicholas Barber, The Independent

The wedding partyDi Leslye Headland. Con Kir-sten Dunst, Isla Fisher, James Marsden. Stati Uniti 2012, 87’●●●●● Alcuni meravigliosi attori sono spediti allo sbaraglio nell’adat­tamento rumoroso e incoeren­te fatto da Leslye Headland della commedia teatrale che lei stessa ha scritto su tre da­migelle d’onore (Kirsten Dunst, Lizzy Caplan e Isla Fi­sher) decise a sconvolgere le abitudini puritane della sposa (Rebel Wilson), ex compagna di scuola, con uno sfrenato ad­dio al nubilato. La grande festa prematrimoniale organizzata in un hotel di Manhattan è de­vastata dal pessimo comporta­mento del trio di amiche. Ma quando strappano involonta­riamente l’abito della sposa al­la vigilia della cerimonia, si lanciano in una disperata odis­sea in giro per la città in cerca di un rimedio. I dialoghi al femminile sono provocatoria­mente scurrili, ma è un mecca­nismo di cui molto presto si abusa. E troppo spesso gridoli­ni e gesti inconsulti sostitui­scono le battute di un cast no­tevole che il regista non è in grado di sfruttare a pieno. Richard Brody, The New Yorker

Ancora in sala

Killer JoeDi William Friedkin. Con Mat-thew McConaughey, Emile Hirsch. Stati Uniti 2011, 103’●●●●● Chiunque sia convinto che con l’età aumenti la serenità sarà preso in contropiede dal nuovo ilm di William Friedkin. Qua­rant’anni dopo Il braccio violen-to della legge e L’esorcista, sfor­na una delle sue opere più bru­tali. Anthony Lane, The New Yorker

RealityDi Matteo Garrone (Italia/Francia, 115’)

PrometheusDi Ridley Scott (Stati Uniti, 124’)

Cena tra amiciDi Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte (Francia/Belgio, 109’)

I consigli della

redazione

The wedding party

Cogan

Page 88: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

88 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Libri

Fa discutere l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura allo scrittore cinese Mo Yan In occidente chi lotta non deve fermarsi, ma in Cina se vuoi continuare a lottare devi im-parare a farlo senza combatte-re. Mo Yan fa parte dell’Asso-ciazione degli scrittori cinesi, ha copiato a mano il discorso di Mao Zedong sul ruolo dell’arte e della letteratura, e alla Fiera del libro di Franco-forte si è riiutato di partecipa-re al seminario in cui parlava-no gli scrittori dissidenti Bei Ling e Dai Qing. Ma non biso-gna criticarlo perché non si op-pone al sistema.

Non sempre la letteratura è caratterizzata politicamente. Chi critica Mo Yan perché ha servito il potere, non sta giudi-

Dalla Cina

Né guerriero né eremita

Emmanuel CarrèreLimonovAdelphi, 356 pagine, 19 euro

Con Vite che non sono la mia e Limonov, Carrère si è afermato tra i grandi scrittori di questi anni, ha trovato il suo stile e la sua misura con romanzi che, come si conviene a un’epoca di trapassi e dismisure globali, sono, più che romanzi, ibridi necessari. Testimone e comprimario, lo scrittore si assume compiti più vasti di quelli dei letterati, anche dei migliori, e fa inchiesta e storia trovando

nella realtà vicende e persone ben più forti di quelle che la sola immaginazione può reperire, storie “inimmaginabili”, da investigare e spiegare, secondo una postmodernità assai più acuta di quella degli americani e lontanissima da certo velleitarismo italiota. Ha trovato il modo di penetrare l’intimo di un’epoca folle come la nostra, dove l’umano si fa presto inumano ed è violentato dallo spettacolo, vissuto come inzione anche dalle vittime, non solo dai

carneici. Carrère ha seguito le incarnazioni di Limonov – che ha dieci anni alla morte di Stalin ed è poi barbone, teppista innamorato dei Sex Pistols, soldato, scrittore di successo, spregiudicato avventuriero tra Mosca e New York, l’Ucraina e Parigi, e oggi un leader destrorso, un “putiniano” anti-Putin – e per suo tramite narra la Russia del postcomunismo con la vitalità di un Jack London, l’ostinazione di un Truman Capote, e con il dono di una francese chiarezza. u

Il libro Gofredo Foi

Incarnazioni postcomuniste

Italieni I libri italiani letti da un corrispondente straniero. Questa settimana Frederika Randall, che scrive per The Nation.

Stefano PiedimonteNel nome dello zioGuanda, 249 pagine, 16 euro

●●●●●Anthony (con la y) è un piccolo spacciatore della camorra, mal depilato, abbrustolito dalle lampade abbronzanti, che scalpita per i suoi 15 minuti di gloria televisiva. Viene scelto dal boss Peppino il fetente per-ché abbastanza narcisista e “coglione” per partecipare al Grande fratello, dove suo com-pito sarà di mandare un mes-saggio al capoclan lo Zio, lati-tante, e da sempre appassio-nato del capostipite di tutti i reality. Se il primo romanzo di Stefano Piedimonte s’ispira ad alcuni degli stessi elementi di Reality di Matteo Garrone, l’ambizione è diversa: ridico-lizzare il crimine organizzato partendo delle debolezze umane dei camorristi. Piedi-monte conosce bene Napoli e scrive con una certa freschez-za. Come in un episodio dei Soprano, nel libro abbonda un’ironia deliziosa. Eppure, a chi non ha mai amato I Sopra-no (la sottoscritta) viene il dubbio che l’ironia sia un’arma troppo frivola per combattere o comprendere la malavita. Quando si guarda l’uomo d’onore dal suo lato umano, come si fa a evitare lo sguardo complice? Forse l’umorismo grottesco di un Kaka potrebbe misurarsi con la crudeltà della mala, ma l’ironia postmoder-na, no. Troppo fatalistica e ci-nica, ci pone, come i mortali nell’antichità, indifesi contro i poteri invisibili, capricciosi e cattivi di un Olimpo criminale.

cando i suoi meriti letterari. Il punto è se lo scrittore usa la letteratura per distogliere l’at-tenzione dai misfatti della po-litica o per descrivere e ironiz-zare in maniera velata sulla realtà di questo mondo, così da svelarla al lettore. Mo Yan non è un guerriero, ma non è

neanche un eremita. I suoi ro-manzi rilettono l’assurdità della storia e le avversità e gli stenti della vita reale.

Vale la pena di ricordare che nel 2006 ha scritto che “bisogna esaminare la politica come se fosse una patologia”. Lianghe Zaobao (Singapore)

Cultura

JAS

ON

LE

E (R

EU

TE

RS/

CO

NT

RA

STO

)

Mo Yan

Page 89: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 89

Yasmina KhadraL’equazione africanaMarsilio, 320 pagine, 19 euro●●●●●Un’Africa senza africani, que-sta è l’impressione che lascia al lettore il nuovo romanzo di Yasmina Khadra, ispirato a un fenomeno attuale che piace molto ai mezzi d’informazio-ne: i sequestri di giornalisti, turisti e operatori di organizza-zioni umanitarie da parte di gruppi armati che rivendicano la propria appartenenza a ban-de islamiste. Il racconto è scritto in prima persona, e il narratore è Hans Krausmann, medico generico a Francofor-te, ostaggio con il suo amico Kurt di un gruppo armato non identiicato. A bordo di uno yacht privato, vengono avvici-nati al largo della costa soma-la, e per loro comincia l’incu-bo. Trascinati da un campo all’altro nel deserto, imparano a sopravvivere alla brutalità dei loro carcerieri, alla fame, al freddo, alla sporcizia e alle incognite del giorno dopo. A volte, tra Hans e i sequestrato-ri nasce uno scambio d’idee sullo stato, i miti e le soferen-ze dell’Africa, come se questi criminali fossero i depositari di un’Africa autentica insozza-ta dagli occidentali. Ma c’è un’altra Africa, opposta a quel-la dei rapitori: quella di Bruno, vecchio ostaggio che ha lascia-to la Francia per intraprendere una ricerca spirituale nei de-serti africani, e che porta in sé un’Africa irreale, misteriosa e fantasmatica. L’equazione afri-cana minimizza i veri proble-mi politici dell’Africa a vantag-gio di una folle avventura.Rachid Mokhtari, Le Matin

Anthony ShadidLa casa di pietraAdd, 448 pagine, 18 euro●●●●●Il dolore della partenza, più

che la soddisfazione dell’arri-vo, corre attraverso le storie raccontate in La casa di pietra, il memoriale elegiaco e com-movente scritto da Anthony Shadid sull’anno passato a re-staurare una casa di famiglia nel Libano meridionale. Il to-no mesto del libro sarebbe commovente anche se il letto-re non sapesse che Shadid, corrispondente del New York Times in Medio Oriente, è morto a febbraio in Siria, a 43 anni. E così, un libro concepito come progetto introspettivo di guarigione personale – e come meditazione sulla politica, l’identità, l’artigianato e la bel-lezza di quella parte del mon-do – si legge oggi come un te-stamento. Shadid racconta la storia del viaggio della sua fa-miglia dal Libano in Oklaho-ma all’inizio del novecento, e nel farlo illumina le conse-guenze della caduta dell’Im-pero ottomano, gli stretti lega-mi di bayt (casa e appartenen-za) nelle famiglie arabe, l’etica del lavoro del piccolo cantiere di Shadid in Libano, l’amarez-za e il riscatto di quella società alitta. Nel libro pulsa la voce forte e aperta dell’autore. Sha-did non trova a Jedeidet tutto ciò che cercava. Ma riesce a ri-mettere in piedi la casa di fa-miglia, “in omaggio alla storia e alla memoria, in nome di un ideale, per quanto frainteso”.Steve Coll, The New York Times

Marcus MalteIl corpo di Vera NadBarbès, 366 pagine, 16 euro●●●●●Marcus Malte scrive noir pieni di poesia o poesie in forma di noir. Nel suo nuovo romanzo è di scena Mister, un grande ne-ro dalle mani grandi come ba-dili che diventano quelle di un elfo sui tasti bianchi e neri del piano, la sera, quando suona al

Juan Jacinto Muñoz RengelL’assassino ipocondriaco (Castelvecchi)

Mariusz SzczygielFatti il tuo paradiso (Nottetempo)

Josh BazellA tuo rischio e pericolo (Einaudi)

I consigli della

redazione

Chan KoonchungIl demone della prosperitàLonganesi, 300 pagine, 16,40 euro●●●●●Il demone della prosperità, pro-babilmente il libro più corag-gioso pubblicato da un autore cinese che non vive in esilio, rappresenta la Cina contem-poranea come un paradiso ar-tiiciale fatto di crescita, be-nessere materiale e governo totalitario. Come è possibile che il disastroso Partito comu-nista, fautore di una violenta repressione e ininterrotta-mente al potere dal 1949, sia ancora legittimato e abbia perino un vasto consenso?

Su questo paradosso si sca-tena la satira radicale di Chan Koonchung. Ambientata nel 2013 – il romanzo è stato pub-blicato in mandarino nel 2009 – la storia comincia con l’in-credulità di un gruppo di intel-lettuali di Pechino di fronte al-la scomparsa di un periodo di ventotto giorni trascorso due anni prima. Non si tratta di una metafora: nel futuro im-mediato raccontato dal Demo-ne della prosperità molti cinesi hanno perso la memoria di quello che è successo in quel mese, tra una nuova crisi glo-bale e una campagna di felici-tà nazionale imposta dall’alto. Nel tentativo di scoprire cosa è successo, Lao Chen, un au-tore di thriller, si mette in viaggio verso il centro della Cina dove incontra Little Xi, un dissidente politico tartas-sato dal Partito, che ricorda in troppo bene gli avveni-menti di quei giorni e di quelli precedenti, scanditi da una serie di misure repressive.

Il romanzo

Paradiso artiiciale

Il demone della prosperità si riferisce chiaramente alla can-cellazione dalla memoria ui-ciale degli eventi del giugno 1989, compreso il massacro di piazza Tiananmen. Ma que-sta, per quanto incredibile, non è iction. Lao Chen diven-ta così complice involontario del suo amico ribelle, che ra-pisce l’uiciale del Partito co-munista responsabile dell’am-nesia collettiva. Durante un lungo interrogatorio si scopre quali dosi di droga – mdma o ecstasy – sono state diluite ne-gli acquedotti, “per il bene del popolo e della nazione”.

Pietra miliare della minori-taria tradizione umanista ci-nese, Il demone della prosperità è destinato a far scoppiare po-lemiche e scandali, ma anche a segnare un vertice di eccel-lenza letteraria. È anche un appello diretto ai cinesi: che ine faranno le loro anime sot-to quello che alcuni amano chiamare il “socialismo in sal-sa cinese”? Una lettura fonda-mentale e urgente. Charles Foran, The Globe and Mail

P.K

EIg

HT

LE

Y (L

EB

rE

CH

T/C

ON

Tr

AST

O)

Chan Koonchung

Page 90: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Cultura

Libri

Alfredo Macchi, Rivolu-zioni spa, Alpine studio; a cura di osservatorio iraq.it, Cronache di una controri-voluzione, Edizioni dell’Asino A quasi due anni dalle prima-vere arabe molte domande ri-mangono ancora senza rispo-sta. Per capire se le speranze accese dai cambi di regime del 2011 siano destinate a realiz-zarsi bisognerà aspettare, ma nel frattempo disponiamo di parecchie letture per farci un’idea di cosa sia efettiva-mente successo in quell’anno. Non tutti gli autori però danno

lo stesso peso ai vari elementi in gioco. Qualcuno, come Al-fredo Macchi, ritiene che a far cadere i regimi dispotici di Tu-nisia, Egitto e Libia siano stati principalmente il progetto sta-tunitense per la creazione di un nuovo spazio di penetra-zione in Medio Oriente e l’in-teresse delle monarchie del Golfo a far trionfare l’islam moderato. Altri, come gli stu-diosi raccolti intorno al sito osservatorioiraq.it, ofrono un quadro più sfaccettato e spie-gano come all’origine delle ri-volte ci sia stato il progressivo

ampliarsi del malcontento do-vuto all’aumento della dise-guaglianza, della disoccupa-zione e dell’esclusione sociale. Quello che emerge con chia-rezza dalle diverse analisi è, da un lato, l’alto livello di cor-ruzione, violenza e malfunzio-namento raggiunto dai regimi di Ben Ali, Gheddai e Muba-rak, tutti sostenuti dall’occi-dente; dall’altro, la loro pro-fonda compenetrazione con istituzioni strategiche come l’esercito e la polizia, che oggi, in molti casi, giocano ancora un ruolo importante. u

Non iction Giuliano Milani

Dopo la primavera

Dauphin Vert, il jazz club dove si scorda di tutto, o quasi. Mi-ster è ossessionato da un ange-lo, Vera Nad, una ragazza di 26 anni venuta in Francia dai Bal-cani per dimenticare le atroci-tà subite. Da un po’ di tempo, ogni martedì e giovedì, veniva ad ascoltarlo. Si sedeva al ta-volo più vicino al palco, e lui era felice. Poi ha saputo che l’hanno bruciata viva in un de-posito abbandonato. Per la po-lizia si è trattato di un regola-mento di conti tra spacciatori, ma Mister non ci crede. Con il suo compagno Bob, professo-re di ilosoia che conosce al-meno diciassette lingue, “al-cune delle quali dimenticate da Dio stesso”, ma che preferi-sce portare a spasso la sua soli-tudine in un taxi per ascoltare all’ininito cassette di jazz, si mette a caccia dei veri colpe-voli. E poi c’è la musica. Per Malte è più che una passione, perché dice di scrivere “a orec-chio”. Prende tre parole, ascol-ta come suonano, poi continua la frase, il paragrafo, il capito-

lo. E alla ine, ecco un roman-zo che conquista il lettore. Strano tipo. Alexandra Schwartzbrod, Libération

Florent Couao-ZottiNon sta al porco dire che l’ovile è sporco66thAnd2nd, 180 pagine, 15 euro●●●●●Donne fatali quante ne volete, fasci di banconote, una buona riserva di polvere bianca, qual-che morto, un lungo insegui-mento, due o tre scene torride nei bassifondi di Cotonou, cit-tà più popolosa e capitale eco-nomica del Benin, dove il tchoukoutou (birra di mais) scorre a iumi. Nel nuovo libro di Florent Couao-Zotti sono riuniti tutti gli ingredienti clas-sici di un buon romanzo poli-ziesco. Lo scrittore del Benin mette in scena un personaggio abbattuto, che s’imbarca in un intrigo sul quale non ha alcun controllo. Come poteva essere altrimenti? Samuel Dossou

Kak po, detto SDK, è “un uo-mo perennemente squattrina-to, come ce ne sono tanti nei bassifondi, dietro i banchi o perino dietro le belle insegne di Cotonou”. Florent Couao-Zotti confessa che ha scritto il libro per un pubblico beninese ghiotto di gialli. Partendo dal-la constatazione che molti suoi compatrioti adorano l’azione e l’erotismo, Couao-Zotti si è di-vertito a giocare con molti cli-ché del genere. E così incro-ciamo nel romanzo molte donne fatali dalle forme sedu-centi, e il cattivo della storia, il libanese Smaïn, non è insensi-bile a una di queste. A leggere Couao-Zotti, e malgrado il suo umorismo befardo, Cotonou sembra essere una capitale del crimine. Tra il mercato di Dantokpa e il porto, la droga scorre a iumi e si muore per un sì o per un no. Ma, assicura lo scrittore, “la realtà a volte è ancora più cupa di come la de-scrivo”.Nicolas Michel, Jeune Afrique

Obama & co.

KA

NSA

S C

ITY

PU

BL

IC L

IBR

AR

Y/F

LIC

KR

William H. ChafeBill and Hillary Farrar, Straus & GirouxWilliam H. Chafe, professore di storia alla Duke university in North Carolina, sostiene che la storia politica di Bill e Hillary Clinton è intimamente collegata alla loro vita e alla lo-ro relazione in dai tempi dell’università.

Charles R. KeslerI am the change Broadside BooksChi è Barack Obama? Kesler, professore di politica al colle-ge Claremont McKenna in Ca-lifornia, analizza la politica di Obama e le critiche da parte dei suoi denigratori, ma anche dei suoi sostenitori.

Robert W. MerryWhere they stand Simon & SchusterMerry, giornalista e scrittore di storia e di politica statuni-tense, si diverte a dividere i presidenti del suo paese in di-verse categorie: gli uomini del destino, i quasi grandi o i pre-sidenti di guerra, eccetera.

Jefrey ToobinThe oath DoubledayUn’interessante analisi sulla contrapposizione di vedute tra il presidente Barack Obama e il giudice capo della corte su-prema degli Stati Uniti, John G. Roberts. Jefrey Toobin è un avvocato e analista legale del New Yorker.Maria Sepausalibri.blogspot.com

90 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Page 91: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 91

Ricevuti

Fumetti

Un caleidoscopio su carta

Autori vari Le pétit néantLe pétit néant, 92 pagine, 18 euroÈ nata una nuova rivista, imprevedibile, che non somiglia ad altre già viste, nemmeno a quelle di fumetti o a quelle dedicate all’illustrazione realizzate all’estero. Curatore e inanziatore dell’operazione è Miguel Angel Valdivia, giovane e bravo disegnatore e illustratore, italiano ma residente a Londra. Non è una rivista di fumetti ma d’illustrazione, e tuttavia diverse illustrazioni sono prossime agli stilemi di certo fumetto d’autore. Alcune hanno anche la sequenzialità tipica del fumetto. Soprattutto ci sono, mischiati, sia autori di fumetti che illustratori. Un continuum o lusso unico di illustrazioni spesso di una pagina sola – anche se non mancano quelle a doppia pagina e, come detto, le sequenze – quasi tutte senza

testi, che rendono questo “piccolo nulla” un abisso, un magma, di notevole densità. I 28 artisti provenienti dal mondo intero (l’Europa è l’area rappresentata meglio), spiccano per la capacità non solo di esprimere un’idea forte in una singola immagine (tipico dell’illustrazione) ma anche di ampliare la forza di quest’idea attraverso una qualità forte della tessitura del tratto e della graica (tipico del fumetto) al contrario di tanta illustrazione odierna che si accontenta di piccoli concept. Qui abbiamo delle visioni. Quelle dei britannici Charlie Duck e Thomas Dowse, del messicano Bayrol Jiménez o di Gianluigi Toccafondo. O di autori di fumetti come il francese Frédéric Coché, gli ex Canicola Giacomo Monti, Giacomo Nanni, Francesco Cattani e il belga Brecht Wandenbroucke. Questo caleidoscopio si può ordinare anche su lepetitneant.com.Francesco Boille

Livio RomanoDiario elementareFernandel, 200 pagine, 14 euro Un maestro elementare rac-conta giorno dopo giorno il suo anno scolastico. Fra tagli alla spesa e bizzarre direttive ministeriali, colleghe pittore-sche e genitori bisognosi di supporto psicologico.

Andrea BaldassarriTemperatura, energia, entropiaEdiesse, 404 pagine, 12 euro Un nuovo volume della colla-na Fondamenti conduce il let-tore alla scoperta di questa triade indissolubile di concetti della isica, risultato di almeno tre secoli di ricerche fonda-mentali nella moderna visione della natura.

Riccardo IaconaSe questi sono gli uominiChiarelettere, 257 pagine, 13,90 euro Dopo le tragedie scatta il gioco macabro della caccia al colpe-vole da processare in prima se-rata tv. Ma cosa c’è prima? Un reportage narrativo, dramma-tico e spiazzante.

W.G. SebaldSoggiorno in una casa di campagnaAdelphi, 155 pagine, 18 euro Nel 1966, in procinto di lascia-re la Svizzera per Manchester, Sebald mette in valigia i libri di tre scrittori destinati a segnare per sempre la rotta dei suoi in-cessanti viaggi letterari.

Ermanno Rea1960. Io reporterFeltrinelli, 208 pagine, 25 euro In questo libro fotograico Er-manno Rea racconta una pas-sione di gioventù che alla metà degli anni cinquanta lo ha por-tato a viaggiare in giro per il

mondo, con la macchina foto-graica a tracolla.

Michael Hardt e Toni NegriQuesto non è un manifestoFeltrinelli, 112 pagine, 10 euro Hardt e Negri vanno incontro alle nuove correnti della prote-sta globale, cercando di forni-re una prospettiva uniicante.

Sergio ValentiniI piemontesi a RomaLa Lepre, 272 pagine, 16 euro Storie, aneddoti, immagini e curiosità dalla capitale, dal 1870 al 1900.

Yvan SagnetAma il tuo sognoFandango, 157 pagine, 10 euro Arrivato in Italia nel 2007 dal Camerun, Sagnet va in Puglia a raccogliere pomodori. Il rac-conto di una ribellione in dife-sa dei propri diritti e della pro-pria dignità.

Andrew RossiPage oneFeltrinelli, 96 pagine+dvd, 16,90 euro La cronaca di un anno intero vissuto nella redazione del New York Times per racconta-re dall’interno la trasformazio-ne del sistema dell’informa-zione in un momento di gran-de incertezza.

Hugo PrattWheeling e leggende indianeRizzoli Lizard, 416 pagine, 22 euro Un racconto sulla colonizza-zione del west nordamericano, creato nel 1962 per la rivista argentina Misterix e comple-tato solo nel 1995. In questa edizione l’opera si presenta così come Pratt l’aveva conce-pita in origine.

Page 92: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

92 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Cultura

1 Johnnie Selfish & The Worried Men Band Radioactivity

Da Lambrate a Fukushima, con fermate a Berlino e Nash-ville: la band milanese che ama il country & western e le schitarrate patchanka dei vec-chi Mano Negra piazza nel nuovo album Kauntri Muzik anche una versione del pezzo dei Kraftwerk (futurismo ger-manico del 1975) aggiornata al disastro nucleare di Fukushi-ma. Il tutto sotto le cure di John Wheeler, stregone del sound nella capitale del Ten-nessee. Banjo, chitarre distor-te, mal di gola e molto mashup, come un doposbronza di Woody Guthrie nei Balcani.

2 The Souljazz Orchestra Kingpin

Per altri attraversamenti di frontiere geograicomusicali, vale la pena di recuperare que-sta superband canadese di souljazz tropicale con l’album Solidarity, pieno di groove vin-tage iltrato da un registratore a 8 piste acquistato a una sven-dita e spremuto dalla ciurma di naviganti delle musiche afrolatine che collaborano con l’orchestra: da Rômmel Teixei-ra Ribeiro (chitarrista e com-positore) al percussionista El Hadji “Élage” M’baye; sene-galesi e brasileiri, tutto il cari-be possibile che si può ottene-re partendo da Ottawa.

3 Lucas Santtana O deus che devasta mas também cura

Il dio delle piccole cose pop va regolarmente in vacanza in Brasile, e nell’oceano di Bahia stavolta pesca questo men che trentenne, già pupillo di Gil-berto Gil e Caetano Veloso, ca-pace di fondere solide basi bossanova con quel tipo di avanguardia pop che va da Tom Zé a Beck. Nell’album O deus che devasta mas também cura svolazzi di violini e di vio-lão, elettrobeat e ardori amaz-zonici; ma soprattutto, una mano morbida nel miscelare tutti gli ingredienti forti in un pop sperimentale di ascolto piacevole. Mica poco.

MusicaDal vivoKeaneBologna, 26 ottobre, estragon.it

Herbie Hancock Parma, 21 ottobre, teatroregioparma.org; Roma, 22 ottobre, auditorium .com; Pordenone, 23 ottobre, comunalegiuseppeverdi.it

Hannah Williams & The Tastemakers Milano, 20 ottobre, bikoclub.net

Slash Casalecchio di Reno (Bo), 23 ottobre, unipolarena.it; Roma, 24 ottobre, forumnet.it; Padova, 26 ottobre, granteatrogeox.com

Mike Joyce + Peter Hook Bologna, 20 ottobre, covoclub.it

Tame Impala Milano, 26 ottobre, magazzinigenerali.it

The Pains Of Being Pure At Heart Torino, 23 ottobre, astoria-studios.com; Roma, 24 ottobre, circoloartisti.it; Bologna, 26 ottobre, covoclub.it; Padova, 27 ottobre, looopclub.it

Matt Bianco Milano, 19-20 ottobre, bluenotemilano.com

Chi erano Los Saicos, band di Lima che ha anticipato Ramones e Sex Pistols

Dov’è nato il punk? A Londra o a New York? C’è una terza possibilità: che sia stato in-ventato in un cinema di Lima, in Perù, da un gruppo chiamato Los Saicos, dieci anni prima che arrivassero i Ramones e i Sex Pistols. Los Saicos si sono formati a metà degli anni sessanta. S’ispira-vano ai Beatles, ma grazie al loro suono energico e un po’ rozzo hanno anticipato i tem-pi. “Sono stati i primi a fare punk. Il genere ancora non esisteva, ma i loro rif erano decisamente punk”, raccon-

ta José Beramendi, produtto-re di Saicomania, un docu-mentario sulla band uscito nel 2011.

I primi concerti degli Sai-cos si tenevano il pomeriggio nei cinema. Mentre le altre band si facevano accompa-gnare dai parenti, loro si pre-sentavano con gruppi di ra-gazze. La polizia li ha arrestati

più volte per eccesso di velo-cità. Dopo alcuni anni di ce-lebrità in patria, la band si è sciolta. Il cantante Erwin Flo-res si è trasferito negli Stati Uniti ed è diventato uno scienziato della Nasa. Ma la loro musica, soprattutto la canzone Demolición, è diven-tata un oggetto di culto. Il gruppo si è riformato nel 2010, rivendicando l’inven-zione del punk. Anche se ci vorrà molto a convincere gli storici: nei primi anni sessan-ta i Trashmen e i Sonics ave-vano uno stile simile e Iggy Pop aveva già formato il suo primo gruppo. Jonathan Watts, The Guardian

Dal Perù

Gli inventori del punk

Playlist Pier Andrea Canei

Fukushima revisited

RE

VIS

TA

69

The Pains Of Being Pure

At Heart

Los Saicos

Page 93: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 93

Album

Bat For LashesThe Haunted Man(Parlophone)●●●●●

In passato le intenzioni di Na-tasha Khan forse sono sem-brate migliori sulla carta che nella realtà, ma il nuovo al-bum mette ine a questi dubbi. Diciamolo subito, il paragone inevitabile è con Kate Bush. Però lei lo fa meglio di chiun-que altro ci abbia provato in questo secolo. All your gold po-trebbe essere in The dreaming, e non è un insulto. La laceran-te ballata Laura è una di quel-le canzoni che ti inchiodano dall’inizio alla ine, e certiica la riuscita di un lavoro com-plesso, in equilibrio tra elet-tronica e sentimento. Stavolta la ragazza ci dice la verità. Simon Price, The Independent

MikaThe origin of love(Island)●●●●●

Più che per altre pop star, il fa-scino di Mika risiede nella sua totale leggerezza (è stato il suo pop operistico in salsa kitsch a rendere il suo singolo Grace Kelly un successo plane-tario e il suo album di debutto il nono più venduto del 2007). Nel suo terzo album The origin of love, però, Mika sembra aver fatto l’errore di prendersi troppo sul serio. La sua voce – un po’ Elton John, un po’ Freddie Mercury e un po’ bambino piccolo attaccato a un palloncino a elio – si adatta con diicoltà a ritmi più alla moda. A parte la vivace Lola e il potente ritornello ottimista di Step with me, i momenti me-morabili dell’album sono dav-vero pochi.Hermione Hoby, The Observer

me nella stanza accanto”. Ma non c’è niente di timido o fur-tivo su questo disco maturo e profondo. Ci sono archi riso-luti, organi chiassosi e voci in-vitanti. Orton continua ad al-lontanarsi dall’elettronica, ma queste canzoni ricche e soi-sticate (che io consiglierei ai fan di Cat Power) hanno anco-ra un fondo fortemente ritmi-co. È valsa la pena di aspettare sei anni. Helen Brown, Daily Telegraph

Johnny AceAce’s wild(Fantastic Voyage)●●●●●

Questa raccolta copre l’intera, troppo breve, carriera di Johnny Ace, giovanissimo pia-nista di grande talento e dalla vita sregolata, che si sparò per errore il giorno di Natale del 1954. Tra i brani migliori la commovente Pledging my love, pubblicata dalla Duke Re-cords e diventata una hit dopo la morte dell’autore. Clive Prior, Mojo

Donald FagenSunken condos(Warner)●●●●●

Il quarto album solista dell’ex leader degli Steely Dan suona come il capitolo successivo dell’odissea solitaria comin-ciata trent’anni fa: è l’album più jazz, blues e musicalmen-

te preciso che Fagen abbia mai registrato, con molta più attenzione al groove rispetto ai dischi precedenti. In questo senso il pezzo di apertura, Slinky thing, è una dichiarazio-ne d’intenti. Il brano seguen-te, I’m not the same without you, ritira fuori dal Fagen dei giorni migliori uno strisciante ritmo disco. E la cover di Out of the ghetto di Isaac Hayes è funky nel senso losangelino del termine. Tuttavia, Fagen sembra sempre distante dalle storie che racconta. Sarebbe bello se la sua visione delle persone e dei posti non fosse così telescopica, un po’ di con-tatto umano non ci starebbe male. Ma in fondo non è mai stata la sua specialità. E il pas-sare degli anni non lo sta fa-cendo diventare più allegro.Michael Gallucci, Ultimate Classic Rock

Maria João Pires e Claudio AbbadoMozart: concerti per piano K 466 e K 595Maria João Pires, pianoforte; Orchestra Mozart, direttore: Claudio Abbado (Dg)●●●●●

Nonostante i suoi sforzi, Clau-dio Abbado non riesce a tra-scendere i limiti di un’Orche-stra Mozart davvero poco afa-scinante. Ma soprattutto non riesce a svegliare le dita di Maria João Pires, che in que-sto disco sembrano completa-mente prive di vita, dal punto di vista artistico come da quello tecnico. È un caso di modestia coltivata ino all’as-surdo? Un momento di sem-plice fatica isica? Non lo sap-piamo. Quel che è sicuro è che ci piacerebbe cancellare que-sta registrazione dalla disco-graia di due artisti che ci han-no dato tanto e che rispettia-mo ininitamente. Eric Taver, Classica

Godspeed You! Black Emperor’Allelujah! Don’t bend! Ascend!(Constellation)●●●●● L’uscita di ’Allelujah! Don’t bend! Ascend! ha colpito la co-munità postrock come un ma-remoto. Non solo perché i Godspeed You! Black Empe-ror mancavano dalle scene da dieci anni. Il nuovo album del gruppo canadese non dà punti di riferimento. Bisogna solo ascoltarlo, abbandonandosi alle sue note ipnotiche. ’Allelu-jah! Don’t bend! Ascend! ha so-lo quattro pezzi: due lunghe e rumorose cavalcate, Mladic e We drift like worried ire, e due brani granitici costruiti su un solo accordo come Their heli-copters’ sing e Strung like lights at thee printemps erable. Ed è un meraviglioso viaggio asim-metrico ispirato a Pink Floyd e Tortoise. Uno dei migliori di-schi dell’anno. John Garratt, Popmatters

Beth Orton

Sugaring season(Anti-)●●●●●

La pioniera della folktronica Beth Orton ha detto che gran parte di Sugaring season, il suo primo album da sei anni a questa parte, è stato scritto “nel cuore della notte, quando i ragni riparano le loro ragna-tele, con un bambino che dor- Donald Fagen

RA

DIO

DU

PR

EE

PinkBlow me (One last kiss) (Firebeatz extended mix)

AgnesOne last time (Orion remix)

David Guetta feat. SiaShe wolf (Falling to pieces)

Bat For Lashes

CH

UF

FM

ED

IA

DanceScelti da Claudio

Rossi Marcelli

Page 94: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

94 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Cultura

Frammenti elettriciSabato 20 ottobre, ore 1.45, RaiTre I ilm di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi svelano immagini latenti e dettagli ce-lati in pellicole d’archivio e amatoriali. Diario 1989. Dan-cing in the dark, sesto ilm della serie, rielabora riprese di varie Feste dell’Unità prima della caduta del muro di Berlino.

Le due storie di AdamàSabato 20 ottobre, ore 21.00 BabelFino a otto anni fa Adamà era uno schiavo di una miniera del Burkina Faso, poi un’adozione ha cambiato la sua vita. Ora parla italiano, frequenta l’uni-versità a Brindisi e sogna di tornare nel suo paese per apri-re una scuola.

Il ribelleSabato 20 ottobre, ore 23.oo RaiStoriaGuido Picelli è stato un teorico della guerriglia, capace duran-te la battaglia di Parma di sconiggere, con quattrocento uomini, diecimila fascisti co-mandati da Italo Balbo.

Mare chiusoDomenica 21 ottobre, ore 21.00 BabelTra maggio 2009 e settembre 2010 oltre duemila migranti africani sono stati intercettati nel Mediterraneo e respinti in Libia dalla marina e dalla poli-zia italiana. Il documentario di Liberti e Segre è tra i più pre-miati dell’ultima stagione.

Il sorriso del capoDomenica 21 ottobre, ore 23.00 Rai StoriaAttraverso i materiali dell’Ar-chivio Luce e un’intervista a suo padre, il regista Marco Be-chis rilette sulla fabbricazione del consenso orchestrata dalla propaganda fascista.

Video

zalab.org La rassegna Mondovisioni, a Ferrara, ha ospitato, insieme al commovente Vol special, un breve documentario sullo stesso tema, i centri di identiicazione ed espulsione, che ha spostato l’attenzione dalla già dura situazione in Svizzera denunciata dal ilm di Fernand Melgar a quella, se possibile, ancora più umiliante e penosa, in Italia. Le immagini girate da Gabriele Del Grande e Stefano Liberti, a cui è stato concesso di entrare nel Cie di Roma, mostrano una struttura carceraria a tutti gli efetti, fatiscente e inadatta, dove uomini e donne rischiano di restare ino a 18 mesi in attesa di essere espulsi. Il ilmato, primo passo di un progetto più corposo, è online sul sito della casa di produzione ZaLab.

In rete

La parentela tra primati e umani è evidente a chiunque. Ma negli anni settanta negli Stati Uniti un gruppo di ricer-catori si decise a provarla con un esperimento radicale: lo scimpanzé Nim venne sottrat-to alla madre appena nato e al-levato in un ambiente umano per dimostrare che avrebbe appreso a comunicare con i se-

gni e a esprimere pensieri e sentimenti. Le cose ovvia-mente non andarono come previsto. L’incredibile caso di Nim e dell’esperimento di cui fu vittima tornano alla luce grazie a Project Nim di James Marsh, appena uscito in dvd in Italia, nella collana Feltrinelli Real Cinema.project-nim.com

Dvd

Il mondo secondo Nim

In nome del popolo italiano

A prescindere dal nome della divinità a cui fanno riferimen-to, tutti gli integralismi ini-scono per somigliarsi. Ultima dimostrazione a Tolosa, in Francia, dove si svolge un am-bizioso festival culturale di ri-lessione sulle immagini. Tech-nologia, un’installazione dell’artista marocchino Mou-nir Fatmi, ha dovuto essere smontata e poi cancellata dall’esposizione. In poche pa-role, censurata, con il consen-so dell’artista e del direttore della manifestazione, il iloso-

fo e critico Paul Ardenne, che non sono riusciti a trovare una soluzione diversa.

I fatti sono ediicanti. L’in-stallazione consiste in una proiezione di alcuni versetti del Corano su dei cerchi con-centrici che fanno pensare ai rotorelief di Du champ, simboli di modernità, posti al suolo. A tarda sera, dei giovani della banlieue passando nei pressi dell’opera vedono delle perso-ne che camminando, calpesta-no i versetti del Corano. Quel-la che nelle intenzioni dell’ar-

tista voleva essere un omaggio alle sue radici arabomusulma-ne, per loro è solo una provo-cazione blasfema. Quando passa una donna la fermano e la aggrediscono. Pretendono che l’opera sia smantellata. E alla ine ricevono soddisfazio-ne. La legittimità delle loro la-mentele non è diversa da quel-la dei fanatici cattolici che in-terrompono rappresentazioni teatrali, proiezioni e mostre che li disturbano.

Tutto questo non è solo grave. È inaccettabile. u

Fotograia Christian Caujolle

Il Corano calpestato

Page 95: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)
Page 96: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)
Page 97: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 97

Erwin WurmAm I a house?, Cac, Malaga, ino all’11 novembre, cacmalaga.org “Sarcasmo e umorismo aiuta-no a vedere le cose con più chiarezza”. Erwin Wurm di-storce gli oggetti di uso quoti-diano con una buona dose di ingegno, ironia e umorismo. Questo spirito burlone gli ser-ve per criticare il consumismo, il mondo dell’arte e la politica. Narrow house è un’installazio-ne che riproduce la casa dei suoi genitori ridotta a un sesto della sua larghezza originaria. Anche i mobili sono adattati alle nuove dimensioni. La ri-duzione della casa, una costru-zione degli anni sessanta, si ri-ferisce alle restrizioni di quel momento storico e alla limita-zione dello spazio personale. In realtà l’opera è stata conce-pita come risposta rabbiosa e polemica a un’istituzione cine-se che aveva riservato a Wurm un corridoio come spazio espositivo.El País

Di nuovo Ai WeiweiL’artista dissidente cinese rap-presenterà la Germania nel padiglione nazionale alla pros-sima Biennale di Venezia. La responsabile del padiglione Suzanne Gaensheimer ha mo-tivato la decisione dichiarando che non avrebbe mai potuto rappresentare il suo paese co-me una unità ermetica nazio-nale e che la produzione con-temporanea in Germania è ca-ratterizzata da una evidente cooperazione tra artisti di tut-to il mondo attraverso scambi culturali internazionali. Dopo la sua liberazione Ai Weiwei non ha ancora avuto il permes-so di lasciare la Cina. Forse il suo lavoro arriverà a Venezia, ma diicilmente lo si vedrà passeggiare per i Giardini.Libération

Adel AbdessemedJe suis innocent, Centre Pom-pidou, Parigi, ino al 7 gennaio 2013, centrepompidou.frDavanti al Centre Pompidou c’è una statua che rischia di entrare nella leggenda. È enorme, liscia, opaca, nera e funerea, come la forza oscura nera di Darth Vader o come Ian Solo ibernato per Jabba nella saga di Guerre stellari. Con la testata a Marco Mate-razzi, Zinedine Zidane com-promise la partita della Fran-cia nella inale dei Mondiali 2006 in Germania. Questa vendetta per un insulto di

troppo, perfettamente esegui-ta da un atleta dalla tecnica incomparabile, chiuse la car-riera sportiva del grande cal-ciatore. L’artista francese Adel Abdessemed, 41 anni, ne ha fatto una scultura in bronzo alta quattro metri in cui i due giocatori nemici si trasforma-no in tori furiosi. La folla di passanti che sila sul pendio della piazza lastricata, scatta incessantemente foto a questa scultura inaspettata. Abdesse-med dice: “Ho incassato la violenza del gesto di Zidane come uno schiafo in faccia at-traverso lo schermo. Ho volu-

to mostrare il lato oscuro di un eroe, il corso ineluttabile del destino e l’immediatezza di un gesto clamoroso”. La vio-lenza è uno dei temi preferiti dall’artista, un “ribelle” che continua ad accrescere la sua fama di perturbatore visivo. In un video esposto alla biennale del Palais de Tokyo, per esem-pio, i burqa di alcune danzatri-ci scivolano via al suono sen-suale di una melodia orienta-le, lasciando i corpi nudi. La statua introduce la mostra di Abdessemed al Centre Pompidou. Le Figaro

Parigi

Coup de boule

Cultura

Arte

KE

nZ

o T

rIB

ou

ILL

Ar

D (A

FP/

GE

TT

y IM

AG

ES)

La statua di Adel Abdessemed a Parigi

Page 98: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

98 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Adesso che sembriamo irrimediabil-mente installati in un mondo di astrazioni compatte (la Catalogna, la Spagna), sarebbe forse un bene se chi, come me, ha conosciuto altre epoche e ha goduto di modalità di re-

lazione più luide, da una parte e dall’altra di quella che oggi sembra una frontiera insormontabile, ricordasse alcune cose che qualcuno preferisce dimenticare, epi-sodi di un passato comune che non combaciano con le politiche uiciali della memoria o che semplice-mente si stanno perdendo per l’erosione costante pro-dotta da fatti accaduti praticamente ieri. Sono sempre più convinto che sia giusto il mandato contenuto in un verso di Luis Cernuda: “Ricordalo tu e ricordalo ad altri”.

Spesso la manipolazione politica fa leva sulla manipolazione del passato. Per questo è importante che chi ha vis-suto un’epoca s’impegni a ricordarla e a raccontarla. È importante anche perché solo una vera conoscenza del passato permette di valutare quanto si è guada-gnato e quanto si è perso con il passare del tempo, e di capire che quel che adesso è ovvio era forse inimmaginabile qualche decina di anni fa, e che le cose, nel bene o nel male, non dovevano per forza andare come sono andate.

Ricordo l’imponente presenza della Catalogna nel-la cultura spagnola della resistenza antifranchista, e gli strettissimi legami che ci univano in qualsiasi am-bito della nostra formazione e della nostra coscienza politica. Quel fermento comune si sviluppò rigoglioso alla ine della dittatura e fu un fattore determinante per l’atmosfera culturale spagnola almeno dei primi dieci anni di democrazia. Ma il germe di quel fermen-to risaliva a ben prima, ai vecchi legami dell’avanguar-dia degli anni venti, quando García Lorca esponeva i suoi disegni in una galleria di Barcellona e Dalí studia-va insieme a lui e a Buñuel alla Residencia de estu-diantes. Nel 1935, quando a Barcellona fu messa in scena Yerma con un enorme successo, García Lorca scriveva alla sua famiglia commuovendosi per l’entu-siasmo con cui l’aveva accolto un teatro gremito e ge-neroso. La destra più oscurantista l’aveva attaccato violentemente, ma il pubblico aveva riconosciuto in quel dramma la sua ambizione di bellezza e di giusti-zia sociale.

È bene ricordare, anche se oggi chi esalta l’essenza catalana o andalusa preferisce dimenticarlo, che fu la catalana Margarita Xirgu a svelare l’universalità dei drammi andalusi di García Lorca, e fu sempre lei che, dopo il suo assassinio, portò per la prima volta in scena La casa di Bernarda Alba e dall’esilio continuò a difon-dere il suo teatro. Il catalano Felip Pedrell fu maestro di Manuel de Falla, di Cadice. E alcune delle migliori registrazioni contemporanee di Falla sono dell’orche-stra da camera del Teatre Lliure di Barcellona.

Allo stesso modo, fu l’ex falangista ed ex cantore disilluso della Spagna imperiale Dionisio Ridruejo,

esule a Sitges negli anni cinquanta, a tradurre in castigliano alcuni dei libri di Josep Pla che una generazione dopo di-ventarono un tesoro per chi come me voleva imparare a scrivere guardando le cose con il giusto grado di curiosità e di scetticismo, osservando e annotando la vita quasi contemporaneamente al suo svolgersi. Cominciammo a leggere Pla e Álvaro Cunqueiro sul settimanale De-stino, pubblicato a Barcellona e fondato a Salamanca durante la guerra civile da catalani ilofranchisti. Ci piaceva quella

rivista perché anche Néstor Luján pubblicava lì i suoi articoli di un’erudizione sorprendente e amena, ma ancora di più ci piacevano la carta e la tipograia dei libri della casa editrice Destino, che ci proponeva inat-tesi autori internazionali e in cui ci abituammo a leg-gere i romanzi di Miguel Delibes. Per la stessa casa editrice pubblicavano il gallego Cunqueiro, il casti-gliano Delibes, il catalano Pla. Il primo romanzo se-condo me davvero importante del dopoguerra spa-gnolo, Nada di Carmen Laforet, vinse a Barcellona il premio Nadal e fu pubblicato da Destino.

Erano strade a doppio senso: nei primi anni cin-quanta il madrileno naturalizzato statunitense Jaime Salinas andò a vivere a Barcellona e diede vita insieme a Carlos Barral a un progetto editoriale che fu alla base del grande rinnovamento della letteratura e della let-tura in lingua castigliana, in Spagna e in America Lati-na. Dalla metà degli anni sessanta scrittori giovani ed esteticamente radicali come Pere Gimferrer e Terenci Moix mischiarono a modo loro una tradizione lettera-ria erudita e sfaccettata: il cinema americano, la nou-velle vague francese, la copla spagnola, Rimbaud, Rubén Darío, Vicente Aleixandre. Questa disinvoltura pop, questa sfacciataggine meticcia e popolare era in

Legami catalani

Sarebbe un bene se chi, come me, ha conosciuto altre epoche e ha goduto di modalità di relazione più luide ricordasse alcune cose che qualcuno preferisce dimenticare

Antonio Muñoz Molina

ANTONIOMUÑOZ MOLINAè uno scrittore e giornalista spagnolo. Il suo ultimo lavoro pubblicato in Italia è Finestre di Manhattan

(Mondadori 2006). Questo articolo è uscito su El País con il titolo Lazos catalanes.

Pop

Page 99: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 99

parte quello che ci attirava del Manuel Vázquez Montalbán di Crónica sentimental de España e dei pri-mi casi del detective Pepe Carvalho, o dei folgoranti romanzi di Juan Marsé, che erano scritti in un casti-gliano di frontiera impregnato di catalano, lo strumen-to adatto per rendere conto dei mondi di frontiera in cui vivevano i suoi personaggi, frontiere di quartiere, di classe, di lingua.

Le canzoni in catalano ci emozionavano come quelle in inglese, e ogni tanto diventavano veri e propri inni. Oggi sembra che dire spagnoli o catalani equival-ga a parlare delle tifoserie ostili di due squadre di cal-cio, ma c’è stata un’epoca in cui la rivendicazione della lingua catalana e dello statuto di autonomia per la Ca-talogna facevano parte di uno stesso progetto progres-sista. Il pubblico che negli anni settanta afollava i con-

Ch

Iar

a d

at

tO

La

Page 100: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

100 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

certi di Lluís Llach a Madrid o a Granada era acceso come quello che aveva acclamato Lorca a Barcellona. Molto prima che diventassero abituali le bandiere an-daluse, si agitavano già in quei teatri bandiere catalane e striscioni identici a quelli di Barcellona: “Libertà”, “Amnistia”, “Statuto di autonomia”.

Non voglio smentire e neanche compensare una sensazione di distanza che è stata incoraggiata dagli estremi della nostra vita politica e che è probabilmen-te irreversibile. Mi sembra semplicemente utile ricor-dare che le cose furono molto più complesse e anche più promettenti, e che quei legami così stretti alimen-tarono noi tutti, al di là della logica binaria di depreda-zione e ricatto che adesso si è tristemente imposta. I dischi di Lluís Llach, di Raimon, di Francesc Pi de la Serra o dell’angelico Jaume Sisa che cantava Qualsevol nit pot sortir el sol si vendevano in Spagna (tutta la Spa-gna) come in Catalogna. E il grande teatro indipen-dente catalano era accolto da un pubblico appassiona-to ovunque in Spagna.

Io ho cominciato a leggere con i fumetti che si pub-blicavano a Barcellona e quando sono diventato scrit-tore ho avuto la rara fortuna di vedere letteralmente il mio sogno avverarsi pubblicando i miei romanzi nella stessa casa editrice catalana in cui leggendo Juan Mar-sé e Mario Vargas Llosa mi ero educato come scrittore. Quando avevo dieci anni leggevo i fumetti pubblicati da Bruguera e quando ne avevo venti leggevo Juan Carlos Onetti e John Cheever nelle edizioni della stes-sa casa editrice. Il fatto che la capitale della cultura in catalano sia anche la capitale dell’editoria spagnola è un bellissimo paradosso da cui tutti possiamo trarre interessanti conclusioni.

Afermare la propria identità attraverso la negazio-ne sembra un segno dei tempi, peraltro molto radicato nell’inospitale vita politica spagnola, ma negando l’al-tro si può inire col perdere una parte fondamentale di se stessi. u fr

Storie vereUn uomo è andato al pronto soccorso di un ospedale di Auckland, in Nuova Zelanda. Aveva un’anguilla incastrata nell’ano. “Le anguille amano mettersi in posti nascosti e sicuri”, ha spiegato un biologo consultato dal New Zealand Herald, “e li cercano con l’olfatto, più che con la vista”. “Ai nostri medici capitano casi di gente che arriva con oggetti strani bloccati in posti dove non dovrebbero essere”, ha dichiarato un portavoce dell’ospedale. “Questo è un esempio insolito. L’anguilla era grande come un bell’asparago”.

Il Times Higher Education (The) e la Reuters hanno pubblicato il 4 ot-tobre la classiica 2012-2013 di quattrocento università che pri-meggiano nel mondo tra seimila prese in considerazione. È ancora (qualcuno ha detto) “una storia americana”: le università degli Stati Uniti dominano come nelle puntate precedenti. Però emergo-no delle novità. Harvard non è più al primo posto, come nel 2010, ma come nel 2011 è scavalcata da Cal-Tech, l’università di tecnologia della California. È il segnale di una

tendenza difusa: guadagnano po-sti le università specializzate ri-spetto alle generaliste.

Negli Stati Uniti perdono posi-zioni le università pubbliche, che risentono della contrazione di i-nanziamenti statali, e guadagnano le private, che si muovono in un orizzonte più certo, meno soggetto alle crisi economiche e a scelte dei mandarini pubblici. Nel complesso la storia è ancora americana, ma già a guardare le prime posizioni si nota l’ascesa di università britanni-che: Cambridge resta al settimo

posto, ma Oxford passa dall’ottavo al secondo e il London imperial college dal decimo all’ottavo. Con-tinua l’ascesa di università giappo-nesi, cinesi e di alcuni pae si euro-pei: Svizzera, Olanda, Germania (qui, secondo The e Reuters, pare funzionare la politica che favorisce lo sviluppo di settori eccellenti). Accanto ai criteri più oggettivi è or-mai imponente il contributo delle valutazioni di specialisti, 31mila da 149 paesi. Tra le università di re-cente istituzione Milano Bicocca ha un ottimo piazzamento. u

Scuole Tullio De Mauro

Forza Europa

Immagina che questa casa ci appartenesse,

il gradevole scricchiolio delle scale

e i topini dietro il legno.

Immagina che a tavola sedessero con noi

le ombre di coloro che un tempo qui

vissero e raccontassero storie.

Che noi le ascoltassimo. Portassimo i loro vestiti,

il colletto rivoltato, la lana

tinta. E che un pafuto angelo

della storia tagliasse cipolle

e piangesse per noi lacrime salate.

Immagina che noi pregassimo per il ruscello

di abbandonare il suo letto pietroso,

ainché il pesce non dovesse attraversare terre

nel suo viaggio verso la nostra pentola.

Immagina che noi dormissimo di notte

in questi letti e la terra

ci ricoprisse coi suoi sogni.

Immagina che noi sognassimo di dover

abbandonare la casa e non sapessimo

dove andare.

Michael Krüger

Poesia

Piccolo inno nazionale tedesco

MICHAEL KRÜGER

nato nel 1943, è un poeta, scrittore ed editore tedesco. Vive a Monaco di Baviera. Questa poesia è tratta da Di notte tra gli

alberi (Donzelli 2002). Traduzione di Luigi Forte.

Pop

Page 101: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)
Page 102: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Scienza

102 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Tutti i virus che respiriamo in un minuto

Sono ovunque e anche se uicial-mente non appartengono alla grande famiglia degli organismi viventi, i virus sono una delle ulti-

me frontiere dell’esplorazione biologica. Interagiscono così tanto con le piante, gli animali e i batteri che li ritroviamo anche nel materiale genetico di questi organismi. Ma quanti sono i virus presenti nell’aria? Quanti ne inaliamo ogni minuto?

Di fatto sono state fatte poche ricerche sull’ecologia microbica dell’aria, sul modo in cui le comunità virali evolvono e interagi-scono con il loro ambiente. Il problema era la diicoltà tecnica di contare e identiicare in modo aidabile elementi inferiori al mi-cron. Ma con l’arrivo delle tecnologie della metagenomica queste diicoltà si stanno riducendo. L’analisi metagenomica consi-ste nello studiare il contenuto di un deter-minato ambiente naturale (un litro d’acqua di mare, un campione di terreno, feci uma-ne e così via) a partire dai genomi presenti. Così in un articolo apparso ad agosto sul Journal of Virology un’équipe sudcoreana ha fatto la prima analisi metagenomica dell’atmosfera al livello del suolo.

Sapendo che le condizioni esterne (co-me la temperatura, l’umidità, la luminosità, o lo sfruttamento umano del terreno) pos-sono inluire sui virus, l’équipe di ricercato-ri ha lavorato per diversi mesi su tre siti: un quartiere residenziale di Seoul, un bosco e un complesso industriale. L’esperimento consisteva nel catturare, in una trappola formata da una sorta di iltro liquido, tutti gli elementi inferiori al micron, per poi ri-pulirli, estrarne il dna e confrontare le se-quenze con le banche dati virali. Il risultato è che in un metro cubo d’aria ci sono tra 1,7

e 40 milioni di virus. Per i batteri i margini sono più ridotti: tra 860mila e undici milio-ni di individui per metro cubo. Al contrario di quello che si potrebbe immaginare, l’am-piezza della variazione non dipende dai siti di raccolta, ma dalle stagioni durante le quali sono state efettuate le analisi. Il nu-mero di virus presenti nell’atmosfera è cre-sciuto durante l’inverno raggiungendo il suo culmine in gennaio, per poi scendere all’avvicinarsi della primavera.

Un territorio inesploratoA riposo, un adulto consuma in media dieci litri d’aria al minuto (una quantità che può essere molto più elevata durante uno sfor-zo, per esempio 50 litri durante una partita di calcio). Così, se si riprendono le cifre del-lo studio, ci si rende conto che ogni minuto entrano nei nostri polmoni tra i 17mila e i 400mila virus. Un risultato che potrebbe indurre un ipocondriaco a smettere di re-spirare. O comunque a muoversi il meno possibile visto che la ventilazione, che au-menta con lo sforzo isico, può farci inalare ino a due milioni di virus al minuto duran-te una partita di calcio.

I ricercatori sudcoreani hanno identii-cato una decina di famiglie di virus, con una

Un’équipe di ricercatori sudcoreani ha compiuto un’analisi metagenomica dell’atmosfera al livello del suolo. E ha rivelato un mondo di virus sconosciuti

Pierre Barthélémy, Le Monde, Francia

GO

PA

L M

Ur

tI

(GE

tt

y I

MA

GE

S)

percentuale signiicativa di Geminiviridae, un risultato piuttosto logico visto che questi virus sono responsabili di molte malattie delle piante e che la raccolta è stata fatta so-prattutto in estate. Ma gran parte dei virus erano sconosciuti. Più della metà delle se-quenze genetiche analizzate non igurava in alcuna banca dati, e la maggior parte di questi virus era composta da semplici ila-menti di dna, come i Geminiviridae.

Gli autori dello studio fanno notare che l’atmosfera è un serbatoio di virus ancora inesplorato e che sarebbe ora di occuparse-ne, soprattutto per identificare strutture potenzialmente pericolose per le colture e per gli esseri umani. u adr

u Non tutti sono d’accordo nel considerare i virus delle entità biologiche perché non si riproducono né si evolvono in modo autonomo: per riprodursi hanno bisogno di penetrare in una cellula ospite. Sono considerati l’anello di congiunzione tra i composti chimici e gli organismi viventi. Possono essere responsabili di malattie in tutti gli organismi, dai batteri alle piante agli animali. Sono mediamente circa cento volte più piccoli di una cellula.

Da sapere

Coronavirus

Page 103: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 103

IN BREVE

Paleontologia È stato trovato in Cina il fossile di un artropode risalente a 520 milioni di anni fa. Nel reperto si è eccezionalmen-te conservata traccia del cervel-lo e dei lobi ottici, simili a quelli degli attuali insetti e crostacei. È possibile quindi che l’animale avesse capacità di visualizzazio-ne molto avanzate, più soistica-te di quelle di alcuni suoi di-scendenti attuali, scrive Nature. Astronomia È stato individua-to un pianeta con quattro soli. Esaminando i dati raccolti dal telescopio spaziale Keplero, al-cuni astronomi amatoriali han-no trovato una coppia di stelle intorno a cui orbita con un pe-riodo di 138 giorni il pianeta PH1. A una certa distanza c’è un’altra coppia di stelle che rie-scono a illuminare il pianeta. La scoperta sarà pubblicata sull’Astrophysical Journal.

XIA

oy

A M

A

fo

Nt

E: o

Ms, 20

08

NEUROSCIENZE

I rumori più fastidiosi tredici volontari hanno prestato il loro orecchio ai ricercatori del-la Newcastle university per ascoltare 74 suoni diversi e valu-tarne la fastidiosità. Con la riso-nanza magnetica funzionale si è visto che quando il suono era sgradevole aumentava l’attività dell’amigdala, una zona del cer-vello legata alle emozioni, in particolare a quelle negative. L’amigdala, a sua volta, faceva aumentare la risposta della cor-teccia uditiva. La percezione soggettiva dei suoni sembra quindi dipendere dalla relazione tra queste due aree del cervello, scrive il Journal of Neuro-science. tra i 74 suoni testati sono risultati irritanti quelli con frequenza tra i duemila e i cin-quemila hertz. I più sgradevoli? Il rumore della lama del coltello e della forchetta fatte scorrere sul vetro, il gessetto e le unghie sulla lavagna.

SALUTE

Gli anni persiper il cancro Nel 2008 a causa del cancro so-no stati persi quasi 170 milioni di anni di vita in buona salute. A diferenza degli studi sulla mor-talità, la ricerca di The Lancet ha misurato i danni provocati dalla malattia ai sopravvissuti, per esempio a causa della perdi-ta della fertilità o delle amputa-zioni chirurgiche. Asia ed Euro-pa i continenti più colpiti.

Ha senso prendere un’aspi-rina se si pensa di avere un infarto?

Gli studi dimostrano che i sin-tomi dell’infarto negli uomini possono essere diversi da quelli nelle donne. È più pro-babile che gli uomini avverta-no i segnali classici come iato corto e dolore al petto, che a volte si irradia al collo e alle braccia. Le donne, invece, pro-vano spesso un forte senso di spossatezza, presentano i sin-

tomi di un’indigestione e su-dori freddi. Malgrado le dife-renze, la reazione dovrebbe essere la stessa: chiamare su-bito l’ambulanza e masticare un’aspirina, sostiene Noel Bai-rey Merz, del Cedars-sinai heart institute di Los Angeles. secondo alcuni masticare un’aspirina, e inibire così l’atti-vità piastrinica che potrebbe ostruire le arterie durante un infarto, fa poca diferenza, ma uno studio sull’American Journal of Cardiology ne ha in-

vece evidenziato l’importanza. Nei 12 volontari testati, masti-care l’aspirina per 30 secondi prima di ingoiarla a stomaco vuoto ha stimolato la riduzio-ne del 50 per cento dell’attività piastrinica in cinque minuti. Ingoiando l’aspirina intera, lo stesso efetto si è ottenuto in 12 minuti.Conclusioni In caso di sintomi di infarto, chiamare subito l’ambulanza e poi masticare un’aspirina.The New York Times

Davvero? Anahad O’Connor

L’ambulanza e l’aspirina

Salute

Cellulari contro la malaria

I telefoni cellulari possono contribuire a combattere la malaria. Uno studio condotto in Kenya ha ricostruito gli spostamenti delle persone dal traico telefonico, individuando le situazioni più a rischio per la difusione della malattia. I risultati hanno rivelato che sarebbe meglio concentrare gli

sforzi nella regione del lago Vittoria, dove c’è il più alto numero di zanzare infette. Lo stesso metodo era stato usato in uno studio precedente per stimare l’importazione della malaria a Zanzibar a causa dei viaggi nel continente dei residenti. La nuova ricerca pubblicata su science ha ricostruito i movimenti di quasi 15 milioni di persone in Kenya, tra la sponda del lago Vittoria, Nairobi e le altre regioni del paese. Per farlo sono stati considerati tra il giugno 2008 e il giugno 2009 tutti gli sms e le chiamate registrate dalle oltre 11mila celle in cui è diviso il Kenya. Com’era prevedibile, la città di Nairobi è risultata il principale centro di transito. I dati sono stati incrociati con quelli sulla popolazione e sulla difusione della malaria e si è calcolata la probabilità di infezione. Alla ine è risultato che la zona del lago Vittoria, in cui la malaria è endemica, ha un ruolo decisivo nella difusione della malattia ed è lì che bisognerebbe concentrare le campagne sanitarie. u

Science, Stati Uniti

Polmone

stomaco

fegato

Colon-retto

seno

Utero

I tumori che uccidono di piùNel 2008 il cancro ha ucciso 7,6 milioni di persone nel mondo

1,37 milioni

736mila

695mila

608mila

458mila

275mila

Page 104: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

104 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Il diario della Terra

43,9°CNouakchott,Mauritania

Stati Uniti

-67,2°CVostok,

Antartide

Indonesia6,7 M

Costa Rica5,3 M

Canada4,5 M

Bangladesh

Indonesia

PaulRafael

Olivia

Prapiroon

Russia

Cile5,7 M

Iran5,0 M Treni merci, dissalatori, agri-

coltura biologica: per la “setti-mana dell’investimento etico” il Guardian esamina i settori della finanza verde più pro-mettenti. Si stima che nel Re-gno Unito gli investimenti “sostenibili e responsabili” abbiano toccato i 275 miliardi di sterline (340 miliardi di eu-ro) e potrebbero aumentare ancora. Uno dei settori in cui si investe di più sono le com-pagnie ferroviarie: a causa dell’aumento del prezzo del petrolio, dell’inquinamento e delle strade sempre più con-gestionate, si sta riscoprendo il trasporto merci su rotaia. Ormai negli Stati Uniti viaggia in questo modo il 40 per cento delle merci, una percentuale di gran lunga superiore a quel-la europea. Le azioni delle compagnie ferroviarie salgo-no: quelle della Union Pacific, una società fondata nel 1862, hanno quadruplicato il loro valore negli ultimi otto anni.

Un altro settore in espan-sione è quello idrico. Come primo passo per ridurre gli sprechi, alcuni fondi etici ob-bligano le aziende a dichiara-re il consumo di acqua, men-tre altri permettono di investi-re direttamente in aziende che depurano e riciclano l’ac-qua di scarichi industriali e ci-vili. Infine, si può investire nei dissalatori, sempre più diffusi non solo in Medio Oriente ma anche in Cina e negli Stati Uniti. Il settore più promet-tente. Se la Monsanto è stata giudicata due anni fa da una ricerca svizzera la società me-no etica del mondo, molte al-tre imprese sono state invece incluse nei fondi d’investi-mento etici.

Finanza verde

Ethical living

Tempeste Almeno 26 per-sone sono morte nelle tempe-ste che hanno colpito il sud del Bangladesh. Sessanta pescato-ri risultano dispersi. Più di 30mila case fatte di paglia, fan-go e lamiera sono state dan-neggiate.

Terremoti Un sisma di ma-gnitudo 6,7 sulla scala Richter ha colpito l’est dell’Indonesia, senza causare vittime. Scosse più lievi sono state registrate nella metropoli canadese di Montréal, nel centro del Cile, in Costa Rica e in Iran.

Alluvioni Sette persone so-no morte nelle alluvioni causa-te dalle forti piogge che hanno colpito la regione del Caucaso, nel sud della Russia. In Daghe-stan più di mille persone sono state costrette a lasciare le loro case.

Cicloni L’uragano Paul si è raforzato al largo della peniso-la della Baja California, in

Messico. Pochi giorni prima la tempesta tropicale Olivia ave-va siorato la costa occidentale del paese. Nell’oceano Atlanti-co si è invece formato l’uraga-no Rafael. u Il tifone Prapiro-on ha siorato la costa meridio-nale del Giappone.

Vulcani Il vulcano Lokon, sull’isola indonesiana di Sulawesi, si è risvegliato proiettando cenere sui villaggi della zona. Le autorità locali hanno distribuito maschere protettive agli abitanti.

Conigli L’habitat naturale dei conigli tra Miami e Key West, nel sud della Florida (Stati Uniti), si è quasi

dimezzato tra il 1958 e il 2006 a causa dell’aumento del livello del mare. Rimangono solo alcune centinaia di esemplari, rivela uno studio dell’università della Florida.

Anidride carbonica Il software Hestia permette di calcolare le emissioni di anidride carbonica di ogni singola costruzione, strada e stabilimento industriale di una città. Finora è stato sperimentato negli Stati Uniti, a Indianapolis, Los Angeles e Phoenix. Secondo la rivista Environmental Science and Technology, potrebbe essere utile per migliorare le politi-che di prevenzione.

AF

P/G

ET

Ty

Hatiya, Bangladesh

Leoni Il proilo genetico dei leoni etiopici è diverso da quello de-gli altri leoni. Gli animali esaminati nello studio dello European Journal of Wildlife Research discendono tutti da quelli dello zoo di Addis Abeba, catturati nel 1948 probabilmente nell’Etiopia sudoccidentale. Piccoli e magri, con una lunga criniera scura, costituiscono una popolazione a sé, che andrebbe conservata.

JUN

HO

LD

, EU

LE

NB

ER

GE

R (Z

OO

DI

LIP

SIA

)

Page 105: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 105

u Il Salar de Coipasa si trova nella Bolivia occidentale, vici-no alla frontiera con il Cile, nel-la regione dell’Altiplano. Occu-pa una supericie di circa 2.500 chilometri quadrati. Il termine salar indica i bacini aridi e chiu-si in cui l’evaporazione delle ac-que ricche di minerali causa la formazione di consistenti depo-siti piatti di sale.

Il Salar de Coipasa è situato a sudovest del lago salato Po-opó e a nordovest della più grande distesa di sale al mon-do, il Salar de Uyuni. La crosta di salgemma conferisce al Coi-pasa la colorazione bianco sma-gliante tipica dei salar dell’Alti-

plano. Pur trovandosi in un am-biente arido, il Salar de Coipasa riceve costantemente acqua dal iume Lauca, che aluisce da nord e alimenta il Coipasa, un lago poco profondo (3,5 metri al massimo) all’estremità setten-trionale del bacino.

Nei periodi di siccità, però, il lusso dell’acqua può ridursi drasticamente. In alcuni mesi dell’anno le rive del lago ospita-no una folta popolazione di fe-nicotteri.

L’acqua del lago Coipasa e la crosta bianca di sale del salar fanno risaltare i sedimenti scuri del iume che si riversano nel bacino dalla sponda nordorien-

tale. A sinistra nell’immagine, le rocce vulcaniche creano un forte contrasto con la crosta di sale circostante. Anche se le Ande (a ovest) ospitano molti vulcani attivi, non si hanno no-tizie storiche dell’attività del vi-cino Tata Sabaya (non visibile nell’immagine).

Questa foto non è stata scat-tata da un satellite, ma da un astronauta della Spedizione 33 in orbita nella Stazione spaziale internazionale. La stazione ospita attualmente tre astro-nauti: la comandante Sunita Williams, Yuri Malenchenko e Akihiko Hoshide.–William L.

Stefanov

Situato sulle Ande bolivia-ne, il Salar de Coipasa è a più di 3.600 metri di altitu-dine.

Il pianeta visto dallo spazio 20.09.2012

Il Salar de Coipasa, in Bolivia

u

eA

rT

HO

BSe

rv

AT

Or

Y/N

ASA

Salar de Coipasa

Lago Coipasa

Sedimenti

Nord

5 km

Page 106: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)
Page 107: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Tecnologia

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 107

Pur avendo trascorso gran parte degli anni novanta nelle campa-gne dello stato di Washington, la mia vita da adolescente in rete è

stata molto sociale. Avevo dei programmi di chat come Icq, i forum Usenet e l’email. Trascorrevo le mie ore su internet a condi-videre link con gli amici. E mi riiuto di cre-dere che l’aspetto sociale del web sia nato solo dopo l’arrivo di Facebook e Twitter. Misurare i fenomeni in rete è complicato. E le informazioni che abbiamo sono limitate. Ma sapere come qualcuno è venuto a cono-scenza del tuo sito web è una cosa molto semplice.

Quando apri un link da Facebook, alcuni dati dicono al server: “Sono arrivato qui tra-mite Facebook”. Non sempre però questi dati sono rintracciabili. Di solito capita quando clicchiamo su un link in un’email,

in una chat e un’applicazione per i cellulari. O quando ci spostiamo da un sito che ha un sistema di sicurezza a uno che non ce l’ha. Quindi gran parte del traico generato dal-le nostre reti sociali è invisibile ai program-mi di analisi di dati. Io chiamo questo feno-meno dark social (socialità nascosta).

Una nuova prospettivaTutti si comportano come se quello che fan-no su Facebook, Reddit, Stumbleupon o Twitter rappresentasse tutta la loro vita on-line. Ma è davvero così? La mia esperienza passata è stata solo un fenomeno di nicchia? Un giorno mi sono trovato in una riunione con una famosa azienda di analisi di dati in tempo reale: Chartbeat. Questi ragazzi

Passaparola digitale

Gli utenti che arrivano su una pagina web da Facebook o da Twitter sono solo una minima parte. L’uso sociale della rete si basa su altre fonti ancora più importanti per il traico di un sito

Alexis C. Madrigal, The Atlantic, Stati Uniti

hanno preso in considerazione i visitatori del sito dell’Atlantic di cui non si conosceva la provenienza e li hanno divisi in due cate-gorie. La prima includeva quelli che entra-vano nella nostra homepage o in una sezio-ne precisa (theatlantic.com/politics).

La seconda riguardava tutti quelli che aprivano direttamente altre pagine, cioè i singoli articoli. Poiché nessuno si mette a scrivere sul browser un indirizzo come “ht-tp://www.theatlantic.com/technology/archive/2012/10/atlast-the-gargantuan-telescope-designed-to-ind-life-on-other-planets/263409/”, Chartbeat ha considera-to che chi arriva su queste pagine ha cliccato su un link speciico. E questa categoria da loro è stata chiamata “social diretto”. Ecco il mio dark social!

Dunque, da una parte esistono i social network, che rappresentano il 43,5 per cen-to del nostro traico. Dall’altro abbiamo il dark social, che porta il 56,5 per cento dei visitatori. Oltre due volte e mezzo quello che ci porta Facebook. A quel punto ho pen-sato: forse è solo l’Atlantic a essere così in-luenzato dal lato oscuro. Ho ricontattato Chartbeat per chiedergli di fare lo stesso calcolo su una gamma più ampia di siti. E il dark social risulta ancora più importante.

Il 69 per cento degli utenti faceva parte di questa categoria, mentre gli utenti di Fa-cebook erano fermi al 20 per cento e quelli di Twitter al 6 per cento. Gli “utenti diretti” erano il 17,5 per cento del totale, superati unicamente dagli utenti che arrivano su un sito attraverso un motore di ricerca. Quindi chi crede che ottimizzando la sua pagina di Facebook migliorerà il suo traico si sba-glia. Non potrà inluenzare più di tanto gli scambi di email o di messaggi istantanei tra le persone. Non esiste un algoritmo capace di spiegarlo, è un fenomeno sociale. Tutto questo porta a un cambio di prospettiva.

I social media nati all’inizio del nuovo millennio non hanno dato vita a una rete sociale, l’hanno solo strutturata. Ci permet-tono di rendere pubblico quello che voglia-mo condividere su internet. Ma noi non stiamo cedendo i nostri dati personali per condividere quello che vogliamo con i no-stri amici. Molte persone facevano già la stessa cosa senza i social media. La verità è che stiamo ofrendo i nostri dati personali in cambio della possibilità di pubblicare e archiviare quello che condividiamo. Lo scambio potrebbe anche essere accettabile, ma nessuno inora ci ha detto che si trattava di questo. u mac

KE

VIN

VA

N A

EL

ST

Da sapereVisitatori delle pagine interne del sito dell’Atlantic, percentuale. Fonte: Chartbeat

FacebookFonti sconosciute Twitter

21,6

56,5

11,2

Page 108: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

108 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Economia e lavoro

In Cina l’epoca del iglio unico si è tra-sformata gradualmente in un proble-ma per i dirigenti delle immense aziende manifatturiere: presto l’in-

vecchiamento della popolazione provoche-rà gravi carenze di personale e costi del la-voro sempre più alti. Tanto che alcuni stan-no valutando la possibilità di sostituire gli esseri umani con i robot.

Zuo Pengfei, ricercatore del Topology research institute di Taiwan, nota che gli operai della Foxconn (il colosso che assem-bla prodotti hi-tech, come l’iPhone e l’iPad della Apple) sono in gran parte giovani ven-tenni, ma il censimento della popolazione indica che tra il 2000 e il 2010 il numero dei cinesi tra i dieci e i quattordici anni è dimi-nuito del 5 per cento. A questo ritmo il setto-re manifatturiero si troverà di fronte a una forte carenza di manodopera intorno al

2015. Negli ultimi anni i dipendenti della Foxconn sono passati da 800mila a più di un milione grazie al successo dei prodotti Apple. Quest’enorme aumento del perso-nale ha fatto emergere tutte le diicoltà le-gate alla gestione della manodopera. Di recente la Foxconn ha promosso il pro-gramma “la miniera d’oro della pianura centrale”. Tre città formeranno il triangolo d’oro del settore manifatturiero, formando lo snodo principale nella produzione dell’iPhone: Zhengzhou e Luoyang, nella provincia dello Henan, e Jincheng, nello Shanxi. Zhengzhou, in particolare, divente-rà la fabbrica di iPhone più grande del mon-do. Per realizzare il programma, la Foxconn ha aumentato l’oferta di posti di lavoro, ma si è scontrata con la carenza di operai.

Per questo ha deciso di puntare sulle li-nee di produzione automatizzate. Già nel 2011 l’amministratore delegato dell’azien-da, Terry Gou, aveva annunciato che quest’anno sarebbero stati introdotti tre-centomila robot nelle linee di produzione più rischiose e con le mansioni più ripetiti-ve. Un esempio è la fabbrica di Taiyuan, dove si producono le scocche degli iPhone usando preparati chimici nocivi per la salu-te. Qui i robot lavoreranno 24 ore su 24, sen-

za bisogno di vitto e alloggio e senza creare preoccupazioni sul piano sociale.

A Shenzhen e a Jincheng, nella provin-cia dello Shanxi, la Foxconn sta creando una vasta area per la produzione automa-tizzata. Ma un dipendente di una compa-gnia taiwanese specializzata in sistemi di automazione ci spiega che la Foxconn e al-tre aziende taiwanesi che assemblano pro-dotti elettronici sono in ritardo sulla tabella di marcia. Attualmente la Foxconn ha solo un ventesimo dei trecentomila robot an-nunciati da Gou. Inoltre, i robot sono usati “principalmente per operazioni tecniche semplici, ripetitive e monotone come la verniciatura, il collaudo e la saldatura”.

Il modello base

L’automazione porterà molti vantaggi alle grandi aziende che fabbricano un unico prodotto in serie. Non è redditizia nell’as-semblaggio di prodotti complessi o nelle li-nee di produzione personalizzate. Oggi, comunque, il costo dei robot è ancora supe-riore a quello della manodopera. Inoltre, i robot della Foxconn hanno ancora capacità limitate e diicilmente raggiungono un’ele-vata eicienza nel breve periodo. Al contra-rio, non va sottovalutata l’abilità degli ope-rai cinesi nel manifatturiero. “Ho visto nu-merose operazioni fatte dagli operai in un secondo”, racconta Zuo Pengfei. Comun-que i prodotti della Apple, il principale cliente della Foxconn, risultano più adatti all’automazione, perché l’azienda califor-niana sostituisce il modello base una volta all’anno e mantiene un ritmo di produzione costantemente alto.

Gli analisti prevedono che i vantaggi della produzione automatizzata saranno evidenti in pochi anni se si tiene conto del costo crescente della manodopera cinese. Nella fabbrica della Foxconn a Taiyuan lo stipendio di un operaio appena assunto è di 1.800 yuan (circa 220 euro), che con gli stra-ordinari possono arrivare a tremila. Nel 2011, inoltre, la casa madre della Foxconn, la Hon Hai Precision Industry, ha registrato un margine operativo lordo pari al 7,7 per cento del fatturato, contro l’8,14 per cento dell’anno prima. Il costo del lavoro, invece, continua ad aumentare. “Dal 2014, grazie ai progressi della tecnologia, il costo dei ro-bot potrà essere inferiore a quello della for-za lavoro manuale”, dice Zuo Pengfei. E questa tendenza potrebbe accelerare se la Foxconn riuscisse a ottenere dei sussidi go-vernativi per la produzione. u dmt

La Cina vuole mandare

in fabbrica i robot

La carenza di operai e il costo del lavoro in aumento stanno spingendo le aziende cinesi a puntare sull’automazione. Come fa la Foxconn, il colosso che assembla l’iPhone e l’iPad

21 Shiji Jingji Baodao, Cina

IMA

GIN

EC

HIN

A/C

OR

BIS

Shenzhen, Cina. Nello stabilimento della Foxconn

Page 109: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 109

Portogallo

Finanziaria di rigore

Il numero Tito Boeri

30 miliardi

Secondo la ragioneria dello stato, l’approvazione della proposta Damiano per la mo-diica della riforma pensioni-stica costerebbe alle inanze pubbliche trenta miliardi di euro in dieci anni. L’ex mini-stro del welfare Cesare Da-miano propone di ampliare la platea degli esodati e di intro-durre una serie di scalini per consentire ai lavoratori di 58 anni di andare in pensione con 35 anni di contributi ino al 2017.

Sarebbe un clamoroso pas-so indietro, perché la riforma della ministra Elsa Fornero ha

rappresentato una svolta, dan-do un segnale di rigore e at-tenzione all’equità intergene-razionale. Certo, la riforma delle pensioni può essere sicu-ramente migliorata. Bisogna correggere le iniquità intro-dotte dai governi precedenti, come la tassa sulla totalizza-zione di contributi versati ad amministrazioni diverse nel corso della carriera lavorativa. E, soprattutto, bisogna trovare una soluzione per gli esodati e gli esodandi, rendendo la ri-forma più lessibile per quanto riguarda l’età di pensiona-mento. Una buona soluzione

sarebbe l’applicazione di ridu-zioni attuariali pari a circa il 2-3 per cento in meno per ogni anno che precede il raggiungi-mento della nuova età pensio-nabile.

Tornando indietro, invece, trascineremmo il paese in una nuova crisi di credibilità, i-nendo inevitabilmente per ampliare, invece di ridurre, il numero di cittadini che per-dono il posto di lavoro con più di 55 anni di età. Questa è un’emergenza sociale che non può essere certo afrontata ri-portando il paese sull’orlo del baratro. u

NOBEL

Un premioper due Il 15 ottobre è stato assegnato il premio Nobel per l’economia agli statunitensi Lloyd Shapley, docente dell’University of Cali-fornia a Los Angeles, e Alvin Roth, professore dell’Harvard business school. Cinquant’anni fa, scrive il Guardian, Shapley elaborò un metodo per indivi-duare gli accoppiamenti miglio-ri all’interno di un gruppo di persone con idee e inclinazioni diverse. In seguito questo ap-proccio è stato ripreso da Roth, che ha trovato applicazioni pra-tiche alle teorie di Shapley. Roth ha spiegato, per esempio, come abbinare gli studenti alle scuole o i donatori di organi ai pazienti in attesa di trapianto.

AFRICA

Rimessetroppo care Gli strumenti usati degli emi-grati africani per inviare denaro alle loro famiglie a casa sono troppo costosi, scrive Think Africa Press. Il problema sono soprattutto le alte provvigioni imposte dalla Western Union. Per inviare duecento dollari dal Sudafrica allo Zambia ci voglio-no 45 dollari. Per mandare la stessa somma dagli Emirati Ara-bi Uniti al Pakistan bastano cir-ca cinque dollari. La soluzione sarebbe un programma che in-centivi anche in Africa l’uso di strumenti basati su internet e sulla telefonia mobile.

Il 15 ottobre il governo portoghese ha presentato la inanziaria per il 2013. La pressione iscale, spiega Diário de Notícias, dovrebbe aumentare per tutti e raggiungere il 36,8 per cento del pil, il valore più alto dal 1977. Sono previsti anche tagli al welfare – a cominciare dalle pensioni – e al numero dei dipendenti pubblici. L’obiettivo è ridurre il deicit al 4,5 per cento del pil nel 2013, come richiesto dalla troika formata dall’Unione europea, dalla Banca centrale europea e dal Fondo monetario internazionale. u

PA

TR

ICIA

DE

ME

LO

MO

RE

IRA

(AF

P/G

ET

Ty

IMA

GE

S)Lisbona, 13 ottobre 2012. Proteste contro l’austerità

STATI UNITI

Class action contro il Libor Annie Bell Adams, una pensio-nata statunitense che ha perso la casa per non aver pagato il mutuo, ha denunciato dodici grandi banche, avviando la pri-ma class action di proprietari di case legata allo scandalo del Li-bor (la manipolazione del tasso di riferimento su cui si basano molti prodotti inanziari, tra cui una parte dei mutui ipotecari negli Stati Uniti). Secondo la si-gnora, spiega il Financial Ti-mes, gli istituti hanno provoca-to un aumento ingiustiicato del tasso d’interesse del suo mutuo collegato al Libor. Altri centomi-la statunitensi potrebbero tro-varsi nella sua stessa situazione.

IN BREVE

Grecia A luglio il tasso di disoc-cupazione greco ha toccato il li-vello record del 25,1 per cento, contro il 24,8 per cento registra-to a giugno. Tra i giovani ino a 24 anni la quota dei senza lavoro è del 54,2 per cento.

IN BREVE

Germania Berlino ha irmato un accordo con Singapore che prevede un maggiore scambio di informazioni sui cittadini te-deschi che spostano i loro soldi nella città-stato asiatica. Singa-pore aveva annunciato misure contro le banche della città che facilitano l’evasione iscale.

Page 110: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Annunci

110 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

Page 111: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

Annunci

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 111

Page 112: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

112 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

StrisceC

an

em

uc

ca

Ma

kkox

, Ita

lia

Al

mu

se

o

Sa

sch

a H

omm

er, G

erm

an

iaN

ee

t K

idz

Zer

oca

lca

re, I

tali

a

INSOMMA,COME SI FA A USCIRE

DAL MUSEO?

AH AH, MOLTODIVERTENTE. MAI SENTITO

PARLARE DI GRAVITÀ? DI FORZA DIATTRAZIONE TERRESTRE? EH?

QUINDI IO RESTO QUI!QUALCUNO DOVRÀ PUR RISPETTARE LE LEGGI

DI NATURA.

EHIASPETTATEMI!

SEGUITEMI... ... IN VOLO.

AH, BE’!

Air

u

Sa

tom

i Ya

i, G

iapp

one

La s

celt

a

Sì,

sì!

Gio

chia

mo

a

pa

lla?

Allo

ra s

cegli

fra

que

ste

tre

.

Qua

le

vuo

i?A

iru

è in

cris

i.

Page 113: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

L’oroscopo

Rob Brezsny

inte

rna

zion

ale

.it/

oros

copo

ILLU

STR

AZ

ION

I DI F

RA

NC

ESC

A G

HE

RM

AN

DI

Internazionale 971 | 19 ottobre 2012 113

potrebbe darti un consiglio enig-matico ma utile nel bel mezzo del-la notte. Un sogno accantonato che pensavi perduto per sempre potrebbe risorgere dal limbo per soddisfare un tuo desiderio. Qual-cuno potrebbe restituirti un favore che gli hai fatto molto tempo fa. Sei pronto a lasciare che la storia ti ripaghi con il suo stile unico?

VERGINE

Per te questa è la Settimana degli Squali. In questa peri-

colosa navigazione, Vergine, do-vresti guardarti da tutti gli squali, soprattutto da quelli che sembrano esseri umani. Non metterti sulla loro strada e non sottovalutarli. Tuttavia, dovresti anche cercare di conoscerne meglio alcuni. Potreb-bero insegnarti qualcosa su come ottenere quello che vuoi. Natural-mente, non sarai mai fredda e spietata come loro, ma aggiungere un po’ di pensieri da squalo al tuo repertorio potrebbe dare una bella sferzata alle tue ambizioni.

SCORPIONE

Da un momento all’altro potresti sognare di trovarti

nudo in pubblico, durante una le-zione o una riunione di lavoro. Spero proprio che succederà, per-ché penso che sarebbe un ottimo presagio. Signiicherebbe che sei pronto a liberarti dei travestimenti che inora ti hanno reso diicile reinventarti. Chi è questo Nuovo Te? Metterti a nudo in sogno ti aiu-terà a vedere alcune importanti ve-rità della tua vita da sveglio.

SAGITTARIO

Mentre attraversi una gran-de distesa d’acqua alla ri-

cerca di tesori sconosciuti, naviga alla luce delle nuvole. Questo è il tuo oracolo della settimana, Sagit-tario. Cosa signiica? La fatica che farai per interpretarlo è essenziale per attivare le sue potenzialità, quindi non voglio dirti troppo. Ma devo aggiungere tre cose per aiu-tarti nella tua ricerca. 1) Preparati ad andare molto lontano per sco-prire un segreto che non sai nean-che di cercare. 2) Considera la pos-sibilità di aver iducia in un obietti-vo che non capisci ancora bene. 3) Aidati alle ombre e ai rilessi per

ricavare informazioni che non puoi avere direttamente dall’og-getto che proietta le ombre o che viene rilesso.

CAPRICORNO

Tutti hanno un qualche po-tere. Qual è il tuo? Penso che

nei prossimi giorni si veriicherà una crisi che ti ofrirà la possibilità di usarlo in modo diverso. Forse sarai invitato a esercitare una mag-giore autorità o inluenza. Forse il diritto a usare quel tuo particolare potere sarà messo in discussione e ti sideranno a esprimerlo in modo più completo e diretto, oppure a ri-nunciarci. Ti consiglio di sofer-marti a visualizzare con precisione il potere che ti piacerebbe avere.

ACQUARIO

“Caro Rob, amo leggere i tuoi oroscopi. Ho l’impres-

sione che tu sia un amico che non ho mai incontrato. Quando cerco di immaginare come sei, ti vedo sempre basso, grassoccio, calvo e con i bai biondo ramato. Ho ragione?”.–Acquario Curioso

Caro Curioso, hai fatto bene a cercare un riscontro. Per voi Ac-quari è un ottimo momento per ve-riicare se quello che immaginate corrisponde al mondo reale. Per ri-spondere alla tua domanda, in re-altà sono alto e magro, non porto i bai e ho una lunga chioma di ca-pelli color argento.

PESCI

Ho trovato il messaggio giu-sto per stabilire il tono delle

tue prossime settimane. L’ho preso in prestito dallo scrittore H.P. Lo-vecraft, e coglie perfettamente il senso dei tuoi presagi astrali: “Il mio piacere è la meraviglia, l’ine-splorato, l’inaspettato, ciò che è nascosto e quell’alcunché d’immu-tabile che si cela dietro l’apparente mutevolezza delle cose. Rintrac-ciare quel ch’è remoto nel vicino; l’eterno nell’eimero; il passato nel presente; l’ininito nel inito; queste sono le fonti del mio piace-re e di ciò che io chiamo bellezza”. E adesso, Pesci, mettiti alla ricer-ca, accogli con insolita grazia tutte le misteriose meraviglie in cui ti imbatterai, e tutti gli incontri ina-spettati.

BILANCIA

Immagina di essere in partenza per una grande avven-tura con persone interessanti, ma di essere distratta dal ricordo di un insulto insigniicante che hai ricevuto

all’inizio della giornata. Pensa di essere in intimità con un amante che ti fa perdere il controllo, e a un certo punto decidi di interrompere il piacere per rispondere a una telefonata. Imma-gina di moderare i toni e di trattenerti per presunta buona edu-cazione, anche se il tuo istinto ti porterebbe a impennarti, li-brarti nell’aria e straripare. E alla ine, Bilancia, cerca di capire che mostrandoti le parodie delle tue attuali inclinazioni spero di costringerti a fare in modo che non succeda nulla del genere.

ARIETE

Quando nel 1532 il conqui-statore spagnolo Francisco

Pizarro mise a ferro e fuoco il Perù, i suoi soldati trovarono delle pietre verdi. Erano smeraldi? Un prete che li accompagnava disse che c’era un solo modo per capire se si trattava di gemme preziose o di semplici vetri colorati: colpirle con un martello per veriicarne la du-rezza. Così molti veri smeraldi fu-rono ridotti in briciole. Impara da questo errore, Ariete. Cerca di ri-conoscere i tesori per quello che sono e non sottoporli a prove in-sensate che potrebbero impedirti di conoscere la loro vera natura.

TORO

Su Reddit un utente ha po-stato una richiesta a tutta la

comunità: “C’è qualcuno che po-trebbe aiutarmi a ricreare l’odore dei Pirati dei Caraibi a Disney-land?”. Ha detto di adorare quel profumo. È un misto di terra ba-gnata, legno marcio e polvere da sparo con sfumature muschiate e un pizzico di cloro, di una fre-schezza stuzzicante. Se fosse riu-scito a riprodurre quella fragranza a casa sua, ha assicurato, avrebbe lavorato sempre con la massima eicienza. Perché non segui il suo esempio, Toro? È un buon mo-mento per individuare tutti gli in-gredienti che ti servirebbero per fare in modo che il tuo ambiente ti ispiri al massimo.

GEMELLI

Se mi chiedessi di essere il tuo consulente personale, ti

prescriverei erbe medicinali e inte-gratori per raforzare il tuo sistema immunitario. Insisterei per farti

mangiare solo cibo sano e per farti dormire almeno otto ore per notte. Potrei perino consigliarti di cele-brare un rituale in cui costruisci in-torno a te un grande cerchio di ilo viola e poi compi una serie di azio-ni giocose per esaltare la tua liber-tà, come danzare freneticamente e cantare “l’amore è il mio creato-re”. Inine, Gemelli, ti inviterei a usare la tua sfrenata fantasia insie-me alla tua disciplinata intelligen-za per pianiicare il tuo benessere a lungo termine.

CANCRO

“Caro Astrologo, oggi mi so-no imbattuto per caso nel

tuo sito e sono rimasto inchiodato. Davi troppe risposte alle domande che mi ponevo da anni. Ho avuto la sensazione che mi stessi curando da problemi che non sapevo nean-che di avere. Sono passate ore pri-ma che riuscissi a staccarmi e a uscire da quel vortice. Come è po-tuto succedere?”.–Sconvolto

Caro Sconvolto, sono nato anch’io sotto il segno del Cancro, e si dà il caso che in questo periodo la gente della nostra tribù emani un’aura intrigante e misteriosa. Siamo al culmine della nostra ca-pacità di attrarre e di sedurre. Mol-ti di noi stanno usando questo po-tere a in di bene, ma il nostro enigmatico fascino rimane ancora leggermente inquietante.

LEONE

Il passato torna da te por-tando doni, Leone. Ti con-

siglio di renderti disponibile ad ac-cogliere le sue benedizioni, che potrebbero arrivarti in modo ina-spettato. Per esempio, lo spirito di una persona amata che non c’è più

COMPITI PER TUTTI

Racconta di quella volta che lo Spirito è sceso sulla terra e ha cambiato la tua vita

con un abile colpo di magia

Page 114: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

114 Internazionale 971 | 19 ottobre 2012

L’ultimam

Ix &

re

mIx

, l’h

eb

do

, sv

Izz

er

ag

ab

le

, th

e g

lo

be

an

d m

aIl

, ca

na

da

el

ro

to

, el

pa

ís, s

pag

na

ba

rso

tt

I

“avremmo preferito il nobel per l’economia”.

“libertà di espressione! ma senza dover pensare!”.

programma della giornata mondiale dell’onu dedicata alla fame nel mondo. “siamo un po’ in ritardo. passeremo

immediatamente dalla pausa cafè alla merenda”.

“pensa solo a essere rilassato”.

“vedrai, questo sì che causerà un bel po’ di problemi”.

Le regole Autunno1 È la stagione migliore per mettersi a dieta, iscriversi in palestra e prendere altri impegni che non rispetterai. 2 adeguati ai colori della natura: vestiti solo di arancione, marrone e verde scuro. 3 se sei ancora abbronzato vuol dire che devi lavarti più spesso. 4 Il prezzo delle castagne arrosto aumenta più velocemente di quello della benzina. 5 non importa se ci sono ancora 27 gradi: dal primo ottobre la tv si guarda avvolti nella coperta. [email protected]

ch

ap

pat

te

, le

te

mp

s, s

vIz

ze

ra

Page 115: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)

E’ ARRIVATA LA COMODITÀ A TACCO ALTO

SORRIDETE

ecco.com/sorridere

SCULPTURED 65

PROVATELA PER CREDERCI

Page 116: Internazionale No 971 (19-25 Ottobre 2012)