Internazionale N.1035!24!30 Gennaio 2014

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VISTI DAGLI ALTRI Renzi stringe i tempi AFRICA Fotografi in guerra ECONOMIA Parcheggi per soli ricchi PI, SPED IN AP, DL ART DCB VR ESTERO: DE BE CH internazionale.it OGNI SETTIMANA IL MEGLIO DEI GIORNALI DI TUTTO IL MONDO GENN N. CARTA WEB TABLET SMARTPHONE Manuel Castells James Suro wiecki • Rebecca So lnit • Al an Rusbridger Riciclaggio, evasione fiscale, poche regole. Il papa vuole chiudere una pagina oscura della storia della chiesa. L’inchiesta del Financial Times I peccati della banca vaticana

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VISTI DAGLI ALTRI

Renzi stringei tempiAFRICA

Fotogra� in guerraECONOMIA

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OGNI SETTIMANA IL MEGLIO DEI GIOR NALI DI TUTTO IL MONDO GENN • N. •

CARTA • WEB • TABLET • SMARTPHONE

Manuel Castells • James Surowiecki • Rebecca Solnit • Alan Rusbridger

Riciclaggio, evasione � scale, poche regole. Il papa vuole chiudere una pagina oscura della

storia della chiesa. L’inchiesta del Financial Times

I peccatidella banca

vaticana

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Internazionale 1035 | 24 gennaio 2014 3

Sommario

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La settimana

24/30 gennaio 2014 • Numero 1035 • Anno 21

Logistica

ucrAiNA14 Kiev verso

la dittatura Süddeutsche

Zeitung

siriA17 Poche speranze

per la pace Orient XXI

Americhe20 Brasile Carta Capital

AsiA e pAcifico22 Corea del Sud Hankyoreh 21

visti dAgli Altri24 Matteo Renzi Financial Times

bielorussiA40 Opposizione

virtuale Res Publica Nowa

AfricA44 Fotograi

in guerra Daily Maverick

ecoNomiA50 Parcheggi

per soli ricchi Die Zeit

AtlANte54 Città Cartografare

il presente

portfolio56 Bangkok

paradiso perduto

Lek Kiatsirikajorn

ritrAtti62 Sam Rainsy Bangkok Post

viAggi64 Trekking

con Schubert The Guardian

grAphic jourNAlism68 Belo Horizonte Peter Kuper

ArchitetturA70 Rovine

non allineate Novosti

pop82 La giustizia

ha radici antiche Rebecca Solnit

86 Diidate degli scrittori tecnofobi Juliet Waters scieNzA

88 I nomi degli odori

Science

ecoNomiA e lAvoro

92 Il settore tessile punta sull’Etiopia Deutsche Welle

cultura72 Cinema,

libri, musica, fotograia, arte

Le opinioni

19 Amira Hass

28 James Surowiecki

30 Manuel Castells

74 Gofredo Foi

76 Giuliano Milani

78 Pier Andrea Canei

87 Tullio De Mauro

93 Tito Boeri

le rubriche10 Posta

11 Editoriali

96 Strisce

97 L’oroscopo

98 L’ultima

iN copertiNA

I peccati della banca vaticanaRiciclaggio, evasione iscale, poche regole. Il papa vuole chiudere una pagina oscura della storia della chiesa. L’articolo del Financial Times (p. 32) e del New York Times (p. 38). Illustrazione di Noma Bar.

Renzi stringei tempi

Fotogra� in guerra

Parcheggiper soli ricchi

internazionale.it

Manuel Castells • James Surowiecki • Rebecca Solnit • Alan Rusbridger

Riciclaggio, evasione i scale, poche regole. Il papa vuole chiudere una pagina oscura della

storia della chiesa. L’inchiesta del Financial Times

I peccatidella banca

vaticana

Hankyoreh 21 È un settimanale sudcoreano di attualità. L’articolo pubblicato a pagina 22 è uscito il 30 ottobre 2013. Orient XXI È un sito francese dedicato al Medio Oriente.

L’articolo a pagina 17 è uscito il 21 gennaio 2014 con il titolo Genève II, envers et contre tout (orientxxi.info). Internazionale pubblica in esclusiva per l’Italia gli articoli dell’Economist.

le principali fonti di questo numero

“A volte causa ed efetto distano secoli tra loro”rebeccA solNit, pAgiNA

Articoli in formato mp3 per gli abbonati

A dicembre Amazon ha depositato un brevetto per un sistema di consegne anticipate: la spedizione del pacco comincia prima ancora che il cliente paghi. Qualche tempo fa aveva fatto notizia un’altra idea di Amazon: sperimentare le consegne con i droni. I sistemi, i tempi e i costi delle consegne (cioè tutto quello che va sotto il nome di “logistica”) sono decisivi. Per aziende come Amazon sono importanti perché velocità e risparmio fanno ancora la diferenza tra andare nella libreria sotto casa o comprare un libro online.

Ma la logistica è fondamentale anche per tutte le altre grandi aziende: si può delocalizzare la produzione all’ininito, ma poi i prodotti devono poter tornare in qualche modo. Che trasportino i mobili di Ikea o i pacchi per Dhl, il latte per Granarolo o la frutta per i supermercati Carrefour, i lavoratori di questo settore hanno un unico compito: consegnare le merci nel modo più rapido ed economico possibile. Sono l’ultimo anello di una lunga catena. In Italia si tratta per lo più di lavoratori stranieri spesso sfruttati da società e cooperative colluse con la maia, costretti a turni lunghissimi, straordinari obbligati e non pagati, decurtazioni arbitrarie di stipendi già assai magri.

In questo settore, se i lavoratori decidono di fermarsi, tutto il sistema va in tilt. Di loro, nessuno può fare a meno. Gli scioperi dell’anno scorso hanno avuto un grande successo, in termini di partecipazione, nel Norditalia. E il 14 gennaio l’aggressione a Milano di Fabio Zerbini, un sindacalista molto attivo nella logistica, indica che scioperi e lotte stanno toccando nervi scoperti. Hanno scritto i Wu Ming su Internazionale, qualche tempo fa: “Ecco perché la loro lotta riguarda tutti noi: perché la soferenza sociale è la questione centrale da afrontare se si hanno ancora a cuore le sorti collettive. I lavoratori del settore logistico hanno saputo superare divisioni etniche e frammentazioni e hanno aperto così una partita cruciale, sottolineando ancora una volta che la divisione reale che taglia la società non ha a che fare con etnie o culture ma è la dialettica tra sfruttati e sfruttatori, tra poveri e ricchi”. u

Giovanni De Mauro

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Immagini

Libertà sotto attaccoKiev, Ucraina19 gennaio 2014

Vitalij Kličko (al centro), leader dell’op-posizione ucraina ed ex campione mon-diale di pugilato, mentre cerca di ferma-re gli scontri tra la polizia e i manifestan-ti nel centro di Kiev. Il 19 gennaio mi-gliaia di persone sono scese in piazza dopo che il governo ha approvato un provvedimento che limita la libertà d’espressione e il diritto di manifestare. Il 22 gennaio due manifestanti sono sta-ti uccisi da colpi d’arma da fuoco. I feriti sarebbero centinaia. Foto di Efrem Lu-katsky (Ap/Lapresse)

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Immagini

Sala d’aspettoShijiazhuang, Cina20 gennaio 2014

Lu Yueting, un ex operaio di un impian-to dell’industria alimentare, prima dell’inizio dell’udienza al termine della quale è stato condannato all’ergastolo. Nel 2008 Lu mise del veleno in alcune confezioni di ravioli surgelati destinate all’esportazione in Giappone. Dieci per-sone inirono in ospedale, i prodotti ci-nesi sparirono temporaneamente dagli scafali dei supermercati giapponesi e milioni di confezioni di ravioli furono ritirate. L’incidente causò una crisi nei rapporti tra Tokyo e Pechino pochi mesi prima delle olimpiadi. Foto di Ding Lixin (Ap/Lapresse)

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Immagini

Tutti a scuolaNifasha, Sudan15 gennaio 2014

Un gruppo di ragazzi va a scuola in una capanna nel campo profughi di Nifasha, nel Darfur settentrionale, in Sudan. Nel campo ci sono solo venti insegnanti vo-lontari per circa 1.700 studenti. Nifasha accoglie le persone fuggite dagli scontri tra le forze del governo di Karthoum e alcuni gruppi ribelli. Foto di Albert Gon-zalez Farran (Anadolu Agency/Getty Images)

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10 Internazionale 1035 | 24 gennaio 2014

[email protected]

Un modello diverso u Vorrei solo capire. A volte leggendovi ho l’impressione di aver a che fare con persone che vogliono un modello diverso di società, che sono stanche delle prepotenze del capitalismo. Poi, nel numero 1034, mi trovo tre articoli: nel primo si imputa la responsabilità ispiratrice di certi modelli capitalistici agli autonomi dei centri sociali, nel secondo si lapida con due cifre l’esperienza zapatista in Chia-pas e per inire il solito artico-letto contro i cattivi bolivariani al potere in Venezuela. Tre esperienze che, pur negli enor-mi errori, hanno cercato (e lo fanno ancora) di trovare una via diversa di sviluppo. Vladimir

Un ponte dalla Germania u Mi chiamo Elena e ho 19 an-ni. Da ottobre del 2013 vivo in Germania, nel Baden-Würt-temberg, dove sto facendo un anno di volontariato europeo nel più grande centro di accet-tazione e smistamento dei ri-fugiati e richiedenti asilo (in

Italia sono i Cara). Tutti i gior-ni conosco persone che hanno fatto la loro prima richiesta d’asilo in Italia sperando di trovare lì la nuova vita che cer-cavano. E invece arrivano in Germania mostrando foto dei posti dove hanno vissuto e supplicano di non essere rispe-diti nel nostro paese. A volte, quando dico che sono italiana, mi vergogno. Un giorno vorrei poter diventare un ponte che unisce l’Italia alla Germania, un ponte attraverso cui risol-vere alcuni dei nostri problemi sulle condizioni dei richieden-ti asilo con il supporto e l’esempio del sistema tedesco. Vorrei dire a testa alta che so-no italiana. E vorrei cammina-re sul ponte dalla Germania all’Italia e poi fermarmi nel mio paese, in cui sono nata e cresciuta, ma che ora non mi rappresenta e a cui ora non ap-partengo più. Elena Giustetto

Vent’anni fa u Vent’anni fa, di questi tem-pi, sfogliavo per la prima volta Internazionale. Era molto più scarno di pagine ma sempre

molto denso di contenuto. Mi sono innamorata prima di questa rivista che dell’uomo della mia vita, mio marito, che oggi mi ha regalato l’abbona-mento al mio primo amore! Claudia Scorziello

Errata corrige

u Nel numero 1028 la cartoli-na dalla Corea del Sud è di Ju-nik Shin, nato nel 1981 a Bu-san, in Corea del Sud. Vive tra la Francia e Seoul. Nel numero 1034, a pagina 72 la sigla Ctp indica i Centri territoriali per-manenti; a pagina 74 il poeta argentino Juan Gelman non ri-trova la nuora María Claudia, ma la nipote María Macarena, nata in prigionia durante la dittatura.

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Con un iglio di undici anni e una di nove, l’arrivo dell’adolescenza ci mette inquietudine. Dobbiamo prepararci al peggio? –Mauro

“Sto scrivendo un libro sull’in-venzione dell’adolescenza”. Avevo chiesto a David, scritto-re parigino, a cosa stesse lavo-rando, e la sua risposta mi ha spiazzato. In che senso “inven-zione”? “La nozione di adole-scenza è piuttosto recente”, ha continuato. “Risale alla ine degli anni quaranta, quando il mercato statunitense si è ac-

corto che il benessere stava fa-cendo emergere una nuova fetta di persone a cui vendere prodotti e servizi speciici”. Mi ha spiegato che prima di allora il passaggio da bambino ad adulto era più luido, senza i comportamenti, le ribellioni e i rituali a cui siamo abituati og-gi. Un rapido giro su internet lo conferma: “In un articolo del 1944”, si legge sul sito di Life, “la nostra rivista ha introdotto i suoi lettori a una nuova e afa-scinante specie di americani: i teenager”. Ormai il danno è fat-to: abbiamo inventato gli ado-lescenti e dobbiamo tenerceli.

Quello che possiamo fare è non intrappolarli in cliché tipo “i sedicenni sono tutti ribelli e incazzati con il mondo”. A vol-te lo sono, a volte no. E a volte lo sono ma non lo fanno vede-re. Non ci sono certezze, nean-che sul fatto che i igli debbano per forza ribellarsi. E se poi vorranno proprio farlo, speria-mo che non si ribellino solo contro di noi ma anche contro il mercato che li ha inventati.

Claudio Rossi Marcelli è un giornalista di Internaziona-le. Risponde all’indirizzo [email protected]

Dear Daddy

Chi ha inventato gli adolescenti

Mutevoliaccordi

Le correzioni

u “Nella Terra dei fuochi per ventidue anni sono stati scari-cati illegalmente dieci milioni di tonnellate di riiuti tossici” (Internazionale 1034, pagina 26). “Sono stati scaricati” o “sono state scaricate”? La scorsa settimana intorno a questo dubbio è nato un picco-lo dibattito tra i redattori. Ave-vano tutti ragione, solo che al-cuni volevano scaricare i dieci milioni, altri le tonnellate e al-tri ancora i riiuti tossici. La so-stanza non cambia, la concor-danza invece sì. Quando le co-se si complicano, si tira in ballo la concordanza a senso: conta più il signiicato che le norme grammaticali. Pensate ai nomi collettivi: secondo voi voglio-no il plurale o il singolare? “C’era un centinaio di perso-ne” (concordanza grammati-cale) o “c’erano un centinaio di persone” (concordanza a sen-so)? Diicile dire chi ha ragio-ne. In fondo dipende da come uno vede il mondo. È anche per questo che le persone ini-scono a discutere di grammati-ca. L’anno scorso l’Atac, l’azienda dei trasporti di Ro-ma, ha lanciato una campagna contro gli evasori con dei ma-nifesti in cui un personaggio della serie tv I Cesaroni diceva: “E pensare che ci sono ancora della gente che non pagano il biglietto. Che amarezza!”. I ro-mani si sono divisi. Alcuni ci hanno visto una battuta, altri un errore intollerabile.

Giulia Zoli è una giornalista di Internazionale. L’email di questa rubrica è [email protected]

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Internazionale 1035 | 24 gennaio 2014 11

Editoriali

Dal giugno del 2013, in base ai documenti difusi dall’ex consulente della National security agency (Nsa) Edward Snowden, gli Stati Uniti sono stati accusati di intromettersi nelle vite dei cittadini di tutto il mondo e nei segreti commerciali e diplo-matici di paesi in molti casi alleati. La democrazia americana ha risposto alle preoccupazioni della comunità internazionale con le parole del presi-dente Barack Obama. Il programma di sorve-glianza mondiale messo in piedi dall’Nsa aveva inito per funzionare senza le necessarie limita-zioni, ha ammesso il presidente, che non ha però riabilitato Snowden, senza il quale il dibattito tra sicurezza e libertà non ci sarebbe stato.

Come risposta alle rivelazioni di Snowden su questi sistemi di sorveglianza senza controllo, Obama ha fatto appello all’istituzione giudiziaria – garante dello stato di diritto – per limitare gli ec-cessi della raccolta di massa e indiscriminata di dati personali. Ha inoltre proposto di creare dei iltri istituzionali tra l’Nsa e i giganteschi archivi di informazioni digitali raccolte in tutto il mondo all’insaputa di individui, stati o imprese. Basterà questo per definire queste misure, come dice Obama, una “nuova strategia”? No. La ilosoia della raccolta di informazioni negli Stati Uniti non è stata messa in discussione. Mantiene il principio, valido dagli attentati dell’11 settembre

2001, per cui è necessario disporre di banche dati in grado di conservare cento anni di internet per poter sapere tutto del nemico di oggi e soprattutto di domani. Alcuni paesi vogliono controllare le loro frontiere reali. Gli Stati Uniti vogliono sorve-gliare tutto ciò che appartiene alla sfera digitale. La lotta contro il terrorismo è la loro giustiicazio-ne. Ma i documenti dell’Nsa hanno dimostrato che questi strumenti in realtà sono utili soprattut-to alla guerra economica, diplomatica e politica. La posta in gioco per gli Stati Uniti non è tanto la sicurezza quanto la loro inluenza nel mondo.

È per questo che il discorso di Obama, anche se ha ammesso la legittimità del dibattito, siora solo la supericie dei problemi sollevati dai docu-menti di Snowden. I telefoni o le email dei suoi colleghi stranieri non saranno più ascoltati o in-tercettati. Ma gli Stati Uniti, aggiunge, non si fa-ranno alcuno scrupolo a cercare di conoscere le intenzioni dei governi. Obama ci ha tenuto in par-ticolar modo a rassicurare i leader dei paesi allea-ti sul fatto che non saranno più personalmente spiati, e a garantire agli americani il rispetto dei loro diritti. Resta aperto un interrogativo essen-ziale, cioè se esisterà nel mondo un doppio stan-dard di libertà: uno in vigore negli Stati Uniti, che merita di essere protetto, e un altro nel resto del mondo, che si potrà allegramente violare. u gim

Obama troppo timido

Razzisti d’Europa

Le Monde, Francia

El País, Spagna

Non è un caso se negli ultimi mesi in vari paesi europei imperversano attacchi razzisti e xenofo-bi. Le insopportabili molestie della Lega Nord nei confronti della ministra italiana dell’integrazione Cécile Kyenge (un’oculista nata in Congo, sposa-ta con un italiano e madre di due igli), hanno a che fare con le idee razziste di quel partito e con la sua opposizione al progetto di dare la cittadinan-za ai igli degli immigrati nati in Italia, in base allo ius soli. Ma fanno anche parte di una strategia più ampia, condivisa dalle forze di estrema destra di vari paesi, per ottenere visibilità in vista delle ele-zioni europee.

La cosa più grave è che questi gesti provocano reazioni modeste. Il vicepresidente del senato ha avuto il coraggio di paragonare Kyenge a un oran-go e un europarlamentare si è permesso di dire “Meglio come colf che come ministro”, ma non ci sono state conseguenze. È un pericoloso messag-

gio di tolleranza verso questi atteggiamenti. Rea-zioni tiepide hanno suscitato anche i continui in-sulti razzisti alla ministra francese della giustizia Christiane Taubira, nata nella Guyana francese.

Trattare questi problemi come aneddoti è un grave errore. Banalizzare le espressioni di razzi-smo contribuisce a legittimare l’odio contro il di-verso. Alcune forze populiste stanno ricorrendo alla strategia di creare nemici interni ed esterni contro cui dirigere le preoccupazioni della gente per una società sempre più ingiusta. Molti dei partiti che usano questa tattica stanno concertan-do un “assalto alle istituzioni” per le prossime elezioni europee, con l’obiettivo di combattere dall’interno il progetto di integrazione europea. Per difendere l’Unione bisogna mettere un freno a certi atteggiamenti, che vogliono distruggere i valori di uguaglianza, giustizia e solidarietà su cui si basa il progetto europeo. u bt

“Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio,di quante se ne sognano nella vostra ilosoia”William Shakespeare, Amleto Direttore Giovanni De MauroVicedirettori Elena Boille, Chiara Nielsen, Alberto Notarbartolo, Jacopo ZanchiniComitato di direzione Giovanna Chioini (copy editor), Stefania Mascetti (Internazionale.it), Martina Recchiuti (Internazionale.it), Pierfrancesco Romano (copy editor)In redazione Giovanni Ansaldo, Annalisa Camilli, Carlo Ciurlo (viaggi, visti dagli altri), Giovanna D’Ascenzi, Camilla Desideri (America Latina), Simon Dunaway (attualità), Mélissa Jollivet (photo editor), Alessandro Lubello (economia), Alessio Marchionna (inchieste), Maysa Moroni (photo editor), Andrea Pipino (Europa), Francesca Sibani (Africa e Medio oriente), Junko Terao (Asia e Paciico), Piero Zardo (cultura), Giulia Zoli (Stati Uniti) Impaginazione Pasquale Cavorsi, Valeria Quadri, Marta Russo Segreteria Teresa Censini, Monica Paolucci Correzione di bozze Sara Esposito, Lulli Bertini Traduzioni I traduttori sono indicati dalla sigla alla ine degli articoli. Marina Astrologo, Giuseppina Cavallo, Matteo Colombo, Stefania De Franco, Giusy Muzzopappa, Floriana Pagano, Lara Pollero, Francesca Rossetti, Fabrizio Saulini, Andrea Sparacino, Bruna Tortorella, Nicola Vincenzoni Disegni Anna Keen. I ritratti dei columnist sono di Scott Menchin Progetto graico Mark Porter Hanno collaborato Gian Paolo Accardo, Luca Bacchini, Francesco Boille, Gabriele Crescente, Sergio Fant, Andrea Ferrario, Anna Franchin, Antonio Frate, Anita Joshi, Andrea Pira, Fabio Pusterla, Alessia Salvitti, Marc Saghié, Andreana Saint Amour, Angelo Sellitto, Francesca Spinelli, Laura Tonon, Pierre Vanrie, Guido VitielloInternazionale a Ferrara Luisa CifolilliEditore Internazionale spa Consiglio di amministrazione Brunetto Tini (presidente), Giuseppe Cornetto Bourlot (vicepresidente), Alessandro Spaventa (amministratore delegato), Antonio Abete, Emanuele Bevilacqua, Giovanni De Mauro, Giovanni Lo StortoSede legale via Prenestina 685, 00155 Roma Produzione e difusione Francisco Vilalta Amministrazione Tommasa Palumbo, Arianna CastelliConcessionaria esclusiva per la pubblicità Agenzia del marketing editorialeTel. 06 6953 9313, 06 6953 9312 [email protected] Download Pubblicità srlConcessionaria esclusiva per la pubblicità moda e lifestyle Milano Fashion Media srlStampa Elcograf spa, via Mondadori 15, 37131 Verona Distribuzione Press Di, Segrate (Mi)Copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Signiica che può essere riprodotto a patto di citare Internazionale, di non usarlo per ini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Per questioni di diritti non possiamo applicare questa licenza agli articoli che compriamo dai giornali stranieri. Info: [email protected]

Registrazione tribunale di Roma n. 433 del 4 ottobre 1993Direttore responsabile Giovanni De MauroChiuso in redazione alle 20 di mercoledì 22 gennaio 2014

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IL NUOVO NISSAN QASHQAI

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Il giorno è arrivato. Nasce la nuova generazione di crossover.Tecnologia all’avanguardia e stile unico per vivere un’esperienza senza precedenti. Il nuovo Nissan Qashqai parcheggia per te, frena per te e con NissanConnect ti tiene in contatto con gli amici.

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VALORI MASSIMI CICLO COMBINATO: CONSUMO 5,6 l/100 km. EMISSIONI CO2 129 g/km.

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Ucraina

La rivoluzione paciica in Ucraina è morta. Era cominciata come una celebrazione del coraggio civile e dell’ottimismo. Grazie

alle proteste, il mondo aveva visto un’Ucrai-na che ino a quel momento – tra le conti-nue notizie sulla politicizzazione della giu-stizia e sui brogli elettorali, sulla corruzione dei funzionari pubblici e sulle ruberie degli oligarchi – si era manifestata solo di rado: un paese maturo, con una società civile ben organizzata, un’opposizione vicina ai citta-dini, e mezzi d’informazione indipendenti e combattivi.

Era questa l’Ucraina che avevano sem-

pre desiderato i igli della rivoluzione aran-cione del 2004. Ma forse era inevitabile che tutto andasse a inire come sembra: i manifestanti hanno perso gradualmente forza e le forme di protesta, diventate sem-pre più eclettiche e intellettuali, hanno smesso di trascinare le masse.

Il regime di Janukovič ha aspettato che il livello d’attenzione e l’euforia si attenuas-sero nei giorni lunghi e freddi delle festività di ine anno e alla ine ha colpito con le sue leggi repressive, approvate il 16 gennaio ed entrate in vigore il 22. Le nuove norme tra-sformano in reato qualunque tentativo di protestare contro il governo, anche in mo-do paciico, e forniscono alla polizia e ai giudici ogni strumento possibile per usare la violenza, rendendo possibile il ricorso alle armi da fuoco e a pene detentive draco-niane contro chiunque intralci il loro cam-mino.

Oggi in Ucraina molti ipotizzano che il regime non avesse previsto l’escalation delle proteste degli ultimi giorni e che con-

14 Internazionale 1035 | 24 gennaio 2014

Kiev versola dittaturaCathrin Kahlweit, Süddeutsche Zeitung, Germania

Il presidente Janukovič ha scelto la via della repressione e l’opposizione europeista ha perso il controllo della piazza. A Kiev la svolta democraticaè sempre più lontana

Le opinioni

“L a crisi ucraina si sta av-vicinando a grandi passi alla fase inale”, scrive il

giornalista polacco di origine ucrai-na Mirosław Czech sul quotidiano di Varsavia Gazeta Wyborcza. “Il presidente Viktor Janukovič si com-porta ormai come un dittatore e usa tutti gli strumenti del potere per sof-focare le proteste che durano da me-si”. Secondo Czech, “è il momento più critico della storia recente del paese. La società non era mai stata così polarizzata. Giorno dopo giorno sono sempre di più le persone dispo-ste a tutto per rovesciare Janukovič. Se non si arriverà a un accordo, e se quest’accordo non avrà efetti rapidi e concreti, nessuno sarà in grado di tener sotto controllo la situazione. E la protesta sofocata oggi potrà rina-scere domani in una rivolta furiosa che spazzerà via tutto e tutti”. “Il ri-schio”, scrive la Frankfurter All-gemeine Zeitung, “è uno scenario simile a quello bielorusso del 2010”, quando a causa delle brutali repres-sioni di Aliaksandr Lukašenko l’Unione europea “non volle più trattare con Minsk, spingendo la Bielorussia a legarsi al Cremlino”.

“Nessuno, né l’Europa e nem-meno la Russia, sa come afrontare la crisi di questo grande paese euro-peo che sta sprofondando nel caos”, scrive Fëdor Lukjanov, sul sito russo Eženedelnij Žurnal. Secondo il politologo russo, l’Ucraina rischia seriamente di disgregarsi: “Per ora non ci sono forze dichiaratamente a favore di una divisione del paese. Ma il fatto che oggi non esistano, non vuole dire che domani non po-tranno nascere. Del resto dallo scor-so novembre questa possibilità, ino ad allora tabù, ha cominciato a emergere nelle discussioni degli in-tellettuali. Non era mai successo prima, nemmeno nel 2004”. u

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Le proteste a Kiev, 21 gennaio 2014

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tasse invece su un progressivo affievoli-mento delle manifestazioni. Ma credere a questa analisi sarebbe più che ingenuo. Un gruppo sempre più numeroso di manife-stanti, che non si erano mai sentiti rappre-sentati dai partiti presenti nel movimento Euromaidan, ha visto nei provvedimenti voluti da Janukovič un invito a scendere in piazza e reagire. Che siano state le leggi vo-lute dal governo e approvate dal parlamen-to a innescare la violenza di alcuni manife-stanti o che siano stati questi ultimi a pro-vocare la polizia ormai non conta più. Quello che conta, e che purtroppo è succes-so, lo aveva previsto Vitalij Kličko, uno dei leader dell’opposizione: potrebbero esserci dei morti. I politici democratici e i gruppi di militanti europeisti e paciici scesi in piazza a Kiev hanno perso il controllo della situa-zione, e qualche tentativo poco convinto di aprire un negoziato con il governo non cambierà granché.

Ritirata strategicaLe unità speciali della polizia e i giudici stanno già approittando dell’aumento del-le violenze per giustiicare la repressione in nome della sicurezza e per reagire con bru-talità. Il governo e il presidente si rivolgono alle masse, che hanno sempre più paura dello stato d’emergenza, e danno la respon-sabilità della durezza del loro intervento al movimento democratico di protesta. Già arrivano notizie di attivisti sequestrati, so-prattutto igure di primo piano, e di giorna-listi indipendenti minacciati e aggrediti.

Anche l’umore dei militanti di Euromai-dan rischia di guastarsi, e c’è già chi si fa giustizia da sé. I cosiddetti tituški (giovani che, a quanto si dice, sarebbero stati pagati dallo stato per iniltrarsi nelle manifesta-zioni e compiere gesti violenti e provoca-zioni) sempre più spesso sono cacciati dai dimostranti stessi.

I colloqui tra i partiti d’opposizione e i negoziatori di Janukovič potrebbero forse produrre una breve distensione. Ma è pro-babile che Kličko e i suoi alleati non abbia-no più voce in capitolo sulle scelte future del governo. Tutto dipende ormai da Janukovič e da quanto sarà dura l’ondata di repressione che ha avviato. Anche perché il governo ha le spalle coperte da Mosca. A questo punto, la soluzione più dolorosa per il movimento europeista di Euromaidan sarebbe oggi la più intelligente: una ritirata tattica e l’elaborazione di una nuova stra-tegia. u fp

Negli scontri di Kiev ha svolto un ruolo chiave il Settore di destra (Pravij sektor), un gruppo di militanti nazionalisti che si de-

iniscono “gioventù rivoluzionaria”, senza leader, ma pronti “a passare dalle parole ai fatti”. Del gruppo, nato grazie a Euromai-dan, si parla molto ma si sa ancora poco. Il movimento ha una sua pagina Facebook e il suo quartier generale è in piazza. Non ha leader e non è chiaro come sia organizzato. Si sa però che è formato da gruppi della de-stra radicale – tra cui i Patrioti dell’Ucraina o l’Assemblea social-nazionale – riuniti in-formalmente in un unico blocco.

Il movimento ha cercato di creare una milizia organizzata, ma non ci è riuscito a causa della mancanza di disciplina dei suoi

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Anche l’estrema destra scende in piazza

A scatenare gli scontri degli ultimi giorni sono stati gruppi di estremisti di destra, spesso aiancati da ultrà del calcio

Oleksa Škatov, Kommentarii, Ucraina

militanti, che in piazza agiscono in modo disordinato. Un militante di una di queste formazioni, Andrej Tarasenko, spiega che nel movimento esiste una struttura simile a un centro di coordinamento, ma sottolinea che le decisioni non vengono prese con il voto: “Non siamo dei democratici. Se co-minciamo a votare su ogni decisione da prendere , non riusciremo più ad agire”. Ta-rasenko spiega anche che gli scontri del 19 gennaio non sono stati innescati da provo-catori pagati dal governo ma dai militanti della destra radicale, che deiniscono le loro iniziative “azioni di autodifesa”. Gli estre-misti di destra sono spesso aiancati da ul-trà del calcio, anche loro delusi dall’arren-devolezza dell’opposizione. Nonostante la mancanza di disciplina e di organizzazione, gli attivisti della destra radicale stanno cre-ando molti problemi al movimento Euro-maidan. E la reazione violenta della polizia non fa che renderli più compatti e determi-nati. L’opposizione sta raccogliendo così i frutti dei suoi errori. u af

Da sapere Il movimento Euromaidan

u 21 novembre 2013 Cominciano a Kiev le proteste contro la decisione del presidente Vik-tor Janukovič di abbandonare l’accordo di asso-ciazione con l’Unione europea. 30 novembre Le forze speciali attaccano i ma-nifestanti nella piazza Nezaležnosti (dell’indi-pendenza). Il 1 dicembre le proteste riprendo-no. Ci sono violenti scontri tra dimostranti e po-lizia. 17 dicembre Mentre le proteste continuano, Mosca concede a Kiev uno sconto sulle fornitu-

re di gas e si impegna a investire 15 miliardi di dollari in titoli di stato ucraini. 16 gennaio 2014 Con la piazza Nezaležnosti ancora occupata dai manifestanti, il parlamen-to approva un pacchetto di leggi severissime che limitano fortemente la libertà di espressio-ne e il diritto a manifestare. 19 gennaio Per la nona domenica di ila, deci-ne di migliaia di persone manifestano nel cen-tro di Kiev. Questa volta le proteste sono rivolte soprattutto contro le leggi repressive appena approvate. Sulla via Gruševskij, nei pressi del parlamento, ci sono scontri tra la polizia e grup-pi di manifestanti violenti. 20 gennaio Continuano gli scontri tra le frange violente dei manifestanti, soprattutto militanti ultranazionalisti, e la polizia. 22 gennaio Dopo l’entrata in vigore della legge anti-proteste, Janukovič ordina lo sgombero de-gli accampamenti dei manifestanti nel centro di Kiev. Negli scontri due dimostranti rimangono uccisi da colpi di arma da fuoco. Secondo fonti vicine all’opposizione i morti sono cinque.

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turchia

Le purghedi Erdoğan Lo scandalo di corruzione che da metà dicembre scuote il pae-se non accenna a placarsi. Le autorità turche hanno preso nuovamente di mira la polizia e la magistratura, che avevano già subito epurazioni a dicembre, e altri settori considerati ostili al governo di Recep Tayyip Erdoğan, con licenziamenti ai vertici dell’agenzia di vigilanza sulle banche (Bddk), della tv pubblica e della direzione delle telecomunicazioni. Come spie-ga Hürriyet, la decisione di pro-seguire con le purghe è stata presa dopo un’indagine che ha rivelato un’intercettazione tele-fonica in cui il leader religioso

Fethullah Gülen, ex alleato di Erdoğan e oggi suo grande ne-mico, si vantava di avere uomini di iducia all’interno del Bddk. In questa diicile situazione, il 20 gennaio Erdoğan è arrivato a Bruxelles per la prima visita do-po cinque anni. Il viaggio era stato organizzato per celebrare il rilancio dei negoziati per l’in-gresso di Ankara nell’Unione europea, ma alla luce degli ulti-mi scandali ha assunto contorni diversi. I vertici dell’Ue hanno chiesto a Erdoğan rassicurazioni sulla divisione dei poteri e il ri-spetto dello stato di diritto. La temuta rottura non c’è stata, tut-tavia – scrive Zaman – “la re-pressione delle proteste del par-co Gezi e le recenti inchieste sul-la corruzione hanno seriamente danneggiato le prospettive euro-pee della Turchia”.

Quest’anno ricorrono i cento anni dall’inizio della prima guerra mondiale e il britannico New Statesman è tra i primi giornali europei a occuparsene, con un lungo articolo in cui Richard Evans sostiene che molti degli aspetti che scatenarono la guerra sono presenti ancora oggi. “Nel 1914”, scrive lo

storico britannico, “la superpotenza che dominava il mondo, controllava i mari e guidava un impero globale di colonie, dominion e dipendenze – il Regno Unito – fu sidata da un paese che stava prendendo il sopravvento dal punto di vista economico e costruendo una macchina da guerra per afermare il suo diritto a guadagnarsi ‘un posto al sole’: la Germania. Una situazione simile a quella attuale, con la supremazia degli Stati Uniti messa in discussione dall’avanzata della Cina”. La lezione da trarre dal primo conlitto mondiale, tuttavia, è un’altra: mentre la Francia, la Germania e gli altri paesi che parteciparono a quella catastrofe si sono uniti nell’Unione europea, oggi bisogna vigilare sul Medio Oriente, i Balcani del ventunesimo secolo: un’area che rischia di esplodere in una drammatica conlagrazione. ◆

regno unito

cent’anni dopo

New Statesman, Regno Unito

sErbia

comincianoi negoziati Il 21 gennaio si sono aperti a Bruxelles i negoziati per l’in-gresso della Serbia nell’Unione europea. Secondo il quotidiano sloveno Večer, “è stata una giornata da ricordare soprattut-to per il governo, molto meno per i cittadini serbi, che negli ul-timi anni si sono visti promette-re invano l’ingresso nell’Unione più volte, nel 2004, nel 2007 e inine nel 2014”. Anche il quoti-diano serbo Politika è scettico: “Il paese è in anticamera ormai da dieci anni, ma a quanto pare ci vorrà ancora molto tempo pri-ma che l’ultima porta si apra. E non c’è nessuna garanzia che questo succeda”.

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terremotoa Groninga Il governo olandese ridurrà del 20 per cento la produzione di gas naturale a causa dei continui terremoti registrati nella provin-cia di Groninga. L’annuncio è stato dato dal ministro degli af-fari economici Henk kamp in una caotica conferenza stampa a Loppersum, una delle cittadi-ne più colpite dalle scosse, men-tre centinaia di manifestanti chiedevano il blocco totale della produzione. Oggi l’estrazione del gas frutta 13 miliardi di euro all’anno, ma secondo i sismologi è responsabile della maggiore frequenza dei terremoti, causati probabilmente dalle sacche vuote che si formano sottoterra. Le scosse si sono quintuplicate dagli anni novanta, provocando danni agli ediici della regione. “È comprensibile che gli abitan-ti protestino”, scrive Volks­krant. “Non solo subiscono gli efetti delle scosse, ma non rica-vano neanche dei vantaggi eco-nomici dall’estrazione del gas”.

in brEvE

Repubblica Ceca Il 17 gennaio il presidente Miloš Zeman ha nominato primo ministro il so-cialdemocratico Bohuslav Sobo-tka, leader del partito Čssd. Unione europea Il 22 gennaio la Commissione europea ha ap-provato una raccomandazione che autorizza l’estrazione del gas di scisto nei paesi membri a condizione che siano rispettati dei criteri minimi di tutela della salute e dell’ambiente.

Francia

una svoltaper hollande Messo in diicoltà dalle rivela-zioni sulla relazione con l’attrice julie Gayet, François Hollande è riuscito a distogliere l’attenzio-ne dalla sua vita privata annun-ciando provvedimenti economi-ci in chiave liberista. Nel solco della cosiddetta “svolta social-democratica” annunciata il 14 gennaio, il presidente ha confer-mato la riduzione del costo del lavoro e delle tasse, scrive Le Monde, chiedendo però in cambio agli imprenditori delle “compensazioni chiare, precise, misurabili e veriicabili”, che sa-ranno deinite coinvolgendo le parti sociali e il parlamento.

Europa

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Siria

Internazionale 1035 | 24 gennaio 2014 17

La prima conferenza internazio-nale dedicata alla Siria si è svolta a Ginevra il 30 giugno 2012. La seconda era prevista per il mag-

gio del 2013 ma il progetto è rimasto in so-speso per mesi, vittima dei rapporti di forza sul campo, delle esitazioni della diploma-zia internazionale e delle divisioni interne ai movimenti d’opposizione siriani. Oggi, all’apertura della conferenza del 22 genna-io a Montreux, le condizioni per una solu-zione paciica del conlitto non sono mi-gliori.

I punti di riferimento per il vertice Gi-nevra 2 sono il comunicato di Ginevra del 30 giugno 2012, la riunione del 7 maggio 2013 tra il segretario di stato statunitense John Kerry e il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov, e la risoluzione 2118 del Consiglio di sicurezza dell’Onu del 27 set-

tembre 2013. L’obiettivo è arrivare a una “soluzione paciica” del conlitto convin-cendo regime e opposizione ad accordarsi sulla creazione di un “organo di governo transitorio”, che dovrà assicurare il funzio-namento dei servizi pubblici e il ripristino di quelli andati distrutti, mentre si prepara il terreno alla transizione politica.

Sulla carta, è logico esigere che regime e opposizione accettino di negoziare. Il tri-buto di sangue pagato dal popolo siriano è intollerabile. Ma è legittimo chiedersi se la situazione è ancora la stessa del 2012. Il conlitto è diventato più complesso e vio-lento. Le aspirazioni di ieri sembrano supe-rate da nuove emergenze.

Cosa è cambiatoNel giugno del 2012 la situazione era diver-sa da oggi. Un anno e mezzo fa i siriani morti nei combattimenti erano ventimila. Secondo le ultime stime, oggi sono tra i 120mila e i 130mila. All’epoca si temeva che il paese fosse sull’orlo di una guerra ci-vile, oggi si fatica a dare una deinizione univoca ai combattimenti in corso, metten-do in evidenza la diicoltà di deinire quel-la che è diventata la versione più sanguino-sa delle rivolte arabe e la minaccia più gra-

Poche speranze per la pace

La conferenza Ginevra 2 poteva aprirsi sotto auspici migliori. I negoziati sarebbero stati più facili se il regime siriano e i suoi oppositori si fossero accordati su un cessate il fuoco

Alexis Varende, Orient XXI, Francia

ve per l’equilibrio della regione.Nel giugno del 2012 Koi Annan, inviato

speciale delle Nazioni Unite e della Lega araba per la Siria, aveva lasciato il posto all’algerino Lakhdar Brahimi. A quel tem-po sembrava che la soluzione del conlitto dovesse inevitabilmente tenere conto delle aspirazioni legittime dei siriani, che chie-devano una Siria libera e democratica. Quell’obiettivo non è cambiato, ma è pas-sato in secondo piano rispetto a necessità più immediate, in particolare di carattere umanitario.

E soprattutto, Stati Uniti, Onu e Unione europea erano convinti che il presidente Bashar al Assad e il suo regime non avreb-bero avuto nessun ruolo nella Siria del fu-turo. Oggi invece i governi occidentali, consapevoli che i rapporti di forza sul cam-po sono favorevoli ad Assad, non esigono più a gran voce la destituzione del presi-dente (che ha ribadito l’intenzione di pre-sentarsi alle presidenziali di quest’anno).

Nel 2012, inoltre, si mettevano a con-fronto i vantaggi e gli svantaggi di una mili-tarizzazione del conflitto alimentata dall’esterno. Bisognava armare l’Esercito siriano libero per assicurargli un vantaggio sulle truppe del regime? La questione non è più di attualità, dopo la decisione del pre-sidente statunitense Barack Obama di non farsi coinvolgere nella guerra.

D’altra parte, alcuni aspetti della crisi in Siria non sono cambiati. Il fronte dell’op-posizione è ancora gravemente frammen-tato. Il gruppo dei paesi amici della Siria, l’Onu, la Lega araba, l’Unione africana e l’Organizzazione della cooperazione isla-mica non sono riusciti a far accettare agli oppositori democratici una piattaforma comune. Aver convinto una parte di loro a partecipare alla conferenza del 22 gennaio a Montreux è già un successo. Allo stesso modo, il Consiglio di sicurezza dell’Onu non ha saputo dare una risposta alla crisi. La Russia e la Cina non vogliono che l’Onu interferisca negli afari interni di uno stato, ma dimenticano che il conlitto in Siria è diventato una crisi regionale e una minac-cia alla stabilità di Libano, Giordania e Iraq.

La fine delle violenze è un obiettivo condiviso da tutti. Il punto è sapere se è ve-ramente a portata di mano. Le ultime scel-te diplomatiche di Washington non sono state rassicuranti per l’opposizione siriana. Negli ultimi mesi la diplomazia statuniten-se ha cambiato strategia nei confronti del

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Montreux, 22 gennaio 2014. Una manifestazione a favore di Assad

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18 Internazionale 1035 | 24 gennaio 2014

Siriapresidente siriano. Washington ha smesso di chiedere un cambio di regime a Dama-sco e non invierà all’opposizione le armi necessarie per tenere testa all’esercito go-vernativo. Il riavvicinamento tra Stati Uniti e Iran ha cambiato tutto. Ormai si tratta principalmente di deinire i mezzi necessa-ri a combattere contro i “terroristi”.

Di recente alcune voci hanno suggerito una prospettiva inconcepibile ino a qual-che mese fa: trovare un’intesa tra l’esercito siriano regolare e l’Esercito siriano libero (Esl) per sradicare la violenza jihadista in Siria. Il generale Salim Idriss, comandante dell’Esl, ha osato dire di essere pronto a combattere a ianco del regime di Assad contro i gruppi legati ad Al Qaeda. Le sue dichiarazioni hanno fatto scalpore.

Assad può essere soddisfatto del lieve cambiamento di rotta della diplomazia sta-tunitense. Quest’evoluzione sembra con-fermare la “bontà” delle sue scelte politi-che, che avevano l’obiettivo di creare divi-sioni nella società siriana e di demonizzare l’opposizione, composta, secondo lui, da terroristi siriani e stranieri. Gli incontri tra rappresentanti del regime siriano e dei ser-vizi di sicurezza europei confermano quest’evoluzione. Come prova della sua buona volontà, Assad ha fatto sapere di es-sere pronto a fare concessioni di carattere umanitario.

La conferenza Ginevra 2 si sarebbe aperta sotto auspici migliori se il regime di Damasco avesse accettato di fare qualcosa per riconquistare la iducia dei suoi avver-sari. I colloqui sarebbero più facili se le par-ti fossero riuscite ad accordarsi su un ces-sate il fuoco o sulla liberazione di prigionie-

ri. Ci sono stati dei rari tentativi di inter-rompere i combattimenti nella regione di Barzeh, a nord di Damasco. Ma sono stati troppo fragili e tardivi per convincere l’op-posizione della buona volontà del regime. In realtà, Damasco ha intensiicato le ope-razioni militari per poter afrontare i nego-ziati da una posizione di forza.

Nella conferenza Ginevra 2 le questioni umanitarie saranno in primo piano. È uno dei temi sui quali le Nazioni Unite hanno il margine di manovra più ampio, a patto che le parti in lotta accettino un cessate il fuoco e l’apertura di corridori umanitari. L’Onu ha issato a 6,5 miliardi di dollari la somma di denaro necessaria per prendersi cura de-gli sfollati interni e dei profughi siriani nei pae si coninanti. Anche la liberazione dei prigionieri e delle persone che sono state rapite in Siria fa parte di questo dossier.

Una seconda questione all’ordine del giorno sarà la lotta contro il terrorismo. L’opposizione democratica siriana ha tutte le ragioni per temere che la caduta del regi-me non sia più l’obiettivo prioritario delle democrazie occidentali. Sa che sono più preoccupate dalla minaccia jihadista e os-serva con preoccupazione i tentativi occi-dentali di dialogare con il regime di Assad, con Hezbollah o con formazioni jihadiste.

Le proteste dell’opposizioneL’invito a partecipare alla conferenza fatto all’Iran dal segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon ha colto tutti alla sprovvista. Invitare gli iraniani era comprensibile, per-ché sono coinvolti nel conlitto. Ma signii-cava far intervenire un alleato del regime che, per di più, riiuta di sottoscrivere il co-municato di Ginevra del 2012. Non c’è da stupirsi se l’opposizione siriana ha prote-stato.

I combattimenti sul campo prosegui-ranno indipendentemente dai negoziati. I rappresentanti di Assad non faranno con-cessioni all’opposizione, che non è stata in grado di prevalere sul campo di battaglia. È diicile immaginare che il regime e i suoi oppositori potranno, “di comune accordo”, deinire una forma di governo transitorio. Ancora più diicile è immaginare come ri-usciranno a garantire la gestione congiunta dei servizi pubblici e dell’esercito nella fase di transizione. L’assenza dai negoziati delle altre forze dell’opposizione renderà Gine-vra 2 un processo lungo e incerto. Se anche si facessero dei progressi, nulla garantisce che possano avere efetti concreti. u gim

I. Black, The Guardian, Regno Unito

L’inchiesta

Il regime siriano potrebbe dover rispondere dell’accusa di crimi-ni di guerra dopo che sono state

portate fuori dalla Siria le prove dell’uccisione sistematica di undici-mila detenuti. Lo afermano tre ex procuratori del Tribunale penale in-ternazionale per la ex Jugoslavia e del Tribunale speciale per la Sierra Leone, che hanno esaminato mi-gliaia di foto e fascicoli del governo siriano sulle morti di persone tenute in custodia dalle forze di sicurezza siriane. Le vittime sono in gran par-te giovani maschi, morti tra il marzo del 2011 e l’agosto del 2013. I corpi fotografati mostravano segni di de-perimento, tortura ed erano sporchi di sangue.

Secondo gli esperti, sono le pro-ve più dettagliate e ampie degli abu-si del regime siriano emerse durante gli ultimi 34 mesi di conlitto. I tre avvocati, Desmond de Silva, Geof-frey Nice e David Crane, hanno in-tervistato un fotografo militare si-riano – chiamato “Caesar” – che la-vorava segretamente per un gruppo dell’opposizione. La fonte è stata giudicata credibile. Caesar avrebbe disertato e portato le immagini fuori dal paese su chiavette usb, che ha consegnato al Movimento nazionale siriano, un gruppo sostenuto dal Qa-tar. Anche il rapporto dello studio di Londra per cui lavorano i tre legali è stato commissionato dallo stato del Golfo. Caesar ha spiegato che il suo lavoro era fotografare i detenuti uc-cisi. Ha descritto un elaborato siste-ma burocratico in cui i morti erano fotografati per due motivi: per pro-durre un certiicato di morte senza interpellare le famiglie e per confer-mare gli ordini di esecuzione dei prigionieri. u

Le fotodei crimini

30 giugno 2012 Prima conferenza internazionale di pace sul conlitto siriano. Adozione del “comunicato di Ginevra”, che prevede la creazione di un governo transitorio. 14 settembre 2013 Accordo russo-statunitense sullo smantellamento dell’arsenale chimico di Damasco. 27 settembre 2013 Approvazione della risoluzione 2118 del Consiglio di sicurezza dell’Onu contro l’uso delle armi chimiche in Siria.22 gennaio 2014 Inizio della conferenza internazionale sulla Siria a Montreux.24 gennaio 2014 Inizio dei negoziati tra regime e opposizione alla presenza del mediatore Lakhdar Brahimi. Orient XXI

Da sapere Le tappe della diplomazia

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Internazionale 1035 | 24 gennaio 2014 19

Venerdì scorso, dopo la lezio-ne di musica dei bambini, sia-mo andati a fare una passeg-giata. Eravamo io e un’amica con suo iglio e un altro bambi-no. Ho proposto di raggiunge-re un villaggio vicino e prose-guire a piedi lungo i sentieri degli agricoltori. I bambini si sono stancati della natura do-po neanche dieci minuti. An-che la mia amica ha confessa-to di aver faticato ad abituarsi ai paesaggi della Cisgiordania, ma alla ine ha imparato ad amarli (nata da rifugiati pale-stinesi in Siria, ha vissuto in Li-

bano e in Europa orientale).Io invece sono sempre sta-

ta innamorata della bellezza dei mandorli pronti a iorire e degli ulivi argentei della regio-ne. “Non ci sono colonie”, ha notato con stupore la mia ami-ca. Era la prima volta che visi-tava la zona, circa venti chilo-metri a nord di Ramallah. “È per questo che ti ho portato qui”, le ho risposto. L’assenza dell’architettura coloniale (ag-gressiva e invadente) aumen-tava il senso di pace. A cancel-lare quel momento bucolico ci ha pensato la dura realtà. Da

settimane la mia amica parte-cipa alle proteste a Ramallah contro l’assedio delle forze go-vernative al campo profughi palestinese di Yarmuk, in Si-ria, e pensa continuamente al-le persone che stanno moren-do di fame. “Ci stiamo avvici-nando a un’altra Nakba (l’eso-do dei palestinesi nel 1948)”, mi ha detto con la certezza di un matematico.

A quel punto siamo tornati a casa, perché suo iglio aveva una lezione di dabke (una dan-za popolare) e lei doveva pre-parare una torta. u as

Da Ramallah Amira Hass

Pensando a Yarmuk

Catherine Samba-Panza, 59 anni (nella foto), è stata eletta il 20 gennaio 2014 come presidente della Repubblica Centrafricana. Ha il diicile compito di fermare le violenze settarie, di riportare la stabilità nel paese e di indire nuove elezioni. Imprenditrice, sindaca di Bangui, Samba-Panza gode del sostegno degli appartenenti all’ex coalizione ribelle Séléka, dei cristiani e della comunità internazionale, scrive il quotidiano Le Pays. Il cambiamento politico a Bangui è stato accompagnato dalla promessa dell’Unione europea di inviare mille nuovi soldati e di stanziare 500 milioni di dollari di aiuti. u

Repubblica Centrafricana

La presidente del consenso

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IN BREVE

Algeria Il presidente Abdelaziz Boutelika ha indetto le elezioni presidenziali per il 17 aprile, ma non ha ancora chiarito se si can-diderà a un quarto mandato. Ci sarà invece sicuramente l’ex premier Ali Benlis. Egitto Il 98,1 per cento dei vo-tanti ha approvato la nuova co-stituzione nel referendum del 14 e 15 gennaio. La partecipazione è stata del 38,6 per cento.Emirati Arabi Uniti Il 21 gen-naio trenta persone, tra cui venti egiziani, sono state condannate a pene ino a cinque anni di pri-gione per aver formato una cel-lula dei fratelli musulmani.Guinea Il presidente Alpha Condé ha incaricato il premier uscente Mohamed Said fofana di formare un nuovo governo, che avrà come priorità la lotta alla povertà.Sudafrica Il 23 gennaio sono ri-presi gli scioperi nelle miniere di platino gestite dai tre principali produttori mondiali (Lonmin, Anglo American e Implats).Sud Sudan Il 18 gennaio l’eser-cito ha riconquistato la città di Bor. L’ofensiva contro i ribelli guidati dall’ex vicepresidente Riek Machar è ancora in corso.

LIBANO

Attentatiin serie Il 21 gennaio quattro persone so-no morte in un presunto attenta-to suicida a Beirut (nella foto). L’attacco è stato rivendicato dal fronte al nusra in Libano, un gruppo legato ad Al Qaeda, ne-mico di Hezbollah, spiega il Daily Star. Pochi giorni prima, il 16 gennaio, un’altra autobom-ba era esplosa a Hermel, cau-sando cinque morti. Lo stesso giorno era cominciato nei Paesi Bassi il processo del tribunale speciale per il Libano per l’at-tentato nel 2005 in cui sono morti l’ex premier libanese Ra-iq Hariri e altre 21 persone. I quattro imputati sono militanti del partito sciita Hezbollah. Sa-ranno giudicati in contumacia.

UGANDA

Dibattitosull’omofobia Il presidente Yoweri Museveni si è riiutato di irmare una dura legge contro l’omosessualità – che prevedeva pene ino all’er-gastolo per i gay – approvata dal parlamento il 20 dicembre 2013. Secondo il Daily Monitor, Mu-seveni avrebbe dichiarato che ci sono modi migliori per “salva-re” le persone dall’omosessuali-tà. In Nigeria, invece, il presi-dente goodluck Jonathan ha ir-mato una legge che vieta i matri-moni tra persone dello stesso sesso. “Questa legge è un crimi-ne contro la ragionevolezza”, commenta il Premium Times.

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Africa e Medio Oriente

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Americhe

Le manifestazioni di giugno, che sono proseguite per alcuni mesi, sono state l’avvenimento più im­portante del 2013 in Brasile. Da

un angolo all’altro del paese i giovani han­no occupato le strade rivendicando il dirit­to alla mobilità e alla partecipazione politi­ca, chiedendo servizi pubblici migliori e mettendo in discussione il modello demo­cratico nazionale. Se da una parte i pro­gressi sociali raggiunti nell’ultimo decen­nio hanno avuto efetti sulle nuove genera­zioni, dall’altra è risultata evidente la ne­cessità di approfondire e accelerare le tra­sformazioni in corso, perché i brasiliani vogliono molto di più.

L’alto costo dei trasporti è stato il punto di partenza delle manifestazioni nel 2013, ma il combustibile è stata la violenza della polizia, una reazione tipica dei governi che hanno diicoltà a costruire canali di dialo­go e a elaborare alternative congiunte con i giovani. Il 2014 è cominciato con le terri­bili scene di violenza nel carcere di Pedri­nhas, nello stato settentrionale di Mara­nhão, un chiaro afronto ai diritti umani, ma soprattutto l’espressione evidente del fallimento del sistema penale e carcerario brasiliano. Violenza contro i giovani, in­carceramenti di massa, condizioni disu­mane nei penitenziari, criminalizzazione delle manifestazioni e violazione dei dirit­ti umani sono pratiche istituzionalizzate nella nostra polizia e denotano l’esistenza di un’apartheid sociale.

Oggi il fenomeno dei rolezinhos (lette­ralmente giretti), comparso per la prima volta a São Paulo il 7 dicembre 2013, si è al­largato ad altre città ed è diventato una metafora del paese. Migliaia di giovani,

soprattutto minorenni che vivono in peri­feria, usano i centri commerciali di lusso come spazio d’incontro. Attraverso Face­book si danno appuntamento per socializ­zare ed essere considerati persone che de­siderano e rivendicano il loro posto nella società. Questi ragazzi, senza molte op­portunità di divertimento né accesso alla cultura nei loro quartieri e con diicoltà a spostarsi per godere della vita notturna di São Paulo, fanno festa dove e come posso­no. Aprono i portabagagli delle auto, met­tono lo stereo al massimo volume e orga­nizzano delle feste. È un’alternativa ad al­tre serate considerate “legittime”, dove spesso ci sono ugualmente droga e sesso.

Riformare la poliziaÈ necessaria una rilessione: perché alcune manifestazioni giovanili sono autorizzate e altre no? I rolezinhos sono discriminati perché i partecipanti sono ragazzi neri e poveri. L’ordinanza di un giudice di São Paulo, che ha proibito lo svolgimento di un rolezinho in un centro commerciale, ha le­gittimato l’uso della forza pubblica e della violenza.

È discriminatorio e indifendibile che alcuni centri siano chiusi al pubblico o che

In Brasile scoppiala protesta dei rolezinhos

Da dicembre gruppi di giovani, in maggior parte poveri e della periferia, si ritrovano nei centri commerciali della classe media per socializzare. E chiedono di non essere discriminati

Gabriel Medina, Carta Capital, Brasile

il personale di sicurezza selezioni all’in­gresso chi può entrare e chi no. Come si può stabilire in base all’età, al colore della pelle e al modo di vestire chi può entrare in un centro commerciale? Con che diritto i poliziotti identiicano giovani potenzial­mente pericolosi, come se fossimo ancora ai tempi della dittatura militare? Finché non cambierà il modo di guardare, perce­pire e parlare con i giovani, le risposte delle autorità saranno solo misure palliative che evitano una discussione di fondo. I giovani devono essere considerati portatori di di­ritti e, soprattutto, avere accesso ai beni culturali e sociali della loro città. È neces­sario costruire un modello di sviluppo che superi i limiti della società dei consumi, recuperi la dimensione pubblica dell’esi­stenza, sottragga alla mercificazione le forme di convivialità e contribuisca alla formazione di cittadini critici e attivi. È ur­gente anche una riforma del modello poli­ziesco creato ai tempi della dittatura mili­tare e un nuovo progetto di sicurezza pub­blica, che rispetti i diritti dei cittadini. Fin­ché le forze dell’ordine useranno gli idran­ti e le botte con i giovani, continueremo a costruire una società basata sulla violenza, sull’intolleranza e sui pregiudizi. u gac

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Rio de Janeiro, 19 gennaio 2014. Nel centro commerciale di Leblon

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Internazionale 1035 | 24 gennaio 2014 21

STATI UNITI

La sorveglianza secondo Obama Il 17 gennaio il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha an-nunciato una riforma dei pro-grammi di sorveglianza della National security agency (Nsa) che prevede maggiori controlli e nuovi limiti. Dopo le rivelazioni di Edward Snowden, l’ex colla-boratore dell’Nsa che negli ulti-mi sette mesi ha denunciato le violazioni della privacy da parte dell’agenzia statunitense, Oba-ma ha rivendicato l’eicacia dei metodi usati dall’intelligence per combattere il terrorismo. Ha chiesto però che le informazioni raccolte siano custodite non dall’Nsa ma da una terza parte ancora da deinire, e che sia un

tribunale a dare il via libera all’accesso ai dati. Inoltre ha an-nunciato la creazione di una commissione che sorvegli le de-cisioni dei tribunali segreti sulle attività dell’Nsa e ha rassicurato i cittadini stranieri, compresi i capi di stato, che saranno sorve-gliati solo se sarà necessario per difendere la sicurezza naziona-le. Il New York Times è deluso: le proposte di Obama “sono va-ghe e non mettono in discussio-ne la legittimità della raccolta dei dati”. Il quotidiano sottoli-nea un’altra “grave mancanza”: il riiuto di ammettere che “tutto il suo discorso, e i cambiamenti di cui ora si fa sostenitore, non sarebbero mai avvenuti senza le rivelazioni di Edward Snowden, che continua a vivere in esilio e non può tornare nel suo paese perché rischia il carcere”.

“Un capo di stato deve fare il suo dovere e non vincere il concorso di miss simpatia. E nel mio caso ha il compito di garantire la solidità delle istituzioni in un paese dove è molto debole”. Così ha risposto il presidente del Perù, l’ex militare Ollanta Humala, al giornalista di Caretas

che gli ha chiesto come mai la sua popolarità, a metà del mandato, è in calo. Humala ha parlato del suo passato militare, ha spiegato di essere contrario alla concentrazione dei mezzi d’informazione del paese nelle mani del gruppo El Comercio e ha sottolineato quelli che, secondo lui, sono i risultati ottenuti inora dal suo governo: “A diferenza dei governi precedenti, non puntiamo sulla crescita economica, ma sulla distribuzione della ricchezza. Abbiamo il merito di aver creato per la prima volta una politica sociale che era inesistente e di aver portato lo stato nelle zone interne del Perù”. E la situazione nel Vraem, la zona tra i iumi Apurímac, Ene e Mantaro che per i peruviani è sinonimo solo di droga e Sendero Luminoso? “Lì la minaccia principale è il narcotraico. Solo migliorando le infrastrutture, recupereremo la iducia delle comunità”. ◆

Perù

Parla Ollanta Humala

Caretas, Perù

STATI UNITI

L’agoniadi McGuire Ha rantolato e respirato afan-nosamente per circa 15 minuti prima di morire. “L’esecuzione di Dennis McGuire il 16 gennaio a Lucasville, in Ohio, solleva nuove preoccupazioni sulla ge-stione delle condanne capitali nello stato ed è un argomento in più a favore dell’abolizione della pena di morte”, scrive il Cleve-

land Plain Dealer. Condanna-to per lo stupro e l’assassinio di una donna incinta, McGuire, 53 anni, è stato ucciso con un’inie-zione di un nuovo cocktail letale dopo che un produttore danese si è riiutato di fornire il farmaco usato in passato.

STATI UNITI

Christienega Il governatore del New Jersey Chris Christie respinge le accu-se di aver provocato un ingorgo per vendicarsi di un avversario politico e di aver usato i fondi per i soccorsi dopo il passaggio dell’uragano Sandy per promuo-vere il turismo nel suo stato. Nuove accuse arrivano dal sin-daco di Hoboken: Christie avrebbe preteso l’approvazione di un progetto edilizio nella sua città in cambio dei fondi per l’uragano. “Per il governatore, un repubblicano che punta a conquistare i voti dei democrati-ci e del nordest alle presidenzia-li del 2016, le cose si mettono male”, scrive l’Atlantic.

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COLOMBIA

Sinistranel mirino “Marcha patriótica, il movimen-to colombiano di sinistra fonda-to nel 2012, non ha compiuto due anni e ha già registrato 29 persone assassinate e tre scom-parse”, scrive Semana. Anche se i numeri non ricordano lo sterminio di Unión patriótica, il partito fondato negli anni ottan-ta da vari gruppi guerriglieri, la situazione è grave, soprattutto perché all’Avana le Farc e il go-verno colombiano stanno nego-ziando le garanzie per l’esercizio dell’opposizione una volta rag-giunta la pace. “La maggior par-te degli omicidi è avvenuta nel 2013, quando nel paese si sono difuse le proteste contadine, sostenute da Marcha patrióti-ca”. Intanto il 18 gennaio quat-tordici guerriglieri sono morti in un bombardamento dell’eserci-to nel dipartimento di Arauca.

IN BREVE

Panama Il 20 gennaio il con-sorzio incaricato dei lavori di al-largamento del canale di Pana-ma ha prorogato un ultimatum che aveva issato per chiedere al governo un inanziamento ag-giuntivo di 1,6 miliardi di dolla-ri, evitando di sospendere l’atti-vità. Le trattative sono ancora in corso.Venezuela Il 15 gennaio il pre-sidente Nicolás Maduro ha an-nunciato un cambio al governo. rodolfo torres sarà nominato ministro delle inanze al posto di Nelson Merentes, che diven-terà presidente della banca cen-trale.

Lucasville, Ohio

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22 Internazionale 1035 | 24 gennaio 2014

Asia e Paciico

Nel marzo del 2013 Kim Su-hyon, 23 anni, ha smesso di cercare lavoro. Finita l’università ha mandato una decina di curri-

culum vitae, poi le è passata la voglia di proseguire. Adesso passa le sue giornate chiusa in camera. Prima, come per tutti, il suo obiettivo principale era trovare un la-voro. Si era iscritta a un corso professionale di due anni e poi era riuscita a entrare all’università di Seoul, perché le avevano detto che così sarebbe stato più facile tro-vare un posto. Aveva scelto di studiare in-formatica – un settore in piena espansione, si diceva – e durante le vacanze cercava di imparare l’inglese. Prima di lanciarsi nella caccia all’impiego aveva anche seguito un corso per imparare come si fa. Ma quando è arrivata al dunque, l’ha presa il panico e si è chiesta: “Ho davvero voglia di lavorare? Come potrò competere con quelli più bravi

I giovani sudcoreani che rinunciano al lavoro

Sempre più ragazzi, inseguendo un ideale d’impiego ormai irraggiungibile, smettono di cercare lavoro. Il mercato è troppo competitivo e ofre solo posti precari e mal pagati

So Po-mi, Hankyoreh 21, Corea del Sud

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Studenti in un campo militare invernale, Ansan, Corea del Sud, 2013

di me?”. Così ha rinunciato. Sono sempre di più i giovani sudcoreani che rinunciano a cercare l’autonomia economica. La real-tà è troppo dura e il loro percorso si annun-cia molto diverso da quello intrapreso dai genitori all’epoca in cui il lavoro abbonda-va grazie alla rapida industrializzazione ed era facile entrare a far parte della classe media. “L’ascesa sociale ormai è una favo-la”, dice Pak Kwon-il, autore di Generazione

88.000 won (6oo euro), che nel 2007 aveva portato al centro del dibattito le sorti dei giovani condannati a lavori precari e mal pagati.

trovare un’occupazione è sempre più diicile, e obbliga i giovani a fare un inve-stimento nella formazione che non sempre è garanzia di successo. Ma i vizi del merca-to del lavoro da soli non spiegano la nascita di una generazione refrattaria alla lotta per l’impiego. Anche la paura del fallimento porta i ragazzi a rimandare le decisioni o a rinunciare del tutto. Si tratta di una sorta di rilesso di autodifesa. “I ventenni e i tren-tenni provano a vivere secondo il modello che la società gli ha imposto. Ma si trovano davanti un muro”, spiega la sociologa Sin Chin-uk.

Reti di solidarietàe la loro rinuncia ha un prezzo. nella socie-tà sudcoreana chi non fa parte del mercato del lavoro fatica a essere riconosciuto co-me individuo completo. Il giappone, che negli anni novanta ha avuto i neet (ragazzi che non studiano, non lavorano e non fan-no stage), ha visto in questi fenomeni un desiderio di regressione sociale da parte dei giovani. “Sanno che il fatto di non lavo-rare è socialmente condannabile, ma sono disposti a subirne le conseguenze”, com-menta il ilosofo tatsuru uchida, che ha pubblicato un libro sul tema. Senza dubbio è esagerato dire che i giovani sudcoreani cerchino di proposito la regressione socia-le, ma probabilmente è quello che otter-ranno. L’impatto di questo fenomeno sulla società è notevole. Da qui l’insistenza del governo che vuole portare la forza lavoro al 70 per cento della popolazione (oggi è 64,2), puntando sulla partecipazione delle donne e dei giovani all’economia. Chi è refrattario rischia quindi l’emarginazione.

Secondo Choi tae-sop, autore di La so-cietà superlua, il mondo del lavoro e la cul-tura della competizione devono cambiare. “Bisogna ripensare la struttura che esclude i ventenni e i trentenni dal mercato e dalla società”. Sin Chin-uk aggiunge che è ne-cessario ricostruire le reti di solidarietà sociale. “In giappone, dopo lo scoppio del-la bolla economica degli anni novanta, il modello di vita simbolizzato da un impiego stabile e un appartamento in una metropo-li è decaduto”, spiega il sociologo. “Così si è difusa l’idea che anche chi non rientra in questo ideale deve poter vivere degna-mente”. u lp

Da sapere gli esclusi

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Corea del Sud

Spagna

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estonia

Irlanda

Francia

grecia

Portogallo

Slovacchia

Italia

Regno unito

Belgio

ungheria

Stati uniti

Svezia

Media Ocse

Persone tra i 15 e i 29 anni inattive nel 2009, %

In Corea del Sud sono considerati inattivi i giovani

tra i 15 e i 34 anni che, oltre a non

studiare e non lavorare, non sono

sposati e non hanno obblighi familiari.

Fonte: Ocse, Ministero

dell’istruzione della Corea del Sud

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Internazionale 1035 | 24 gennaio 2014 23

“L’attacco alla Taverna du Liban a Kabul è stato uno dei più sanguinosi e spietati messi a segno nella capitale afgana dai taliban negli ultimi anni e ha segnato il superamento di un’altra linea rossa nella guerra: l’attacco a civili stranieri solo perché stranieri”, scrive Afghanistan Analyst Network (Aan), un’associazione di esperti di Afghansitan. Il 17 gennaio un commando di attentatori suicidi ha fatto irruzione in un ristorante molto frequentato dagli stranieri e dalla classe media afgana a Kabul, nel quartiere di Wazir Akbar Khan, dove si trovano diverse ambasciate e sedi delle agenzie delle Nazioni Unite. Nell’attacco sono morte 21 persone, tra cui diversi diplomatici, operatori umanitari e impiegati delle Nazioni Unite. Fa parte di una serie di attacchi, ancora rari ma in aumento, contro obiettivi civili, continua l’Aan. I taliban hanno rivendicato l’attentato spiegando anche il motivo: la vendetta per gli attacchi aerei statunitensi del 15 gennaio nella regione di Parwan dove, secondo fonti afgane, sarebbero stati uccisi 13 civili, tra cui quattro bambini e tre donne. Ma, spiega l’Aan, è diicile credere che un attentato simile, in una zona con sistemi di sicurezza straordinari, possa essere stato deciso e organizzato nel giro di due giorni. Invece, dato che è avvenuto nel mezzo dell’acceso dibattito sulla presenza delle truppe straniere nel paese dopo il 2014, potrebbe essere stato architettato per far traballare la determinazione degli Stati Uniti e di altri paesi, che insistono perché il presidente Hamid Karzai irmi l’accordo bilaterale sulla sicurezza. Ma le ricadute di questo attentato potrebbero condizionare la qualità dell’intervento delle organizzazioni civili internazionali. Costrette a misure di sicurezza più rigide, queste potrebbero limitare la loro collaborazione con ong e ministeri locali e restringere il campo d’azione a discapito delle zone lontane dalle città. u

Afghanistan

Oltre la linea rossa

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I igli dell’ex premier Wen Jia-bao e il cognato del presidente Xi Jinping sono tra gli esponenti dell’élite cinese che nasconde i suoi patrimoni in paradisi isca-li. I nomi emergono dall’inchie-sta dell’International consor-tium of investigative journa-lists sulle società ofshore crea-te da 22mila cittadini cinesi nel-le Isole Vergini britanniche, a Samoa e in altri paradisi. Si sti-ma che dal 2000 a oggi siano stati portati fuori dalla Cina tra i mille e i quattromila miliardi di dollari . Le rivelazioni arrivano nel mezzo della campagna anti-corruzione lanciata da Xi e nei giorni in cui si è aperto il proces-so contro Xu Zhiyog, attivista che si batteva per rendere pub-blici i redditi dei funzionari.

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dati rubati

I nomi, i codici assicurativi e i dati delle carte di credito di ven-ti milioni di cittadini sudcorea-ni, quasi la metà della popola-zione, sono stati rubati e venduti ad aziende di marketing, scrive il Korea Herald. Un impiegato di un’azienda d’informatica, ar-restato insieme ai titolari delle tre aziende che avevano com-prato i dati rubati, è riuscito ad accedere ai database di tre gran-di società di carte di credito, la cui attività è stata sospesa per tre mesi.

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nel mirino dei taliban I medici che combattono la po-liomielite in Pakistan, dove la malattia non è ancora stata de-bellata, continuano a essere pre-si di mira dai militanti islamisti. Il 22 gennaio sei poliziotti che scortavano una squadra di ope-ratori sanitari in giro per il paese per somministrare il vaccino e un bambino sono morti in un at-tentato. Il giorno prima tre ope-ratori erano stati uccisi nel sud di Karachi. Secondo i taliban, la campagna antipolio è una co-pertura usata dalle spie statuni-tensi. La violenza dei taliban di-laga nel paese e il 19 gennaio a rawalpindi ha colpito venti sol-dati dell’esercito. Due giorni do-po i militari hanno risposto con un raid aereo sul Nord Waziri-stan uccidendo quaranta mili-ziani.

in breve

Thailandia Il 21 gennaio il go-verno ha proclamato lo stato d’emergenza a Bangkok per cer-care di fermare il movimento di protesta che da due mesi chiede le dimissioni del governo. Il giorno dopo un leader delle ca-micie rosse, ilogovernative, è rimasto ferito in un attentato. Il 17 gennaio un uomo era morto nell’esplosione di una bomba durante una protesta dell’oppo-sizione.Vietnam Il 20 gennaio trenta traicanti di droga sono stati condannati a morte al termine di un maxiprocessso con 89 im-putati.

Manifestazione a Kabul, 19 gennaio 2014

Xi Jinping

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24 Internazionale 1035 | 24 gennaio 2014

Il segretario del Partito democratico (Pd) Matteo Renzi ha proposto una serie di riforme radicali del sistema elettorale e della costituzione per evi-

tare all’Italia instabilità e governi deboli. Il 20 gennaio 2014 le sue proposte sono state approvate dalla direzione nazionale del Pd dopo un dibattito in cui il sindaco di Firen-ze, 39 anni, ha respinto le critiche della sini-stra del partito all’accordo raggiunto due giorni prima con Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia, ex presidente del consiglio e senatore decaduto dopo la condanna per frode iscale. “Con chi dovevo parlare, con Dudù?”, ha chiesto ironicamente Renzi, ri-ferendosi al cagnolino di Berlusconi. In-frangendo un tabù del suo partito, Renzi ha dichiarato che l’ex capo del governo, pur essendo stato condannato e non potendo più ricoprire alcuna carica pubblica, è legit-timato politicamente dai milioni di italiani che lo hanno votato lo scorso febbraio. L’8

dicembre 2013 Renzi ha vinto ampiamente le primarie del suo partito e prima di pro-porsi come successore di Enrico Letta sta cercando di far passare una serie di riforme economiche e politiche. Ma il sindaco di Fi-renze ha sottolineato che le lunghe proce-dure parlamentari per approvare le riforme dimostrano che non c’è alcuna intenzione di far cadere la coalizione di Letta prima del 2015. Anche se il nuovo segretario è uscito raforzato dall’approvazione delle sue pro-poste da parte dei democratici – nessuno ha votato contro – per garantire la stabilità il governo di Letta ha ancora bisogno dell’ap-poggio degli altri membri della coalizione, compresi i centristi e i politici di centrode-stra che l’anno scorso si sono staccati da Berlusconi.

La necessità di una riforma del sistema elettorale nasce dalla sentenza emessa il 4 dicembre 2013 dalla corte costituzionale che ha dichiarato incostituzionale la legge esistente. La corte ha respinto il sistema delle liste bloccate che, quando sono troppo lunghe, privano gli elettori del diritto di sce-gliere direttamente i loro rappresentanti, e ha dichiarato che il premio di maggioranza concesso al partito o alla coalizione che ot-

Le riforme di Renziaiutano Letta

Il segretario del Pd presenta una serie di proposte che potranno arrivare in parlamento solo se il governo durerà a lungo

Guy Dinmore, Financial Times, Regno Unito

tiene la più alta percentuale di voti non è valido senza una soglia minima.

La riforma elettorale di Renzi si basa su un sistema proporzionale che garantisce la maggioranza con al massimo il 55 per cento dei seggi al partito o alla coalizione che ot-tiene almeno il 35 per cento dei voti. Se nes-sun gruppo raggiunge quella soglia – com’è successo nel febbraio 2013 anche a causa del risultato ottenuto dai cinquestelle– si va al ballottaggio e il vincitore ottiene il 53 per cento dei seggi. Per contrastare quello che ha deinito il “potere di ricatto” dei piccoli partiti, Renzi ha proposto una soglia di sbar-ramento al 5 per cento per le coalizioni e all’8 per cento per i partiti che si presentano da soli. Secondo i sondaggi, lo scontro sa-rebbe tra una coalizione di centrosinistra guidata dal Partito democratico e il centro-destra guidato da Forza Italia, ma probabil-mente nessuno dei due raggiungerebbe la soglia del 35 per cento, mentre il M5s ha già perso diversi punti rispetto al 25 per cento ottenuto alle ultime elezioni politiche.

Dubbi sulla costituzionalitàMa già durante la direzione del Pd qualcuno ha avanzato dei dubbi sulla costituzionalità delle proposte. Il pacchetto è diviso in tre parti e prevede anche una modiica del bi-cameralismo “perfetto”, che attribuisce a camera e senato gli stessi poteri. Con la nuova legge il senato sarebbe sostituito da un organo consultivo composto dai rappre-sentanti nominati dalle regioni e dalle am-ministrazioni locali. “Signiica la ine del ping pong tra le camere”, ha detto Renzi.

Le altre modiiche della costituzione at-tribuirebbero maggiori poteri al governo in materia di energia, turismo e trasporti, set-tori dove le politiche decise da Roma incon-trano spesso l’opposizione delle autorità regionali e locali. Questi cambiamenti ri-chiedono una doppia lettura in parlamento e Renzi spera di ottenere la prima approva-zione dal senato entro maggio. Il sindaco di Firenze, però, ha poca inluenza su molti dei parlamentari della sinistra del Pd e po-trebbe ancora dover sostenere una batta-glia in parlamento. La nuova autorità che sta esercitando in quanto segretario del Pd viene anche vista come una minaccia per il governo Letta, e secondo alcuni commen-tatori i rapporti tra i due sono ai minimi sto-rici. Il presidente del consiglio non ha par-tecipato alla riunione del 20 gennaio e non ha fatto quasi nessun commento sulle pro-poste. u btA

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Roma, 20 gennaio 2014. Matteo Renzi arriva alla sede del Pd

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Internazionale 1035 | 24 gennaio 2014 25

Nella politica italiana gli amici sono più pericolosi dei nemici. Al recente esempio di Silvio Berlusconi, tradito dal delino

Angelino Alfano nel momento più delicato della sua carriera politica, si è aggiunto ora quello di Matteo Renzi, segretario del Par-tito democratico (Pd). Il presidente del suo partito, Gianni Cuperlo, lo ha abbandonato proprio quando Renzi ha raggiunto un ac-cordo con il centrodestra per riformare la legge elettorale. Cuperlo, che aveva accet-tato la presidenza del Pd sei settimane fa dopo aver perso le primarie contro Renzi, il 20 gennaio si è risentito quando alcuni so-stenitori del nuovo leader hanno attribuito al “livore” le sue critiche all’accordo.

In una lettera aperta Gianni Cuperlo, ex dirigente comunista, rimprovera a Renzi di aver imposto alla direzione di approvare il pacchetto delle riforme in blocco: “Mi di-metto perché sono colpito e allarmato da una concezione del partito e del confronto al suo interno che non può piegare verso l’omologazione di linguaggio e pensiero”. La proposta di Renzi è stata approvata con 111 voti a favore, 34 astenuti e nessun voto contrario. Ma neanche ventiquattr’ore do-po questo strano caso di unanimità, il cen-trosinistra è tornato se stesso. Le parole che

si sono scambiati Cuperlo e Renzi hanno dato la dimostrazione dell’abisso politico che li separa. Cuperlo, dopo aver assicurato di essersi dimesso per esercitare il diritto di critica senza i vincoli della sua carica, ha attaccato Renzi arrivando a insinuare che tradisce i valori della sinistra: “Mi dimetto perché voglio bene al Pd e voglio impegnar-mi a raforzare al suo interno idee e valori di quella sinistra ripensata senza la quale que-sto partito semplicemente cesserebbe di essere”.

Discutere sul serioIl segretario del Pd, dopo aver accettato le dimissioni di Cuperlo e averlo ringraziato per il lavoro di queste settimane, ha replica-to: “Siamo il Partito democratico, non solo nel nome. Un partito vivo, dinamico, plura-le, appassionato. Un partito vero, non di plastica. Un partito dove si discute sul serio, non si fa inta. A viso aperto e non nei chiac-chiericci dei corridoi. Guardandosi negli occhi e non aidandosi alle agenzie di stam-pa. (…) Mi spiace che ti sia sentito ofeso a livello personale. (…) Questo partito è una comunità ampia, diicile. Dove ci si può sentire ofesi perché uno ti dice che sei livo-roso. E dove si può rimanere con un sorriso anche se ti danno del fascistoide”. u bt

Un abisso politico

Pablo Ordaz, El País, Spagna

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Roma, 11 dicembre 2013. Gianni Cuperlo durante il voto di iducia al governo

Gerhard Mumelter,Der Standard, Austria

L’opinione

Non passa giorno senza che Matteo Renzi faccia scalpo-re. A poche settimane dalla

sua elezione a segretario del Partito democratico (Pd) il sindaco di Fi-renze sta già gettando scompiglio nell’asittico panorama politico ita-liano. Che Renzi non abbia paura del confronto lo ha dimostrato lo scorso ine settimana con il suo in-contro con Silvio Berlusconi.

Lo stile poco ortodosso di Renzi è in evidente antitesi con i faticosi rituali della politica italiana, in cui da decenni tutti i protagonisti navi-gano a vista. Questo politico di 39 anni, fotogenico e dalla battuta pronta, è conteso dai talk show per-ché ogni sua apparizione in tv fa de-collare gli indici d’ascolto. Ma per quanto tempo ancora Renzi riuscirà a tenere testa ai ritmi che si è impo-sto resta una questione aperta. Il vi-vace segretario del Pd crea agitazio-ne più nel suo schieramento che nell’opposizione. Il presidente del consiglio Enrico Letta reagisce con nervosismo alle critiche che ogni giorno gli arrivano dal segretario del Pd, il quale continua a garantire di non essere interessato alla carica di capo del governo. Per dimostrare il suo distacco dai tradizionali gio-chi di potere romani, il sindaco di Firenze non pernotta mai a Roma e ogni sera prende il treno per il capo-luogo iorentino. Che questo padre di tre igli si senta perfettamente a suo agio nel ruolo dell’enfant terrible è indubbio.

Molti dei suoi avversari all’inter-no del Pd lo colpirebbero volentieri al più presto alle spalle, se non sa-pessero che il crollo di Renzi provo-cherebbe anche la ine del loro par-tito. u fp

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26 Internazionale 1035 | 24 gennaio 2014

Invitando Silvio Berlusconi al tavolo delle trattative sulla riforma della legge elettorale, Matteo Renzi, se-gretario del Partito democratico

(Pd), sembra aver scoperchiato il vaso di Pandora.

Secondo gli irriducibili del Pd, Renzi sta giocando alla roulette russa con il Cavalie-re. Mentre per i pragmatici in stile anglosas-sone, sta offrendo finalmente alla terza economia della zona euro la possibilità di uscire dallo stallo in cui è impantanata da un anno. A costo di suscitare un vespaio, il segretario del Pd intende far saltare i tabù della politica italiana per imprimerle un’ac-celerazione. Ma ci vorrà qualcosa di più di questo accordo sulla legge elettorale, rag-giunto a sorpresa il 18 gennaio con l’ex pre-sidente del consiglio, per evitare che le ri-forme si trasformino in un nuovo miraggio. “Sono stato eletto alle primarie per cambia-re le regole del gioco, per rilanciare l’occu-pazione e ofrire un orizzonte al Partito de-mocratico e all’Italia”, ha dichiarato il gior-no dopo Matteo Renzi, rispondendo agli scettici che lo accusavano di riabilitare Berlusconi. Il messaggio è chiaro. Il nuovo uomo forte della sinistra italiana non vuole lasciarsi imporre la linea da nessuno, né da-gli ex capi del Partito democratico né dall’attuale presidente del consiglio Enrico Letta. O meglio, sarà Renzi a dettare le prio-rità per il 2014: revisione della legge eletto-rale, trasformazione del senato e rilancio dell’occupazione.

Il piano per l’occupazione sarà senza ombra di dubbio l’iniziativa più emblema-tica. È su questo tema – su cui Mario Monti si è arenato – che il campione del centrosi-nistra si giocherà gran parte della sua credi-bilità, anche se non è ancora al governo. Il progetto di riforma, di ispirazione dichiara-

tamente blairista, illustra bene il metodo di Matteo Renzi: prima attaccare e poi smus-sare le asperità in corso d’opera. Proponen-do l’introduzione di un “assegno universa-le”, ma legandolo all’obbligo di seguire un corso di formazione e alla possibilità di ri-iutare solo una volta una proposta di lavo-ro, il Jobs act del sindaco di Firenze si avvi-cina molto al Workfare britannico del 1997, che inquadrava rigidamente i beneiciari dei sussidi sociali. Una vera rivoluzione in un paese come l’Italia, dove la rete dei sus-sidi resta poco trasparente e in cui la disoc-cupazione giovanile ha fatto registrare il suo record storico attestandosi al 41,6 per cento nel mese di novembre, con più di un milione e 680mila disoccupati nella fascia di età tra i 18 e i 29 anni.

Obiettivi chiariSulla carta il piano per il lavoro del sindaco di Firenze cerca di sedurre i sindacati pro-ponendo di “trasferire la tassazione del la-voro sulle rendite inanziarie”. Prevede di sempliicare la legislazione sul lavoro, la creazione di un contratto unico con tutele crescenti per tutti i nuovi assunti, la crea-zione di un “assegno universale” per chi è in cerca di lavoro e non è coperto da altre

forme di sussidio e l’ingresso dei rappre-sentanti dei dipendenti nei consigli di am-ministrazione delle grandi aziende. Riguar-do alla riforma elettorale, Renzi e Berlusconi sono pronti a trovare un accordo su un sistema a metà strada tra il modello spagnolo plurinominale a liste bloccate e il modello tedesco di assegnazione dei seggi su base nazionale, che favorirebbe il bipola-rismo a discapito dei partiti minori come il Nuovo centrodestra.

“Vivo l’urgenza come un dramma e mi meraviglio che a Roma non si rendano con-to della necessità di correre”, si stupisce spesso il nuovo segretario del Pd. In efetti

Il metodo che sorprende tutti

Matteo Renzi imprime un’accelerazione al dialogo sulle riforme rompendo i tabù della politica italiana

Pierre de Gasquet, Les Echos, Francia

Da sapere I punti della riformau Il 20 gennaio 2014 Matteo

Renzi ha presentato alla dire-zione del Partito democratico la sua proposta di riforma elettorale. La bozza, discussa con il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi, prevede un sistema proporzionale in cui i seggi si attribuiscono su base nazionale. I candidati sono eletti in circa 120 collegi. In ogni collegio i partiti o le coalizioni presenteranno una lista breve di candidati. Gli elettori non possono esprime-re preferenze. Per entrare in parlamento un partito dovrà

ottenere almeno il 5 per cento dei voti se fa parte di una coa-lizione o l’8 se non ne fa parte. Le coalizioni dovranno otte-nere almeno il 12 per cento. Se una coalizione o un partito raggiunge il 35 per cento dei voti ottiene un premio di maggioranza che consente di arrivare ino a un massimo del 55 per cento dei seggi. Se nessuna coalizione o partito raggiunge il 35 per cento, le due formazioni con più con-sensi vanno al secondo turno. Chi vince il ballottaggio ottie-ne il 53 per cento dei seggi. La

parte restante viene distribui-ta proporzionalmente tra chi supera la soglia di sbarramen-to. La proposta prevede anche la riforma del senato, con il superamento del bicamerali-smo perfetto. Il senato diven-ta una camera delle autono-mie non elettiva. I senatori non ricevono stipendio e non votano la iducia al governo. La riforma riguarda anche il titolo V della costituzione, quello dedicato alle regioni. Viene eliminata la categoria “materia di competenza con-corrente” tra stato e regioni.

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il tasso di disoccupazione in Italia ha tocca-to a novembre il 12,7 per cento, il livello più alto dal 1977. Ma nonostante Matteo Renzi goda di una buona reputazione tra gli im-prenditori, non è detto che il “sussulto blai-rista” del Pd sia suiciente ad assicurare l’elettroshock di cui il paese ha bisogno.

Rispetto al riformismo serio ma pruden-te di Enrico Letta, Matteo Renzi rivendica l’urgenza di imprimere un’accelerazione. “Chiarezza degli obiettivi, rapidità di ese-cuzione”, sono le parole d’ordine del nuovo leader del centrosinistra, in un paese in cui a volte serve un mese per aprire un conto in banca o avere una connessione alla ibra ottica. La sua capacità di persuasione è la chiave della sua popolarità, anche se in qualche caso ha dato prova di improvvisa-zione e imprecisione. “I dilettanti hanno costruito l’arca di Noè. Gli ‘esperti’ hanno costruito il Titanic”, ama ripetere Renzi, replicando a chi lo critica per le lacune e le imprecisioni del suo piano per il lavoro.

La verità è che ci vorranno ancora diver-si mesi per definire la cornice del nuovo modello elettorale e della trasformazione del senato. Rivendicando il suo status di “dilettante” ispirato, Matteo Renzi vuole soprattutto sparigliare le carte e aiutare il paese a uscire dall’immobilismo. Bisogna sperare che la ricerca della visibilità e dell’annuncio a efetto non prevalga siste-maticamente sul risultato concreto e sulla credibilità nel lungo periodo. u gim

Silvio Berlusconi è tornato. Il 18 gennaio proprio il suo più im-portante avversario politico, Matteo Renzi, nuovo segreta-

rio del Partito democratico, ha invitato il pregiudicato a un incontro sul nuovo sistema elettorale e sulle riforme co-stituzionali.

In quel momento Berlusconi era del tutto indiferente al fatto che da-vanti alla sede del Pd decine di perso-ne protestassero lanciando delle uova al passaggio della sua auto. Quel che per lui contava di più era che Renzi lo avesse scelto come alleato strategico per le riforme.

Nel corso della conferenza stampa dopo l’incontro, il giovane segretario del Pd ha dichiarato che tra lui e Berlusconi c’è una “profonda sinto-nia”. Entrambi vogliono un nuovo si-stema elettorale ispirato al modello te-desco e una trasformazione del senato (che inora ha avuto poteri equivalenti alla camera dei deputati) in una came-ra delle regioni simile al Bundesrat te-desco.

Partito divisoDal canto suo Berlusconi ha fatto capi-re che ora ha ottime opportunità di er-gersi comunque a “padre della patria”. Una svolta bizzarra: il 1 agosto 2013 è stato condannato in via deinitiva a quattro anni di reclusione per frode i-scale. Ma l’ex presidente del consiglio beneicia di uno sconto di pena di tre anni grazie all’indulto, mentre l’anno che resta dovrà trascorrerlo agli arresti domiciliari o in aidamento ai servizi sociali.

Inoltre, in seguito alla condanna, a novembre Berlusconi è decaduto dalla carica di senatore.

Sembrava che l’imprenditore, 77 anni, fosse stato escluso deinitiva-mente dai giochi politici, anche per-ché il suo partito si è spaccato in due: trenta deputati e trenta senatori (tra cui i cinque ministri) hanno fondato il partito Nuovo centrodestra (Ncd), permettendo così al governo di poter conservare la maggioranza in parla-mento.

In questa situazione a dicembre Renzi ha trionfato alle primarie del Pd, a cui hanno partecipato tre milioni di cittadini, diventando il nuovo segreta-rio del partito. Ma ora il leader dei de-mocratici deve tradurre in fatti le sue parole sul nuovo inizio, se non vuole perdere presto la sua popolarità.

Le prioritàPer Renzi la riforma del sistema elet-torale ha la priorità, anche perché la corte costituzionale ha bocciato la leg-ge in vigore alle ultime elezioni. Per efetto della sentenza, se si andasse al-le urne oggi i seggi sarebbero assegnati secondo un sistema propor-zionale secco. In questo modo l’Italia diventerebbe ingovernabile perché al-la sinistra moderata non si contrappo-ne solo la destra berlusconiana, tutto-ra potente, ma anche il Movimento 5 stelle (M5s). Perciò Renzi non vede al-tra strada che trattare con un pregiudi-cato, perché inora i cinquestelle si so-no riiutati di fare qualunque compro-messo. Così è già chiaro chi sarà il vin-citore nel prossimo dibattito sulle ri-forme: Berlusconi. Perché se metterà a punto le riforme con Renzi, il Cava-liere diventerà il nuovo padre della pa-tria, e se invece si tirerà indietro tutti se la prenderanno con Renzi che l’ha fatto ritornare al centro della scena politica. u fp

Renzi è costretto a trattare con un pregiudicato anche perché i cinquestelle non vogliono fare accordi con nessuno

Berlusconi torna in pista

Michael Braun, Die Tageszeitung, Germania

L’opinione

Roma, 3 dicembre 2013. Silvio Berlusconi

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28 Internazionale 1035 | 24 gennaio 2014

Le opinioni

I trufatori professionisti sono solo avidi imboni-tori. Ci vendono sogni che non si avverano mai. Però gli statunitensi hanno un debole per loro. Basta pensare al recente successo di The wolf of Wall street e American hustle, due ilm che cele-brano (più o meno) l’arte del bidone. Per qual-

che motivo il fatto di essere sopravvissuti a due bolle speculative, in cui un sacco di investitori e proprietari di case si sono fatti fregare da previsioni troppo belle per essere vere, non ha fatto passare agli americani la voglia di guardare Christian Bale che fa fessi tutti quelli che gli capitano a tiro, o Leonardo DiCaprio che convince il classico pollo a comprare azioni senza valore. È sempre stato così. L’espressione “conidence man”, da cui “con man” o “trufatore” fu introdotta in America da un articolo dell’Herald del 1849 in cui si raccontava dell’arresto di William Thompson, un uomo di “aspetto distin-to” che convinceva degli sconosciuti per strada a prestargli l’orologio per un gior-no (e invece glielo rubava). Poco dopo un’opera intitolata proprio The conidence man debuttò a teatro; e nei decenni suc-cessivi il trufatore professionista diven-ne un classico antieroe americano. La cosa curiosa, come scrive Walter McDougall, storico dell’università della Pennsylvania, è che “lungi dal disprezzare gli ar-tisti del raggiro come parassiti o peggio, la cultura popo-lare statunitense esalta le canaglie come igure comi-che”. Pensiamo ai ilm dei fratelli Marx oppure a La stangata o a Due igli di... Anche i ritratti più cupi, come quelli di David Mamet, ci invitano ad ammirare l’abilità con cui i trufatori riescono a convincere gli altri a dargli il loro denaro: a quanto pare rappresentano molte delle virtù a cui aspirano gli americani. Sono indipendenti e di solito si sono fatti da sé. Non devono abbassare la te-sta davanti al capo, in un paese dove le persone spesso sognano di mettersi in proprio. Il loro successo dipende dalle loro capacità. In breve, esempliicano la natura complicata del capitalismo americano che, come osser-va McDougall, nel bene e nel male si è sempre aidato all’anima “traichina” del suo popolo. L’economia sta-tunitense non è stata costruita solo sulle buone idee e il lavoro, ma anche sulle speranze e le montature.

Nel diciannovesimo secolo la distinzione fra trufa-tore e uomo d’afari era molto labile. Prendiamo per esempio la costruzione delle ferrovie, che mise in moto l’industrializzazione negli Stati Uniti e gettò le basi per una vera economia nazionale. Fu una delle più grandi trufe nella storia del paese, che causò perdite colossali per gli investitori e incredibili fortune per gli imprendi-

tori che fecero i lavori. Alla ine, però, il paese si ritrovò con un vero sistema di trasporti.

Nel ventesimo secolo il rapporto tra commercio e trufa è diventato più sottile. Lasciamo da parte i casi più eclatanti come quello di Charles Ponzi o Bernard Madof, o la lunga storia di operazioni discutibili a Wall street. Le qualità degli imprenditori sono molto simili a quelle dei professionisti della trufa. Per raccogliere il denaro necessario ad avviare un’azienda bisogna ven-dere un futuro immaginario: un sogno. Prima di vende-re una sola auto, Henry Ford convinse il suo principale fornitore ad accettare azioni invece che contanti perché

non aveva i soldi per pagare i pezzi di ri-cambio. Come scrive il sociologo Alex Preda, “la capacità di persuasione è fon-damentale: in in dei conti il pubblico va convinto a separarsi dal suo denaro sulla base della semplice promessa che un’idea porterà proitti in futuro”. Per co-struire un’impresa di successo serve es-sere un po’ imbonitori, convincere gli investitori e i dipendenti a rischiare il loro denaro, il loro tempo e il loro lavoro. Bi-sogna vendere ottimismo, come i trufa-tori professionisti. Come dice Mel Wein-

berg (al quale si ispira il personaggio di Bale in American hustle) nel libro The sting man di Robert Greene: “La mia ilosoia è dare speranza... Ecco perché la maggior parte della gente non ci denuncia alla polizia. Conti-nuano a sperare che facciamo sul serio”.

In un’economia dinamica convincere la gente a puntare su un futuro ignoto (e spesso improbabile) è essenziale. Il più grande mito imprenditoriale della no-stra epoca, Steve Jobs, era leggendario per il suo “cam-po di distorsione della realtà” che gli permetteva di convincere i suoi interlocutori che i risultati più impro-babili fossero possibili o addirittura certi. Anche le in-terminabili prove prima delle presentazioni al pubblico e la capacità di “sceneggiare” ogni istante per massi-mizzare l’efetto sono trucchi da trufatore professioni-sta. E così il senso di sicurezza che Jobs riusciva a pro-iettare all’esterno. Come dice Weinberg, “devi creder-ci: se non ci credi non riuscirai a vendere”.

Ovviamente la diferenza fondamentale tra un im-prenditore e un trufatore è che il secondo sa che le fan-tasie che sta vendendo sono false. Steve Jobs riusciva abbastanza spesso a far avverare quelle fantasie. Eppu-re la stessa miscela non quantiicabile di rischio, spe-ranza e montatura è alla base sia della formula capitali-sta di trasformazione del mondo sia dello stratagemma del trufatore per prendersi il denaro altrui. Forse non a caso parliamo di “sogno americano”. u fsa

Perché gli americaniadorano i trufatori

James Surowiecki

james surowiecki

è un giornalista statunitense. Questo articolo è uscito sul New Yorker. Altre column di James Surowiecki sono su newyorker.com. In Italia ha pubblicato La saggezza della folla (Fusi orari 2007).

La stessa miscela di rischio, speranza e montatura è alla base sia della formula capitalista di trasformazione del mondo sia dello stratagemma del trufatore per rubare il denaro altrui

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Un progetto

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Le opinioni

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“Un ospedale per l’anima”. È così che papa Francesco ha deinito il suo progetto di chiesa, rifa-cendosi alla tradizione france-scana. Una chiesa che abban-doni burocrazia e orpelli e vada

tra la gente, curando le ferite quotidiane, dando speran-za e senso della vita, e che si rivolga soprattutto agli emarginati e ai giovani incompresi dalle istituzioni. Francesco l’ha fatto esplicitamente nel luglio del 2013 in Brasile, invitando i gio-vani a ribellarsi contro “i pastori” che si comportano male, di fronte ai vescovi attoniti. E ha scelto il Brasile, il paese con più cattolici al mondo, che però sono di-minuiti tra il 2000 e il 2010, mentre gli evangelici sono passati da 26 a 42 milioni. È un fenomeno globale, perché anche se i cattolici sono la metà dei cristiani, cre-scono più lentamente della popolazione mondiale, mentre il tasso di crescita de-gli evangelici è doppio. Circa la metà dei cattolici vive nel continente americano (contro il 23 per cento in Europa), ed è proprio lì che la sida delle chiese evangeliche è più forte. Intanto in Europa diminuisco-no i giovani cattolici praticanti, che non si riconoscono nel messaggio uiciale della chiesa.

La decadenza della chiesa cattolica è un fattore fon-damentale per capire perché un gesuita (l’ordine più intellettuale e aristocratico) abbia scelto di indossare l’abito dell’ordine dei frati minori per mobilitare il po-tenziale di 1,2 miliardi di cattolici come forza di rigene-razione della società, in un momento di crisi generale di iducia nelle istituzioni politiche e religiose. Quest’ispi-razione francescana è l’ultima speranza per un papa che aspira alla “conversione del papato” per contrasta-re la decomposizione morale e la crisi d’inluenza della chiesa. Ma non bisogna aspettarsi un ritorno alla teolo-gia della liberazione come politicizzazione di sinistra della chiesa: Francesco è un pastore conservatore, mol-to legato ai valori originali del cattolicesimo. Il suo obiettivo è riafermarli contro la loro violazione quoti-diana da parte di certi settori della gerarchia ecclesia-stica. Il punto per lui non è mettere ine al celibato, ma estirpare la pedoilia. Non vuole permettere il matri-monio omosessuale, ma accettare la realtà dei bambini che crescono con genitori omosessuali senza condan-narli all’inferno. Nelle omelie che pronuncia ogni mat-tina nella cappella di Santa Marta parla soprattutto di tolleranza verso le persone e di intolleranza verso un mondo ingiusto e in guerra perenne, in cui 900 milioni di persone sofrono la fame mentre 1,3 miliardi di ton-

nellate di cibo vanno sprecati. Condanna l’avarizia e il culto per il denaro e il consumo. In realtà è un vecchio discorso ecclesiastico, che però ora si traduce in azioni concrete per dare l’esempio e insegnare ai cattolici co-me credere davvero in quello che predicano.

Ma la battaglia che il papa deve ancora vincere, e su cui il suo predecessore ha fallito, è la riforma politica della chiesa stessa. Perché alla radice della degenera-zione della chiesa c’è l’enorme potere della burocrazia

ecclesiastica, soprattutto in Vaticano e nella curia cardinalizia. Una trama di in-teressi inanziari, politici e religiosi che nessuno è stato in grado di sciogliere. È questo il compito di Francesco. Se n’è oc-cupato con slancio in dall’inizio del suo papato, nominando varie commissioni: per la riforma della curia, il controllo del-le inanze vaticane, la riorganizzazione del sistema bancario vaticano, il decen-tramento della chiesa (dando più potere alle conferenze episcopali), il controllo della pedoilia e l’aiuto alle vittime.

Sono due i compiti fondamentali. Il primo è sman-tellare il sistema di riciclaggio di denaro sporco della banca vaticana. È uno scandalo che inora non sia stato fatto nulla contro fatti di dominio pubblico: ci sono dei collegamenti tra la banca vaticana e le reti criminali mondiali, grazie ai tradizionali contatti con la maia e a qualche loggia massonica italiana. Il secondo compito è la riforma della curia, per sottrarre potere al cardina-lato italiano tradizionale e per obbligarlo ad aprirsi alle nuove generazioni dei paesi emergenti.

Per non essere messo in croce prima ancora di vin-cere la battaglia, Francesco avrà bisogno di qualcosa di più del suo esempio, dei suoi argomenti e dei suoi se-gnali di democratizzazione, come l’abolizione del titolo di monsignore. Avrà bisogno dell’aiuto dei cattolici, so-prattutto dei giovani organizzati nei social network, per vincere la feroce resistenza degli interessi creati nella chiesa. Questo vale anche per le lotte che Ratzinger non è riuscito a vincere, come quella contro il potere occulto di alcune congregazioni, come i Legionari di Cristo, le-gate in molti paesi a oligarchie economico-politiche. Fino a quando la sua profonda azione innovatrice reste-rà sul piano delle parole, le forze del male che si annida-no nella chiesa si comporteranno con discrezione. Ma con l’avanzare della riforma, la situazione si farà più tesa. Per questo la popolarità del papato nella società è una condizione necessaria per consolidare la possibili-tà di riformare la chiesa. Solo se questa riforma avrà successo i cattolici potranno inalmente credere che dio gli ha restituito la chiesa. u fr

La chiesasecondo Francesco

Manuel Castells

MANUEL

CASTELLS è un sociologo spagnolo che insegna all’University of Southern California. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Reti di indignazione e

speranza (Università Bocconi editore 2012).

Sono due i compiti fondamentali di questo papa. Il primo è smantellare il sistema di riciclaggio di denaro sporco della banca vaticana. Il secondo è la riforma della curia

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equity

cooperation

education

global health

development

Medici con l’Africa Cuamm è la prima ong in campo sanitario riconosciuta in Italia. Si spende per il rispetto del diritto umano fondamentale alla salute e per rendere l’accesso ai servizi sanitari

Equal opportunities for health: action for development è un progetto di educazione e sensibilizzazione che intende ribadire l’importanza di un approccio alla salute intesa come diritto

A project financed by the European Union

disponibile a tutti, anche ai gruppi di popolazione che vivono nelle aree più isolate e marginali.Nata nel 1950, oggi è presente in 7 paesi dell’Africa a sud del Sahara, in Angola,

umano fondamentale fortemente connesso allo sviluppo sociale dell’individuo. Il progetto – di cui Medici con l’Africa Cuamm è l’organizzazione capofila – mira a rendere consapevole l’opinione

pubblica europea dello stretto legame tra salute e sviluppo e a responsabilizzare la comunità medico-sanitaria – medici, operatori sanitari, docenti e formatori, studenti di Medicina – ad agire.

Aula Ippolito NievoPalazzo BoVia 8 Febbraio 2

Registrazione dei partecipanti alla conferenzadalle ore 8.30

Informazioni

Medici con l’Africa CuammT. 049 [email protected]

Iscrizioniwww.mediciconlafrica.org/adecentlifeforall

Etiopia, Mozambico, Sud Sudan, Tanzania, Uganda e Sierra Leone. Sono 157 gli operatori sul campo impegnati in 33 progetti principali, a supporto di 18 ospedali, 23 distretti, 2 università.

A decent life for all: equal opportunities for health. Action for development

1 febbraio 2014, Padova

Conferenza internazionale

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In copertina

32 Internazionale 1035 | 24 gennaio 2014

Il 28 giugno del 2013 la polizia ita-liana ha arrestato a Roma Nunzio Scarano, un sacerdote con i capel-li brizzolati soprannominato “monsignor cinquecento” per via delle banconote da 500 euro che

era abituato a portarsi dietro. Il religioso è stato accusato di trufa e corruzione insie-me a un ex agente dei servizi segreti e a un intermediario inanziario. I tre uomini sono sospettati di aver provato a contrabbandare 20 milioni di euro su un aereo privato pro-veniente dalla Svizzera (il 21 gennaio 2014 Scarano è stato arrestato di nuovo, con l’ac-cusa di riciclaggio).

Gli inquirenti sospettano che il sacerdo-te si sia servito dell’Istituto per le Opere di Religione (il nome giuridico della banca vaticana, lo Ior) per trasferire denaro per conto di alcuni uomini d’affari residenti nella zona di Napoli, considerata l’epicen-tro della criminalità organizzata. Ad aggra-vare la posizione di Scarano (che, come gli altri arrestati, nega ogni accusa) c’è il suo passato incarico di direttore dell’ufficio contabile dell’Amministrazione del patri-monio della sede apostolica (Apsa), il mini-stero del tesoro vaticano.

L’arresto e i titoli sulle prime pagine di tutti i giornali italiani sono stati un brutto colpo per la Santa Sede, sconvolta solo quattro mesi prima dalle dimissioni di papa Benedetto XVI, il primo caso di congedo volontario di un ponteice in settecento an-ni. Ma la nuova crisi richiedeva un inter-vento duro e severo. Per i leader delle istitu-zioni politiche ed economiche europee (da Mario Draghi, all’epoca governatore della Banca d’Italia, al presidente del consiglio

Mario Monti ino ai vertici di Bruxelles), che già da quattro anni chiedevano un cam-biamento all’interno della banca vaticana, l’arresto di Scarano è stata l’ennesima con-ferma dei loro sospetti. E le loro preoccupa-zioni hanno messo in allarme alcuni gruppi inanziari internazionali, che a loro volta hanno chiesto un cambio di rotta.

All’inizio di luglio Peter Sutherland, di-rettore non esecutivo della Goldman Sachs International ed ex procuratore generale irlandese, è atterrato a Città del Vaticano con una missione chiara. Sutherland, catto-lico praticante e consulente non retribuito dell’Apsa, era stato incaricato dall’ala rifor-mista della chiesa di intercedere presso il consiglio dei cardinali, i consiglieri più an-ziani del ponteice. Il suo messaggio agli uomini riuniti in una stanza nei pressi della Casa Santa Marta, la residenza di papa Francesco, è stato rispettoso ma diretto. Come molti, dentro e fuori la chiesa, il ban-chiere (che non ha voluto rilasciare com-menti per quest’articolo) ha chiesto un se-gnale di cambiamento da parte della città-stato più piccola del mondo. Secondo due persone informate dei fatti, durante l’in-contro a porte chiuse Sutherland avrebbe detto: “La trasparenza è importante e ne-cessaria”.

I cardinali, famosi per le loro lunghe ed elaborate consultazioni, si sono dimostrati sorprendentemente ricettivi. Dopo dieci anni di scandali legati alla pedoilia, le ac-cuse di irregolarità inanziarie rischiavano di scatenare una nuova ondata di critiche e dovevano essere afrontate rapidamente. Il Vaticano si era già rivolto a revisori esterni e a esperti di rischi inanziari, ma dopo l’ar-

resto di Scarano era chiaro che le riforme non potevano più essere rimandate. “Non possiamo permetterci altri scandali. È una vergogna”, ha detto in quel periodo un im-portante funzionario dell’amministrazione inanziaria vaticana.

Il “pentimento” della banca di Dio per i

I nuovi banchiRachel Sanderson, Financial Times, Regno Unito

René Bruelhart ed Ernst von Freyberg sono i banchieri laici su cui Bergoglio conta per mettere ordine nell’Istituto per le Opere di Religione. E chiudere una pagina oscura della storia della chiesa. L’inchiesta del Financial Times

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Internazionale 1035 | 24 gennaio 2014 33

suoi peccati inanziari è l’ultimo capitolo di un processo di riforme internazionali co-minciato dopo la crisi del credito del 2008. Paradisi un tempo inviolabili come la Sviz-zera e il Liechtenstein hanno dovuto aprire i loro cancelli dorati alle inchieste delle au-torità internazionali di vigilanza. E nel 2013

è stato il potere dei papi a essere sidato.Per undici mesi il Financial Times ha

intervistato più di venti banchieri, avvocati, regolatori e addetti ai lavori del mondo cat-tolico cercando di scoprire come le attività opache di un istituto con un patrimonio di cinque miliardi di euro, il cui scopo dovreb-

be essere servire la missione della chiesa cattolica, hanno messo in crisi banche, au-torità di regolamentazione e governi in Eu-ropa e negli Stati Uniti.

Le riforme in corso sono cominciate an-che grazie alle pressioni di istituti interna-zionali come Deutsche Bank, JPMorgan e

chieri del papa

La beatiicazione di Giovanni Paolo II, il 1 maggio 2011

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In copertina

UniCredit, inite a loro volta nel mirino del-le autorità di vigilanza per i loro rapporti con la banca vaticana. Una trentina di isti-tuti, tra cui alcuni dei gruppi inanziari più grandi del mondo, hanno svolto per anni la funzione di banche “di corrispondenza” della Santa Sede, prestando i loro servizi quando gli afari della chiesa oltrepassava-no i conini della Città del Vaticano. In pra-tica, hanno aperto al Vaticano (e ad altri clienti istituzionali) le porte dei mercati i-nanziari internazionali. Secondo un porta-voce della Santa Sede, le banche di corri-spondenza avrebbero trasferito su conti all’estero ino a due miliardi di euro all’an-no provenienti dallo Ior. Dopo la crisi del 2008, il timore che la loro reputazione fosse macchiata dai legami con la banca vaticana ha spinto queste banche a prendere provve-dimenti, e anche lo Ior ha dovuto adeguar-si. Diversi professionisti del mondo inan-ziario hanno raccontato al Financial Times dei loro rapporti con esponenti vaticani e hanno fornito documenti sulla struttura della banca. Nessuno ha voluto rilasciare dichiarazioni uiciali, citando ragioni di delicatezza verso il mondo bancario e reli-gioso. Tutti hanno spiegato che il loro obiet-tivo è aiutare lo Ior nelle sue riforme.

Negli ultimi due anni le autorità di vigi-lanza hanno ascoltato vari esponenti di pri-mo piano delle banche di corrispondenza a proposito dei loro rapporti con la banca va-ticana. Tutti hanno sostenuto che lo Ior opera in modo diverso dalle altre banche. E alcune dichiarazioni raccolte dal Financial Times confermano quello che è emerso successivamente dai documenti ufficiali delle istituzioni europee sul funzionamen-to dell’istituto. C’erano pochissimi control-li e contrappesi sui lussi di cassa. Molte operazioni non erano adeguatamente do-cumentate. Il personale era ridotto all’osso: 112 dipendenti, quasi tutti italiani, con la supervisione di alcuni cardinali. “Non ri-spettavano neanche i requisiti minimi di informazioni sui clienti”, sostiene un diri-gente di una banca internazionale.

Troppi contantiLo Ior ha pubblicato la sua prima relazione annuale all’inizio di ottobre del 2013: la banca ha 19mila clienti in tutto il mondo, 33mila depositi e un patrimonio di 5 miliar-di di euro. I prestiti sono pochi; l’istituto si occupa soprattutto di gestire depositi, tra-sferire fondi e fare investimenti. Metà dei clienti appartengono a ordini religiosi; un altro 15 per cento è rappresentato da istitu-zioni della Santa Sede; il 13 per cento sono cardinali, vescovi e altri esponenti del cle-

que, con il suo piccolo supermercato, la far-macia, la pompa di benzina e l’uicio po-stale. La banca della città, però, si trova nella più sfarzosa delle sedi possibili: il pa-lazzo apostolico. Benedetto XVI e Giovanni Paolo II alloggiavano sopra gli uici della banca. Quando Giovanni Paolo II non è sta-to più in condizione di fare le scale, a causa della malattia, è stato installato un ascen-sore il cui ingresso al piano terra si trova accanto all’entrata posteriore della banca (Francesco ha scelto una residenza più fru-gale, che simbolicamente si trova molto lontana dagli uici della banca).

Rifugio per gli evasoriPer generazioni i vaticanisti si sono chiesti se i papi fossero al corrente di chi entrava e usciva dalle porte dell’istituto. Quello che possiamo considerare l’antenato dello Ior fu fondato nel 1887 come “amministrazio-ne” incaricata di raccogliere e usare denaro per le opere religiose. Nel 1942, durante gli anni convulsi della guerra, Pio XII diede all’istituto un nuovo nome e un chiaro man-dato bancario.

L’Istituto per le Opere di Religione do-veva “provvedere alla custodia e all’ammi-nistrazione dei beni (sotto forma di titoli e contanti) trasferiti o aidati alla chiesa da persone isiche o giuridiche e destinati a opere di religione e carità”. Nei decenni

successivi le domande su una parte di queste attività (in parti-colare sui rapporti e le transazio-ni d’affari esaminati da David Yallop nel libro In nome di Dio, del 1984) hanno alimentato i sospet-

ti di possibili collegamenti con la maia. Un libro di Marco Politi e Carl Bernstein del 1996, Sua santità, dà un’interpretazione più benevola dei lussi di cassa degli anni ot-tanta: tramite un conto discrezionale inte-stato a Giovanni Paolo II, la banca inviava sistematicamente finanziamenti a Solidarność, il movimento di resistenza po-lacco, per combattere il comunismo nell’Europa dell’est.

La vicenda più grave è certamente quel-la legata alle rivelazioni sui rapporti tra lo Ior e il Banco Ambrosiano di Milano, unico caso di crac bancario nella storia d’Italia. Lo Ior era il principale azionista del Banco Ambrosiano. Nel 1982 il Banco fallì, e poco dopo il suo presidente Roberto Calvi fu ri-trovato impiccato sotto il ponte dei Frati neri, a Londra. Secondo la magistratura di Roma, il banchiere sarebbe stato ucciso dalla maia, ma nessuno è stato mai con-dannato per l’omicidio.

Negli ultimi anni lo Ior è inito di nuovo

ro; il 9 per cento viene dalle diocesi cattoli-che di tutto il mondo. La parte restante si divide tra soggetti che hanno, o dovrebbero avere, “ailiazioni alla chiesa cattolica”, si legge nella relazione.

Secondo fonti vaticane, la banca riceve abbondanti donazioni in contanti, dalle raccolte domenicali ai contributi di benei-cenza. Circa il 25 per cento delle transazioni dello Ior avviene in contanti, un elemento che alimenta i sospetti di riciclaggio da par-te delle autorità di vigilanza. Circa un terzo del giro d’afari della banca deriva dalle do-nazioni provenienti dagli istituti di benei-cenza.

Laura Pedio, giudice del tribunale di Milano che si occupa dei reati commessi dai colletti bianchi, è una delle poche per-

sone informate che ha accettato di parlare apertamente. Pedio, che nel 2011 ha inda-gato sulla bancarotta di un ospedale catto-lico e quindi ha avuto accesso a informazio-ni sulla banca vaticana, ha scoperto un complicatissimo sistema di deleghe in cui alcuni soggetti erano autorizzati a svolgere transazioni per conto di correntisti spesso non identii-cati. Pedio ha scoperto che molti soggetti operavano su delega, ma nessuno all’interno della banca teneva un elenco dei beneficiari. Alcuni clienti sono stati identiicati solo verbal-mente da un numero ristretto di dipenden-ti dello Ior. Spesso non c’era modo di otte-nere una risposta. “La domanda era sempre la stessa: ‘Chi è il beneficiario ultimo di questo conto?’”, dice il magistrato.

Secondo un consulente del Vaticano che vive a centinaia di chilometri dal colonnato di marmo di San Pietro, le inchieste della magistratura e dell’autorità di vigilanza hanno portato a un cambio di atteggiamen-to delle banche verso la Santa Sede. Messe sotto pressione dagli istituti di controllo eu-ropei, le banche hanno smesso di chiudere un occhio davanti ai segreti del Vaticano. “L’atteggiamento degli istituti di corrispon-denza è diventato molto più severo e prag-matico: non siamo qui per coprire il culo del Vaticano”, spiega il consulente.

Il Vaticano è uno stato sovrano che di-fende ostinatamente la sua privacy. Sotto molti aspetti ricorda una cittadina qualun-

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I decreti emessi da Francesco hanno contribuito ad accelerare i controlli

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sotto i rilettori per i inanziamenti alle atti-vità religiose e umanitarie in giro per il mondo. Funzionari vaticani presenti e pas-sati hanno confermato al Financial Times che la banca ha inanziato gruppi cristiani a Cuba e in Egitto, spesso in segreto oppure senza informare adeguatamente le banche di corrispondenza.

Esperti di affari vaticani, banchieri e magistrati concordano sul fatto che il siste-ma, costruito per spostare rapidamente fondi in paesi con situazioni diicili, può essere stato usato per scopi legati all’eva-sione iscale o alla criminalità organizzata. “Il problema è che quando si comincia con le operazioni opache poi non si sa più quan-do mettere un punto e smettere. All’inizio si trattava solo di mandare soldi in Polonia, poi la cosa è sfuggita di mano”, dice un im-portante dirigente europeo di una banca statunitense legata per anni al Vaticano. “Non c’erano regole”, osserva un esperto di questioni vaticane. “Se poi arriva qualcuno con obiettivi criminali, la frittata è fatta”.

Secondo un ex funzionario dello Ior, il codice di regolamentazione della banca è stato “indulgente” ino al 2008. Prima di allora nessuno, né le autorità di vigilanza né gli esponenti della Santa Sede, ha mai fatto pressioni ainché l’istituto operasse

in modo più trasparente. È cambiato tutto dopo l’inizio della crisi dell’euro. Gli sforzi congiunti dell’Organizzazione per la coo-perazione e lo sviluppo economici, del Consiglio europeo per la stabilità inanzia-ria e del Gruppo d’azione inanziaria inter-nazionale hanno portato a un giro di vite sugli stati che non rispettano le regole inter-nazionali. Nel frattempo la magistratura di Roma ha cominciato a indagare su una se-rie di transazioni sospette partite dalla San-ta Sede e dirette verso il sistema bancario italiano. Al centro delle attenzioni è inita una filiale dell’UniCredit, la più grande banca italiana.

La Banca d’Italia, che stava svolgendo un’inchiesta di routine sul riciclaggio di de-naro sporco, si è accorta di una serie di in-congruenze nei rapporti tra la iliale della banca e lo Ior e ne ha dato notizia alla pro-cura di Roma. Secondo una fonte informa-ta dei fatti, a far scattare il campanello d’al-larme sarebbe stata la presenza di distinte di pagamento di correntisti anonimi dello Ior. L’inchiesta è stata archiviata l’anno scorso, ma non senza conseguenze per il Vaticano. L’UniCredit aferma di aver chiu-so ogni rapporto con la Santa Sede. E non è stata l’unica.

Cambiare non è stato facile. Il problema

principale è che l’Unione europea non ha nessun potere di regolamentazione sul Va-ticano. È stata la Banca d’Italia, quando era governata da Draghi, a mettere sotto tor-chio le banche che avevano rapporti d’afa-ri con lo Ior. Dice un ex ministro italiano: “È così che si fa in queste situazioni, quando c’è uno stato su cui non si hanno poteri di regolamentazione e bisogna cambiare re-gistro: s’impedisce alle banche di fare afari con gli stati inadempienti”.

Nel 2009 lo Ior è stato al centro di vari incroci inanziari. Mentre la magistratura andava avanti con l’inchiesta, la Banca d’Italia ha intensiicato le pressioni sulle banche di corrispondenza.

La Santa Sede, guidata da un Benedetto XVI sempre più fragile, ha cercato di fare la sua parte nominando Ettore Gotti Tede-schi, un banchiere conservatore ben inseri-to nel sistema, come presidente dello Ior. Inoltre ha chiesto al consiglio d’Europa di aprire un’inchiesta attraverso Moneyval, il comitato di esperti per la valutazione di mi-sure contro il riciclaggio di capitali e il i-nanziamento del terrorismo. Benedetto XVI ha poi dato la sua approvazione all’isti-tuzione di un nuovo organismo di vigilanza inanziaria dentro le mura del Vaticano.

Gotti Tedeschi era stato il presidente del

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Papa Francesco a piazza San Pietro, 9 ottobre 2013

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Banco Santander in Italia ed era considera­to il braccio destro di Emilio Botín, il nume­ro uno della banca. Inoltre faceva parte del consiglio d’amministrazione della Cassa depositi e prestiti, una gigantesca società pubblica di gestione del risparmio. Tutta­via, secondo alcuni, Gotti Tedeschi era mal visto da alcuni membri del consiglio dei cardinali, infastiditi dai suoi inviti alla tra­sparenza. A maggio del 2012 Gotti Tedeschi è stato sollevato dall’incarico dopo un voto di siducia del consiglio. È stato perino ac­cusato di aver commesso dei reati, salvo poi essere prosciolto dalla magistratura.

Banche preoccupateNel 2009 anche le banche di corrisponden­za hanno cominciato ad andare in ibrilla­zione. Il mancato rispetto delle norme in­ternazionali antiriciclaggio da parte del Vaticano rappresentava una potenziale mi­naccia alle loro attività. Dopo il giro di vite sugli evasori iscali in paradisi ofshore co­me la Svizzera, le banche temevano di inire nel mirino delle autorità di vigilanza per via dei loro rapporti con il Vaticano, che conti­nuava a difendere il segreto bancario.

Nel marzo del 2012 la JPMorgan ha chiu­so i conti bancari del Vaticano perché lo Ior non forniva sufficienti informazioni sui fondi che chiedeva di spostare in giro per il mondo, rivelano due fonti di due diverse istituzioni inanziarie. Anche altre banche hanno cominciato a incalzare il Vaticano. Racconta un dirigente di una grande banca europea: “Dicevamo: ‘Dobbiamo rispon­dere al regolatore su questo punto’. Loro replicavano: ‘Noi rispondiamo a Dio’”.

Il rapporto di Moneyval, pubblicato nel luglio del 2012, ha raforzato la sensazione di un assedio alla Santa Sede. Secondo il comitato di esperti, l’Autorità di informa­zione inanziaria, l’organismo creato con l’approvazione di Benedetto XVI, non di­sponeva di suicienti poteri di vigilanza e dell’indipendenza necessaria per sanzio­nare le istituzioni inanziarie vaticane. L’or­ganismo, si legge nel rapporto, non aveva pieno diritto di accesso ai libri contabili o ad altro tipo di informazioni. Secondo Mo­neyval, lo Ior rispettava solo 9 dei 16 requi­siti essenziali.

Il rapporto di Moneyval ha fornito ma­teriale per indagare sull’attività di altre banche, tra cui il colosso tedesco Deutsche Bank, che dal 1997 gestisce il sistema dei bancomat e delle carte di credito della Città del Vaticano. Nell’estate del 2012 la Banca d’Italia ha chiesto alla Deutsche Bank se fosse in possesso di una licenza per l’eroga­zione del servizio. Lo Ior non si era adegua­

to alle norme internazionali, quindi secon­do la banca centrale italiana era possibile che la Deutsche Bank stesse violando la legge. In un’altra lettera la Banca d’Italia ha chiesto all’istituto tedesco di chiudere tutti i conti dello Ior entro la ine dell’anno.

La Deutsche Bank si è adeguata: il 1 gen­naio 2013, nel pieno delle vacanze natalizie, non c’era più un bancomat funzionante in tutta la Città del Vaticano. I turisti in coda per la Cappella Sistina potevano entrare solo pagando in contanti. “Il messaggio era semplice: se volete far parte del mondo mo­derno, dovete adeguarvi alle normative moderne”, spiega un dirigente di una banca di corrispondenza.

Negli ultimi giorni del suo pontiicato, Benedetto XVI ha disposto una serie di no­

mine che hanno contribuito al cambio di rotta finanziaria della Santa Sede. René Bruelhart, avvocato svizzero già a capo del­la Financial intelligence unit del Liechten­stein, è stato nominato direttore dell’Auto­rità di informazione inanziaria. Una delle ultime disposizioni del ponteice è stata la nomina del nuovo direttore dello Ior, Ernst von Freyberg, un banchiere e ari­stocratico tedesco esperto di fu­sioni e acquisizioni che nel tempo libero accompagna i pellegrini a Lourdes.

Bruelhart, il più giovane dei due (ha 41 anni), ha avuto un ruolo chiave nella restituzione del patrimonio del regi­me di Saddam Hussein al governo irache­no, e nel 2006 ha contribuito a far venire alla luce lo scandalo delle tangenti per i contratti Siemens. Il suo proilo giuridico, unito alla giovane età e alla bella presenza, gli è valso il soprannome di “James Bond” del mondo inanziario. Bruelhart si è messo subito all’opera per far tornare in funzione i bancomat e le carte di credito in Vaticano. Nel giro di un mese ha incaricato l’Aduno Group, un’azienda svizzera, di prendere in mano la gestione dei bancomat, aggirando così le pressioni delle autorità di vigilanza italiane ed europee.

A marzo del 2013 è stato eletto un nuovo papa, un gesuita che predicava povertà e umiltà come san Francesco d’Assisi e che ha subito fatto capire le sue intenzioni. In uno dei suoi primi discorsi, Bergoglio si è

scagliato contro l’“idolatria del denaro”, la “corruzione tentacolare” e “l’evasione i­scale egoista che ha assunto dimensioni mondiali”. Poi ha mandato un altro segnale facendo spostare la sua residenza lontano dal palazzo apostolico e dalla banca vati­cana.

I decreti papali emessi da Bergoglio hanno contribuito ad accelerare i controlli e a fare pulizia tra gli alti ranghi cardinalizi. Secondo fonti della Banca d’Italia, il nuovo papa “ha compiuto passi importanti verso una vera riforma dell’architettura giuridi­co­istituzionale”. Inoltre ha assegnato all’Autorità di informazione inanziaria po­teri di vigilanza più ampi.

Il papa ha poi chiesto una revisione delle attività dello Ior e ha nominato due comita­ti formati da alti prelati e banchieri laici. Il loro compito era dare indicazioni sul futuro dell’istituto, che dovrebbe avere un ruolo “in armonia con la missione della chiesa cattolica”, secondo la nota del Vaticano. Secondo gli esperti, inora Bruelhart e von Freyberg sono stati complementari nel loro approccio alle riforme. Bruelhart ha subito messo in piedi un gruppo di lavoro incarica­to di controllare i conti correnti e tracciare i movimenti di denaro.

Colazione con il papaPochi mesi dopo l’arrivo dei due funzionari esterni, Peter Sutherland è arrivato da Lon­dra per illustrare ai cardinali le virtù della

trasparenza. Prima dell’incontro con i porporati, Sutherland è en­trato nella sala da pranzo della Casa Santa Marta. C’era papa Francesco che faceva colazione, racconta un testimone. “Non riu­

scivo a credere ai miei occhi. Mi sembrava impossibile”, dice. “Il papa da una parte e uno dei banchieri più famosi del mondo dall’altra”.

Prima dell’estate, von Freyberg si è ri­volto al Promontory Financial Group, una società internazionale specializzata in re­golamentazione e consulenza in campo i­nanziario. Il compenso della Promontory Group, secondo von Freyberg, “supera di molto le sette cifre”.

In una limpida mattina di ine ottobre, sotto un dipinto della crociissione di Cri­sto, nove specialisti del Promontory Finan­cial Group si sono messi a controllare al computer tutte le scansioni dei passaporti degli intestatari dei conti dello Ior. Hanno confrontato a mano e con metodo certosi­no tutti i nomi e i volti con gli ultimi moduli bancari compilati. Secondo il Vaticano, in questo momento il 25 per cento del perso­

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Il 1 gennaio 2013 non c’era più un bancomat funzionante in tutta la Città del Vaticano

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nale dello Ior è formato da specialisti del Promontory Financial Group.

Nell’uicio a ianco c’era Rolando Mar-ranci, ex direttore inanziario della Bnp Pa-ribas in Italia e nuovo direttore generale dello Ior. Marranci è stato assunto subito dopo l’arresto di monsignor Scarano, l’ex responsabile inanziario del Vaticano.

Secondo persone informate sui fatti, i nuovi arrivati hanno ricevuto il mandato di chiudere centinaia di conti presenti nei libri mastri vaticani entro il 2014. Ma alcuni di-pendenti dello Ior spiegano che bisognerà aspettare ino alla seconda metà dell’anno prima che siano esaminati tutti i depositi. Nel mirino ci sono i conti correnti intestati a clienti che risultano non avere più legami con la Santa Sede. Quando mancano infor-mazioni essenziali o si scopre che un cliente non ha legami con il Vaticano, i conti sono segnalati al gruppo di lavoro di Bruelhart. A quel punto lui decide, alla luce delle nuove norme antiriciclaggio, se chiuderli oppure no.

Sia Bruelhart sia von Freyberg hanno provato a rassicurare il Vaticano sui sospet-ti legati alle attività di riciclaggio. Il volume delle transazioni dello Ior (circa due miliar-di di euro l’anno in entrata e in uscita) è troppo piccolo per essere considerato a ri-

schio, spiegano fonti vicine agli interessati. Restano però i sospetti sul ruolo della ban-ca come rifugio per gli evasori italiani. Co-me è noto, l’Italia è uno dei paesi europei dove il problema dell’evasione iscale è più grave.

I conti in ordine

Secondo i funzionari bancari che hanno se-guito più da vicino il passaggio tra i due pa-pi, il 2013 ha segnato un cambiamento epo-cale. La gerarchia vaticana sta cercando di creare un nuovo organismo di vigilanza for-mato da esperti in materia di regolamenta-zione. Le quattro grandi società di revisione si stanno occupando dei suoi conti. In pre-cedenza il personale dello Ior era formato quasi esclusivamente da italiani; ora la ban-ca ha aperto le porte a professionisti stra-nieri con un’esperienza internazionale. Sono aumentati i controlli sull’Apsa, l’orga-nismo che gestisce il patrimonio immobi-liare della chiesa e l’acquisto e la vendita di titoli di stato. Sutherland e il inanziere in-ternazionale Bob McCann, amministratore delegato della Ubs Americas, sono due dei cinque “consulenti uiciali” dell’Apsa, se-condo l’annuario vaticano del 2013. Nell’ot-tobre dello scorso anno, il Vaticano ha an-nunciato che i consulenti dell’organismo

entreranno a far parte di un nuovo comitato di supervisori. Né Sutherland né McCann hanno voluto rispondere a domande sul co-mitato, ma anche in quel caso avranno molto lavoro da fare.

Con grande sorpresa delle autorità vati-cane, all’interno dell’Apsa sarebbero stati scoperti alcuni conti correnti che stavano per essere spostati presso lo Ior. L’esistenza stessa di questi conti è l’ennesima dimo-strazione del fatto che per anni il sistema inanziario è stato gestito nella toltale as-senza di regole chiare.

Altri cambiamenti sono all’orizzonte. Bruelhart ha sottoscritto un protocollo d’intesa per lo scambio di informazioni sul-le transazioni sospette con Stati Uniti, Ita-lia, Spagna, Belgio, Paesi Bassi e Slovenia, a cui stanno per aggiungersi altri 15 o 20 pae-si. Si è anche rivolto all’Egmont Group, una rete di uici di intelligence di vari paesi che si scambiano informazioni sulle transazio-ni sospette.

Tra gli esperti e gli addetti ai lavori c’è un cauto ottimismo, non solo a Roma. Ma molti ammettono che ci sono ancora ten-sioni tra gli alti sacerdoti della inanza e il Vaticano. “Alla ine è una questione di vo-lontà politica”, aferma un consulente dello Ior. “Anche se quello che sta avvenendo in

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Città del Vaticano

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questo momento ha sorprendentemente poco a che fare con la politica. Si tratta più che altro di tecnologia, manuali, formazio-ne delle risorse, processi e controlli incro-ciati”.

La profondità delle riforme della inan-za vaticana dipenderà dall’uomo al vertice della gerarchia. Papa Francesco ha scelto il nome di un santo che amava parlare chiaro e si accontentava delle cose semplici, e i-nora è stato d’ispirazione per gli uomini chiamati a riformare le inanze del Vatica-no, che hanno lavorato giorno e notte senza sosta. Da questo punto di vista le rilessioni del ponteice su come dovrebbe funzionare la inanza in questa sfarzosa città di santi e peccatori sono senz’altro degne di nota. “Alcuni dicono che forse è meglio che sia una banca, altri sostengono che dovrebbe diventare un fondo per erogare aiuti, altri credono che andrebbe chiuso”, ha detto Francesco nel luglio del 2013. “Io mi ido delle persone dello Ior che stanno lavoran-do su questo […]. Ma che sia banca o fondo di aiuto: trasparenza e onestà”. In Italia molti pensano che Francesco, originario dell’Argentina, sia stato scelto perché è un outsider. Il nuovo pontefice sa perfetta-mente che l’isolamento del Vaticano ha danneggiato l’immagine della chiesa catto-lica e ne ha messo in discussione l’autore-volezza. La sua missione sarà dimostrare che la chiesa è ancora un esempio di mora-lità, e secondo alcuni lo scandalo dello Ior ha rappresentato un’opportunità da coglie-re al volo.

Secondo Massimo Faggioli, studioso e saggista bolognese che da vent’anni si oc-cupa di Vaticano, i pontefici del recente passato non avevano motivo di ritenere che lo Ior fosse importante per il mondo ester-no. Ma oggi lo è, e Francesco, afrontando subito la questione, ha dato un segnale. “Giovanni Paolo II non ha mai toccato lo Ior perché gli serviva per finanziare Solidarność attraverso il Vaticano. Bene-detto XVI non lo ha toccato perché non ave-va nessun interesse a controllarlo. Con Francesco è diverso, perché il papa attuale sa bene che gli scandali di questa piccola banca hanno danneggiato la credibilità del-la chiesa”, dice Faggioli.

Altre questioni legate alla modernità metteranno alla prova la chiesa in futuro: gli scandali legati alla pedoilia, il ruolo delle donne, la ine del celibato per i sacer-doti. Per ora il nuovo occupante del trono di san Pietro si augura che la chiesa dia il buon esempio e faccia quello che fanno tutte le persone comuni: tenere i conti in ordine. u fas

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Il 15 gennaio papa Francesco ha scosso nuovamente il Vaticano no-minando i nuovi cardinali della

commissione di vigilanza dello Ior. Il papa ha sostituito tutti quelli che erano stati nominati dal suo predecessore Be-nedetto XVI, tranne uno, in un nuovo provvedimento voluto per consolidare il suo potere. Da quando è salito al so-glio pontiicio, meno di un anno fa, Francesco ha nominato uomini di idu-cia in diversi settori cruciali del Vatica-no, nel tentativo di mettere ine agli in-trighi e al caos che hanno travolto la burocrazia durante il papato del timido e distante Benedetto.

L’Istituto per le Opere di Religione (banca vaticana) è da anni sotto i rilet-tori. In molti sospettano che i suoi conti nascondano attività illecite, e le istitu-zioni europee hanno chiesto alla banca una maggiore trasparenza e l’adesione agli standard bancari internazionali, un processo avviato da Benedetto XVI. Poco dopo il sorprendente annuncio delle sue dimissioni, Ratzinger aveva infatti autorizzato un nuovo mandato quinquennale per i cinque cardinali del comitato di vigilanza, incluso l’allora segretario di stato Tarcisio Bertone. Ma Francesco ha deciso di confermare so-lo uno dei cinque (il cardinale Jean-Louis Tauran), e ha sostituito Bertone con Pietro Parolin, nuovo segretario di stato. “Non c’è da stupirsi”, spiega un funzionario vaticano vicino alla banca. “L’avvicendamento era in programma, ed è un bene per lo Ior”.

La decisione di Francesco precede di un mese un concistoro che riunirà in Vaticano i cardinali di tutto il mondo per la nomina formale dei nuovi porpo-rati e per discutere i problemi della chiesa. Il 12 gennaio Francesco ha scel-

to il primo gruppo di nuovi cardinali, in maggioranza non europei.

Il papa ha prestato molta attenzione alle attività della banca: in estate ha creato una commissione speciale sepa-rata che ha il compito analizzare le atti-vità della banca e riferire ai vertici.

Mossa sorprendenteUno degli ultimi atti uiciali di Bene-detto XVI era stata la nomina dell’in-dustriale tedesco Ernst von Freyberg alla presidenza della banca. Von Frey-berg si è concentrato sull’adeguamento della banca alle norme internazionali e ha assunto una società di consulenza legale per controllare i 19mila conti della banca, alla ricerca di anomalie e transazioni sospette.

A dicembre l’agenzia di sorveglian-za Moneyval ha elogiato il Vaticano per gli sforzi compiuti nell’adesione alle leggi internazionali contro il terrorismo e il riciclaggio di denaro, ma ha chiesto ulteriori cambiamenti. L’agenzia ha inoltre sottolineato che il potere dei funzionari non è ancora suiciente a scongiurare possibili crimini inanziari all’interno della banca e dell’Ammini-strazione del patrimonio della sede apostolica, l’ente che gestisce le pro-prietà immobiliari e inanziarie del Va-ticano. Carlo Marroni, giornalista esperto di inanze vaticane, spiega che le attività di von Freyberg e degli altri dirigenti della banca saranno sottopo-ste al controllo della commissione no-minata il 15 gennaio. “È una mossa sor-prendente, considerando che siamo al-la vigilia di un concistoro”, spiega Mar-roni. “È un segnale della volontà di cambiare la gestione inanziaria”.

La nuova commissione di vigilanza è composta da cinque persone: il segre-tario di stato Parolin, il cardinale Tau-ran, l’arcivescovo di Vienna Christoph Schönborn, l’arcivescovo di Toronto Thomas Christopher Collins e l’arci-prete della basilica di Santa Maria Mag-giore Santos Abril y Castelló. u as

Il 15 gennaio il papa ha annunciato dei cambiamenti nella commissione vigilanza della banca vaticana

L’ultima scossa di Bergoglio

Jim Yardley e Gaia Pianigiani, The New York Times, Stati Uniti

Dal Vaticano

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Bielorussia

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Opposizione virtuale

Iryna Vidanava, Res Publica Nowa, Polonia

La Bielorussia è tra i paesi più autoritari del mondo. Ma è anche all’avanguardia nel campo della tecnologia. Un paradosso che potrebbe portare a una svolta democratica

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Minsk, 2009. Un manifesto istituzionale: “Insieme per la sicurezza e l’ordine pubblico”

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Quando viaggio all’estero, la Bielorussia mi sembra spesso un paese arretra-to. Con la sua economia centralizzata, le fattorie collettive e i monumenti comunisti, il mio paese

sembra paralizzato in un’altra epoca. Venti anni di dittatura a volte mi fanno pensare che nulla potrà mai cambiare. A Minsk, pe-rò, è chiaro che la Bielorussia è entrata nel ventunesimo secolo. Anche se la transizio-ne alla democrazia non c’è stata, il paese è nel pieno di una rivoluzione digitale. In centro gli studenti passano accanto alla sta-tua di Lenin con gli occhi incollati sugli smartphone. Nel mio quartiere, i palazzi degli uici high-tech rubano spazio ai vec-chi relitti del realismo socialista. I giovani professionisti scrivono sui tablet e leggono ebook sui Kindle mentre viaggiano in una metropolitana costruita in era sovietica.

È un contrasto sconcertante, degno del ilm Matrix, dei fratelli Wachowski. Repor-ter senza frontiere ha deinito la Bielorus-sia un paese “nemico di internet”, eppure i programmatori bielorussi sono richiesti in tutto il mondo. Secondo un recente son-daggio, tuttavia, questi stessi programma-tori non credono nella democrazia e nei valori europei. Viber, un’applicazione che consente di parlare e mandare messaggi gratis con il cellulare, è stata messa a punto in un paese che occupa gli ultimi posti in tutte le classiiche internazionali sulla li-bertà di parola. E l’economia di stato bielo-russa ha prodotto un’azienda di software quotata alla borsa di New York. La Bielo-russia, dove il controllo del governo è per-vasivo, è diventata anche la principale fon-te mondiale di spam. Secondo il settima-nale Bloomberg Businessweek, l’ultima dittatura d’Europa è anche “una fucina tecnologica”.

La rivoluzione digitale ha un forte im-patto sul paese a diversi livelli. Il governo, per esempio, sbandiera i suoi successi eco-nomici: dal 2011 le esportazioni di prodotti high-tech sono triplicate. Nel 2012 la Bielo-russia è stata tra i primi trenta paesi del mondo per le forniture di servizi di sviluppo del software per clienti stranieri. Ma la tec-nologia contribuisce allo sviluppo del paese anche in altri modi. Sempre nel 2012 la Bie-lorussia ha scalato venti posizioni nell’indi-ce delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione della Banca mondiale e undici nell’indice dell’economia della co-noscenza. Tuttavia, come attivista demo-cratica esperta di nuovi media, quello che mi interessa di più è capire se allo stesso

tempo si stia difondendo una maggiore li-bertà. Gli avvenimenti recenti, in particola-re la primavera araba, indicano che la rete e i nuovi media possono essere strumenti utili per facilitare il cambiamento demo-cratico.

Come succede con la pirateria informa-tica di Neo nel ilm Matrix, in Bielorussia l’apertura alla tecnologia è stata provocata dalla repressione. Alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2006 il regime si adoperò per controllare o addirittura chiudere i gior-nali indipendenti, costringendoli a lanciare versioni online. Blog, forum, siti e comuni-tà online diventarono così i mezzi d’infor-mazione più difusi, durante e dopo il voto – truccato – e le successive proteste. La stes-sa dinamica si è ripetuta, su scala ancora maggiore, con il voto del 2010, quando i brogli del 19 dicembre sono culminati lo stesso giorno in una violenta repressione che ha colpito sia le persone che protestava-no sia i mezzi d’informazione indipendenti. Questo ha spinto un numero ancora mag-giore di cittadini a rivolgersi a fonti d’infor-mazione online. E la rete ha cominciato a competere seriamente con la radio, la tv e i giornali controllati dallo stato. Facebook, Twitter e il social network Vkontakte han-no cominciato così a svolgere un ruolo chia-ve nella formazione dei cittadini, contri-buendo a mobilitarli.

La svolta più rilevante, però, è arrivata con la crisi politica ed economica del 2011, quando gli utenti dei siti web sono aumen-tati vertiginosamente. In quei giorni le fon-ti di informazione online, inalmente capa-ci di contrastare la propaganda uiciale, avevano mezzo milione di lettori al giorno. Per la prima volta l’opinione pubblica co-minciava a idarsi dei media indipendenti più che di quelli di stato. Malgrado i vent’an-ni passati a censurare i giornali e a colpire i giornalisti, il regime aveva perso il control-lo dello spazio informativo. Negli ultimi due anni, i siti web indipendenti e di oppo-sizione sono stati i più visitati. Come ha os-servato un mio collega, “quando oggi in Bielorussia succede qualcosa, la gente ac-cende il computer, non la tv”.

La valvola di sfogoGrazie alla sua interattività e all’anonimato (o almeno all’illusione dell’anonimato), la rete ha reso accessibili informazioni indi-pendenti a un numero sempre maggiore di cittadini, che di fatto non credono più alla propaganda di stato. In questo modo lo spa-zio del dibattito pubblico si è fortemente ampliato. Dopo la repressione del 2010 e il tracollo economico del 2011, la iducia nei mezzi d’informazione uiciali è precipitata dal 53 al 28 per cento. Malgrado le rosee previsioni e le dichiarazioni di ottimismo, sempre meno bielorussi sono disposti a credere che il governo possa risolvere i pro-blemi del paese. E i media indipendenti online hanno avuto un ruolo centrale nel dimostrare che il re è nudo.

Internet, inoltre, contribuisce a mette-re in contatto le persone che criticano il regime, dettaglio particolarmente impor-tante in un paese dove una riunione con più di tre persone è considerata una mani-festazione non autorizzata e può essere dispersa dalla polizia. Per la nostra genera-zione di dissidenti digitali, i forum, i blog e i social network sono diventati una grande cucina virtuale dove, come nelle cucine delle case ai tempi del comunismo, è pos-sibile parlare, scambiarsi idee, ridere delle autorità, condividere opinioni e progettare iniziative.

Questa nuova realtà è diventata visibile con le prime reazioni alla crisi economica nell’estate del 2011, quando uno sciopero contro l’aumento della benzina e una serie di proteste silenziose sono state organizza-te attraverso Facebook e Vkontakte. Ma l’euforia non è durata a lungo, perché il re-gime ha risposto con l’ennesima, brutale repressione. Gli scontri tra i poliziotti in as-setto antisommossa e le folle paciiche di

Da sapere Il regime di Minsk

La Bielorussia ha fatto parte dell’Unione Sovietica ino al 1991, quando è diventata indipendente. Dal 1994 è governata dal presidente Aliaksandr Lukašenko, alla guida di una dittatura. Lukašenko è stato confermato presidente nelle elezioni del 19 dicembre 2010 con il 79,7 per cento dei voti. La regolarità del voto è stata contestata dall’opposizione, che la sera stessa ha organizzato una manifestazione, subito sofocata dalla polizia. Nei giorni successivi al voto il regime ha lanciato una dura repressione, con centinaia di arresti. Le prossime elezioni presidenziali si terranno nel novembre del 2015.

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Bielorussia

giovani che li applaudivano ironicamente, i raid notturni negli appartamenti dei mili-tanti che amministravano le pagine dei gruppi di opposizione sui social network e gli attivisti del movimento studentesco in-terrogati dagli agenti dei servizi segreti sul contenuto dei loro blog hanno fatto appari-re la Bielorussia come una Matrix trasferita nella realtà.

Per il momento sembra che i manganel-li abbiano sconitto i “like”. L’ondata di pro-teste è stata fermata, alcuni attivisti sono emigrati, sui social network il numero di follower dei gruppi di opposizione è dimi-nuito ed è svanita la speranza che i nuovi media possano essere il catalizzatore di una primavera bielorussa. Tra l’attivismo vir-tuale e quello reale c’è ormai un divario crescente: anche se gli utenti di internet e gli iscritti ai social network continuano a cre-scere insieme ai “like” e ai “con-dividi” sotto ai post che invitano alla partecipazione civile, il numero di chi prende parte alle manifestazioni e alle ini-ziative di opposizione è rimasto uguale o è diminuito. Sui social network, per esempio, oltre ventimila persone avevano dichiarato che avrebbero partecipato all’annuale mar-cia per Cernobyl, organizzata ogni aprile dall’opposizione, ma alla ine si sono pre-sentati in meno di 1.500. Malgrado l’infor-mazione capillare e le discussioni online, la manifestazione ha richiamato più o meno gli stessi attivisti di sempre.

Dal momento che le manifestazioni, perino quando sono autorizzate, di solito si concludono con multe e arresti, una parte-cipazione così bassa si può spiegare con la paura. Gli stessi comportamenti, però, si registrano anche in altre situazioni che non hanno rilevanza politica. Qualche tempo fa, un famoso scrittore bielorusso, giornali-sta ed esperto di media, ha reso pubblica una storia vissuta di persona che l’ha spinto a rilettere sulla reale capacità di mobilita-zione dei social network. Aveva trovato un gattino per strada, l’aveva portato a casa e gli aveva dato da mangiare. Ma siccome a casa sua c’era già un gatto, che non andava d’accordo con il nuovo venuto, aveva pub-blicato una foto del micetto e una richiesta di aiuto sulla sua pagina Facebook. In meno di un giorno la foto era stata vista da tremila persone, aveva raccolto trenta “like”, venti “condividi”, decine di commenti, ma nean-che un’oferta di adozione. Chi progetta di lanciare campagne civili con l’aiuto dei so-cial network – ha concluso il giornalista – dovrebbe chiedersi se i nuovi media non siano solo una bolla vuota, gonia di com-

menti e “like” ma priva di sostanza.Stando a un noto blogger bielorusso, i

social network servono anche come valvola di sfogo per la frustrazione pubblica. Per-mettono ai dissidenti di scaricare la loro rabbia in rete senza alimentare una vera azione politica. Dichiarando il loro impe-gno virtuale, i cittadini di internet possono avere la sensazione di compiere il loro do-vere civico senza dover mettere piede fuori casa. Ma il fondatore del più grande sito del paese ha proposto una spiegazione molto più vicina al mondo simulato di Matrix, ipo-tizzando che il regime abbia permesso alla rete di rimanere relativamente priva di con-trolli per dare ai cittadini la sensazione di essere liberi e fargli dimenticare la realtà

della vita quotidiana in una ditta-tura. Dopo tutto, molti bielorussi si accontentano di una libertà on-line che gli permette di informar-si sui siti di opposizione, esprime-re critiche, irmare petizioni vir-

tuali e perino votare liberamente, sempre online. Costruire un ponte tra l’attivismo virtuale e quello reale è una delle side più impegnative che il movimento democrati-co bielorusso deve afrontare, soprattutto con un’altra crisi economica e nuove elezio-ni presidenziali alle porte.

Coraggio e creativitàPur con tutti i suoi limiti, internet rimane lo spazio pubblico più libero, vivace e creativo della Bielorussia. Nel bene e nel male, ofre un flusso illimitato di informazioni, una grande varietà di opinioni, numerose op-portunità di espressione e la possibilità di lasciare un segno. Nel luglio del 2013 Ru-slan Mirzoev, un operaio di Minsk dal pas-sato piuttosto turbolento (è un ex tossicodi-pendente in libertà condizionata), è diven-tato celebre per aver postato su YouTube una serie di video sulla vita quotidiana nel-la sua fabbrica. Piene di umorismo nero e di imbarazzanti scorci su una delle principali industrie del paese, le sue “cronache dalla fabbrica” sono state riprese dai maggiori siti indipendenti e viste da centinaia di mi-gliaia di persone. Un commentatore politi-co indipendente ha osservato: “Questi vi-deo hanno fatto più di tutte le iniziative dell’opposizione per aprire gli occhi all’opi-nione pubblica su quello che succede dav-vero dietro la nostra illusoria stabilità”.

Le autorità hanno reagito in fretta: Mir-zoev è stato licenziato qualche giorno dopo. Ma in agosto ha messo in rete un nuovo vi-deo che mostrava la vita in un sobborgo di Minsk: povertà, risse, ubriachi e drogati. È stato arrestato, processato e condannato a

sette giorni di carcere per teppismo. Al tele-giornale della sera un funzionario ha com-mentato che la condanna era stata inlitta non tanto per il linguaggio osceno usato nel video ma per il fatto che l’autore era diven-tato celebre “strumentalizzando i problemi sociali”.

Più o meno nello stesso periodo è stato confiscato il computer di un blogger di Svetlagorsk colpevole di aver postato un video che mostrava la lussuosa residenza del capo dell’amministrazione locale. Sem-pre nel 2013, poi, un drammaturgo di Minsk, Andrei Karelin, è stato multato e li-cenziato per aver criticato il comportamen-to della polizia sulla sua pagina Facebook. In tutti e tre i casi i bersagli erano funziona-ri del regime.

Secondo alcuni analisti si può parlare di un nuovo tipo di repressione. Invece di bloccare i singoli siti, il regime punisce i giornalisti attivi online. A me sembra piut-tosto che il regime stia adoperando gli stes-si strumenti usati per sofocare il dissenso in settori più tradizionali, con la diferenza che in rete non sembrano funzionare altret-tanto bene. Quando un video o una notizia vengono censurati su un sito, è solo que-stione di tempo prima che riappaiono su una piattaforma diversa o con una tecnolo-gia nuova. In questa battaglia virtuale, il regime è sulla difensiva. Di fatto nessuno degli sforzi fatti per rendere più eicace la sua presenza sulla rete ha funzionato.

Sapevo per esperienza diretta che le nuove tecnologie possono promuovere la democrazia quando si fanno portatrici di idee. Dopo la chiusura forzata, nel 2005, della rivista giovanile che avevo fondato, con altri colleghi abbiamo creato 34, il pri-mo magazine multimediale della Bielorus-sia, pubblicato su compact disc e online. Quando il regime ha chiuso i giornali indi-pendenti, o li ha esclusi dal sistema di di-stribuzione gestito dallo stato, sono nati i siti web che hanno aperto la strada alla svol-ta digitale. Come giornalisti e attivisti de-mocratici, dobbiamo essere sempre un passo avanti se vogliamo davvero tenere testa al regime. Lo stato ha il potere e la for-za, ma noi abbiamo il coraggio e la creativi-tà, ampliicati dalle nuove tecnologie. E, come per Neo in Matrix, ci aiutano a crede-re in un mondo dove tutto è possibile. u gc

L’AUTRICE

Iryna Vidanava è una giornalista bielorussa esperta di nuovi media e attivista politica. Ha fondato e dirige la rivista web 34, tra i più importanti mezzi d’informazione indipendenti del paese.

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Africa

I fotograi di guerra possono esse-re personaggi loschi e afascinan-ti, oppure nobili e afascinanti. O almeno è così che sono descritti nei libri e nei ilm. Il primo cele-bre romanzo su un corrisponden-

te di guerra è L’inviato speciale dello scritto-re britannico Evelyn Waugh, ambientato negli anni trenta nello stato immaginario di Ismaelia (che corrispondeva più o meno all’Etiopia/Abissinia). Il più recente adat-tamento cinematograico di un libro sul fotogiornalismo è probabilmente The bang bang club, liberamente ispirato al testo scritto da me e da João Silva sugli anni della violenta transizione verso la democrazia in Suda frica.

Si potrebbe pensare che questi libri sia-no il rilesso di un grande sviluppo del foto-giornalismo in Africa. Del resto, tra con-litti, carestie e guerre, nel continente non manca il materiale per fare uno scoop. Ep-pure quando i fotograi di guerra s’incon-trano negli alberghi delle zone calde del mondo, tra loro ci sono pochi africani. L’eccezione più evidente sono i sudafrica-ni. Con tutti i conlitti che aliggono il con-tinente, ci si aspetterebbe la presenza di qualche fotogiornalista locale in più.

Il reporter ruandese Shyaka Kanuma scrive a proposito del giornalismo africa-no: “In molte parti dell’Africa chi ha inten-zione di lavorare per la stampa indipen-

dente deve prepararsi all’idea che il suo giornale sarà ostacolato in tutti i modi e che dovrà scontrarsi regolarmente con l’ostilità del governo e di altri poteri”.

Secondo Kanuma, i mezzi d’informa-zione africani o sono vicini ai governi e al mondo degli afari o, se mantengono la lo-ro indipendenza, sono destinati ad andare incontro a gravi pericoli: “Molti regimi del continente sono decisamente antidemo-cratici. I loro leader sono accomunati dal fatto che, una volta giunti al potere, cerca-no solo di mantenere la loro posizione. Truccano le elezioni e riscrivono le costitu-zioni a loro piacimento, spesso per garan-tirsi la presidenza a vita. Afrontano oppo-sitori e dissidenti rinchiudendoli in carcere senza processo e in condizioni degradanti. Promuovono leggi molto severe sulla li-bertà di stampa per mettere a tacere chi svolge inchieste o chi li critica”.

Per i fotogiornalisti africani il lavoro è particolarmente diicile perché andando in giro con la macchina fotograica posso-no essere facilmente identiicati e diventa-re un bersaglio, o vedersi negare la possibi-lità di lavorare. Eppure, ci sono stati casi in cui la fotograia di guerra africana ha svol-to un ruolo importante nel determinare il modo in cui la società e la storia ricordano alcuni conlitti, e forse perino il modo in cui questi conlitti si sono sviluppati. E, per quanto riguarda la storia recente, si potreb-

be essere tentati di deinire “fotograia di guerra” anche quei tentativi di documen-tare i conlitti ideologici che attraversano il conti nente.

Munizioni e rulliniNel Corno d’Africa, vicino ai luoghi in cui era ambientato L’inviato speciale di Evelyn Waugh, a partire dagli anni sessanta i guer-riglieri eritrei hanno combattuto una lunga lotta per l’indipendenza contro l’Etiopia, prima contro l’imperatore Hailè Selassiè, poi contro il regime del terrore rosso gui-dato da Menghistu Hailè Mariam. Sulla carta sembrava improbabile che gli eritrei

Fotograiin guerraGreg Marinovich, Daily Maverick, Sudafrica

Dalla Nigeria al Kenya molti fotoreporter africani documentano i conlitti e le ingiustizie, spesso rischiando la vita. La testimonianza del sudafricano Greg Marinovich

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potessero sconiggere gli etiopi, più nume-rosi, superiori dal punto di vista militare e forti del sostegno degli Stati Uniti, prima, e dell’Unione Sovietica in un secondo tempo.

Con una scelta singolare, gli eritrei de-cisero di documentare la loro lotta di libe-razione: volevano scrivere da soli la loro storia, senza rischiare che il racconto della loro impresa fosse distorto dalla capriccio-sa attenzione del mondo esterno. Più pro-saicamente, i combattenti avevano biso-gno di un lusso costante di immagini da mostrare agli eritrei della diaspora per convincerli a inanziarli. Ad alcuni milizia-

ni, uomini e donne, fu assegnato il ruolo di fotoreporter. Il loro compito era combatte-re e fotografare, e potevano decidere libe-ramente quando era il momento di usare la macchina fotograica e quando il fucile.

L’ex fotografo Russom Fesahaye rac-conta: “In un primo tempo eravamo tutti guerriglieri. L’unica cosa che desideravo era combattere. Poi ci siamo resi conto che dovevamo documentare le battaglie. Pri-ma di entrare nella guerriglia avevo lavora-to in uno studio fotograico ad Asmara. Il Fronte popolare di liberazione eritreo mi diede una Zenith, un apparecchio di fab-bricazione sovietica. Fucile in una mano,

macchina fotograica nell’altra. Se hai un fucile puoi nasconderti, ma con una mac-china fotograica in mano no. Devi stare in prima linea”.

Uno dei motivi principali per cui si foto-grafava la lotta di liberazione era soddisfa-re le necessità di “agitazione e propagan-da”: combattere la guerra delle idee, soste-nere il bisogno di unire una popolazione eterogenea come quella eritrea sotto la si-gla del Fronte popolare di liberazione eri-treo (Fple). I fotograi-guerrieri eritrei rac-contavano la loro guerra, e non ci si poteva aspettare che rispettassero gli standard di “obiettività” giornalistica insegnati nelle

Dopo il bombardamento di Massaua, in Eritrea, da parte dell’esercito etiope, 1990. Foto di Solomon Abraha

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Africa

scuole occidentali. Anche se non corri-spondono alla descrizione del reporter im-parziale che rispetta le regole del giornali-smo, i fotograi eritrei hanno lasciato un archivio di immagini che non ha paragoni nella storia africana: trent’anni di reporta-ge di guerra, dal 1963 al 1991, in mezzo mi-lione di negativi in bianco e nero.

Parte di un collettivoTra le migliaia di provini ci sono molte im-magini ordinarie, ma anche alcune foto di guerra eccezionali. Un’immagine spicca su tutte: in mezzo a una piana desertica, c’è un ragazzo vestito di stracci seduto su una bomba inesplosa. Era caduta durante i bombardamenti su Massaua compiuti dalle forze armate etiopi, appoggiate dall’Unione Sovietica, dopo che i ribelli eritrei avevano conquistato la città portua-le sul mar Rosso.

L’autore dello scatto, Solomon Abraha, che oggi lavora per la tv di stato come ca-meraman, ha catturato l’aspetto più signi-icativo di una guerra industrializzata in

una società preindustriale. Il ruolo che Abraha sentiva di svolgere era quello di un individuo all’interno di una collettività. Le foto non venivano mai pubblicate con il nome dell’autore, ma in forma anonima. Il sentimento prevalente era quello di lavo-rare per un gruppo dove gli sforzi dell’indi-viduo tendevano al successo dell’impresa collettiva: la Lotta.

Uno dei migliori fotograi-guerrieri eri-trei è stato Seyoum Tsehaye, un mentore per molti altri, tra cui Solomon Abraha. Se-youm pensava che il suo dovere di soldato fosse obbedire agli ordini: documentare la lotta e ilmare i crimini di guerra contro il suo popolo. Molti fotograi si ritrovarono in situazioni in cui avrebbero voluto posare la macchina fotograica per prestare soccor-so a qualcuno o per sfuggire a un orrore troppo forte. Ma la ferrea disciplina non lasciava scelta a Seyoum, che non abban-donava mai la sua attrezzatura.

Nel 1990 Massaua subì un mese di bombardamenti. “Vidi tanti morti”, rac-conta Seyoum. “Un bambino da una parte, la madre dall’altra, a volte entrambi morti, altre volte il bambino era ferito e la madre era stata uccisa. Le bombe a grappolo col-

pivano un gran numero di civili in una volta sola, incendiavano molte case contempo-raneamente, era un inferno”.

“Oggi non riesco a guardare quelle im-magini”, continua. “Mentre alcuni super-stiti si afannavano a estrarre cadaveri dal-le macerie, ho visto due bambini con i volti e le mani coperti di sangue. La bambina, che avrà avuto cinque anni, aveva chiesto al fratello maggiore: ‘Queste persone ci seppelliranno?’. ‘No’, aveva risposto lui, ‘ci porteranno in ospedale’”.

“Dopo un bombardamento fotografa-vamo i soccorritori. Ma, nel bombarda-mento successivo, poteva capitare che ve-dessimo tra i cadaveri alcune persone foto-grafate la volta prima”, osserva Seyoum. “Scattare la foto dei due fratellini mentre sentivo i loro commenti mi ha annien-tato”.

In qualche modo gli eritrei, e Seyoum, sono riusciti a resistere. Il crollo dell’Unio-ne Sovietica ha messo ine alla guerra e gli eritrei hanno ottenuto l’indipendenza. Or-gogliosi dei loro sacriici, negli anni novan-

ta hanno continuato a prestare servizio volontario per ogni tipo di lavoro, dal ripri-stino della rete ferroviaria alla piantuma-zione degli alberi lungo le strade di campa-gna.

L’euforia di quel periodo è svanita quando i reduci hanno cominciato a riven-dicare libertà personali e politiche. Dopo una decina di anni d’indipendenza, seguiti nel 1998 da una nuova guerra contro l’Etio-pia, l’ideale collettivo e lo spirito di obbe-dienza hanno vacillato. Anche tra l’élite l’unità rivoluzionaria si è sgretolata di fron-te a un potere sempre più dittatoriale. Mol-ti leader politici – tra cui Haile Woldeten-sae, ex ministro del commercio e dell’in-dustria e uno dei fondatori dell’Fple – han-no messo in discussione la capacità del governo di portare il paese verso la demo-crazia.

“Ora sofriamo per quello che abbiamo fatto in passato”, aveva dichiarato Wolde-tensae in una vecchia intervista. “Quando si segue una sola scuola di pensiero, c’è un prezzo da pagare. L’ideo logia rappresenta-va una motivazione davvero forte e il po-polo era davvero impegnato. Ecco perché nel periodo della lotta di liberazione i foto-

grafi, i propagandisti, avevano avuto un ruolo importante nella società. Tuttavia, dopo l’indipendenza ci siamo accorti che c’era un rovescio della medaglia. Non bi-sognava esprimersi in maniera troppo di-retta né critica. Il governo non tollerava le opinioni divergenti”.

Per il suo desiderio di libertà, Wolde-tensae è inito in carcere senza processo. Si pensa che sia stato ucciso più o meno un anno dopo la sua incarcerazione.

Il fotografo e documentarista Seyoum Tsehaye avrebbe voluto seguire anche la seconda guerra contro l’Etiopia (1998-2000), ma gli è stato impedito di raggiun-gere il fronte. Seyoum aveva messo in dub-bio le ragioni della guerra. Perché, si era chiesto, bisognava versare nuovo sangue dei igli e delle iglie dell’Eritrea su un suo-lo già saturo? Il suo atteggiamento ha spin-to la polizia segreta a pedinarlo. Nel 2001 è stato processato e rinchiuso in carcere. È stato torturato e sbattuto in una prigione nel deserto. Ogni tanto i giornalisti eritrei in esilio ricevono sue notizie da guardie carcerarie clementi. Raccontano che si è fatto crescere la barba in segno di protesta, e che conserva ancora uno spirito indomi-to, nonostante viva in isolamento da più di dodici anni.

Non importa quale sia stata la ragione politica che in un primo tempo spinse a in-viare dei fotograi sul campo di battaglia; quel che conta è che i fotograi-guerrieri hanno lasciato in eredità una documenta-zione storica molto importante. La man-canza di qualsiasi forma di testimonianza sull’ultima guerra tra Etiopia ed Eritrea, e su quello che succede sotto il regime di Asmara si traduce in un’assenza d’infor-mazioni sugli atti di eroismo, sulle atrocità o sui crimini di guerra. Le autorità eritree hanno capito quanto possa essere potente la fotografia e hanno fatto in modo che nessuna testimonianza della guerra contro l’Etiopia del 1998 potesse macchiare l’im-magine del loro paese.

Senza colpevoliÈ raro che un conlitto africano sia raccon-tato in modo esauriente da professionisti che non hanno nessun interesse in gioco. Oggi la maggior parte delle guerre civili è documentata da persone che desiderano mostrare cosa sta succedendo ai loro con-nazionali o ai loro compagni.

Boniface Mwangi è un fotografo kenia-no che ha deciso di confrontarsi con la vio-lenza che lo circonda, ritraendola con im-magini estremamente crude. Non ha do-vuto allontanarsi da casa per fotografare la

Nel periodo della lotta di liberazione eritrea i fotograi, che facevano propaganda, avevano avuto un ruolo importante nella società

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da alcuni affiliati della banda criminale Mungiki, un amico mi ha chiamato e mi ha detto che il quartiere era stato circondato dalla polizia. Gli abitanti di Mathare ricor-deranno per sempre il giugno del 2007 co-me il mese in cui una squadra di agenti, appoggiati dalla temuta General service unit, mise a ferro e a fuoco la baraccopoli per vendicare i colleghi. Quando la spara-toria finì, il bilancio delle vittime era di

quattordici morti, molti per colpi ricevuti a bruciapelo o alle spalle. Io avevo scattato diverse foto agli affiliati di Mungiki che erano stati arrestati dalla polizia. Poco tempo dopo, i loro cadaveri sono finiti all’obitorio con ferite di arma da fuoco. Coprire quegli eventi era rischioso perché non avevo il permesso di riprendere i poli-ziotti che uccidevano i sospetti. Quando ci ho provato mi è stata puntata contro una pistola. Ma la polizia era stata autorizzata dal governo a usare quella violenza e, an-che dopo la pubblicazione delle mie imma-gini, nessuno è stato punito”.

Mungiki è un’organizzazione criminale su base etnica formata esclusivamente da kikuyu. Si dice che recluti i suoi ailiati at-traverso riti sacri. La cultura di Mungiki deriverebbe dai mau mau, i guerriglieri ki-kuyu che combattevano contro il dominio coloniale britannico negli anni cinquanta. I kikuyu sono il gruppo etnico più numero-so del Kenya e hanno inito per dominare la vita politica del paese dopo l’indipen-denza. Secondo molti keniani, la banda Mungiki era stata sfruttata dai politici della vecchia guardia per rimanere al potere mentre svuotavano le casse del pae se.

Mwangi è stato un attento osservatore anche delle violenze scoppiate dopo le ele-zioni presidenziali contestate del 2007:

guerra. È stata la guerra ad andare da lui. Mwangi è stato iniziato alla violenza che impregna la società keniana, in particolare le grandi baraccopoli della capitale, già al-cuni mesi prima degli scontri interetnici che hanno travolto il Kenya tra la ine del 2007 e l’inizio del 2008.

“Conoscevo un po’ di persone nello slum di Mathare”, racconta Mwangi. “Quando due poliziotti sono stati uccisi lì

Controlli di polizia in uno slum di Nairobi, il 7 giugno 2007. Foto di Boniface Mwangi

Lagos, 2010. Foto di Andrew Esiebo

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Africa

“Le mie foto, in gran parte inedite, mostra­no la cruda verità su quel momento di fol­lia, in cui i vicini si sono scagliati gli uni contro gli altri. In tutto sono state uccise 1.100 persone. Altre 600mila sono rimaste senza casa. Coprire le violenze posteletto­rali nel mio paese è stato molto diicile. Ho dovuto nascondere la mia vera identità nelle aree in cui sapevo che alcuni gruppi etnici non erano i benvenuti. Carneici e vittime parlavano una lingua che mi è fa­miliare”.

Mwangi è kikuyu – anche se non ha le­gami con la banda Mungiki – e per questo si è ritrovato in una posizione privilegiata e allo stesso tempo pericolosa quando è arri­vato il momento di documentare le violen­ze interetniche. È inito in varie caserme e commissariati di polizia, e ha subìto pe­staggi per il suo lavoro. Minacce ancora peggiori gli sono arrivate dai criminali di Mungiki.

Questa, naturalmente, è la prova del fatto che Mwangi sta seguendo la strada

giusta. Le violenze subite lo hanno spinto a trasformare il suo lavoro in una forma di attivismo politico. Mentre in Kenya sono ancora difusi il clientelismo, la corruzione e le collusioni con la criminalità organizza­ta, alcuni politici di primo piano sono stati chiamati a rispondere dei loro crimini da­vanti alla Corte penale internazionale. Senza le prove fotograiche di giornalisti come Mwangi, il conlitto interetnico in Kenya avrebbe corso il rischio di essere ca­talogato come l’ennesimo caso di violenze postelettorali in Africa.

Omofobia dilaganteSu un altro fronte, quello della guerra delle idee, due fotograi africani stanno cercan­do di rompere gli schemi e di mettere in discussione i pregiudizi. Il 16 novembre 2011 il parlamento nigeriano ha approvato una legge in base alla quale gli omosessua­li rischiano ino a quattordici anni di carce­re. Invece chi favoreggia i comportamenti omosessuali rischia ino a dieci anni di pri­gione.

Quindi il fotografo nigeriano Andrew Esiebo rischia una buona decina di anni di carcere: “A causa della legge che vieta i matrimoni tra persone dello stesso sesso

(recentemente irmata dal presidente ni­geriano Goodluck Jonathan) qualsiasi atti­vità di documentazione della vita dei gay in Nigeria è diventata diicile e pericolosa. Ma non mi lascerò scoraggiare”. Esiebo, fotografo documentarista, non può fare a meno di denunciare le ingiustizie che ini­scono davanti ai suoi occhi. “Fotografare la vita dei gay in Nigeria è sempre stato dif­icile. Non puoi dire esplicitamente di voler fotografare i gay, perché la società è forte­mente omofoba”.

Gli omosessuali sono da tempo bersa­glio di discriminazioni e violenze. Una chiesa che si prendeva cura dei cristiani omosessuali di Lagos ha subìto frequenti attacchi. Alcuni membri della congrega­zione sono stati picchiati e alla ine la chie­sa è stata costretta a chiudere.

Esiebo si considera un mediatore cultu­rale: “Il mio ruolo di fotografo è comunica­re quello che vedo, cercando i modi per suscitare un dibattito costruttivo. Molto spesso il problema è semplicemente la

mancanza d’informazione. Alcuni nigeria­ni non hanno idea di cosa signiichi essere gay”.

Esiebo ha scelto di ritrarre i luoghi dove vivono gli omosessuali: “Questi spazi inti­mi rilettono la diicoltà di vivere una dop­pia vita e di non essere liberi di esprimere la propria sessualità. Voglio ofrire una pro­spettiva su cosa signiica essere gay nella società nigeriana, e dimostrare che non abbiamo tutti le stesse preferenze sessuali. Quella per i gay è una guerra, una guerra di idee”.

Tutto il continente africano è attraver­sato da un’ondata di ostilità contro i gay. Alcuni governi hanno approvato leggi che mettono al bando quella che Esiebo deini­sce “diversità sessuale”. L’omosessualità è spesso considerata come una “malattia”, un “disturbo” importato in Africa dall’esterno, e che quindi può essere “cu­rato”.

“Non penso che essere gay sia antiafri­cano. Penso che gli africani non fossero consapevoli della loro diversità sessuale. Oggi è più evidente perché ci informiamo di più. I cittadini possono esprimere più li­beramente le loro opinioni, e forse è per questo che i gay hanno compiuto un corag­

gioso passo in avanti lottando per i loro di­ritti. È una battaglia diicile da vincere, ma se tutti continueranno a lottare, un giorno la vittoria arriverà”.

La storia personaleAll’estremità opposta del continente, in Sudafrica, gli scatti di Zanele Muholi, foto­grafa lesbica e attivista per i diritti degli omosessuali, suscitano indignazione. I suoi primi lavori sono stati a dir poco ag­gressivi. In seguito Muholi ha cominciato a documentare sistematicamente la vita di gay e lesbiche, soprattutto di quelli che abi­tano in quei paesi africani dove l’omoses­sualità è illegale.

Il Sudafrica tutela i diritti dei gay, ma­trimonio compreso, nella costituzione. Eppure nel corso degli anni i gay sono di­ventati il bersaglio di molti crimini motiva­ti dall’odio, tra cui il fenomeno preoccu­pante dello “stupro correttivo”, lo stupro di gruppo inlitto alle lesbiche con l’obiettivo di riorientare la loro sessualità.

Muholi ha cominciato a documentare l’impatto di questi crimini e gli omicidi av­venuti all’interno della comunità di lesbi­che, gay, bisessuali, transessuali e interses­suali (lgbti). La fotografa sostiene l’impor­tanza dell’arte per far crescere la consape­volezza sui problemi delle lesbiche e per ofrire un punto di vista diverso sulle don­ne nere.

Ma non sono solo gli uomini forti con poco cervello a sentirsi minacciati dalle lesbiche. Il Congresso dei leader tradizio­nali del Sudafrica (Contralesa) sta eserci­tando forti pressioni ainché la costituzio­ne sia di nuovo cambiata per vietare il ma­trimonio e gli atti omosessuali. I leader tradizionali chiedono un referendum e so­no convinti che i sudafricani ribalteranno le leggi a favore dei diritti dei gay. L’ex pre­sidente di Contralesa, Phathekile Holomi­sa, avrebbe detto che l’African national congress, il partito al potere, “sa che la maggioranza dei sudafricani non vuole promuovere o proteggere i diritti di gay e lesbiche”.

Paradossalmente, in quest’atmosfera di tensione, le foto di Muholi sono accusa­te di alimentare ulteriormente i pregiudizi. Le sue immagini di amore, un amore che alcuni deiniscono proibito, sono scanda­lose per la maggioranza dei sudafricani. La sessualità in Africa è un argomento spino­so e le scene di intimità tra lesbiche fanno arrabbiare i più conserva tori.

Poco prima di un’importante mostra a Città del Capo, nel maggio del 2013, qual­cuno ha fatto irruzione nell’appartamento

Hanno ignorato i gioielli e le costose macchine fotograiche. Quindi l’obiettivo del furto non erano i soldi, ma le informazioni

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di Muholi e ha rubato il suo archivio foto-graico. Venti hard disk e tutti i dati relativi al suo lavoro sono stati fatti sparire, mentre costose apparecchiature fotograiche, tele-visori, vestiti e gioielli non sono stati nean-che toccati.

“Hanno rubato cinque anni del mio la-voro. Quelle cose per me non avevano prezzo”, racconta Muholi. “Sono arrivata a mettere in discussione quello che faccio: il mio lavoro è diventato solo una cosa che la gente vuole rubare? Era un lavoro sulla bel-lezza, su qualcosa di necessario, di prezio-so, ma adesso non lo so più, mi chiedo cosa sto facendo”.

La natura del furto lancia segnali di pe-

ricolo. A quanto pare, i ladri sapevano cosa cercare. Gli hard disk erano nascosti in di-versi punti del suo appartamento, erano avvolti nei vestiti o nascosti dentro i cap-pelli. I ladri li hanno trovati tutti. Sono sta-te rubate perfino le schede di memoria degli apparecchi fotograici. “Hanno igno-rato i gioielli e le macchine fotograiche. Quindi l’obiettivo del furto non erano i sol-di, ma le informazioni”. Dagli occhi di Muholi scendono le lacrime. “Per me que-sto lavoro rappresenta la nostra storia, ne abbiamo bisogno”.

Era davvero il lavoro di Muholi a essere preso di mira? Qualcuno nella società su-dafricana si è sentito così ofeso da voler-

sene sbarazzare a tutti i costi? Il lavoro di una sola donna era così pericoloso? “Per-ché le vite dei gay rappresentano una simi-le minaccia in un paese democratico?”, si chiede Muholi.

Un mese dopo il furto, la fotografa è an-data a Kuruman, una cittadina nel nord del paese, dove era stato assassinato un ragaz-zo dichiaratamente gay di 23 anni, Thapelo Makutle. Makutle era una drag queen nota con il nome di Queen Bling. Da poco era stato incoronato Miss gay Kuruman.

A costo della vita

Muholi e altri attivisti raccontano in un blog: “Thapelo è stato trovato da un amico nella stanza che aveva in aitto, steso sul pavimento sotto una coperta, con la gola tagliata e i genitali asportati. All’obitorio hanno scoperto che gli era stata tagliata la lingua e gli erano stati inilati i testicoli in bocca. Le pareti divisorie tra le stanze sono sottili, ma i vicini nella stanza accanto e in quelle intorno hanno detto di aver sentito solo delle persone parlare, niente urla o schiamazzi. Niente che possa indicare il livello di violenza di quella mattina. Come può una persona aver fatto una cosa simi-le? In Sudafrica ci sono stati almeno 23 omicidi di gay che possono essere deiniti crimini motivati dall’odio. A quanto pare la guerra ideologica sulla diversità sessuale è diventata un conlitto estremo”.

Documentare crimini o difendere i di-ritti dei gay in Africa non sarà mai un lavo-ro popolare. Fotograi come Muholi, Esie-bo e Mwangi non vanno in giro per il mon-do con tutte le spese pagate, non hanno un luogo sicuro dove rifugiarsi quando le cose si mettono male o quando finiscono nel mirino di qualcuno. Sono i veri eredi del fotografo di guerra africano, e sidano gli africani a esaminare le società in cui vivo-no e le loro visioni del mondo. Mentre do-cumentaristi coraggiosi e di solidi princìpi come Seyoum Tsehaye sofrono nelle car-ceri di una dittatura, nel resto del conti-nente regimi spietati ricorrono alla violen-za e all’intimidazione per tenere nascosta la verità.

In Africa ci sono pochi fotograi di fama mondiale ma molti, meno famosi, conti-nuano a documentare le ingiustizie e gli abusi rischiando la vita. u gim

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Isiko I., 2007. Foto di Zanele Muholi

L’AUTORE

Greg Marinovich è un fotografo di guerra sudafricano. Vincitore di un premio Pulitzer nel 1991, ha scritto insieme al collega João Silva il libro The bang bang club. oggi collabora con il Daily Maverick.

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Economia

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La ricerca del parcheggio è una storia segnata da rab-bia e dolore. L’estate scorsa a Oberhausen-Sterkrade, nel land del Nord Reno-Vestfalia, due uomini sono

stati protagonisti di una lunga lite per un posteggio, e alla ine uno dei due ha tirato fuori il coltello. Di recente nel parcheggio di un supermercato di Gauting, in Baviera, un automobilista furibondo ha investito una donna. Lo scorso autunno, nel Mühlenweiher, una strada stretta e senza uscita della cittadina di Alfter, ancora nel Nord Reno-Vestfalia, la polizia è dovuta intervenire per impedire un massacro: la stampa locale ha raccontato che due auto-mobilisti si erano aggrediti a colpi di basto-ne e gas urticante. Il bilancio della serata è stato di quattro feriti. Tutto per pochi metri quadrati di asfalto.

Secondo alcuni studi, nel mondo più di un automobilista su quattro è coinvolto al-meno una volta all’anno in una lite per il parcheggio. Il fatto che praticamente ovunque la domanda di posti per l’auto su-peri di molto l’offerta danneggia i nervi non meno che l’ambiente. Un buon terzo del traico automobilistico nei centri delle città di tutto il mondo, infatti, è dovuto esclusivamente alla ricerca del parcheg-gio. Secondo l’urbanista statunitense Do-nald Shoup, un esperto di economia dei trasporti, in una zona commerciale di Los Angeles si percorrono circa 1,5 milioni di

Parcheggiper soli ricchiMarcus Rohwetter, Die Zeit, Germania

Le nuove tecnologie promettono di trasformare anche il modo in cui si parcheggia l’auto. Usando gli smartphone sarà possibile cercare e prenotare i posti liberi. Con vantaggi economici per chi gestisce i posteggi. Ma i nuovi sistemi rischiano di favorire chi è in grado di pagare di più

chilometri all’anno solo per cercare un po-sto dove lasciare l’automobile.

In tutte le grandi città la ricerca del par-cheggio è una specie di calvario a quattro ruote. Ma a quanto pare, invece di ridurre drasticamente il traico locale e convince-re le persone a prendere l’autobus, il tram o la metropolitana, si sta andando in un’altra direzione: equipaggiare di nuove tecnolo-gie sia gli autoveicoli sia i posteggi cittadi-ni. Tra non molto, infatti, anche le auto e i parcheggi saranno collegati attraverso in-ternet in modo permanente. Tutto questo provocherà il più grande cambiamento mai registrato nell’economia del parcheg-gio di veicoli dal 1935, cioè da quando a Oklahoma City fu installato il primo par-chimetro del mondo. In futuro, grazie ai software, sarà possibile ottimizzare come mai prima d’ora la gestione dei posti auto, ottenendo da queste ambite superici an-cora più vantaggi economici. In poche pa-role, più soldi.

Connesso alla rete“Parcheggiare sarà decisamente più costo-so rispetto ai vecchi metodi impiegati og-gi”, mi spiega un esperto che, per conto di una multinazionale, sta sviluppando un sistema per il traico connesso alla rete. Il mio interlocutore preferisce mantenere l’anonimato, anche perché le sue opinioni non sono ben viste, specie nella terra di Gottlieb Daimler e di Carl Benz, nonostan-te siano semplici valutazioni economiche.

Quando la tecnologia avrà trasformato il parcheggio in un bene di lusso, avremo una società classista anche nei garage, dove troverà comodamente posto chi ha più sol-di. L’aumento delle tarife per la sosta è semplicemente la conseguenza di una so-cietà di automobilisti che da decenni di-pendono troppo dalle quattro ruote. Ora arriva il conto, e non tutti saranno in grado di pagarlo.

A San Francisco è già possibile farsi un’idea di quello che potrebbe succedere. L’amministrazione della città californiana ha dotato di sensori e di cosiddetti parchi-metri intelligenti 8.200 posteggi situati all’aperto nelle zone a più alto traico. Da allora le tarife variano tra i 25 centesimi e i sei dollari all’ora da luogo a luogo e in di-verse fasce orarie: quanto maggiore è la richiesta in un dato momento e in un deter-minato punto della città, tanto maggiore è la tarifa, che può essere pagata con la carta di credito o con il telefonino. Quando poi ci sono manifestazioni di forte richiamo, co-me per esempio la parata del gay pride, le tarife possono raggiungere anche i diciot-to dollari all’ora. Con uno smartphone, inoltre, è possibile sapere in qualsiasi mo-mento dove c’è un parcheggio libero e quanto costa.

E questo è solo l’inizio. Le tecnologie digitali permettono di riempire gli ultimi posti liberi, ma non risolvono il problema di fondo: continueranno a esserci troppe auto rispetto ai posteggi disponibili. Di

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conseguenza le tarife sono destinate ad aumentare. Se poi in futuro la tecnologia permetterà di prenotare una sosta, potran-no nascere un’infinità di nuovi modelli economici con cui scucire soldi agli auto-mobilisti. Gli ultimi posti disponibili nelle zone più richieste, per esempio, potranno essere messi all’asta online (come avviene su eBay), e l’utente potrà essere avvisato dell’opportunità in modo facile e rapido attraverso il computer di bordo. Si potran-no applicare, inoltre, le tecniche usate dal-le compagnie aeree per assillare i loro pas-seggeri: preimbarco in cambio di un so-vrapprezzo, zone di sosta riservate, garage sotterranei riservati ai clienti di riguardo o

alle grandi aziende che hanno molti veico-li da parcheggiare.

Collegare in rete gli autoveicoli non è un’idea fantascientiica. L’Audi pubbliciz-za già il suo servizio internet, Connect, sottolineando che sarà in grado di trovare stazioni di servizio convenienti e parcheg-gi liberi non appena questi siti saranno re-gistrati in un database. La casa automobi-listica di Ingolstadt sta studiando una tec-nologia che permetta al computer di bordo di rilevare automaticamente le tarife dei parchimetri e di pagarle mensilmente. La Mercedes sta installando sulle sue auto-mobili la tecnologia Car-to-X, che assicura uno scambio costante di informazioni tra

l’autoveicolo e l’ambiente circostante. La Bmw, inine, entro il 2015 vuole equipag-giare il 90 per cento delle sue nuove auto-vetture con tecnologie digitali di comuni-cazione. Non a caso il digital driving è stato uno dei temi principali dell’ultimo salone internazionale dell’auto di Francoforte sul Meno. Grazie ai sistemi di navigazione e di connettività più avanzati, le automobili stanno diventando dei veri e propri com-puter su ruote. “Nel 2016 circoleranno sul-le strade di tutto il mondo 210 milioni di auto connesse”, annuncia entusiasta Mat-thias Wissmann, presidente della federa-zione dell’industria automobilistica te-desca.

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Giza, Egitto

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Economia

Anche l’asfalto sarà dotato delle stesse tecnologie. Aziende come la statunitense Streetline e la scozzese Smart Parking han-no lanciato sul mercato dei sensori per la pavimentazione stradale che rilevano e se-gnalano se sulla supericie è parcheggiato un veicolo. Il collegamento online tra i sen-sori, le app degli smartphone e i sistemi di navigazione satellitare permetteranno agli automobilisti di individuare il più vicino parcheggio disponibile e di raggiungerlo rapidamente.

Un’azienda tedesca, la Schlauerparken, vuole installare dei sensori sui lampioni o sulle pareti esterne delle case per ottenere in tempo reale una scansione completa di segmenti stradali e vedere dov’è possibile parcheggiare una piccola Smart e dove in-vece c’è lo spazio suiciente per un’ingom-brante Porsche Cayenne. Queste tecnolo-gie ofrono anche la possibilità di registrare la durata della sosta, di far pagare fino all’ultimo secondo e di denunciare alle for-ze dell’ordine chi ha occupato abusiva-mente lo spazio, il tutto in modo completa-mente automatico.

Le amministrazioni comunali, quasi ovunque alle prese con ristrettezze inan-ziarie, possono quindi rallegrarsi. D’altron-de, che in tema di tarife del parcheggio ci sia ancora margine per gli aumenti lo di-mostrano le strade congestionate dei cen-tri cittadini. Secondo l’Adac, l’Automobil-club tedesco, ad Amburgo e a Colonia le automobili in circolazione sono il 29 per cento in più rispetto agli anni ottanta, e a Monaco di Baviera il 38 per cento in più. Inoltre, non si capisce perché l’afollamen-to delle grandi città deve far aumentare vertiginosamente gli aitti degli apparta-menti, ma lasciare invariate le tarife dei parcheggi che, in in dei conti, sono un al-loggio a breve termine per l’auto, quindi è normale che abbiano il loro prezzo. L’esta-te scorsa a Boston una donna ha comprato due posti in centro per più di 250mila dol-lari. E non era neanche il prezzo più alto mai pagato.

Adattarsi alla domanda

La nuova economia del parcheggio poggia su tre aspetti. Il primo è che le tarife devo-no variare in tempo reale per adattarsi alla domanda. L’idea originaria era venuta già negli anni sessanta a William Vickrey, pre-mio Nobel per l’economia nel 1996. All’epoca, però, mancavano le tecnologie sperimentate oggi a San Francisco e in al-tre metropoli statunitensi. Il secondo aspetto è la possibilità di prenotare il posto: esistono già delle app per smartphone che

permettono di individuare quello libero più vicino, ma di solito, anche se è a due strade di distanza, è già occupato quando l’automobilista lo raggiunge. Quindi il nuovo sistema ha un senso solo se permet-te di prenotare i parcheggi. Attualmente è diicile farlo con quelli su strada: in in dei conti si tratta di impedire ad altri automo-bilisti di occupare il posto che vorremmo occupare. È già possibile, invece, nei par-cheggi multipiano. L’Apcoa, un’azienda che ne gestisce molti in tutta Europa e am-ministra circa 1,3 milioni di posti auto, ofre la possibilità di preno-tare un posto per l’auto in diversi aeroporti della Germania. Natu-ralmente con tariffe speciali e sconti per chi prenota prima o paga in anticipo. Le cose si complicano se il cliente annulla il viaggio aereo e di con-seguenza non ha più bisogno del parcheg-gio. In questo caso l’Apcoa consiglia un’as-sicurazione che copra i costi dell’annulla-mento della prenotazione. Insomma, gli automobilisti rimpiangeranno i bei tempi in cui prima di uscire dal posteggio si dove-va semplicemente passare dalla cassa au-tomatica e inilarci dentro qualche mone-tina.

Il terzo aspetto dell’economia del par-cheggio promette di diventare davvero in-

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teressante: le imprese della Silicon valley, di Berlino e di altri luoghi studiano atten-tamente il traico per capire come trasfor-mare il parcheggio in “un’esperienza” completamente nuova, anche se non si sa ancora se quest’esperienza lascerà agli au-tomobilisti un ricordo brutto o bello. A Istanbul, per esempio, la società di gestio-ne dei parcheggi comunali ha pensato a dei garage galleggianti: gli autoveicoli sareb-bero cioè parcheggiati su una ila di tra-ghetti fuori servizio e riconvertiti, che sa-

ranno ormeggiati sul Bosforo. Per rendere più piacevole “l’esperienza”, a bordo ci sareb-bero cafè, zone di riposo e galle-rie d’arte.

C’è poi un’idea tutta tedesca: aprire stazioni di rifornimento e autolavag-gi nei grandi parcheggi stradali e in quelli multipiano. Chi non si limita a parcheggia-re l’auto, ma desidera anche lavarla o fare il pieno, ottiene uno sconto sulla tarifa. In questo caso, però, il carburante costerà un po’ di più. Del resto, la comodità è da sem-pre un lusso.

Altre idee sono già realtà. Nei parcheg-gi aeroportuali dell’Apcoa la sosta è più cara se dura di meno. Al parcheggio dell’aeroporto di Stoccarda una settimana costa, in base alla tarifa scelta, tra i 50 e i

Torino, ItaliaPE

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120 euro: il prezzo dipende, tra l’altro, dal fatto che il cliente accetti di impiegare die-ci minuti o solo due per andare a piedi ino al terminal. Ma i clienti che prenotano on-line devono comunque versare tre euro in più “per il servizio”. Chissà poi perché. È complicato? Certo. Ma far pagare un van-taggio come la vicinanza all’uscita è un’idea facilmente applicabile anche a molti parcheggi stradali nei centri delle città.

Più spazio per le gambeInsomma, i gestori di parcheggi hanno molto da imparare dagli aeroporti, perché le compagnie aeree sono brave a sfruttare gli spazi ristretti. D’altronde, la sosta colle-gata in rete ha molto in comune con l’asse-gnazione del posto negli aerei. Compreso il fattore nervi. Da tempo, ormai, su molti voli low cost i posti vicino alle uscite o con più spazio per le gambe sono più cari. Inol-tre, chi è disposto a pagare può salire a bor-do in tutta calma, senza fare la ila, mentre gli altri passeggeri si contendono i posti restanti, e chi sceglie di non pagare il posto a sedere, in caso di overbooking sarà il pri-mo a restare a terra.

Ebbene, non è irrealistico pensare che qualcosa di simile possa accadere anche nell’industria automobilistica o nella ge-

stione dei parcheggi. La Daimler, per esempio, un anno fa ha comprato una quo-ta nell’azienda statunitense Gotta Park, che vende prenotazioni online in otto gran-di città degli Stati Uniti. Le due aziende vogliono sviluppare insieme delle “solu-zioni di posteggio intelligenti”. Cosa signi-fica? Per esempio, sarebbe intelligente promettere a chi compra una Mercedes classe S da ottantamila euro che avrà per sempre a disposizione un parcheggio riser-vato, e nella posizione migliore, anche quando per tutti gli altri il multipiano fosse uicialmente esaurito. È solo un’idea, e i-nora non ci sono indizi che la Daimler ci stia lavorando. Ma di certo il tipico cliente ricco gradirebbe molto questa possibilità.

L’esperienza delle linee aeree dimostra quanto possano essere riconoscenti, se op-portunamente coccolati, i clienti “scelti”. Non appena raggiungono l’ambito status da carta oro, platino, diamante o chissà che altro, sono disposti a tutto o quasi per con-servarne i privilegi.

Le grandi multinazionali conoscono bene il fenomeno: se un frequent lyer, abi-tuato alla business class, capisce che ri-schia di perdere i suoi privilegi, spunta su-bito un appuntamento importante a New York o a Tokyo di cui deve assolutamente approittare se vuol continuare ad apparte-

nere alla clientela selezionata.La ricerca del parcheggio, comunque,

non è solo un fenomeno economico, ma anche psicologico. Salire in auto, vagare per le strade in preda alla disperazione, te-nere duro e inalmente trovare un postici-no: è come un far west dove la spunta il più veloce o il più scaltro e non chi ha il porta-fogli più gonfio o l’auto più potente. A ognuno la sua chance.

L’aspetto sgradevole sono le liti per il parcheggio, ma ce n’è anche uno piacevo-le: è la gioia segreta della vittoria. Per esempio quando chi guida un’utilitaria ar-rugginita soia l’ultimo posto auto a chi è al volante di un lussuoso suv che è incastra-to nella curva di un angusto vicolo del cen-tro. O quando l’automobilista di una gran-de città scopre dalle parti di casa sua un angoletto nascosto sfuggito a tutti gli altri. Oppure quando si paga un’ora sola di par-cheggio e per tutta la giornata non passa neanche un vigile. È il trionfo del quotidia-no, la fortuna insperata, un briciolo di giu-stizia distributiva che compensa il proprie-tario di un’auto di piccola cilindrata per l’incubo giornaliero della caccia al par-cheggio.

Ma questo è destinato a sparire nell’era dell’autoveicolo completamente sorve-gliato, accompagnato in modo permanen-te ma invisibile dal collegamento radio mobile, dal gps e dai sensori che individua-no il parcheggio disponibile. Naturalmente il cammino non è privo di ostacoli. Sotto il proilo tecnico è una sida rendere possibi-le la prenotazione in modo da aggiudicarsi in un istante il posto libero.

Per giunta, in Germania quello dei par-cheggi è un paesaggio frammentato: se le amministrazioni comunali, le imprese e i privati non si mettono d’accordo su stan-dard elettronici omogenei, tutto rischia di restare molto complicato. Poi ci sono i commercianti, che protestano perché non vogliono veder scappare i clienti per colpa dei posteggi troppo cari. E i pendolari, che riiutano di prendere l’autobus, oltre a tutte quelle persone – disabili, genitori con bam-bini e proprietari di auto elettriche – a cui la società riconosce il diritto a una sosta ri-servata.

Comunque i gestori di parcheggi com-merciali privati non sono i soli a voler far crescere le loro entrate. Gli analisti della Ernst&Young hanno scoperto che anche un’amministrazione comunale su quattro vorrebbe aumentare le tarife per la sosta in modo da ridurre i suoi debiti. Non è cer-to una sorpresa. Alla ine tutti vogliono la stessa cosa: più soldi. u ma

Boulder, Stati UnitiPE

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Un mondo di città

All’inizio del diciannovesimo secolo, il nostro pianeta contava un miliardo di esseri umani.

All’alba del ventunesimo ne accoglie sette. Questa esplosione demograica, che si sta stabilizzando, è stata accompagnata da un esodo di massa dalle campagne verso le città: la popolazione urbanizzata era il 3 per cento di quella mondiale nel 1800, è arrivata quasi al 50 per cento nel 2000 e nel 2007 è diventata la maggioranza.

All’inizio l’inurbazione è stata un fenomeno tipico dei paesi occidentali, ma oggi si è difuso anche in quelli che un tempo chiamavamo paesi in via di sviluppo: fra le trenta megalopoli più grandi, 6 si trovano in Europa e in Nordamerica, 4 in Sudamerica, 3 in Africa e 17 in Asia.

La città, scrive la sociologa statunitense Saskia Sassen, “è lo spazio più avanzato dei nostri problemi globali più gravi”: gestione dei conlitti, sviluppo tecnologico, disuguaglianze, controllo dei lussi migratori. Un luogo privilegiato, quindi, per osservare le contraddizioni principali di quel nuovo “assemblaggio” tra sovranità, territorio e diritti che è la globalizzazione.Cartografare il presente

u L’Atlante è un progetto realizza-to da Cartografare il presente, labo-ratorio di ricerca e documentazione sulle trasformazioni geopolitiche del mondo contemporaneo del Di-partimento di storia, culture, civiltà dell’Università di Bologna, con la partecipazione del Grid di Arendal (Norvegia). Ogni mese Internazio-nale ospita una selezione di mappe sui principali temi dell’attualità po-litica, economica e sociale per orientarsi nelle trasformazioni del mondo globalizzato.

La versione integrale dell’Atlan-te, con più mappe, è online su: internazionale.it/atlante.

Queste pagine

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Portfolio

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Bangkokparadisoperduto

Negli ultimi anni milioni di tailandesi hanno lasciato le campagne per trasferirsi alla periferia della capitale. Il reportage di Lek Kiatsirikajorn

Nell’ultimo secolo la popolazione di Bangkok, la capitale della Thailandia, è aumentata ino a rag-giungere gli otto milioni di abitanti (14 milioni contando anche la regione metropolitana). La ra-pida industrializzazione del paese ha spinto milio-

ni di persone a lasciare le campagne per trasferirsi alla periferia della capitale in cerca di una vita migliore. Oggi Bangkok è la sesta città in Asia per pil pro capite, ma ci sono grandi disuguaglianze di reddito tra i lavoratori poco qualiicati provenienti dalle cam-pagne o dai paesi vicini (in particolare Birmania, Cambogia e Laos) e le élite del mondo degli afari o i professionisti della classe media (foto agenzia MoST). u

Lek Kiatsirikajorn è un fotografo tailandese nato nel 1977. Il re-portage Lost in paradise, che documenta una Thailandia ancora in bilico tra il suo passato agricolo e il suo presente industriale, è stato realizzato grazie al sostegno del museo del quai Branly a Parigi.

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Portfolio

Tutte le foto sono state scattate nella regione di Bangkok. A pagina 56-57, foto grande: Tongleang Kaewsai, originario della provincia di Yasothon. A pagina 57, foto piccola: Lam (provincia di Sa Kaew) e Noi (provincia di Udon Thani). Qui sopra, dall’alto: Suton Yangdee (provincia di Saraburi); Wachira Tonheng con la iglia (provincia di Chachoengsao); Ham (provincia di Lopburi) e Bom (provincia di Nakhon-Phanom). A destra: Weerapat Srivichien (provincia di Ayutthaya).

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A sinistra: Kai, originario della provincia di Tak. Sopra, dall’alto: Chatchawan Hongnhang (provincia di Loei); Korn Bangkhuntod (provincia di Nakhon-Ratchasima).

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Alla ine di novembre del 2013, durante una pausa per il pranzo nel bel mez-zo di una tre giorni di proteste nella capitale Phnom Penh, Sam Rain-

sy rilette sull’ironia della sua situazione: oggi guida un movimento che vorrebbe ca-povolgere il risultato di una votazione a cui lui non ha nemmeno potuto partecipare. “Prima cercavano di eliminarti isicamen-te, mentre ora vogliono ucciderti politica-mente attraverso la magistratura”, spiega con un sorriso sarcastico. In passato hanno tentato di assassinarlo più di una volta. Da quando è rientrato dall’esilio volontario in Francia, alla vigilia delle elezioni del 28 lu-glio 2013, Rainsy può muoversi liberamente grazie a un perdono del re che gli permette di evitare la prigione. Secondo Rainsy, le sentenze contro di lui avevano una motiva-zione politica, mentre il perdono fa parte del piano del primo ministro Hun Sen per convincere la comunità internazionale che la democrazia cambogiana sta facendo pas-si avanti. “Io difendo la mia causa, e loro possono ingere che l’oppositore Sam Rain-sy è un uomo libero e che la Cambogia sta creando un ambiente democratico. Mi stanno usando in un modo più soisticato rispetto a prima”.

Intanto nel Freedom park si sono riuniti 20mila manifestanti (sono stati cacciati con la forza all’inizio del 2014 e nella repressio-ne sono morti cinque manifestanti). Chie-

dono l’intervento della comunità interna-zionale per sbloccare l’impasse politica. Sperano nel cambiamento in un paese de-vastato da decenni di guerra, governo auto-ritario e corruzione.

Rainsy, leader dell’alleanza Partito di salvezza nazionale della Cambogia (Cnrp), è deciso a fondare una vera democrazia nel paese. Oggi ha un passaporto francese e si è sposato a Parigi, dove ha studiato economia e inanza, ha cominciato la sua carriera nel settore bancario e ha creato la sua prima azienda di consulenza inanziaria. Per que-sta formazione di alto livello, però, ha dovu-to pagare un prezzo molto alto. Nella sua autobiograia pubblicata nel 2013, Rainsy ricorda di aver trascorso gli anni universita-ri oppresso dai sensi di colpa, perché era l’unico componente della famiglia ad avere avuto la fortuna di laurearsi. I suoi fratelli maggiori intanto lavoravano per aiutare la madre a pagare l’aitto e comprarsi da man-giare mentre erano in esilio politico in Fran-cia. “All’epoca, il regime perseguitava mio padre, Sam Sary. Lo accusavano di aver par-tecipato a un colpo di stato fallito e di essere un nemico del principe Norodom Sihanouk. La mia famiglia era stata espulsa in Vie-tnam”, racconta.“Ci siamo nascosti in

Tornato in Cambogia dopo anni di esilio, il leader dell’opposizione Sam Rainsy è convinto che il tempo e i cittadini siano dalla sua parte nella lotta per riportare la democrazia nel paese

Nithi Kaveevivitchai, Bangkok Post, Thailandia

Cambogia per un po’, prima di riuscire a scappare in Francia. Probabilmente siamo stati i primi rifugiati cambogiani a essere accolti in quel paese”. Anche la vita senti-mentale gli ha riservato grandi diicoltà. Innamorato della iglia di uno stretto allea-to del principe Sihanouk, per sposarla ha dovuto aspettare il 1971, quando il principe è stato rovesciato da un colpo di stato soste-nuto dagli Stati Uniti e guidato da Lon Nol. Prima di allora era troppo spaventato per chiedere la mano della ragazza.

La decisione di lasciare il settore inan-ziario per la carriera politica in Cambogia è stata frutto di uno slancio ideale. “Ho ri-nunciato alla carriera e a una vita comoda per lavorare a tempo pieno come politico perché ho capito che avevo l’opportunità di salvare la Cambogia. Il paese era sotto l’oc-cupazione vietnamita dopo i Khmer rossi e i campi di sterminio. Le guerre civili aveva-no drammaticamente indebolito il paese”.

Il premio più grandeDopo essersi lasciato alle spalle i rancori del passato, Rainsy è entrato nel partito Fun-cinpec guidato dal principe Norodom e ha deciso di sostenere il movimento monar-chico. Eletto come rappresentante della provincia di Siem Rap nel 1993, è stato mi-nistro delle finanze per 18 mesi, conqui-standosi la reputazione di uomo d’azione pronto a criticare il governo e i leader del suo partito. “Ho scoperto che la coalizione era corrotta. Stavano distruggendo il paese, soprattutto con la legge sulla deforestazio-ne. Ho avuto il coraggio di farmi avanti e denunciare la corruzione nell’esecutivo e nel mio stesso partito. Alla ine mi hanno cacciato dal governo, dal partito e dal parla-mento”. Un anno dopo ha fondato il Partito della nazione khmer, e da allora continua a lottare contro i gruppi di potere al governo.

Ricordando il periodo in cui è stato mi-nistro delle inanze, Rainsy pensa di aver

◆ 10 marzo 1949 Nasce a Phnom Penh.◆ 1971 Sposa Tioulong Saumura, con la quale avrà tre igli.◆ 1973 Si laurea in economia a Parigi.◆ 1985-1992 Diventa direttore della banca d’investimenti francese Paluel-Marmont e poi presidente di Dr Gestion, una società d’investimenti.◆ 1992 È tra i fondatori del partito monarchico cambogiano Funcinpec.◆ 1993 Viene eletto in parlamento e ino al 1994 è ministro delle inanze.◆ 1995 Fonda il Partito della nazione khmer, che nel 1998 diventa Partito di Sam Rainsy.

Biograia

Ritratti

Sam RainsyFedele ai princìpi

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dimostrato alla comunità internazionale di essere un uomo animato da princìpi saldi e deciso a fare il bene del popolo. “Avevo fatto scendere l’inlazione e avevo aumentato i salari dei dipendenti pubblici. Oggi il Cnrp deve la sua forza anche ai risultati che avevo ottenuto come ministro”.

Rivale storico del primo ministro Hun Sen, Rainsy è felice del cambiamento nel panorama politico nazionale e soprattutto dell’impegno dei giovani cambogiani attivi sui social network. “Sono contento di avere l’appoggio di giovani che prima non mi co-noscevano. Non sanno cosa ho fatto in pas-sato, ma hanno deciso di lavorare con noi. Hanno capito che il mio partito è l’unica speranza per un futuro migliore. Per me la iducia del popolo è il premio più grande, oltre che uno strumento prezioso”.

Rainsy è molto preoccupato dalla situa-zione economica della Cambogia, che non riesce a creare abbastanza posti di lavoro per i giovani laureati. Molti ventenni sono disoccupati o costretti ad accettare incari-chi per i quali sono troppo qualiicati. Una delle cause è che gli investitori non si lan-ciano in attività che potrebbero creare posti di lavoro qualiicati. “Con questo governo la legge dipende esclusivamente dalle opinio-ni e dagli umori del primo ministro Hun Sen”, dice Rainsy. “Agli investitori seri non

piace quest’incertezza, perciò l’economia cambogiana dipende da quelli disposti ad aggirare la legge. Così non va, dobbiamo rimettere le cose a posto”.

Nell’ottobre del 2013 Rainsy ha viaggia-to in Europa e negli Stati Uniti per chiedere all’occidente di non riconoscere il nuovo governo cambogiano. Ma ottenere l’atten-zione della comunità internazionale si è ri-velato diicile e siancante. “La Cambogia è un paese piccolo e pochi conoscono la sua situazione reale. In fondo non interessa quasi a nessuno. Ma difendere la democra-zia nel mondo è una questione di principio, e penso che gli occidentali dovrebbero ap-plicare gli standard dei loro paesi anche all’estero”.

Dopo il suo ritorno a Phnom Penh, ha notato dei segnali incoraggianti. “La Cam-bogia è a un punto di svolta. Ci sono gli stes-si ingredienti per una rivoluzione che ab-biamo visto durante la primavera araba: tanti giovani, disoccupazione alle stelle, povertà estrema, ingiustizia sociale, corru-zione e un uso sempre maggiore dei social network, che consentono alle persone di mobilitarsi rapidamente. Il paese è nella posizione ideale per un cambiamento”.

Rainsy pensa che Hun Sen, il premier al potere da più tempo in Asia, non abbia una visione a lungo termine e stia cercando solo

di restare aggrappato al suo posto. Secondo Rainsy il passato di Hun Sen come coman-dante dei Khmer rossi e la sua linea politica ilovietnamita danneggiano il paese. “L’ere-dità dei Khmer rossi inluisce parecchio sul comportamento dell’attuale leader. È con-vinto di avere un potere assoluto e di poter fare tutto ciò che vuole impunemente. Que-sto approccio gli ha permesso di restare in carica per 28 anni, ma gli ha anche impedito di avere un progetto a lungo termine”.

Per Rainsy, arrivato alla soglia dei 65 an-ni, nessun leader è indispensabile, e qual-siasi organizzazione o paese deve preparare la successione ai vertici. Per questo ha pro-messo che in caso di vittoria elettorale isse-rà un termine al suo mandato. “Nessuno dovrebbe poter governare per più di due mandati. Io sto già preparando alcuni gio-vani perché un domani siano in grado di prendere il mio posto”.

Nel frattempo vuole dimostrare di esse-re all’altezza della iducia che i giovani gli hanno concesso, restando fedele ai suoi ideali e riiutando tutte le oferte di unirsi all’attuale amministrazione. “Se accettassi un incarico tradirei i miei princìpi. Conti-nueremo a chiedere un’inchiesta sulle ele-zioni, non importa quanto ci vorrà. Conti-nueremo a lottare, e alla ine la verità verrà a galla”. u as

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Viaggi

certo, sede dello straordinario festival musicale Schubertiade che si svolge in que-sta zona da più di 35 anni. La sala concerti è completamente in legno, un caldo abbrac-cio caramellato di abete e acero. I seicento posti a sedere sono tutti esauriti. Mentre ci accomodiamo la luce della sera scende in lontananza sui monti alla nostra sinistra.

Ian Bostridge canta qui dal 1999. Lui adora loro e loro adorano lui. Il suo Winter-

reise, con il pianista Julian Drake, è pieno di trasporto. Eppure c’è qualcosa, nell’ince-dere arrancante del primo lieder, che mi ricorda la seconda parte dell’accordo: le passeggiate.

Bellezza mozzaiatoIl mattino porta buone notizie: piove a di-rotto e se continua così niente camminata. Purtroppo dopo poco le nuvole si allonta-nano e non c’è modo di evitarla. Mi inilo i miei scarponcini da trekking, quasi mai usati, e ci mettiamo in marcia. È probabile che la vostra conoscenza di queste parti, come la mia, si basi su un famosissimo ilm con Julie Andrews (Tutti insieme appassio-

natamente). L’idea generale è quella: bel-lezza mozzaiato, prati dal verde brillante, ranuncoli e casette con le imposte di legno. In realtà quello è il Tirolo, che da queste parti è considerato un po’ volgarotto e com-merciale.

Nel Bregenzerwald ci sono circa trenta-mila abitanti e altrettante mucche. È una valle di lavoratori. A ine agosto si esce nei campi a tagliare il ieno, a spaccare la legna e a prepararsi per l’inverno. Molti ienili, anche quelli costruiti di recente, ospitano sotto lo stesso tetto persone e animali. Ci sono in efetti molte casette alla Heidi ap-pena si esce dal paese. Ma a uno sguardo più attento si scoprono delle interessanti variazioni sul tema, con un sapiente uso modernista del legno e del vetro. Una casa su quattro è stata progettata da un architet-to. Insomma, non siamo in un parco tema-

In tutte le relazioni di coppia biso-gna fare dei compromessi. Maga-ri uno dei due è appassionato di scacchi mentre l’altro vuole sape-re tutto sulla manutenzione delle biciclette. Ci sono ballerini da sa-

la sposati con amanti della tragedia aristo-telica e falegnami dilettanti sposati con appassionate del deltaplano. Cosa fanno queste coppie in vacanza? Il compromesso è stato alla base della nostra decisione di andare in vacanza a Schwarzenberg, nell’Austria occidentale. L’accordo preve-de passeggiate in montagna di giorno e musica di sera. Io sono l’appassionato di musica, mia moglie è l’escursionista.

Quattro giornate di concerti di musica da camera e passeggiate alpine dovrebbero accontentare entrambi. O forse no. Perché a mia moglie Lindsay piace molto anche la musica, mentre io detesto camminare. So-no disposto a qualsiasi cosa pur di evitare una passeggiata: andare in taxi, in autobus, in bicicletta, simulare un infortunio, inven-tare una scusa, ingere di avere la febbre, farmi fare un certiicato dal medico. Qual-siasi cosa. Ecco perché sono in ansia nei novanta minuti di tragitto in auto dall’aero-porto di Zurigo, mentre la foschia avvolge il massiccio del Bregenzerwald, ai piedi delle Alpi settentrionali. Stasera c’è Ian Bo-stridge che canta il Winterreise. Ma domani si cammina.

Facciamo il check in all’hotel Hirschen di Schwarzenberg, una struttura settecen-tesca rivestita in legno che da nove genera-zioni è gestita dalla famiglia Fetz. In quat-tro minuti si arriva a piedi alla sala da con-

Trekking con Schubert

Alan Rusbridger, The Guardian, Regno Unito

tico alpino. Sopravvivo alla prima cammi-nata. Ci fermiamo al vicino hotel Adler per un pranzo ristoratore. È un accogliente al-bergo del settecento, con pannelli di legno all’interno e all’esterno. Qui scopro che c’è un altro stereotipo da sfatare: la cucina.

Già immaginavo un’altezzosa alzata di sopracciglio alla parola “vegetariano”. Mi aspettavo una dieta ininterrotta a base di bratwurst e schnitzel. Mi sbagliavo di gros-so. Per quattro giorni mangiamo zuppe leggere, formaggi cremosi, burri alpini, pa-ne ottimo, muesli e piatti abbondanti a ba-se di porcini e pasta. Non solo: tutti gli al-berghi della zona organizzano il menù a seconda dei concerti della sera. Si può sce-gliere tra un minimo di due e un massimo di cinque portate e decidere quanto man-giare prima e dopo Schubert. Zuppa, insa-

Il direttore del Guardian Alan Rusbridger in vacanza in Austria: di giorno in montagna e la sera al festival dedicato al compositore viennese

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Schwarzenberg, Austria. Durante la Schubertiade

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lata, bistecca, Schubert, sorbetto, letto.Alla ine della prima giornata ci siamo

già tolti di mezzo due passeggiate. Ci ri-mettiamo in sesto con una sauna e ci sedia-mo davanti al vellutato quartetto Belcea con Thomas Quasthof in un programma di Mozart e Haydn. Non c’è solo Schubert.

L’idea originaria del festival Schuber-tiade, nato nel 1976, era riproporre l’intera opera di Schubert (preferibilmente in ordi-ne cronologico) e nient’altro che Schubert. Otto anni dopo però gli organizzatori si so-no ammorbiditi e adesso c’è più o meno di tutto.

Tutto? Non proprio. È vero che Ian Bo-stridge canta anche qualcosa di Britten e Ives, ma il cuore del programma musicale è saldamente radicato nella tradizione classica e romantica. Comunque le compo-sizioni inserite nel programma in genere non sono più vecchie dell’hotel Hirschen (1757) e non c’è niente di scritto dopo il

◆ Arrivare L’aeroporto più vicino alla regione del Bregenzerwald è quello di Zurigo. Il prezzo di un volo dall’Italia (Swiss, Alitalia, Air France) parte da 99 euro a/r. ◆ Dormire A Schwarzenberg, l’hotel Hirschen (intern.az/19zGRwO) ofre stanze a partire da 79 euro a notte, a persona. La mezza pensione costa 142 euro al giorno. A Hittisau, l’hotel Schif (www.schif-hittisau.com) ofre stanze a parte da 105 euro a persona.◆ Schubertiade Il festival si svolge a Hohenems e a Schwarzenberg da maggio a settembre. Il prezzo dei biglietti va da 15 a 129 euro per concerto. Per il programma dei concerti o per informazioni sui biglietti: schubertiade.at.◆ Escursioni Per informazioni sulla valle (sentieri, mountain bike, parapendio) e le agevolazioni della Bregenzerwald guest-card si può visitare il sito dell’uicio del turismo: bregenzerwald.at/s/en/.◆ Leggere Philippe Jaccottet, Austria, Bollati Boringhieri 2003, 17 euro.◆ La prossima settimana Viaggio ad Hanoi, in Vietnam, per scoprire lo street food. Avete suggerimenti su tarife, posti dove mangiare, libri? Scrivete a [email protected].

Informazioni pratiche

1900. Buona parte della musica è stata composta nel raggio di quattro ore di auto. Incontro Gerd Nachbauer, l’uomo che diri-ge il festival in dagli albori. È un signore di poche parole, distinto, timido e riservato. Parla in tedesco e si avvale della traduzione del suo addetto stampa, che ovviamente si chiama Schubert. È evidente che sa di aver trovato una formula consolidata e di suc-cesso e non pensa di cambiarla. Il pubblico (soprattutto di lingua tedesca, ma con una significativa rappresentanza britannica) continua a tornare. Il festival richiama i più grandi luminari della musica e non ha i-nanziamenti pubblici. I conti tornano: Schubert vende.

E la musica contemporanea? Non corri-sponde propriamente ai gusti del pubblico, spiega paziente Nachbauer. Chiedo se gli è capitato di ricevere un riiuto per Schwar-zenberg o per la “gemella” Hohenems. Consulta la sua rubrica mentale alla ricer-

ca di qualche pesce grosso che gli fosse sfuggito. Alla ine gli esce una parola: “Pol-lini”.

Il fatto che la manifestazione abbia un grande seguito tra il pubblico britannico è attribuito alla vera e propria issazione del compianto critico del Times, Bernard Le-vin, che nel 1983 deinì la Schubertiade il più puro tra tutti i festival musicali del mondo.

I polpacci protestanoIl giorno dopo mia moglie ha un lapsus freudiano: dice “allenamento” riferendosi alla camminata che ha in mente di fare. Si rende conto dell’errore ma ormai è troppo tardi. Prendiamo l’autobus davanti all’al-bergo e saliamo per quattrocento metri i-no a Bodele. Lo spostamento dura venti minuti. Poi ci mettiamo in marcia su un sentiero di montagna che si arrampica per altri trecento metri attraversando campi e

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Viaggi

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radure. I miei polpacci protestano in silen-zio. Sbuchiamo dalla quiete di un bosco e sentiamo il tintinnio lontano di un campa-naccio solitario. Nel giro di cinque minuti ci troviamo in mezzo a un’orchestra di mucche: una settantina di campanacci di-versi tra loro per intonazione, timbro e rit-mo. Su un versante pieno di ranuncoli c’è una casa vicina a un piccolo lago. Sull’altro lato si possono ammirare una vista panora-mica a 180 gradi della valle sottostante e una cappella a forma di cipolla. E ancora mucche, una cacofonia di mucche. Regi-stro con il microfono del mio cellulare un minuto di clangore, sferragliamento e fra-casso e lo mando al mio amico composito-re George Benjamin (alla sua musica, ho il sospetto, non sarebbe mai e poi mai per-messo di oscurare l’atmosfera della Schu-bertiade).

Ci fermiamo per un caffè al rifugio Lusten auer, a 1.250 metri. Siamo a circa duecento metri dalla vetta e discutiamo per decidere se si tratti di una collina o di una montagna. Visto che è la camminata più faticosa che ho fatto in vent’anni, pro-pendo per la seconda.

Intanto George risponde:“Caro Rusbridger A., il comitato di pre-

miazione e io abbiamo accolto con gioia la sua nuova composizione ‘Cosa ho visto in Austria durante le vacanze estive’, che ab-biamo trovato decisamente interessante. Il senso del ritmo ci ha colti di sorpresa e ci siamo domandati quanta abilità ci sia volu-ta per trascrivere ed eseguire un testo mu-sicale di tale complessità metrica. Siamo altresì rimasti colpiti dall’eccezionale sen-so timbrico della composizione, così come dal vigoroso uso della tessitura – in blocchi stratiicati, per così dire, con il registro alto continuamente saturo e quello basso fram-mentato e imprevedibile. A suo modo, molto radicale! Come spesso accade con le composizioni moderne siamo rimasti, ahi-mè, delusi dalla completa mancanza di in-venzione melodica all’interno della parti-tura e pertanto non abbiamo ritenuto op-portuno premiarla con lo speciale ricono-scimento per la migliore composizione musicale. Ma non si perda d’animo: vedia-mo nel suo lavoro del vero potenziale e una fonte di ispirazione che dovrà sicuramente

mungere in futuro!”.È ora di afrontare la ripida discesa di

cinquecento metri verso il paese, che mi ricorda l’esistenza di altri muscoli che ave-vo dimenticato. Torniamo in tempo per un pranzo dell’ultimo minuto all’Hirschen, prima di cambiare albergo e passare allo Schif di Hittisau, un paese a circa venti mi-nuti da qui. Durante il tragitto passiamo di fianco alla splendida Werkraumhaus, in stile Peter Zumthor, uno spazio per le mo-stre collettive costruito dagli artigiani della zona di Voralberg per mostrare il connubio tra il lavoro tradizionale e il design moder-no. Ci sono bellissime opere in legno, me-tallo, vetro e feltro. Tutto contribuisce alla sensazione generale di una economia ver-de in grande salute.

Due ruoteDiicile, pensavamo, superare il comfort, la simpatia e le attenzioni meticolose della famiglia Fetz e del personale dell’Hir-schen. E invece ecco la famiglia Metzler, che gestisce l’albergo da appena cinque ge-nerazioni. E che albergo: stanze moderne e luminose afacciate su un frutteto e le onni-presenti montagne. Tutto in legno, tutto di proprietà e gestito dalla famiglia. Altri con-certi: il soprano tedesco Diana Damrau e il quartetto Belcea con il pianista Till Fellner. Il meglio è alla ine: tre quartetti di Beetho-ven suonati dal quartetto Hagen, che rapi-scono l’attenzione del pubblico. Con una punta di snobismo Levin deiniva il pubbli-co della Schubertiade “niente afatto soi-sticato”. Comunque, sa riconoscere una splendida esecuzione quando ne sente una.

L’ultimo giorno scegliamo le due ruote. Aittiamo le biciclette davanti all’albergo e ci mettiamo in cerca della pista ciclabile che attraversa la valle. Ancora montagne, pascoli, frutteti. Ancora muscoli in leggera agonia. E poi ancora cibo, sauna e musica.Il giorno dopo, all’ora di pranzo siamo di nuovo a Londra.

Molti direttori di festival cercano, com-prensibilmente, di lasciare un’impronta, come molte economie occidentali sono toccate dalla globalizzazione e dall’inevi-tabile spinta centripeta verso l’omologa-zione di marchi e catene.

Nel Bregenzerwald, invece, la vita non è cambiata. C’è un festival di livello mon-diale che non ha alcuna intenzione di ade-guarsi ai tempi. E tutto intorno una vita vi-sibilmente in armonia con quella che va avanti da secoli, piacevolmente diversa, nella sua immutabilità, dalla deriva gene-rale del mondo. u fas

Il mattino porta buone notizie: piove a dirotto e se continua così niente camminata

A tavola

u Il piccolo land austriaco del Vo-rarlberg è una meta ideale per gli amanti della montagna, ma pre-senta attrattive anche dal punto di vista culinario. Oltre a vini e birre di qualità, uno dei punti di forza della gastronomia locale è il formaggio, prodotto con latte al-pino ricavato esclusivamente da mucche da pascolo. Per valoriz-zare i prodotti caseari della zona nel 1998 è stata creata la cosid-detta Käsestrasse, la via dei for-maggi, un itinerario paesaggisti-co e gastronomico che attraversa il Bregenzerwald, la regione montuosa intorno a Bregenz, la capitale del Vorarlberg. Nel Bre-genzerwald ci sono circa mille fattorie dedite all’allevamento di mucche da latte e alla produzione di formaggi. La Käsestrasse per-mette di visitare le malghe e sco-prire i prodotti della gastronomia e dell’artigianato locali attraverso i ventiquattro comuni della zona e i rifugi di montagna. Gli hotel, i ristoranti, le trattorie o i semplici negozi di alimentari che aderi-scono all’iniziativa preparano piatti a base di formaggio.

Per assaggiare i prodotti locali è possibile visitare le Bregenzer-wald Käsekeller (Magazzini del formaggio) di Lingenau. Anche le fattorie ofrono visite guidate e vendono le specialità del posto, tra cui almeno quaranta varietà di formaggio, burro, uova, salsic-ce, carne, marmellate e miele. Durante l’estate nelle oltre no-vanta stazioni alpine di mungitu-ra del Bregenzerwald si può poi assistere alla produzione artigia-nale del formaggio, spesso arric-chito con erbe di montagna.

Per saperne di più sul progetto della Käsestrasse – a cui aderisco-no anche gli artigiani, le aziende di trasporto e i musei della zona – si può visitare il sito kaesestras-se.at.

Sulla viadel formaggio

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Graphic journalism Cartoline da Belo Horizonte

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Peter Kuper è un autore di fumetti statunitense. Il suo ultimo libro è La Giungla, da un romanzo di Upton Sinclair, (001 edizioni 2009).

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Cultura

Architettura

I grandi hotel jugoslavi sulla costa dell’Adriatico sono “mostri di ce-mento” o capolavori di architettura modernista degli anni sessanta? Pensati per attirare i turisti occiden-

tali e fare da vetrina internazionale per il socialismo di Tito, questi enormi ediici che fanno pensare alle piramidi o ai templi inca oggi sono spesso in stato d’abbandono e di-sprezzati dagli abitanti.

“Venite a vedere la verità”. Con questo slogan negli anni cinquanta la Jugoslavia invitava i turisti europei e statunitensi a ve-dere con i loro occhi il successo del sociali-

smo di Tito e, di conseguenza, a smasche-rare le menzogne dello stalinismo. I turisti accorrevano a frotte e quindi serviva un po-sto dove riceverli. Così la costa adriatica divenne un enorme cantiere. Centinaia di hotel hanno visto la luce lungo il litorale. Oltre a promuovere il socialismo, il turismo era uno strumento indispensabile per il raf-forzamento della coscienza nazionale, per la costruzione del “nuovo uomo socialista” e la modernizzazione della società.

I mostri dell’Adriatico

Oggi in Croazia l’eredità del socialismo è respinta in blocco. Gli hotel costruiti negli anni sessanta sulla costa adriatica sono so-prannominati mostri di cemento. L’austria-co Mihael Zinganel, teorico dell’architettu-ra, è però di tutt’altra opinione: a suo avviso questi complessi sono di grande importan-za per la storia internazionale dell’architet-

tura. Zinganel è stato il curatore della mo-stra Le vacanze dopo la caduta: trasformazio-ni dell’architettura balneare socialista sulla costa croata, allestita nella galleria berline-se Neue Gesellschaft für bildende Kunst.

“Forse questi hotel non sono interessan-ti agli occhi degli abitanti. Ma a noi piaccio-no eccome. Alcuni sono dei veri monumen-ti architettonici di livello internazionale, soprattutto se si considerano le condizioni precarie nelle quali sono stati costruiti”, di-chiara. Per esempio, l’hotel Maestral di Bre-la, progettato da Ante Rožić, Matija Salaj e Bernardo Bernardini, che secondo Zinga-nel è un capolavoro del modernismo. Ma anche il Kroacija a Cavtat, di Slobodan Miličević, è “estremamente originale”. O ancora il complesso di Krvavica, oggi fati-scente, che un tempo accoglieva i igli degli impiegati dell’esercito. Progettato da Ri-kardo Marasović, per Zinganel è “sensazio-nale”. La lista potrebbe proseguire.

L’architettura modernista ha preso pie-de diverso tempo fa in Croazia. La tradizio-ne risale agli anni trenta. Il merito è dell’ar-chitetto Ernest Weissmann che ha disegna-to un gran numero di ediici in tutta la ex Jugoslavia. Sulla costa, gli hotel sono stati costruiti in tre fasi. La prima, negli anni cin-quanta, aveva prodotto strutture modeste, con camere dal confort minimo – una poli-tica architettonica in linea con il concetto fordista di “tempo libero”, che sottintende-va ferie pagate per la classe operaia. Dalla

I grandi alberghi voluti da Tito per mostrare il successo del modello jugoslavo sono esempi unici di architettura modernista

Rovine non allineate

Jerko Bakotin, Novosti, Serbia

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L’hotel Maestral di Brela

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ine degli anni cinquanta è cominciata la costruzione di ediici enormi, sul genere Hilton, come il Marjan di Spalato o l’Am-bassador di Opatija. Per Zinganel, questa architettura rappresenta un rilesso della corsa verso il “mondo libero” e questi edii-ci sarebbero “strumenti culturali di opposi-zione al comunismo”.

Gli Hilton jugoslavi si attenevano al mo-dello statunitense: nelle loro grandi sale si potevano ammirare opere di artisti famosi come Edo Murtić o Dušan Džamonja. Ma erano inabbordabili per un turista occasio-nale e anche per uno straniero della classe media. Inine, dagli anni sessanta sono sor-ti gli ediici più interessanti.

“Esibiscono i tratti dello strutturalismo e del brutalismo, e un uso eccessivo del ce-mento. Date uno sguardo alle piramidi cro-ate e alle loro terrazze; a giudicare dalle sperimentazioni con lo spazio e dall’inseri-mento nelle scogliere dalmate si potrebbe quasi pensare che i loro architetti abbiano fatto delle ricerche sui templi inca in Perù”.

Il modernismo jugoslavo è ancora più sorprendente se paragonato allo stile usato nei paesi del realismo socialista, come la Bulgaria. Diversamente dalla Jugoslavia, dove i progetti erano approvati da istituzio-ni indipendenti, in Bulgaria tutti gli appalti erano assegnati dallo stesso uicio.

“Dopo la guerra, il neoclassicismo stali-nista domina e blocca l’evoluzione del mo-dernismo. Si costruiscono ediici immensi,

città intere. Al contrario, la Jugoslavia cer-cava la rottura con Mosca. Il turismo ha gio-cato un ruolo chiave nella concezione della politica di Tito”, spiega Zinganel.

Parabola discendente

Per imporsi in modo autonomo sulla scena internazionale, la Jugoslavia del marescial-lo Tito aveva bisogno di espressioni stupe-facenti sul piano artistico. Tito era determi-nato a dimostrare il successo della sua poli-tica di non allineamento, e gli hotel erano allo stesso tempo una vetrina e dei musei d’arte contemporanea. In confronto il capi-talismo croato è stato un costruttore assai modesto.

Dal 1991, secondo Zinganel, sono stati costruiti appena dodici nuovi hotel, ai quali vanno aggiunti tutti quelli che oggi minac-ciano di cadere in rovina. Molti di questi alberghi sono stati ristrutturati male. Le ca-ratteristiche socialiste sono state malamen-te camufate inseguendo il nuovo gusto per lo sfarzo, e in alcuni casi il risultato è una prova del fallimento delle privatizzazioni.

All’epoca del socialismo jugoslavo, ag-giunge Mihael Zinganel, gli hotel non erano concepiti come giardini dell’Eden isolati e recintati, a uso esclusivo dei turisti. Campi sportivi, discoteche, piscine, sale conferen-za, sale da ballo erano aperti a tutti, ai turisti stranieri come agli abitanti del luogo. Erano pensati come beni pubblici, spazi nei quali si organizzavano manifestazioni locali.

“Ovviamente l’accesso alle spiagge non era proibito. Oggi domina il modello eliti-sta, che non restituisce nulla alla comuni-tà”, dice ancora Zinganel. “So che Hypo bank ha investito in questo tipo di comples-si sia in Croazia sia in Bulgaria. L’ingresso nell’Unione europea renderà diicile resi-stere a questa tendenza. Il presidente della Commissione europea, José Manuel Barro-so, è intervenuto personalmente nel pro-getto del Dubrovnik golf park e ci si può aspettare la realizzazione di tanti altri pro-getti del genere. L’Ue considera la Croazia solo un’area periferica dove i suoi abitanti possono trascorrere il tempo libero dedi-candosi alle attività di svago. Allo stesso tempo si cerca di cancellare la tradizione turistica delle classi meno ricche, è la strada ideale per creare una forma di segregazione all’interno della società”.

A partire dal 1991, ai grandi hotel croati è toccata la stessa sorte di tutti gli altri setto-ri: sono stati requisiti e gestiti dal Fondo croato per le privatizzazioni (Hfp). Durante la guerra, la maggior parte di questi com-plessi è stata utilizzata per accogliere i rifu-giati e molti sono stati devastati, in partico-lare quelli di proprietà di imprese di altre repubbliche o delle forze armate jugoslave (Jna). Dopo la ine delle operazioni militari, l’Hfp ha cominciato a vendere questi hotel a imprenditori e investitori della diaspora, igure spesso discutibili sul piano legale e morale. u nv

L’hotel Ambassador di Opatija

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Cultura

Cinema

Boyhood di Richard Linkla-ter è un ilm realizzato in 39 giorni di riprese, fatte nell’arco di dodici anni Si tratta sicuramente di un’opera unica che nasce da un’idea semplice, ma tutt’al-tro che scontata. Boyhood, di Richard Linklater, si potrebbe deinire un ilm epico sull’or-dinarietà. Realizzato in 39 giorni distribuiti nell’arco di dodici anni, racconta la cresci-ta di un bambino, dall’infanzia al college, una banale vita fa-miliare, il formarsi di un’iden-tità. Linklater ha cominciato nel 2002, prendendo un gran-de rischio. Sono molti i motivi

per cui il progetto avrebbe po-tuto sfumare. E invece il regi-sta texano è riuscito a tenere tutto insieme, comprese due star come Ethan Hawke e Pa-tricia Arquette nel ruolo dei genitori divorziati del bambi-no protagonista. Il vero colpo di fortuna per Linklater è stato

aver trovato Ellar Coltrane, un bellissimo bambino del Texas che è cresciuto molto bene, di-ventando un ragazzo intelli-gente e attraente. La cosa dav-vero afascinante è vedere l’evoluzione, la crescita, il ma-turarsi di tutti i personaggi coinvolti, non solo quella del protagonista. Linklater ha rea-lizzato il ilm in brevissimi pe-riodi di tempo, anno dopo an-no, con un budget molto limi-tato. Il ilm è molto lungo, ci sono momenti indelebili, altri noiosi, ma il ilm nel suo insie-me costituisce un’esperienza che arricchisce e soddisfa pie-namente. The Hollywood Reporter

Dagli Stati Uniti

Una scommessa vinta

Boyhood

Dieci ilm nelle sale italiane giudicati dai critici di tutto il mondo

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Media

Italieni I ilm italiani visti da un corrispondente straniero. Questa settimana il britannico paul bompard.

Anita B.Di Roberto Faenza. Italia 2014, 88’●●●●● Il ilm si basa su Quanta stella c’è nel cielo, un romanzo di Edith Bruck ispirato alla pro-pria vita dopo l’Olocausto, quando a 15 anni si ritrovò, or-fana, nella Cecoslovacchia co-munista. I sogni, le paure, i tentativi di capire passato, presente e futuro in un’Euro-pa martoriata e per nulla ac-cogliente verso gli ebrei, pri-ma di emigrare in Israele. Il ilm di Faenza, girato con stile ed eleganza, tenta di afronta-re molti temi, forse troppi, sullo sfondo della storia dell’Europa orientale dopo la ine della guerra. Il sospetto con cui vengono visti gli ebrei dai regimi comunisti, il modo in cui un’adolescente soprav-vissuta ai campi di sterminio cerca di elaborare quello che le è successo, una storia d’amore, il lavoro delle orga-nizzazioni ebraiche per porta-re i sopravvissuti in Palestina, e allo stesso tempo il tentativo da parte di alcuni ebrei di can-cellare dalla memoria l’orrore appena passato, di far inta che non sia mai successo. Tut-ti temi di per sé interessantis-simi, ma diicili da sviluppare eicacemente in meno di no-vanta minuti. Uno spettatore non abbastanza informato po-trebbe non capire granché, mentre quello informato po-trebbe trovare certe rappre-sentazioni un po’ banali e ste-reotipate. Un ilm ambizioso, pieno di buoni propositi, ma che cinematograicamente non funziona del tutto.

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stesso Belfort, è riuscito a creare dialoghi luenti e chias­sosamente cinici che colpi­scono lo spettatore come una scarica di cazzotti. David Denby, The New Yorker

Tango libreDi Frédéric Fonteyne. Con Francois Damiens, Sergi Lopez, Anne Paulicevich, Jan Hamme-necker. Francia/Belgio/ Lussemburgo 2013, 111’●●●●● Carcere e tango. Bisogna es­sere belga per combinare le due cose? Frédéric Fonteyne ha previsto che l’associazione poteva fare scintille. Jc è una guardia carceraria che come unico amico ha un catatonico pesce rosso. Il suo unico slan­cio di fantasia è seguire un corso di tango. Là incontra Alice, madre di un adolescen­te e frequentatrice anche del parlatorio del carcere dove va a visitare marito e amante, che sono anche amici e com­pagni di cella. Tra Alice e Jc nasce un legame che spinge i due detenuti a imparare il tango. Insieme ai passi di danza il regista fa entrare die­tro le sbarre un soio di liber­tà, l’amore circola tra i perso­naggi e si materializza in piro­ette e rutilanti cambi di am­bientazione. Questa tragi­commedia fatica a trovare un

suo passo, ma è sostenuta da un formidabile trio di attori in­credibilmente assortiti: il val­lone Damiens, il iammingo Hammenecker e il catalano Lopez. E la scena in cui due ta­tuati ergastolani si cimentano in un tango virile merita di es­sere ricordata.Mathilde Blottière, Télérama

Tutto sua madreDi e con Guillaume Gallienne. Francia/Belgio 2013, 85’●●●●●L’umorismo è una cosa sog­gettiva, come il gusto o il desi­derio. Probabilmente dopo aver visto questo ilm, molte persone penseranno di aver assistito a una semplice farsa, ma indubbiamente avranno passato un’ora e mezza di grande ilarità. Quello di Guil­laume Gallienne potrà non es­sere grande cinema, ma fa ri­dere. E quando un ilm fa ride­re così, bisogna solo essere grati all’autore, riconoscergli

talento e generosità, prima di ogni altra cosa. Far ridere sen­za vergogna e far ridere con e non contro, sono imprese dii­cili. Tra l’altro, al di là della vis comica, Tutto sua madre è an­che un ottimo esempio di cine­ma. Lo stile visivo di Guillau­me non sarà una novità, ma la sua scrittura, i suoi tempi e i suoi giochi sono meravigliosi. In più questo ritratto, vaga­mente autobiograico, di un adolescente dai modi efemi­nati, che tutti credono omo­sessuale, ha la qualità delle migliori commedie, cioè quel­la di porre domande pesanti con grande leggerezza.Serge Kaganski, Les Inrockuptibles

I, FrankensteinDi Stuart Beattie. Con Aaron Eckhart, Aden Young. Austra-lia/Stati Uniti 2014,100’●●●●●Anche se non compare in tanti titoli come Dracula, anche il mostro di Frankenstein l’ab­biamo visto in molti modi, da quello classico della Universal a quello di Mel Brooks. Quasi sempre plausibile. Finora. Prodotto dallo stesso team di Underworld e uscito senza es­sere stato mostrato alla critica, I, Frankenstein spedisce la cre­atura, Adam, a duecento anni dalla sua nascita, in un prossi­mo futuro, riluttante arbitro in una lotta tra virtuosi gargolla e demoni vendicativi. Ofrendo sostanzialmente solo una ma­rea di combattimenti ed efetti speciali computerizzati, il ilm si rivela l’ennesimo palese ten­tativo di rivangare la formula già provata con Underworld, ri­mescolando le carte intorno a leggende horror per trasfor­marle in qualcosa di totalmen­te vuoto. I devoti di Mary Shel­ley e dei classici faranno bene a evitare il ilm.The National

Il capitale umanoPaolo Virzì (Italia, 109’)

NebraskaAlexander Payne (Stati Uniti, 115’)

American hustleDavid O. Russell (Stati Uniti, 129’)

Tutto sua madre

The wolf of Wall street

In uscita

The wolf of Wall streetDi Martin Scorsese. Con Leo-nardo DiCaprio, Jonah Hill. Stati Uniti 2013, 165’●●●●● Il ilm di Martin Scorsese è una satira di tre ore su un’atti­vità inanziaria disgustosa e sulla stravagante dissolutezza di alcuni personaggi, ed è de­stinato a dar forma a tutto quello che è andato storto nel­la cultura del denaro. Leonar­do DiCaprio, nei panni di Jor­dan Belfort (il trufatore che ha ispirato il ilm con la sua biograia) si rivolge diretta­mente a noi e racconta i fatti guardando verso la cinepresa, come un Riccardo III dei pove­ri. Ci racconta i suoi sporchi afari e la sua maniacale e dro­gata esistenza. Leonardo Di­Caprio arringa le truppe, pre­dica il vangelo del trionfo a ogni costo. A livello isico, ha compiuto un lavoro impressio­nante. Ma ha dato anche l’in­terpretazione più esteriorizza­ta dell’intera storia del cine­ma. Jordan Belfort, alla ine, non è un personaggio partico­larmente interessante. Né lo è il ilm: Scorsese mette in scena persone che fanno soldi, si perdono tra orge e droga, con una vitalità così esaltante e ir­rilessiva che sembrano far parte di un musical di Broad­way, uno show pensato per spennare i turisti intitolato Avidità!. Meritano di essere ci­tati Jonah Hill, nei panni del braccio destro di Belfort, Kyle Chandler in quelli dell’ineso­rabile e soprendentemente furbo agente dell’Fbi che sta alle costole di Belfort, e Mar­got Robbie nel ruolo dell’ine­vitabile moglie­trofeo bionda. La fotograia di Rodrigo Prieto a tratti è spettacolare e Teren­ce Winter, adattando il pre­suntuoso libro scritto dallo

I consigli della

redazione

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Libri

Alan Moore sembra deciso a ritirarsi da ogni forma di apparizione in pubblico In una lunga intervista rila-sciata al blogger Pádraig Ó Méalóid (intitolata “Last Alan Moore interview?”), Alan Moore, idolatrato autore di fu-metti (tra cui Watchmen), ha voluto rispondere ad alcune polemiche che lo riguardava-no e poi annunciare la sua uscita di scena dalla vita pub-blica. Ha anche spiegato che secondo lui l’eccessivo inte-resse del mondo “adulto” nei confronti dei supereroi ha qualcosa di innaturale ed è una “catastrofe culturale”. Il continuo attingere a un uni-verso che almeno in principio era indirizzato al mondo dei giovani sembra indicare una volontà da parte dei grandi di

Dal Regno Unito

L’ultima intervista

Massimiliano Virgilio Arredo casa e poi m’impicco Rizzoli, 294 pagine, 17 euroIl napoletano Virgilio (Più male che altro) segue una strada diversa da quelle preferite dai giovani scrittori, e afronta con un umorismo spesso feroce le contraddizioni di un presente faticoso, non solo per i giovani, e spesso angosciante. Si accosta alla commedia all’italiana migliore, monicelliana, ma capace di evocare anche certi libri della controcultura di un tempo, tra

Southern e il primo Richler: l’assurdo del nostro vivere svelato nel racconto in prima persona da parte di un giovane scrittore che parla di un sé straniato, tra il comico e il grottesco – le stazioni di conoscenza dentro una quotidianità genericamente piccolo-borghese, qui partenopea. La casa di proprietà come sogno comune, e senza comunità; il gioco delle famiglie e delle banche, gli agenti immobiliari, gli amici pronti più a criticarti che ad aiutarti, una ragazza

piuttosto inerte, una donna a ore impicciona; “le cose”, come in Perec; e il lavoro su un romanzo, Ragazzo solo con mutuo, e per arrotondare quello di sceneggiatore per un italo-americano che ha fatto i soldi col porno e progetta un ilm su padre Pio. Il confronto col padre (“non sono il padre di Kaka ma neanche tu sei Kaka”) e con alcuni eroi letterari, il giovane Holden, Arturo Bandini, Martin Eden. E poi il suicidio: “Se lo fanno i personaggi inventati, mi dico, posso farlo anch’io”. u

Il libro Gofredo Foi

Una strada diicile

Italieni I libri italiani letti da un corrispondente straniero. Questa settimana Gerhard Mumelter del quotidiano au-striaco Der Standard.

Luisa Brancaccio Stanno tutti bene tranne meEinaudi, 138 pagine, 15,50 euro

●●●●●Luisa Brancaccio, napoletana trapiantata a Roma, con sguar-do impietoso s’insinua dietro le quinte di una famiglia bor-ghese apparentemente perfet-ta, portando alla luce fragilità e incomprensioni. Tra il mari-to primario e i tre igli maschi, la moglie Margherita è l’unica a esprimere il disagio crescen-te che si rilette nel titolo del romanzo. Contro la volontà del marito, la donna si aida a un anziano psicologo, uno dei personaggi più suggestivi di questo libro molto convincen-te, che più di un romanzo sem-bra essere un incastro perfetto di racconti deiniti dall’autrice “storie indipendenti tra loro ma agganciate le une alle al-tre”. “Mi piacciono le giuntu-re”, aferma, “quei punti più densi da cui parte un nuovo ra-mo”. E così la scena iniziale della famiglia borghese si al-larga ai vicini di casa e al loro sospetto modo di superare la morte del iglio, agli animali domestici, alla donna delle pu-lizie. Il più magistrale tra que-sti innesti è la nascita di un’amicizia tra l’anziano psica-nalista e una ragazza con felpa e cane, mondi distanti che s’incontrano in ascensore. An-che nei momenti più dramma-tici Brancaccio non cede alla tentazione di intromettersi nei propri racconti. Rimane un’os-servatrice acuta e apparente-mente lontana. Un romanzo eccellente e commovente.

sfuggire alla realtà. Dopo aver risposto alle accuse di razzi-smo e di eccesso di violenza sessuale nelle sue opere, Moo-re ha chiarito che ha rilasciato un’intervista così lunga e det-tagliata proprio perché non ha intenzione di rifarlo in futuro. Né ha intenzione di rendersi

disponibile per eventi pubblici di alcun genere. Conclusi gli impegni già presi Moore si de-dicherà solo al suo lavoro di fumettista: “Voglio che sia il mio lavoro a parlare per me. Sia come autore, sia come let-tore di lavori altrui”. The Guardian

Cultura

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Alan Moore

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Joyce Carol OatesRagazza nera ragazza biancaMondadori, 336 pagine, 20 euro

●●●●●Generva “Genna” Meade, la protagonista di 34 anni emoti-vamente deprivata del nuovo romanzo di Joyce Carol Oates, ha molte cose per cui sentirsi in colpa. Innanzitutto il sem-plice fatto di essere bianca, che nella famiglia Meade è un autentico marchio di Caino. Suo padre Maximilian, avvo-cato che si è fatto un nome ne-gli anni sessanta sostenendo l’ala radicale del movimento paciista, ha sempre detto alla iglia che la sua epidermide pallida è una maschera d’infa-mia. La vergogna più grave di Genna, tuttavia, ha origine da eventi accaduti quindici anni prima del momento in cui rac-conta la sua storia; quando, nel 1974, Genna si iscrive come matricola allo Schuyler colle-ge, esclusiva scuola femminile fondata dal suo bisnonno. La sua compagna di stanza è Mi-nette Swift, iglia di un pastore nero. Genna le si accosta piena di zelo progressista, ma presto scopre che Minette non è l’amica esotica che si aspetta-va. Invece di essere una com-battente radicale per la que-stione razziale, Minette si rive-la essere una ragazza emotiva-mente distante, socialmente gofa e religiosamente intolle-rante. Non passa molto tempo e Minette diventa l’obiettivo di una serie di scherzi razzisti. Anche se questi gesti d’odio sollevano un’ondata di indi-gnazione nel campus, pian piano cresce il sospetto che in essi Minette possa non essere soltanto una vittima. Genna resta accanto a quella che vor-rebbe considerare “sorella”, al punto da nascondere le prove per assicurarsi che Minette continui a occupare il ruolo di

martire razziale. Ragazza nera ragazza bianca ha grandi am-bizioni nel parlare di razza e radicalismo in America, ma non prende mai quota come racconto storico o sociale. Do-ve davvero eccelle è nel ritrat-to delle protagoniste. Stephen Amidon, The Guardian

Mark HelprinStoria d’invernoNeri Pozza, 848 pagine, 18 euro

●●●●●La storia comincia nel tardo ottocento, facendo un salto improvviso, a metà libro, nell’anno 2000. Al centro c’è una serie di vite eroiche con-nesse l’una all’altra, la più im-portante delle quali è quella di Peter Lake, orfano, ladro di appartamenti, amante, ideali-sta, meccanico di prim’ordine. Acciufato dalla polizia come pericolo pubblico, Peter Lake è incarcerato in una specie di campo giovanile di lavoro for-zato, ma rapidamente è coop-tato nell’elite dei privilegiati: cinquanta ragazzi ammessi a un apprendistato non pagato sotto la tutela di un uomo dal-lo splendido nome dickensia-no, il reverendo Mootfowl. Pe-ter Lake però non è tagliato per il lavoro in fabbrica. Entra così a far parte dei Coda corta, una banda di ladri capeggiata da un’altra igura dickensiana che porta il nome di Pearly Soames. Quello che ho illu-strato non è neppure un deci-mo della trama del libro. Posso aggiungere che, tra la tragica morte di Peter Lake e la sua ri-comparsa, molti altri eroi oc-cupano la scena. Il cuore di questo libro è senza dubbio nella sua energia morale, che può ispirarci e confortarci. Un grande dono in un’epoca che ne ha molto bisogno. Benjamin De Mott, The New York Times (1983)

George SaundersDieci dicembre (Minimum fax)

Vittorio GiacopiniNello specchio di Cagliostro (Il Saggiatore)

Alexander MastersUn genio nello scantinato (Adelphi)

I consigli della

redazione

Hubert MingarelliUn pasto in invernoNutrimenti, 112 pagine, 12 euro

●●●●●Glaciale. Se avessimo a dispo-sizione una sola parola per de-inire questo breve romanzo, sarebbe questa. Glaciale come la brina che impedisce di “di-stricare la notte dal giorno” e vela le inestre della palestra dove, ogni mattina, alcuni ebrei sono fucilati. Glaciale come il cielo, e come il disagio – sempre più forte, di pagina in pagina – provato davanti a questi tre soldati tedeschi nei quali non si può fare a meno di rintracciare un po’ di umanità. È la bravura di Hubert Minga-relli. Portarci dalla prima riga proprio là dove non si ha alcu-na voglia di andare, e condur-ci senza indugi perché lo stile è chiaro, preciso, diretto. I dialoghi sono gioielli. Ci ten-gono attaccati a questi tre uo-mini che si aggirano per le campagne coperte di neve, uniti dalla stessa missione: trovare gli ebrei nascosti nel bosco e portarli nella palestra in modo che i superiori abbia-no la loro dose quotidiana di carne fresca per le fucilazioni dell’alba. Missione terribile, eppure sono stati loro a ofrir-si. Perché se riportano una preda saranno esonerati dalle fucilazioni. Finiscono per tro-varne uno, nascosto in fondo a una tana verso il limitare del bosco. Un giovane ebreo con una giacca da città, un colletto inamidato e un iocco di neve ricamato sul berretto di lana. Ha l’età del iglio di uno di lo-ro, ma non per questo lo salva-no, sono così sollevati di non fare ritorno a mani vuote. E

Il romanzo

La dose quotidiana

poi hanno freddo. E fame. Sulla via del ritorno s’imbatto-no in una casa, “una piccola, sporca casa polacca” che gli fa paura e li attrae allo stesso tempo. Sfondano la porta, ac-cendono alla meno peggio la stufa e si mettono a preparare un pasto con i pochi viveri a disposizione.

Hanno così tanta fame che arrivano ad accogliere un po-lacco che bussa alla loro por-ta, un fucile in spalla, un cane ai suoi piedi e soprattutto una boccetta di alcol di patate in una tasca sul petto. Ideale per insaporire il brodo preparato con un resto di semola secca e pane rafermo. Sulla scia dell’esaltazione, propongono al giovane catturato di condi-videre il pasto con loro. Lì, il dubbio comincia a roderli. A partire da questo momento è impossibile staccarsi dal libro. Alla ine, tuttavia, anche se per un solo istante, si arriva quasi a desiderare di non averlo mai aperto. Alexandra Schwartzbrod, Libération

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Cultura

Libri

Paul Zanker Augusto e il potere delle immaginiBollati Boringhieri, 391 pagine, 22 euro A certe immagini siamo così abituati che non ci chiediamo più come e perché siano nate. La scultura romana costituisce un caso esemplare. Ci sembra che sia sempre esistita. Ma è fatta così perché ci sono stati momenti in cui qualcuno ha compiuto scelte determinanti: ha deciso che avesse un certo stile, che potesse raigurare certi soggetti, che fosse diversa

da alcuni modelli e simile ad altri. Uno di questi momenti decisivi è stato quando Roma è passata dalla repubblica all’im-pero: l’età in cui ha preso il po-tere Ottaviano, cambiando il suo nome in Augusto. Lo si ca-pisce bene visitando la mostra Augusto, che resterà alle Scu-derie del Quirinale di Roma i-no al 9 di febbraio. Riunisce sculture bellissime, ha un tema abbastanza compatto da poter essere seguita anche da chi non ne sa molto, è ben allestita e spiegata. Prima della visita (o in alternativa) si può leggere

questo libro scritto quasi trent’anni fa e per fortuna ri-stampato di recente. Racconta in modo esemplare come le immagini furono usate per dif-fondere messaggi politici: pri-ma per mostrare cosa Augusto non era (un uomo corrotto dal-la dissolutezza dell’oriente e della Grecia), poi cosa era (un pio cittadino romano) e inine cosa stava portando a Roma (una nuova età dell’oro). Ebbe così successo che ancora oggi ci sembra che le cose non sa-rebbero potute andare in altro modo. u

Non iction Giuliano Milani

Governare con le immagini

Dominique SigaudIl caso Franz StanglEdizioni Clichy, 180 pagine, 15 euro

●●●●●Franz Stangl fu uno dei princi-pali attori della macchina di sterminio nazista, prima inca-ricato del programma T4 per l’uccisione degli handicappati, e poi comandante dei campi di sterminio di Sobibor e di Tre-blinka. Dopo la guerra fuggì in Brasile, fu arrestato nel 1967, condannato all’ergastolo e morì in una prigione di Düs-seldorf nel 1971. Perché dedi-care quasi duecento pagine a un uomo simile? “L’autrice è stata giornalista”, si risponde da sola Dominique Sigaud, “e il suo mestiere le ha fatto in-contrare assassini di ogni ge-nere”. Quel che ha subito cat-turato la sua attenzione è una frase trovata nel libro In quelle tenebre, che raccoglie i terrii-canti colloqui della giornalista Gitta Sereny con Stangl. Come tanti altri nazisti, Stangl ha un’unica linea difensiva: ho

solo obbedito agli ordini, non ho mai ucciso nessuno con le mie mani. Eppure alla vigilia della morte confessa: “Non ho più speranza”. E dopo un lun-go silenzio: “Ma ero lì. Dun-que in realtà ho la mia parte di colpa”. Dominique Sigaud si sente solidale con tutti i nati, come lei, dopo la guerra, “se-gnati dall’eredità di vittime o predatori, ma legati da questo mondo al quale venivamo ab-bandonati così com’eravamo”. Il disagio del lettore nasce quando dice: “Volevo sapere cosa avevamo in comune. La prossimità tra Stangl e me”.Bernard Loupias, Le Nouvel Observateur

Arne DahlBramaMarsilio, 540 pagine, 19 euro

●●●●●Quattordici uiciali di polizia provenienti da dieci paesi che lavorano per districare i ili di una rete mondiale di pedoili, maiosi e criminali inanziari. Sono la segretissima unità

operativa Opcop, con quartier generale all’Aja, e il loro capo è Paul Hjelm, vecchio eroe dei romanzi di Dahl. Sotto la sua leadership, e con l’aiuto dei moderni mezzi informatici, il gruppo è legato dalla lotta co-mune in un mondo segnato dal male e da un’avidità sem-pre più grande. Una “compa-gnia dell’anello” del nuovo millennio, se volete. Il punto forte del nuovo romanzo non è tanto nell’essere appassionan-te. Ci sono singole scene dove la trepidazione cresce, ma qui il lavoro dei poliziotti sembra più metodico che drammatico. E tuttavia è interessante. La storia si muove tra le città e i personaggi, la narrazione si di-vide tra la distanza umoristica e un pathos molto sincero. E nel libro si può trovare un po’ di tutto: Twitter, la Scozia del seicento, i postumi della crisi inanziaria, le stragi nelle scuole, le birre trappiste, la tortura, Obama.Jenny Tunedal, Aftonbladet

Biograie

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Nora EphronThe most of Nora Ephron Knopf La raccolta completa dei ro-manzi, delle sceneggiature, degli articoli e dei divertenti saggi, di sapore autobiograico e spiritosi, e di solito sulle gioie e sui dolori dell’essere donna, della scrittrice newyorchese, morta nel 2012.

Angelica HustonA story lately told ScribnerCavalcate e cene con John Steinbeck, Peter O’Toole e Marlon Brando, ospiti dei ge-nitori, in Irlanda. Poi i Rolling Stones a Londra negli anni sessanta. E New york negli an-ni settanta, al Chelsea Hotel.

Edmund WhiteInside a pearl BloomsburyWhite si trasferì a Parigi nel 1983, a 43 anni, senza sapere il francese. Ritornò negli Stati Uniti dopo 15 anni, dopo aver acquisito una perfetta cono-scenza della lingua e aver co-nosciuto praticamente tutti i parigini che contavano, da yves Saint Laurent a Michel Foucault.

Mike Tyson e Larry SlomanUndisputed truth Blue Rider PressSloman trasporta sulla pagina l’esilarante lingua di Tyson, una mescolanza di gergo di strada e di prigione, e racconta la sua movimentata vita. Maria Sepausalibri.blogspot.com

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RicevutiRagazzi

Fumetti

Un tenero anarchico

Un futuro libero

Roques e DormalPico Bogue. Io e la vitaDonzelli, 48 pagine, 15 euroIl debutto della casa editrice Donzelli nel fumetto è un av-venimento. Dritto dal catalogo di uno dei più importanti edi-tori francesi di fumetti, Dar-gaud, arriva questo delizioso, anzi deliziosissimo quanto scapigliatissimo Pico Bogue, dai vari rimandi graici. Ne ci-tiamo due eccellenti: il Calvin & Hobbes di Bill Watterson e l’umorista Sempè, iore all’oc-chiello del catalogo Donzelli. Ma anche certa grande tradi-zione graico-umoristica di scuola anglosassone, britanni-ca in particolare. Ottima tra-duzione, ottimo lettering e ot-tima stampa: un esempio per gli altri editori di fumetti (ma perché il nome degli autori non igura in copertina?).

Chi è questo Piccolo Bo-gue, pardon Pico Bogue? È un bambino di oggi dai capelli scapigliati, che ha una sorelli-na un po’ meno scapigliata, due genitori giovani, una bella

Riccardo Guido e Sergio RiccardiSalvo e le maieSinnos, 64 pagine, 13 euroSalvo è iglio di un collaboratore di giustizia. La sua famiglia in vario modo è stata legata alla maia. Bisnonno, nonno, padre, tutti incastrati da un meccanismo che ha sempre stritolato le anime pure. Forse anche Salvo avrebbe seguito quella strada se il padre – dopo la stagione delle stragi, degli attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – non avesse detto “no” a un sistema che disonorava la vita. Nel testo Salvo ci fa un po’ da guida all’interno delle vicende di famiglia e ci invita a esplorare con lui la storia della maia e soprattutto dell’antimaia in dai suoi albori. Il libro scritto da Riccardo Guido (uno dei massimi esperti sulla criminalità organizzata, consulente della commissione bicamerale antimaia) è dettagliato, preciso, puntuale. Date, facce, emozioni sono tutti elencati scientiicamente. Riccardo Guido ha voluto creare per i ragazzi uno spazio dei sentimenti dove costruire un futuro libero dalle maie. I disegni di Sergio Riccardi poi fanno il resto. Attraverso colori netti e visi spigolosi esaltano la forza delle storie raccontate. Salvo è salvo dalle maie grazie alla scelta del padre, ma attraverso la sua narrazione vuole salvare anche noi tutti da un male che ci vuole rovinare la vita.Igiaba Scego

casa con giardino, anche se non di lusso, e, ovviamente, un suo gruppetto di amici. Narrandone le vicende quoti-diane, talvolta con gag di mez-za pagina, più raramente di una o due pagine, gli autori compiono un curioso ibrido: non un fumetto totalmente per bambini e nemmeno total-mente per adulti, ma leggibile da entrambi. Lo sguardo, vei-colato da un segno graico di notevole grazia, precisione espressiva e leggerezza aerea, è sul mondo adulto visto dall’infanzia, anzi, dall’ego-centrismo infantile, ma dove dolcezza e delicatezza non mancano mai. Senza però mai essere fasullo e sdolcinato, questo il vero miracolo. Al contrario, il melenso, spesso in agguato, è rovesciato me-diante buone dosi di cinismo infantile contemporaneo. Im-possibile quindi non afezio-narsi a questo tenero e anar-chico piccolo grumo di segni graici chiamato Pico Bogue.Francesco Boille

Corrado FormigliImpresa impossibileMondadori, 116 pagine, 16,50 euroUn viaggio da nord a sud alla scoperta di un’imprenditoria sana e fertile. “Otto storie ec-cezionali nel cuore della reces-sione”.

Cristoph WolfMozart sulla soglia della fortunaEdt, 200 pagine, 22 euroGli ultimi tre anni della vita di Mozart sono segnati da ristret-tezze e diicoltà, da un pro-gressivo ritrarsi della sua per-sonalità e della sua arte verso colori e temi più scuri, più den-si e profondi. Stava in realtà tentando in quegli anni un sal-to qualitativo nella carriera di compositore. Wolf indaga sull’ultimo triennio creativo.

John CarlinMandela. Ritratto di un sognatoreSperling & Kupfer, 181 pagine, 12,90 euroUn ritratto onesto e intimo per conoscere a fondo una delle i-gure più signiicative del no-stro tempo, dal momento della sua liberazione dopo 27 anni di prigione ino all’elezione come presidente del Sudafrica.

Sergio RomanoL’arte in guerraSkira, 84 pagine, 9 euroDalla rivoluzione francese alla politica artistica di Hitler. Al-cuni dei momenti storici in cui l’arte è diventata preda.

Dan RhodesSposamie/o, 175 pagine, 9,90 euroUna divertente rilessione at-traverso ottanta brevi racconti incentrati sul complicato rap-porto tra uomini e donne.

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Cultura

1 Laibach Eat liver! Chi ha sempre amato

mangiare il fegato (che molti schifano) si sentirà meno solo: ecco un inno dei potenti Lai-bach, collettivo elettronico-multimediale di Lubiana, da trent’anni specializzato in at-mosfere da regime stalinista prossimo venturo, videogame e cemento armato, industria in dissoluzione e humour cupo (che si traduce qui, anche, nel fatto di citare la vecchia Stand & deliver di Adam & The Ants). I Kraftwerk ex jugoslavi, dal loro ultimo album Spectre: incisivi e monolitici come cat-tivi di James Bond in ogni sce-na meno l’ultima.

2 Carmelo Amenta Pane e vino Niente Nero d’Avola né

pane siciliano con semi di se-samo. “Sì / Lo so / Non dovrei sorridere / Ma tu non accen-dere / La luce / Restiamo im-mobili”. Allegria! Se la depres-sa fosse una forma di enter-tainment, Carmelo Amenta sarebbe lì lì con Fiorello. Inve-ce è un cantautore siculo di pi-glio intenso e dolente; dopo I gatti se ne fanno un cazzo della trippa ecco l’album Cuori e pa-role in piccole botti di legno. Si-culo dark da intenditori: dopo Cesare Basile, sottoapprezza-to, nemmeno il bravo Amenta sembra in cerca di scorciatoie tra Siracusa e Sanremo.

3 Antonio Onorato e Toninho Horta Peixe vivo

Il pesce vivo è di iume, e in questo canto popolare del Mi-nas Gerais viene usato non co-me pietanza, ma come meta-fora per quello che canta, che senza la “tua compagnia” è un pesce fuor d’acqua. La compa-gnia qui è il sodalizio chitarri-stico tra Toninho Horta, gran-de vecchio brasileiro del vio-lão, e il virtuoso jazz parteno-peo Antonio Onorato: From Napoli to Belo Horizonte ne è il prodotto, album di accordi e i-nezze indolenti e dolci, ideal-mente da spalmarsi sul sofà e abbandonarsi all’otium, o di-gerire una mangiata di mare.

MusicaDal vivoChordeRoy Paci, Thurston Moore, Andy Moor, Yannis Kyriakides, Cloud Boat, Hauschka, Emptyset, Teho Teardo, Blixa BargeldRoma, 28 gennaio-1 febbraio, chorde.it

CuTBologna, 31 gennaio, covoclub.it

Richard DorfmeisterRoma, 31 gennaio, risingloveroma.it

His ClancynessBologna, 25 gennaio, facebook.com/likeazoo; Milano, 2 febbraio, teatrofrancoparenti.com

Red Fang Mezzago (Mb), 30 gennaio, bloomnet.org; Livorno, 31 gennaio, thecagetheatre.it; Bologna, 1 febbraio, locomotivclub.it

Sergent Garcia Roma, 30 gennaio, risingloveroma.it; Firenze, 31 gennaio, log.it; Bologna, 2 febbraio, estragon.it

Robert Hood Bari, 25 gennaio, musicaeparole.it

Un ricordo del grande direttore d’orchestra

Quando Claudio Abbado è salito sul podio del festival di Lucerna nell’agosto scorso, aveva un’aria così distante e trasigurata che molti degli spettatori pensarono che quello sarebbe stato il suo ul-timo concerto. Lo è stato. Il programma prevedeva due compositori che gli erano particolarmente cari: Schu-bert e Bruckner. Abbado era molto apprezzato anche per le sue interpretazioni di Mahler, Musorgskij, Ravel, Debussy e Berg, cosa che lo rendeva un direttore italiano atipico. Ma era comunque al-

trettanto immerso nella grande tradizione del melo-dramma.

La morte di questo austero milanese segna la ine di un’epoca. È stato uno degli ul-timi veri giganti del podio ed era un eroe per innumerevoli musicisti e appassionati in tutto il mondo. E a diferenza di molti suoi colleghi, che ten-

dono a esibirsi dappertutto, selezionava con sempre maggior cura i suoi concerti. È tipico di Abbado essersene andato in silenzio: era noto come uomo di poche parole. Per i giornalisti intervistarlo poteva essere frustrante: era gentile ma diicile da capire. Se doveva spiegare perché amasse un compositore, rispondeva cose come: “Perché è un genio”, e poi magari si metteva a parlare di calcio. Forse è stato il rigore nel fare le cose a modo suo che gli ha permesso di darci alcune delle più grandi inter-pretazioni del nostro tempo. John Allison, The Daily Telegraph

Dall’Italia

Claudio Abbado, 1933-2014

Playlist Pier Andrea Canei

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Thurston Moore

Claudio Abbado, 1999

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Album

WarpaintWarpaint(Rough Trade)●●●●●

Dal secondo atteso album del-le Warpaint ci si aspettava una direzione diversa rispetto all’esordio. Alcune canzoni sono il risultato di improvvisa-zioni e se pensiamo alla stra-ordinaria alchimia che ofrono nei concerti, questo è un buon segno. Con l’aiuto dei produt-tori Flood e Nigel Godrich, la ricetta sembra pronta. Un ele-mento che non passa inosser-vato è la presenza dominante delle linee di basso che trasci-nano tutto l’album. Le chitarre sono tranquille e in disparte, a supporto dei synth, ma quan-do diventano protagoniste il risultato è grande, come nel brano Love is to die. Il gruppo mostra più sicurezza e, anche se la canzone inale sembra appartenere un po’ troppo a Lana Del Rey, dimostra in ge-nerale di avere trovato una trama sonora che si adatta alla scrittura che scorre con ele-ganza per tutto il lavoro. Alan Ashton-Smith, Music Omh

The New MendicantsInto the lime(One little indian)●●●●●

Spesso le collaborazioni extra-curricolari sono lo strumento che i musicisti usano per orga-nizzare jam session con qual-che amico e farne poi pubbli-care i risultati, lontani dalle pressioni del loro lavoro prin-cipale. Il problema è che la mancanza di controllo tende ad accompagnarsi a una man-canza di qualità. Non in que-sto caso, però. L’esito della collaborazione tra Norman Blake dei Teenage Fanclub e lo statunitense Joe Pernice è

re metal, che oggi sono sinoni-mo di anni ottanta. In realtà il suono elettronico creato da Davis e Atkins era rivoluzio-nario: furono tra i primi autori pop a capire che i sintetizzato-ri non erano un semplice ag-giornamento dell’organo e che le nuove tecnologie avreb-bero cambiato profondamen-te il rapporto tra i musicisti e gli strumenti. Ma Enter non va ascoltato solo per la sua im-portanza storica: è innanzitut-to un disco molto bello, in-luenzato dai Kraftwerk, dai Funkadelic di George Clinton ma anche dalla musica pop. Miles Raymer, Pitchfork

Boy & BearHarlequin dream(Nettwerk)●●●●●

In Australia i Boy & Bear sono considerati una specie di Mum ford and Sons fatti in ca-sa. In realtà fanno venire in mente – almeno in questo al-bum, grande successo in pa-tria – il rock sognante califor-niano degli anni settanta. I primi tre brani, Southern sun, Old town blues e la title track, sembrano presi da un album dei Fleetwood Mac, tale è la precisione con cui ripropon-gono la loro dolcezza tequila-sunrise. Ma in questo album di soft rock ottimista sono presenti anche stati d’animo diversi. In Bridges, un ricordo tra sogno e incubo del loro pri-

mo tour americano, il cantan-te Dave Hosking esprime una malinconia quasi struggente. Caroline Sullivan, The Guardian

James Vincent McMorrowPost tropical(Vagrant)●●●●●

L’album di debutto di James Vincent McMorrow, Early in the morning, era un incrocio tra le suggestioni acustiche dei Fleet Foxes e il pop soisti-cato di Sujan Stevens. Ma in Post tropical McMorrow si è li-berato delle schitarrate e dai ritmi folk. Le canzoni sono av-volte da un sontuoso tappeto di organo e pianoforte: siamo in territori più vicini a Rhye e XX. Il falsetto di McMorrow, che in un contesto diverso avrebbe ricordato Bon Iver, rende ancora più soisticato il nuovo corso pop. Forse è esa-gerato dire che Early in the morning e Post tropical sono come il giorno e la notte. Ma, se è così, l’album nuovo è si-curamente quello da ascoltare quando cala il sole.Jef Terich,

American songwriter

Artisti variBiber: Sacred and profaneMusica Antiqua Köln, direttore: Reinhard Goebel; Gabrieli Consort & Players, direttore: Paul McCreesh (Archiv)●●●●●

Reinhard Goebel e Paul Mc-Creesh si dividono questa grande raccolta dedicata a Heinrich Biber. Se non cono-scete le opere di questo fonda-mentale compositore del sei-cento, ecco una buona occa-sione. La Missa Salisburgensis è davvero spettacolare, e Mc-Creesh la centra perfettamen-te. E Goebel porta il suo solito brio alla musica strumentale. James Jolly, Gramophone

un album di contrasti. In par-ticolare tra le soici e rassicu-ranti armonie folk di Sarasota e If you only knew her, e i brani più vivaci alla Teenage Fan-club, come Shouting match, con il fuzz e le chitarre in pri-mo piano. Anche quando la band trova una via di mezzo tra questi due estremi – come in Lifelike hair, pop grezzo che sembra una cover degli Earl Brutus eseguita dai Jesus and Mary Chain – tutto è sempre realizzato con cura e classe.Johnny Sharp, Mojo

CybotronEnter(Fantasy)●●●●● È ironico il destino di alcune opere pionieristiche che agli occhi degli ascoltatori futuri appaiono lavori dal sapore rétro e kitsch. Questo può suc-cedere a Enter, un disco dei Cybotron uscito nel 1983 e ge-neralmente considerato il punto d’inizio della techno di Detroit. Oggi Enter non appa-re così orientato al futuro co-me lo vedevano all’epoca i due componenti dei Cybo-tron: Juan Atkins e Richard Davis, ossessionati dall’idea di una vita umana evoluta al punto tale da essere insepara-bile dalle macchine. Ascoltan-do questa ristampa, che ag-giunge remix e brani rari, ri-saltano degli elementi, come la voce di Davis, le drum ma-chine kraftwerkiane, le chitar- Boy & Bear

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Franco D’Andrea SextetMonk And The Time Machine(Parco della musica Records)

Tom RaineyObbligato(Intakt)

Book Of ThreeContinuum (2012)(Relative Pitch)

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Jazz/ impro

Scelti da Antonia Tessitore

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Cultura

Fotograia

Geof Dyer

Tatyana Makeyeva Mosca, Russia27 novembre 2013

Tutti i ilm sulla guerra fredda ambientati a Mosca ne hanno fatto l’epicentro di un grandioso impero del male fallito, in oppo-sizione ideologica alla democrazia e alla li-bertà. Libertà, per esempio, di buttare un enorme baule irmato nel bel mezzo della piazza Rossa. Lenin si starà rivoltando nel vicino mausoleo, a meno che non sia stato anch’esso trasformato in una boutique.

Costruire un negozio di souvenir e un uicio turistico accanto a Stonehenge, in Gran Bretagna, ha intaccato il potere psico-logico suscitato da quel luogo arcaico, ma almeno lì hanno avuto il buon gusto di non mettere niente in mezzo al cerchio di pietre. Al contrario del metodo stalinista di cancel-

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Mosca, la piazza Rossa. Il baule di Vuitton è stato rimosso dopo le polemiche

lare discretamente dalle foto le persone sgradite come Trockij per rimuoverle dalla memoria, questa prova epica di product pla-

cement non solo trasforma la piazza Rossa in piazza del Mercato, ma converte anche la storia della lotta di classe nel trionfo dello shopping, impedendoci di guardare al pas-sato.

un trionfo curioso e paradossale. Pas-sando in rassegna le grandi cattedrali dello shopping di Manhattan o Dubai, vengono in mente le parole di Diogene al mercato: “Di quante cose non sento il bisogno”. Mar-chi come Louis vuitton si sono afermati come sinonimo di tutto ciò che un moderno Diogene può ignorare per tutta la vita senza desiderare neppure di possederlo. Per i gio-vani militanti di oggi, Louis vuitton potreb-be rappresentare l’incitamento a una rivo-luzione neobolscevica e all’insediamento di uno stato di polizia (rappresentato dal fotografo in basso a sinistra, che ci sta di-scretamente spiando come se stesse facen-do un’audizione per entrare nel kgb), ma tutti gli altri avranno una reazione più mo-derata. Questa foto ci fa capire che marchi come Louis vuitton sono mossi da un sor-

prendente senso civico, visto che si sono impegnati a lungo nel design e nella realiz-zazione di oggetti che hanno l’obiettivo di farci sentire bene a non averli: un inaspetta-to passo avanti in quella che Marx chiamava “libertà dal regno della necessità”. non ci viene neppure richiesto di rinunciare ai no-stri beni terreni come accade per alcuni cul-ti e religioni: possiamo continuare a vivere bene senza possederli, grazie.

Forse il baule gigante si riferisce consa-pevolmente alla kaaba della Mecca, somi-glianza che potrebbe suggerire come il suo intento nascosto sia quello di ispirare ogni consumatore fedele a compiere, almeno una volta nella vita, un pellegrinaggio in un negozio di lusso. Ma come si può notare, nessuno è veramente interessato (da notare le transenne per tenere a bada inesistenti orde). In in dei conti questa foto è davvero la prova documentata di una nuova religio-ne del ventunesimo secolo: un sistema di credenze in cui nessuno crede. u lp

Geof Dyer è uno scrittore britannico,

autore di L’ininito istante. Saggio sulla fotograia (Einaudi 2005).

La borsa di Mosca

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Alta tensione

Ponts-et-Chaussées, boulevard Lefebvre, ParigiA trenta metri di profondità, sotto il quindicesimo arrondis-sement di Parigi, un corridoio di catrame brulica di passi. Era rimasto segreto ino al 1982, poi abbandonato per anni e re-cuperato dall’imprenditore Xavier Niel. Il rifugio antiato-mico, venti metri sotto le fon-damenta di Ponts-et-Chaus-sées, un’ex fabbrica, ha ospita-to una mostra allestita con do-nazioni di privati e volontari. Una folla di curiosi si è riversa-ta nel sotterraneo, noto solo a pochi speleologi urbani. Co-struito nel 1949, il bunker avrebbe dovuto ospitare il di-partimento dei trasporti in ca-so di attacco nucleare. Un lun-go corridoio si immette in uno spazio di 1.500 metri quadrati. Sui due lati del corridoio si aprono le piccole sale dove so-no installate le opere. L’opera di Frédéric Deslias è un enor-me trasformatore a cielo aper-to che genera un arco elettrico, a oltre 20mila volt. L’arco fen-de l’aria e produce un suono ad alta frequenza. Il collettivo Clair Obscure ha allestito un sensore che interpreta i movi-menti delle mani. Di fronte, su uno schermo, un grappolo di molecole reagisce a ogni mo-vimento. Anche Marion Com-te ha usato un sensore: le si-lhouette dei visitatori appaio-no su uno schermo saturo di lettere disposte in ordine ca-suale. Su un pulpito al buio tro-neggia un altare usb, la testa di un cinghiale che vomita cavi elettrici e dispensa dati come preghiere a chi inserisce una chiavetta. I curatori della mo-stra volevano che le opere in-teragissero con l’identità del luogo, ma non hanno imposto nulla. Gli artisti si sono presta-ti volontariamente alla sida.Les Inrockuptibles

Hannah Höch

Whitechapel gallery, ino al 23 marzoCubismo, dadaismo, futuri-smo, tutti gli -ismi conteneva-no un altissimo tasso di testo-sterone e di creativi autocom-piaciuti. Certo, c’erano anche delle donne tra Parigi e Berli-no, ma erano considerate ap-pendici di uomini famosi, mu-se e modelle, non protagoniste della rivoluzione in corso. Al-cune sono emerse dall’ombra dei rispettivi partner: Gabriele Munter idanzata di Kan-dinskij, Sophie Tauber moglie di Jean Arp, Lyubov Popova

collaboratrice di Rodchenko e non ultima Frida Kalo, oggi più famosa del marito Diego Rive-ra. La Whitechapel rende omaggio a una scrittrice e arti-sta che andò ben oltre l’annoso interrogativo: chi fa il bucato? Pioniera del fotomontaggio di immagini femminili che presa-giscono le idee di Simone de Beauvoir e del femminismo di cinquant’anni dopo, Hannah Höch è stata una igura centra-le del dadaismo. Esclusa dalle cronache dell’epoca e da molte mostre, Hans Richter la ricor-da per i suoi sandwich, le birre e i cafè. Con Raoul Haus-

mann condivide una turbolen-ta e intensa relazione extraco-niugale (lui era sposato). Inclu-sa nella prima rassegna dadai-sta nel 1918, la sua presenza fu osteggiata alla iera dadaista del 1920. Per molti versi era più originale di Hausmann, eppure scivolò naturalmente in una posizione di retroguar-dia, nel ruolo di compagna di sostegno. Visse ino al 1978, abbastanza per vedere ricono-sciuto il suo contributo all’arte del ventesimo secolo in due grandi mostre del 1976 a Berli-no e a Parigi. The Daily Telegraph

Londra

Fuori dall’ombra

Cultura

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Für ein Fest gemacht

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Le ninfe di cicala nordamericana vivono sottoterra per diciassette anni prima di emergerne adulte. Molti semi rimango-no dormienti molto più a lungo, inché qualcosa non li stimola facendoli germi-nare. Ci sono alberi che continuano a

dare frutti molto tempo dopo la morte di chi li ha pian-tati, e in Massachusetts esiste un pero, piantato da un puritano nel 1630, che ancora oggi produce frutti mol-to più dolci di quelli portati nel continente dai fonda-mentalisti suoi compari. A volte causa ed efetto distano secoli tra loro.

A volte l’arco dell’universo morale di Martin Luther King, quello teso verso la giustizia, è così ampio che pochi riesco-no a scorgerne la curvatura. A volte la speranza non sta nel guardare avanti ma indietro, per studiare l’andamento di quell’arco.

Tre anni fa, più o meno in questo pe-riodo, un giovane tunisino si è dato fuo-co per protesta: la primavera araba stava per esplodere. Un ragazzo ancora più giovane, un rapper conosciuto con il nome di El Général, stava per essere arrestato per Rais Lebled (una storpiatura dell’espressione “capo di stato”), canzone che avrebbe contribuito a far decollare la rivoluzione tunisina.

Solo poche settimane prima nessuno immaginava che sarebbero scoppiate le rivoluzioni in Tunisia o in Egitto. Nessuno le aveva previste. Nessuno diceva che in quell’angolo del mondo il potere popolare e non ar-mato poteva trasformarsi in una forza. Nessuno sape-va che i semi stavano germinando.

Un aspetto minore ma interessante della primavera araba è stato il ruolo svolto dall’hip-hop. Il governo de-gli Stati Uniti esporta spesso repressione, per esempio con i miliardi di dollari in aiuti dati all’esercito egiziano nel corso dei decenni, ma la cultura americana può an-che essere qualcosa di molto diverso.

Henry David Thoreau ha scritto libri che al mo-mento della pubblicazione lessero in pochi. A proposi-to delle sue copie invendute disse: “Ho una biblioteca di quasi novecento volumi, più di settecento dei quali sono opera mia”. Ma un avvocato indiano arrivato in Sudafrica per lavoro, Mohandas Gandhi, lesse i testi di Thoreau sulla disobbedienza civile trovandovi idee che l’avrebbero aiutato a combattere contro l’apar-theid sudafricano, che colpiva anche gli abitanti d’ori-

La giustizia ha radici antiche

Ogni tanto il passato torna a esplodere e si scopre che molti eventi che un tempo sembravano non portare a nulla svolgono il loro lavoro lentamente

gine indiana, e quindi a liberare il suo paese dal domi-nio britannico. Martin Luther King studiò Thoreau e Gandhi, dopodiché applicò le loro idee negli Stati Uni-ti, mentre nel 1952 l’African national congress e un gio-vane Nelson Mandela collaboravano con il South Afri-can Indian congress ad alcune campagne di disobbe-dienza civile. Sarebbe bello poter scrivere una lettera a Thoreau per raccontargli tutto questo. Non aveva mo-do di sapere che quanto da lui seminato avrebbe conti-nuato a dare frutti 151 anni dopo la sua morte. Ma il

passato non ha bisogno di noi. Il passato ci guida. È il futuro ad avere bisogno di noi. Un importante fumetto sulla disob-bedienza civile e Martin Luther King, pubblicato dalla Fellowship of reconci-liation degli Stati Uniti nel 1957, è stato tradotto in arabo e distribuito in Egitto nel 2009, più di quarant’anni dopo la morte di King. Misurare quale sia stato il suo impatto non è possibile, ma pare ne abbia avuto nell’insurrezione egiziana, che è stata una miscela vertiginosa di social media, pressioni esterne, scontri

di piazza ed enormi manifestazioni.Ogni tanto il passato torna a esplodere, e si scopre

che molti eventi che un tempo sembravano non porta-re a nulla svolgono il loro lavoro lentamente. Molte delle trasformazioni più belle avvenute in tempi recen-ti sono anche state bollate come fallimenti da chi vole-va risultati immediati o niente. Lo stesso si potrebbe dire degli sconvolgimenti in Sudafrica di cui Mandela è stato il catalizzatore. Hanno migliorato la situazione. Non l’hanno migliorata abbastanza. È anche il caso di sottolineare che la ine dell’apartheid non solo ha libe-rato la popolazione non bianca di un paese, ma ha an-che dato una sensazione di potere e di possibilità alle tante altre persone che in tutto il mondo parteciparono ai boicottaggi e alle altre campagne per mettere ine all’apartheid in quel periodo miracoloso, tra il 1989 e il 1991, che vide anche il crollo dell’Unione Sovietica, varie rivoluzioni nell’Europa orientale, le rivolte stu-dentesche di Pechino e l’inizio della ine di tanti regimi autoritari in Sudamerica.

Nell’atmosfera di speranza all’indomani di quella trasformazione, Mandela scriveva: “Lo sforzo titanico che ha portato la liberazione in Sudafrica e assicurato la liberazione totale dell’Africa rappresenta un atto di riscatto per le persone nere di tutto il mondo. È un do-no di emancipazione anche per coloro che, in quanto

REBECCA SOLNIT

è una scrittrice e saggista statunitense. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Un paradiso all’inferno (Fandango 2009). Questo articolo è uscito su TomDispatch con il titolo The arc of justice and the long run.

Rebecca Solnit

Pop

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bianchi, si sono assunti il gravoso compito di vestire i panni di dominatori del genere umano. Dice a chiun-que sia disposto ad ascoltare e capire che, mettendo ine alla barbarie dell’apartheid iglia della colonizza-zione europea, l’africa ha contribuito ancora una volta al progresso della civiltà umana e allargato ulterior-mente le frontiere della libertà in ogni luogo”.

l’arco della giustizia è ampio. Passa per New Orle-ans, città nella quale, dopo l’uragano Katrina, sono tornata più volte. È stato un modo per capire non solo il disastro, ma la comunità, la cultura e il senso di con-

tinuità. l’hip-hop proviene soprattutto dal South Bronx, ma se si pensa a quelli che negli anni settanta fondarono questo genere di musica, emerge che alcu-ne delle sue igure chiave erano di origini caraibiche, e la musica su cui si erano formate comprendeva lo ska e il reggae, che a loro volta risentivano dell’inluenza di New Orleans. Osservando New Orleans, quel che si vede è uno sbalorditivo esempio di sopravvivenza del-la cultura, e di cultura della sopravvivenza.

Forse avreste dovuto fare quel che facevo io all’ini-zio del 2011 – curiosare nelle origini della musica ame-

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Storie vereQuest’anno il Superbowl, la inale del campionato di football americano, sarà tra i Seahawks di Seattle, nello stato di Washington, e i Broncos di Denver, nel Colorado. Le due squadre hanno sede negli unici due degli Stati Uniti d’America che hanno già legalizzato la vendita e l’uso della marijuana per scopo ricreativo, e questo ha comprensibilmente divertito molti appassionati. La National football league ha subito comunicato che l’erba è vietata per contratto ai giocatori di football, ed entrambe le inaliste quest’anno hanno avuto dei giocatori squaliicati per essere stati trovati positivi al test antidoping della cannabis. Il Marijuana Policy Project di Denver, un’associazione di attivisti per l’uso delle droghe leggere, ha commentato sfavorevolmente la regola che proibisce ai giocatori di usarla, e ha condannato il fatto che il campionato ha tra i suoi sponsor dei produttori di bevande alcoliche.

ricana di New Orleans – per rimanere colpiti dal modo in cui tante delle sue componenti essenziali sono ve-nute dall’Africa tra il settecento e l’inizio dell’ottocen-to, per poi farvi ritorno, in alcuni casi, negli ultimi anni. Guardavo mappe e ne tracciavo, pensando a come de-scrivere i modi inaspettati in cui le cose immateriali si muovono attraverso il tempo e lo spazio.

La mappa più triste è quella della triangolazione commerciale, un circolo vizioso che non è neppure cir-colare. Raigura le rotte dei commercianti europei che nel diciottesimo e diciannovesimo secolo portavano le loro merci dal loro continente all’Africa occidentale, in cambio di esseri umani che venivano poi trasportati negli Stati Uniti e nei Caraibi per essere scambiati con materie prime, soprattutto zucchero, rum e tabacco. È una mappa che racconta di persone trasformate in strumenti e beni di consumo, ma non ci dice nulla di quel che le persone ridotte in schiavitù portavano con sé.

Spogliate di tutti i loro beni e diritti, nella mente portavano ricordi, cultura e resistenza. Cose che han-no permesso a New Orleans di iorire come nessun al-tro luogo degli Stati Uniti, durante la lunga, oscena epoca della schiavitù, mentre la più grande rivolta di schiavi nella storia degli Stati Uniti scoppiò lì vicino, nel 1811 (e tra i suoi partecipanti ci furono due giovani guerrieri asante arrivati a New Orleans sulle navi ne-griere cinque anni prima). Dalla metà del diciassette-simo secolo ino al 1840, agli schiavi di New Orleans fu permesso di radunarsi la domenica in una piazza ai margini della città vecchia, nota, allora come oggi, con il nome di Congo square.

“La sera del sabbath”, scriveva il visitatore H.C. Knight nel 1819, “gli schiavi africani si incontrano sul prato accanto alla palude, e smuovono la città con le loro danze”. Il grande storico musicale Ned Sublette fa notare, nel suo meraviglioso libro The world that made New Orleans, come quello che molti considerano il pri-mo disco di rock and roll, Good rocking tonight di Roy Brown (1947), sia stato inciso a un isolato di distanza.

Nel frattempo, quel che gli africani avevano portato con sé proseguiva la sua metamorfosi nella città: il jazz è nato dalla cultura nera nei dintorni di Congo square, così come importanti ceppi del rhythm and blues, e una serie di performer prima funk, poi hip-hop. Il funk ha avuto origine in parte dalle inluenze afrocubane e dalla tradizione afroamericana dei Mardi gras indians, che non erano nativi americani, ma afroamericani del-la classe operaia. I loro elaborati costumi e rituali ren-dono esplicito omaggio ai nativi americani che ospita-vano gli schiavi in fuga (e a volte li sposavano), ma la loro somiglianza con i costumi di perline africani è sor-prendente. I Mardi gras indians silano ancora cantan-do e sidandosi a vicenda. Uno dei loro slogan è “We won’t bow down”, non ci piegheremo.

Pur essendo famosa soprattutto per altro, New Or-leans possiede anche una tradizione di resistenza, che va dalle rivolte di schiavi ino a Homer Plessy, che sidò le leggi sulla segregazione, e a Ruby Bridges, la bambi-na di sei anni che nel 1960 fu la prima nera ammessa in una scuola di bianchi nel sud. Non è un arco di tempo

così lungo come si potrebbe pensare: Fats Domino, uno dei padri fondatori del rock and roll, è ancora vivo e abita nel Lower ninth ward. La levatrice che lo fece nascere a pochi isolati da lì era sua nonna, che era nata in schiavitù.

Herreast Harrison è una signora di New Orleans tra i settanta e gli ottant’anni, madre del jazzista Donald Harrison Jr. È la vedova di un capo dei Mardi gras in-dians, si occupa di salvaguardia delle tradizioni cultu-rali ed è una forza dinamica della città. Mi ha detto che “i Mardi gras indians testimoniavano la loro tradizione culturale e la praticavano, avevano una memoria del passato molto lunga. Quand’erano lì, erano liberi. E il loro spirito prendeva il volo. Erano se stessi, malgrado le limitazioni in tutti gli altri aspetti della loro vita. Avrebbero dovuto pensare ‘Non siamo niente’, perché per convincertene ti facevano un lavaggio del cervello costante. E invece no, loro andavano a ripescare quelle cose. E adesso la loro musica fa parte del mondo”.

Suo iglio Donald Harrison Jr. aggiunge: “Congo square signiica che, indipendentemente da quel che ti succede nella vita, tu trascendi la cultura e Congo square ti aiuta perché ti porta oltre. È questo il potere della musica, ecco perché unisce la gente. Vivi un mo-mento di libertà in cui ti astrai da tutto quel che succe-de intorno. Berthold Auerbach l’ha detto molto bene: ‘La musica lava via dall’anima la polvere della vita quo-tidiana’. In quel momento diventi libero. Tutti quanti desiderano un momento di trascendenza. La musica entra dentro di te, e tu capisci dove devi andare se vuoi essere libero. Non importa se sei in Norvegia, in Suda-merica o a Pechino. La musica ti libera. E quindi Congo square libera il mondo. Dona la libertà a chi sta intorno”.

Nel mio ultimo progetto, Unfathomable city: a New Orleans atlas, ho cercato di comunicare quello che la musica di New Orleans ha regalato al mondo con una mappa intitolata “Ripercus-sioni: ritmo e resistenza a cavallo

dell’Atlantico”. Dicevano che quegli immigrati invo-lontari portati con le navi negriere non possedevano nulla, e invece ciò che possedevano ancora oggi tocca le persone, si difonde e porta libertà.

Quella che noi chiamiamo primavera araba è stata anzitutto una Primavera nordafricana, in Tunisia, in Egitto e in Libia, e lì l’hip-hop c’era già, ed è diventato uno strumento di protesta globale. Questo non signii-ca che vada tutto bene (o che l’hip-hop non possa esse-re usato anche per veicolare messaggi consumistici o misogini). È però un monito del fatto che, anche nelle circostanze più orribili, qualcosa di importante ha fat-to di più che sopravvivere: ha prosperato ed è cresciuta, arrivando con il tempo a fare il giro del mondo.

A quasi tre anni dalle sue prime scintille, sarebbe saggio considerare anche la primavera araba come qualcosa appena agli inizi, invece che già fallito. E nemmeno il movimento Occupy Wall street, due anni dopo che i suoi primi membri hanno cominciato ad abbandonare lo Zuccotti park di Lower Manhattan, è

Pop

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ancora inito, anche se quasi tutti gli accampamenti sono stati smantellati e l’impegno ha assunto altri no-mi: Occupy Sandy, Strike debt e altri. Quando si parla di rivolgimenti sociali, conviene pensarli come feno-meni in continua trasformazione, anziché parlarne con necrologi ed epitai.

Ogni volta che mi guardo intorno, lo faccio doman-dandomi quali cose del passato si preparino a dare frutti, quali istituzioni all’apparenza solide possano frantumarsi, e quali siano, tra i semi che stiamo pian-tando, quelli destinati a dare raccolto in un momento imprevedibile del futuro. La persona più straordinaria che ho conosciuto nel 2013 mi ha citato una frase di Mi-chel Foucault: “Le persone sanno quello fanno. Spesso sanno anche perché lo fanno. Quello che ignorano, pe-rò, è l’efetto prodotto da ciò che fanno”. Qualcuno salva una vita, o istruisce una persona, o le racconta una storia che ne ribalta tutte le convinzioni preceden-ti. La trasformazione può essere sottile, cruciale o può cambiare il mondo, l’anno prossimo come tra cent’an-ni o magari mille. Non è sempre possibile ricostruirla, ma tutto, tutti hanno una genealogia.

Nel suo libro di prossima pubblicazione The rise, Sarah Lewis racconta la storia di Charles Black, un adolescente bianco di Austin che negli anni trenta sen-tì suonare un trombettista che cambiò il suo modo di pensare, e di conseguenza anche le nostre vite. La bel-lezza della musica del jazzista di New Orleans Louis Armstrong lo catturò e lo trasformò al punto da modi-icare le sue opinioni sul mondo segregazionista in cui era cresciuto. “Non è possibile sottovalutare il signii-cato che può aver avuto, per un sedicenne degli Stati Uniti del sud, vedere il genio in un nero per la prima volta”, ha ricordato decenni dopo. Come avvocato an-tirazzista e per i diritti civili, nel 1954 avrebbe contribu-ito ad abbattere la segregazione in tutto il paese nella causa Brown contro Board of Education, la storica de-cisione della corte suprema che mise ine alla segrega-zione razziale. Come spiegare l’efetto della musica di Louis Armstrong? È possibile disegnare una mappa degli Stati Uniti in cui il suono di un trombettista degli anni trenta in Texas si collega a ritroso con i momenti di liberazione creati dagli schiavi di Congo square, e in avanti con la corte suprema del 1954?

E ancora. Nel 2009 la polizia iraniana aveva arre-stato tre giovani escursionisti statunitensi al conine tra Iran e Iraq. La loro cattura – i due maschi sono rima-sti in carcere 781 giorni – è diventata l’occasione per avviare i negoziati segreti tra gli Stati Uniti e l’Iran che hanno appena portato alla irma dell’accordo tempo-raneo sul nucleare. Si può tracciare una mappa del mondo in cui tre giovani idealisti a passeggio diventa-no prima prigionieri e poi catalizzatori del cambia-mento?

Ripensando all’accaduto, uno dei tre ragazzi, Sha-ne Bauer, ha scritto: “Una delle mie paure, in carcere, era che la nostra detenzione non facesse che alimenta-re l’ostilità tra Iran e Stati Uniti. È bello sapere che quei due anni terribili hanno portato a qualcosa, che a sua volta potrebbe portare a qualcosa di ancora migliore”. Bauer in seguito ha aggiunto: “Il motivo per cui la no-

stra tragedia ha portato a un’apertura tra gli Stati Uniti e l’Iran è che molte persone si sono mosse attivamente per porre ine alle nostre soferenze. Con questo obiet-tivo, i nostri amici e familiari hanno lottato per creare un ponte tra Stati Uniti e Iran, mentre i governi si riiu-tavano di farlo”. Sarah Shourd, la terza prigioniera, “non fa politica né desidera farla. Ma dopo essere stata rilasciata, un anno prima di me e di Josh, si è trasfor-mata in una diplomatica abile e tenace, raforzando le connessioni tra l’Oman e gli Stati Uniti che poi hanno portato a queste trattative”.

Una decina d’anni fa ho cominciato a scrivere di speranza, un’inclinazione che non ha nulla a che vede-re con l’ottimismo. L’ottimismo dice che tutto andrà bene comunque, proprio come il pessimismo dice che sarà comunque un disastro. Speranza è percepire il grande mistero di tutto, la consapevolezza che non sappiamo come andranno le cose, che tutto è possibile. Signiica riconoscere il fatto che il suono di una tromba ad Austin, in Texas, può riecheggiare davanti alla corte suprema vent’anni dopo; che un’escursione sfortunata in una zona di conine possa contribuire ad allontanare due paesi dalla guerra; che Edward Snowden, un gio-vane analista a contratto dell’Nsa, può ribellarsi contro le inquietanti invasioni della privacy compiute dall’agenzia in questione e rimanere a sua volta sor-preso dall’intensità della reazione globale ai dati da lui difusi; che una cultura partita dall’Africa più di due-cento anni fa può tornare nello stesso continente come strumento di liberazione; insomma: che non sappiamo quale sia l’efetto delle nostre azioni.

Quel pero in Massachusetts produce ancora frutti quasi quattrocento anni dopo essere stato piantato. Ma colui che lo piantò contribuì anche a provocare la guerra contro i pequot, che furono massacrati nel 1637. A detta del New York Times, “i sopravvissuti furono venduti come schiavi o ceduti alle tribù vicine. I colo-nizzatori vietarono perfino l’uso del nome pequot, ‘per estirpare il loro ricordo dalla terra’, come scrisse

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in seguito l’uomo che aveva guidato l’assalto”.Da allora e per secoli, il popolo nativo americano fu

deinito estinto, cancellato, scomparso. Se ne scriveva al passato, le rare volte che era citato. Negli anni set-tanta, tuttavia, i pequot furono riconosciuti a livello federale, ottenendo i diritti che alle tribù native ameri-cane spettano in quanto “nazioni sovrane soggette”. Negli anni ottanta aprirono un salone per il bingo nella loro riserva in Connecticut. Negli anni novanta, quel salone diventò il più grande casinò del mondo occi-dentale (per la cronaca, io non amo particolarmente l’industria del gioco d’azzardo, ma le vicende impreve-dibili sì).

Con gli enormi proitti di quel progetto, la tribù ha creato un museo della storia dei nativi americani. È sta-to aperto nel 1998, e anche questo è il più grande del suo genere. Il nuovo impero dei pequot attraversa un mo-mento difficile dall’inizio della crisi finanziaria nel 2008, ma il fatto stesso che sia sorto sbalordisce, cento-cinquant’anni dopo che Herman Melville mise una na-ve chiamata Pequod nel bel mezzo del suo romanzo Moby Dick, accennando al fatto che prendeva il nome da un popolo “ormai estinto come gli antichi medi”. Esiste qualcosa di più improbabile, in New England, del fatto che un popolo estinto da tempo inisca per trarre vantaggio dall’incauto ottimismo dei suoi vicini?

Nel frattempo, quel pero continua a dare frutti. Nel frattempo, l’hip-hop continua a veicolare il dissenso politico, degli inuit su a nord come dell’America Lati-na. Nel frattempo, le relazioni diplomatiche con l’Iran hanno conosciuto alcuni colpi di scena e sviluppi sor-prendenti, che ultimamente l’hanno allontanato dalla prospettiva della guerra.

Nel mio paese, vedo il tessuto dei diritti e della giu-stizia silacciarsi, e vedo i cambiamenti climatici avan-zare. È un momento per certi versi terribile, ed è chiaro che le conseguenze dei cambiamenti climatici peggio-reranno (anche se quanto dipende ancora da noi). Ve-do anche che in in dei conti non sappiamo mai davve-ro come andranno a inire le cose, che spesso si verii-cano gli eventi più improbabili, che siamo una specie capace di grandi innovazioni e adattamenti, e che tra noi ci sono molti più idealisti di quanto faccia comodo al mondo degli afari e allo status quo.

Quello che ho imparato a New Orleans dopo l’ura-gano Katrina è quanto possa essere calma, piena di ri-sorse e generosa la gente nei momenti peggiori: la “Marina cajun” venuta a mettere le persone in salvo con le barche, le stesse persone bloccate dall’acqua che formavano comunità di mutuo soccorso, le centinaia di migliaia di volontari, dai mennoniti di mezz’età ai giovani anarchici, arrivati subito dopo per contribuire a salvare una città che avrebbe tranquillamente potuto essere data per spacciata.

Io non so cosa ci aspetti. So però che, di qualunque cosa si tratti, sarà in parte terribile, ma in parte anche miracoloso, l’aggettivo che riserviamo a ciò che è asso-lutamente inaspettato, ai semi di cui ignoriamo la pre-senza nel suolo. E so che non conosciamo gli efetti di ciò che facciamo. Come osserva Shane Bauer, la cosa cruciale è fare. u mc

Dopo aver lavorato per quasi vent’anni come critica letteraria, sono arrivata alla conclusione che questo tipo di mestiere è sostanzialmente il relitto di un’altra epoca. Chi compra libri oggi preferisce la saggezza collettiva

delle recensioni su Amazon. Quotidiani e riviste, che lottano per sopravvivere, dedicano sempre meno spa-zio ai libri, e gli scrittori sono costretti dall’economia della rete a ofrire opinioni per poco o niente.

Questa presa di coscienza risale all’inizio del 2012, e se avessi avuto la possibilità di trascinarmi nella mia polverosa stanza piena di libri e morire, forse lo avrei fatto. Ma come madre non sposata di un ragazzino un-dicenne, c’erano una vita da costruire e molte bollette da pagare. Perciò ero molto motivata quando mi è capi-tato tra le mani un articolo che sosteneva l’importanza della “alfabetizzazione informatica”. Ispirata, mi sono iscritta a un corso per imparare un linguaggio di pro-grammazione della Codecademy, una start up di istru-zione online con sede a New York.

La prima sorpresa di imparare a programmare? Mi sono veramente divertita. Sì, programmare è impegna-tivo, frustrante e spesso noioso. Ma ofre soddisfazioni che non sono troppo diverse da quelle di scrivere. Gli eleganti raccordi logici, l’attenzione per i dettagli, l’obiettivo di raggiungere il massimo impatto con il mi-nimo di righe, la sensazione di creare qualcosa di accat-tivante a partire da poche idee sottili e astratte: come critica queste side mi erano familiari. Dopo meno di tre mesi avevo interiorizzato una nuova logica, un di-verso modo di guardare all’informazione. Quando è arrivata l’estate stavo imparando il web design, co-struendo applicazioni e portandole da semplici prototi-pi a qualcosa di abbastanza soisticato da poterlo sotto-porre al test degli utenti. E alla ine del corso conoscevo la struttura di base dei sistemi operativi del computer.

Non sarei mai diventata una programmatrice di professione. Anche se avevo cominciato con l’idea di tirarmi fuori da un’emergenza inanziaria, non è stato necessario. Sono riuscita a riconvertirmi da critica let-teraria a giornalista.

Però il mio anno di codice mi ha cambiata. Quando incontro qualcuno che ha a che fare con la tecnologia – cioè praticamente chiunque, oggi – capisco veramente di cosa sta parlando, che si tratti di un consulente che lavora per una banca o di un ingegnere biomedico che ha creato un software per visualizzare con maggiore precisione una risonanza magnetica. Conoscere me-glio il codice mi fa sentire più legata agli altri nella no-stra società tecnologica.

La più grande sorpresa è stata la sensazione che la mia mente mi appartenesse di nuovo. Era diventato più

Diidate degli scrittori tecnofobi

Juliet Waters

Pop

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Internazionale 1035 | 24 gennaio 2014 87

facile controllare e iltrare l’invadente agenda della tec-nologia mobile. Ho anche imparato a usare i social net-work per arricchire la mia vita, anziché rovinarmela. Tanto per cominciare, non perdo tempo a cercare di tenere il passo con le notizie di Twitter o di Facebook così come non perderei tempo a suonare il campanello di ogni persona del mio quartiere tutti i giorni.

Al tempo stesso, ora ne so anche abbastanza da es-sere infastidita dal tono apocalittico assunto negli ulti-mi tempi da due dei nostri scrittori più inluenti. Sono d’accordo con alcune delle preoccupazioni espresse da Jonathan Franzen nel suo articolo Cosa c’è che non va nel mondo moderno e da Dave Eggers nel suo nuovo roman-zo The circle, una satira dell’aziendalismo tecnologico. Ma non potrei essere più in disaccordo con il tribalismo che promuovono. Hanno ragione sui pericoli di una nuova tecnoélite che controlla non solo i nostri compu-ter ma anche i nostri libri e, sempre più spesso, quoti-diani e riviste. Ma sembrano non capire che anche gran parte dello stesso mondo tecnologico è, ed è sempre stato, preoccupato per questo.

Per ogni Amazon o Facebook impegnati a domare il pianeta, c’è un gran numero di altre aziende che fanno a gara nel liberarlo: per esempio aziende open source come Word Press, il cui cofondatore, Matt Mullenweg, concepisce l’espansione non tanto come una multina-zionale elefantiaca al servizio del proitto di pochi, ma come una città di sviluppatori e web designer collegati tra loro e con diverse specializzazioni. Oppure gitHub, che gestisce un deposito open source usato dai pro-grammatori per collaborare e condividere, con il suo modello di organizzazione piatta che punta a eliminare i dirigenti intermedi.

Franzen ed Eggers sbagliano a incoraggiarci a in-dossare il tecnoanalfabetismo come una sorta di em-blema del coraggio, come qualche volta sembrano fare. Se vogliamo combattere gli obiettivi aziendalisti incor-porati nel nostro software e hardware, dobbiamo di-

In Francia le indagini internazio-nali hanno rivelato la cattiva con-dizione culturale della scuola e degli adulti. Stampa e studiosi si interrogano seriamente e guarda-no con interesse ai paesi dell’estremo oriente. Trois Qua-torze, rivista dei Programmes in-ternationaux d’echanges (Pie), ha scelto la strada del case study. Ci sono diferenze tra scuola france-se e giapponese? La risposta è ai-data ad Aimi, una giovane giappo-nese oggi borsista in un centro di vera eccellenza, l’Institut de hau-

tes études internationales et du développement (Iheid) di Gine-vra. Aimi ha fatto i suoi studi in Giappone, ma quand’era sedicen-ne ha frequentato per un anno il lycée a Parigi.

Stupore già al primo giorno di scuola: si entra subito in classe e le lezioni sono cominciate. In Giap-pone la prima giornata è dedicata a conoscersi tra professori e alunni di tutta la scuola, a capire quali so-no gli obiettivi dell’anno. Il fatto è che, secondo Aimi, in Francia ognuno pensa a sé, non alla collet-

tività. Per studenti e professori la scuola è un luogo dove si deve an-dare, in Giappone dove si ama an-dare e ci si trattiene volentieri ol-tre le ore di lezione. No, non è una leggenda metropolitana, è vero: manutenzione e pulizia sono ai-date agli studenti, che alle tre di pomeriggio per mezz’ora rassetta-no e puliscono tutto, toilettes com-prese. In Francia no, e i bagni sono sporchi. In Francia, pensa Aimi, si educa lo spirito critico di un’élite, in Giappone la conoscenza e coe-sione di tutti. u

Scuole Tullio De Mauro

Una giapponese a Parigi

ventare più esperti di tecnologia, non meno.Franzen divide il mondo in gente Mac e gente Win-

dows. Ma ha dimenticato la gente Linux, programma-tori professionisti e dilettanti che insieme hanno svi-luppato un sistema operativo. Sono più numerosi che mai. Di fatto, il sistema operativo Android, adottato dal 39 per cento dei dispositivi portatili di tutto il mondo, è basato su Linux.

The circle è stato giustamente ridicolizzato dai critici per l’ignoranza di Dave Eggers in materia di tecnologia. Uno scrittore lo ha felicemente paragonato a “una sati-ra della Formula uno in cui tutte le auto sono interpre-tate da treni merci”. Il libro si basa sulla creazione di un “sistema operativo uniicato”, ma quello che Eggers descrive sembra molto di più Facebook o Google+ che un sistema operativo, cioè il software che permette al vostro computer di funzionare.

Questi autori non sembrano neppure rendersi conto di quanto il loro puritanesimo antitecnologico li allon-tani dai lettori, che nella maggior parte dei casi, diver-samente da loro, non possono permettersi di disprezza-re la tecnologia. Questo vale doppiamente per gli scrit-tori: se non scrivete best seller, non avete altra scelta che adattarvi ai cambiamenti tecnologici.

Più di duemila anni fa, Socrate metteva in guardia i suoi allievi contro la rapida difusione di una tecnologia che avrebbe devastato la loro memoria e il loro istinto per la verità: la parola scritta. Per certi versi aveva ragio-ne. Abbiamo perso la capacità di memorizzare coltivata dalla narrazione orale. Ma quanti di noi rinuncerebbero agli immensi vantaggi – scientiici, economici, sociali e artistici – prodotti dalla conoscenza collettiva dissemi-nata in tutto il pianeta attraverso i secoli e resi possibili dalla scrittura?

E quanti allievi di Socrate seguirono il suo consiglio, dopo tutto? Cosa ne fu di loro? Chi lo sa. Conosciamo solo quelli che non lo ascoltarono. Tecnofobi, prendete nota. u gc

JULIET WATERS

è una scrittrice e saggista canadese. Questo articolo è uscito sul New York Times con il titolo The code of life.

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Scienza

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I nomi degli odori

Se si chiede a un gruppo di persone di che colore è un foglio di carta oppure una nuvola o un bicchiere di latte, ci sono buone probabilità

che tutte rispondano “bianco”. Se allo stes-so gruppo si chiede invece qual è l’odore della cannella, ciascuno risponderà a mo-do suo con aggettivi come “speziato”, “af-fumicato”, “dolce” o magari tutti e tre. Quando si tratta di dare un nome a un odo-re, infatti, si fatica a trovare termini sinteti-ci e universali. Molti scienziati, anzi, hanno sempre pensato che si tratti di un’abilità al di fuori della nostra portata. Un nuovo stu-dio, però, rivela che gli abitanti di una re-mota penisola del sudest asiatico sono ca-paci di descrivere gli odori con la stessa facilità con cui noi indichiamo i colori.

Lo studio riguarda gli jahai, una popo-lazione di cacciatori-raccoglitori nomadi che vive nelle foreste dei monti al conine tra Malesia e Thailandia. Per questa socie-tà gli odori sono importantissimi. Per esempio sono nominati quando si parla di malattie o di salute. è una delle poche cul-ture che ha parole dedicate esclusivamente agli odori. “Il termine pȶus descrive l’odore delle vecchie capanne, del cibo stantio e del cavolo”, spiega Asifa Majid, psicologa del Centro di studi linguistici dell’universi-tà Radboud di Nijmegen, nei Paesi Bassi. Secondo lei, gli jahai sarebbero in grado di distinguere le proprietà elementari degli odori, proprio come noi sappiamo distin-guere il colore bianco del latte.

Per scoprire se sono davvero più bravi di noi a deinire gli odori, Majid e i suoi col-leghi hanno chiesto a persone madrelingua jahai o inglese di descrivere 12 odori diver-si: cannella, acquaragia, limone, fumo,

cioccolato, rosa, diluente per vernice, ba-nana, ananas, benzina, sapone e cipolla. Sul numero di febbraio di Cognition l’équi-pe riferisce che gli jahai ci sono riusciti con facilità e in modo uniforme, mentre gli an-glofoni hanno faticato non poco.

Vivere nella foresta Gli jahai, per esempio, concordavano sul fatto che l’odore della cannella è cŋəs, la stessa parola che usano per l’odore di aglio, cipolla, cafè, cioccolato e cocco. Questo sembra indicare che siano in grado di indi-viduare alcune proprietà comuni agli odori di questi alimenti. Al contrario, racconta Majid, “le descrizioni degli anglofoni sono state cinque volte più lunghe e quasi ogni partecipante ha usato una parola diversa dagli altri. Non c’è accordo su come descri-vere gli odori e spesso le deinizioni sono contraddittorie”. Inoltre, nel descrivere gli odori, spesso i madrelingua inglese si sono riferiti all’oggetto di origine: il limone, per esempio, è “limonoso”. Gli jahai, invece, avevano a disposizione parole precise.

Questa diferenza potrebbe dipendere dall’importanza degli odori nella loro vita quotidiana, suggerisce Douglas Medin, psicologo della Northwestern university di

Come spiegare che profumo ha la cannella? Nella maggior parte delle lingue non ci sono parole precise e condivise per descrivere gli odori. Ma alcune tribù fanno eccezione

Karl Gruber, Science, Stati Uniti

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evanston, nell’Illinois, ed esperto di cogni-zione e apprendimento nelle culture indi-gene. In una foresta itta tutti i tronchi si somigliano e non è sempre facile identii-care un albero dal suo aspetto, dice Medin. Dopo un forte acquazzone, poi, gli odori risaltano di più e se si impara a riconoscerli si potranno facilmente distinguere escre-menti di scimmia, foglie in decomposizio-ne e iori. Inoltre, disporre di un nome con-diviso per un odore in grado di attirare una tigre può salvare vite umane.

è anche possibile che gli jahai siano di-versi da noi: i geni che codiicano i recetto-ri olfattivi mostrano molte variazioni non solo tra le popolazioni, ma anche tra un in-dividuo e l’altro. Forse gli jahai hanno svi-luppato più recettori, o una maggiore va-rietà. Probabilmente come gli tsimané della foresta boliviana, che sono risultati più sensibili dei tedeschi agli odori. “Fin-ché non avremo compiuto studi simili su molte altre culture, non potremo risponde-re a tutte le domande”, dice Nicholas evans, psicologo e biologo specializzato in differenze delle strutture linguistiche all’Australian national university di Can-berra. “Questo studio, però, è servito a get-tare le basi”. u sdf

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Internazionale 1035 | 24 gennaio 2014 89

IN BREVE

Spazio Dopo un silenzio di 31 mesi, come previsto, si è riatti-vata la sonda dell’Esa Rosetta , in previsione del suo appunta-mento il prossimo agosto con la cometa 67P/Churyumov–Gera-simenko. Dopo uno studio della supericie della cometa, a no-vembre la sonda dovrebbe in-viare sulla supericie di 67P/Churyumov–Gerasimenko il ro-bot Philae. Fisica I fulmini globulari, le sfe-re luminose visibili per brevissi-mi momenti, potrebbero essere causati dal materiale che viene vaporizzato quando un fulmine colpisce il suolo. Il fenomeno è stato descritto con precisione da uno studio pubblicato su Physi-cal Review Letters.

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SALUTE

Tbc fuori controllo negli ospedali sudafricani man-cano i letti, e così i malati di tu-bercolosi spesso sono rimandati a casa. un gruppo di ricercatori ha ricostruito la storia di 107 pa-zienti con tbc resistente, ricove-rati in tre province diverse. Più di 40 avevano anche l’aids. Do-po cinque anni, nonostante la terapia intensiva con otto diver-si farmaci per la tubercolosi, 79 sono morti. solo 12 sono guariti. Considerato che la maggior par-te di loro viveva in condizioni di-sagiate, in case con un solo letto per tutta la famiglia, il rischio di contagio era molto elevato e le probabilità di guarigione scarse. Per arrestare la tbc in sudafrica e la difusione di forme multire-sistenti, commenta The Lan-cet, servirebbero nuovi farmaci e case di cura per lunghe degen-ze e cure palliative.

BIOLOGIA

La famiglia prima di tutto Quando si tratta di riproduzio-ne, i fratelli collaborano invece di entrare in competizione. Al-meno tra i moscerini della frut-ta. A trarne vantaggio è anche la femmina, che quando si accop-pia con gruppi di fratelli invece che con moscerini non imparen-tati aumenta il suo successo ri-produttivo. Lo studio, scrive na-ture, conferma la teoria secondo la quale la selezione parentale (la strategia evolutiva che favo-risce il successo riproduttivo dei parenti di un organismo) può in-luenzare la itness di una popo-lazione.

Nucleare

Istruzioni di salvataggio

Cosa è meglio fare in caso di attacco nucleare? è la domanda che si è posto Michael Dillon, scienziato atmosferico del Lawrence Livermore national laboratory in California. se si sopravvive allo scoppio iniziale, si deve cercare di evitare il fallout, la pioggia di materiale radioattivo. Bisogna quindi chiudersi in un rifugio

sotterraneo adeguato, cioè protetto da uno strato spesso di cemento, con impianti di ventilazione isolati e scorte alimentari. E se ci si trova lontani dal rifugio? Ipotizzando una bomba atomica di bassa potenza, paragonabile a quelle di Hiroshima o nagasaki, e un ambiente urbano densamente popolato, la migliore strategia dipende dal tipo di rifugio disponibile e dalla sua vicinanza. se un rifugio di buona qualità è raggiungibile entro cinque minuti, bisognerebbe andarci subito. Ma se il rifugio più adeguato fosse raggiungibile in un quarto d’ora, allora sarebbe meglio cercare prima un riparo qualsiasi, anche scadente, e dopo mezz’ora spostarsi nel rifugio migliore. In teoria, in questo modo si potrebbero salvare tra le diecimila e le centomila vite. Il modello matematico di Dillon, però, non considera tutte le variabili e trascura gli efetti reali di un’esplosione, come il panico o la percorribilità delle strade. u

Proceedings of the Royal Society A, Regno Unito

Il volo dell’ibisGli uccelli migratori volano in formazione a V per minimizzare i co-sti energetici. Lo studio di un piccolo stormo di ibis eremita in volo, scrive nature, ha rivelato che gli animali coordinano il battito delle ali in modo estremamente preciso e riescono a sfruttare la spinta verso l’alto, evitando quella verso il basso, che deriva dagli animali che li precedono in formazione. u

Biologia

SALUTE

Niente alcolse si guida Guidare in stato di ebbrezza è pericoloso anche con un tasso alcolemico inferiore al limite le-gale. uno studio pubblicato su Injury Prevention ha esami-nato 570.731 incidenti stradali mortali registrati tra il 1994 e il 2011 nel database del Fatality analysis reporting system statu-nitense. ne è emerso che il gui-datore leggermente brillo, con un tasso alcolemico dello 0,01 per cento, ha una probabilità maggiore del 46 per cento di es-sere responsabile dell’incidente rispetto al guidatore sobrio coin-volto nello scontro. negli stati uniti il tasso alcolemico consen-tito alla guida è dello 0,08 per cento. In Europa è dello 0,05 per cento.

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Il diario della Terra

Australia

IsoleSalomone

6,5 M

Stati Uniti5,1 M

Messico5,6 M

47,2°CMardie,

Australia

Stati Uniti4,6 M

-51,7°CVerkhoyansk,

Russia

Canada

Stati Uniti4,2 M

Messico

Messico Cina5,1 M

Pakistan6,8 M

NuovaZelanda

6,3 M

Stati Uniti

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SveziaStati Uniti4,5 M

NuovaZelanda

Colin

Indonesia

Brasile

Australia

Australia

Stati Uniti

Guatemala

Romania4,2 M

Puerto Rico6,4 M

Ci sono cinque modi per ribel-larsi al rincaro dell’energia elettrica, scrive El País. Spinti soprattutto da motivi econo-mici, gli spagnoli stanno ricon-siderando le loro abitudini. Un primo passo è verificare le ta-riffe disponibili sul mercato: spesso le cooperative o le pic-cole aziende offrono tariffe concorrenziali rispetto alle grandi società. È anche possi-bile scegliere un fornitore “verde”, che venda cioè ener-gia da fonti rinnovabili. Un se-condo passo è cercare di con-sumare meno, spegnendo gli apparecchi, compresi quelli in standby. Ma a volte i costi fissi sono così elevati che scorag-giano lo sforzo di ridurre i con-sumi. Una terza idea è abbas-sare la potenza contrattuale, obbligandosi a tenere acceso un numero ridotto di apparec-chi, e controllare la potenza scegliendo i più efficienti.

La quarta possibilità è l’au-toproduzione. Dal 2008 in Spagna il costo dei pannelli so-lari è diminuito dell’80 per cento mentre quello dell’ener-gia elettrica è aumentato del 56 per cento. Un kit da 250 watt costa circa 500 euro, ma il problema è l’allacciamento al-la rete. Il governo spagnolo esi-ge una costosa tassa sui chilo-wattora solari e addebita oneri di sistema per l’uso della rete, condizione che rende i piccoli impianti solari non convenien-ti. Infine, la soluzione più dra-stica è il distacco dalla rete. Un esempio è il sistema ibrido in-stallato da una famiglia a Ma-drid: pannelli solari per un to-tale di 5.700 watt, batterie e un piccolo gruppo elettrogeno. I costi dell’impianto dovrebbero essere recuperati in sette anni.

Strategieantibolletta

Ethical living

Alluvioni Almeno 19 per-sone sono morte nelle alluvio-ni causate dalle forti piogge che hanno colpito l’isola di Su-lawesi, in Indonesia. Altre cin-que persone sono morte nella capitale Jakarta, dove 30mila persone sono rimaste senza casa. u Dodici persone sono morte negli allagamenti nello stato di São Paulo, in Brasile.

Terremoti Un sisma di ma-gnitudo 6,3 sulla scala Richter ha colpito la Nuova Zelanda, senza causare vittime. Altre scosse sono state registrate a Puerto Rico, nell’ovest degli Stati Uniti e in Romania. Incendi Gli incendi nel sud dell’Australia hanno distrutto più di centomila ettari di vege-tazione. u Nella regione di Los Angeles, nell’ovest degli Stati Uniti, un incendio ha costretto più di duemila persone a la-sciare le loro case.

Frane Undici persone sono

morte nelle frane che hanno colpito la città di Bukavu, nell’est della Repubblica De-mocratica del Congo.

Cicloni Il ciclone Colin si è formato nell’oceano Indiano centrale.

Vulcani Il risveglio del vulcano Pacaya, in Guatema-la, ha costretto decine di persone a lasciare le loro case.

Montagne Il monte Cook, la vetta più alta della Nuova Zelanda, è 30 metri più basso di quello che si pensava. Se-condo un nuovo studio topo-graico, la montagna sarebbe alta 3.724 metri.

Squali Il governo austra-liano ha autorizzato l’ucci-sione degli squali vicino alle spiagge più frequentate della costa ovest dopo una serie di attacchi mortali. La decisio-ne è stata contestata dagli animalisti locali.

Renne Un treno ha investi-to e ucciso 48 renne in Lappo-nia, nel nord della Svezia.

Clima Gli eventi estremi, come cicloni, siccità, incendi e alluvioni, legati al fenomeno climatico El Niño, divente-

ranno più frequenti. Secondo Nature Climate Change, a causa del riscaldamento climatico e dell’aumento della temperatura di super-icie dell’oceano Paciico, la frequenza di questi eventi potrebbe raddoppiare nel corso del secolo. u Il 2013 è stato uno degli anni più caldi dal 1880, hanno annunciato la Nasa e l’agenzia atmosferica statunitense. La temperatura media è stata di 14,52 gradi, 0,62 gradi in più rispetto alla media del ventesimo secolo.

Gas serra La Commissione europea ha proposto che i 28 stati dell’Unione si diano come obiettivo una riduzione del 40 per cento delle emis-sioni di gas serra, rispetto al 1990, entro il 2030. L’Unione europea è responsabile dell’11 per cento delle emissioni globali.

Epidemie Da ottobre del 2010 a oggi, l’epidemia di colera ad Haiti ha infettato 680mila persone e ne ha uc-cise 8.330. Nel 2013 sono stati registrati 65mila nuovi casi, la cifra più bassa dall’inizio dell’epidemia, ma si teme che nel 2014 possano raddoppiare a causa della mancanza di fondi per la prevenzione.

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u Il iume Missouri nasce sulle Montagne rocciose del Monta-na occidentale e scorre verso sudest per 3.767 chilometri ino alla conluenza con il Mississip-pi, a nord di Saint Louis, nello stato del Missouri.

Il corso del iume non proce-de dritto verso sudest, ma crea molte anse come quella che si vede in questa foto scattata dal-la Stazione spaziale internazio-nale. L’ansa ospita il lago Shar-pe, un bacino idrico lungo circa 130 chilometri che si è formato dietro alla diga Big bend nei pressi di Lower Brule, nel South Dakota.

Via via che si sviluppano, le

anse tendono ad assumere la caratteristica forma a U. Con il tempo l’alveo del iume può continuare a erodere le estre-mità della U, avvicinandole così tanto da farle toccare per ab-breviare il suo corso eliminan-do l’ansa. Quando succede, l’ansa non fa più parte dell’al-veo attivo del iume e può di-ventare un meandro morto.

La lingua di terra (in basso, sulla destra) di quest’ansa è lar-ga circa un chilometro. Più a valle, però, il lusso del iume è controllato dalla diga Big bend, quindi il processo naturale di erosione è stato notevolmente rallentato.

La supericie del lago, ghiac-ciata e coperta di neve, appare di un bianco uniforme. A di-cembre 2013 le temperature nel South Dakota hanno raggiunto i 19° sottozero. Il manto nevoso mette in risalto anche i campi coltivati circolari sulla piccola penisola all’interno dell’ansa. La forma di questi campi indica la presenza di un’irrigazione a pivot centrale, in cui l’acqua è distribuita a raggiera tramite spruzzatori a partire dal centro.

Secondo i dati del CropSca-pe del dipartimento dell’agri-coltura statunitense, qui si col-tivano soprattutto mais e soia. –William L. Stefanov

Il lago Sharpe si trova in un’ansa del iume Missou-ri, il più lungo del Norda-merica. Le basse tempera-ture hanno gelato la sua su-pericie.

Il pianeta visto dallo spazio 26.12.2013

Il lago Sharpe ghiacciato, nel South Dakota

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Economia e lavoro

Dal 2007 l’economia etiope con-tinua a crescere con percen-tuali a due cifre, e gli esperti dell’Economist prevedono che

nei prossimi dieci anni il pil aumenterà a un tasso compreso tra il 7 e l’8 per cento. I piani di sviluppo di Addis Abeba puntano sul set-tore tessile: entro il 2016 il paese dovrà esportare capi per un miliardo di dollari. Quindi non sorprende che aziende come H&M investano in Etiopia. Secondo le rive-lazioni di un fornitore della catena svedese, l’azienda ha intenzione di produrre un mi-lione di vestiti al mese nel paese africano. Una portavoce del gruppo ha confermato che sono già stati firmati dei contratti di prova con alcune fabbriche etiopi. In passa-to molti marchi del settore hanno trasferito buona parte della produzione in paesi con bassi livelli salariali come il Bangladesh e la

Cina. Ma visto che in quell’area si raforza-no le norme a tutela dei lavoratori, aumen-tano gli stipendi e l’opinione pubblica è sempre più attenta alle condizioni delle fab-briche, le aziende cercano di trasferirsi in posti ancora più economici e con una quan-tità suiciente di manodopera.

In Africa i paesi più importanti per il confezionamento di abiti sono il Marocco e la Tunisia, dove si producono soprattutto articoli a buon mercato. L’Etiopia è invece un’opzione migliore, osserva Thomas Ball-weg, consulente di GermanFashion, la fe-derazione dell’industria della moda tede-sca. Il paese presenta una serie di vantaggi: “Da un lato i costi sono molto più bassi di quelli della Cina, e dall’altro l’Etiopia, con i suoi ottanta milioni di abitanti, è un buon bacino per la manodopera. E poi il mare è vicino, e attraverso il canale di Suez si rag-giunge in fretta l’Europa”. I tempi di conse-gna sarebbero un terzo di quelli necessari dall’estremo oriente. Inoltre, in Etiopia e nei paesi coninanti le condizioni climati-che consentono la coltivazione del cotone, che permetterebbe di evitare la costosa im-portazione delle stofe.

Secondo l’associazione nazionale etiope dei fabbricanti di tessuti e abbigliamento,

oltre alla svedese H&M in Etiopia produco-no vestiti anche la catena britannica di su-permercati Tesco e il discount irlandese di abbigliamento Primark. Alcuni osservatori, però, temono che il paese possa trasformar-si in un altro Bangladesh, dove le condizioni di lavoro del settore tessile continuano a essere scandalose e si moltiplicano le noti-zie di crolli o incendi di stabilimenti con molte vittime.

Pessime stradeIn Etiopia l’industria tessile vanta una lunga tradizione. Le prime fabbriche furono co-struite nel 1939, quando il paese era ancora occupato dall’Italia fascista. Per quanto ob-soleti, alcuni di quegli impianti sono ancora in funzione. Ma il problema è che nel paese le infrastrutture sono poco sviluppate, le strade pessime e solo il 15 per cento della popolazione è allacciato alla rete elettrica.

H&M, comunque, ha precisato che i suoi principali stabilimenti produttivi in Asia non saranno ridimensionati. Secondo GermanFashion, l’Etiopia non si trasfor-merà di punto in bianco in un nuovo punto nevralgico dell’industria tessile, che nel pa-ese è ancora troppo piccola per rivestire un ruolo di rilievo: dei tredici miliardi di euro di fatturato derivanti ogni anno dall’impor-tazione di vestiti in Germania, l’Etiopia in-cassa solo una parte minuscola, inferiore all’1 per mille. u fp

Il settore tessilepunta sull’Etiopia

Il colosso dell’abbigliameno H&M vuole produrre i suoi capi nel paese africano, dove il costo del lavoro è molto più basso rispetto all’Asia. Ma c’è il rischio di un nuovo Bangladesh

Martin Koch, Deutsche Welle, Germania

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Addis Abeba, Etiopia

u “Penso che nell’Africa subsahariana ci sia un enorme potenziale in termini di produzione. Abbiamo cominciato su piccola scala in Etiopia e adesso vediamo come va. È molto interes-sante”, ha dichiarato Karl-Johan Persson, amministratore delegato di H&M, al quotidia-no inanziario svedese Dagens Industri. Il ca-po della multinazionale ha precisato che l’Etio-pia e il resto dell’Africa sono interessanti sia come luogo di produzione sia come mercato per l’espansione delle vendite. “Il prossimo an-no”, scrive il Dagens Industri, “H&M prevede di aprire più negozi nell’Africa subsahariana che in Sudafrica”. Lo stesso Persson ha preci-sato: “Molti paesi africani stanno crescendo rapidamente e hanno una classe media in espansione e un enorme potenziale per le ven-dite”. L’amministratore delegato ha concluso confermando che per il momento “l’Africa avrà un ruolo complementare rispetto alla pro-duzione di H&M in Cina, in Bangladesh e in Cambogia”.

Da sapere Espansione delle vendite

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UNIONE EUROPEA

Benessere in declino Se non saranno attuate profon-de riforme economiche, nel 2023 gli standard di vita dell’eu-rozona saranno più bassi rispet-to a quelli registrati nella metà degli anni sessanta. La previsio-ne, contenuta nel rapporto tri-mestrale della Commissione europea, smentisce le dichiara-zioni confortanti dei leader eu-ropei sulla stabilità e la ripresa economica, sottolinea il Finan-cial Times. Inoltre, mette in di-scussione il peso dell’Europa nel mondo e la sua alleanza con gli Stati Uniti. La distanza tra i due blocchi è aumentata a partire dalla metà degli anni novanta, quando gli Stati Uniti hanno co-minciato a intensiicare la pro-duttività e ad adottare tecnolo-gie avanzate. Nel 2023 gli stan-dard di vita nell’eurozona po-trebbero ridursi al 60 per cento di quelli statunitensi. Le cause del divario sarebbero la minore produttività del lavoro e le dife-renze nei tassi di occupazione e nelle ore lavorate.

IN BREVE

Cina La banca centrale cinese ha iniettato liquidità nei princi-pali istituti di credito del paese per evitare che restino a corto di contanti durante i giorni del ca-podanno cinese, che quest’anno si celebra il 31 gennaio. In quel periodo si registra un forte au-mento della domanda di con-tanti da parte dei consumatori. La decisione mira anche a ridur-re i tassi d’interesse dei prestiti interbancari, che a gennaio so-no passati dal 4 al 6,5 per cento.

GRECIA

Tagli illegittimi In Grecia le misure d’austerità che gravano sui bilanci delle for-ze armate e della polizia pongo-no dei dubbi di legittimità costi-tuzionale. Le associazioni di ca-tegoria dei militari e delle forze dell’ordine hanno presentato ri-corso sostenendo che le norme sono retroattive, superano il li-mite massimo per i tagli agli sti-pendi – che ormai non assicura-no una vita dignitosa – e violano il principio di proporzionalità tra i lavoratori. Il consiglio di stato ha accolto il ricorso, ma solo nei prossimi mesi stabilirà di quanto devono essere ridotti i tagli.

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Il numero Tito Boeri

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Secondo le ultime stime dell’Istat, il valore delle esportazioni italiane tra gen-naio e novembre del 2013 è stato di 354 miliardi di euro. Il dato è passato inosservato, ma si tratta di un calo non irri-levante: lo 0,5 per cento in meno rispetto al 2012. È anco-ra più forte il calo nella quan-tità di beni italiani esportati all’estero: meno 1,5 per cento.

La riduzione è legata so-prattutto alle esportazioni ita-liane verso alcuni paesi extra-comunitari. Si tratta in parti-colare delle economie asiati-che, tra cui la Cina e paesi

dell’asean (associazione del-le nazioni del sudest asiatico) come Indonesia, Malesia, Fi-lippine e Singapore. È proprio dalle esportazioni che do-vrebbe arrivare la spinta alla ripresa in Italia, dal momento che, con quasi nove milioni di cittadini in disagio occupazio-nale (persone disoccupate, la-voratori scoraggiati, dipen-denti a orario ridotto), la do-manda interna è debole.

Come spiega Francesco Daveri su lavoce.info, se le esportazioni complessive del 2013 registrassero il segno meno sarebbe diicile ottene-

re un segno positivo del pil nel quarto trimestre, e il 2014 partirebbe sotto cattivi auspi-ci. È urgente quindi interveni-re a sostegno delle imprese che esportano. Non solo a li-vello iscale ma anche attra-verso la sempliicazione dell’eccessiva burocrazia, che riduce l’eicienza delle azien-de italiane.

Servono inoltre delle mo-diiche ai regimi di contratta-zione. Purtroppo nella legge di stabilità appena approvata non sono state inserite misure che vanno in questa direzio-ne. u

Il governo argentino ha introdotto nuove restrizioni agli acquisti online. Per ogni prodotto comprato su un sito web internazionale, spiega Página 12, bisognerà compilare una dichiarazione con i dati dell’acquirente e della merce. La misura è un ulteriore strumento adottato per arginare la fuga delle riserve di valuta pregiata, che nel 2013 sono diminuite del 30 per cento. Già ora in argentina i prodotti comprati su siti come eBay o amazon non sono consegnati a casa, ma in un uicio pubblico. agli acquisti sopra 25 dollari, inoltre, si applica una tassa del 50 per cento. u

Argentina

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Il magazzino di Amazon a Phoenix, Stati Uniti

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94 Internazionale 1035 | 24 gennaio 2014

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Internazionale 1035 | 24 gennaio 2014 95

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DAI, SBRIGATI! DOBBIAMO FERMARE IL SERPENTE DI MARE PRIMA CHE CATTURI MIA

SORELLA!

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SÌ, SÌ, HO FINITO. DEVO SOLO

PORTARE FUORI LA SPAZZATURA.

E ADESSO DOVE TE NE VAI CON TUTTA QUELL’IMMONDIZIA? LASCIALA LÌ E BASTA, TANTO NON TI VEDE NESSUNO

TRANNE UN PAIO DI PESCI!

E PENSI CHE LASCEREI QUESTI RIFIUTI PUZZOLENTI IN GIRO PER IL MIO BEL MARE? A COSA CREDI CHE SERVANO LE

SPIAGGE?

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L’oroscopo

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inutile, ma che soprattutto ti farà molto comodo.

VERGINE

I cani hanno un olfatto ec-cezionale, molto superiore

a quello degli esseri umani. Ma an-che il nostro non è così male. Sen-tiamo l’odore di certe sostanze an-che se sono diluite a livello di una molecola su cinque miliardi. Per esempio, se ci trovassimo vicino a due piscine olimpiche e una conte-nesse qualche goccia di una so-stanza chimica chiamata etantiolo, sapremmo subito qual è delle due. Ti invito a esercitare questa sensi-bilità, Vergine. C’è una situazione che per ora è in fase iniziale ma che, se la lascerai evolvere, prima o poi emanerà un fetore terribile. Mentre ce n’è un’altra che alla ine produrrà una piacevole fragranza. Ti consiglio di fuggire dalla prima e di fare tesoro della seconda.

BILANCIA

Qualunque avventura si presenterà sulla tua strada

nelle prossime settimane, Bilan-cia, spero che la giudicherai per quello che è: incontrollabile ma fondamentalmente positiva; di-rompente ma in modo da provoca-re cambiamenti graditi; un po’ più emozionante di quanto vorresti, ma alla ine abbastanza piacevole. Ti piacciono i paradossi? Sai ap-prezzare l’imprevedibilità? Io pen-so di sì. Quando tra due mesi ri-penserai a queste svolte nella tua vita, scommetto che le considere-rai episodi divertenti che rendono più mitico il tuo eroico viaggio. Le vedrai come doni che indiretta-mente ti hanno rivelato preziosi segreti sul codice della tua anima.

SCORPIONE

La preparazione delle gela-tine di frutta si svolge in

cinque fasi e richiede una settima-na di tempo. Ogni caramella deve essere costruita strato per strato, e ogni strato ha bisogno di tempo per consolidarsi. Chissà che tu non debba afrontare presto un compi-to simile, Scorpione. Posso fare un’ipotesi? Un piacere semplice ti aspetta: prenditi tutto il tempo ne-cessario, procedi con cura e presta la massima attenzione ai dettagli.

SAGITTARIO

Capisco il fascino dell’im-precazione che comincia

per “c” e inisce per “o”. È una per-versa forma di celebrazione che aiuta chi la pronuncia a liberarsi dalle inibizioni. Ma ti annuncio che come simbolo di rivolta è su-perata. È diventata un cliché. La sua morte uiciale per saturazione è arrivata con l’uscita del colossal hollywoodiano The wolf of Wall street. Nel ilm gli attori la pronun-ciano più di cinquecento volte. In-carico voi Sagittari di cercare nuo-vi modi per esprimere ribellione e irriverenza. Chissà quali interes-santi peridie e quali giochi di pa-role inventerete per liberarvi delle vostre inibizioni, infrangere i tabù che vanno infranti e ricordare agli altri la loro ipocrisia.

CAPRICORNO

Il ilosofo tedesco Imma-nuel Kant (1724-1804) ha

inluito molto sullo sviluppo del pensiero occidentale. Potremmo dividere la storia della ilosoia in due ere: quella prekantiana e quel-la postkantiana. Eppure nei suoi 79 anni di vita questo grande pen-satore è rimasto sempre nel raggio di una quindicina di chilometri da Konigsberg, la cittadina dove era nato. Kant era metodico, seguiva una precisa routine e si dedicava al suo lavoro con grande meticolosi-tà. Nelle prossime settimane voi Capricorni potreste essere come lui. Se vi atterrete ai ritmi collau-dati che vi mantengono in buona salute e con i piedi ben piantati a terra, produrrete inluenti meravi-glie.

PESCI

Quando sarò più vecchio e più saggio, forse capirò il si-

gniicato della mia vita. Forse co-mincerò a intuire perché trovo così esaltante la vita anche se il mio de-stino è così assolutamente miste-rioso. E tu Pesci? Cosa cambierà per te quando sarai più vecchio e più saggio? Mi sembra un ottimo momento per pensarci, perché for-se avrai la possibilità di intravede-re che tipo di persona diventerai quando sarai più vecchio e più sag-gio, e sarà un incentivo in più per diventarlo.

ACQUARIOGeorge Simenon (1903-1989) era dell’Acquario. Pubbli-cò più di duecento romanzi con il suo nome e altri tre-cento sotto pseudonimo. In media ne scriveva uno ogni

undici giorni, e le sue opere sono state stampate in mezzo miliar-do di copie. Non penso che sarai mai proliico nel tuo campo quanto Simenon lo è stato nel suo. Ma, se sei disposto a lavorare sodo, nel 2014 la tua produttività potrebbe raggiungere livelli sorprendenti. Questa lussureggiante fertilità non ti verrà facile come a lui, ma dovresti essere felicissimo di avere almeno le po-tenzialità per essere così fecondo.

COMPITI PER TUTTI

Come potresti cambiare te stesso per avere tutto l’amore che desideri?

ARIETE

L’attore Casey Aleck ap-prezza molto l’afettuoso so-

stegno delle persone che ama. “La mia famiglia mi appoggerebbe an-che se volessi diventare un marzia-no, indossare bucce di banana, fa-re l’amore con i posacenere e man-giare la corteccia degli alberi”, di-ce. Mi piacerebbe che coltivassi al-leanze simili nei prossimi mesi, Ariete. Anche se non le hai avute inora, hai buone probabilità di trovarle. Per essere sicuro del ri-sultato, pensa bene a quale potreb-be essere la tua famiglia. Rideini-sci il tuo concetto di “comunità”.

TORO

Lo scrittore John Koenig di-ce che spesso dividiamo le

emozioni in positive o negative. Per esempio, provare rispetto è po-sitivo, mentre essere devastati dal-la gelosia è negativo. Lui preferisce fare una distinzione basata sull’in-tensità. A un’estremità dello spet-tro delle emozioni tutto ci sembra insulso e banale, anche le cose im-portanti. “All’altra estremità c’è la meraviglia”, dice. “Tutto ci fa sen-tire vivi, perino le piccole cose”. In questo momento, Toro, devi cercare il secondo tipo di emozio-ni: quelle più intense e vitali. Per fortuna, l’universo congiura per aiutarti a raggiungerle.

GEMELLI

Yee-Lum Mak nel suo blog other-wordly.tumblr. com

deinisce così la parola svedese re-sfeber: “L’inquieto batticuore del viaggiatore prima della partenza, quando ansia e anticipazione s’in-trecciano”. Potrebbe essere il tuo stato d’animo, Gemelli. Anche se

non stai per afrontare un vero viaggio, presto partirai per una ri-cerca o un’avventura che avvicine-rà di più tra loro il tuo cuore e la tua mente. Paradossalmente, t’inse-gnerà a rimanere di più con i piedi per terra. Bon voyage!

CANCRO

Come fa una farfalla mo-narca a liberarsi della sua

crisalide alla ine della gestazione? Attraverso i minuscoli fori nel gu-scio della crisalide, respira profon-damente l’aria e la manda nel suo sistema digestivo per farlo espan-dere: il suo corpo diventa talmente grande che riesce a liberarsi. Quando un pulcino è pronto per uscire dall’uovo, invece, fatica molto di più. Deve battere migliaia di volte sul guscio con il becco e fermarsi ogni tanto per riposare. Secondo la mia analisi dei presagi, Cancerino, ti avvicini alla fase i-nale della tua metaforica gestazio-ne. Sarai come la farfalla o come il pulcino?

LEONE

“Non so cosa fare. Ho biso-gno di aiuto”. Ti consiglio

di pronunciare queste parole a vo-ce alta, Leone. Anche se non sei si-curo che sia la verità, comportati come se lo fosse. Esprimere incer-tezza e chiedere aiuto ti farebbe bene. Ti solleverebbe dall’oppri-mente necessità di essere sempre un maestro nel risolvere i proble-mi. Ti libererebbe dalla convinzio-ne poco realistica che devi sempre fare tutto da solo. E questo, come per magia, ti porterebbe oferte in-teressanti. In altre parole, se con-fessi di averne bisogno, riceverai un aiuto che forse in parte sarà

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L’ultima

“Sua santità è pronto a ricevervi”.

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“Non avreste delle pallottole biologiche?”.

Siria, apertura della conferenza Ginevra 2: “Ah no, qui è Davos, Montreux è più giù”.

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Obama e l’Nsa.

“Se non possiamo cambiare orizzonte, cambiamo prospettiva”.

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Le regole La coperta1 una coperta troppo piccola su un letto matrimoniale può portare al divorzio. 2 Non importa se è luglio, guardare la tv avvolto in un plaid è tutta un’altra cosa. 3 Ti senti un peso sui polmoni? È ora di buttare la coperta rigida e infeltrita di tua nonna. 4 Se sei la protagonista di un ilm romantico, avvolgiti il piumone sotto le ascelle prima di alzarti dal letto. 5 la termocoperta è una goduria, ino a quando non prende fuoco. [email protected]

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