Internazionale N.1034!17!23 Gennaio 2014

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VISTI DAGLI ALTRI La discarica della camorra SCIENZA Un mondo senza vita SOCIETÀ Le donne sono il futuro dell’Africa PI, SPED IN AP, DL ART DCB VR ESTERO: DE BE CH internazionale.it Ormai negli Stati Uniti la questione non è più se legalizzare la marijuana, ma come creare un mercato regolamentato che tuteli i consumatori L’erba del vicino OGNI SETTIMANA IL MEGLIO DEI GIORNALI DI TUTTO IL MONDO GENN N. CARTA WEB TABLET SMARTPHONE Chimamanda Ngozi Adichie • Will Hutton • Ahmed Rashid • Bill Ke ller VIS VISTI TI DAG DAGLI LI ALT A RI R La discarica della camorra SC SCI IENZ ENZ NZA A Un mondo senza vita SO SOC CIET IETÀ Le donne sono il futuro dell’Africa PI, SPED IN AP, DL ART DCB VR ESTERO: DE BE CH CHF internazionale.it OGNI SETTIMANA IL MEGLIO DEI GIORNALI DI TUTTO IL MOND D D DO O O O GENN N. , CARTA WEB TABLET SMARTPHONE Chimamanda N g ozi Adi c hi e Wi i l l l l l l l l l l l l H H H H H H H H H Hu u u u u ut t t t t t t t t o o o o on n n n n n n A A A A A A Ah h h h h hm m m m m me ed d d d d d R R R R Rashid Bil l Keller

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VISTI DAGLI ALTRI

La discaricadella camorra

SCIENZA

Un mondo senza vita

SOCIETÀ

Le donne sono il futuro

dell’Africa

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Ormai negli Stati Uniti la questione non è più se legalizzare la marijuana, ma come creare un mercato regolamentato che tuteli i consumatori

L’erba del vicino

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Chimamanda Ngozi Adichie • Will Hutton • Ahmed Rashid • Bill Keller

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La discaricadella camorra

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Internazionale 1034 | 17 gennaio 2014 3

Sommario

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ario

La settimana

17/23 gennaio 2014 • Numero 1034 • Anno 21

frANciA12 L’esercito

di Dieudonné Le Monde

germANiA14 Amburgo

zona rossa Die Zeit

AsiA e pAcifico18 La democrazia

tailandese è in pericolo The Diplomat

AfricA e medio orieNte22 Egitto

Daily News Egypt

Americhe24 Venezuela Prodavinci

visti dAgli Altri26 La discarica

della camorra Les Echos

ciNA40 Far west cinese

China File

scieNzA47 Un mondo

senza vita New Scientist

società50 Le donne sono

il futuro dell’Africa Der Spiegel

portfolio54 A Rosarno il tempo

si è fermato Giulio Piscitelli

viAggi60 Charleston

e dintorni Süddeutsche Zeitung

ritrAtti64 Vitalij Kličko Itogi

grAphic jourNAlism68 Wudaokou Dorit Magidor

ciNemA70 Una lezione

per tutti Lee Marshall

pop82 Cambiamento

di programma Chimamanda

Ngozi Adichie84 Per imparare

sempre Robert Twigger

iN copertiNA

L’erba del vicinoOrmai negli Stati Uniti la questione non è più se legalizzare la marijuana, ma come creare un mercato regolamentato. The New York Times (p. 32), The Nation (p. 34), The Guardian (p. 39). Foto di Robyn Twomey (Courtesy Patricia Sweetow Gallery).

scieNzA88 Vietato difondere

The Economist

ecoNomiA e lAvoro

92 La globalizzazione non garantisce la pace

Tages-Anzeiger

cultura72 Cinema, libri,

musica, video, arte

Le opinioni

23 Amira Hass

31 Will Hutton

74 Gofredo Foi

76 Giuliano Milani

78 Pier Andrea Canei

80 Christian Caujolle

86 Tullio De Mauro

93 Tito Boeri

le rubriche10 Posta

11 Editoriali

96 Strisce

97 L’oroscopo

98 L’ultima

La discaricadella camorra

Un mondo senza vita

Le donne sono il futuro

dell’Africa

internazionale.it

Ormai negli Stati Uniti la questione non è più se legalizzare la marijuana, ma come creare un mercato regolamentato che tuteli i consumatori

L’erba del vicino

Chimamanda Ngozi Adichie • Will Hutton • Ahmed Rashid • Bill Keller

La discaricadella camorra

Un mondosenza vita

Le donnesono il futuro

dell’Africa

internazionale.it

Chimamanda Ngozi Adichie • Wiillllllllllll HHHHHHHHHHuuuuuutttttttttooooonnnnnnn •••• AAAAAAAhhhhhhmmmmmmeedddddd RRRRRashid • Bill Keller

China File È un magazine online specializzato in articoli sulla Cina pubblicato dalla Asia Society di New York. L’articolo a pagina 40 è uscito il 25 settembre 2013 con il titolo The strangers. The Diplomat Fondata nel 2001, è una rivista online con sede a Tokyo che propone articoli di approfondimento sull’attualità asiatica. L’articolo a pagina 18 è uscito il 10 gennaio 2014 con il titolo Thailand on the brink. Itogi È un settimanale russo di attualità, politica ed economia. L’articolo a pagina 64 è uscito il 9 dicembre 2013 con il titolo V udare. The Nation È un settimanale statunitense indipendente e

progressista. L’articolo a pagina 34 è uscito il 30 ottobre 2013 con il titolo Let a thousand lowers bloom: the populist politics of cannabis reform. Der Spiegel Fondato nel 1947, è un settimanale tedesco indipendente. L’articolo a pagina 50 è uscito il 2 dicembre 2013 con il titolo Die Zukunft ist weiblich. Internazionale pubblica in esclusiva per l’Italia gli articoli dell’Economist.

le principali fonti di questo numero

Articoli in formato mp3 per gli abbonati

“Il vero maestro non ha nessuno strumento, solo un’ininita capacità d’improvvisare

con quello che si trova a disposizione”robert twigger, pAgiNA

John Lloyd ha scritto sulla Reuters che i giornalisti sono condannati all’irrilevanza. Da Barack Obama a papa Francesco, passando per il premier indiano Manmohan Singh, che in dieci anni ha fatto solo tre conferenze stampa, i leader politici di tutto il mondo hanno capito che non hanno più bisogno dei giornalisti per far sapere all’opinione pubblica quello che pensano. Usano internet e i social network per parlare direttamente agli elettori. E così possono permettersi di riiutare ogni contatto con i mezzi di informazione. Paul Steiger, fondatore di ProPublica, la più grande redazione giornalistica investigativa degli Stati Uniti, ha spiegato che Obama sta facendo esattamente questo. Se poi si aggiungono i sistemi di sorveglianza e di controllo di massa, che colpiscono tutti e quindi anche i giornalisti, il quadro appare davvero fosco. L’unica consolazione è che forse anche quello che dicono i politici rischia di diventare irrilevante. Soprattutto se i giornalisti usciranno più spesso dalle redazioni per raccontare il mondo, denunciare le ingiustizie e gli abusi, ristabilendo così un legame forte con i lettori. u

irrilevante

Giovanni De Mauro

Immagini

Tutti a casaBangui, Repubblica Centrafricana13 gennaio 2014

L’arrivo in una base militare a Bangui di Alexandre-Ferdinand Nguendet, presi-dente ad interim della Repubblica Cen-trafricana dopo le dimissioni di Michel Djotodia il 10 gennaio. L’uscita di scena di Djotodia, l’ex capo della coalizione ribelle che ha preso il potere nel marzo del 2013, ha scatenato nuove violenze nella capitale e nel nordovest del paese. Il 12 gennaio Nguendet ha ordinato ai soldati che avevano abbandonato le loro postazioni di rientrare nelle caserme e ha invitato i civili a tornare a casa. L’Onu stima che metà della popolazione cen-trafricana, 2,2 milioni di persone, abbia bisogno di aiuti urgenti. Foto di Eric Fe-ferberg (Afp/Getty Images)

Immagini

Paralisi tailandeseBangkok, Thailandia14 gennaio 2014

Il 13 gennaio i sostenitori dell’opposizio-ne sono tornati per le strade di Bangkok con l’obiettivo di paralizzare la città. I manifestanti, guidati dall’ex esponente del Partito democratico Suthep Thuag-suban, hanno minacciato che la prote-sta continuerà inché il governo non si dimetterà. In realtà il blocco della capi-tale non è riuscito del tutto e l’attività di governo è proseguita. Il 15 gennaio la prima ministra Yingluck Shinawatra, dopo una riunione con diversi esponen-ti politici boicottata dall’opposizione, ha confermato che le elezioni anticipate si terranno il 2 febbraio. Foto di John

Minchillo (Ap/Lapresse)

Immagini

Gigante arenatoEdimburgo, Scozia11 gennaio 2014

Due esperti analizzano i resti di un ca-podoglio trascinato dalle onde vicino alla spiaggia di Portobello, a Edimbur-go. La balena, lunga quasi 14 metri, è stata trasportata nella città di Dunbar, dove si cercherà di capire la causa della morte. Gli esperti della marina hanno riscontrato tagli profondi intorno alla bocca e sulla pinna dorsale, quindi è pro-babile che l’animale abbia urtato contro una nave. Foto di Murdo MacLeod

10 Internazionale 1034 | 17 gennaio 2014

[email protected]

Schiavi di Babbo Natale u Una certa cattiveria da parte vostra? Fare uscire l’articolo “Schiavi di Babbo Natale” po-chi giorni prima della vigilia (Internazionale 1031)! Dopo aver fatto clic per l’ultimo rega-lo acquistato su Amazon trovo nella buca delle lettere la copia di Internazionale con la coper-tina dedicata all’inchiesta di Carole Cadwalladr. La leggo in un attimo e penso a come avrei potuto organizzarmi diversa-mente. Poi nei giorni seguenti vedo un cartone animato: Qui, Quo, Qua riescono a entrare nel laboratorio di Babbo Natale. Quel laboratorio sembra uno dei grandi magazzini di Ama-zon descritti nell’articolo: c’è tutto o quasi tutto quello che i bambini chiedono nelle loro letterine. Diego Dongiovanni

Il megafono Grillo u “Megafono” è una delle me-tafore con cui Beppe Grillo de-scrive il proprio ruolo. È un me-gafono del tutto particolare, pe-

rò: lo dobbiamo cercare in rete, ai V-day o nei comizi, non si in-trufola nelle nostre case, siamo noi cittadini che lo vogliamo ascoltare perché è uno dei po-chi che desidera un futuro di in-telligenza e dignità per il paese. Per fortuna “le società contem-poranee sono educate, infor-mate e collegate come mai pri-ma nella storia”, scrive Manuel Castells (Internazionale 1031): lui sì che ha capito cos’è il Mo-vimento cinque stelle ma guar-da caso non lo cita. Insomma, dell’M5s non parla quasi nessun mezzo d’informazione tradizio-nale; anche il vostro giornale lo fa in modo supericiale e deni-gratorio. Eppure l’M5s ha otte-nuto importanti risultati che è inutile elencare perché di sicu-ro, in quanto giornalisti, li co-noscete, pur omettendo di dif-fonderli. Massimiliano Bruzzone

Un amore u Dopo anni in cui ci siamo vi-sti tutte le settimane, la mattina in metropolitana al freddo, du-rante la pausa pranzo – davanti a un cafè – o la sera prima di addormentarci, continuo a

chiedermi su quali basi si poggi la nostra storia. Soprattutto non ricordo bene se mi sono pla-smato io – per amore tuo – o se sei tu che – per amore della ve-rità – continui ad assecondare le mie curiosità. In ogni caso ci si vede in edicola, a presto. Fabio Fichi

Storie u Il numero “Storie” fa impres-sione. Curato ino ai dettagli minimi. Ragazzi, se continuate così è uno spettacolo.Rafaele Nappi (via Facebook)

Errata corrige

u La lettera “Basta Amazon” pubblicata nel numero 1033 è di Paolo Campedel.

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Mio marito vuole dare una paghetta a nostra iglia di sette anni: non ti sembra un po’ presto?–Eleonora

A casa nostra c’è una regola: a tavola si inisce tutto quello che hai nel piatto. “Che poi è il modo più sicuro per provocare disturbi alimentari ai igli”, ha detto la mia amica americana Minda. Io le ho fatto notare che semmai sono le “porzioni americane” a creare disturbi alimentari e non la nostra sana abitudine di non buttare via il cibo. Abbiamo litigato. Ma poi come al solito abbiamo fatto

pace, perché sappiamo che le nostre diferenze sono di natu-ra culturale. Quindi ho rigirato la tua domanda a lei. Io sono contrario a dare dei soldi a una bambina di sette anni, penso che il denaro faccia parte di quelle sfere tipo il sesso e la re-ligione che i bambini non do-vrebbero essere costretti a ge-stire. Minda ovviamente non è d’accordo: “È dimostrato che cominciare presto a fargli ge-stire un po’ di soldi li aiuta a impararne il giusto valore. Qualcuno preferisce darglieli come premio quando fanno il loro dovere, ma rifare il letto o

lavarsi i denti non sono cose che vanno ricompensate. Io premio mia iglia con dei soldi quando fa qualche faccenda di casa extra che non le avevamo chiesto di fare. E così la educo all’imprenditorialità”. Insom-ma, c’è l’approccio europeo del bambino sotto la campana di vetro o quello americano del piccolo imprenditore rampan-te. Non so qual è peggio, ma la scelta spetta a voi.

Claudio Rossi Marcelli è un giornalista di Internaziona-le. Risponde all’indirizzo [email protected]

Dear Daddy

Il bambino imprenditore

A che giocogiochiamo

Le correzioni

u “L’Italia è il primo mercato in Europa” per il gioco d’azzar-do, scrive Elisabetta Povoledo (Internazionale 1033, pagina 26). Ma quelle che si vedono “nei bar, nelle tabaccherie, nelle stazioni di servizio, nei piccoli negozi e nei centri com-merciali” non sono macchine per giocare al videopoker, co-me abbiamo tradotto noi, ben-sì slot machine, come diceva il testo originale. “Questione di lana caprina? Non proprio”, sostiene sul suo blog Marco Dotti, autore di tre libri sul gio-co d’azzardo. Innanzi tutto perché in Italia “i videopoker sono vietati dall’art. 110, com-ma 7, lettera b del Testo unico delle leggi di pubblica sicurez-za”. E poi perché la diferenza tra i due giochi ha implicazioni importanti: mentre nel video-poker bisogna conoscere le re-gole e usare un po’ di cervello, “nelle slot machine la regola è talmente semplice da consen-tire il gioco anche a soggetti privi di qualsiasi capacità di cognizione e di scelta”. In altre parole la legge ammette il gio-co che rischia di creare più gio-catori patologici e promette maggiori entrate iscali. “Quante volte mi sono sentito ripetere dai giornalisti: ‘video-poker, li chiamano tutti così, inutile distinguere!’”, conclu-de Dotti. “A forza di chiamare una cosa con il nome di un’al-tra, il disastro si è compiuto con la complicità di tutti”.

Giulia Zoli è una giornalista di Internazionale. L’email di questa rubrica è [email protected]

Internazionale 1034 | 17 gennaio 2014 11

Editoriali

Nonostante la bellezza dei suoi paesaggi e la vita-lità dei suoi abitanti, è sempre più diicile essere ottimisti sull’Italia. Forse Roma sta uscendo da una delle più gravi recessioni dal dopoguerra, ma la ripresa sarà molto lunga. Il tasso di disoccupa-zione continua a salire, costringendo migliaia di giovani laureati a cercare lavoro all’estero. Anche le imprese preferiscono trasferirsi piuttosto che afrontare l’alto livello di tassazione e la bizantina burocrazia italiana.

Per vent’anni le élite romane hanno fatto mol-to poco per fermare questa deriva. Poi il patto tra destra e sinistra per mettere ordine nei conti pub-blici è stato apprezzabile, ma nessuno ha mostra-to di voler davvero afrontare gli interessi che si nascondono dietro l’economia italiana. La man-canza di riforme rischia di rendere inutili i sacrii-ci di questi anni, visto che il debito pubblico italia-no è al 130 per cento del pil.

L’unica speranza è in una nuova generazione di politici meno legata al vecchio sistema. Per questo molti puntano su Matteo Renzi, il sindaco di Firenze di 39 anni che guida il Partito democra-tico. Renzi ha presentato il suo Jobs act, una pro-posta in 15 punti per ridurre la disoccupazione ri-formando il mercato del lavoro. In questi giorni si conosceranno i dettagli. Per ora la proposta sem-bra da apprezzare. Per esempio, ridurre le impo-ste sui salari abbasserebbe il costo del lavoro, che resta troppo alto nonostante la crisi: una cosa es-senziale per attirare investimenti stranieri in Ita-lia. L’aspetto più interessante è l’intenzione di

rendere il mercato del lavoro più lessibile per i nuovi assunti. Oggi i datori di lavoro sono rilut-tanti ad assumere i giovani a tempo indetermina-to perché temono di non poterli più licenziare se non rendono come dovrebbero. Renzi vorrebbe un contratto unico con tutele crescenti legate all’anzianità, che favorirebbe la creazione di nuo-vi posti a tempo indeterminato: i datori di lavoro avrebbero più tempo per conoscere le persone assunte. Il leader del Pd chiede anche una revisio-ne totale delle politiche del lavoro e del sistema di sostegno alla disoccupazione. Non è ancora chia-ro dove troverà le risorse per inanziare i cambia-menti. Ma queste misure potrebbero in parte ga-rantire che chi perde il lavoro abbia un sussidio inché non ne troverà un altro.

Resta da vedere se Renzi riuscirà a mettere in atto il suo progetto. I democratici non governano da soli, hanno bisogno dell’appoggio di un partito di centro e del centrodestra guidato dal vicepresi-dente del consiglio Angelino Alfano, che ha già criticato il Jobs act. E alcuni temono che la mossa di Renzi sia solo una tattica per spaccare il gover-no, nella speranza di andare presto al voto.

La spinta riformista di Renzi non dovrebbe fermarsi: il leader del Pd dovrebbe dire ciò che pensa sia necessario per cambiare il mercato del lavoro e far pressione sul governo Letta perché porti avanti le sue proposte. Naturalmente po-trebbe non riuscirci. Ma almeno gli elettori capi-rebbero che è diverso da quelli che hanno contri-buito alla crisi del paese. u bt

Il lavoro per Matteo Renzi

L’ora di François Hollande

Financial Times, Regno Unito

Fabrice Rousselot, Libération, Francia

La strategia di François Hollande era stata studia-ta al millimetro. Mettere da parte la sfera privata per dare una linea politica, deinire scadenze e issare obiettivi. E il presidente francese ha rispet-tato il suo piano. Per la prima volta dalla sua en-trata in carica, senza nascondersi dietro formule vaghe, si è assunto la responsabilità delle scelte fatte inora. “Sì, sono socialdemocratico”, ha sot-tolineato. “È l’oferta che crea la domanda”, ha aggiunto Hollande a chi non avesse ancora capi-to, deinendo così inalmente una linea politica chiara che però susciterà qualche polemica all’in-terno della sinistra francese.

A questo punto bisogna riconoscere che il di-scorso di Hollande apre un nuovo capitolo in que-

sto mandato presidenziale. Con un capo dello stato che si proietta su un asse volontariamente a destra della sinistra, e che ha fatto del patto di re-sponsabilità con le imprese e della riduzione della spesa pubblica i due capisaldi della sua lotta per il ritorno alla crescita e all’occupazione.

Un presidente pronto alla battaglia, che si im-pone delle scadenze e che si assume di fronte al parlamento la responsabilità del suo governo su questa nuova collaborazione con le imprese. L’iniziativa non è senza rischi, per un Hollande ormai obbligato a ottenere dei risultati dopo aver tergiversato per troppo tempo. Ma almeno ora si potrà aprire il dibattito su quello che sembra un vero programma presidenziale. u adr

“Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio,di quante se ne sognano nella vostra ilosoia”William Shakespeare, Amleto Direttore Giovanni De MauroVicedirettori Elena Boille, Chiara Nielsen, Alberto Notarbartolo, Jacopo ZanchiniComitato di direzione Giovanna Chioini (copy editor), Stefania Mascetti (Internazionale.it), Martina Recchiuti (Internazionale.it), Pierfrancesco Romano (copy editor)In redazione Giovanni Ansaldo, Annalisa Camilli, Carlo Ciurlo (viaggi, visti dagli altri), Giovanna D’Ascenzi, Camilla Desideri (America Latina), Simon Dunaway (attualità), Mélissa Jollivet (photo editor), Alessandro Lubello (economia), Alessio Marchionna (inchieste), Maysa Moroni (photo editor), Andrea Pipino (Europa), Francesca Sibani (Africa e Medio oriente), Junko Terao (Asia e Paciico), Piero Zardo (cultura), Giulia Zoli (Stati Uniti) Impaginazione Pasquale Cavorsi, Valeria Quadri, Marta Russo Segreteria Teresa Censini, Monica Paolucci Correzione di bozze Sara Esposito, Lulli Bertini Traduzioni I traduttori sono indicati dalla sigla alla ine degli articoli. Marina Astrologo, Giuseppina Cavallo, Stefania De Franco, Andrea De Ritis, Giusy Muzzopappa, Floriana Pagano, Lara Pollero, Francesca Rossetti, Fabrizio Saulini, Andrea Sparacino, Bruna Tortorella, Disegni Anna Keen. I ritratti dei columnist sono di Scott Menchin Progetto graico Mark Porter Hanno collaborato Gian Paolo Accardo, Luca Bacchini, Francesco Boille, Alessia Cerantola, Catherine Cornet, Gabriele Crescente, Sergio Fant, Andrea Ferrario, Anna Franchin, Francesca Gnetti, Anita Joshi, Andrea Pira, Fabio Pusterla, Alessia Salvitti, Marc Saghié, Andreana Saint Amour, Angelo Sellitto, Francesca Spinelli, Laura Tonon, Pierre Vanrie, Guido VitielloInternazionale a Ferrara Luisa CifolilliEditore Internazionale spa Consiglio di amministrazione Brunetto Tini (presidente), Giuseppe Cornetto Bourlot (vicepresidente), Alessandro Spaventa (amministratore delegato), Antonio Abete, Emanuele Bevilacqua, Giovanni De Mauro, Giovanni Lo StortoSede legale via Prenestina 685, 00155 Roma Produzione e difusione Francisco Vilalta Amministrazione Tommasa Palumbo, Arianna CastelliConcessionaria esclusiva per la pubblicità Agenzia del marketing editorialeTel. 06 6953 9313, 06 6953 9312 [email protected] Download Pubblicità srlConcessionaria esclusiva per la pubblicità moda e lifestyle Milano Fashion Media srlStampa Elcograf spa, via Mondadori 15, 37131 Verona Distribuzione Press Di, Segrate (Mi)Copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Signiica che può essere riprodotto a patto di citare Internazionale, di non usarlo per ini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Per questioni di diritti non possiamo applicare questa licenza agli articoli che compriamo dai giornali stranieri. Info: [email protected]

Registrazione tribunale di Roma n. 433 del 4 ottobre 1993Direttore responsabile Giovanni De MauroChiuso in redazione alle 20 di mercoledì 15 gennaio 2014

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Imbustato in Mater-Bi

Francia

In uno sketch il comico Dieudonné ha paragonato il suo pubblico a “una scatola di matite colorate”. In efetti basta assistere a uno dei suoi spettacoli al teatro della Main d’Or,

a Parigi, per capire che ha ragione: in Fran-cia sono poche le sale dove si ritrovano – ianco a ianco per ridere alle stesse battute – arabi, neri, bianchi, giovani delle periferie, elettori di estrema sinistra, di estrema de-stra, razzisti, antirazzisti, antisemiti e anti-sionisti. Tutti insieme per ridere alle spalle della comunità ebraica – l’unica assente – e per il gusto di rompere l’ultimo grande ta-bù: la Shoah.

In una Francia profondamente divisa, si attribuisce spesso a questa folla eterogenea un denominatore comune: l’odio per gli ebrei. Ma tra gli spettatori e i fan di Dieu-donné (il cui spettacolo Le Mur è stato vieta-to dalle autorità francesi con un provvedi-mento confermato dal consiglio di stato) ci sono anche persone della classe media, po-liticamente moderate, spesso di sinistra e che dichiarano di non essere antisemite. È a loro che abbiamo dato la parola. Gli spet-tatori che abbiamo incontrato hanno una vera e propria venerazione per il comico, che considerano come “il più brillante della sua generazione”. Nico, 22 anni, impazzisce per Dieudonné da quando ne aveva 16. Stu-dia legge alla Sorbona e alle ultime elezioni ha votato per il Nuovo partito anticapitali-sta (sinistra radicale) al primo turno e per i socialisti al secondo. La scoperta della co-micità del “provocatore” Dieudonné è stata

per lui uno shock “brutale e salutare al tem-po stesso” in una società “conformista, compassata e benpensante”. Per Nico la battaglia di Dieudonné è riassunta in una frase: “Di fronte a una risata tutti sono uguali”. Una risata “liberatoria”, alla quale ha ceduto anche Guillaume, 22 anni, stu-dente di lingue a Rennes. Secondo lui, l’umorista deve “impadronirsi degli argo-menti seri”, ambizione in gran parte trascu-rata dai comici di oggi. Come racconta Guillaume, Dieudonné gli ha fornito diver-si spunti di rilessione – sul conlitto israelo-palestinese o sugli aborigeni in Australia – che lo hanno spinto a fare delle “ricerche su temi non trattati dai mezzi d’informazio-ne”. “È vero, Dieudonné fa rilettere”, afer-ma Patrick, 29 anni, funzionario del comu-ne di Marsiglia.

Due pesi e due misureRidere e rilettere. I due verbi sono stretta-mente collegati per il pubblico di Dieudon-né. E nel mirino delle critiche c’è la Shoah. Nico è un ragazzo intelligente, e ammette di “voler pesare bene le parole” prima di avventurarsi su un terreno così diicile: “La Shoah deve davvero essere il tabù per eccel-lenza? Il mezzo migliore per essere consa-pevoli della nostra storia è la risata: ridere della schiavitù, della colonizzazione e della Shoah. Se c’è una cosa di cui bisogna ridere, sono proprio le diverse comunità, tutte le comunità. È l’unico modo per arrivare all’ideale repubblicano originario”.

Secondo Guillaume, la Shoah rappre-senta l’ultima sida dell’umorista, perché la sua “strumentalizzazione da parte dei sio-nisti” – che sarebbe orchestrata da associa-zioni come la Licra (Lega internazionale contro il razzismo e l’antisemitismo) o il Consiglio delle istituzioni ebraiche di Fran-cia (Crif ) – ne ha fatto il tabù per eccellenza del dibattito democratico. In quest’ottica, la censura di Dieudonné confermerebbe la

dimensione politica delle sue “provocazio-ni”. I sostenitori di Dieudonné fanno risali-re la “sacralizzazione” della Shoah alla scuola. “È dalle elementari che ce ne parla-no”, sospira Nico. “Siamo colpevolizzati in da piccoli”. Questo senso di colpa Nico vor-rebbe lasciarlo alle generazioni precedenti, liberarsene attraverso la risata. Secondo i fan di Dieudonné, i suoi spettacoli sono una valvola di sfogo e un mezzo per correggere questo “squilibrio” nel ricordo dei crimini razzisti. “Mangiamo pane e Shoah da sem-pre. Rispetto questo momento della storia, ma non più degli altri. Per esempio non ho mai sentito parlare del genocidio ruande-se”, dice Guillaume, cancellando così ogni dibattito sulla speciicità della Shoah.

I giovani provenienti dall’immigrazione hanno vissuto questa trasmissione della memoria come una “gerarchizzazione dei razzismi”. Di padre tunisino e madre fran-cese, Karim ha 35 anni, è laureato in scienze politiche e sociologia e si deinisce “antico-lonialista e filopalestinese”. “A scuola ci parlano dei crimini della Germania, e molto meno di quelli francesi, cioè colonialismo e schiavitù”, dice. “Hanno paura di creare un sentimento antifrancese tra i giovani igli dell’immigrazione. Ma così succede l’esatto contrario. La politica di due pesi e due mi-sure presente nella nostra lettura etnocen-trica della storia continuerà a creare proble-

12 Internazionale 1034 | 17 gennaio 2014

L’esercito di DieudonnéSoren Seelow, Le Monde, Francia

Le autorità francesi hanno vietato gli spettacoli del comico noto per le sue battute antisemite. Ma chi sono i suoi spettatori? E che ne pensano delle sue provocazioni? Il reportage di Le Monde

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mi. Tutto questo va oltre Dieudonné. Sar-kozy voleva che ogni alunno di quinta ele-mentare si facesse carico della memoria di un bambino morto nei campi di sterminio. È troppo. Non si ragiona della Shoah con gli stessi strumenti intellettuali usati per i cri-mini coloniali. Dieudonné ha messo il dito nella piaga. E per i igli dell’immigrazione è stata una rivelazione: inalmente c’è qual-cuno che parla di certe cose”.

L’eterna ossessioneI fan di Dieudonné di religione ebraica sono abbastanza rari. Tra loro c’è Jonathan Moa-dab, giornalista di 25 anni, ebreo praticante e antisionista. Anche lui ha sviluppato una lettura critica della Shoah dalle sue visite ai campi di concentramento in Polonia. Que-sto “indottrinamento vittimistico” negli ebrei ha prodotto – secondo lui – una “sin-drome da stress pretraumatico”, che porta a temere “il ritorno delle camere a gas a ogni sketch di Dieudonné”.

Jonathan ha visto Dieudonné alla Main d’Or nel 2011. Tre anni prima il comico ave-va fatto salire sul palco lo storico negazioni-sta Robert Faurisson per consegnargli il “premio all’impresentabilità”. Uno sketch che non l’ha traumatizzato. “Le battute di Dieudonné sulla Shoah non prendono di mira la Shoah in quanto tale, ma la sua stru-mentalizzazione, descritta dal politologo

Norman Finkelstein. Purtroppo siamo arri-vati a un tale livello di castrazione del dibat-tito che non si riesce più a discutere con le persone che non hanno le nostre idee”.

Ridere di tutto, parlare di tutto e con tut-ti. Questa “libertà di parola assoluta” che caratterizza la cultura della rete è stata tra-sportata sul palcoscenico da Dieudonné. E questo livellamento dei diversi punti di vi-sta – che hanno tutti diritto di cittadinanza – si ritrova nel percorso politico dell’umori-sta, transitato dalla sinistra antirazzista all’estrema destra passando per Alain Soral, il discusso intellettuale ex comunista oggi su posizioni nazionaliste e antisemite. Una confusione libertaria che esercita un certo fascino sul pubblico di Dieudonné, convin-to che in Francia “non ci sia rispetto per la libertà di espressione”, come dice Karim. Che però, come altri fan con idee politiche più salde, ha preso le distanze dal comico dopo il suo avvicinamento a Soral e a causa della “sua delirante ossessione per gli ebrei”. Karim, tuttavia, è pronto a tornare a vederlo a teatro, spinto anche dall’ostraci-smo generale. Questa fedeltà si spiega inol-tre con la radicalizzazione progressiva del comico, giustiicata dai suoi ammiratori: Dieudonné ha sempre criticato tutte le co-munità, fino a quando, nel 2003, non ha messo in scena lo sketch sul saluto nazista del colono ebreo che gli è costato l’allonta-namento dalla tv e ha segnato l’inizio dei suoi problemi legali. In quel momento il co-mico comincia a prendersela, con provoca-zioni ed eccessi, con il “sistema”, identiica-to con la “lobby sionista”, spiega Karim. “Da lì sono nate le tensioni e le polemiche,

che Dieudonné ha ampiamente contribuito ad alimentare”, ammette Henry, 31 anni, avvocato ed elettore socialista “deluso”. “Invece di scusarsi, il comico ha rincarato la dose. E la situazione si è complicata sempre di più”, conferma Karim.

Come molti difensori di Dieudonné, Guillaume cita il caso di un altro comico, Pierre Desproges, morto nel 1988, per de-nunciare “l’accanimento” contro il suo ido-lo: “Desproges scherzava sugli ebrei, dicen-do che durante la seconda guerra mondiale prendevano il treno gratis. Oggi sarebbe impossibile”. Ma Desproges non ha mai avuto posizioni antisemite. Al contrario Dieudonné sfrutta l’ambiguità che circon-da le sue idee politiche per unire il suo pub-blico. Tra i suoi sostenitori storici, tuttavia, tutto questo provoca qualche imbarazzo.

Dieudonné è davvero antisemita? I pa-reri sono discordanti. Per Karim, non è un “antisemita viscerale”, ma potrebbe aver sviluppato “tendenze antisemite”. Samy Ghernouti, 39 anni, di padre algerino, gran-de appassionato della quenelle (il gesto in-ventato da Dieudonné, una sorta di saluto nazista al contrario), è tassativo: “Quelli che vengono ai suoi spettacoli perché sono antisemiti non hanno capito nulla. Non li vogliamo”. Per Guillaume la risata ha la precedenza su tutto: “In fondo sono un po’ ipocrita, quando dice cose che non mi piac-ciono cerco di non ascoltarlo”. In certi mo-menti anche Nico avverte un certo imba-razzo: “ Dieudonné è antisionista o antise-mita? Non lo so. Quel che è certo è che riiu-tando di chiarire la sua posizione non serve più la causa che serviva all’inizio”. u adr

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Dieudonné a Parigi, 11 gennaio 2014

L’opinione Libération

u Incarnazione dell’odio, Dieudonné fa dell’antisemiti-smo la sua attività principale. Un’esecrazione sistematica e paranoica degli ebrei. Quale spettatore può pensare che un uomo che fa salire sul palco lo storico negazionista Robert Faurisson vestito da deporta-to sia un “umorista” o un “mi-litante antisistema”? Dieu-donné è un razzista e un anti-semita e per questo è stato condannato sette volte dalla giustizia francese. La repub-

blica deve difendersi da que-sti veleni. Il presidente e il mi-nistro dell’interno hanno quindi ragione a combattere Dieudonné. Ma questo giusti-ica il divieto preventivo dei suoi spettacoli, misura che tra l’altro è stata confermata dal consiglio di stato in contrad-dizione con tutta la preceden-te giurisprudenza? Simili de-cisioni – che i suoi fan consi-dereranno una censura – ri-schiano di trasformare questo sinistro umorista in un marti-

re della libertà di espressione, per quanto meschini possano essere i suoi propositi. Come ha detto la ministra della giu-stizia Christiane Taubira, che di odio razziale ne sa qualco-sa, “la risposta non può essere solo giudiziaria, deve essere politica”. Con Dieudonné co-me con il Front national e con tutti i focolai di odio e di raz-zismo che vogliono distrugge-re il patto repubblicano. François Sergent, Libération, Francia

Un divieto straordinario

Germania

Il teatro più particolare della Ger-mania si trova ad Amburgo, nel quartiere di Schanzenviertel, per la precisione al numero71 di Schulterblatt Straße. Nato come luccicante teatro di varietà, e con-

vertito prima in cinema e poi in un volgare grande magazzino, alla ine degli anni ot-tanta il Rote Flora avrebbe dovuto essere ristrutturato per ospitare il musical Il fanta-sma dell’opera. Invece ci si è stabilito un gruppo di autonomi di estrema sinistra che quest’anno celebra il venticinquesimo an-niversario dell’occupazione. Gli autonomi possono vantare il merito di aver fatto gua-dagnare al teatro una notorietà che si spinge ben al di là dei conini cittadini. Anche per-ché in occasione di una serie di appunta-menti regolari – come il 1 maggio e la Schan-zenfest a settembre – e di alcune iniziative particolari – per esempio quando politici o

giornalisti ventilano la possibilità di sgom-berare il teatro – va in scena sempre lo stes-so spettacolo in tre atti che ha come copro-tagonista la polizia. Atto primo: cassonetti in iamme e manifestanti vestiti di nero. At-to secondo: il balletto degli idranti. Atto terzo: gli scontri tra polizia e autonomi nello Schanzenviertel e dintorni. In questo modo si rischia però di dimenticare che ad Am-burgo è in corso un dramma molto più av-vincente e signiicativo: la battaglia tra ca-pitalismo e autonomi, a cui partecipa anche lo stato, che tuttavia rimane sempre un pas-so indietro.

Alla ine del 2013 queste consuete sca-ramucce sono inite fuori controllo. Dopo lo sgombero per pericolo di crolli e il via li-bera alla demolizione del complesso della Esso-Häuser, sulla Reeperbahn, uno dei simboli delle occupazioni a scopo abitativo di Amburgo, per il 21 dicembre è stata in-detta una manifestazione per la difesa del Rote Flora, per chiedere la concessione dell’asilo politico a un gruppo di rifugiati africani e a favore di uno sviluppo urbano attento alle esigenze sociali. All’appunta-mento si sono presentate più di settemila persone, che però sono state fermate dalla

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Amburgozona rossaMaximilian Probst, Die Zeit, Germania

Da qualche settimana nella città tedesca ci sono tensioni tra gli autonomi e la polizia. Ma il vero vincitore è il nuovo capitalismo, che sfrutta le idee radicali per rinnovarsi e creare proitto

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Il centro sociale Rote Flora ad Amburgo

polizia già prima della partenza del corteo. Alla ine della giornata si contavano decine di feriti sia tra gli agenti sia tra i manife-stanti.

Da allora Amburgo non trova pace. Poco prima di Natale un attacco al commissaria-to di Davidwache, la cui dinamica è ancora oscura, ha dato alla polizia l’occasione per dichiarare “zona a rischio” (gefahrengebiet) tutte le strade intorno alla Reeperbahn e alla stazione di Sternschanze. Fino a quan-do il provvedimento è stato revocato, il 13 gennaio, ad Amburgo è rimasto in vigore uno “stato d’emergenza light” che, in viola-zione dei diritti civili, ha permesso alla poli-zia di identiicare e perquisire chiunque a suo piacimento. In questa situazione qua-lunque gesto violento è controproducente. In fondo non è un segreto che in alcuni set-tori della sinistra radicale la rabbia sia stata alimentata anche dall’intransigenza mo-strata durante i controlli di polizia sui rifu-giati africani e dalla decisione di dichiarare “zona a rischio” il centro cittadino in vista del corteo. La polizia nega che le cose siano in qualche modo collegate: l’intervento “puntava come sempre ad allentare la ten-sione”, ha dichiarato un portavoce delle forze dell’ordine, che ha anche deplorato i “livelli di violenza” raggiunti dai militanti dell’estrema sinistra.

I fantasmi del teatroA questo punto non è diicile prevedere che ad Amburgo la situazione possa precipitare di nuovo, tanto più che ormai è chiaro in che modo si svilupperà la storia del Rote Flora. Nel 2001 il governo della città, guidato dai socialdemocratici dell’Spd (Amburgo ha i poteri e l’autonomia di un land), aveva ven-duto l’ediicio del Rote Flora, di cui era pro-prietario, appena prima delle elezioni loca-li, per sottrarsi agli attacchi del populista di destra Ronald Schill. Il teatro era stato ac-quistato per appena 370mila marchi dall’imprenditore Klausmartin Kretsch-mer, che si era impegnato a non cambiarne lo status. All’epoca l’imprenditore aveva intenzione di farsi un nome come mecena-te, ma le sue idee erano piuttosto sconclu-sionate. Kretschmer puntava a trasformare il Rote Flora in una “banca del seme cultu-rale”. Ma alla ine gli occupanti hanno pre-ferito negargli l’accesso.

Così, nel 2009, per la prima volta il nuo-vo proprietario ha minacciato pubblica-mente lo sgombero della struttura. Terro-rizzato da questa ipotesi, il comune gli ha

oferto 1,2 milioni di euro per ricomprare il Rote Flora. Kretschmer ha respinto l’ofer-ta, si è messo in società con un discusso im-prenditore immobiliare, Gerd Baer, e ha lasciato intendere di aver ricevuto da un’azienda statunitense un’oferta di circa venti milioni di euro per l’intera proprietà. Il senato cittadino ha risposto modiicando il piano regolatore per l’area in questione e stabilendo che l’immobile dovesse essere adibito a uso culturale e sociale. Kretsch-mer e Baer hanno annunciato l’intenzione di presentare ricorso contro quelle decisio-ni, hanno dato lo sfratto agli occupanti e hanno presentato domanda per la costru-zione di una sala concerti e di un centro conferenze che con i suoi 2.500 posti a se-dere avrebbe riportato in vita il vecchio pro-getto per la messa in scena del Fantasma dell’opera. Il passato non poteva riemergere in modo più complicato.

Il Rote Flora, del resto, ha tutto l’aspetto di un luogo spettrale. Non tanto per l’aria sinistra dell’ediicio, rivestito da strati di cartelli e manifesti ricoperti da graiti, né perché si anima veramente solo di notte, e neanche perché per molto tempo i suoi oc-cupanti sono sembrati a loro volta fantasmi, dal momento che rifiutavano qualunque contatto con i mezzi d’informazione. Quei problemi non esistono più: su richiesta dei giornalisti, due giovani che si fanno chia-mare Klaus e Britta mostrano le stanze ai visitatori con fare cordiale, ofrono da bere e conversano con il massimo garbo. È gra-

zie a loro che è iorito un nuovo genere gior-nalistico, quello del reportage sul Rote Flo-ra. In realtà il Rote Flora risulta spettrale perché per venticinque anni si è dedicato con decisione alla critica del capitalismo e oggi, guardando indietro, deve riconoscere che il capitalismo e la sua critica sono – per riprendere un’espressione di Marx – “una cosa molto ingarbugliata, piena di sotti-gliezze metaisiche e di ghiribizzi teologi-ci”. Insomma, il Rote Flora è un luogo dove tutto quel che si fa, una volta modiicato da una mano fantasma può trasformarsi nel suo opposto.

Qual era l’intento originario del Rote Flora? Salvare lo Schanzenviertel dalla commercializzazione e dall’aumento degli aitti. Ebbene, oggi il quartiere è uno dei più costosi e di tendenza della città. Agli oc-cupanti del teatro si deve comunque rico-noscere di aver cominciato a rilettere mol-to presto sul loro fallimento. In un docu-mento politico della ine degli anni novanta i militanti del Flora si chiedevano se “le azioni militanti non servissero solo a cor-reggere uno sviluppo urbanistico eccessi-vo” e se “non si limitassero a portare a un rallentamento e a una maggior sostenibilità sociale dei processi organizzati di rivaluta-zione immobiliare”. Il sociologo urbano David Harvey ha sintetizzato il dilemma degli autonomi in modo ancora più radicale dimostrando che il capitalismo fa aumenta-re proprio il valore dei luoghi che gli si op-pongono, in quanto posseggono storia, ca-rattere, identità e autenticità, tutte caratte-ristiche molto ambite dai consumatori.

Non è stato malgrado il Rote Flora ma a causa sua che gli aitti e i prezzi degli im-mobili dello Schanzenviertel sono aumen-tati. Questo fenomeno risulta particolar-mente evidente nella “piazza”, uno slargo creato pochi anni fa di fronte allo spazio oc-cupato che con i suoi cafè all’aperto dà l’op-portunità di vivere per qualche istante la vita dell’autonomo mentre si sorseggia un latte macchiato. In questo contesto la riva-lutazione dello Schanzenviertel non è solo questione di apparenze, di facciate fati-scenti e del gusto di fare shopping nel ine settimana alla luce dei lampeggianti azzur-ri degli idranti della polizia. Alla ine non si tratta solo di soldi: è il capitalismo che, a un livello molto più profondo, assorbe e adotta lo stile di vita dei militanti radicali. Per com-prendere tutto questo bisogna considerare la storia degli autonomi e la visione che hanno di sé, che non si esaurisce nella sem-

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u 4 gennaio 2014 La polizia di Amburgo dichiara parte dei quartieri di Altona, St. Pauli e Schanzenviertel “zone a rischio” (gefahrengebiet). La misura permette agli agenti di efettuare perquisizioni, fermi e controlli preventivi. La decisione è presa in seguito agli scontri tra autonomi e polizia scoppiati prima di Natale per lo sgombero del centro sociale Rote Flora e provoca dure polemiche. 9 gennaio Viene ridotta l’area interessata dal provvedimento sulle zone a rischio. 11 gennaio Si svolge un’azione di protesta paciica con i manifestanti che silano armati di uno scopino per il water. 13 gennaio Il provvedimento viene revocato. Nelle zone a rischio gli agenti hanno perquisito ottocento passanti e duemila automobilisti. La sera un gruppo di ottocento persone manifesta contro “l’aggressione ai diritti civili”. Süddeutsche Zeitung

Da sapere Proteste e controlli

Germania

plice contrapposizione al sistema. L’auto-nomia tedesca ha le sue radici nei movi-menti antagonisti italiani degli anni sessan-ta e settanta. Il punto di partenza fu l’idea che il capitalismo industriale si basa sulla formazione e sul controllo dei lavoratori per i suoi scopi. Di conseguenza il capitalismo non avrebbe potuto essere superato assu-mendo il controllo del sistema, ma solo li-berando il lavoratore dal sistema. Per que-sto gli autonomi hanno ideato il concetto di “spazio liberato”, da cui si sono sviluppati i centri sociali. Questi spazi avrebbero dovu-to rendere possibile un’esistenza sponta-nea, non gerarchica, collettiva e cooperati-va al di fuori delle regole del sistema capita-listico. Anche il Rote Flora si ispira a quest’idea. All’interno dell’ediicio ci sono una cicloicina, una cucina popolare, un cafè, sale prove, un archivio, una palestra e un grande spazio destinato alle feste e ai concerti. Il tutto è gestito in maniera collet-tivistica, non proit e volontaristica.

Il problema è che lo “spazio liberato” in cui tutte queste attività dovrebbero svolger-si è solo un luogo immaginario, se non addi-rittura anch’esso uno spettro. Di fatto il ca-pitalismo si è fatto strada all’interno del movimento e ha tratto lezioni fondamenta-li dalle sue critiche. Così ha abbandonato la fabbrica, l’antico nemico degli autonomi, e si è decentrato secondo il modello immagi-nato dagli autonomi. Partendo dall’ideale della libera disponibilità del tempo ha crea-to orari di lavoro flessibili, partendo dall’ideale del collettivismo e della coope-razione ha sviluppato il lavoro di squadra, e

dal desiderio di autorealizzazione ha mu-tuato la igura del lavoratore autonomo cre-ativo, cioè l’azienda individuale. Non è un caso che i cafè di fronte al Rote Flora siano frequentati soprattutto da pubblicitari, copywriter e web designer: sono loro il iore all’occhiello del nuovo capitalismo della conoscenza, gli allievi più perspicaci degli autonomi.

Oltre la violenza

Lo shock prodotto da questa scoperta ha quasi paralizzato il mondo dell’autonomia. Il suo vecchio leader e ideologo Toni Negri ha reagito alla novità accantonando l’idea dello spazio liberato e ripartendo dall’os-servazione che ormai i rapporti capitalistici si sono difusi in tutti gli ambiti della vita, ino alla comunicazione e alle relazioni so-ciali. Nulla può esistere al di fuori del capi-talismo. A questa totalità che oggi governa il mondo Negri ha dato il nome di “impero”. Britta e Klaus, gli occupanti del centro re-sponsabili dei rapporti con i mezzi d’infor-mazione, rilettono su questa teoria spie-gando di essere “parte del sistema” e am-mettendo che ovviamente il Rote Flora non può pretendere “di risolvere le contraddi-zioni del sistema all’interno dei propri spa-zi”. D’altra parte lo spazio ha creato consa-pevolezza riguardo alla forza di attrazione del capitalismo.

In ogni caso è chiaro che agli autonomi un simile chiarimento non può bastare e che, per certi versi, le esplosioni di violenza endemiche ad Amburgo vanno lette anche come un tentativo dell’autonomia di trova-

re un nuovo ruolo da assumere per “sottrar-si alla stretta del sofocante abbraccio” del capitalismo, come si legge nel documento del 2011 Flora bleibt unverträglich (Flora non si arrende). Il pensiero è questo: se lo stile di vita degli autonomi e la vecchia militanza, con la sua violenza rituale contro oggetti come cassonetti o vetrine, sono stati inte-grati nell’“impero”, bisogna adottare una forma di violenza più radicale, che non dev’essere più divertente e può anche esse-re rivolta contro le persone. Dopo gli scontri del 21 dicembre, un gruppo attivo nel movi-mento ha elogiato il Rote Flora per “aver reso un po’ più fragile la pace nell’impero”. La cosa preoccupante è che i militanti del Rote Flora tendono a pensare che il livello dello scontro vada alzato. Il collettivo ha preso le distanze dall’attacco alla Davidwa-che deinendolo opera di “ultrà ubriachi”, ma riguardo alla manifestazione del 21 di-cembre Klaus e Britta spiegano che “Flora ha mostrato un’altra volta i denti”. Questa reazione impulsiva è pericolosa: mostrando i denti il collettivo può scatenare una vio-lenza che non è in grado di controllare.

Quanto ai “rapporti dominanti”, anche qui non c’è via d’uscita, anzi: se c’è un feno-meno che contraddistingue la nostra epoca è quello dell’autoreferenzialità. Alle ultime elezioni la Cdu, il partito della cancelliera Angela Merkel, non ha costruito la campa-gna elettorale sui contenuti ma sul fatto di essere la Cdu. I mezzi d’informazione pre-feriscono raccontare gli eventi creati. Or-mai l’arte rappresenta solo per il suo valore commerciale. E anche il Rote Flora vuole dimostrare di essere sempre il vecchio, cat-tivo Rote Flora!

Due alternative più intelligenti ci sareb-bero, ma entrambe imporrebbero di rinun-ciare alla violenza. Il Rote Flora può prose-guire lungo la strada percorsa inora propo-nendosi come progetto culturale con grandi feste techno, un programma politico di nic-chia e un rispettabile lavoro nel sociale, ri-flettendo però sul fatto che la sua carica eversiva in buona parte è stata assorbita. Oppure può decidere di sparire spontanea-mente. In questo caso gli ex occupanti avrebbero il tempo per rilettere su come far rivivere lo spirito di ribellione e resistenza. Se poi non gli venisse nessuna idea, gli re-sterebbe comunque la possibilità di acco-modarsi nei cafè all’aperto dello Schulter-blatt e vedere se il capitalismo riesce a ca-varsela anche senza i suoi modernizzatori antagonisti. u fp

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La manifestazione del 21 dicembre 2013 ad Amburgo

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UCRAINA

Non si fermano le proteste In Ucraina non si fermano le manifestazioni cominciate a i-ne novembre per chiedere le di-missioni del presidente Viktor Janukovič e l’avvicinamento del paese all’Unione europea. Il 12 gennaio cinquantamila persone sono tornate in piazza a Kiev per protestare contro la decisione di congelare l’accordo di associa-zione con l’Ue e il pestaggio del leader dell’opposizione Juri Lut-senko. La ripresa della protesta è stata infatti innescata dagli scontri che si erano veriicati due giorni prima tra la polizia e un gruppo di manifestanti dopo la condanna di tre militanti na-

zionalisti accusati di aver cerca-to di far saltare in aria una statua di Lenin. Lutsenko, già ministro dell’interno nel governo di Julija Timošenko, era rimasto ferito negli scontri. A scendere in piaz-za, però, non è stata solo l’oppo-sizione: il 13 gennaio migliaia di simpatizzanti di Janukovič han-no organizzato una marcia di sostegno al governo. “L’Ucraina sta vivendo una crisi profonda”, commenta Zerkalo Nedeli, “il cui apice non è ancora stato rag-giunto. Da una parte ci sono la forza del popolo, ancora priva di una chiara direzione, e l’impo-tenza dell’opposizione; dall’altra un potere che trova nella violen-za l’unica risposta possibile. Una cosa è certa: nessuno dei proble-mi che hanno alimentato le pro-teste è stato risolto”.

La Repubblica Ceca avrà inalmente un governo. L’accordo è stato raggiunto tre mesi dopo le elezioni di ottobre, in cui la vera sorpresa era stata l’inatteso successo del partito populista Ano dell’imprenditore Andrej Babiš. Come spiega Respekt, alla ine il Partito socialdemocratico (il più votato alle ultime elezioni), Ano

e i democristiani del Kdu-Čsl hanno raggiunto un’intesa per dar vita a una coalizione. Il premier – ha annunciato il presidente Miloš Zeman – sarà il leader socialdemocratico Bohuslav Sobotka, che si presenterà in parlamento per la iducia entro la ine di gennaio. Secondo il settimanale, su tutto il processo “incombe però un interrogativo: il comportamento di Zeman. Nominerà davvero Sobotka premier? E porrà veti sulla lista dei ministri?”. Intanto, i partiti della coalizione hanno presentato il loro programma, “che ricalca in gran parte le misure richieste dagli industriali cechi per uscire dalla crisi”. Anche in politica estera si attende una svolta, visto che “contrariamente ai partiti di destra che hanno guidato il paese negli ultimi anni seguendo una linea fortemente euroscettica, i socialdemocratici sono europeisti convinti e Ano è solo moderatamente critico verso Bruxelles”. ◆

Repubblica Ceca

Finalmente il governo

Respekt, Repubblica Ceca

UNGHERIA

Tutti uniticontro Orbán I partiti di centrosinistra presen-teranno una lista comune e un candidato premier unico alle elezioni politiche che si terranno in primavera. L’accordo è stato siglato dai socialisti, da Insieme 2014, dalla Coalizione demo-cratica dell’ex premier Ferenc Gyurcsány, dai liberali e dal par-tito Dialogo per l’Ungheria. A guidare la lista sarà il socialista Attila Mesterházy. L’obiettivo è sconiggere il premier Viktor Orbán, al potere dal 2010 e noto per le sue posizioni antieuropee e fortemente nazionaliste. Se-condo il sito Hungarian Spec-trum, “questa volta la coopera-zione tra i partiti sembra reale: non ci saranno rivalità o scher-maglie perché l’opposizione vuole vincere davvero”.

IN BREVE

Spagna L’11 gennaio decine di migliaia di persone hanno par-tecipato a una manifestazione a Bilbao per protestare contro la decisione del governo di non ri-unire in un’unica struttura i de-tenuti dell’Eta, oggi divisi in de-cine di carceri in tutto il paese.Regno Unito Novantacinque deputati conservatori hanno chiesto l’11 gennaio al premier David Cameron di concedere al parlamento la possibilità di met-tere il veto alle leggi dell’Ue.Turchia Il 14 gennaio il primo ministro Recep Tayyip Erdoğan si è detto disponibile a rinuncia-re alla sua riforma della giustizia in cambio di modiiche alla co-stituzione.

FRANCIA

Le avventure del presidente Le rivelazioni sulla relazione tra François Hollande e l’attrice Ju-lie Gayet hanno provocato un piccolo terremoto in Francia, anche se – stando ai sondaggi – non sembrano aver intaccato la popolarità del presidente, co-munque già scarsa. Le polemi-che si sono concentrate sulla si-curezza: come è stato possibile che i giornalisti della rivista di gossip Closer abbiano spiato Hollande per mesi senza che la scorta se ne accorgesse? Mentre andava in scooter all’apparta-mento di Gayet, il presidente era adeguatamente protetto? Dubbi sono stati espressi anche sul ruolo della première dame. Come ricorda Le Monde, infat-ti, Valérie Trierweiler non ha uno status uiciale, pur dispo-nendo di un uicio all’Eliseo. La vicenda, inine, ha sollevato la questione del rispetto della vita privata del presidente. In Fran-cia tutti sembrano convinti che la privacy dei leader politici sia sacra e che i mezzi d’informa-zione non debbano occuparsi di certe vicende. Una posizione ri-badita da Hollande stesso nella conferenza stampa di inizio an-no del 15 gennaio. La conferen-za è stata anche segnata da quella che Libération ha dei-nito “la svolta socialdemocrati-ca” di Hollande, che ha annun-ciato un “patto di responsabili-tà” con gli imprenditori, con cui lo stato si impegna ad approvare sgravi per 30 miliardi di euro e a sempliicare le procedure am-ministrative per le imprese.

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Europa

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Thailandia

La Thailandia non è estranea al ca-os politico, ma i disordini attuali sembrano particolarmente aspri e destinati a durare a lungo, tanto

da far temere che possano degenerare in una guerra civile. La scena sembra pronta per la resa dei conti tra le forze antigoverna-tive, sostenute da potenti interessi, e un governo non impeccabile ma democratica-mente eletto che può contare sull’appoggio delle masse, soprattutto nell’entroterra ru-rale. Quello in corso è un conlitto tra élite rivali, ma può essere visto anche come una guerra di classe, etnica e tra regioni. Adesso è impossibile fare previsioni, ma nuove pro-teste e spargimenti di sangue sembrano inevitabili.

Negli ultimi due mesi decine (o forse centinaia) di migliaia di manifestanti sono scese in piazza a Bangkok per chiedere

La democrazia tailandeseè in pericolo

L’opposizione minaccia di paralizzare la capitale inché il governo non se ne andrà. Con la successione al trono imminente e il rischio di un golpe militare, a Bangkok regna il caos

Mark Fenn, The Diplomat, Giappone

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Bangkok, 12 gennaio 2014

“meno” democrazia e la ine del governo guidato dalla prima ministra Yingluck shi-nawatra. secondo i manifestanti l’esecutivo è illegittimo e controllato a distanza dal fra-tello di Yingluck, Thaksin, ex primo mini-stro rovesciato da un colpo di stato militare nel 2006. Attualmente Thaksin vive in esi-lio a Dubai per sfuggire a una condanna a due anni di carcere per abuso di potere.

La protesta è sostenuta da una forza po-litica inetta e dal nome inappropriato (il Partito democratico) che, dopo aver rinun-ciato a portare avanti un’opposizione re-sponsabile, ha annunciato il boicottaggio delle elezioni anticipate del 2 febbraio 2014. Consapevole delle scarse possibilità di suc-cesso alle urne, il partito ha voltato le spalle alla democrazia. “L’opposizione è stata in-capace di competere sul piano elettorale, e così ha scelto di giocare sporco e alimentare la tensione per rovesciare il governo”, spie-ga Pavin Chachavalpongpun, docente al Centro di studi del sudest asiatico dell’uni-versità di Kyoto. “I leader della protesta presentano il governo come un regime mal-vagio per legittimare le loro richieste irra-gionevoli e il loro comportamento”, aggiun-ge Chachavalpongpun.

I manifestanti provengono dalla classe

media e dall’élite economica di Bangkok, ma anche dai feudi dell’opposizione nel sud del paese. In questi giorni ripetono costan-temente un ritornello secondo cui i tailan-desi poveri delle campagne, che hanno vo-tato per il governo, sono ignoranti, male informati e hanno l’abitudine di vendere il loro voto al miglior oferente. Frustrati dalle continue sconitte del Partito democratico alle elezioni, i manifestanti sostengono che il paese non è ancora pronto per la demo-crazia. Questa retorica carica d’odio ha cre-ato un’atmosfera in cui molti tailandesi stanno seriamente mettendo in discussio-ne i meriti del sufragio universale.

Dall’altra parte della barricataIl leader della protesta, suthep Thaugsu-ban, ex vicepremier ed esponente del Parti-to democratico accusato di omicidio per il suo ruolo nella repressione delle manifesta-zioni contro il governo del 2010, oggi si tro-va dall’altra parte della barricata. Thaugsu-ban, infatti, vuole rovesciare il governo in carica, sospendere la democrazia e mettere il potere nelle mani di un consiglio di “brave persone” nominato e non eletto. C’è chi ve-de nel suo piano una matrice fascista. De-magogo e agitatore coinvolto in passato in una vicenda di corruzione, Thaugsuban è considerato un eroe dai suoi sostenitori, a cui ha promesso di difendere la monarchia e ripulire il governo dai corrotti. Anche se è già stato spiccato un ordine d’arresto nei suoi confronti con l’accusa di insurrezione, Thaugsuban continua ad attaccare il “regi-me dei shinawatra”, promettendo di sabo-tare le prossime elezioni ino a quando non saranno avviate “riforme burocratiche, le-gislative e politiche”. Ma le sue proposte sono vaghe.

Il 26 dicembre 2013 i manifestanti han-no bloccato la registrazione dei candidati alle elezioni in otto province del sud, e si so-no scontrati con la polizia mentre cercava-no di fare irruzione in uno stadio dov’erano in corso i preparativi per il voto. A ine di-cembre due manifestanti e un poliziotto sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco da persone non identificate. Nel frattempo, nel nord e nel nordest del paese, dove il go-verno ha la sua base elettorale, milioni di camicie rosse denunciano l’ennesimo ten-tativo dell’élite di Bangkok di far cadere un esecutivo eletto grazie al loro voto.

La protesta è cominciata a novembre, quando il governo ha tentato di approvare un’amnistia nei confronti di migliaia di per-

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sone arrestate per crimini politici tra il 2003 e il 2013. L’amnistia avrebbe favorito il ritor-no dell’ex premier Thaksin Shinawatra, i-gura che suscita grandi entusiasmi tra i suoi sostenitori e un odio profondo nei suoi ne-mici. Human rights watch l’ha descritto come un “nemico dei diritti umani della peggior specie”. Accusato più volte di cor-ruzione e nepotismo, l’ex premier può con-tare sulla iducia incondizionata degli abi-tanti di alcune zone del paese.

Ex poliziotto diventato un magnate del-le telecomunicazioni, salito al potere nel 2001, Shinawatra si è dimostrato un politico molto astuto. Ha saputo approfittare dei grandi cambiamenti sociali conquistando gli elettori sempre più benestanti e istruiti che vivono nelle zone rurali, soprattutto nella zona povera del nordest a lungo di-menticata dai governanti di Bangkok. Shi-nawatra ha introdotto diverse politiche ac-colte con favore dalla popolazione, come gli investimenti nell’assistenza sanitaria, i pre-stiti ai villaggi e il microcredito per le picco-le aziende. Per i suoi oppositori si trattava solo di misure populiste per comprare voti.

L’atteggiamento aggressivo e l’attacco allo status quo hanno fatto guadagnare a Shinawatra diversi nemici nell’élite di Ban-gkok, legata al palazzo reale, alle grandi aziende e agli alti ranghi dell’esercito. I po-tenti della capitale consideravano Shinawa-tra come una minaccia per la monarchia e di conseguenza per il loro potere e i loro pri-vilegi. E così nel 2006, dopo un’ondata di proteste paragonabile a quella attuale, l’esercito l’ha deposto. Tuttavia, nonostan-te gli sforzi dell’élite, del Partito democrati-co e della magistratura, i tailandesi conti-nuano ad aidare la guida del paese ai par-titi sostenuti da Shinawatra, che hanno vinto le ultime cinque elezioni politiche. Il Partito democratico, nazionalista e fedele alla monarchia, continua a ottenere risulta-ti soddisfacenti a Bangkok e nel sud del pa-ese, ma non vince un’elezione parlamenta-re dal 1992, anche se tra il 2008 e il 2011 ha guidato un governo di coalizione dopo che una sentenza aveva sciolto il partito al pote-re, vicino a Shinawatra. Adesso, a quanto pare, ha deciso che non vale più la pena di provare a vincere alle urne.

Sullo sfondo delle tensioni c’è anche la successione al trono. Re Bhumibol è consi-derato da molti un semidio, ma è malato e ha 86 anni. Sul trono dal 1946, il re è il capo di stato in carica da più tempo nel mondo. Il suo erede designato, il principe Vajiralon-

gkorn, dovrà faticare molto per raggiungere “l’autorità morale e il potere sacrale del pa-dre”, spiega Chachavalpongpun.

La maggior parte dei tailandesi ha vissu-to tutta la vita sotto il regno di Bhumibol, e mentre l’inevitabile si avvicina, alcune frange della società (specialmente quelle più vicine al palazzo) sono in preda a un’an-sia da “ine del regno”. Questo sentimento si aggiunge alla tradizionale paura e ai pre-giudizi nei confronti delle masse rurali “ignoranti”, e produce quella retorica anti-governativa feroce e spesso ofensiva che anima i palchi delle manifestazioni. “Alle prese con il trauma della successione, molti esponenti dell’élite e della borghesia hanno

trovato rifugio nella superstizione e nel cul-to della monarchia”, spiega Andrew Mac-Gregor Marshall, giornalista britannico che sta scrivendo un libro sull’argomento. “So-no diventati pericolosamente fanatici, e la paura si è trasformata in follia e odio”. Mar-shall vive all’estero per evitare di dover ri-spondere dell’accusa di lesa maestà. La legge tailandese, infatti, proibisce ogni cri-tica nei confronti dei componenti della fa-miglia reale, e ha uno spaventoso efetto frenante sulla libertà di parola. Qualsiasi commento negativo sulla monarchia è ta-bù, e i giornalisti che lavorano in Thailandia (incluso il sottoscritto) devono autocensu-rarsi se vogliono evitare la galera. “Le leggi sulla lesa maestà impediscono ai giornalisti tailandesi di rilettere in modo critico sul ruolo della monarchia nella società, così le

nostre analisi sono limitate”, spiega Pravit Rojanaphruk, uno dei pochi ad aver osato denunciare il problema. Sia il Partito demo-cratico sia il partito Pheu Thai, al potere, hanno strumentalizzato la legge per gettare fango sui loro nemici, e decine di migliaia di siti web che hanno criticato la monarchia sono stati chiusi. Questo scenario di paura e odio è essenziale per comprendere lo scontro in corso a Bangkok.

Settimane crucialiLe proteste in Thailandia evidenziano la tradizionale diidenza tra la capitale ricca e il popoloso nordest conosciuto con il no-me di Isaan e abitato da venti milioni di per-sone. I tailandesi dell’Isaan sono soprattut-to di etnia laotiana (e parlano laotiano), anche se nel tempo i loro legami con il Laos si sono allentati. Dall’Isaan viene la mag-gior parte dei manovali, dei tassisti, delle cameriere e degli altri impiegati nei servizi, considerati dalla borghesia di Bangkok co-me cittadini di seconda classe, più poveri e meno istruiti. Molti manifestanti esprimo-no un evidente disprezzo nei loro confronti. “Questa gente ha una mentalità arretrata. Non capisce niente”, ha dichiarato un im-prenditore di 63 anni durante un raduno vicino alla sede del governo, precisando di essere favorevole alla sospensione della democrazia “ino a quando quelle persone raggiungeranno il mio standard”. Queste opinioni sono il prodotto dell’ignoranza della classe media di Bangkok, isolata, spa-valda e spaventata dal futuro. La verità è che l’Isaan ha registrato una notevole cre-scita economica, e il livello d’istruzione è salito molto negli ultimi anni. Diversi studi hanno confutato la tesi del voto di scambio, comunemente usata per giustiicare la pre-sunta illegittimità del governo. “L’elettora-to dell’entroterra è più ricco, istruito e con-sapevole di quanto non sia mai stato”, spie-ga Chris Baker, giornalista britannico e autore di una biograia di Thaksin Shina-watra. “Il vero problema non è che non san-no cosa farsene del voto e dunque lo vendo-no”, aggiunge Baker, “ma che hanno impa-rato a usarlo in troppo bene. Per cinque elezioni consecutive hanno scelto in modo coerente e razionale”.

Le prossime settimane saranno cruciali per il futuro della Thailandia. Il 13 gennaio Suthep Thaugsuban e i manifestanti hanno cominciato a paralizzare la città. “Andremo avanti ino alla vittoria”, ha dichiarato ai manifestanti. I leader del movimento sem-

u Nel novembre 2013, fallito il tentativo del governo di far approvare una legge sull’amnistia per i colpevoli di reati politici, l’opposizione scende in piazza a Bangkok. Dopo alcune settimane di proteste per lo più paciiche, la premier Yingluck Shinawatra scioglie il parlamento e indice il voto anticipato per il 2 febbraio. Il 13 gennaio 2014 i manifestanti, che non vogliono le elezioni ma la nomina di un consiglio del popolo, cominciano a bloccare le vie principali della capitale chiedendo le dimissioni del governo. Bbc

Da sapere In piazza a oltranza

È possibile che in caso di golpe alcuni militari si schierino con il governo

20 Internazionale 1034 | 17 gennaio 2014

Thailandiabrano gradire la prospettiva di un aumento della violenza e dell’instabilità, convinti che in questo modo ci sarà un pretesto per l’intervento dei militari. Il 27 dicembre il capo dell’esercito Prayuth Chan-ocha non ha escluso la possibilità di un colpo di stato, causando lo sgomento tra i sostenitori del governo. Nonostante abbia passato gli ulti-mi due anni a corteggiare quell’esercito che aveva già rovesciato il fratello, la premier sembra aver perso sicurezza. I militari sono attori decisivi in un paese che ha vissuto 18 colpi di stato (riusciti o meno) dalla ine del-la monarchia assoluta nel 1932. Tuttavia anche l’esercito è diviso. Secondo gli anali-sti c’è la possibilità che in caso di golpe alcu-ni comandanti si schierino con il governo.

Quello dell’intervento militare non è l’unico scenario possibile. La commissione elettorale potrebbe dimettersi o, in alterna-tiva, i tribunali potrebbero far cadere il go-verno con un colpo di stato giudiziario. In-tanto i manifestanti continuano a bloccare la registrazione dei candidati in alcune pro-vince del sud, e anche se le elezioni si do-vessero svolgere non è chiaro se sarà possi-bile formare un governo.

Finora l’esecutivo e i suoi sostenitori hanno agito con moderazione, permetten-do ai manifestanti di occupare alcuni ediici chiave nella speranza di evitare uno scontro diretto. Nei circoli delle camicie rosse, però, la rabbia continua a crescere al ricordo del maggio 2010, quando il premier Abhisit Vejjajiva e il suo vice Suthep autorizzarono i soldati a sparare sui manifestanti che oc-cupavano il centro di Bangkok. All’epoca morirono più di 80 persone e circa duemila rimasero ferite negli scontri, e oggi molti sottolineano con rabbia il contrasto tra quella reazione e l’approccio conciliante dell’esercito verso la protesta della classe media di oggi. “Sono furiosi”, spiega Jaran Ditapichai, leader delle camicie rosse e candidato del partito Pheu Thai. Jaran con-ida in una soluzione paciica ma aggiunge che, in caso di golpe, le camicie rosse sareb-bero “pronte a combattere”. Comunque vada, il terremoto politico non inirà presto, perché le élite che hanno esercitato il potere così a lungo lotteranno per conservarlo. “Stiamo assistendo a una battaglia all’ulti-mo sangue”, spiega MacGregor Marshall. “Le élite stanno perdendo terreno e agisco-no in modo disperato, e questo le rende pe-ricolose. Il paese sta maturando, e le lotte di oggi esprimono le diicoltà isiologiche di una democrazia emergente”. u as

C’erano migliaia di persone in Royal Plaza, a Bangkok, di fronte all’università Tham-

masat. Professori e semplici cittadini discutevano su come fermare il siste-ma capitalistico clientelare e corrotto del governo guidato dal leader populi-sta Thaksin Shinawatra. Io non parteci-pavo alla manifestazione ma stavo or-ganizzando un dibattito in inglese tra 250 studenti provenienti da tutto il pae-se, fermamente convinti che la discus-sione, così come il pensiero critico e il lavoro di squadra, fornisca gli strumen-ti fondamentali per la creazione di una società democratica. Era il marzo 2006 e fu un grande momento di partecipa-zione popolare. Però poco dopo un gol-pe militare cacciò Shinawatra. Anche se i cittadini di Bangkok e chi si oppo-neva al premier erano favorevoli a un intervento militare, quell’evento di-strusse qualsiasi speranza nello svilup-po di una società democratica.

Sono passati otto anni da allora. Molte cose sono cambiate, ma sembra che tutto sia rimasto uguale. Solo l’at-teggiamento dei tailandesi verso i ma-nifestanti è cambiato per sempre. Or-mai ci siamo abituati ai movimenti di protesta, spontanei o manipolati politi-camente. In nome della “disobbedien-za civile”, abbiamo visto i leader dei di-mostranti irrompere nelle sedi istitu-zionali, bloccare l’aeroporto e impos-sessarsi delle tv statali per mobilitare i loro sostenitori, occupando gli spazi pubblici e facendo pressione sul gover-no. Negli ultimi otto anni abbiamo per-so il conto delle proteste esplose nel pa-ese, per non parlare del numero di morti e feriti negli scontri, ormai di-

ventati una routine nella democrazia in stile tailandese. Nel bene e nel male, però, la mia generazione è favorevole alla partecipazione pubblica, e si parla del futuro della Thailandia e del signii-cato della democrazia. La politica or-mai fa parte della nostra quotidianità. Non è forse questa la base della demo-crazia? I mezzi d’informazione hanno contribuito alla difusione delle notizie e permesso a molte persone di parteci-pare al processo democratico, ma han-no anche generato discorsi pieni d’odio ino al punto di non ritorno. La politica è dominata dalla contrapposizione di “noi” e “loro”, “colti” e “non istruiti”, “cittadini” e “contadini”. Come siamo arrivati a questo punto? Ottant’anni do-po la ine della monarchia assoluta, l’unica cosa immutata è la siducia di alcuni tailandesi verso la democrazia parlamentare. Ma afermazioni scan-dalose come “i tailandesi non sono pronti per una democrazia matura” so-no sempre più difuse.

La maggior parte di chi va in piazza oggi contro il governo crede che alle ur-ne vincerà di nuovo il Pheu Thai. Perciò adesso si parla di alternative alle elezio-ni politiche. Quali alternative? Un altro golpe militare? No, grazie. E la proposta fatta dal leader dell’opposizione Suthep Thaugsuban di un oscuro “consiglio del popolo” è inaccettabile. I manifestanti sognano uno scenario in cui solo i più nobili potranno nominare tra “candida-ti idonei” i leader del paese. La realtà è che in Thailandia manca un vero dialo-go. Il dibattito sul futuro politico del pa-ese deve essere ancorato al principio una persona, un voto, nel rispetto delle regole, della legge e del sistema parla-mentare. Altrimenti non c’è speranza per la democrazia e iniremo in un vico-lo cieco. u lp

Rattana Lao è una docente tailandese della Columbia University di New York.

I manifestanti sbagliano quando dicono che i tailandesi non sono maturi per la democrazia

Non c’è alternativa alle urne

Rattana Lao, Open Democracy, Regno Unito

L’opinione

Internazionale 1034 | 17 gennaio 2014 21

pakistan

Gli scomparsi del Belucistan Nel Belucistan, una regione del Pakistan ricca di risorse naturali dove ci sono molti militanti isla-mici, sono scomparsi migliaia tra civili, sospetti combattenti e attivisti, scrive The Diplomat. Secondo l’International voice

for baloch people (Ivbmp), che riunisce le famiglie degli scom-parsi, sarebbero diciottomila. Di questi, duemila sarebbero stati uccisi tra il 2001 e il 2013. Le cifre sono molto più elevate di quelle in possesso di ong e or-ganizzazioni per i diritti umani. I beluci danno la colpa ai milita-ri e ai servizi segreti che voglio-no intimorire la popolazione. Le sparizioni sono cominciate ne-gli anni settanta ma sono au-mentate nel 2001, con l’arrivo al potere del generale Pervez Mu-sharraf. Sotto il presidente Asif Ali Zardari c’è stato un ulteriore giro di vite. Dall’ottobre del 2013 una ventina di famiglie delle vittime ha camminato da Quetta a Karachi per cercare di attirare l’attenzione sulla situa-zione ed entro febbraio rag-giungerà Islamabad.

Il 5 agosto 1966 la morte di Bian Zhongyun, vicepreside di una scuola femminile all’interno dell’università Normale di Pechino, fu uno dei primi omicidi compiuti nei dieci anni della rivoluzione culturale. Il 12 gennaio un gruppo di studentesse ha reso omaggio alla statua dell’insegnante. Tra loro, scrive Beijing Bao, c’era

Song Binbin, iglia di Song Renqiong, uno degli “otto immortali”, padri fondatori della Cina comunista. Song ha detto di provare rimorso per non aver impedito il pestaggio di Zhongyun. Song era una delle igure di spicco delle guardie rosse che due settimane dopo sarebbe stata fotografata accanto a Mao Zedong in piazza Tiananmen. Nel 2013 fu Chen Xiaoliu, anche lui iglio di uno dei fondatori del partito, a scusarsi pubblicamente per le colpe commesse quando era una guardia rossa. A marzo del 2012 il premier Wen Jiabao paventò il rischio che la Cina conoscesse di nuovo la tragedia della rivoluzione culturale. Il riferimento era rivolto a Bo Xilai, all’epoca esponente di spicco del Pcc, poi condannato all’ergastolo, che non rinnegava un periodo di cui ancora si parla con diicoltà. ◆

Cina

Guardie rosse pentite

Beijing Bao, Cina

india

pace tra indiae stati Uniti Un pranzo tra diplomatici di al-to livello e la restituzione di tre pezzi d’antiquariato indiano ru-bati forse non ristabiliranno i rapporti cordiali tra Washing-ton e New Delhi ma potrebbero essere un inizio accettabile, scrive l’Hindustan Times. La crisi diplomatica causata dalla vicenda della viceconsole in-diana arrestata l’11 dicembre 2013 negli Stati Uniti è risolta. Devyani Khobragade (nella fo-to) era accusata di aver fornito informazioni false nella docu-mentazione per il visto della sua domestica. Dopo giorni di colloqui Washington le aveva riconosciuto l’immunità con-sentendole di rientrare in India.

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Giappone

okinawa tradita Dopo l’approvazione a ine di-cembre del discusso progetto di ricollocare la base di futenma in un’altra città di okinawa, cre-scono le proteste dei residenti dell’isola. L’assemblea di okina-wa ha chiesto le dimissioni del governatore Hirokazu Nakaima per non aver mantenuto la pro-messa elettorale di far spostare le truppe fuori dalla prefettura. Secondo l’Okinawa Times Na-kaima si è mostrato irresponsa-bile e poco trasparente. La deci-sione di spostare le forze armate statunitensi nella zona poco po-polata di Nago è infatti sostenu-ta da Washington e dal governo di Shinzō Abe ma è considerata un tradimento dagli abitanti dell’isola, su cui da decenni gra-va il peso della presenza militare statunitense.

in Breve

Afghanistan Il 9 gennaio il go-verno ha annunciato la scarce-razione di 72 ribelli taliban dete-nuti a Bagram, malgrado le pro-teste di Washington, che li con-sidera pericolosi.Giappone Il 14 gennaio l’ex pri-mo ministro Junichiro Koizumi, al potere dal 2001 al 2006, ha annunciato che sosterrà la can-didatura a governatore di Tokyo di Morihiro Hosokawa, premier tra il 1993 e il 1994. I due vecchi leader hanno deciso di tornare alla politica attiva per mobilitare l’opinione pubblica contro il ri-lancio del nucleare voluto dall’attuale premier Shinzō Abe.

Birmania

Costituzioneda riscrivere La leader dell’opposizione Aung San Suu Kyi è impegnata in una campagna per la riforma della costituzione. Le pressioni per cambiare la carta scritta dalla giunta militare nel 2008 sono forti, tanto che il 2 gennaio il presidente Thein Sein ha ipotiz-zato la possibilità di modiicare, tra gli altri, l’articolo che impe-disce a chi ha parenti di nazio-nalità straniera (i due igli di Suu Kyi sono britannici) di occupare ruoli istituzionali, scrive Irra-waddy. “Potrebbe essere ne-cessario per la a riconciliazione nazionale”, ha detto Thein Sein.

asia e paciico

22 Internazionale 1034 | 17 gennaio 2014

Africa e Medio Oriente

Il referendum sulla nuova costituzio-ne egiziana del 14 e 15 gennaio serve a conferire la legittimità delle urne agli eventi del 30 giugno 2013 (quando il

presidente Mohamed Morsi è stato deposto da una rivolta popolare appoggiata dall’esercito) e, allo stesso tempo, a minare le rivendicazioni dei Fratelli musulmani (l’organizzazione di Morsi). La campagna per il “sì” alla costituzione ha imperversato nelle strade, sui mezzi d’informazione e sui social network, mentre i pochi che osavano manifestare per il “no” sono stati arrestati. È quindi facile prevedere la vittoria del “sì”, una costituzione approvata a larga maggio-ranza, con un tasso di partecipazione re-cord, ma che diicilmente potrà essere de-inita democratica perché chi ha cercato di opporsi è inito in prigione.

In realtà, le autorità non avrebbero ne-

anche avuto bisogno di arrestare i pochi sostenitori del “no”: nella storia del paese gli egiziani non hanno mai votato “no” a un referendum.

La candidatura del generaleGran parte degli egiziani non ha letto il te-sto della costituzione, non si preoc cupa di cosa c’è scritto e si limita a considerare la sua approvazione come un “passo verso la stabilità”. Negli ultimi tre anni la classe me-dia egiziana è stata così danneggiata dal punto di vista economico che è disposta a fare di tutto pur di ristabilire una parvenza di normalità (e di avere un reddito stabile). Molti vogliono andare presto a votare per il presidente perché “il pae se dev’essere go-vernato”. Nei quartieri poveri del Cairo le richieste sono sempre le stesse: “Siamo stanchi: vogliamo lavorare e crescere i no-stri igli. Vogliamo che l’economia riparta, che le proteste non intralcino più le nostre vite e che torni la sicurezza”. Sono le stesse motivazioni che hanno spinto gli egiziani ad approvare le costituzioni che gli sono state sottoposte nel 2011 e nel 2012.

C’è chi sostiene che il referendum costi-tuzionale sia anche un voto a favore del ge-nerale Abdel Fattah al Sisi, un aspetto che i

Gli egiziani votanoper tornare alla stabilità

In Egitto molti sperano che l’approvazione della costituzione porti alle elezioni presidenziali e alla vittoria del generale Abdel Fattah al Sisi. Ma rischiano di rimanere delusi

Mahmoud Salem, Daily News Egypt, Egitto

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Un seggio al Cairo, il 15 gennaio 2014 sostenitori del vicepresidente sono pronti a enfatizzare e a sfruttare in vista di una sua possibile candidatura alle presidenziali. Sa-rebbe un modo per raggiungere l’obiettivo di avere un uomo forte alla guida del paese, in grado di riportare legalità e ordine, e di spingere gli egiziani a rimettersi al lavoro. Tuttavia queste persone rimarranno deluse se Al Sisi si candidasse e vincesse. E la colpa sarebbe della costituzione.

Il nuovo testo stabilisce che il presidente non sarà il capo della polizia, che non potrà nominare i ministri senza il consenso del parlamento, che non potrà nominare il mi-nistro della difesa senza il consenso dell’esercito, e così via. Tutto il contrario per chi pensa che Al Sisi avrà un potere as-soluto per guidare l’Egitto in questo periodo complicato.

L’unica area in cui il presidente avrà car-ta bianca sarà la politica estera. Ma se il mi-nistro della difesa che ha rovesciato Morsi dovesse diventare presidente, avremo la certezza assoluta che quanto avvenuto in Egitto nell’estate del 2013 equivale a un col-po di stato. Ne seguiranno rapporti diplo-matici diicili con il resto del mondo e le proteste degli attivisti per la democrazia. Inoltre i Fratelli musulmani potranno chia-mare in causa il presidente per tutto quello che non va.

Il paradosso è che i più accaniti sosteni-tori di Al Sisi sono gli stessi che vorrebbero per lui il peggior incarico esistente in Egitto. Se diventerà presidente avrà molte respon-sabilità, ma senza gli strumenti e il potere decisionale di adesso. Ecco perché tutti spingono Al Sisi a candidarsi: averlo come presidente è l’unico modo per distruggere la sua popolarità. u gim

Mahmoud Salem è un blogger e un atti-vista politico egiziano. Su Twitter è @Sandmonkey.

Da sapere Violenza nelle strade

u Il 14 e il 15 gennaio 2014 il governo egiziano ha schierato 160mila soldati e più di duecentomila poliziotti per sorvegliare lo svolgimento del referendum costituzionale. Negli scontri avvenuti il primo giorno del voto sono morte almeno undici persone, scrive il sito Mada Masr. Sono stati inoltre compiuti almeno 249 arresti alle manifestazioni per il “no” alla costituzione. Tra gli arrestati, due giornalisti che seguivano le proteste.

Internazionale 1034 | 17 gennaio 2014 23

“Gli israeliani si sono fatti una bella risata quando ci hanno dato l’Autorità Nazionale Pale-stinese”, ha detto un giovane di un villaggio vicino a Ramal-lah, in Cisgiordania. Nella stessa stanza c’era un inse-gnante dell’Agenzia delle Na-zioni Unite per il soccorso e l’occupazione (Un rwa), profu-go, che ha ricordato tutte le volte in cui all’inizio degli anni novanta l’esercito israeliano chiuse la sua scuola per vendi-carsi dei bambini che lanciava-no pietre. Un giorno un uicia-le gli disse: “Arriverà il giorno

in cui vi mancheremo”. L’inse-gnante ha ammesso: “Aveva ragione”. E il giovane ha rispo-sto: “Invece gli israeliani non se ne sono mai andati”.

Questa conversazione non mi ha sorpresa (ne sento di si-mili anche a Gaza), ma mi ha messo una grande tristezza. In Palestina negli ultimi vent’an-ni la vita è diventata sempre più diicile. L’occupazione è per natura un regime che agi-sce contro il benessere degli abitanti, ma anche l’Anp è strutturalmente portata a ser-vire il potere israeliano.

Ho conosciuto l’insegnante e il ragazzo durante una visita a un campo profughi per un ar-ticolo sullo sciopero dei dipen-denti dell’Un rwa. Circa 55mila bambini non vanno a scuola da 40 giorni, i centri sanitari sono chiusi e la spazzatura si accu-mula nelle strade di 19 campi in Cisgiordania. A quanto pare l’agenzia è stata aggiunta al lungo elenco dei “nemici dei palestinesi”. Così, per dare man forte ai dipendenti, anche gli abitanti dei campi hanno cominciato a protestare contro l’Anp. u as

Da Ramallah Amira Hass

Sciopero nel campo profughi

Mentre Stati Uniti e Russia moltiplicano gli sforzi diplomatici in vista della conferenza di pace del 22 gennaio, il 15 gennaio in Kuwait i rappresentanti di vari paesi hanno promesso 2,4 miliardi di dollari di aiuti umanitari per i siriani colpiti dalla guerra, scrive Now. L’Onu aveva chiesto 6,5 miliardi di dollari, stimando che 9,3 milioni di siriani (tra cui 2,4 milioni di rifugiati) abbiano bisogno di assistenza. Nel nord della Siria continuano gli scontri tra gruppi islamisti: secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, il 14 gennaio lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante ha ripreso il controllo di Raqqa. u

Siria

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IN BREVE

Iran I governi di teheran e Wa-shington hanno annunciato il 12 gennaio che l’accordo provviso-rio sul programma nucleare ira-niano sarà applicato a partire dal 20 gennaio. Prevede dei li-miti all’arricchimento dell’ura-nio in cambio della revoca pro-gressiva delle sanzioni.Iraq Almeno 73 persone sono morte il 15 gennaio in una serie di attentati nel centro del paese.Israele L’11 gennaio l’ex primo ministro Ariel Sharon è morto a tel Aviv dopo otto anni di coma. Aveva 85 anni.Libia Il 12 gennaio il vicemini-stro dell’industria Hassan al droui è stato assassinato a Sirte.Nigeria Il presidente Goodluck Jonathan ha promulgato il 13 gennaio una legge che prevede dieci anni di prigione per le cop-pie omosessuali che vivono apertamente la loro relazione.Sud Sudan Il 10 gennaio l’eser-cito ha riconquistato la città pe-trolifera di bentiu e ha comin-ciato ad avanzare verso bor, an-cora controllata dai ribelli gui-dati da Riek Machar. Il 14 gen-naio più di duecento civili in fu-ga dalle violenze sono morti in un naufragio sul Nilo bianco.

TUNISIA

Compromessopolitico La settimana del 14 gennaio 2014, il terzo anniversario della rivoluzione tunisina, c’è stata una svolta storica, scrive il sito Na waat. Anche se la situazione economica rimane disastrosa e le manifestazioni per chiedere un lavoro vanno avanti in tutto il paese (in particolare a Kasserine e tataouine), il pae se sembra essere uscito dalla crisi politica. Come da accordi, il primo mini-stro islamista Ali Laarayedh si è dimesso il 9 gennaio per lascia-re il posto a Mehdi Jomaa, ex ministro dell’industria, che gui-derà un governo tecnico incari-cato di portare il paese a nuove elezioni dopo l’approvazione della costituzione.

REP. CENTRAFRICANA

In cerca di un leader dopo le dimissioni del presiden-te Michel djotodia e del primo ministro Nicolas tiangaye, il Consiglio nazionale di transizio-ne centrafricano ha stabilito di riunirsi il 18 gennaio per elegge-re il nuovo capo dello stato. L’agenzia per i rifugiati delle Na-zioni Unite ha ricominciato a in-viare aiuti alle migliaia di perso-ne che si sono rifugiate all’aero-porto di bangui. “Nella capitale si moltiplicano i segnali di un ri-torno alla normalità. Invece nel-le province si segnalano ancora scontri, uccisioni, saccheggi o incendi”, scrive Jeune Afrique.

Combattimenti ad Aleppo, il 12 gennaio 2014

24 Internazionale 1034 | 17 gennaio 2014

Americhe

L’omicidio dell’attrice ed ex miss Venezuela Mónica Spear e del suo compagno Henry Berry, uccisi il 6 gennaio a Caracas

mentre erano in vacanza insieme alla i-glia, è un motivo di lutto per le loro fami-glie e per i venezuelani, sconcertati dalla vulnerabilità e dalla violenza che c’è nel paese. Queste morti sono un segnale del fallimento delle politiche di sicurezza del governo chavista e della sua crociata per rilanciare il turismo, ampliicata dai mezzi d’informazione ilogovernativi. Ma sono anche un segno del fallimento del progetto nazionale del Venezuela. Alla ine del 2013 il ministro dell’interno e della giustizia, Miguel Rodríguez Torres, ha affermato che il tasso di omicidi si era ridotto, scen-dendo a 39 omicidi ogni centomila abitan-ti. L’osservatorio venezuelano sulla violen-za, invece, indica un tasso di 79 omicidi ogni centomila abitanti. Le cifre del mini-stro, se paragonate a quelle di un’istituzio-ne indipendente (le cui stime non sono af-idabili al cento per cento), sembrano frut-to della fantasia. A chi credere?

Sei anni fa ho intervistato Soraya El Achkar, allora segretaria della commissio-ne presidenziale per la riforma della poli-zia, poi promotrice della polizia nazionale bolivariana e oggi rettrice dell’Universi-dad nacional experimental de la seguri-dad. El Achkar conosce bene le cause della criminalità e ha ammesso che il governo di Hugo Chávez non aveva la volontà politica per risolvere gli enormi problemi della po-lizia. Oggi il motto del Venezuela è “si salvi chi può”. Almeno così la pensano i ricerca-tori più seri sulla violenza, come la sociolo-ga Verónica Zubillaga. Un anno fa, sulla

rivista Nueva Sociedad, Zubillaga ha sot-tolineato uno dei paradossi più inquietanti della violenza urbana nel paese: con i go-verni chavisti gli indici di povertà sono di-minuiti e l’inclusione sociale è aumentata, ma il tasso degli omicidi continua a cresce-re. Parlando di Caracas, Zubillaga non ha usato mezzi termini: la città è passata dalla “cittadinanza della paura” all’“anticittadi-nanza del lutto”.

Ha scritto alla ine del 2012 Javier Cor-rales, politologo dell’Amherst college: “Il governo ama ripetere che il capitalismo e la povertà stanno perdendo terreno in Ve-nezuela. Ed è inito in una trappola ideolo-gica che gli impedisce di reagire come do-vrebbe contro la criminalità”.

Una storia comune

Conosco da molti anni Thomas e Carol Berry, i genitori di Henry. Entrambi hanno abbandonato il Regno Unito più di qua-rant’anni fa, quando il Venezuela promet-teva grandi opportunità ai suoi abitanti e a chi arrivava da fuori. Tom, un brillante ma-tematico, ha sempre insegnato ai giovani dell’Universidad Simón Bolívar. Carol è stata maestra di scuola e, quando è andata in pensione, si è impegnata nel lavoro di

L’uccisione di un’attrice

e la violenza in Venezuela

La morte di Mónica Spear ha scosso il Venezuela. Ma fatti come questo succedono ogni giorno nel paese sudamericano, dove gli omicidi sono in aumento da anni

Boris Muñoz, Prodavinci, Venezuela

quartiere. Anche se la qualità della vita di molti venezuelani della classe media negli ultimi trent’anni è peggiorata, Thomas e Carol hanno deciso di restare nel paese do-ve avevano messo radici. E hanno trasmes-so quest’amore ai igli. Per molti anni Hen-ry Berry ha promosso il turismo d’avventu-ra in Venezuela ed era stato questo amore per il paese sudamericano a farlo tornare da Miami, insieme alla moglie e alla iglia di cinque anni.

I protagonisti di questa storia sono ec-cezionali perché rappresentano un arche-tipo del “sogno venezuelano”, ma il pro-blema è il carattere non eccezionale della loro morte. La loro storia è comune in Ve-nezuela: quella di una famiglia qualsiasi che va in vacanza nel paese che ama e vie-ne uccisa a sangue freddo. È la storia delle quasi 25mila famiglie che hanno perso un familiare nel 2013 e delle oltre 150mila fa-miglie che hanno perso i loro cari negli ul-timi quindici anni. Mónica ed Henry sono il simbolo di quello che deve cambiare in Venezuela. Che il lutto si trasformi in indi-gnazione, l’indignazione in organizzazio-ne, l’organizzazione in azione, l’azione in ribellione, la ribellione in forza e questa forza in cambiamento. u fr

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Una cerimonia contro la violenza a Caracas, il 12 gennaio 2014

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STATI UNITI

I guai di Christie “Lo scandalo del ponte è solo l’inizio per Chris Christie”, titola The Week. L’8 gennaio il go-vernatore del New Jersey (nella foto) è stato accusato, in seguito alla pubblicazione di alcune email inviate da suoi collabora-

tori, di aver fatto pressione sulla Port authority of New York and New Jersey, l’ente che si occupa dei trasporti locali, ainché il ponte George Washington fosse chiuso per quattro giorni lo scor-so settembre. Il blocco del trai-co sul ponte che collega Man-hattan al New Jersey aveva crea-to forti disagi a Fort Lee, la città del New Jersey governata da un avversario politico di Christie. Il 14 gennaio, poi, la Cnn ha rive-lato che Christie è indagato per la gestione dei fondi per i soc-corsi dopo l’uragano Sandy nel 2012: 25 milioni di dollari che il governatore avrebbe usato in parte per promuovere il turismo nel suo stato. I due casi potreb-bero costringere Christie a ri-nunciare alle sue aspirazioni di candidato repubblicano alle pre-sidenziali del 2016.

All’alba del 1 gennaio 1994 i ribelli dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln) imbracciarono le armi per chiedere “lavoro, terra, casa, cibo, salute, istruzione, indipendenza, libertà, democrazia, giustizia e pace”. Com’è oggi la situazione in Chiapas, stato nel sud del Messico, e nei territori autonomi

zapatisti? “L’Ezln è un attore politico irrilevante a livello nazionale”, scrive lo storico Marco Estrada Saavedra sul mensile Nexos, “e in Chiapas la sua inluenza si sente solo nelle regioni indigene. Oggi lo zapatismo è formato dai promotori del movimento che hanno consolidato le loro posizioni di comando, dagli indigeni privi di alternative valide per ricostruirsi una vita indipendente e dalla generazione nata e cresciuta nella resistenza”. Dal punto di vista economico e sociale, il Chiapas sta peggio di vent’anni fa, anche se in alcune zone può contare su servizi migliori : “Lo stato è più povero e la sua popolazione è più afamata di quanto lo fosse nel 1994. A livello scolastico il Chiapas continua a essere la zona con maggiore analfabetismo del Messico – il 21 per cento – una cifra molto superiore al 9 per cento nazionale”. ◆

Messico

Il Chiapas vent’anni dopo

Nexos, Messico

STATI UNITI

Un bilanciopositivo Solo il 24 per cento dei cittadini statunitensi tra i 18 e i 24 anni ha fatto richiesta di un’assicurazio-ne sanitaria, rispetto al 55 per cento dei cittadini tra i 45 e i 64 anni: una cattiva notizia per la Casa Bianca, che contava sull’ingresso dei più giovani e sani nel mercato delle polizze per bilanciare i costi della rifor-ma sanitaria. Almeno l’accordo raggiunto al congresso il 13 gen-naio su una legge di bilancio per il 2014 da mille miliardi di dolla-ri “neutralizza i tentativi dei re-pubblicani di ostacolare la rifor-ma”, osserva il New York Ti-

mes. E dopo mesi di tagli, vin-coli e ricatti, le agenzie federali tirano un sospiro di sollievo.

MESSICO

EmergenzaMichoacán “La guerra tra i gruppi di autodi-fesa e il cartello dei Caballeros templarios nello stato di Micho-acán continua ad aggravarsi”, scrive Proceso. Per far fronte alla violenza, il 14 gennaio il go-verno federale ha inviato delle truppe nelle zone di conlitto e ha invitato le autodifese a de-porre le armi. Ma l’invito non è stato accolto: le milizie hanno ribadito che continueranno a combattere ino a quando non saranno arrestati i narcotrai-canti che uccidono e minaccia-no gli abitanti dello stato nella più totale impunità.

CUBA

I numeridella riforma Il 14 gennaio la riforma migrato-ria, che permette ai cubani di viaggiare all’estero previa auto-rizzazione del governo, ha com-piuto un anno. “Il governo dell’Avana”, scrive Maye Prime-ra su El País, “ha calcolato che in questo periodo più di 180mila persone sono uscite dall’isola. La maggior parte, giovani tra i venti e i quarant’anni, sono an-date in Spagna, in Messico e ne-gli Stati Uniti”. Il governo di Raúl Castro nega che la popola-zione stia scappando, sostiene Yoani Sánchez sul suo blog Ge-

neración Y, “ma a novembre la metà dei cubani che aveva preso un aereo non era ancora torna-ta”. Purtroppo per i cubani sen-za pesos convertibili, “la rifor-ma migratoria resta un’opportu-nità impossibile da cogliere”.

IN BREVE

Brasile Il 14 gennaio le autorità dello stato di São Paulo hanno annunciato un’inchiesta sul pos-sibile coinvolgimento di alcuni agenti di polizia nell’omicidio di dodici persone a Campinas. Si sospetta una vendetta dopo la morte di un poliziotto.Canada L’8 gennaio il governo ha lanciato la costruzione della prima strada che collegherà l’oceano Artico al continente americano. Sarà lunga 137 km.Colombia I ribelli delle Farc hanno proposto il 14 gennaio di legalizzare la produzione e la vendita della cocaina, dell’oppio e della marijuana.R

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26 Internazionale 1034 | 17 gennaio 2014

“Padre! Padre!”, un bambi-no in giacca a vento si get-ta nelle braccia di don Patriciello. Il prete antica-

morra sorride, orgoglioso di questo slancio spontaneo di afetto. I motivi per essere ri-conoscenti nei confronti del parroco non mancano di certo. Nel quartiere popolare Parco verde, a Caivano, nel cuore del “triangolo dei veleni”, dove la camorra ha sepolto per ventidue anni circa dieci milio-ni di tonnellate di riiuti tossici, ci vuole un bel po’ di coraggio per continuare a com-battere. E il coraggio al prete della parroc-chia San Paolo apostolo di Caivano, Mauri-zio Patriciello, non manca. In pochi mesi l’autore del libro Vangelo dalla terra dei fuo-chi (Imprimatur 2013) è diventato il simbo-lo della lotta contro l’ecomaia. In parte è anche grazie a lui che dopo vent’anni di omertà è scoppiato lo scandalo dei riiuti all’ombra del Vesuvio.

“In Campania da diversi anni la situa-zione è critica, soprattutto nella provincia di Caserta. Il risanamento dei terreni è ur-gente, ma Napoli non è una città accerchia-ta dai fuochi”, spiega il sindaco di Napoli Luigi De Magistris. “Nella città non ci sono più incendi di riiuti”. Dopo l’inchiesta pub-blicata in copertina dall’Espresso il 15 no-vembre e intitolata “Bevi Napoli e poi muo-ri”, De Magistris (ex magistrato, 46 anni, eletto nelle liste dell’Italia dei valori) si bat-te contro la tentazione di fare di ogni erba un fascio. Ha chiesto un miliardo di euro come risarcimento danni alla rivista per il suo “titolo difamatorio”.

Secondo l’inchiesta del settimanale, in un rapporto ordinato dal comando dell’Us Navy di Napoli per garantire la sicurezza dei soldati statunitensi e delle loro fami-

glie, che abitano e lavorano intorno a Na-poli, si parla di “rischi inaccettabili per la salute”. Dopo diversi prelievi realizzati tra il 2009 e il 2011 nelle province di Napoli e di Caserta, il rapporto non esclude che i ri-fiuti tossici seppelliti illegalmente da trent’anni abbiano potuto contaminare l’acqua di Napoli e della sua regione. Il rap-porto dell’Us Navy, trasmesso alle autorità italiane alcuni mesi fa, ha rilevato la pre-senza di livelli inaccettabili di piombo, di nichel e di naftalene, oltre a tracce di dios-sina e di uranio (peraltro sotto la soglia di rischio) in un terzo delle case controllate e nelle falde freatiche.

“Non è vero, l’acqua di Napoli è pura e controllatissima”, replica De Magistris. Ma ammette l’esistenza di una reale minaccia a livello regionale. “Il problema del passato esiste e dobbiamo eliminarlo. Altrimenti ci sarà sempre questa macchia della Terra dei fuochi a rovinare la nostra immagine”, ri-conosce il sindaco della città, che è stata retrocessa all’ultimo posto (107 °) della classiica stilata dal Sole 24 Ore sulla quali-tà della vita nelle città italiane, subito die-tro Taranto e Palermo.

Piramidi di ecoballe“Per anni siamo stati ingannati. Le imprese del nord ci hanno mandato i loro riiuti in-dustriali, che sono stati illegalmente me-scolati dalla camorra con i riiuti urbani”, si indigna don Patriciello. “È vero, il proble-ma esiste da molto tempo, ma qui non se ne poteva parlare. La situazione è cambiata con la recente pubblicazione delle dichia-razioni dei pentiti”, osserva il prete antica-morra, che ha organizzato un corteo di cen-tomila persone nel centro di Napoli. Tutto è cominciato l’estate scorsa con la ine del segreto sulle terribili confessioni del ca-morrista Carmine Schiavone (esponente di rilievo del clan dei casalesi), ottenuta sotto la pressione del Movimento 5 stelle (M5s) di Beppe Grillo.

Con sedici anni di ritardo è stato tolto il segreto sui verbali delle dichiarazioni che,

La discaricadella camorra

Nella Terra dei fuochi, in Campania, per ventidue anni sono stati scaricati illegalmente dieci milioni di tonnellate di riiuti tossici industriali

Pierre de Gasquet, Les Echos, Francia

nel 1997, Schiavone ha reso alla commis-sione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei riiuti. L’ex boss dei casalesi racconta nei dettagli come i riiuti industriali tossici so-no stati seppelliti per anni con la complicità dei sindaci di 106 comuni, “di qualsiasi ap-partenenza politica”, pronosticando che gli abitanti dei comuni interessati avranno “forse vent’anni di vita”.

Si tratta di un’esagerazione di un super-pentito che ha ammesso di aver ordinato l’uccisione di circa cinquecento persone? La questione della Terra dei fuochi (termi-ne usato da Roberto Saviano nel suo ro-manzo Gomorra, che fa riferimento alle discariche a cielo aperto incendiate dai ca-morristi) è in ogni caso tornata al centro dell’attualità politica italiana. L’arresto il 10 dicembre 2013 di Cipriano Chianese, un avvocato di 62 anni ailiato al clan dei ca-salesi, ha avuto l’efetto di una bomba a Casal di Principe, uno dei feudi della ca-morra a nordovest di Napoli. L’arresto della persona che si ritiene sia il cervello del traf-ico dei riiuti industriali tra l’Italia setten-trionale e la Campania è un segnale forte. Chianese è considerato il responsabile del-la gestione della discarica Resit di Giuglia-no, una “bomba ecologica” con le sue 341mila tonnellate di riiuti tossici prove-nienti in parte dall’Acna di Cengio, un’azienda chimica del Piemonte.

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L’epicentro del disastro, oggi sotto con-trollo militare, è l’immensa discarica di Taverna del Re, venticinque chilometri a nord di Napoli, dove le enormi piramidi (circa sei milioni di ecoballe formate da ri-iuti inizialmente destinati agli incenerito-ri) sono impilate ino a raggiungere i dodici metri di altezza.

Secondo un recente studio di Legam-biente, dal 1991 almeno 443 aziende, so-prattutto del centro e del nord Italia, hanno versato quasi dieci milioni di tonnellate di rifiuti industriali (dall’Acna di Cengio all’Enichem) usando 411mila camion che hanno attraversato la penisola. Legam-biente fa un bilancio dettagliato delle 82 inchieste per traffico di rifiuti (dai nomi esotici: Dirty pack, Ecoboss, Black hole) che si sono tradotte in 1.800 denunce e 915 ordinanze di carcerazione preventiva. “Le responsabilità sono enormi e sono il frutto dei rapporti tra l’industria del nord, la ca-morra e la politica dalla ine degli anni ot-tanta”, conclude Rossella Muroni, direttri-ce generale di Legambiente.

Le conseguenze di questo sistema “eco-maioso” sono pesanti. Tuttavia il rapporto diretto tra il traico dei riiuti e l’aumento dei tumori (ai polmoni, al seno, al fegato) nella zona di Napoli resta diicile da prova-re. Ma per l’oncologo Antonio Marfella, dell’Istituto Pascale di Napoli, non ci sono

dubbi. Uicialmente il ministero della sa-nità, anche se riconosce che il tasso di mor-talità per tumore è superiore in Campania rispetto alla media nazionale (in Italia ci sono 299 morti ogni centomila abitanti), ritiene che non ci sia un legame diretto “con la situazione dei riiuti”. Ma secondo le inchieste locali alcune patologie (tumore del colon o del fegato) dal 2008 hanno avu-to una crescita compresa tra l’80 e il 300 per cento nelle località più esposte come Frattaminore, Acerra o Giugliano.

Il governo di Enrico Letta ha adottato il 3 dicembre un decreto legge che si occupa di riiuti, anche per mettere ine a trent’an-ni di inerzia e di omertà nella Terra dei fuo-chi. Per la prima volta è stato creato il reato di “combustione illecita di riiuti”, che au-torizza i prefetti a mobilitare i militari per meglio controllare il territorio. Il decreto prevede di individuare in 150 giorni i terre-ni contaminati e il ministro dell’ambiente ha dichiarato di essere pronto a sbloccare seicento milioni di euro per il loro risana-mento. “Per la prima volta le istituzioni nazionali affrontano l’emergenza della Terra dei fuochi”, dice soddisfatto Letta.

“La creazione di un reato autonomo è una cosa positiva, ma il decreto rimane la-cunoso sulle sanzioni e sulle risorse”, afer-ma De Magistris.

“È un primo passo signiicativo, ma bi-sognerà trovare le risorse inanziarie ne-cessarie per la sorveglianza e la prevenzio-ne”, ribadisce Venanzio Carpentieri, sin-daco di Melito di Napoli, eletto nelle liste del Partito democratico. Sul suo comune il primo cittadino vuole sperimentare l’uso di minidroni per sorvegliare le discariche e i cantieri abusivi.

Bufale e musica classica

In mancanza di segnali forti l’efetto Terra dei fuochi minaccia anche di avere un im-patto disastroso sull’industria agroalimen-tare della regione (cinque miliardi di euro di fatturato all’anno e 65mila addetti). “Di certo l’acqua a Napoli non è peggiore che altrove, ma non si può dire lo stesso per quanto riguarda la mozzarella di bufala di Caserta”, osserva per esempio il ristorato-re napoletano Luca Ferrari, che ora prefe-risce rifornirsi a Battipaglia, vicino a Saler-no, dove i produttori locali cullano le loro

bufale con la musica classica. In efetti, dopo la scoperta che i proprie-

tari di bestiame iniettavano dosi massicce di vaccino per mascherare la presenza di brucellosi in alcune mandrie, gli allevatori di Caserta, che rappresentano il 75 per cen-to della produzione nazionale di mozzarel-la, hanno visto le loro vendite calare del 40 per cento.

Ancora prima della sua elezione a se-gretario del Partito democratico, l’8 di-cembre, il nuovo leader della sinistra ita-liana Matteo Renzi aveva promesso di ri-servare il suo primo viaggio da segretario a quella che qualcuno comincia a chiamare la “Fukushima italiana”. E ci è andato il 20 dicembre per misurare l’ampiezza dei pro-blemi. Un viaggio importante per la sua credibilità nel campo della lotta contro il crimine organizzato. La questione della Terra dei fuochi è diventata una questione nazionale. “La regione di Napoli si è tra-sformata nella prima discarica industriale illegale d’Europa. Siamo diventati il ricet-tacolo dei riiuti tossici di imprese italiane, tedesche e svizzere”, si arrabbia il profes-sor Marfella, che rimane scettico sull’ei-cacia del decreto Letta. “Il vero problema non è la gestione dei riiuti urbani, ma so-prattutto la lotta contro l’evasione iscale, che ha favorito l’estensione delle discari-che abusive”. Altri, come l’avvocato napo-letano Lorenzo Mazzeo, non escludono che la camorra riesca ancora a iniltrarsi negli appalti per il risanamento dei terreni. “Anche la tomba di Scipione l’Africano, a Lago Patria, è stata ricoperta da riiuti”, dice desolato il ristoratore Luca Ferrari. “Patria ingrata, non avrai le mie ossa”, di-ceva l’epitaio del generale romano. Oggi i suoi lontani discendenti hanno l’occasio-ne per dimostrargli il contrario. u adr

Castel Volturno (Caserta),

18 novembre 2013. Una discarica

abusiva nella pineta

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Una volta la Campania felix era la regione più fertile d’Europa: “Tutta la campagna che circon-da Napoli è un solo giardino

d’ortaggi”, scrisse Johann Wolfgang von Goethe dopo il suo grand tour nel 1787, “ed è un godimento vedere la quantità incredi-bile di legumi che aluiscono nei giorni di mercato”.

Questa terra produce ancora pomodo-ri, insalata, broccoli, melanzane, cavoliori, verze, fagioli, cipolle, peperoni, arance, li-moni, mandarini, mele, pere e pesche. Pro-dotti che però non hanno più valore, spiega Rafaele Vecchione, che abita nella provin-cia di Napoli: “Qui c’è l’abitudine tra paren-ti che hanno appezzamenti di terreno di regalare i pomodori e altri prodotti della lo-ro terra. Sono anni che noi, dopo aver rin-graziato educatamente, riceviamo e buttia-mo”. Negli ultimi trent’anni la zona è diven-

tata la discarica di un’intera nazione. Per risparmiare sulle spese di smaltimento, le industrie dell’Italia del nord per anni hanno fatto inta di non vedere, mentre la camorra si occupava dei loro riiuti a prezzi vantag-giosi. Così prodotti chimici, vernice, sol-venti, medicinali, forse anche riiuti radio-attivi, sono stati nascosti nelle cave e sepol-ti nei campi cambiando le condizioni di vita della popolazione: “La catastrofe ambien-tale che è in atto e che sta sconvolgendo la città di Napoli e cospicue parti del territorio campano rappresenta ormai un fenomeno di portata storica, paragonabile soltanto ai fenomeni di difusione della peste secente-sca”, è scritto nella relazione della commis-sione d’inchiesta parlamentare sulle attivi-tà illecite connesse al ciclo dei riiuti.

Trecentosettanta chilometri più a nord, in un ospedale a Perugia, incontro Roberto Mancini, uno dei poliziotti che più si è occu-pato dello scandalo dei riiuti. A Mancini nel 2002 è stato diagnosticato il linfoma di Hodgkin, un tumore. Lo stato l’ha risarcito con cinquemila euro, e ora Mancini è rico-verato dopo un trapianto di midollo: “Que-sta per me è l’ultima spiaggia”, dice Manci-

Ortaggi velenosi

Il disastro ecologico si poteva evitare. Il racconto del poliziotto che per primo ha indagato sullediscariche illegali

Mads Frese, Information, Danimarca

ni, 53 anni. Quando era giovane a Mancini fu chiesto d’indagare sulle iniltrazioni del-la camorra nell’Italia centrale: “Ero un bra-vo poliziotto, ma forse anche un po’ inge-nuo”, dice oggi. Ha toccato più volte quei ili ad alta tensione che in Italia collegano politica e criminalità organizzata. A metà degli anni novanta cominciò a seguire un avvocato di nome Cipriano Chianese. Nel 1994 Chianese si candidò alle elezioni poli-tiche in Forza Italia, il partito appena fonda-to da Silvio Berlusconi, e andò molto vicino a un seggio in parlamento. Chianese era azionista in una nuova banca, la Banca in-dustriale del Lazio, che la polizia mise sotto sequestro prima dell’apertura. L’istituto do-veva servire soprattutto a nascondere il de-naro guadagnato dai clan con i riiuti tossici: “Chianese è un personaggio dalle mille en-trature. Aveva contatti con i giudici della cassazione e con i generali della inanza e dei carabinieri. E intanto incontrava anche i killer del clan dei casalesi”, dice Mancini.

Smaltimento a basso costoSecondo un camorrista pentito, fu proprio Chianese che negli anni ottanta insegnò ai casalesi che la spazzatura è oro: “Se in una discarica in un giorno arrivano cento ca-mion d’immondizia, l’ultimo è pieno di sol-di”, spiegava. Nonostante le attività di Chianese siano note da vent’anni, è stato fuori dal carcere per molto tempo e arresta-to il 10 dicembre del 2013 con l’accusa di estorsione aggravata. Nell’ambito della stessa indagine un pentito ha dichiarato che stava progettando un attentato contro un magistrato della direzione distrettuale an-timaia di Napoli. Ma Chianese è solo un “broker di riiuti”. Nessuno degli imprendi-tori che hanno risparmiato con il servizio di smaltimento dei riiuti oferto della camor-ra, rendendosi complici di un disastro am-bientale, è stato condannato per associazio-ne a delinquere. Al massimo qualcuno ha dovuto pagare una multa per non aver ri-spettato le norme ambientali. E mentre al-cuni camorristi si sono pentiti, nessun indu-striale inora ha raccontato quello che sa alle autorità e ai cittadini.

L’attività in polizia di Roberto Mancini si è scontrata con i tentativi di bloccare le indagini, la negligenza e la mancanza di

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Giugliano (Napoli), 15 novembre 2013. Il campo rom di Masseria del Pozzo, un’area dichiarata altamente contaminata

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senso dello stato. Un’informativa sul ruolo della criminalità organizzata nello smalti-mento dei riiuti scritta da Mancini nel 1996 non fu presa in considerazione: “Se all’epo-ca quella informativa fosse stata esaminata con attenzione avremmo potuto limitare i danni”, dice oggi il sostituto commissario.

Per fronteggiare la situazione nella Ter-ra dei fuochi, come viene chiamata la zona intorno al feudo camorristico di Casal di Principe, il 3 dicembre 2013 il governo ha stabilito che bruciare i riiuti è un reato. Qui il cielo di notte ha uno strano colore, e i fuo-chi hanno peggiorato una situazione am-bientale e sanitaria già critica. Nonostante questo, però, il ministero della sanità so-stiene che non ci sia un nesso causale tra i riiuti tossici e i tumori, e che le tante morti per malattia nella zona possano quindi an-che essere causate dello stile di vita della popolazione. Secondo Mancini i malati pro-venienti dalla Terra dei fuochi “arrivano a grappoli” nei reparti oncologici. Nel 1997 fu nominato consulente a tempo pieno per una commissione d’inchiesta parlamentare sul ciclo dei riiuti in Italia e sulle attività il-lecite connesse: “Ero l’unico della polizia che ne capiva di riiuti”. Con l’aiuto di Car-mine Schiavone, un camorrista pentito, doveva individuare i riiuti tossici nascosti: “I componenti della commissione d’inchie-sta pensavano si trattasse di episodi slegati tra loro e non mettevano in relazione un’at-tività criminosa con l’altra, che magari av-veniva a duecento chilometri di distanza. Inoltre non collegavano i personaggi coin-volti”. Anche quando è diventato più chiaro che c’era un disegno criminoso, è mancata una reazione della politica: “La maggioran-za dei deputati e dei senatori della commis-sione facevano gli interessi di personaggi che lavoravano nel loro collegio elettorale, se ne fottevano della giustizia”, sostiene Mancini.

Solo quando Roberto Saviano nel 2006 ha denunciato il problema nel libro Gomor-

ra, si è cominciato a discutere le dimensioni del fenomeno e delle sue conseguenze. Sa-viano vive sotto la protezione della polizia da quando, sei mesi dopo la pubblicazione del libro, in piazza a Casal di Principe ha esortato i cittadini a ribellarsi contro i clan. A quel punto, però, la camorra corrompeva già da anni in modo indisturbato le autorità competenti: “Non so perché questo feno-meno sia stato sottovalutato”, dice Manci-ni, “forse il paese non era ancora pronto a sapere cosa stava accadendo nella Terra dei

fuochi”. La strada statale che collega Casal di Principe e Nola è uno dei lati del cosid-detto triangolo della morte. L’espressione è stata usata nel 2004 da The Lancet, la rivi-sta scientiica britannica, che ha pubblicato uno studio sulla relazione tra le molte ma-lattie tumorali nella zona e i reati contro l’ambiente: “Oggi la diferenza tra una ge-stione dei riiuti legale e una gestione illega-le, per quanto riguarda il rispetto delle di-sposizioni sanitarie, è molto piccola, e i ri-schi per la salute sono in crescita”, scriveva-no i ricercatori.

Nel 1997 Schiavone aveva raccontato alla commissione d’inchiesta che ino a al 1992, data del suo arresto, aveva organizza-to il trasporto di riiuti tossici da portare in Campania, mescolandoli con i riiuti nor-mali e depositandoli dappertutto nella zona agricola. L’audizione di Schiavone è stata coperta da segreto istruttorio, inché il go-verno nel novembre del 2013 non ha deciso di renderla pubblica. Ha scritto Saviano su Repubblica il 25 novembre, parlando dei

cumuli di vestiti, dei pezzi d’arredamento e degli elettrodomestici sparsi nel territorio “sono spazio, metri quadri dove sversare: tutto questo è l’esatto contrario di ciò che sembra. Non è inciviltà. È criminalità, ov-vero una forma organizzata di guadagno. Sommando le superici di tutte le piazzole del napoletano e del casertano, ingombre di riiuti, si raggiungerebbe l’estensione di una grande discarica. E questo è anche il segno dello stadio terminale del disastro”.

“Ho 43 anni e mi ricordo ancora il sapo-re dei pomodori che mangiavo ino a quan-do avevo 25 anni, ma ora non si trovano più”, dice Rafaele Vecchione che abita con i suoi genitori a Nola. Con i suoi fratelli por-ta avanti l’azienda di famiglia che fornisce arredi di cucina a ristoranti e bar: “Da sei anni cerchiamo di evitare di mangiare alcu-ni prodotti di queste parti. Facciamo solo la spesa nei supermercati che garantiscono che la provenienza dei prodotti non sia campana”. E aggiunge: “Anche i nostri cani bevono solo acqua minerale perché l’acqua del rubinetto lascia dei residui gialli nella ciotola”. Nonostante questo la famiglia non

ha nessuna intenzione di lasciare Nola. “Siamo molto afezionati alla nostra terra anche se qui la situazione è diicile da un punto di vista imprenditoriale, lavorativo e sociale”, spiega Vecchione. Il ciclo felice che Goethe osservò durante il suo viaggio 227 anni fa si è spezzato. L’unica cosa che corrisponde ancora alla realtà nel famoso racconto di viaggio dello scrittore tedesco è il detto “Vedi Napoli e poi muori”.

Colpo di graziaTra tutte le regioni d’Europa, la situazione occupazionale in Campania è la peggiore. Uicialmente solo il 40 per cento della po-polazione attiva lavora e tra le donne la per-centuale scende al 31 per cento. Ovviamen-te la crisi ha solo peggiorato la situazione. Negli ultimi cinque anni si sono persi più posti di lavoro che in qualsiasi altra parte in Italia.

Anche se gli abitanti di Casal di Principe hanno un reddito medio molto inferiore a quello della Tunisia o dell’Algeria, le auto di lusso sono di più anche rispetto ai comuni più ricchi dell’Italia settentrionale. Lo scan-dalo dei riiuti rischia di essere un colpo di grazia all’agricoltura locale. Nessuno osa mangiare le verdure che vengono da queste parti, anche se Slow Food Italia garantisce che molte coltivazioni non sono toccate dalla catastrofe ambientale. I supermercati assicurano che la mozzarella “non contiene diossina”. E la paura d’inquinamento delle falde acquifere sta salendo. Per evitare que-rele dal personale mandato all’estero, l’esercito statunitense, presente nella zona, tiene sotto controllo la situazione. E rispet-to agli americani le autorità sanitarie italia-ne non sembrano molto preoccupate. Non è un caso che la siducia nelle istituzioni sia già molto difusa. Come molti altri anche Vecchione teme che alla ine saranno co-munque i criminali a trarre un vantaggio dalla bonifica. A Vecchione Saviano non piace, e inoltre evita scrupolosamente di fare il nome di Schiavone. “Se si ha la cer-tezza che determinati rifiuti tossici sono stati interrati in determinate zone, qualcu-no mi deve spiegare perché queste zone non sono state evacuate o quanto meno perché non è stata vietata la coltivazione di determinati prodotti agricoli?”, si doman-da. E conclude: “Se poi queste afermazioni fatte da questa persona sono vere e io come autorità competente non provvedo, a que-sto punto posso essere giudicato anch’io responsabile del reato”. u

I malati provenienti dalla Terra dei fuochi arrivano a grappoli nei reparti oncologici

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Le opinioni

Ecco un interrogativo che tiene occupati futurologi, strateghi d’impresa, econo-misti e ministri degli esteri di tutto il mondo. Delle dieci maggiori economie del pianeta, quali andranno meglio e quali peggio nei prossimi quindici anni?

Nel 2013 gli Stati Uniti si attestano al primo posto, con un’economia che è il doppio di quella della Cina e il tri-plo di quella del Giappone, terzo in classiica. Dopo la Germania, al quarto posto, la Francia supera di poco il Regno Unito al quinto posto. Seguono Brasile, Russia, Italia e Canada. L’India, colpita dal crollo della rupia, è all’undicesimo posto.

L’opinione prevalente, influenzata dalla scienza economica convenzionale, è chiara, ed è presentata nel rapporto an-nuale pubblicato dal britannico Centre for economics and business research (Cebr), di orientamento conservatore. Le economie europee, in particolare Francia e Italia, scivoleranno in graduatoria sotto il peso delle tasse, dello stato sociale e dell’invecchiamento della popolazione. La Cina è destinata a conquistare la pri-ma posizione, ma solo nel 2028. L’India salirà al terzo posto. La Russia migliorerà, e così il Mes-sico e il Brasile. Il Regno Unito, se continuerà a ridurre il peso del settore pubblico, non alzerà le tasse, derego-lamenterà il mercato del lavoro, terrà le porte aperte all’immigrazione e si sgancerà dall’Europa, perderà solo una posizione, attestandosi al settimo posto. Ma anche se il Regno Unito e gli Stati Uniti andranno me-glio rispetto all’Europa continentale, il relativo declino dell’occidente continuerà.

I giornali conservatori britannici hanno accolto con entusiasmo le proiezioni del Cebr. Alcuni giornali han-no parlato di un “rinascimento” britannico. Ma la teoria economica su cui si fondano queste previsioni è la pri-ma a essere in crisi. Continuando a sopravvalutare il ruolo delle tasse basse, della deregolamentazione, dell’immancabile eicienza dei mercati e della presun-ta ineicienza dello stato, si comporta come se gli ulti-mi trent’anni – e in particolare la crisi inanziaria del 2008 – non fossero mai esistiti. Oggi la migliore scienza economica è in grado di ofrire una lettura più rainata di ciò che mette in moto l’innovazione, gli investimenti, la produttività e la crescita rispetto alla iducia cieca nell’abbassamento delle tasse e la deregolamentazione dei mercati. C’è una critica al riiuto di capire la com-plessità dei meccanismi attraverso cui le economie e le società creano e assimilano le tecnologie in grado di determinare un cambio di paradigma. E anche le valu-

tazioni sulla qualità del sistema istituzionale di un pae-se – dall’organizzazione delle imprese all’aidabilità e alla trasparenza dello stato – spesso si basano ancora su un’idea “estrattiva” e predatoria del capitalismo, e non sulla sua capacità di inclusione e di creare valore.

Per esempio, in Why nations fail (Perché le nazioni falliscono), Daron Acemoglu dell’Mit e James Robin-son di Harvard presentano i risultati di quindici anni di ricerche su ascesa e declino di una serie di paesi. Siamo lontani dall’analisi del Cebr: secondo i due autori, ciò che diferenzia i vari paesi è la qualità e l’eicienza delle istituzioni economiche e politiche. Il capitalismo deve

essere governato in modo da permettere al nuovo di rimodellare e, eventualmen-te, distruggere ciclicamente il vecchio: bisogna dare spazio a una molteplicità di attori e concorrenti, favorire la sperimen-tazione e spingere le società ad accettare e a correre rischi. Tutto ciò può accadere solo se le istituzioni economiche e politi-che non iniscono in mano a partiti o a gruppi di oligarchi egoisti che si limitano a estrarre valore; le istituzioni devono essere aperte e inclusive, costantemente impegnate a respingere chi sottrae ric-

chezza al resto del sistema. Acemoglu e Robinson han-no ragione, ma i valori dell’inclusività, della responsa-bilità e della trasparenza non riguardano solo le istitu-zioni politiche democratiche. Riguardano l’integrità e la solidità del sistema inanziario; la capacità dei gover-ni di accettare il rischio di investire in tecnologie di frontiera su cui gli imprenditori da soli non investono; i meccanismi che impediscono alle imprese di inire in mano a consigli di amministrazione senza scrupoli e strapagati; l’inclusività negli ambienti di lavoro. Ace-moglu e Robinson, come l’Fmi e l’Ocse, riconoscono che l’aumento della disuguaglianza è una minaccia per la tenuta della società. La disuguaglianza è spia di quanto l’élite sia stata abile a costruire istituzioni che sottraggono valore al resto della società.

Quasi tutte le previsioni del Cebr, in realtà, invitano allo scetticismo. Cina, Russia e Messico, dominate da élite predatorie, andranno davvero così bene? Siamo sicuri che l’Europa sia da buttare? Scommetto anche che gli Stati Uniti, se riusciranno a tenere a bada gli sfa-scisti del Tea party, resisteranno al primo posto. Il Re-gno Unito può raggiungere la Germania, ma solo se insiste sulla strada della politica industriale e getta alle ortiche l’antistatalismo conservatore. Soprattutto, ho forti dubbi sulla crescita senza ine dei paesi più autori-tari dell’Asia o dell’America Latina. L’occidente non è ancora morto. u fas

Le potenze del futuro per i guru dell’economia

Will Hutton

WILL HUTTON

è un giornalista britannico. Ha diretto il settimanale The Observer, di cui oggi è columnist. In Italia ha pubblicato Il drago dai piedi d’argilla. La Cina e l’Occidente nel XXI secolo (Fazi 2007).

Delle dieci maggiori economie del pianeta, quali andranno meglio o peggio nei prossimi quindici anni? Nel 2013 gli Stati Uniti si attestano al primo posto, seguiti da Cina e Giappone

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La prima volta che ho parlato con Mark Kleiman, esperto di politiche sulla droga dell’università della Cali-fornia a Los Angeles, è sta-to nel 2002. Mi spiegò per-

ché legalizzare la marijuana era una cattiva idea. Certo, mi disse, il governo farebbe bene a depenalizzarne il possesso, l’uso e la coltivazione in piccole quantità: Klei-man era contrario a considerare fuorilegge chi usa una droga meno dannosa dell’alcol e del tabacco. Ma temeva che un mercato molto sviluppato avrebbe determinato un forte aumento dei consumi. Non c’è biso-gno di essere proibizionisti per capire che l’erba, specie negli adolescenti e in chi ne consuma molta, può provocare guai seri al cervello.

La notizia interessante, a undici anni di distanza, è che oggi Kleiman guida il grup-po di consulenti dello stato di Washington che stanno progettando un mercato com-merciale e pienamente legale della canna-bis. Washington è infatti uno dei primi due stati americani – l’altro è il Colorado – che hanno legalizzato, per chi ha almeno 21 an-ni, la produzione, la vendita e il consumo di marijuana per uso ricreativo. Il dibattito sulla marijuana è entrato in una nuova fa-se. Oggi la questione non è più se la mari-juana sarà legalizzata, ma come.

“Una legge che la gente non rispetta è una cattiva legge”, mi ha risposto Kleiman

quando gli ho chiesto perché avesse cam-biato posizione. Non si è convinto che la marijuana sia innocua: semplicemente, pensa che un mercato ben regolamentato sia la soluzione migliore per ridurne al mi-nimo gli efetti nocivi.

Ma come funziona un mercato così? Fi-nora pochi posti al mondo, per esempio i Paesi Bassi, hanno legalizzato la marijuana in forma limitata; molti paesi ne hanno de-penalizzato l’uso personale; venti stati americani ne hanno approvato l’uso a sco-po terapeutico, e altri dodici, compreso lo stato di New York, stanno valutando l’ipo-tesi. Il 10 dicembre l’Uruguay ha legalizza-to la marijuana per uso ricreativo. Lo stato di Washington e il Colorado hanno deciso di creare dal nulla un intero settore econo-mico e di evitare, almeno in teoria, gli in-convenienti già incontrati in altri settori come il tabacco, l’alcol e il gioco d’azzardo, che nessuno aveva previsto.

Resta da capire cosa farà il dipartimen-to della giustizia. Per la legislazione fede-rale statunitense, chi commercia cannabis si rende colpevole di un reato. Ma le auto-rità federali hanno sempre lasciato a quelle locali un ampio margine di discrezionalità in fatto di repressione della marijuana. In futuro, per esempio, potrebbero persegui-re solo i produttori che ne coltivano più di un certo quantitativo e quelli che la smer-ciano oltre i conini tra gli stati.

Una delle diicoltà pratiche con cui de-

vono fare i conti i pionieri della legalizza-zione è come impedire che il mercato della marijuana sia inghiottito da pochi grandi profittatori (l’equivalente dell’industria del tabacco), cioè da un potente oligopolio che ha tutto l’interesse a trasformarci in una nazione di sballati. Il proitto non ha nulla di malvagio in sé, ma è dimostrato che il grosso dei guadagni dei traicanti di erba, come dei produttori e distributori di alcol, viene da chi usa quelle sostanze in quantità eccessiva. Kleiman e i suoi colle-ghi immaginano che il miglior modello possibile sia qualcosa di simile all’indu-stria del vino: un mercato frammentato tra molti produttori, nessuno dei quali occupa una posizione dominante. Ci si potrebbe arrivare limitando le dimensioni delle aziende che distribuiscono marijuana. E permettendo ai privati di coltivare qualche piantina in casa, come consente la legge del Colorado. Trasformare l’erba in un prodotto industriale regolamentato e sicu-ro è un’impresa diicile. Bisogna creare laboratori di certiicazione, introdurre nor-me di etichettatura, assumere ispettori che veriichino il rispetto delle regole, imporre limiti alla pubblicità.

Uno dei vantaggi della legalizzazione è la possibilità di tassare un mercato che se-condo le stime dovrebbe valere tra i 35 e i 45 miliardi di dollari e destinare una parte delle nuove entrate iscali a cose più utili. È la stessa tattica usata per il rendere accet-

L’erbadel vicinoBill Keller, The New York Times, Stati Uniti. Foto di Robyn Twomey

Il Colorado e lo stato di Washington hanno autorizzato l’uso della marijuana a scopo ricreativo. E ormai negli Stati Uniti la questione non è più se legalizzare l’erba, ma come creare un mercato regolamentato che tuteli i consumatori

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Le foto di questo articolo ritraggono persone che fumano marijuana a scopo terapeutico in California

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tabili le lotterie all’opinione pubblica, e presenta lo stesso rischio, cioè che un’ini-ziativa meritoria del governo contribuisca a creare una nuova dipendenza. E poi, co-me saranno distribuite le nuove entrate? Quanti soldi andranno alla sanità? Quanti alla polizia? Come calibrare le imposte in modo che la marijuana costi abbastanza da scoraggiare il consumo eccessivo, ma non tanto da far nascere un mercato nero a prezzi stracciati?

Lo stato di Washington e il Colorado dovranno risolvere via via una serie di pro-blemi. L’esperienza ci insegna che faranno di certo qualche errore. Nel 1977 lo stato di New York ha depenalizzato il possesso di piccoli quantitativi di erba a condizione che i consumatori non la esibiscano “in pubblico”. I legislatori non immaginavano che il provvedimento avrebbe creato un pretesto per sbattere in carcere ragazzi ne-ri e ispanici. Con la polizia della città di New York che ti ferma, ti ordina di svuota-re le tasche, e poi ti dice: “Bravo, l’hai esibi-ta in pubblico! E adesso vieni con noi”.

L’esperienza della CaliforniaDalla California, sulla costa occidentale, viene l’esempio di conseguenze indeside-rate di un altro tipo. La legislazione dello stato sull’uso della marijuana a scopo tera-peutico è talmente permissiva che oggi a Los Angeles ci sono più dispensari di erba che Starbucks: perino secondo i sostenito-ri della piena legalizzazione, la situazione è fuori controllo.

“È una farsa: si vede gente che esce dal dispensario con l’erba e la rivende appena girato l’angolo”, dice Gavin Newsom, vice-governatore dello stato ed ex sindaco di San Francisco, favorevole alla legalizzazio-ne. “Se non riusciamo a mettere ordine nel consumo di marijuana a scopo terapeuti-co, come possiamo pretendere che gli elet-tori accettino la depenalizzazione?”. New-som fa parte di un gruppo di discussione su come rendere più ordinato il mercato cali-forniano della marijuana medica, in vista di una sua più ampia legalizzazione nel 2016. Mi ha detto che la California seguirà attentamente la legalizzazione nello stato di Washington e in Colorado, sperando che qualcuno s’inventi – sono parole di Mark Kleiman – “il sistema per legalizzare l’erba ‘in modo ordinato’ evitando che gli ameri-cani ‘si fumino anche il cervello’”. u ma

Il 10 gennaio del 1965 il poeta della beat generation Allen Ginsberg gui-dò una piccola marcia per la legaliz-zazione della marijuana davanti alla prigione femminile di Lower

Manhattan. Con i suoi cartelli e i suoi slo-gan, quel gruppetto di manifestanti diede origine a una delle immagini più emblema-tiche degli anni sessanta: Ginsberg con i iocchi di neve sulla barba e i capelli dirada-ti che portava un cartello con la scritta “Pot is fun” (l’erba è divertente) accanto a un al-tro cartello che diceva: “Pot is a reality kick” (l’erba è una botta di realtà).

La manifestazione fu il primo evento organizzato dalla sezione newyorchese del Comitato per la legalizzazione della mari-juana, il gruppo fondato da Ginsberg e dal poeta Ed Sanders quando ancora la mag-gior parte delle persone che fumavano erba si guardava bene dal parlarne. L’idea, spie-gò Sanders, era quella di “spingere le perso-

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La lunga marciaMartin A. Lee, The Nation, Stati Uniti

Dagli anni sessanta a oggi la battaglia per la legalizzazione della marijuana negli Stati Uniti non è mai stata solo una questione di droga libera

ne che usano la marijuana a trovare il co-raggio di lottare per la sua legalizzazione”. La protesta segnò l’inizio di un movimento di controcultura che negli anni successivi sarebbe diventato una rivolta populista contro la medicina convenzionale e l’uso del potere extracostituzionale.

Ginsberg aveva intuito che la marijua-na, che negli Stati Uniti era vietata dal 1937, “sarebbe diventata un enorme catalizzato-re politico”. Anche se il proibizionismo non impediva a molti di usarla, quella strana sostanza stimolava molti dubbi sull’autori-tà in generale. Non era la composizione chimica della cannabis a incoraggiare lo scetticismo nei confronti della burocrazia, ma l’evidente contraddizione tra l’espe-rienza vissuta e la trita propaganda del go-verno sulla “follia da spinello”, raforzata da una legislazione che prevedeva cinque anni di prigione per il possesso di pochi grammi di erba.

Negli anni sessanta, quando la cannabis cominciò a emergere come fattore deter-minante in una guerra culturale che non è ancora inita, il fatto che fosse una sostanza proibita ne aumentava il fascino. Fin dall’inizio le battaglie per mettere ine al proibizionismo sono state inestricabilmen-te legate a un più ampio movimento per la

L’AUTORE

Bill Keller è un giornalista statunitense. È stato il direttore del New York Times dal 2003 al 2011.

Da sapere La marijuana negli Stati Uniti

Fonte: Wikipedia, Usa Today

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Da sapere

u Il 1 gennaio in Colorado hanno aperto i primi negozi autorizzati a vendere mari-juana a persone di più di 21 anni, in base a una legge approvata con un referendum nel novembre del 2012. I residenti in Colo-rado possono detenere ino a un’oncia (circa 28 grammi) di marijuana, i non re-sidenti ino a un quarto di oncia. In media uno spinello contiene meno di mezzo grammo di marijuana, quindi un’oncia equivale a circa 60 spinelli. Chi vive in Co-lorado e ha più di 21 anni può coltivare ino a sei piante di cannabis “in uno spazio re-cintato e chiuso”. Il possesso e il consumo di marijuana da parte di minori di 21 anni è illegale, a meno che non sia stato pre-scritto da un medico. È vietato fumare marijuana nei luoghi pubblici. È vietato portare marijuana fuori dallo stato.u Secondo alcuni analisti la legalizzazio-ne potrebbe far diminuire il prezzo della cannabis, che inora veniva venduta per uso terapeutico a un prezzo variabile: tra i 150 e i 300 dollari all’oncia, cioè tra i 5 e i 10 dollari al grammo. La marijuana sarà venduta e tassata come l’alcol, perciò a questi prezzi va aggiunta un’imposta che potrà arrivare ino al 29 per cento in città come Denver. I primi 40 milioni di dollari che entreranno nelle casse dello stato sa-ranno usati per costruire scuole, il resto sarà usato per regolare la vendita e orga-nizzare campagne educative. u La marijuana per uso terapeutico è legale in venti stati americani e nel Di-strict of Columbia. Il 9 gennaio il governa-tore Andrew Cuomo ha annunciato che anche lo stato di New York legalizzerà la marijuana per uso terapeutico. Per la leg-ge federale, la marijuana è illegale. Nel di-cembre del 2012 il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha dichiarato che la polizia federale non arresterà i consuma-tori di marijuana in Colorado e nello stato di Washington, dove è legalizzata ma non è ancora in commercio. u Secondo un sondaggio della Cnn, il 55 per cento degli statunitensi è favorevole alla legalizzazione della marijuana, il 12 per cento in più di un anno fa. u Il quotidiano Denver Post, che ha no-minato il primo marijuana editor della te-stata, ha lanciato The Cannabist, un sito dedicato alla marijuana.

La svolta storica del Colorado

giustizia sociale. La marijuana non è mai stata l’unica ossessione di Ginsberg e San-ders: entrambi erano anche paciisti e pro-testavano contro la proliferazione nucleare, la discriminazione razziale e la censura. Nell’ottobre del 1967 Sanders e il suo grup-po folk, i Fugs, salirono su un camion ed eseguirono “l’esorcismo del Pentagono” durante un’enorme manifestazione contro la guerra che lasciò al mondo un’altra ico-na: la straordinaria immagine dei iori che spuntavano dai fucili dei giovani soldati messi a guardia del tempio del complesso militare-industriale.

Nel bene o nel male, la cannabis era strettamente associata alla crescente onda-ta di dissonanza cognitiva che spingeva milioni di americani a contestare la politica estera del loro paese. Per molti altri, tutta-via, il consumo difuso di cannabis era un sintomo, se non addirittura la causa, del

disordine pubblico e della decadenza mo-rale del paese. Henry Giordano, che a metà degli anni sessanta dirigeva il Federal bu-reau of narcotics, dichiarò al congresso che le richieste di legalizzare l’erba erano “un ulteriore tentativo di distruggere il sistema americano”. Denigrato dai politici e idea-lizzato dai dissidenti, quel piccolo iore che milioni di persone amavano fumare era di-ventato un totem della ribellione, un sim-bolo polivalente del conlitto sociale.

Il presidente Richard Nixon capì che po-teva sfruttare il dibattito sulla marijuana a proprio vantaggio. La sua dichiarazione di guerra a oltranza contro le droghe illegali in generale, e la cannabis in particolare, gettò discredito su tutti i movimenti di protesta nati negli anni sessanta. Per Nixon la cro-ciata contro la droga non era solo un siste-ma per goniare le statistiche degli arresti e

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dare l’impressione di un duro attacco alla criminalità. Era anche un mezzo simbolico per stigmatizzare le proteste dei giovani, il sentimento popolare contro la guerra, il po-tere nero e chiunque avesse i capelli troppo lunghi: il proibizionismo aveva poco a che fare con i veri efetti dell’erba e molto a che fare con chi la usava.

Il 27 ottobre 1970 il congresso statuni-tense ratiicò il Controlled substances act, una legge che inseriva le droghe in cinque diverse “tabelle” a seconda della loro sicu-rezza, dell’utilità terapeutica e delle possi-bilità di abuso. Dietro alla decisione del procuratore generale John Mitchell di inse-rire la marijuana nella tabella I dei narcoti-ci, categoria riservata alle droghe pericolo-se senza valore terapeutico, c’era un preciso calcolo politico. “Questo paese andrà così a destra che non lo riconoscerete più”, disse Mitchell a un giornalista. La profezia si sa-rebbe realizzata, e la guerra alla droga avrebbe assunto un ruolo importante nel declino della democrazia statunitense.

Da destra a sinistraLa nuova legge prevedeva che il presidente nominasse una commissione per valutare i rischi della marijuana e dare al governo suggerimenti di politica a lungo termine. Nixon riempì la commissione di falchi del-la guerra alla droga, che però delusero le sue aspettative compilando un rapporto di 1.184 pagine intitolato Marijuana: a signal of misunderstanding. Il rapporto consiglia-va la depenalizzazione del “possesso di marijuana per uso personale” e della “di-stribuzione occasionale di piccole quanti-tà” e suggeriva di studiare la sostanza per capirne meglio gli efetti terapeutici. Ni-xon non lo lesse neanche e ne respinse il contenuto.

Il nuovo attacco del presidente provocò una forte reazione da parte degli antiproi-bizionisti. La National organization for the reform of marijuana laws (Norml), fondata a Washington nel 1970 dal giovane avvoca-to Keith Stroup, cominciò a fare pressione sulle autorità federali e sul parlamento chiedendo che la marijuana fosse tolta dal-la tabella I. La Norml ottenne ampio soste-gno da una strana combinazione di capello-ni di sinistra, liberal in giacca e cravatta e conservatori libertari. Nel 1972 William F. Buckley, il più famoso intellettuale di de-stra statunitense, si dichiarò a favore della legalizzazione. Un suo protetto, Richard Cowan, sarebbe poi diventato direttore esecutivo della Norml. In un articolo sulla National Review, Cowan sostenne che la penalizzazione della marijuana era contra-

ria a tutti i princìpi del conservatorismo: “L’isterica mitizzazione della marijuana ha portato i conservatori ad accettare pro-grammi di ingegneria sociale di massa, l’in-terferenza negli afari dei singoli individui e mostruosi sprechi burocratici”.

Mentre l’idea della depenalizzazione guadagnava terreno, l’associazione degli avvocati americani, l’unione dei consuma-tori, il consiglio delle chiese, l’associazione nazionale degli educatori, l’associazione per la salute pubblica e altre organizzazioni si affrettarono ad appoggiare la riforma della legge. Alla ine degli anni settanta di-versi stati avevano depenalizzato il posses-so di piccole quantità di erba. Durante l’am-ministrazione Carter molti diedero per scontato che prima o poi il governo federale avrebbe depenalizzato la cannabis. Ma la Norml riuscì a trasformare in sconitta una vittoria che sembrava a portata di mano quando, nel 1978, Stroup rivelò che il con-sulente di Carter in materia di droghe, Pe-ter Bourne, aveva partecipato a un cocaina party a Washington. Lo scandalo che ne se-guì costrinse Bourne a dimettersi e il presi-dente a mettere da parte il suo progetto di

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u Il 10 dicembre 2013 l’Uruguay ha approvato una legge che legalizza la produzione, la vendita e il consumo di marijuana nel paese. Sarà il primo paese del mondo ad avere un mercato nazionale della marijuana legale. I maggiorenni uruguaiani iscritti in un registro speciale potranno comprare nelle farmacie autorizzate ino a 40 grammi di marijuana al mese. Secondo il presidente José Mujica, la norma è un’alternativa alla tradizionale politica di lotta alla droga e al narcotraico.

Da sapere Che succede in Uruguay

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Ecco cosa può succedere negli Stati Uniti, secondo la legge di 48 stati, a un adulto sospettato

di possedere marijuana: degli uomini armati possono presentarsi a casa sua, sfondare la porta, metterlo faccia a ter-ra, ammanettarlo, portarlo in un com-missariato e chiuderlo in cella. Se vie-ne condannato, un giudice può ordina-re che sia chiuso in un’altra cella, ma-gari per anni. A volte mettere in cella un essere umano può essere moral-mente difendibile. Per esempio se una persona commette un omicidio, uno stupro o un’aggressione violando i di-ritti altrui. È immorale, invece, mette-re una persona in cella solo perché possiede o assume una sostanza che viene fumata ogni anno da milioni di persone senza danni signiicativi (la maggior parte dei quali, per altro, sono a carico del fumatore). Il fatto che ci siano discriminazioni razziali nei con-fronti di chi viene arrestato per reati le-gati alla marijuana è un’ulteriore in-giustizia che merita la nostra attenzio-ne. Ma anche se la proporzione di bianchi e neri che iniscono dietro le sbarre per marijuana fosse pari, il car-cere sarebbe ugualmente immorale.

Gli Stati Uniti strumentalizzano i reati legati alla marijuana per incarce-rare la gente da talmente tanto tempo che nessuno ci fa più caso. Una puni-zione draconiana per un reato senza vittime è stata istituzionalizzata e nor-malizzata a tal punto che perino chi è a suo favore non ne vede le conseguen-ze. Molti commentatori hanno critica-to la legalizzazione della marijuana ne-gli stati di Washington e Colorado. Ma nessuno di loro sarebbe disposto a mettere la sua irma su un articolo in cui si aferma che una persona colpe-vole di possedere o fumare marijuana

deve essere messa dietro le sbarre in compagnia di pedoili, assassini e rapi-natori. Eppure criticano gli stati che non lo fanno. Chiedete all’opinione pubblica di giudicare una persona che ammetta di aver fatto uso di marijua-na: invece di farla arrestare, probabil-mente la eleggerebbero presidente. Eppure la maggioranza degli elettori di quasi tutti gli stati e tanti parlamentari che hanno fumato erba continuano ad appoggiare leggi che consentono di mettere in prigione i consumatori di marijuana.

L’opinionista David Brooks ha scrit-to sul New York Times che “molte per-sone di questi tempi evitano di parlare dello status morale del consumo di droga perché sarebbe come ammette-re implicitamente che uno stile di vita è migliore di un altro”. Secondo me c’è un problema più urgente: quello degli americani che evitano di parlare del discutibile status morale del proibizio-nismo. Si tratta, in fondo, dello sfrutta-mento delle persone come mezzo per raggiungere un ine. Il ine è continua-re a stigmatizzare l’uso di marijuana. Il mezzo è rinchiudere la gente in gabbia insieme a individui pericolosi.

Un giorno inorridiremo di fronte a questo compromesso immorale. u fas

L’uso di una sostanza molto difusa che non danneggia gli altri non dovrebbe essere punita con il carcere

Doppia morale

Conor Friedersdorf, The Atlantic, Stati Uniti

L’opinione

Da sapere Bianchi e neri

riforma. Dopo l’afare Bourne, nel corso degli anni nacquero diverse organizzazio-ni per chiedere che la legge sulla droga fos-se cambiata: la Drug policy alliance, la Cri-minal justice policy foundation e, più tardi, il Marijuana policy project. Ma le loro argo-mentazioni non trovarono molti sostenito-ri a Washington, e la spinta a favore della cannabis che si era raforzata a partire da-gli anni sessanta si fermò deinitivamente con l’arrivo di Ronald Reagan alla Casa Bianca nel 1981. Reagan rilanciò con forza la “guerra alla droga”. Concesse alla Drug enforcement administration (Dea) e ad altre agenzie poteri straordinari per scate-nare una campagna militare contro la ma-rijuana e altre sostanze illegali a colpi di intercettazioni, condanne minime obbli-gatorie, conische di beni e azioni da stato di polizia.

Ma proprio quando la battaglia per la legalizzazione aveva raggiunto il suo punto più basso, un eroe improbabile si eresse a difensore della cannabis deinendola una risorsa sostenibile dalle molte applicazioni che poteva essere usata come alimento ecologico, ibra, farmaco e strumento di svago. Jack Herer, un carismatico veterano della guerra di Corea ed ex repubblicano all’epoca di Goldwater, fu fondamentale nel suscitare un nuovo interesse per gli usi industriali dimenticati della canapa, una pianta molto apprezzata dai padri fondato-ri americani. Nel suo bestseller The empe-ror wears no clothes, Herer sosteneva che la canapa – la gemella versatile e non psicoat-tiva della marijuana – aveva illimitate pos-sibilità di sostituire il legno e i prodotti pe-trolchimici e di mandare in pensione molte industrie nocive per l’ambiente. Il suo ac-ceso evangelismo ispirò una nuova gene-razione di attivisti. Debby Goldsberry, una delle sue discepole, avrebbe svolto un ruo-lo fondamentale nel dare il via a un movi-mento nazionale a favore della riforma.

Una questione di vita o di mortePiù di qualsiasi altro fattore, a rendere ur-gente la questione dell’uso terapeutico della marijuana fu l’epidemia di aids. I ma-lati dicevano che, stimolando l’appetito, la cannabis era la cura più eicace e meno tossica per il trattamento dell’anoressia e della perdita di peso associate all’hiv. Sen-za la marijuana, molti non avrebbero sop-portato la nausea e gli altri efetti collatera-li degli inibitori della proteasi introdotti come possibile cura a metà degli anni no-vanta. Per chi aveva l’aids, la marijuana era una questione di vita o di morte. Dato che

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Arresti per possesso di marijuana ogni centomila abitanti negli Stati Uniti, bianchi e neri Fonte: Fbi/Uniform crime reporting /Us Census Bureau

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il governo federale reagiva con troppa len-tezza, la Aids coalition to unleash power (Act up) e altre associazioni di attivisti pre-sero l’iniziativa: costruirono reti di soste-gno e organizzarono boicottaggi, manife-stazioni, morti in diretta, distribuzioni gratuite di cannabis e altre forme non vio-lente di disobbedienza civile per attirare l’attenzione sulla catastrofe in corso.

Nessuna città degli Stati Uniti fu più de-vastata dall’aids di San Francisco. E nessu-no svolse un ruolo così importante nel for-nire la cannabis ai malati di aids di Dennis Peron, un gay reduce dal Vietnam che fa-ceva politica a ianco del leader del movi-mento di liberazione omosessuale Harvey Milk. Quando aprì il San Francisco buyers club, un’associazione con un banco vendi-ta che a metà degli anni novanta forniva marijuana a più di diecimila persone, Pe-ron infranse la legge perché potesse essere modiicata. Il circolo della cannabis di Pe-ron fu uno dei pionieri di quello che più tardi i sociologi avrebbero deinito il “mo-dello San Francisco” : un dispensario di marijuana a scopo terapeutico che consen-te il consumo sul posto e incoraggia i pa-zienti a socializzare, fumare, fare nuove amicizie e avvalersi di consulenze e servizi ricreativi.

Peron e i suoi volontari furono gli ispi-

ratori del movimento che avrebbe portato alla Proposition 215, la legge sulla marijua-na per uso terapeutico della California. La sua approvazione nel 1996 cambiò tutto: diede uno scossone all’establishment e mise lo stato più popoloso del paese in rot-ta di collisione con il blocco favorevole al controllo della droga. In gioco non c’era solo la condizione dei malati di aids. Se la società statunitense accettava la marijua-na a scopo terapeutico, il dibattito sulla cannabis avrebbe preso una piega diversa e forse sarebbe stato possibile abbattere l’intero ediicio della guerra alla droga.

La reazione fu violenta e immediata. Le autorità federali, insieme alle forze di poli-zia statali e locali, reagirono alla crescente difusione della marijuana a scopo tera-peutico inviando unità paramilitari contro i cittadini, devastando case, distruggendo giardini, facendo irruzione in centinaia di circoli della cannabis, sequestrando beni, minacciando i medici e processando i for-nitori. Ma nulla poteva fermare il movi-mento: l’erba era troppo divertente o trop-po importante per troppe persone.

La rivolta scoppiata sulla costa occi-dentale avrebbe innescato una reazione a catena in tutto il paese. Fino a oggi, venti stati, più il Distretto di Columbia, hanno legalizzato la cannabis a ini terapeutici. La

grande svolta, arrivata nel 2012 quando gli abitanti del Colorado e dello stato di Wa-shington hanno votato a favore della lega-lizzazione della marijuana a uso ricreativo, è stata il culmine di un movimento che la California aveva messo in moto sedici anni prima.

Washington sta a guardareIl 29 agosto 2013 il dipartimento di giustizia ha pubblicato le nuove linee guida della po-litica sulla marijuana afermando che Wa-shington non interferirà con le scelte degli stati che ne hanno legalizzato la vendita e il consumo purché rispettino certe norme. Ma la legge federale rimane immutata: la cannabis è ancora nella tabella I, quindi è uicialmente classiicata come una sostan-za pericolosa senza alcun valore curativo. Solo il tempo ci dirà se l’ultimo comunicato del dipartimento di giustizia rappresenta una svolta signiicativa nella “guerra alla droga”. Ma una cosa è certa: l’amministra-zione Obama non avrebbe mai cambiato atteggiamento se migliaia di persone favo-revoli alla legalizzazione non avessero insi-stito nello sidare una politica venale, di-struttiva e disonesta, che ha favorito la cri-minalità e alimentato la discordia sociale, l’ingiustizia razziale, la corruzione della po-lizia e lo stesso abuso di droga. u bt

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Le lobbydi domani Rory Carroll, The Guardian, Regno Unito

Chi critica la legge del Colorado sostiene che la campagna per la legalizzazione somiglia a quella dell’industria del tabacco

Le persone che hanno realizza-to il sogno hippy non hanno l’aspetto giusto: invece di ma-gliette colorate per celebrare la prima vendita legale di er-

ba, gli attivisti della legalizzazione della marijuana a scopo ricreativo in Colorado indossano giacca e cravatta. Invece di par-lare di controcultura, parlano di regola-menti, tasse e responsabilità aziendale. Sembrano uomini di successo, sobri e con-formisti.

Con lo stato di Washington pronto a se-guire il Colorado entro la ine del 2014, e gli attivisti di una decina di altri stati pronti a lottare per una maggiore legalizzazione, la marijuana sta facendo nascere una gran-de industria con i suoi sostenitori, gruppi di interesse e lobbisti. Il Marijuana policy project, la Drug policy alliance, il Medical marijuana industry group e la National cannabis industry association sono solo alcuni dei gruppi in competizione tra loro per condizionare l’opinione pubblica e la politica di Washington.

Per Diane Goldstein, un’ex tenente del dipartimento di polizia di Redondo Beach, in California, diventata un’attivista dell’as-sociazione antiproibizionista Law enfor-cement against prohibition, questa è la prova che la società si è ribellata alla guerra alla droga. “La gente non ritiene più che sia pericoloso valutare in modo razionale una politica fallimentare”, dice Goldstein. Ma per Kevin Sabet del gruppo Smart approa-ches to marijuana, contrario alla legalizza-zione, i festeggiamenti del primo gennaio nei negozi di Denver che vendevano erba sono la prova del successo di una campa-gna di manipolazione simile a quella dell’industria del tabacco. Molti statuni-tensi, sostiene Sabet, non sanno che l’erba

può causare danni duraturi alla salute, so-prattutto dei giovani, e che l’American me-dical association è contraria alla legalizza-zione. Quello che quarant’anni fa era un movimento d’avanguardia si è trasformato in un’organizzazione ben collaudata e ben inanziata con sede a Washington, spiega Sabet, che dirige anche l’istituto di politica delle droghe dell’università della Florida. Secondo lui l’industria della marijuana sta imitando quella del tabacco nel tentativo di far apparire il suo prodotto praticamente innocuo mentre usa la chimica e il marke-ting per trasformare i consumatori in tossi-codipendenti. Il settore, afferma, com-prende una vasta coalizione di gruppi di pressione, sponsor miliardari come Geor-ge Soros e il compianto Peter Lewis, e inve-stitori in cerca di proitto come la Privateer Holdings e il gruppo ArcView.

Si calcola che nel 2013 sia stata venduta marijuana per uso terapeutico per un valo-re di circa 1,43 miliardi di dollari, e che questa cifra sia destinata ad aumentare in modo esponenziale con l’arrivo dell’erba a scopo ricreativo.

Senza dubbio ne ha fatta di strada l’in-dustria da quando Keith Stroup fondò la Norml (National organization for the re-form of marijuana laws) con cinquemila

dollari della Playboy foundation nel 1970.Gli attivisti dicono che cambiare look è

stato naturale. Qualche anno fa, quando esortava gli studenti universitari del Colo-rado a sostenere la legalizzazione, Mason Tvert indossava magliette slabbrate. Ma dopo aver vinto la sua battaglia con il refe-rendum del novembre 2012 è diventato direttore delle comunicazioni del Marijua-na policy project e si è trasferito in un ui-cio elegante, con diversi collaboratori, vi-cino alla capitale dello stato. “Sì, ora porto giacca e cravatta”, dice sorridendo. Ma la cosa più importante, precisa, è il messag-gio fondamentale della campagna: l’erba è meno pericolosa dell’alcol.

Parlare con legislatori e politici è stato cruciale per ottenere la riforma, aferma Michael Elliott, direttore esecutivo del Medical marijuana industry group. “Stia-mo facendo pressione perché sia regola-mentata e tassata. Ecco perché ci siamo avvicinati al parlamento. Andiamo lì ogni settimana”. Il gruppo si è trasferito di re-cente in una nuova sede a Denver.

Dieci anni per crescereTvert ed Elliott attribuiscono il merito del-la legalizzazione al fatto che ormai per la gente il divieto è stato un fallimento e ha prodotto inutili arresti di massa e sprechi di denaro pubblico. Goldstein, l’ex poli-ziotta, dice che i gruppi a favore della lega-lizzazione hanno ancora poche risorse e non si possono deinire lobbisti. Molti non sono pagati.

Secondo Mark Kleiman, esperto di po-litiche sulla droga dell’università della Ca-lifornia a Los Angeles, l’industria della marijuana non è un gruppo unito, con inte-ressi comuni. Molti di quelli che sono auto-rizzati a coltivare e vendere erba a scopo terapeutico, per esempio, rischiano pesan-ti perdite a causa della legalizzazione della cannabis a scopo ricreativo perché la con-correnza aumenterà e i prezzi scenderan-no. Finora, spiega, a condurre la battaglia per la legalizzazione non sono state lobby interessate al proitto ma gruppi di difesa dei consumatori e inanziatori come Soros, che ci guadagneranno poco o niente. Que-sto probabilmente cambierà con l’ulteriore legalizzazione e quando cominceranno a circolare più soldi.

“Da lobby puramente ideologica, an-che quella della marijuana diventerà una lobby industriale”, dice Kleiman. “Volete sapere se tra dieci anni ci sarà una lobby della marijuana agguerrita che cercherà in tutti i modi di evitare tasse e regolamenti? Sì. Ma oggi non è questo il problema”. u bt

Da sapere Il commercio di marijuanaFatturato lordo negli Stati Uniti, in miliardi di dollariFonte: Marijuana Business Daily

(Stime)

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40 Internazionale 1034 | 17 gennaio 2014

Cina

Nell’inverno del 2009 tra-scorrevo i ine settimana nella città di Tangshan, nel nordest della Cina, e mangiavo quasi sempre la cucina tipica della re-

gione dello Xinjiang, nell’estremo ovest. Come altre minoranze cinesi, anche gli ui-guri, nativi dello Xinjiang, si sono fatti co-noscere nel resto del paese soprattutto at-traverso la gastronomia. Durante i miei viaggi ho sempre preferito i loro ristoranti, che si trovano ovunque in Cina. Ma quello dove andavo di solito a Tangshan aveva qualcosa d’insolito: i camerieri erano giova-nissimi. Due bambine sugli otto anni con il velo musulmano prendevano la mia ordi-nazione e la comunicavano alla cucina, aiu-tate dal fratello maggiore, un ragazzino pafuto.

La scelta di far servire i clienti dai bam-bini richiamava l’immagine stereotipata che i cinesi danno delle minoranze: come si

resse attento e pieno di simpatia per il mon-do, i libri e le altre culture era un piacere. Quell’autunno avrebbe lasciato Pechino per cominciare un dottorato all’università dello Xinjiang, a Urumqi, il capoluogo.

Come tante altre cose, anche la lingua è oggetto di controversie nello Xinjiang, dove molti uiguri crescono imparando, nel mi-gliore dei casi in modo rudimentale, la lin-gua uiciale della Cina, il putonghua, cioè il mandarino. Per gran parte dei cittadini ci-nesi padroneggiare il mandarino è priorita-rio. L’uso dei “dialetti” locali è infatti sco-raggiato dai mezzi d’informazione e dal si-stema scolastico, e non di rado i datori di lavoro respingono chi ha un marcato accen-

Far westcinese

James Palmer, China File, Stati UnitiFoto di Carolyn Drake

Nello Xinjiang, regione all’estremo ovest della Cina, i rapporti tra la popolazione uigura e i coloni han sono sempre più tesi. E la guerra al terrore di Pechino ha radicalizzato la violenza

è visto per esempio nella cerimonia di aper-tura delle Olimpiadi del 2008, in Cina le minoranze sono regolarmente rappresen-tate dai bambini. Quella scelta creava un’at-mosfera familiare e gradevole per la clien-tela, appartenente alla maggioranza han, specialmente perché i bambini, a diferen-za dei genitori, parlavano correntemente il mandarino. A volte, però, la porta sul retro si apriva consentendomi di intravedere un mondo diverso: un gruppetto di uomini ui-guri e una donna fumavano, cucinavano e si scambiavano battute nella loro lingua, completamente isolati dai clienti seduti ai tavoli. Una volta, dopo aver fatto amicizia con loro, ho chiesto alle bambine da quanto tempo facessero le cameriere. “Da luglio”, mi hanno risposto. Non sorprendeva che il ristorante avesse voluto darsi un volto più amichevole proprio in quel periodo. Era l’epoca in cui alcuni manifestanti uiguri avevano cercato di uccidere un mio amico.

Una terra divisa

Avevo conosciuto “Bruce” Li per caso, sulla metropolitana di Pechino, nel 2007. Io in-dossavo una maglietta con sopra stampata la bandiera svedese, e lui mi aveva lanciato un “god kväll” (buonasera in svedese) ma poi, di fronte alla mia perplessità, era passa-to all’inglese. Era un ragazzo del sud, ossuto e dal sorriso facile; aveva appena inito un master in linguistica e, pur non essendo mai stato all’estero, parlava quattro lingue stra-niere. Avevamo fatto amicizia: il suo inte-

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to regionale. Malgrado questo, in dall’ini-zio la politica linguistica della Repubblica popolare cinese è stata lessibile nei riguar-di delle minoranze etniche. Alle lingue mi-noritarie è stato accordato uno status pari-tetico, dichiarandole lingue uiciali delle rispettive regioni; inoltre sono state aperte scuole speciali per insegnarle, e i quadri han inviati nelle regioni di conine sono stati in-coraggiati a impararle. In tutta la Cina le banconote sono stampate in cinque lingue diverse, uiguro compreso. Ma la politica del governo ha creato due gruppi distinti tra gli uiguri: i minkaohan, cioè i pochi che studia-no in mandarino, e i minkaomin, che studia-no nella loro lingua. Tuttavia, i datori di la-

voro non uiguri non apprezzano i minkao-

min, e il fatto di non parlare il mandarino li esclude automaticamente da alcune pro-fessioni. A loro volta, i minkaomin giudica-no opportunisti gli studenti minkaohan ol-tre che traditori nei confronti del proprio retaggio linguistico e culturale. Il mio ami-co Li era curioso di scoprire in che lingua si esprimessero i minkaohan quando si incon-travano, soprattutto in presenza di terze persone.

Al di là della sua professione, Li aveva una passione per il paesaggio e la cultura della regione. Mi mandava email con de-scrizioni liriche delle sue escursioni sulle dune e sulle montagne, i banchetti uiguri a

cui era invitato e il volo degli uccelli nel cie-lo sgombro di nuvole. Mentre molti dei suoi compagni di università se ne stavano tra lo-ro, Li abitava per scelta lontano dalla facol-tà, in una zona popolata da uiguri, e divide-va l’appartamento con tre coetanei del po-sto. Si era conquistato la iducia di tutti, al punto che, raccontava, “non facevano che mostrarmi carte del Turkestan orientale dicendo : ‘Guarda, ecco il nostro paese’”. Nello Xinjiang le carte geograiche sono un altro argomento di discussione: sono quasi tutte scritte esclusivamente in cinese, mal-grado la regione sia bilingue, e il nome geo-graico Turkestan Orientale è legato ai na-zionalisti uiguri. Usarlo senza aggiunte – per

Kashgar, Xinjiang, 2008

esempio, il cosiddetto Turkestan Orientale – è molto rischioso. Mostrando le loro map-pe, che per lo più erano copie di mappe oc-cidentali o russe disegnate prima della na-scita della Repubblica Popolare Cinese, gli amici di Li, pur accogliendolo nella loro cer-chia, afermavano la loro identità naziona-le. Il messaggio era semplice: il nostro paese esisteva prima dell’arrivo del tuo popolo.

Il 5 luglio 2009, insieme ad altri studen-ti, Li era in giro per acquisti nel gran bazar, una delle principali attrazioni turistiche di Urumqi. A un certo punto hanno sentito che in centro c’erano dei disordini e sono anda-ti a vedere. In efetti la manifestazione ave-va preso una piega minacciosa: i dimostran-ti gridavano e avevano cominciato a rove-sciare automobili, e in giro non si vedeva neanche un poliziotto. A quel punto gli stu-denti hanno deciso di tornare a casa, per non rischiare guai seri.

Li ha preso un autobus da solo e, mentre stava seduto cercando di tenere in equili-brio l’anguria che aveva in grembo, un grup-po di giovani uiguri, molti agitando dei col-telli, ha impedito al mezzo di proseguire. Li ha alzato in aria il telefonino per scattare delle foto, e il suo vicino, un anziano han, gliel’ha strappato di mano sibilando: “Non li provocare!”. Ma intanto i teppisti si sono messi a far oscillare l’autobus, e i passegge-ri, in maggioranza han, hanno cominciato a gridare di paura. Alla ine il mezzo si è rove-sciato, alcuni ragazzi hanno estratto a forza il conducente e – come mi ha raccontato Li mesi dopo, mentre cenavamo insieme a Pe-chino – “gli hanno staccato la testa”. Li è uscito dal inestrino posteriore e si è messo a correre, sempre reggendo il suo cocome-ro. Alcuni degli uiguri l’hanno inseguito brandendo i coltelli. Lui gli ha scagliato contro l’anguria e ha imboccato di corsa un vicolo. Alla ine si è rifugiato con un gruppo di non uiguri come lui in un albergo. Il per-sonale li ha fatti salire al 19° piano, ha bloc-cato gli ascensori e ha alzato una barricata per impedire l’accesso alle scale. Dall’alto si sentiva gridare in coro “Ammazziamo gli han, schiacciamo gli hui (un’altra minoran-za musulmana), cacciamo i mongoli!”.

La prima notte dopo quella sommossa Li e altri studenti non uiguri, temendo nuo-ve aggressioni, si sono barricati nel dormi-torio armati di bastoni e coltelli. “Uno dei miei amici uiguri mi ha dato il suo coltello”, ha raccontato senza scendere in dettagli. Nei giorni seguenti hanno ascoltato – diver-titi ma non troppo – i telegiornali cinesi rife-rire che a Urumqi era tornata l’unità etnica e proclamare che nessun terrorista può di-struggere l’amore tra han e uiguri. “Hanno

annunciato che i trasporti pubblici avevano ripreso a funzionare, ma senza dire che tut-ti i passeggeri a bordo erano poliziotti in borghese”.

Ormai la vita di Li nella comunità uigura era andata a monte. Ogni volta che si trova-va a essere l’unico han, lo assaliva la paura. Ha evitato a lungo i suoi ex coinquilini; quando li ha rivisti, racconta, “erano in compagnia di altri ragazzi che non conosce-vo. Parlavano molto in fretta in modo che non li capissi, e mi issavano”. Insomma, non era il solo a essere in paranoia.

A Urumqi regnava la paura; una setti-mana dopo la sommossa hanno cominciato a circolare voci secondo cui gli uiguri (o gli han, a seconda di chi parlava) si aggiravano tra la folla iniettando agli stranieri sangue infetto dal virus dell’aids. Era una vecchia

leggenda metropolitana che aveva semina-to il panico a Pechino e a Tianjin nel 2002, ma in una versione colorata di odio etnico. Fatto sta che davanti agli ospedali hanno cominciato a formarsi ile di persone che chiedevano di fare il test dell’hiv. E così una città già divisa da conini razziali ha esacer-bato la segregazione, e sia gli uiguri sia gli han hanno cominciato a pensare che vasti settori fossero of limits per l’etnia opposta. Nei due anni in cui Li ha continuato a viver-ci, le cose sono un po’ migliorate, ma non troppo. Li continuava, malgrado tutto, a sforzarsi di simpatizzare con gli uiguri e di comprenderne le posizioni. Quell’atteggia-mento era reso possibile, tra l’altro, dalle sue conoscenze di linguistica globale, un campo disciplinare che si occupa di potere, dominazione e culture minacciate. Grazie ai suoi studi Li disponeva, per comprendere la situazione, di un vocabolario che agli altri han mancava quasi del tutto.

La rivolta più cruentaLe violenze interetniche del 2009 a Urumqi sono state le più gravi mai scoppiate in Cina dalla ine della rivoluzione culturale. Le vit-time sono state almeno 194, in gran parte han. Ma sono rimasti uccisi anche diversi uiguri: manifestanti, piccoli commercianti, e altre persone rimaste vittime delle ritor-sioni degli han. Questi gesti di vendetta so-no stati arginati dall’arrivo di forze parami-litari e di altre autorità statali che hanno cercato di impedire ritorsioni senza però esitare un istante ad arrestare qualsiasi gio-vane uiguro imprudente che si facesse tro-vare in strada di notte. Le autorità attribui-vano le aggressioni non agli uiguri, bensì a

Cina

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Kashgar, Xinjiang

u Lo Xinjiang è una delle cinque regioni autonome cinesi (insieme a Tibet, Mongolia Interna, Ningxia e Guanxi) passata sotto il controllo della Repubblica Popolare Cinese nel 1949. È abitata prevalentemente da uiguri, musulmani e turcofoni, legati etnicamente e culturalmente all’Asia centrale. Dagli anni cinquanta Pechino ha cominciato a promuovere l’immigrazione di cinesi han (la maggioranza nel paese) nella regione per riequilibrare il rapporto demograico. La crescita della popolazione han e le politiche discriminatorie contro gli uiguri hanno alimentato le tensioni. La maggioranza degli uiguri chiede la ine della discriminazione culturale e religiosa. I separatisti vogliono l’indipendenza della regione, che chiamano Turkestan Orientale.

Da sapere Convivenza forzata

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Pechino sta usando metodi stalinisti degli anni trenta per schiacciare qualsiasi forma di dissenso degli uiguri nello

Xinjiang. Il 16 dicembre 2013, in un vil-laggio non lontano da Kashgar, ex ca-poluogo della regione, ci sono stati scontri a fuoco in cui sono morti 14 ui-guri e due poliziotti, ma sembra che gli uiguri fossero armati solo di coltelli e asce. Il governo di Pechino ha accusato i terroristi dell’islamismo estremista le-gati ad Al Qaeda. Secondo il World ui-ghur congress (Wuc), una organizza-zione di uiguri in esilio, è stata la polizia ad aprire il fuoco sulle persone che par-tecipavano a una manifestazione di protesta. “L’abuso della forza da parte delle autorità nella regione”, sostiene il Wuc, “ha privato gli uiguri del diritto alla vita”. Anche in questo caso, come per tanti altri avvenimenti politici di quella regione opaca che è l’Asia cen-trale, esistono due versioni completa-mente diverse e non veriicabili.

I fatti di dicembre sono stati prece-duti da molte altre aggressioni contro le forze di sicurezza cinesi nello Xin-jiang, ma anche dal primo attentato suicida mai accaduto a Pechino nella storia recente: quello del 28 ottobre 2013 in piazza Tiananmen, quando un’automobile carica di taniche di ben-zina e guidata da tre uiguri è esplosa dopo essersi schiantata contro uno de-gli ingressi della Città proibita. Sono morte cinque persone, tra cui gli atten-tatori, e più di quaranta sono rimaste ferite. All’attentato sono seguiti arresti di massa tra gli uiguri a Pechino e in al-tre città. Ma inora l’episodio più san-guinoso risale al luglio del 2009, quan-

do quasi 200 persone, forse addirittura 400, sono rimaste uccise a Urumqi, il ca-poluogo dello Xinjiang, in scontri durati vari giorni tra uiguri e cinesi di etnia han. Secondo Pechino dietro questi attacchi ci sarebbe il Movimento islamico del Turke-stan Orientale. I cinesi accusano il gruppo islamista, che ha alcune basi in Afghani-stan e Pakistan e ha legami con Al Qaeda, di puntare alla separazione dello Xinjiang dalla Cina. Tuttavia gli uiguri sono in maggioranza laici o praticano una forma moderata di islam, e storicamente più che dar vita a movimenti islamisti radicali hanno combattuto per una maggiore au-tonomia.

È indiscutibile, però, che alcuni gruppi estremisti pachistani abbiano chiamato gli uiguri ad addestrarsi e a combattere a ianco dei taliban, così come è indubbio che alcuni uiguri si dedichino al traico di droga facendo uscire di nascosto dall’Af-ghanistan carichi di eroina destinati al mercato cinese. Anche se solo uiciosa-mente, le autorità cinesi hanno esercitato forti pressioni sul Pakistan e sull’Afghani-stan perché sradicassero dal loro territorio i gruppi estremisti uiguri.

Un tempo gli uiguri dominavano un vasto impero nell’Asia centrale. Oggi si oppongono al governo cinese perché li ha ridotti in minoranza nella loro stessa terra, trasferendo nello Xinjiang, a partire dagli anni cinquanta, milioni di cinesi di etnia han, i quali hanno potuto beneiciare dei posti di lavoro, degli alloggi e delle struttu-re scolastiche migliori. Gli uiguri e la fede islamica hanno subìto una dura repressio-ne da parte di Pechino. L’ultimo provvedi-mento è stato l’annuncio, a novembre, che gli universitari uiguri non potranno laure-arsi se le loro opinioni politiche non saran-no approvate dalle autorità. Del resto Pe-chino ammette apertamente di aver av-viato “una battaglia all’ultimo sangue” per conquistare il consenso popolare. Il tutto ha incredibili ainità con i metodi brutali che Stalin usò negli anni trenta in

Asia centrale per tentare di sofocare la fede musulmana dei suoi abitanti. Il dittatore diede un giro di vite nei con-fronti di ogni pratica e rituale religioso. Le moschee erano rare e gli ulema, for-mati dallo stato, erano considerati dal popolo dei fantocci del governo. Ma l’islam e i suoi riti hanno continuato a iorire in clandestinità. Nei miei viaggi nell’Asia centrale sovietica, negli anni settanta e ottanta, ho visto i musulma-ni celebrare matrimoni, funerali e ceri-monie di circoncisione di notte, per evitare problemi con la polizia.

Tattica ineicaceCosì, quando Mikhail Gorbaciov ha da-to il via alla sua politica di apertura, è emerso come la fede islamica fosse an-cora profondamente radicata malgra-do settant’anni di repressione. Ma in-sieme sono venuti a galla anche i ran-cori del passato, che spiegano la forma-zione di gruppi islamisti estremisti nell’Asia centrale. Oggi nello Xinjiang sono in vigore molte di quelle misure staliniste che nell’Unione Sovietica, evidentemente, non hanno dato i risul-tati sperati. Gli studenti uiguri di fede musulmana non possono digiunare per il ramadan durante il periodo delle le-zioni e degli esami, e la preghiera pub-blica è scoraggiata. I vecchi quartieri medievali e musulmani di Kashgar vengono rasi al suolo e al loro posto sorgono grattacieli di cemento armato. L’antico bazar è praticamente scom-parso. Non sorprende, quindi, che nei campi dei taliban a sud della regione ci siano sempre più giovani uiguri.

Per quanto riguarda il tentativo di reprimere la fede religiosa, lo stalini-smo insegna che non funziona. Peral-tro, l’attuale versione annacquata del comunismo cinese, con la sua marcata vocazione al consumismo, può senz’al-tro coesistere con la religione. L’islam diventa una minaccia solo quando i musulmani sono repressi e trattati da cittadini di serie b. Purtroppo, nella ter-ra dove è iorita una delle più antiche civiltà del mondo, le vessazioni nei confronti della fede religiosa sono in aumento. ◆ ma

Ahmed Rashid è un giornalista pachi-stano esperto di Asia centrale. Il suo ulti-mo libro pubblicato in Italia è Pericolo Pakistan (Feltrinelli 2013).

I cinesi usano una politica repressiva che ricorda quella del dittatore sovietico in Asia centrale, scrive Rashid

I metodi stalinistidi Pechino con gli uiguri

Ahmed Rashid, Financial Times, Regno Unito

L’opinione

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Cina

non meglio identiicati “terroristi”.Ma molti abitanti dello Xinjiang hanno

sentito raccontare che altrove, in quei gior-ni, erano scoppiate violenze ispirate dai fat-ti del capoluogo. Si trattava in gran parte di resoconti riportati da uiguri di aggressioni commesse da han per vendetta, in cui erano morte “alcune” persone, e che le autorità locali avevano taciuto. Nei mezzi d’infor-mazione uiciali cinesi le sommosse erano presentate attraverso l’unica lente del ter-rorismo. Era la politica adottata dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, usando co-me pretesto la guerra al terrorismo dichia-rata dagli Stati Uniti.

I mezzi d’informazione controllati dal governo cinese hanno dato la colpa dei di-sordini a “terroristi musulmani” che incan-tavano i giovani con slogan seducenti. Co-me sempre succede quando qualcosa va storto nello Xinjiang, le accuse di aver ordi-to le aggressioni sono cadute su Rebiya Ka-deer, una leader uigura esule negli Stati Uniti, e il suo World uyghur congress (Wuc). In realtà il coinvolgimento del Wuc si era limitato ad alcuni fax che davano notizia delle proteste in tempo reale, seguiti da co-municati stampa in cui lo stesso Wuc accusava la polizia di aver innescato le violenze sparando su uiguri disarmati.

Gli organi d’informazione ci-nesi hanno cercato di distinguere tra i “terroristi” e i comuni cittadini uiguri, descrivendo quelli aggrediti come vittime “innocenti” o “civili” e hanno continuato a farlo nel 2013, durante un’altra estate di vio-lenze.

I disordini nello Xinjiang sono stati ri-vendicati da gruppi terroristici, ma se questi gruppi siano davvero pericolosi è una que-stione molto discussa, come tutto il resto. Le autorità cinesi demonizzano in partico-lar modo l’Etim, il movimento islamico del Turkestan Orientale, ma non è chiaro se l’Etim sia una vera e propria organizzazione o un appellativo adottato da piccoli gruppi isolati a seconda delle circostanze. Attenta-ti e aggressioni armate nella regione sono frequenti. Ma si potevano proporre inter-pretazioni delle rivolte uigure più realisti-che rispetto all’idea dei giovani fuorviati da malvagi mullah, e anche rispetto alla tesi dell’innocenza indiscutibile degli uiguri avanzata da organizzazioni di esuli come il Wuc. Queste vicende mi ricordano le stragi etniche e le violenze anticoloniali: penso alla Bosnia, all’India e in particolare al ciclo di atrocità e di reazioni che ha scosso l’Alge-ria negli anni cinquanta, alla ine della do-minazione coloniale della Francia. È vero

che i francesi non hanno mai into che l’Al-geria fosse sempre stata francese, come fanno i cinesi con lo Xinjiang. Ma a dife-renza degli altri possedimenti coloniali francesi, l’Algeria era un dipartimento della madrepatria, e i bambini algerini comincia-vano il programma scolastico di storia par-lando dei “nostri antenati, i Galli”. Esaspe-rati dalle umiliazioni e dagli espropri, gli algerini hanno commesso atrocità ai danni dei francesi, in particolare dei coloni, e a loro volta sono stati vittime di atrocità.

In Cina, però, fare questi parallelismi è impensabile. L’imperialismo e il coloniali-smo sono politiche che la Cina ha subìto, non che inligge. Un mio amico russo che studia all’università di Pechino e si sta spe-cializzando nella contesa ottocentesca fra Qing e russi per la Siberia, ha parlato di “im-perialismo cinese” in una tesina, e il suo tutor lo ha rimproverato: “Solo gli stranieri possono essere imperialisti!”.

La nuova frontiera

Come indica il suo nome, che letteralmente signiica “nuova frontiera”, lo Xinjiang è rimasto fuori del controllo della Cina per

quasi tutta la storia dell’impero. Cadde sotto l’amministrazione imperiale solo nel 1745, all’epoca delle conquiste Qing; e anche al-lora fu quasi del tutto abbandona-to a se stesso. Altre minoranze,

come i mongoli e gli hui, si sono fatte strada nei libri di storia cinesi dove sono deinite di volta in volta dominatrici, predatrici o ribel-li. Quali che siano le altre loro identità, la loro storia è legata a doppio ilo a quella del-la Cina. Invece gli uiguri furono e sono peri-ferici, e questo è uno dei motivi per cui i re-centi tentativi di accreditare un’ininterrotta presenza cinese nello Xinjiang sono assurdi e suscitano profonda indignazione. La “marcia trionfale” dell’Esercito popolare di liberazione cinese attraverso lo Xinjiang, nel 1949, con la sconitta dei “ribelli” uiguri e kazachi, ha sancito una volta per tutte la presenza han nella Cina occidentale. Spes-

so i cinesi han in età avanzata che hanno vissuto nello Xinjiang tra gli anni cinquanta e settanta ricordano con nostalgia quello che considerano un periodo di benessere generale: “I rapporti erano ottimi”, dice Ren, un pechinese di 80 anni che negli anni cinquanta è stato inviato dal governo a lavo-rare nello Xinjiang, e ci è rimasto a lungo.

Oggi, invece, le relazioni tra han e uiguri sono le più tese della Cina. Dal punto di vi-sta degli uiguri, i motivi sono ovvi: gli han sono degli occupanti, degli invasori e dei predatori. Quando alcuni uiguri, specie se maschi, parlano tra loro, i termini spregiati-vi nei confronti degli han abbondano. Le autorità centrali e gli abitanti dello Xinjiang vivono letteralmente in due fusi orari diver-si. Le istituzioni statali e la maggior parte degli han seguono l’ora di Pechino. Invece gli uiguri calcolano il tempo in base alla po-sizione geograica della loro regione, che ha due ore di diferenza rispetto a Pechino. Uf-ici e imprese dello Xinjiang oscillano tra le due. In pratica gli uiguri passano disinvolta-mente dall’“ora dello Xinjiang” all’“ora di Pechino”. Invece molti han, segregati in co-munità strettamente sorvegliate dalla capi-tale, preferiscono il ritmo di vita approvato dal governo.

L’ostilità si è inasprita negli anni ottanta, dopo la liberalizzazione economica della Cina, e la causa principale è stata il trasferi-mento nello Xinjiang di molti han, che dall’essere una minoranza della popolazio-ne locale hanno raggiunto il numero degli uiguri. Agli occhi di questi ultimi, gli han sono venuti a saccheggiare le ricchezze sempre più ingenti che lo Xinjiang ricavava dall’attività mineraria e petrolifera. “La no-stra regione dovrebbe essere ricca come l’Arabia Saudita”, mi ha detto quest’estate un manovale uiguro, mentre bevevamo bir-ra insieme in un cantiere di Pechino. Via via che gli han si stabilivano nello Xinjiang, gli uiguri se ne andavano. Anche loro, come chiunque in Cina, si spostano per lavoro: e con l’arrivo in massa degli han, il lavoro per gli uiguri ha cominciato a scarseggiare, tan-to da innescare una diaspora che si è sparsa per tutto il paese.

Oggi, nello Xinjiang, la normativa ui-ciale nei confronti degli uiguri può sorpren-dere per la sua sensibilità, ma la sua appli-cazione è tutt’altra storia. Nel menù delle mense di tutte le istituzioni statali della Ci-na, almeno in teoria, ci sono piatti halal, cioè idonei al consumo da parte di musul-mani osservanti; eppure durante il mese del ramadan il personale universitario costrin-ge gli studenti uiguri a mangiare di giorno, quando sarebbe vietato. E ancora: come al-

Con l’arrivo in massa degli han il lavoro per gli uiguri ha cominciato a mancare, dando il via a una diaspora in tutto il paese

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tre minoranze etniche, anche gli uiguri so-no autorizzati ad avere 2 o 3 igli anziché uno solo (permesso esteso da poco all’intera po-polazione cinese), ma i funzionari della pia-niicazione familiare giravano per i villaggi sbirciando nelle pattumiere per cercare di capire chi aveva le mestruazioni e chi no. Il tradizionale raduno dei maschi uiguri, il meshrep, è una delle cerimonie che l’Unesco ha incluso nel “patrimonio culturale intan-gibile” della Cina, ma nello Xinjiang i me-

shrep sono proibiti e la polizia disperde spesso le adunate di giovani maschi.

Benché le direttive uiciali li incoraggi-no a imparare l’uiguro, raramente i funzio-nari han vanno oltre il semplice “buongior-no”. Nelle comunicazioni uiciali, spetta agli uiguri farsi capire e spesso i funzionari devono fare da interpreti. L’editoria in lin-gua uigura è iorente, ma decine di scrittori, storici e poeti uiguri sono stati incarcerati. Ai funzionari han s’insegna a rispettare i valori islamici, ma i poliziotti, quando fan-no incursione nelle madrase “illegali”, get-tano a terra le copie del Corano. Fuori dell’ambito statale, gli uiguri sono quotidia-namente discriminati in tutto il paese. Nella Cina centrale e orientale capita di rado che gli uiguri siano accettati negli alberghi. Analoghe discriminazioni colpiscono peri-

no gli han che hanno il certiicato di resi-denza (hukou) emesso dalle autorità dello Xinjiang. I viaggiatori uiguri si devono ap-poggiare alle locande illegali che non esigo-no documenti d’identità dai clienti o fare aidamento sulle loro reti di parentela e di amicizia. “Possiamo stare solo tra noi”, mi ha detto uno studente uiguro in visita a Pe-chino che, dopo essere stato respinto da di-versi alberghi, è inito in un dormitorio uni-versitario.

Tra gli han la difusa avversione per gli uiguri è più complessa. In parte si tratta di semplice antipatia per le minoranze: uiguri e tibetani sono visti come beneiciari ingra-ti della generosità nazionale, dato che la Cina ha riversato somme enormi nelle re-gioni occidentali “arretrate” e “incivili”. Dal punto di vista del cinese han comune, le minoranze godono di ogni privilegio: un welfare più generoso, la possibilità di avere più di un iglio, un limite più basso di voti per l’ammissione all’università, posti riser-vati nelle amministrazioni locali. In gran parte si tratta solo di percezione: nello Xin-jiang la previdenza sociale è uguale rispetto alle altre province ma a causa dell’elevato tasso di disoccupazione degli uiguri, questi ultimi vivono molto più spesso di sussidi assistenziali, talvolta cumulandoli con red-

diti al nero. Un sociologo uiguro, Turgunjun Tursun, l’ha scritto chiaramente in un arti-colo pubblicato nel marzo 2012 sul Global Times: “È ridicolo ignorare le diicoltà e le soferenze che le minoranze etniche devo-no sopportare per sopravvivere in una so-cietà a maggioranza han, e addirittura la-gnarsi per la cosiddetta ‘controdiscrimina-zione’”. Ma di questi svantaggi i mezzi d’informazione non parlano o quasi, ed essi restano per lo più sconosciuti ai comuni cit-tadini han. “Come possono aspettarsi che gli diamo dei posti di lavoro”, protestava a Urumqi un dipendente della Sinopec, l’azienda petrolifera di stato, “quando loro non si prendono neanche il disturbo di im-parare la lingua nazionale?”. Anche secon-do alcuni studiosi, come Jay Dautcher, il ri-iuto degli uiguri di partecipare alla cultura popolare cinese è pressoché assoluto.

Stereotipi pericolosiGli han identiicano quasi sempre gli uiguri con l’islam, che ai loro occhi è una fede estranea, oltre che arretrata. Il riiuto degli uiguri di consumare carne di maiale, onni-presente nella cucina cinese, perino nei piatti di verdura e di tofu, suscita curiosità e sgradevoli ironie. Spesso gli uiguri che van-no a cena con amici han subiscono pressio-

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Kashgar, Xinjiang

Cina

ni e finiscono per trangugiare a fatica la carne proibita.

Lo stereotipo degli uiguri più difuso tra gli han non li dipinge come musulmani e neppure come terroristi, ma come delin­quenti. È vero che esistono reti uigure ille­gali che impongono la loro “protezione”, ma l’esperienza m’insegna che tutta la cri­minalità cinese non locale si basa su reti di affiliazione regionali: ci sono gang dello Henan, dello Hunan, dello Hebei, dello Hu­bei. Insomma, come tutti i lavoratori mi­granti, anche i delinquenti preferiscono stare con i loro simili, che provengano dallo stesso villaggio, dalla stessa provincia o ap­partengano alla stessa etnia. Il possesso del coltello, abituale tra gli uiguri, è fonte di preoccupazione per i cinesi. Nessuno degli han con cui ho parlato ha mancato di ricor­dare che ne hanno sempre uno in tasca. Il che in una certa misura è vero, anche se lo usano molto più spesso come utensile che come arma. Tuttavia i coltelli compaiono in tutti i racconti delle violenze uigure. Secon­do i mezzi d’informazione, gli incidenti del­la primavera scorsa sarebbero stati innesca­ti dalla scoperta di una grande quantità di coltelli in una casa privata.

Presenza minacciosaColtelli o no, gli han considerano spesso co­me minacciosa la presenza degli uiguri. I cinesi preferiscono che le minoranze siano rappresentate da donne piacenti o da bam­bini graziosi e, se si tratta di uomini, meglio se anziani, o almeno vestiti in costume “tra­dizionale” e intenti a eseguire danze tradi­zionali. Il miglior esempio di questo atteg­giamento è il Minzu gongyuan, o parco delle minoranze etniche, di Pechino, davanti al quale ha campeggiato per un certo periodo una scritta in perfetto inglese che diceva “racist park”. Il parco equivale a una versio­ne un po’ demenziale del percorso di Di­sneyland It’s a small world: appartenenti a tutte le minoranze, in maggioranza donne, si esibiscono in canti e danze. Invece la pre­senza uigura per le vie delle città è preva­lentemente maschile. Ovunque, in Cina, agli angoli delle strade stazionano gruppet­ti di uiguri che vendono grandi fette di torta alle noci o merci a buon mercato. Hanno sempre una sigaretta in bocca e spesso sono mal rasati, a diferenza degli han che hanno il viso liscio.

Una delle diferenze più marcate tra gli uiguri e le altre minoranze etniche della Ci­na è che si sposano solo tra loro. I matrimo­ni tra han e cinesi delle minoranze sono comuni, e molti miei amici che credevo han al cento per cento si sono rivelati mezzi hui

o mezzi miao. Nelle province del Guangxi, dello Yunnan e del Guizhou, tutte con folte minoranze etniche, tra il 10 e il 15 per cento delle famiglie è misto, per lo più nato da matrimoni tra han e appartenenti a questa o quella minoranza. Nello Xinjiang invece i matrimoni misti sono solo il 2 per cento, e per lo più si tratta di uiguri che hanno sposa­to persone di altre minoranze. Molti degli han con cui ho avuto occasione di parlare pensavano che sposare una uigura fosse il­legale, e la consideravano come un’ennesi­ma concessione agli uiguri. Una volta era vero, ma è passato molto tempo: nello Xin­jiang i matrimoni misti non sono più vietati dal 1979. Tuttavia anche dopo la revoca del divieto, le unioni interetniche sono rimaste una rarità.

Amy era una di queste, aveva 28 anni, era iglia di una uigura e di uno han. Amy preferiva il suo nome inglese a quello cine­se e non pensava di averne mai avuto uno uiguro. Lavorava in Medio Oriente, nel ra­mo “ospitalità e intrattenimento per clienti speciali”, ma ci siamo conosciuti in occa­sione di una sua visita a Shanghai. Era mi­nuta e di una bellezza da far girare la testa, come una principessa araba sulla copertina di una rivista, con gli zigomi alti e gli occhi scuri della madre e il colore della pelle del padre. “Sono stata cresciuta dai nonni pa­terni”, mi ha raccontato. “Chiamavano me e mia sorella ‘le nostre belle piccole uigure’. Lo dicevano con afetto, ma per me è stata una delle tante cose da cui ho capito di esse­re diversa. I genitori di mia madre li ho visti solo due volte, da piccolissima, e sono cre­sciuta parlando cinese. Però non ho mai dimenticato le mie origini: quando sento una canzone uigura mi commuovo, anche se non capisco le parole. Tuttavia penso di non avere proprio niente in comune con gli

uiguri, anzi trovo ripugnanti gli uomini di quell’etnia”.

Nello Xinjiang la mascolinità uigura in­timorisce ed è spesso associata all’aggressi­vità sessuale. Come accade quasi sempre nelle zone etniche di conine, entrambe le comunità mettono in guardia le proprie donne dagli uomini dell’altra. È stato pro­prio questo timore ad accendere la miccia delle sommosse di Urumqi. All’inizio la protesta è scoppiata dopo un incidente av­venuto a Shaoguan, nella provincia meri­dionale del Guangdong. In una fabbrica al­cuni lavoratori han avevano aggredito dei compagni di lavoro uiguri, uccidendone al­meno due e ferendone a decine. “Avevo solo voglia di picchiarli. Quelli dello Xin­jiang li odio”, ha dichiarato uno degli ag­gressori al Guardian. “Sette o otto di noi ne hanno picchiato uno. Loro si nascondevano sotto i letti. Noi abbiamo usato spranghe di ferro per ammazzarli di botte, e poi li abbia­mo trascinati fuori e abbiamo messo insie­me i cadaveri”.

L’incertezzaLa scintilla dell’aggressione era stata la vo­ce che sei uiguri avevano violentato in grup­po due ragazze han. Ma lo stupro non c’era stato. Una delle ragazze era entrata per sba­glio in un dormitorio per maschi uiguri e, secondo l’agenzia di stampa Xinhua, “ave­va gridato alla vista di quei giovani uiguri nella stanza”. Aveva detto di non sapere perché avesse tanta paura: “Mi sono sem­brati mal intenzionati, perciò sono scappa­ta. Uno di loro si è messo a pestare i piedi per terra, come se mi stesse inseguendo. Scherzava e io non l’ho capito”. Ma a Urum­qi quella paura, e quello scherzo, potrebbe­ro essere diventati reali. È uno degli aspetti degli scontri di cui si è parlato di meno: le autorità l’hanno insabbiato per timore di scatenare vendette. Tuttavia, sul web e tra gli han dello Xinjiang sono circolate voci di stupri di gruppo avvenuti durante le som­mosse. Io stesso ho ascoltato, da amici han con parenti residenti nello Xinjiang, reso­conti di prima mano secondo cui varie don­ne han e una mongola erano state ricovera­te in ospedale dopo essere state violentate. I resoconti di violenze sono ripetitivi, ma del resto lo è anche la brutalità. Come tante altre cose che accadono nello Xinjiang, re­stano avvolti dall’incertezza. u ma

L’AUTORE

James Palmer è un giornalista statunitense che lavora per la versione in inglese del Global Times, giornale legato al Quotidiano del Popolo.

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Da sapere L’efetto della colonizzazione Com’è cambiato il rapporto demograico tra hane uiguri nei decenni, %. Fonte: A. Howell and C. C. Fan,

Migration and Inequality in Xinjiang, 2011

1945 1982 1996 2008Han

Uiguri

Altri

6,2

82,7

11,1

40,3

45,7

14

41,1

50,6

8,3

39,2

46,1

14,7

Scienza

La fine potrebbe arrivare all’improvviso, con l’esplo-sione di una supernova che inonda la Terra di mortali raggi gamma. Oppure len-tamente, con un supervirus

che per qualche motivo si dimostra letale per ogni cellula vivente del pianeta. Nessu-no dei due eventi è molto probabile, ma ne-anche impossibile. Eppure, il solo pensiero solleva un interrogativo afascinante: cosa succederebbe se tutti gli esseri viventi della Terra morissero domani?

Succederebbe più di quanto possiate immaginare. La vita non è semplicemente qualcosa che infesta la struttura isica del nostro pianeta. Gli organismi svolgono un ruolo importante in un’ampia gamma di processi che apparentemente non hanno niente a che fare con gli esseri viventi: dalle variazioni climatiche alla chimica dell’at-mosfera, alla forma del paesaggio e forse perino alla tettonica delle placche. “La ir-ma della vita è arrivata dappertutto, ha mo-diicato davvero l’intero pianeta”, spiega Colin Goldblatt, un esperto di scienza dei sistemi terrestri presso l’università di Victo-ria, in Canada. “Se non ci fosse più la vita, cosa cambierebbe? Be’, tutto”.

Supponiamo allora che tutti gli esseri viventi del pianeta siano morti: gli animali, le piante, le alghe degli oceani, perino i bat-teri che vivono a chilometri di profondità sotto la crosta terrestre. Cosa succedereb-be? La prima cosa da capire, in realtà, è cosa

non succederebbe. Non ci sarebbe la rapida decomposizione che si verifica normal-mente quando un organismo muore, visto che il deterioramento è causato essenzial-mente da batteri e funghi. La decomposi-zione si veriicherebbe comunque, ma mol-to lentamente, perché sarebbe provocata dalla reazione delle molecole con l’ossige-no. Buona parte del materiale organico ri-marrebbe mummiicato, mentre un’altra parte sarebbe ridotta in cenere dagli incen-di provocati dai fulmini.

Tuttavia, i primi efetti si manifestereb-bero abbastanza presto, perché il clima di-venterebbe più caldo e secco, soprattutto nelle regioni centrali dei continenti. Le fo-reste e le praterie sono enormi pompe idrauliche che estraggono acqua dal terre-no e la rilasciano nell’aria. Senza piante, quelle pompe si fermerebbero e le piogge si ridurrebbero nel giro di una settimana, so-stiene Ken Caldeira, climatologo della Car-

negie institution for science di Stanford, in California. L’acqua che evapora dalle foglie delle piante contribuisce anche a rafredda-re il pianeta, come se gli alberi sudassero. Quindi un mondo più arido si riscalderebbe rapidamente. “Probabilmente di un paio di gradi”, osserva Caldeira.

In alcune zone del mondo questo efetto potrebbe essere anche maggiore. Nel baci-no dell’Amazzonia, per esempio, le piogge dipendono molto dall’umidità prodotta dalle piante. In regioni come quella, quindi, l’assenza di pioggia potrebbe far aumentare in breve tempo la temperatura anche di otto gradi, dice Axel Kleidon, uno scienziato della Terra dell’istituto Max Planck per la biogeochimica di Jena, in Germania.

La mancanza di planctonMa sarebbe solo l’inizio. Con il passare de-gli anni il pianeta diventerebbe sempre più caldo a causa dell’accumulo di anidride car-bonica nell’atmosfera. Questo succedereb-be soprattutto perché negli ocea ni non ci sarebbe più il plancton che, prima di morire e depositarsi sul fondo, immagazzina il car-bonio. Se questa “pompa biologica di car-bonio” si fermasse, le acque di supericie prive di carbonio ristabilirebbero l’equili-brio con quelle più profonde, che ne sono ricche, e una parte di quel carbonio inireb-be nell’atmosfera. Il risultato inale, spiega James Kasting, un geoscienziato dell’uni-versità della Pennsylvania, sarebbe che in una ventina d’anni la percentuale di anidri-de carbonica nell’atmosfera triplicherebbe, tanto da far salire la temperatura globale di circa cinque gradi.

La mancanza di plancton si farebbe sen-tire anche perché il plancton rilascia nell’at-mosfera sopra gli oceani una gran quantità di un composto chiamato solfuro dimetile. Le sue molecole funzionano come noccioli che permettono al vapore acqueo di con-densarsi in nuvole, soprattutto quelle nuvo-le basse e compatte che proteggono la su-pericie del pianeta dai raggi solari. Senza planc ton, quindi, le nuvole che si formano sugli oceani conterrebbero gocce più gran-di, sarebbero più scure e assorbirebbero più calore, dice Caldeira. Nel giro di qualche anno, questo farebbe salire la temperatura di altri due gradi, che aggiunti ai cinque do-vuti all’aumento dell’anidride carbonica, sarebbero suicienti per accelerare lo scio-glimento delle calotte polari.

L’aumento della temperatura farebbe evaporare più acqua dagli oceani e quindi si intensiicherebbero le piogge. Ma non dap-pertutto. Probabilmente la pioggia in più cadrebbe dove già cade oggi, nelle regioni

Un mondosenza vitaBob Holmes, New Scientist, Regno UnitoFoto di Vincent Fournier

Che succederebbe se all’improvviso sparissero tutti gli esseri viventi? Niente ossigeno, un clima torrido, paesaggi inospitali: la Terra diventerebbe un luogo molto diverso da come lo conosciamo

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I corsi d’acqua comincerebbero a tracimare, trasformandosi da canali unici in una ragnatela di rivoli che s’intrecciano

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librarla. Nel corso di un milione di anni po-trebbero salire abbastanza da portare le temperature medie dai circa 14 gradi centi-gradi di oggi a 50 o addirittura a 60, calcola Schwartzmann. Questo sarebbe suiciente a far sciogliere del tutto le calotte polari.

L’aumento dell’anidride carbonica fa-rebbe sparire l’ossigeno. All’inizio la Terra era quasi priva di ossigeno molecolare, che è troppo instabile per sopravvivere senza essere regolarmente reintegrato. Solo quando la fotosintesi ha cominciato a gene-rare ossigeno, due o tre miliardi di anni fa, questo gas ha cominciato ad accumularsi nell’atmosfera. Se non ci fosse più vita, gra-dualmente scomparirebbe. Nel giro di dieci milioni di anni, probabilmente, l’atmosfera conterrebbe meno dell’1 per cento dell’os-sigeno che contiene oggi, sostiene il plane-tologo David Catling, dell’università di Washington. A quel punto ci sarebbe troppo poco ossigeno per mantenere lo strato di ozono. Senza la sua protezione, la supericie della Terra sarebbe bombardata dai raggi ultravioletti. “Dopo dieci o venti milioni di

Molnar, un geologo dell’università del Co-lorado a Boulder. La profondità dei corsi d’acqua potrebbe ulteriormente aumentare a causa del cambiamento del tipo di delus-so. Probabilmente nelle regioni interne ca-drebbero meno pioggia e neve, ma la man-canza dello strato supericiale che trattiene l’umidità favorirebbe la formazione di pie-ne violente e improvvise. Dato che l’erosio-ne avviene soprattutto durante le piogge torrenziali, in alcune zone i iumi potrebbe-ro scavare il substrato roccioso ancora più di quanto non facciano oggi, pur avendo in media meno acqua, spiega Taylor Perron, un geomorfologo del Massachusetts insti-tute of technology. Ma in altri posti con me-no pioggia e neve – e meno ghiacciai, che sono i maggiori responsabili dell’erosione – probabilmente il deterioramento sarebbe più lento. Nel corso di milioni di anni, qual-siasi modiica di questo meccanismo po-trebbe cambiare l’altezza e la forma delle catene montuose, alterando l’equilibrio tra accumulo ed erosione. “Non è una cosa da poeti dire che gli alberi sono molto impor-tanti per le montagne”, dice Dietrich.

Erosione chimica

Questi cambiamenti, tuttavia, sarebbero relativamente impercettibili. Come mo-strano le foto della supericie di Marte, un mondo senza vita non ci apparirebbe poi così strano. “Sarebbero come l’Arizona o il New Mexico”, dice Dietrich. “Ci sarebbero molte rocce e poca terra. Ma non darebbe

l’impressione di un pianeta alie-no”. A meno che non si guardi il termometro, perché le maggiori dimensioni delle particelle che costituiscono i sedimenti modii-cherebbero in modo sorprenden-

te il clima rallentando l’erosione chimica delle rocce, un segnale importante del cam-biamento climatico del pianeta. L’erosione chimica nasce dalla reazione tra rocce sili-cee e anidride carbonica che provoca la for-mazione di carbonati. Prima o poi questi carbonati finiscono sui fondali oceanici, dove il carbonio si accumula sotto forma di calcare. Dato che sgretolano lo strato roc-cioso in minuscoli frammenti, gli esseri vi-venti ne aumentano la supericie e quindi accelerano l’erosione chimica.

Non sappiamo esattamente di quanto, ma le poche prove che abbiamo fanno pen-sare che la vita faccia aumentare il tasso di erosione da dieci a cento volte, dice David Schwartzmann, un biochimico della Ho-ward university di Washington. Con meno erosione, i livelli di anidride carbonica dell’atmosfera aumenterebbero per riequi-

equatoriali: qui la convergenza dei venti spinge l’aria verso l’alto, dove si rafredda e scarica l’umidità che contiene. I luoghi umidi diventerebbero più umidi e le regioni desertiche ancora più aride, anche se non avrebbe più molta importanza in assenza di esseri viventi.

La Terra perderebbe gradualmente il suo strato supericiale che, non essendo più tenuto fermo da un tappeto di radici, sareb-be spazzato via dalla pioggia. Nelle zone collinose dove piove molto basterebbe qualche secolo, nelle pianure potrebbe vo-lerci molto di più. In posti come il bacino amazzonico ci vorrebbero migliaia di anni, dice il geomorfologo William Dietrich, dell’università della California a Berkeley. Ma tutta la terra erosa dovrebbe pur andare da qualche parte. Finirebbe per lo più negli oceani, creando delta più ampi e piane di dilavamento alla foce dei iumi che l’hanno trasportata. Anche i iumi cambierebbero. Quelli profondi e serpeggianti che cono-sciamo oggi sono così perché le radici delle piante rallentano l’erosione degli argini e impediscono all’acqua di invadere i terreni circostanti. Se quelle radici sparissero, i iu-mi comincerebbero a tracimare, trasfor-mandosi da canali unici in una ragnatela di rivoli che s’intrecciano. Come quelli che oggi vediamo nei deserti o ai piedi dei ghiacciai, dice Peter Ward, un geologo dell’università di Washington a Seattle. Tutto questo è già successo: circa 250 milio-ni di anni fa, durante l’estinzione di massa del permiano, i iumi improvvisa-mente smisero di avere un corso unico.

Con la scomparsa dello strato superficiale, il mondo divente-rebbe anche più sabbioso. Ma i sottili sedimenti argillosi oggi tanto comuni sono il prodotto dell’attività di vermi e di altri organismi che sgretolano il terreno. Senza di loro, i principali meccanismi per frantumare le rocce sarebbero il gelo, il di-sgelo e l’erosione del vento, che produrreb-bero dei frammenti meno numerosi e più grossi. Nel corso di centinaia di migliaia di anni questo cambiamento apparentemente insigniicante delle dimensioni dei granelli avrebbe due importanti conseguenze. La più visibile sarebbe la trasformazione del paesaggio. Particelle più grandi signiiche-rebbero più sedimenti abrasivi nei iumi e nei ruscelli. Nel corso del tempo, nel loro viaggio verso l’oceano, questi corsi d’acqua si scaverebbero un letto più profondo e ren-derebbero più ripide anche le pareti delle valli. “È facile immaginare che il paesaggio diventerebbe più frastagliato”, dice Peter

Scienza

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anni il livello di raggi ultravioletti comince­rebbe a creare problemi “, dice Catling. La mancanza di ossigeno renderebbe anche più grigio il pianeta. Le rocce ferrose non si ossiderebbero più, assumendo un colore rossastro. “La supericie terrestre divente­rebbe più grigia”, dice Kasting. Ma ci sareb­bero dei punti di luce, perché tornerebbero a formarsi minerali brillanti come la pirite e l’uraninite, minerali molto comuni all’epo­ca dell’origine della Terra, che si formano dove c’è una bassa percentuale di ossi­geno.

Una diferenza importanteUn’atmosfera senza ossigeno e ricca di ani­dride carbonica, rocce nude sulla supericie dei continenti, minerali che esistevano mi­lioni di anni fa: tutto questo suona familiare agli scienziati. “Se ogni forma di vita scom­parisse, immagino che dopo cento milioni di anni il pianeta apparirebbe come se non l’avesse mai ospitata”, dice Caldeira. Ma potrebbe esserci una diferenza importante tra questo futuro senza vita e il passato. Alla

nascita del nostro pianeta, il sole era circa trenta volte più debole e la sua luminosità è aumentata gradualmente. Quindi all’inizio l’abbondanza di anidride carbonica nell’at­mosfera ha probabilmente contribuito a impedire che la Terra si congelasse. Sotto il sole caldo di oggi, l’anidride carbonica po­trebbe ridurre il pianeta in condizioni più estreme.

In realtà Goldblatt pensa che la mancan­za di vita potrebbe sconvolgere completa­mente il clima. Alcuni modelli fanno pensa­re che se le temperature salissero abbastan­za, l’aumento di umidità nell’atmosfera potrebbe scatenare un efetto serra estremo in cui temperature più alte produrrebbero più vapore acqueo, che è un potente gas ser­ra, e che farebbe salire a sua volta le tempe­rature innescando un circolo vizioso. “Pro­babilmente oggi la Terra è ragionevolmente vicina a quella soglia”, dice Goldblatt. Non sembra che il cambiamento climatico pro­vocato dagli esseri umani possa portarci a quel punto. “Stiamo parlando di cambia­menti molto più consistenti”, aggiunge

Goldblatt. “Ma abbiamo davanti milioni di anni, quindi è realistico pensare a un efetto serra impazzito”. A lungo andare le tempe­rature potrebbero aumentare al punto da far evaporare gli oceani, e alla ine la tem­peratura del pianeta potrebbe superare i mille gradi. “Probabilmente una Terra sen­za vita somiglierebbe a Venere”, conclude.

Altri scienziati sono meno pessimisti, se è questo l’aggettivo giusto quando si parla di un evento ipotetico che potrebbe verii­carsi tra qualche centinaio di milioni di an­ni. Probabilmente Venere è diventata una specie di serra perché la sua tettonica a placche si è fermata all’inizio dell’evoluzio­ne del pianeta, sostiene Peter Cox, un esperto di modelli climatici dell’università britannica di Exeter. Dal momento che la Terra è ancora tettonicamente attiva, spie­ga Cox, continuerà a seppellire carbonio grazie alla subduzione delle placche crosta­li, impedendo a grandi quantità di anidride carbonica di raggiungere l’atmosfera e quindi evitando un efetto serra estremo.

Ma i problemi potrebbero ancora essere in agguato, perché in mancanza di vita la subduzione potrebbe rallentare. Ci sarebbe una quantità minore di quei sedimenti ar­gillosi che lubriicano il movimento della crosta nelle zone dove avviene la subduzio­ne. Questo potrebbe essere sufficiente a rallentare, se non a fermare, l’attività tetto­nica, dice Norm Sleep, un geoisico dell’uni­versità di Stanford, in California.

Sembra che per questa Terra ipotetica­mente sterile le previsioni a lungo termine non siano incoraggianti. Senza la vita, forse il pianeta non apparirebbe completamente diverso, ma sarebbe un luogo molto più ostile: più caldo, più impervio, bombardato dalle radiazioni e con fenomeni atmosferici più estremi. A lungo andare, diventerebbe del tutto inabitabile.

A meno che non succeda qualcosa di ec­cezionale. Nessuno sa come sia nata la vita la prima volta, ma sembra chiaro che sia successo qualche centinaio di milioni di an­ni dopo che il pianeta si è rafreddato abba­stanza da diventare abitabile. Dopo l’estin­zione potrebbe succedere la stessa cosa. Dopotutto, la maggior parte dell’ossigeno dell’atmosfera, dannoso per le reazioni chi­miche prebiotiche, non ci sarebbe più, e ci potrebbero essere molte molecole organi­che. Ma soprattutto, non ci sarebbero forme di vita preesistenti che divorano quei primi tentativi di rinascita, un ostacolo che po­trebbe impedire una seconda genesi. In real tà una Terra tornata sterile potrebbe es­sere l’ambiente ideale per le forme di vita del futuro. u bt

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La valle della Luna, nel deserto di Atacama, in Cile

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Società

La gonna? Troppo corta. E quei colori chiassosi! Due anziane sedute a un tavoli-no confabulano tra loro. All’altro capo della sala c’è una ragazza robusta, vestita

con un abito color rosso pomodoro e un bo-lero blu cobalto. Appoggia le mani sui ian-chi, sorride alla folla, poi comincia a parla-re. Critica il presidente, gli ultimi scandali

Le donne sonoil futuro dell’Africa

Bartholomäus Grill, Der Spiegel, Germania. Foto di Jonathan Torgovnik

Fanno politica, aprono nuove aziende, seguono progetti di sviluppo. Le donne potrebbero trainare la crescita del continente africano. Ma devono afrontare vari ostacoli, a cominciare dalla mancanza d’istruzione. Reportage dal Sudafrica

di corruzione e la nuova legge sull’informa-zione, che minaccia la libertà di stampa. “Dobbiamo evitare che il Sudafrica diventi uno stato di polizia”, dichiara. Il pubblico, composto in gran parte da bianchi più adul-ti, sembra colpito.

Ogni volta che Lindiwe Mazibuko, 33 anni, tiene un discorso pubblico, tutto il pae se se ne accorge. È la leader del princi-pale partito d’opposizione all’assemblea

nazionale, la camera bassa del parlamento del Sudafrica, ed è la prima donna nera a rivestire questa carica in un parlamento composto in gran parte da uomini. Libera-le, pragmatica e coraggiosa, Mazibuko in-carna un nuovo tipo di politica africana.

“In Africa ci sono milioni di donne di talento”, aferma, dirigendosi al suo uicio in parlamento, a Città del Capo. “Ma poche vogliono entrare in politica perché in

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Lindiwe Mazibuko nel suo uicio a Città del Capo, 1 giugno 2013

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quest’ambiente si sentono emarginate”. Nel continente, ancora più che in Europa, la politica è dominata dagli uomini. “Molti presidenti africani hanno più di settant’an-ni, mentre l’età media della popolazione dell’Africa è diciannove anni”, ag giunge.

L’uicio di Mazibuko è nella stanza 208, un tempo occupata dal primo ministro. Le pareti sono rivestite di mogano, ci sono grandi poltrone di pelle, un caminetto, un orologio da tavolo inglese e le inestre dan-no sull’ala neoclassica del palazzo del par-lamento. “Questo posto non è stato pensato per le donne. Ho dovuto dargli un tocco femminile”, dice riferendosi alle orchidee bianche che ha fatto piantare nei due orina-toi del bagno dei maschi.

Gli uomini del suo partito, Alleanza de-mocratica, hanno brontolato quando Mazi-buko è stata scelta come capogruppo nell’ottobre del 2011. Si chiedevano cosa ne sarebbe venuto di buono da una come lei, nera, inesperta e, soprattutto, donna. I poli-tici dell’African national congress (Anc, al governo) l’hanno presa in giro soprannomi-nandola “noce di cocco” – scura fuori e bianca dentro – o l’hanno accusata di aver venduto l’anima a un partito dominato dai bianchi. Sui social network le hanno dato della “serva negra”. Il presidente Jacob Zu-ma ha parlato di lei deinendola ntombaza-na, “ragazzina” in lingua zulu. E visto che Mazibuko parla inglese senza accento, è stata perino tacciata di non essere una vera africana. “Sono i soliti insulti sessisti e raz-zisti lanciati da maschi che si sentono mi-nacciati”, commenta lei. “Ma niente di tut-to questo può scuotere una femminista”.

Attacco al potere maschileMazibuko è cresciuta in una famiglia della classe media nera, ha frequentato ottime scuole private, ha studiato musica, francese e scienze politiche a Città del Capo e nel Regno Unito, per poi tornare in Sudafrica e fare carriera nel partito. Oggi è ammirata perino dai suoi avversari. Ha avuto succes-so, ma non intende fermarsi qui. Dice di voler diventare presidente perché “l’Africa sta vivendo un boom economico. Se voglia-mo che i progressi compiuti diventino sta-bili, bisogna sviluppare idee nuove e dar vita a un’élite più giovane. E naturalmente, molte più donne devono ricoprire incarichi dirigenziali”.

Alleanza democratica è un partito esemplare. Ai suoi vertici ci sono già tre donne: la presidente è Helen Zille, la com-battiva premier della provincia del Capo Occidentale. Poi ci sono Mazibuko e Patri-cia de Lille, la sindaca di Città del Capo. Tre

donne forti che mettono paura all’autorita-rio contingente maschile dell’Anc.

In tutta l’Africa stanno crollando baluar-di del potere che ino a poco tempo fa erano fermamente in mano maschile. La sudafri-cana Nkosazana Dlamini-Zuma presiede la commissione dell’Unione africana. La libe-riana Ellen Johnson Sirleaf è stata la prima presidente della storia postcoloniale del continente. In Kenya, per la prima volta dall’indipendenza, si sono insediate al go-verno una ministra degli esteri e una della difesa. In Ruanda le donne ricoprono il 64 per cento dei seggi nella camera bassa del parlamento.

Quando, nel 2011, è stato assegnato il premio Nobel per la pace, le donne africane hanno festeggiato. Due delle tre vincitrici erano originarie del continente: la presi-dente liberiana Sirleaf e Leymah Gbowee, un’attivista liberiana che si batte per la pace e per i diritti civili, hanno accettato l’onoriicenza in nome di tutte le africane che combattono contro lo sfrutta-mento indiscriminato delle risor-se naturali, contro l’illegalità, la violenza e la guerra.

Dall’aprile del 2012 anche il Malawi è guidato da una presidente: Joyce Banda, a lungo attivista per i diritti delle donne. Il suo obiettivo principale è la lotta alla pover-tà, che colpisce in particolare donne e bam-bini. I primi atti uiciali della presidente sono stati vendere il jet e le limousine del suo predecessore, a dimostrazione del fatto che Banda fa sul serio.

Le donne africane si danno da fare. Fon-dano studi legali, investono su attività on-line e aprono case di moda. Amministrano banche, siedono nei consigli d’amministra-

zione e gestiscono aziende agricole. In Tan-zania le masai lottano contro il land grab-bing e contro lo sfratto di questo popolo no-made dalle sue terre. In Mali le madri mu-sulmane si oppongono alle mutilazioni ge-nitali sulle iglie. In Sudafrica decine di mi-gliaia di attiviste partecipano alle campa-gne contro le violenze sessuali. Tutte porta-no avanti le loro battaglie approfittando della maggior velocità nelle comunicazioni oferta dai cellulari e dai social network.

Dieci anniSempre meno donne si lasciano sfruttare. Sempre di più si ribellano ai mariti. Mao di-ceva che le donne sono l’altra metà del cie-lo: in Africa sono almeno i tre quarti. Secon-do le stime dell’International center for re-search on women, di Washington, le donne dell’Africa subsahariana producono l’80

per cento del cibo, ma possiedo-no solo l’1 per cento dei terreni coltivabili.

Nelle zone di guerra e di crisi permanente come l’est della Re-pubblica Democratica del Congo

sono soprattutto le donne a lottare per la pace e, con le loro attività a favore della ri-conciliazione, a cercare di sanare le ferite dei conlitti. Le organizzazioni che si occu-pano di aiuti internazionali preferiscono assumere donne, che sono spesso più ai-dabili e meno corruttibili. I progetti gestiti dalle donne sono in genere più sostenibili. Il microcredito è più eicace quando il pre-stito è concesso a una donna (la percentua-le di prestiti ripagati dalle donne è compre-sa tra il 95 e il 98 per cento). Gli esperti di sviluppo concordano sul fatto che le condi-zioni del continente sarebbero molto peg-giori se le donne non fossero così coin-volte.

Il Millennium project delle Nazioni Uni-te, che aspira a dimezzare la povertà globa-le entro il 2015, attribuisce la massima prio-rità alla promozione delle iniziative femmi-nili nei settori della sanità e dell’istruzione. Quando le madri sono più scolarizzate, la mortalità neonatale e infantile si riduce. Le ragazze che studiano più a lungo fanno me-no igli. L’Unione africana ha dichiarato che quello tra il 2010 e il 2020 sarà il “decennio delle donne” promettendo di intensiicare il sostegno alle loro iniziative.

“Quasi nessuna africana ha mai sentito parlare di queste cose”, fa notare Nondumi-so Mzizana mentre controlla gli strumenti da usare con il prossimo paziente. “Ma per loro è indiferente perché queste dichiara-zioni d’intenti non servono a niente”.

Mzizana, 41 anni, è dentista e ha molto

Da sapere Chi lavora di più

1. Mozambico

2. Burundi

3. Ruanda

4. Malawi

Martinica

6. Sierra Leone

7. Estonia

Togo

9. Lituania

10. Repubblica Democratica del Congo

Fonte: Il mondo in cifre 2014

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I primi dieci paesi al mondo per percentuale di donne in forza lavoro, 2012 o ultimi dati disponibili

da raccontare sugli ostacoli che deve af­frontare chi cerca di migliorare la propria vita. Quando ha deciso di aprire uno studio nel centro di Pretoria, la capitale del Suda­frica, tutti l’hanno ostacolata. La banca ha respinto il suo piano aziendale e ha riiutato di concederle un prestito. Il proprietario dello studio che voleva comprare non si i­dava di lei. Quando inalmente l’ha inaugu­rato, non si è vista l’ombra di un paziente. I bianchi si fanno curare dai dentisti neri solo quando il dolore è insopportabile, spiega Mzizana. “Perino i neri ricchi preferiscono andare dai dentisti bianchi”, continua. “Non credono che una donna nera possa essere una vera professionista”.

In fondo alla scala sociale

Mzizana ha dovuto scontrarsi con i funzio­nari del sistema sanitario, anche quando erano neri come lei. “La loro mentalità è inluenzata dall’idea patriarcale secondo cui il posto delle donne è in cucina e l’unica cosa di cui devono preoccuparsi è essere delle buone madri”, osserva. “Anche il pre­sidente la pensa così”. Jacob Zuma è un po­ligamo, ha avuto quattordici igli da cinque delle sue sei mogli, e altri ancora fuori del matrimonio.

In Sudafrica le donne nere sono in fondo alla scala sociale. Secondo le statistiche uf­iciali, tra loro solo il 30 per cento ha un la­voro. In questa fascia il salario medio è di 1,68 euro all’ora, contro una media di 6,68 euro guadagnati dai maschi bianchi.

L’Africa è ancora molto lontana dall’uguaglianza di genere, commenta Mzizana: “Se i padri sono contenti di avere delle iglie è solo per il loro valore di merca­to”, continua la dentista. “Scelgono un ma­rito per loro e poi riscuotono il prezzo della sposa. Inoltre i mariti considerano le mogli una proprietà privata, da usare a loro piaci­mento. Se la mentalità degli uomini non cambia, non riusciremo a fare progressi”.

Madre di tre igli, oggi lavora solo occa­sionalmente nel suo studio “per non di­menticare il mestiere”. Per il resto del tem­po rappresenta un produttore olandese di articoli elettronici in Sudafrica, e ammini­stra un’azienda da lei fondata che fornisce attrezzature mediche agli ospedali, con un fatturato annuo di venti milioni di euro. Nel 2011 è stata nominata “imprenditrice dell’anno” dall’associazione di categoria.

Oggi, quando Mzizana va in banca, il direttore le chiede quanti milioni di rand di finanziamento le servono per comprare nuovo materiale. La sua azienda si chiama Sikelela, “speranza”, e ventitré dei suoi ven­ticinque dipendenti sono donne delle town­

ship. Quasi nessuna può vantare un’istru­zione regolare e per molte è stata necessaria un’accurata formazione professionale. “In Africa mancano i lavoratori qualiicati”, af­ferma Mzizana. “Le aziende devono rime­diare ai fallimenti del sistema scolastico”.

Quando viaggia all’estero l’imprenditri­ce si meraviglia spesso del fatto che gli afri­cani riescano a emergere nella competizio­ne globale nonostante le lacune nella loro istruzione. Mzizana tiene seminari per in­coraggiare le ragazze a creare imprese una volta diventate adulte. “Se ci fossero più donne a dirigere aziende, potremmo vanta­re livelli di crescita più alti”, sostiene.

Quindi i problemi dell’Africa sono ma­schili e le soluzioni femminili? Ellen John­

son Sirleaf non ha dubbi: prima di essere rieletta per il secondo mandato, la presi­dente liberiana ha dichiarato che in politica le donne sono più brave degli uomini, più oneste, impegnate e sensibili, e hanno il vantaggio dell’intuito materno.

Eppure neanche un modello esemplare come Sirleaf è immune dalle tentazioni del potere. Quando ha sistemato tre suoi igli con incarichi di prestigio nel campo della politica e dell’economia, è stata accusata di nepotismo e corruzione. Per protesta Ley­mah Gbowee ha dato le dimissioni da presi­dente dell’Iniziativa nazionale per la pace e la riconciliazione.

“Le donne possono essere avide e violente quanto gli uomi­ni”, sostiene Pharie Sefali. “Nel mio quartiere ci sono bande ca­peggiate da ragazze”. Sefali, 24 anni, vive a Khayelitsha, un’immensa township alla pe­riferia di Città del Capo, un mare di barac­che di lamiera e casette di legno popolato da 700mila persone. Qui il tasso di disoc­cupazione è compreso tra il 60 e il 70 per cento, il virus dell’hiv ha un’incidenza for­tissima e la criminalità è dilagante.

“A Khayelitsha ci sono tante ragazze che pensano solo ai soldi, ai bei vestiti e al lus­so”, osserva Sefali. “Vogliono dimenticare la povertà e si fanno mantenere da vecchi ricchi e stravaganti”. Sefali non è una di lo­ro. Vestita con una giacca della tuta consun­ta, jeans a buon mercato e scarpe da ginna­stica bucate, la giovane dice di voler diven­tare giornalista e scrivere delle condizioni

di vita nelle baraccopoli. Pharie ha subìto le peggiori esperienze che possono capitare a una ragazza in una township. È rimasta or­fana quand’era ancora una bambina e un vicino ha abusato sessualmente di lei per anni. Pharie ha abbandonato la scuola, ha vissuto per strada, è diventata alcolizzata e tossicodipendente, si è prostituita ed è stata stuprata varie volte. “A Khayelitsha ogni minuto che passa una donna viene picchia­ta, maltrattata o violentata”, dice Sefali. In Sudafrica si registra il tasso più alto del mondo di stupri e quasi tutti i crimini di na­tura sessuale avvengono nelle baracco­poli.

Alla ine una zia ha salvato dalla strada Sefali, che a volte considera la ine del suo incubo come un miracolo. Oggi lei aiuta al­tre persone che stanno cercando di scrollar­si di dosso la povertà. Collabora con Equal education, un movimento di base difuso in tutto il Sudafrica, che si batte per il miglio­ramento del sistema della scuola.

La sede di Equal education si trova a Washington square, in una posizione che potrebbe apparire esclusiva. Ma in realtà l’ediicio è adiacente a una zona di Khaye­litsha abbandonata e piena di riiuti. Qui lavorano quasi solo attiviste giovani e deter­minate come Sefali. Il loro compito è docu­mentare le condizioni misere delle scuole, creare biblioteche, raccogliere fondi per comprare il materiale didattico, scrivere petizioni ai ministeri e organizzare manife­stazioni di protesta davanti al parlamento.

“Il governo ha fallito nelle politiche sco­lastiche. Ma non siamo più disposti ad ac­cettare questa situazione”, dice Sefali ini­

landosi un fascio di documenti sotto il braccio e dirigendosi ver­so la scuola superiore di Thembe­lihle, dove dà ripetizioni tutti i sabati.

Alcuni ragazzi perdono tempo davanti a un bar e hanno l’aria di chi ha be­vuto troppo la notte prima. Quando li vede, Sefali si arrabbia: “Dagli uomini non ci si può aspettare molto. Bevono, si azzufano e si lamentano. Sono pigri e inutili”.

Come in molte altre zone dell’Africa, anche a Khayelitsha sono soprattutto le donne a mantenere le famiglie. Vendono pannocchie arrostite sul ciglio della strada, raccolgono legna da ardere e trasportano sulla testa barili d’acqua e sacchi di farina. Danno da mangiare ai familiari, allevano i igli, si prendono cura di vecchi e malati, ri­parano i buchi nei tetti delle baracche e col­tivano orti. In molti casi lavorano come do­mestiche per pagare le tasse scolastiche dei igli. Le donne spendono per la famiglia il

Società

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Le donne spendono il 90 per cento del loro reddito per la famiglia

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90 per cento del loro reddito, gli uomini una percentuale compresa tra il 30 e il 40 per cento.

Sefali è un’ammiratrice di Lindiwe Ma-zibuko. Le piace perché non ha peli sulla lingua. Un altro modello è Mamphela Ram-phele, medico, dirigente d’azienda ed ex attivista contro l’apartheid, che ha fondato un nuovo partito d’opposizione, Agang, per sidare il governo ineiciente dell’Anc. “Ma le vere eroine dell’Africa”, conclude la gio-vane, “sono le donne comuni”.

Tra queste ci sono persone che combat-tono su vari fronti con mezzi limitati: per l’autodeterminazione sessuale, per l’aboli-zione dei diritti di proprietà patriarcali, per l’accessibilità dei prestiti bancari, per ofri-re ai bambini un’istruzione adeguata, per un sistema sanitario decente, per avere vo-ce in politica e opportunità di avanzamento professionale.

Alla scuola di Thembelihle una decina di studenti, quasi tutte femmine, sta aspet-tando Sefali. La donna distribuisce gli eser-cizi del test di matematica. Gli esami sono imminenti e gli allievi di Sefali vogliono mi-gliorare i propri voti per avere l’opportunità di frequentare l’università. I ragazzi sono seduti su sedie rotte, l’aula è piena di spife-ri, c’è spazzatura negli angoli e la pioggia iltra dai buchi nella tettoia di plastica. Il test di storia, invece, è dedicato alla lotta per l’indipendenza del Kenya, alla guerra del Viet nam e alla rivolta di Soweto, che fu sca-tenata da studenti di scuola superiore. Nell’aula cala il silenzio e i ragazzi si con-centrano sul compito.

Lo studio di One

“Sull’emancipazione stiamo facendo pro-gressi”, dice Sefali. “Nei prossimi vent’anni strapperemo il potere agli uomini”. Tutta-via, secondo la campagna e il gruppo di lob-by One, al momento più dei due terzi degli analfabeti adulti africani sono femmine e nell’Africa subsahariana dodici milioni di ragazze non sono mai andate a scuola.

Questo signiica perdere enormi occa-sioni di sviluppo, perché le scarse opportu-nità di istruzione e impiego riducono dello 0,8 per cento la crescita annua pro capite. “Se questa crescita si fosse realizzata, negli ultimi trent’anni l’economia africana sareb-be cresciuta del doppio”, conclude uno stu-dio di One.

“Il futuro dell’Africa è donna”, prevede l’organizzazione, secondo cui è arrivato il momento di sfruttare tutto il potenziale di 430 milioni di donne e ragazze.

“Ci stiamo lavorando”, aferma Pharie Sefali. u fpPharie Sefali a Khayelitsha, il 2 giugno 2013

Nondumiso Mzizana a Pretoria, l’11 giugno 2013

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A Rosarno il tempo si è fermato

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Nel 2010 decine di persone rimasero ferite negli scontri tra immigrati e abitanti della città calabrese. Quattro anni dopo la situazione non è migliorata. Il reportage di Giulio Piscitelli per Internazionale

Immigrati africani davanti alla loro baracca vicino a

Rosarno

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All’inizio del 2010 circa 1.500 immigrati africani erano impiegati nella raccolta stagionale degli agrumi nelle campagne intorno a Rosarno, in

Calabria. Pagati pochissimo, vivevano in condizioni igieniche precarie in capannoni industriali abbandonati. Il 7 gennaio 2010 alcuni sconosciuti spararono a tre immi-grati che tornavano dai campi, ferendone due. Scoppiò una rivolta in cui gli immigra-ti si scontrarono con la polizia e danneg-giarono negozi e automobili. Gli abitanti, armati di mazze e bastoni, reagirono orga-nizzando spedizioni punitive. Secondo la magistratura, gli scontri furono alimentati dalle cosche locali della ’ndrangheta che controllano la produzione agricola. Nelle violenze, durate due giorni, rimasero ferite decine di persone. Subito dopo gli immi-grati furono costretti a lasciare la città (molti furono trasferiti nei centri di identi-icazione ed espulsione). In seguito l’Italia fu criticata dalle Nazioni Unite per il man-cato rispetto delle leggi sull’immigrazione e per le violazioni dei diritti umani.

Quattro anni dopo la situazione non è migliorata. La maggior parte degli immi-grati arrivati a Rosarno dopo il 2010 vive in una tendopoli sovrafollata – dove manca-no acqua potabile, gas ed elettricità – co-struita dalla protezione civile nella zona industriale tra Rosarno e San Ferdinando (sono circa 1.500 persone tra gennaio e marzo, nel periodo della raccolta, poco più di quattrocento il resto dell’anno). Lavora-no in nero per circa 20 euro al giorno (per dieci ore di lavoro), ma una parte di questa somma va ai caporali che li sfruttano. Le arance di Rosarno vengono comprate an-che dalle multinazionali per produrre aranciate e succhi. Alcuni produttori indi-pendenti riuniti nell’associazione Sos Ro-sarno hanno deciso di ribellarsi alle cosche impegnandosi ad assumere regolarmente la manodopera e a vendere gli agrumi a un prezzo più alto. Nel 2013 Emergency ha aperto un ambulatorio in un ediicio coni-scato alla ’ndrangheta a Polistena, a venti chilometri da Rosarno.

Il comune di Rosarno è stato sciolto due volte per maia, nel 1992 e nel 2008. Negli anni novanta è stato il primo comune in Italia a costituirsi parte civile in un proces-so contro la maia su iniziativa del sindaco Giuseppe Lavorato (foto Contrasto). u

Giulio Piscitelli è nato a Napoli nel 1981. Questo reportage è stato realizzato nel di-cembre del 2013.

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In alto a sinistra: un campo a San Ferdinan-do dove gli immigrati vivono nel periodo della raccolta. In basso a sinistra: la raccol-ta dei mandarini. Qui sopra, dall’alto: un immigrato che non ha trovato lavoro nei campi in partenza per Napoli; un’immigra-ta davanti alla sua tenda nel campo costrui-to dalla protezione civile tra Rosarno e San Ferdinando nel 2010.

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Portfolio

Sopra, dall’alto: in strada a San Ferdi-nando; il campo degli immigrati a San Ferdinando. Qui accanto: un giocatore della Koa Bosco, la squadra dilettantistica di calcio formata da-gli immigrati di Ro-sarno, in una casa messa a disposizio-ne dalla chiesa lo-cale.

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Sopra: preghiera in una tenda nel campo di San Ferdinando. In basso al centro: un immigrato ghanese al telefono con i suoi familiari. Qui accanto: un allenamento della Koa Bosco.

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Viaggi

normale che molte cose facciano provare sentimenti contrastanti. Soprattutto se si visita la città che nel diciottesimo secolo era la più ricca d’America e se si esplorano i din-torni per conoscere meglio la cultura gul-lah, nata qui e in Georgia. Il termine gullah si riferisce a una lingua e a una cultura svi-luppate dagli schiavi che lavoravano nelle risaie e nelle piantagioni di cotone della pa-ludosa zona costiera del South Carolina e, più a sud, della Georgia, infestate dalle zanzare e dove erano abbandonati a se stes-si. I bianchi trascorrevano gran parte dell’anno nelle loro case di città in riva al mare, accarezzate da una brezza fresca che scacciava via i detestati insetti. Nelle pian-tagioni vivevano gli schiavi importati dall’Africa occidentale, che svilupparono una lingua in cui si intrecciavano elementi africani e inglesi. Poi scoppiò la guerra di secessione e gli schiavi liberati ottennero la terra maledetta in cui lavoravano. Il patri-monio passò da una generazione all’altra, assieme alla lingua, alla cultura e alle usan-ze provenienti dall’Africa.

Museo della schiavitùLe comunità gullah più unite sono rimaste quelle delle grandi isole piatte di fronte alla costa, rese oggi quasi tutte raggiungibili in auto grazie a dighe e a ponti.

A Charleston non si vedono molti segni della cultura gullah. Se 1.700 palazzi stori-ci (alcuni del diciassettesimo secolo) sono ancora in piedi lo si deve a un amaro risvol-to della storia: in seguito alla guerra di se-cessione la popolazione era troppo povera per demolire i vecchi ediici e costruirne di nuovi.

Alla ine della seconda guerra mondiale è cominciato l’esodo degli afroamericani, che si sono trasferiti nelle semplici case in legno dei quartieri più a nord. I palazzi delle zone meridionali, con le loro tipiche faccia-te strette e la struttura allungata costeggiata da verande a più piani, sono tornati un’altra

In piedi sulla veranda con una ma-glietta e un berretto rosso ciliegia, James Brown sembra un faro. Ogni due o tre minuti saluta le au-to che passano. Ogni volta gli ri-sponde una mano nera che si

sporge dal finestrino. A un certo punto Brown grida: “Ehi, fratello, come va la vi-ta?”, la sua voce è così alta che probabil-mente si sente ino a Charleston. Il guidato-re gli urla allegramente qualcosa in rispo-sta. Solo una volta James Brown non saluta. Muto e immobile, fissa la limousine che passa davanti alla sua casa. Il clacson non suona. Non spunta nessuna mano. Alla ine James Brown annuisce. “Ha visto? Era lei, la donna bianca”. E il suo viso dice: era quella che non mi saluta.

A James Island, nei pressi di Charleston, il mondo è separato da conini netti. James Island è un territorio nero, la terra dei gul-lah (i discendenti degli schiavi africani), e James Brown non capisce cosa vengano a fare qui dei bianchi che non vogliono avere niente a che fare con gli afroamericani. È qui a James Island, ma anche sulle altre iso-le che compongono il frastagliato arcipela-go del South Carolina, che si è sviluppata la cultura nera degli Stati Uniti.

James Brown indica le altre piccole case a un piano e spiega: quella è la casa di mio fratello, quella di un mio cugino, questa qui davanti è di mio zio, quella accanto di un altro mio cugino e quella lì in fondo è di un altro mio fratello. Il villaggio è abitato da una sola famiglia. Cento metri più in là ne comincia un altro.

In questo viaggio in South Carolina è

Charleston e dintorni Harald Hordych, Süddeutsche Zeitung, GermaniaFoto di Jörg Buschmann

Nella città del South Carolina, tra palme, e palazzi vittoriani. E a James Island, per conoscere la terra dei discendenti degli schiavi africani

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◆ Documenti Chi vola negli Stati Uniti deve avere o un visto o l’autorizzazione Esta (Electronic system for travel authorisation). Va chiesta sul sito (intern.az/19iTaxt) almeno 72 ore prima della partenza. Costa 14 dollari, pagabili solo online con una carta di credito. ◆ Arrivare e muoversi Il prezzo di un volo dall’Italia (US Airways, United, Lufthansa) per Charleston, South Carolina, parte da 615 euro a/r. I venti chilometri che separano l’aeroporto dal centro città si possono percorrere in taxi, con le

navette della Airport ground transportation (14 dollari a persona) o con il bus 11.◆ Dormire Il Mills house hotel, in pieno centro, ofre una doppia per 130 euro a notte, colazione compresa (millshouse.com).

◆ Visite Per informazioni sul Penn center, una delle prime scuole per schiavi liberati: penncenter.com.◆ Leggere Enrico Beltramini, L’America post razziale, Einaudi 2010, 19 euro.◆ La prossima settimana Viaggio nel Bregenzerwald, in Austria, per fare trekking e per ascoltare Schubert. Con Alan Rusbridger, direttore del Guardian. Ci siete stati e avete suggerimenti su tarife, posti dove mangiare o dormire, libri? Scrivete a [email protected].

Informazioni pratiche

volta nelle mani dei bianchi benestanti op-pure sono stati convertiti in musei. Nel cen-tro storico gli afroamericani sono rari, e quando se ne incontrano lavorano nelle cu-cine dei ristoranti esclusivi oppure vendono i cesti gullah, oggetti dall’aria delicata e so-lida al tempo stesso fatti di rami di Muhlen-bergia e foglie di palma intrecciate.

La Charleston delle costruzioni in mat-toni rossi, dei magniici rivestimenti in le-gno bianco, delle porte sormontate da tim-pani dai colori vivaci, delle imposte verdi, dei lampioni a gas accesi anche nelle gior-nate di sole, la Charleston delle palme e dei cipressi, delle azalee dai fiori sgargianti perino a luglio, dei vecchi cimiteri apparta-ti e delle locande signorili, questa Charle-ston incantevole ed elegante si può cono-scere con una delle visite guidate in carroz-za, in compagnia di soli bianchi. Ma in quel caso può capitare che la parola “schiavi-smo” non sia pronunciata neanche una vol-ta. In alternativa si può scegliere di fare una visita gullah.

L’accompagnatore nero alla guida dell’autobus si chiama Al Miller e durante la visita racconta della cultura gullah e si esi-bisce in pezzi tratti dall’opera Porgy and Bess. È una scelta coraggiosa, ed è anche azzeccata perché le escursioni gullah a Charleston e James Island attraversano an-che i luoghi dove visse e fu sepolto lo stesso Porgy, da cui è poi stato tratto il personag-gio dell’opera di George Gershwin. Visitare la città con Al Miller signiica andare oltre l’immagine da cartolina di questa bella cit-

tà del sud. Il 40 per cento degli africani de-portati in America attraccò nel porto di Charleston e ogni volta a bordo c’erano me-no prigionieri che all’inizio del viaggio sulle coste dell’Africa occidentale. Fino al 1865 (anno in cui inì la guerra di secessione) a Charleston esistevano quaranta rivendite uiciali di schiavi. Il mercato degli schiavi all’aperto era stato vietato perché danneg-giava l’immagine di Charleston come città di stile ed eleganza. Il 57 per cento degli abi-tanti del South Carolina erano enslaved blacks, neri in cattività. Dei quindici pro-prietari di piantagioni che possedevano più di cinquecento schiavi, otto vivevano in South Carolina.

Queste cifre sono riportate nel museo della schiavitù, ospitato nell’unica rivendi-ta di schiavi che sia arrivata ino a noi. Quel-lo che si vede nel museo fa un’altra impres-sione se si arriva a bordo di un autobus pie-no di neri. La visita guidata di Al Miller è organizzata come una predica. L’accompa-gnatore pone le solite domande: “È giusto che il colore della pelle inluenzi il futuro di una persona?”. “Oh, no! Oh, no!”.

Quando l’autobus gullah si lascia alle spalle Charleston e dopo poco passa davan-ti alla piantagione McLeod e a James Island, Al Miller dice: “Il prato davanti a noi era il cimitero degli schiavi”. Non serve aggiun-gere altro. A commemorare i defunti sepol-ti in questo posto non ci sono né pietre né cartelli. Più tardi il pullman si ferma e i di-scendenti degli schiavi (perché questo è quel che sono quasi tutti i presenti, anche se non sempre le terze o le quarte generazioni conoscono le loro origini) guardano, al di là di una strada traicata, le piccole baracche dipinte di bianco dove gli schiavi abitavano

South Carolina. Qui a sinistra Beau-fort. In basso la Boone Hall plantation di Charleston

Viaggi

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un tempo. Nessuno apre bocca e tutti issa-no gli alloggi con sguardo serio e perplesso. In precedenza hanno osservato anche i lus-suosi palazzi vittoriani di Charleston come la Aiken-Rhett house: con meraviglia e un accenno di vergogna per il ruolo assegnato ai loro antenati, nonostante sia stato pro-prio il loro lavoro a rendere possibile tanto sfarzo! Non è forse un’occasione per andare ieri dei propri avi? Sì, è proprio così, dice Darron Horthorn, un uomo arrivato per una gita domenicale da Greer, dove lavora nella fabbrica della Bmw. “Ma la vergogna per lo schiavismo fa sì che solo pochi afroa-mericani si confrontino con la loro storia. Non sapendo da dove vengono, non sanno chi sono. E chi non ha un senso di identità e non conosce i propri valori non può nean-che provare rispetto per gli altri”.

Lavoravano nelle risaie e nelle pianta-gioni di cotone, costruivano i palazzi e le case di villeggiatura dei signori a Charle-ston, cuocevano i mattoni, preparavano il cibo che servivano in tavola e facevano le pulizie. La visita gullah non fa sembrare brutta la meravigliosa Charleston, la tra-sforma solo in una città diversa, non solo dei bianchi.

Le capanne degli schiavi, un punto fer-mo di qualsiasi visita turistica a Charleston e lungo la costa del South Carolina, metto-no nella giusta luce il rapporto tra lusso e miseria. Non sono più grandi di venti o ven-ticinque metri quadri. Non mancano mai, neanche nella più imponente delle pianta-gioni rimaste, la Boone Hall plantation. In una di queste piccole case sono stati siste-mati due fantocci a grandezza naturale: la madre è seduta sulla sedia a dondolo men-tre il iglio gioca sul pavimento in un vero idillio americano. Una delle donne che ven-dono cesti gullah racconta che in quello spazio vivevano in realtà due e a volte tre famiglie: dalle dieci alle quindici persone.

In un museo all’aperto di Brattonsville, alcuni neri vestiti in costumi d’epoca im-personano gli schiavi. Uno degli attori fa una telefonata e poi si inila il cellulare in un calzino. Come mai?

“E dove altrimenti?”, domanda John, che ha trent’anni. Nonostante il caldo, quest’uomo robusto indossa abiti di cotone pesante. I suoi pantaloni e il gilè non hanno

tasche. “Chi non poteva possedere nulla non aveva bisogno di tasche”, spiega John prima di raccontare della whistle alley, il corridoio dei ischi: così si chiamava il pas-saggio che collegava la cucina alla sala da pranzo delle case dei signori. Per evitare che cedessero alla tentazione di accertarsi personalmente della prelibatezza delle pie-tanze, i servitori neri erano obbligati a i-schiare costantemente, perché chi mangia non può ischiare.

Ville biancheDato che la guerra di secessione ha messo ine a quella vita di ingiustizie (gli schiavi erano considerati oggetti), oggi nell’isola di Saint Helena, in South Carolina, sorge il Penn center, uno dei luoghi più importanti della cultura gullah. Dopo l’insediamento dei soldati nordisti, qui fu fondata una delle prime scuole per neri degli stati del sud. Il Penn center fu il punto d’incontro del movi-mento per i diritti civili. In una baracca ai margini della tenuta visse per quattro anni Martin Luther King, che qui scrisse ampi brani del suo discorso I have a dream. Da queste parti, infatti, King era al riparo dagli attentati.

Victoria Smalls, la direttrice culturale del Penn center, è cresciuta in questa vasta isola dove ino al diciannovesimo secolo c’erano solo campi. Gli antenati di suo pa-dre lavoravano in una delle tante piantagio-ni Fripp. Oliver Fripp, Lawrence Fripp, John Fripp, Tom Fripp: gli schiavi che nascevano in queste tenute ricevevano il cognome del-la piantagione e il primo nome che veniva in mente al proprietario. Per esempio quel-lo del mese in cui erano nati. Victoria Smalls usa il pronome “noi” quando parla degli schiavi. Lo fa consapevolmente, perché, spiega, le conseguenze di quella grande in-giustizia si ripercuotono ancora oggi sulla vita dei neri, con un’istruzione di cattiva qualità e scarse opportunità di avanzamen-to sociale. Victoria Smalls abita a Beaufort, nel luogo dove un tempo i proprietari delle piantagioni costruirono le loro ville bianche in un’atmosfera da casa di bambola tipica degli stati del sud, sotto frondose querce della Virginia e con vista sul porto e su Saint Helena. Le piante di Tillandsia usneoides penzolano giù dai rami come tante ragnate-le sempreverdi. Un paesaggio incantato: chi è che non vorrebbe vivere qui?

Victoria Smalls adora questa città, ma da quando ci abita si sente in colpa. “Mi ver-gogno di essere andata via da Sant’Helena per trasferirmi a Beaufort”. Centocin-quant’anni fa qui vivevano i padroni dei suoi avi. u fp

Le comunità gullah più unite sono quelle delle isole piatte di fronte alla costa

A tavola

u Cucina in South Carolina vuol di-re soprattutto una cosa: barbecue. La preparazione di carne più tipica del sud degli Stati Uniti da queste parti è oggetto di un vero e proprio culto, massima espressione di una tradi-zione gastronomica che ha mille sfumature ma che ruota intorno a pochi, immutabili elementi: il fumo, che serve per la cottura, prolungata e a basse temperature; le salse, che hanno spesso una componente aci-da; e la scelta dei tagli di carne, rigo-rosamente manzo o maiale, costo-lette, spalla o brisket (un taglio del petto tipicamente statunitense). No-nostante queste regole di base, tut-tavia, i contrasti tra regioni e città ri-mangono. E accendono discussioni ininite. “Ma è inalmente arrivato il momento di risolvere l’eterno con-litto tra il nord e il sud”, scrive il Charleston City Paper. “No, non si tratta della Guerra civile. È qual-cosa di più importante: il bbq della Carolina. Qui il dibattito è incentra-to sulle salse. Per i puristi ogni tipo di accompagnamento è un sacrile-gio, ma per gli altri la scelta della salsa è un rituale chiave. Le opzioni sono due: la salsa a base di senape, originaria del sud, e quella con l’ace-to, arrivata dal nord. Diicile stabili-re quale sia migliore. L’unica certez-za è che Charleston è in una posizio-ne deliziosamente unica, alla con-luenza di due culture del bbq”.

È anche per questo che in città i locali per assaggiare un perfetto bbq sudista non mancano. Il Charleston City Paper consiglia Fiery Ron’s Ho-me Team (“il segreto è nel fumo”), Momma’s Brown (“appena assagge-rete la carne dimenticherete la man-canza di atmosfera del locale”), JB Smokestack (“il miglior brisket della città”), Sticky Fingers, nella tradi-zione di Memphis, Jim n’ Nick’s, Shane’s Rib Shack (“la sua miscela di spezie è un segreto”) e Melvin’s, celebre per l’afumicatura con legno di hickory, il noce americano.

Il segretoè nel fumo

CI SONO STELLE CHE NON STANNO A GUARDARE

PIÙ CIELO PER TUTTI

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Di Vitalij Kličko, leader del partito di opposi-zione ucraino Udar, hanno sentito parlare tutti, compreso chi non ha seguito con partico-

lare attenzione i recenti eventi politici nel paese. La fama acquisita come campione mondiale dei pesi massimi di pugilato è stata un trampolino per le sue battaglie po-litiche. Secondo alcuni sondaggi, Kličko ha l’appoggio del 17 per cento degli ucraini (un consenso paragonabile a quello del presidente Viktor Janukovič). Un dato con-fortante per questo politico ambizioso, che nei prossimi mesi dovrà combattere un nuovo incontro nella categoria dei pesi massimi. I suoi sostenitori sono convinti che sia solo l’inizio di una grande carriera politica. Anche perché dopo l’uscita di sce-na di Julija Tymošenko non ci sono più lea-der di alto profilo in circolazione, sia nell’opposizione sia nelle forze al governo. Ma c’è ancora una domanda a cui Kličko deve rispondere: in quale direzione trasci-nerà le piazze ucraine?

Dopo che suo fratello minore Vladimir ha vinto il titolo mondiale Wba contro il pugile russo Aleksandr Povetkin, in Ucrai-na hanno cominciato a circolare molti aneddoti. Il più popolare su internet era questo: “Dio dice agli ucraini: ‘Vi darò Kličko’. ‘E cosa ce ne facciamo?’. ‘Batterà

gli americani e anche i russi’. ‘Allora date-cene due’”.

Vitalij Kličko è nato il 19 luglio 1971 nel-la Repubblica Socialista Sovietica Kirghi-za. Il padre ha fatto carriera nell’esercito fino al grado di generale maggiore dell’aviazione, e in seguito ha lavorato presso l’ambasciata sovietica in Germania. La madre era maestra elementare. Da pic-coli, i fratelli Kličko hanno girato quasi tut-ta l’Unione Sovietica insieme ai genitori. Entrambi si sono dedicati con impegno al-lo sport in da bambini. Nel 1995 il futuro leader di Udar ha terminato gli studi pres-so l’istituto di pedagogia Dragomanov di Perejaslav-Chmel’nickij, con una specia-lizzazione in insegnamento dell’educazio-ne isica. Poi ha continuato gli studi con un dottorato presso l’Università nazionale di educazione isica e sport dell’Ucraina. A quel tempo era già stato per sei volte cam-pione mondiale di kickboxing (prima da dilettante e poi da professionista), era stato tre volte campione nazionale di pugilato e aveva vinto il titolo mondiale Wbo. Nel

Come pugile ha avuto una carriera travolgente. Ora sta cercando di imporsi come leader dell’opposizione in Ucraina. Ma ha già dovuto afrontare i primi scandali e le prime critiche

Valerija Syčeva, Itogi, Russia. Foto di Neale Haynes

frattempo, suo fratello minore dimostrava di non essere da meno. Dopo le prime vit-torie, i fratelli Kličko hanno cominciato a ricevere oferte di promotori di boxe di va-ri paesi e dai migliori club internazionali. Alla ine hanno scelto la Universum Box-Promotion, con la quale hanno raggiunto un accordo nel 1996, e si sono messi nelle mani dell’allenatore Fritz Sdunek.

Amicizie pericoloseQualche maligno, invece, sostiene che il fulminante successo dei fratelli Kličko sia merito soprattutto di Igor Bakaj, ex mana-ger della Neftegaz, la compagnia petrolife-ra nazionale, e di Viktor Rybalko detto Rybka, amico di Bakaj e noto esponente del mondo criminale. Rybka, del quale i Kličko erano grandi amici, era un perso-naggio pieno di quel fascino romantico ti-pico di alcuni personaggi del mondo crimi-nale degli anni novanta. Si dice che Bakaj e Rybka si siano dati da fare per sponsorizza-re la carriera pugilistica dei Kličko. In cam-bio i due fratelli si sarebbero impegnati a dimostrare la loro gratitudine versando ai due mentori la metà di tutti i loro guadagni futuri.

La prima mossa di Bakaj e Rybka è stata cercare di vendere i due fratelli all’uomo che in quel momento rappresentava la più grande autorità mondiale nel campo della boxe, il promotore statunitense Don King. Rybka li ha portati a New York per organiz-zare degli incontri, ma l’afare non è anda-to in porto per un disaccordo sulla sparti-zione dei proitti. Così l’entrata dei Kličko nel mondo della boxe professionista è av-venuta, sempre con la mediazione di Ry-balko, grazie a Klaus-Peter Kohl, promoto-re della Universum.

Alcuni sostengono che alla fine del 2002, quando ormai erano all’apice della

◆ 19 luglio 1971 Nasce a Belovodskoye, nella Repubblica Socialista Sovietica Kirghiza.◆ 1996 Dopo essere stato campione mondiale di kickboxing, debutta come pugile professionista.◆ 1999 Conquista il titolo mondiale Wbo. Chiuderà la carriera con quarantacinque vittorie e due sconitte.◆ 2006 Viene eletto al consiglio comunale di Kiev, con una coalizione liberale.◆ 2010 Diventa il leader del partito d’opposizione Udar.◆ 24 ottobre 2013 Annuncia di volersi candidare alle elezioni presidenziali del 2015.

Biograia

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Vitalij KličkoSidante ucraino

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loro fama, i Kličko hanno deciso di sepa-rarsi dai loro protettori. A quei tempi Rybka si stava già nascondendo dalla polizia e dai nemici della criminalità organizzata. Nella primavera del 2005 è volato a Kiev. Aveva raccontato agli amici che l’obiettivo del suo viaggio era arrivare a un accordo con i pugili sui soldi. Ma dopo alcuni giorni è stato ucciso. Gli autori dell’omicidio non sono mai stati trovati.

I Kličko hanno sempre negato che Ry-balko abbia avuto un ruolo nella loro car-riera sportiva. Per quanto riguarda Bakaj, sostengono di aver interrotto i rapporti con lui nel 2004, quando l’uomo ha lasciato l’Ucraina dopo essere stato incriminato per malversazione e per aver fatto investi-menti illegali.

Eppure, gli appassionati di boxe su en-trambe le sponde dell’Atlantico continua-no ad adorare i due fratelli. In Germania,

dove Vitalij è conosciuto come il re del knock-out, gli spettatori saltano in piedi quando uno dei due sale sul ring.

Nel febbraio del 2001, Vitalij ha tenuto all’università della Bundeswehr, a Mona-co, una conferenza sul tema “Metodi per la deinizione delle abilità dei pugili in un si-stema di selezione sportiva in più fasi”. Dopo la presentazione ha risposto per un’ora a domande insidiose, per esempio quelle di chi gli chiedeva come avesse fatto uno sportivo come lui a trovare il tempo per ottenere un livello così alto di istru-zione.

A quei tempi niente faceva pensare che Vitalij volesse entrare in politica. Ma nel dicembre del 2004, quando ha battuto Danny Williams sul ring del casinò Man-dalay Bay, a Las Vegas, dal soitto della sala sportiva sono caduti confetti arancio-ni e alle spalle del vincitore è stato dispie-

gato uno striscione con la scritta “Questa è per te, Juščenko!”. Il pugile era sceso in campo indossando calzoncini con una stri-scia arancione, il colore del movimento i-loccidentale sceso in piazza in quel perio-do. Chi era il regista di quella scena? Era lo stesso Kličko che aveva deciso di mostrare al mondo la sua solidarietà verso la piazza ucraina? Oppure a Las Vegas si erano mes-si in moto altri meccanismi?

È molto probabile che dietro ci fosse il solito Igor Bakaj: nel marzo 2002, quando era candidato per un seggio da deputato, l’imprenditore si era fatto vedere con i due fratelli e alcune guardie del corpo su una lussuosa jeep a Rovno, nell’ovest del pae-se. Vitalij ha dichiarato di essere andato a Rovno con suo fratello per presentare la squadra di Bakaj. E a quelli che lo accusa-vano di essersi venduto all’oligarca, ri-spondeva: “Non si tratta di soldi, sempli-cemente l’amico Bakaj è un uomo di buon cuore che si prende cura del benessere del popolo”. Anche Juščenko deve aver avuto un buon cuore, visto che dopo essere stato eletto presidente ha nominato Vitalij suo consulente.

Nel 2006 Kličko ha cominciato la sua carriera politica a capo del blocco elettorale Pora-Prp, candidandosi al parlamento, al consiglio comunale di Kiev e alla carica di sindaco della capitale. Ma è riuscito a con-quistare solo il posto di consigliere comu-nale. Nel 2008 ha di nuovo perso la sida a sindaco ed è stato rieletto consigliere co-munale. La sua sconitta ha sorpreso molte persone, perché Kličko si era aidato a im-portanti consulenti politici come l’ex sinda-co di New York Rudolf Giuliani e l’ex sinda-co di Berlino Klaus Wowereit. L’impegno politico crescente l’ha spinto a ritirarsi gra-dualmente dalla boxe (e quindi a rinunciare anche agli ingaggi da capogiro).

Leader distratto

Nel 2010 ha deciso di dedicarsi a tempo pieno alla politica, assumendo la guida del partito Udar (che è l’acronimo di Alleanza democratica ucraina per le riforme, ma in ucraino signiica anche “colpo”). Nelle ele-zioni del 2012 il partito è riuscito a entrare in parlamento come terza forza politica del paese. Kličko e la sua squadra sono diven-tati i nuovi volti della politica ucraina. Un’alternativa per chi era stato deluso da Julija Timošenko e da Arsenij Jatseniuk, i due leader dell’opposizione. Ma nel 2012 Udar ha fatto parlare di sé soprattutto per le accuse di collaborazione con gli oligar-chi Sergej Levočkin e Dmitrij Firtaš, e an-che per l’assenza di Vitalij Kličko in parla-

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mento il giorno in cui si votava la siducia nei confronti del governo. Il voto era stato voluto proprio da Udar. In quel momento Kličko si trovava in Germania per conse-gnare il premio al vincitore di una lotteria organizzata da una azienda produttrice di birra. Nella primavera di quell’anno, quan-do Jatseniuk aveva convocato nuove mani-festazioni per chiedere le dimissioni di Janukovič, Kličko era di nuovo all’estero.

In pratica, Udar e il suo leader non han-no molte azioni concrete di cui vantarsi. Gli scandali, invece, abbondano. Il più cla-moroso è scoppiato poco dopo la nascita del movimento Euromaidan, che protesta contro la decisione di Kiev di non irmare un accordo di associazione tra l’Ucraina e l’Unione europea. Come se stessero agen-do su commissione, gli hacker della sezio-ne ucraina del gruppo Anonymous sono entrati nella vita privata dell’ex pugile e nuovo peso massimo della politica. Fino ad allora non si erano mai interessati alla sua vita, ma all’improvviso si sono ricorda-ti di lui. Forse perché, come spiegano molti osservatori, in realtà non si tratta di “ano-nimi” ma di soggetti che eseguono gli ordi-ni dei servizi segreti.

È venuto fuori che il potenziale candi-dato dell’opposizione alla presidenza dell’Ucraina pratica uno sport al quale si dedicano molti uomini: Kličko, padre di tre figli, tradisce regolarmente sua moglie, non con una ma con due amanti. Conduce una vita dissoluta, frequenta luoghi di vil-leggiatura costosi, si dà alla bella vita nei locali. Come se non bastasse, sono uscite informazioni su un hotel appartenente a lui e al fratello (e che invece uicialmente è esclusivamente di proprietà di Vladimir Kličko) nel centro di Kiev, e addirittura su un iglio illegittimo, nato al di fuori del ma-trimonio con la moglie Natal’ja, ex atleta e fotomodella.

Patriota riluttante

In confronto alle due condanne subite da giovane dall’attuale presidente Viktor Janukovič, le accuse contro Kličko non sembrano così gravi. Gli hacker ne sono venuti a conoscenza forzando il suo indi-rizzo di posta elettronica e i suoi account VKontakte e Facebook. Kličko non ha smentito. E diicilmente lo farà, perché dopo tutto si tratta solo di una montagna di spazzatura. Accusare una star dello show business per la vita che conduce è ridicolo. Vitalij è una star di Hollywood: insieme al fratello e a Sylvester Stallone ha prodotto un musical su Rocky Balboa. Gli si può per-donare tutto. Anche se con l’entrata in po-

litica gli converrebbe cercare di ridurre un po’ la luminosità della sua stella.

L’unica cosa alla quale i suoi oppositori possono aggrapparsi con maggiori speran-ze di successo è il fatto che Kličko è un cit-tadino del mondo. Un politico che vuole avere di fronte a sé un lungo futuro, e mira addirittura alla poltrona di presidente, non può essere così poco patriottico. Nell’otto-bre del 2013 si è saputo della sua volontà di candidarsi alla presidenza. Poco dopo è stata approvata una modiica del codice tributario.

La norma prevede, tra le altre cose, che un cittadino che vive all’estero per la mag-gior parte dell’anno non può essere consi-derato un residente in Ucraina. E secondo la legge elettorale solo chi risiede perma-nentemente in Ucraina può candidarsi alla presidenza. Il progetto di legge è stato ap-provato in prima istanza l’8 ottobre. Secon-do Kličko si tratta di una mossa studiata appositamente per colpirlo in quanto con-corrente politico di Viktor Janukovič. La commissione elettorale si è affrettata a precisare che il codice si limita a regolare i rapporti tra lo stato e i contribuenti e non riguarda la candidatura di Kličko. Ma se-condo molti esperti e giuristi i rischi per la sua candidatura sono reali.

Il legame di Vitalij Kličko con il suo pa-ese è efettivamente molto debole. Se vuo-le diventare capo dello stato, farà bene a passare il prossimo anno e mezzo in Ucrai-na e non, come fa di solito, negli Stati Uniti e in altri paesi dell’Unione europea. Nel corso degli ultimi quattordici anni ha vis-suto principalmente in Germania. Dalla sua casella email violata sono venute fuori scansioni del suo permesso di residenza in Germania e la documentazione per il rin-novo del permesso di residenza negli Stati

Uniti. Come è noto, le leggi di entrambi i paesi richiedono ai titolari di questi docu-menti di soggiornare nei rispettivi territori per non meno di 183 giorni all’anno.

In Germania, Kličko è uno degli sporti-vi più famosi. Nell’aprile del 2013 è stata pubblicata la sua dichiarazione dei redditi per l’anno precedente: in Ucraina ha gua-dagnato solo 11.204 hryvnie (circa mille euro), mentre in Germania i suoi redditi sono stati di vari milioni di euro. Tutti i sol-di guadagnati in patria li ha donati all’orfa-notroio Romaška. Kličko sottolinea che non si occupa di business, anche se è coin-volto in alcuni progetti in campo edilizio. “Secondo i pettegolezzi sono proprietario di molti night club, ristoranti e casinò. Non intendo commentare queste voci”, ha det-to tempo fa. Ma a dispetto delle sue afer-mazioni, continuano a circolare molte leg-gende sull’impero afaristico che gestireb-be insieme a suo fratello. Si dice che abbia-no interessi nei settori dell’edilizia, del gioco d’azzardo, dei locali e della produ-zione di alcolici.

Molti in Ucraina credono che Vitalij Kličko possa davvero diventare il principa-le concorrente di Janukovič nelle presiden-ziali del 2015. Soprattutto se Euromaidan riuscirà a ottenere un’anticipazione del vo-to. Gli scettici invece credono che per il momento l’elettorato di Vitalij sia ancora una massa informe e confusa. Fino a oggi Kličko non è riuscito a stabilizzare il suo seguito elettorale, perché per riuscirci do-vrebbe mettere in atto misure politiche concrete. Inoltre un terzo dei suoi poten-ziali elettori è formato soprattutto da gio-vani, una categoria particolarmente refrat-taria a recarsi alle urne.

Vitalij però non perde il suo ottimismo. Ha già nominato i capi dei suoi comitati elettorali regionali e ha assunto alcuni con-sulenti stranieri. Si tratta in parte di specia-listi statunitensi esperti di campagne elet-torali, guidati da Miron Vasilik. Ha contat-tato anche James Carville, il principale stratega della campagna presidenziale di Bill Clinton nel 1992, già consulente del premier britannico Tony Blair, del presi-dente sudafricano Nelson Mandela, del cancelliere tedesco Gerhard Schröder e del premier israeliano Ehud Barak.

Oltre alla sua fama, Kličko conta su un vantaggio che né i suoi oppositori né i suoi sostenitori possono ignorare: è un perso-naggio estraneo per natura a un sistema politico sempre più esasperato e tutt’altro che trasparente. E agli occhi della maggior parte degli ucraini si tratta di una qualità molto apprezzabile. u af

L’unica cosa a cui i suoi oppositori possono aggrapparsi con maggiori speranze di successo è il fatto che Kličko è un cittadino del mondo

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Dorit Magidor è nata nel 1986 a Los Angeles. Vive a Tel Aviv dove studia illustrazione allo Shenkar College of Engineering and Design.

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Cultura

Cinema

L a mia classe, il ilm di Daniele Gaglianone sulla formazione culturale e nazionale degli im-migrati in una scuola di Roma, esce a quasi vent’anni da La-

merica di Gianni Amelio. Vent’anni in cui il cinema italiano, almeno quello d’autore, è tornato più volte sul tema dell’immigrazio-ne che, spesso sotto forma di storie di inte-grazione fallita, sembra aver dato nuova linfa a un cinema impegnato, apparso diso-rientato dopo gli anni ottanta.

Era il 1973 quando l’Italia registrò il suo primo saldo migratorio positivo dopo seco-

li (101 ingressi ogni 100 espatri). Ma c’è vo-luto un bel po’ prima che il cinema si occu-passe seriamente dell’argomento. A parte l’eccezione di Pummarò (l’esordio alla regia di Michele Placido, che nel 1989 raccontava lo sfruttamento degli africani nei campi di pomodori di Villa Literno), è solo dopo lo sbarco degli albanesi in Puglia nel 1991 che il mondo del cinema ha cominciato a pren-dere nota del fenomeno.

Il dilemma dell’afabulatoreNegli anni novanta, oltre a Lamerica, l’argo-mento è riaiorato qua e là, per esempio in Vesna va veloce (1996) di Carlo Mazzacurati, e soprattutto nei due primi lungometraggi di Matteo Garrone, Terra di mezzo (1996) e Ospiti (1998), che è uno dei pochi registi ad aver rischiato una vena ironica, quasi felli-niana, anche perché più interessato a osser-vare che a moralizzare.

Ma è stato solo dopo il 2000 che il goc-ciolìo di immigration ilm si è trasformato in un iume in piena. L’anno emblematico for-se è il 2005, in cui sono usciti Quando sei nato non puoi più nasconderti di Marco Tul-lio Giordana e Saimir di Francesco Munzi. Giordana, con gli sceneggiatori Stefano Rulli e Sandro Petraglia, si è aidato a un protagonista italiano per rendere più im-mediato il dramma dei cosiddetti viaggi della speranza. Proprio come in Lamerica, è una scelta che trova una sua logica nella tra-ma, ma l’efetto è in parte alienante, come se “l’altro” fosse troppo diverso da noi per raccontarlo direttamente, senza un Virgilio di turno. Rispetto all’incisiva ricostruzione della ricca famiglia bresciana capeggiata da Alessio Boni e Michela Cescon, il calvario del ritorno in Italia del iglio naufrago San-dro, insieme ai suoi nuovi amici romeni, sembra generico, sfocato. In quello che di fondo è un melodramma, gli intrusi stranie-ri sembrano sfruttati perino dagli sceneg-giatori, anche se per raccontare le ipocrisie di una certa borghesia “liberale” italiana. È il dilemma dell’affabulatore davanti alla storia importante: se non l’hai vissuta, hai il diritto di raccontarlo?

Munzi forse risponderebbe di no, forte della sua gavetta da documentarista, nei campi rom del litorale laziale. Il suo primo lungometraggio, Saimir, ofre una visione non iltrata (o almeno l’illusione riuscita di una visione non iltrata) della vita di un ra-

Il ilm La mia classe di Daniele Gaglianone rompe gli schemi del diicile rapporto del cinema italiano con l’immigrazione

Una lezione per tuttiLee Marshall per Internazionale

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Valerio Mastandrea in La mia classe

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gazzo albanese condannato all’emargina-zione. In un’intervista a Close Up Munzi ha detto: “Mi sembrava giusto evitare l’abusa-to espediente narrativo per cui è un italiano che incontra il diverso. È un approccio che inisce per dare al ilm un taglio quasi socio-logico, conosciamo una realtà marginale ma lo sguardo è quello privilegiato e a volte un po’ narciso dell’italiano”. Appunto.

Da allora i due punti di vista (quello ita-liano e quello straniero) si sono divisi i ilm sull’immigrazione. A volte si sono fusi. Io sono Li di Andrea Segre è la storia malinco-nica dell’amicizia tra un vecchio pescatore di Chioggia e una ragazza cinese. La novità della trama rispetto alla maggior parte delle storie di incontri fra immigrati e italiani (Terraferma di Crialese, Un’anima divisa in due di Soldini, perino il seguito drammati-co di Segre, La prima neve) è che Bepi (detto Il Poeta) è a sua volta un immigrato, arriva-to dalla Jugoslavia trent’anni prima. Ma quel che è riuscito meglio in questo ilm è un’innovazione formale: ci si identiica con la protagonista senza intaccare il suo io pri-vato (è signiicativo da questo punto di vista il doppio senso del titolo), come se la pre-mura del regista di non appropriarsi di una storia che non è sua fosse condivisa anche dalla cinepresa.

Claudio Giovannesi con Alì ha gli occhi azzurri e Guido Lombardi con Là-bas si so-no schierati con i loro protagonisti immi-grati, mescolando documentario e inzione alla ricerca dell’autenticità. Infatti Alì, sto-ria intensa e coinvolgente di un ragazzo italo-egiziano conteso tra due culture, na-sce dal documentario Fratelli d’Italia, rea-lizzato dallo stesso regista, che a sua volta documentava una serie di laboratori di di-dattica del cinema svolti in un istituto tecni-co commerciale di Ostia dove c’è un’alta percentuale di studenti di prima o seconda generazione.

Con la strage di Castelvolturno del 2008 sullo sfondo, Là-bas racconta la storia di Yussouf, giovane immigrato dall’Africa subsahariana che approda nella Pomodoro valley a nord di Napoli pieno di speranze e sogni di ricchezza. Come Giovannesi, Lom-bardi ha fatto un po’ di gavetta per guada-gnarsi il diritto a raccontare questa storia: il ilm prende spunto, in parte, dalla sua espe-rienza di regista ingaggiato per efettuare delle riprese durante le feste organizzate da varie comunità africane nella periferia di

Napoli. Con dialoghi quasi interamente in francese, Là-bas opera nella sua stessa for-ma, nella sua scelta di un linguaggio alieno, l’inversione di prospettiva accennata nel titolo: per questi immigrati africani, l’Italia non è “lassù”, ma “laggiù”.

La questione del debito che si contrae raccontando le storie altrui è al centro del nuovo ilm di Daniele Gaglianone. È il pri-mo ilm italiano a superare il binomio della visione esterna/interna andando dritto al punto: “Per quanto ci si schieri dalla parte degli immigrati, ci si sta sempre servendo di loro per drammatizzare una storia. Quin-di non è che, al di là delle buone e nobili in-tenzioni, si sta riproducendo proprio quel rapporto gerarchico che ostacola l’integra-zione?”.

Il quarto muroLa mia classe è ambientato in una scuola se-rale per immigrati della periferia di Roma. Valerio Mastandrea interpreta un inse-gnante di lingua e cultura italiana, ma i suoi studenti, provenienti da tutte le parti del mondo, sono stati scelti tra i veri studenti dei corsi serali per immigrati a Roma.

Prima di vedere il film è utile sapere qualcosa sui corsi serali per stranieri da cui prende spunto.

Dal marzo del 2012 per ottenere un per-messo di soggiorno valido per più di un an-no chi non è cittadino europeo è obbligato a iscriversi a corsi di “conoscenza della lin-gua italiana, della cultura civica e della vita civile in Italia”. I corsi sono organizzati dai Ctp (centri provinciali per l’istruzione degli adulti), dove lavorano professori di ruolo e

anche insegnanti qualiicati ma volontari come Claudia Russo che ha sceneggiato il ilm insieme a Gaglianone e Gino Clemen-te, e ha fornito molti spunti per il ruolo di Mastandrea. Dal ilm si percepisce chiara-mente che, per quanto tra professore e stu-dente s’instauri spesso un clima di amicizia e solidarietà, il professore appartiene suo malgrado alla schiera degli ostacoli istitu-zionali da superare per avere il permesso di soggiorno.

Inizialmente Gaglianone voleva fare una specie di versione italiana di La classe, il ilm di Laurent Cantet che ha vinto la Palma d’oro a Cannes nel 2008. Un ilm in bilico fra documentario e inzione che riuscisse a tirare fuori una parabola drammatica dalle storie vere dei singoli studenti e dalle loro interazioni. Ma poi è successo qualcosa che, per non rovinare la sorpresa, è giusto lasciar spiegare al regista: “In pratica, stavamo per raccontare delle vicende che erano uno svi-luppo ipotetico e plausibile della condizio-ne di alcuni studenti, quando improvvisa-mente quella che era solo un’idea di sce-neggiatura è diventata un fatto reale che stava accadendo in quel preciso istante”.

In seguito a questo “imprevisto” il quar-to muro della inzione cinematograica si è sgretolato (in realtà era già successo breve-mente in una scena precedente, ma questo è il momento clou). Mastandrea torna a es-sere Mastandrea attore, entrano in scena Gaglianone e altri componenti della troupe. Scoraggiato da quello che sta succedendo, l’attore/maestro commenta sottovoce al regista: “Comunque quello che stiamo fa-cendo non serve a un cazzo”.

Sembra volersi chiedere se ha senso continuare a fare il ilm quando la realtà ha superato la fantasia.

Potrebbe sembrare un arido esercizio di metacinema ma, nonostante qualche pro-blema strutturale su come far combaciare contenuto e cornice da quel momento in poi, non lo è. Il tentativo, sostanzialmente riuscito, non è solo quello di raccontare una storia di integrazione, ma anche di invertire o almeno pareggiare il rapporto di potere tra cineasta italiano e soggetto immigrato.

E ora? Be’, si può solo sperare che il pros-simo passo del cinema d’immigrazione ita-liano sia la produzione di opere di immigra-ti e igli di immigrati, cosa che inora, se si esclude il caso Ozpetek, è mancata quasi totalmente. u

Al di là delle buone intenzioni, i ilm sugli immigrati possono alimentare il rapporto gerarchico di potere che ostacola l’integrazione

72 Internazionale 1034 | 17 gennaio 2014

Cultura

Cinema

Dopo l’assegnazione dei Golden globe, parte la corsa ai premi Oscar Via via che si dissolvono i fumi della sbornia che in tanti, vin-citori e sconitti, hanno legitti-mamente preso dopo la ceri-monia dei Golden globe, si co-mincia subito a pensare ai pre-mi Oscar. Va precisato che so-lo uno degli 89 giornalisti stra-nieri che decidono a chi dare i Globe è anche uno dei 6.028 componenti dell’Academy che hanno diritto a votare per gli Oscar. Detto questo, 12 anni schiavo sembra davvero diici-le da battere. L’argomento della schiavitù è molto sentito

negli Stati Uniti e se il ilm è stato premiato da giornalisti stranieri, poco sensibili alla storia del paese, si può presu-mere che l’Academy sia anco-ra più coinvolta. Senza contare che il ilm è molto ben fatto. Anche la coppia di attori di Dallas buyers club, Matthew

McConaughey e Jared Leto, escono favoritissimi dopo la vittoria ai Golden globe. L’ul-tima volta che due attori dello stesso ilm hanno vinto nelle categorie di miglior attore e miglior attore non protagoni-sta è stata giusto dieci anni fa, quando Sean Penn e Tim Rob-bins vinsero con Mystic river. Più aperta la competizione per la miglior attrice: se giovedì 16 gennaio si guadagnerà la no-mination, Amy Adams con-correrà per la quinta volta in nove anni. Ma dovrà vedersela con Cate Blanchett che sem-bra inarrestabile. Scott Feinberg, The Hollywood Reporter

Dagli Stati Uniti

Il giorno dopo

12 anni schiavo

Dieci ilm nelle sale italiane giudicati dai critici di tutto il mondo

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Media

Italieni I ilm italiani visti da un corrispondente straniero. Questa settimana la giornali-sta israeliana Sivan kotler.

Il capitale umanoDi Paolo Virzì. Italia 2014, 109’●●●●● Il capitale umano riesce come pochi ilm a mostrare i lati oscuri delle persone coltivan-do un senso sottile di speran-za. Il calcolo freddo e cinico della vita umana, “il capitale umano” per l’appunto, viene rielaborato da Virzì con preci-sione e sensibilità. Con talen-to indiscusso, che riesce an-che stavolta a superare se stesso, il regista toscano pre-senta un soferto mosaico di crisi morale e intergenerazio-nale dove debolezze e fragilità vengono esposte in tutta la lo-ro tragicità. Questo ritratto compassionevole e crudele, suddiviso in quattro capitoli assume i ritmi di un thriller. In una Brianza regolata dalla leg-ge del denaro, due giovani le-gano due famiglie e varie ani-me in pena. Così s’incrociano i capitali umani di un piccolo e avido immobiliarista, di uno zio poveraccio e nullafacente, di un ciclista e di un professo-re di sinistra, che fa la igura del fesso. Straordinarie Vale-ria Bruni Tedeschi e Valeria Golino, donne vittime delle loro scelte afettive. Amma-liante Matilde Gioli, esempio di una gioventù in grado di re-stare solida anche quando le trema il terreno sotto i piedi. Ma soprattutto chiara, preci-sa, sicura e spietatamente rea-le la regia. Tutto ciò compone un quadro dove, tra squallore e intimità, tutto ha un valore e un prezzo, pagati spesso dal-le persone comuni, vittime delle leggi del mercato dell’umanità.

Internazionale 1034 | 17 gennaio 2014 73

The counselorDi Ridley Scott. Con Michael Fassbender, Penélope Cruz. Sta-ti Uniti/Regno Unito 2013, 111’●●●●● La storia del cinema è piena di grandi scrittori statunitensi che sono stati brutalizzati da Hollywood. William Faulkner e Scott Fitzgerald, tanto per fare dei nomi, sono tra quelli che hanno vissuto la parabola di Barton Fink. The counselor è un caso a sé perché il cele-brato scrittore Cormac McCarthy, autore della sce-neggiatura originale del ilm, non doveva assecondare un produttore sprezzante. McCarthy ha fatto tutto da solo, in piena libertà artistica. E ha prodotto una sceneggia-tura contorta e banale proprio come quelle passate attraver-so il macinino dei grandi stu-dios. La storia dell’avvocato che vuole diventare un trai-cante di droga sembra un ilm di Sam Peckimpah in stile Basic istinct. The counselor ha delle potenzialità produttive enormi, a partire dal regista e dal cast di pesi massimi, e dei momenti divertenti. Ma il ri-sultato inale, visto il quanti-tativo di talento coinvolto nell’operazione, non può essere che una fortissima delusione.Geofrey Macnab, The Independent

C’era una volta a New YorkDi James Gray. Con Jeremy Ren-ner, Marion Cotillard, Joaquin Phoenix. Stati Uniti 2013, 120’●●●●●Il furore difuso dello strari-pante dramma storico di Ja-mes Gray è integrato perfetta-mente nel tessuto delle sue ampie e disarmoniche inqua-drature. Fin dall’inizio, negli sguardi disperati dei perso-naggi si individua il lato oscu-ro del paradigma americano. Nel 1921 Ewa (Marion Cotil-lard) arriva a Ellis Island dalla Polonia con la sorella (Angela Sarafyan) che viene messa in quarantena a causa della tu-bercolosi e rischia di essere re-spinta. Un misterioso benefat-tore prende a cuore la situazio-ne di Ewa: Bruno Weiss (Joa-quin Phoenix) sostiene di es-sere un operatore umanitario e invece si rivela come impre-sario di spettacoli a luci rosse e protettore. Incapace di sfuggi-re dalle sue grinie, Ewa rivol-ge le sue speranze al cugino di

Bruno, Emil (Jeremy Renner), piccolo prestigiatore dall’ani-mo puro. Gray svela un intrica-to panorama di degrado e cor-ruzione nei turbolenti caseg-giati del Lower East Side. L’in-terpretazione molto controlla-ta di Cotillard e quella esplosi-va di Phoenix riescono a dare un’immediatezza ruvida al dé-cor anni venti. Mantenendo alta la tensione serpeggiante della violenza psicologica pronta a esplodere, Gray rom-pe il naturalismo per svelare gli incubi nascosti dietro la mi-tologia urbana e nazionale.Richard Brody, The New Yorker

The unknown knownDi Errol Morris. Stati Uniti 2013,105’●●●●●Dieci anni fa, con il suo docu-mentario The fog of war portò Robert S. McNamara, segreta-rio della difesa con Kennedy e Johnson, a fare il mea culpa per l’escalation della guerra in Vietnam. In questa lunga in-tervista a Donald Rumsfeld, segretario alla difesa di Geor-ge W. Bush, promotore ed ese-cutore dell’invasione e dell’oc-cupazione in Iraq del 2003, non raccoglie nessun tipo di introspezione o di illuminazio-ne. L’unica lezione che ap-prendiamo dall’energico ot-tantunenne è che essere un neocon signiica non dover mai dire mi dispiace per aver giustiicato una guerra con prove false e aver rovinato irri-mediabilmente la reputazione degli Stati Uniti nel mondo islamico. Forse con un altro in-tervistatore il fervore quasi messianico di Rumsfeld nell’esporre la sua dottrina po-litica sarebbe stato vagamente intaccato. Ma con Morris è un gioco al gatto con il topo. E Rumsfeld è il gatto.Mary Corliss, Time

Il capitale umanoPaolo Virzì (Italia, 109’)

American hustleDavid O. Russell (Stati Uniti, 129’)

PhilomenaStephen Frears (Regno Unito, 94’)

C’era una volta a New York

Nebraska

In uscita

NebraskaDi Alexander Payne. Con Bruce Dern, Will Forte. Stati Uniti 2013, 110’●●●●● Il Nebraska del ilm è più luo-ghi in uno solo. Intanto è un luogo geograico, il Cornhu-sker state (lo stato delle pan-nocchie), terra di origine del regista Alexander Payne (an-che se lui è cresciuto in città, a Omaha, lontano dai paesaggi rurali in cui si svolge gran par-te della storia). Ed è anche il luogo dove è nato il protagoni-sta del ilm, Woody (Bruce Dern), nonché la destinazione del lungo viaggio in automobi-le che compie insieme al iglio David (Will Forte), dal Monta-na, dove sono andati ad abita-re. Ma per questo ex meccani-co settantenne, alcolista da una vita, che sta scivolando nella demenza, il Nebraska è anche una specie di oasi dove è convinto che si compirà il suo destino, trovando il bi-glietto della lotteria che lo ren-derà milionario. Qualcuno giudicherà grossolano l’umo-rismo folk delle scene comi-che del ilm. Qualcun altro in-vece condannerà il ritratto del Midwest tracciato da Payne come caricaturale e condi-scendente. Io invece ho sem-pre apprezzato la capacità del regista di essere sia serio sia comico, di riuscire a mostrare la bellezza e la rilevanza della vita ordinaria ianco a ianco con la sua piccola e venale as-surdità. C’è qualcosa nelle ul-time scene del ilm che fa pen-sare a Re Lear, quando Woody osserva il vuoto della sua vita passata con occhi che hanno visto in troppe cose. Si sta già allontanando dal mondo, in rotta verso il suo Nebraska personale. Dana Stevens, Slate

I consigli della

redazione

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Libri

Il poeta, traduttore e giornalista argentino è morto a Città del Messico. Aveva 83 anni Juan Gelman nacque a Buenos Aires il 3 maggio del 1930. Fi-glio di emigranti ebrei ucraini, fece diversi lavori prima di ap-prodare al giornalismo. Da sempre attivo politicamente fu costretto all’esilio dal 1975 al 1988, periodo durante il quale visse a Roma, Madrid, Mana-gua, Parigi, New York e Città del Messico. E alla politica è legato un altro episodio tragi-co che segnò profondamente la sua vita. Il 24 agosto del 1976 suo iglio Marcelo fu se-questrato a Buenos Aires in-sieme alla compagna María Claudia García Iruretagoyena, che aveva 19 anni ed era al set-timo mese di gravidanza. I re-

Dagli Stati Uniti

Juan Gelman, 1930-2014

Giuseppe Catozzella Non dirmi che hai paura Feltrinelli, 236pagine, 15 euro“Un’eroina del nostro tempo”, si dice nella bandella del libro di questa ricostruzione insieme libera e documentata della breve esistenza di Samia Yusuf Omar, la ragazza somala che prese parte alle Olimpiadi di Pechino e sognava di correre a quelle di Londra, morta nel nostro mare “mentre tentava di raggiungere le funi lanciate da un’imbarcazione italiana”. Per raccontare la sua storia – che è

storia, a Mogadiscio, di lotte intestine e di soprafazione integralista – Catozzella ha scelto di ricorrere alla prima persona singolare, come fosse la stessa Samia a raccontarsi e noi scoprissimo con lei, anno dopo anno della sua breve vita travagliata e purtroppo esemplare, il contrasto atroce tra sogno e realtà, la bellezza e l’orrore del mondo in cui viviamo oggi e proprio oggi: un mondo di cui dovremmo farci carico e sentire il peso. In questa narrazione ci sono molto pudore e molta

tenerezza, e l’indignazione e commozione non sono esibite ma appaiono vere e profonde, sul ilo di rasoio di una partecipazione che rischiava l’indebito uso del dolore altrui, come accade in tanto giornalismo e in tante associazioni, e insomma tra i “buoni”. Tra candore e mestiere, Catozzella vince la sua scommessa, e ci regala un libro semplice e sincero, che dovrebbero leggere i nostri igli e nipoti. Per capir meglio in che tempi viviamo, e le nostre adulte viltà. u

Il libro Gofredo Foi

La corsa di Samia

Italieni I libri italiani letti da un corrispondente straniero. Questa settimana Michael Braun del quotidiano berline-se Die Tageszeitung.

Andrea Scanzi Non è tempo per noiRizzoli, 178 pagine, 17 euro

●●●●●Avvertenza ai lettori: se amate Ligabue, Jovanotti, Gabriele Muccino o Matteo Renzi, l’ultimo libro di Andrea Scanzi sulla generazione dei quarantenni non fa per voi. Il suo titolo Non è tempo per noi recita sì una canzone di Ligabue, ma lo fa in modo sarcastico. Infatti Scanzi non propone, come a prima vista potrebbe suggerire il titolo, una rivisitazione socioeconomica dei problemi dei quarantenni, “generazione in panchina”. Lui stesso sulla soglia dei quaranta, l’autore lancia una feroce polemica contro i suoi coetanei, il loro sentire comune, i loro idoli, i loro miti. Una generazione che si trova in panchina, perché, aferma Scanzi, “non è neanche scesa in campo”, perché è composta da “individualisti distratti che non fanno gruppo e neanche si accorgono di quanto si somiglino fra di loro”.Scanzi spazia da Totti a Valentino Rossi, da Matteo Orini ad Angelino Alfano, da Caparezza a Fabio Volo, salvando soltanto uno dall’accusa di “renzismo e jovanottismo”: Paolo Sorrentino. La sua ilippica ha dei toni decisamente soggettivi, e il lettore può condividerla o meno. Ma una cosa è sicura: di certo non si annoierà con questo libro ricchissimo di spunti di rilessione.

sti di Marcelo Gelman furono identiicati nel 1989, mentre nel 2000 il poeta riuscì inal-mente a rintracciare e a incon-trare María Claudia. Come poeta e letterato si aggiudicò moltissimi premi, compreso, nel 2007, il Cervantes, consi-derato il riconoscimento più

prestigioso per quanto riguar-da la lingua spagnola. Nella sua poesia Gelman ha sempre celebrato la vita, mantenendo una grande attenzione a que-stioni sociali e politiche, af-frontate soprattutto nella sua attività giornalistica. Página 12

Cultura

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Juan Gelman

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Simon GarieldL’arte perduta di scrivere le lettere. E come ritrovarlaPonte alle Grazie, 462 pagine, 16,80 euro

●●●●●Il nuovo libro del giornalista britannico Simon Garield, che ripercorre la storia della scrit-tura e della consegna delle let-tere e presenta brani di lettere tenere, franche e solenni di scrittori celebri o sconosciuti, potrebbe spingervi a inviare qualche messaggio scritto a mano. Scavando attraverso due secoli di lettere, Garield dissotterra un mucchio di rovi-ne epistolari. Le storie strava-ganti abbondano. C’è quella del giovane londinese che spe-dì se stesso nel 1900, in prati-ca pagando il servizio postale perché lo accompagnasse a casa. E c’è Oscar Wilde, che a quanto pare aveva l’abitudine di scrivere le lettere e gettarle dalla inestra della sua casa di Chelsea, conidando che qual-che animo gentile le mettesse nella buca più vicina. Il decli-no dell’arte di scrivere lettere precede internet. “Per molti cominciò nel 1840, con il pri-mo francobollo adesivo”, scri-ve Garield. Nel 1919, la Yale Review lamentò che “l’arte di scrivere lettere è andata per-duta”, dando la colpa al telefo-no, alla macchina da scrivere, al telegrafo, perino al treno, perché consentiva di conse-gnare le lettere troppo rapida-mente. Il libro si fa più ricco quando si cala nei casi perso-nali. Potete apprezzare le ope-re dei grandi scrittori, ma non c’è nulla di più intimo che leg-gere le loro lettere. Garield fa bene a celebrare le lettere in-vece che lamentarne il decli-no, perché predicare contro le email non spingerà nessuno a preferire l’uicio postale. Lisa Bonos, The Washington Post

Colm TóibínIl testamento di MariaBompiani, 99 pagine, 15 euro

●●●●● Il resoconto in prima persona di Maria che assiste alla tra-sformazione del suo bambino in una divinità è fatto anni do-po la crociissione, quando i discepoli vanno a visitarla re-golarmente, ansiosi di colle-zionare con ordine storie divi-ne come materia per i Vangeli. Il testamento è la versione che Maria dà degli eventi, il lato più terreno della storia che i suoi visitatori si riiutano di trascrivere. Maria racconta al-cuni degli episodi più noti del-la vita di Cristo – la resurrezio-ne di Lazzaro, la trasformazio-ne dell’acqua in vino, la croci-issione – e si soferma nostal-gicamente sui giorni più sem-plici, quando suo iglio non era il “Figlio”. Secondo lei, gli atti più conosciuti di Cristo erano tutto fuorché provvidenziali, e Maria stessa non è docile co-me la vuole il mito: a metà del libro, minaccia gli apostoli con un coltello. A diferenza della donna pura e mite dipinta sul-le candele votive, Maria è de-terminata e prima di tutto one-sta. Ai suoi occhi, Cristo e i di-scepoli non sono le igure ri-tratte da Leonardo, sono emarginati, problematici e un po’ ribelli. Ma forse Tóibín non voleva che il romanzo si leg-gesse come una versione alter-nativa della Bibbia. Più che evocare lo stato d’animo della madre di Gesù voleva espri-mere alcune opinioni. Joe Pinsker, The Atlantic

Paul YoonLa riva del silenzioBollati Boringhieri, 162 pagine, 15,50 euro

●●●●●In questa prima raccolta di racconti di Paul Yoon i perso-naggi si muovono in una cal-

George SaundersDieci dicembre (Minimum fax)

Vittorio GiacopiniNello specchio di Cagliostro (Il Saggiatore)

Alexander MastersUn genio nello scantinato (Adelphi)

I consigli della

redazione

Nadeem AslamNote a margine di una sconittaFeltrinelli, 387 pagine, 19,50 euro

●●●●●Una o due volte all’anno, un li-bro mi sbalordisce. Il romanzo di Nadeem Aslam lo ha appe-na fatto. Note a margine di una sconitta mette a fuoco la re-cente storia dell’Afghanistan. È l’ottobre del 2001, Jeo e suo fratello adottivo lasciano la lo-ro casa in Pakistan per andare in Afghanistan ad aiutare le vittime del nuovo conlitto tra i taliban e l’occidente. Ma per sbaglio sono venduti ai taliban e da lì in poi piombano nell’in-ferno della guerra.

Da subito è chiaro al letto-re che non si tratta di un co-mune romanzo di guerra. Fer-vida immaginazione, sagge ri-lessioni e prosa immacolata fanno capolino in ogni pagina. Aslam compone un ritratto deciso dell’orrore inlitto dal fondamentalismo islamico al suo stesso popolo, e in parti-colare alle donne. Dipinge un quadro da brivido del governo e dell’esercito pachistano in combutta con i terroristi. Mette in luce le pressioni eser-citate sui giovani uomini ain-ché diventino jihadisti. Sconti sulla devozione sono oferti ai jihadisti che comprano fucili. I radicali pachistani spingono la gente comune a sposare la lot-ta armata. Ragazzini senza al-cuna esperienza di guerra so-no venduti ai taliban e co-scienziosamente mandati al massacro.

Nonostante le atrocità che registra, lo sguardo di Aslam sull’islam è ricco di sfumatu-

Il romanzo

Inferno afgano

re. E nemmeno l’ardente cac-cia ai terroristi condotta dagli Stati Uniti è esente da criti-che. Alcune scene ambientate in una prigione militare fanno girare la testa. I signori della guerra afgana erano pagati per ogni taliban consegnato, così i terroristi, ma anche i ci-vili, venivano venduti, dete-nuti e torturati. Privazione del sonno, manette, isolamento, violenze psicologiche e abusi verbali sono inlitti a tutti i prigionieri: è diicile provare l’innocenza in caso di presun-ta colpevolezza. Eppure, a di-spetto della bruttezza della guerra, questo libro splende di una raggiante bellezza. C’è qualcosa di dolce, di armoni-co, nella poetica descrizione della natura. Le metafore so-no potenti. Gli uccellini cattu-rati sono in trappola e le for-miche rimangono bloccate in una cavità in cui è stata incisa la parola Allah. Un po’ come quelli caduti nella prigione del fondamentalismo. Leyla Sanai, The Independent

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Nadeem Aslam

Cultura

Libri

Claudio Giunta Una sterminata domenica. Saggi sul paese che amoIl Mulino, 288 pagine, 16 euro A giudicare dai vocabolari, pa-re che negli anni ottanta il si-gniicato della parola creatività in italiano sia cambiato: alla semplice e nobile “facoltà del creare” tipica dei pittori e dei musicisti si è aiancato un più vasto e sfuggente processo di ideazione applicabile a cantan-ti, stilisti e pubblicitari. Questa trasformazione, indice di un ri-mescolamento più generale tra cultura alta e cultura bassa che

da allora non si è mai arrestato, impone delle scelte a chi la cul-tura la studia, la analizza e la giudica.

Tra il rimpianto del passato glorioso e l’accettazione indi-scriminata della fufa corrente, Claudio Giunta prova a percor-rere una terza via. Si documen-ta, raccogliendo pareri, spesso andando a compiere sopral-luoghi, e cerca di capire se ne-gli ultimi – fatali – decenni in Italia ci sia stata una cultura al tempo stesso popolare e fatta bene. La risposta è sorpren-dente. Sì: c’è stata.

Le sue analisi di Elio e le storie tese, di Radio Deejay, del più antico Fantozzi suggeri-scono regole per capire se e so-prattutto perché alcuni prodot-ti sono migliori di altri. Coe-rentemente, dallo stesso trat-tamento di lettura ravvicinata e aperta, altre cose escono più malconce: certi corsivi trom-boni, certi festival fatui, e il li-bro programmatico di Matteo Renzi, Stil novo, qui sottoposto a una lettura già pubblicata sull’inserto domenicale del So-le 24 Ore ma oggi tanto più uti-le, per tutti. u

Non iction Giuliano Milani

La paracultura degli italiani

ma allucinata. L’ambientazio-ne è un’isola sudcoreana, e gli abitanti lavorano nella moder-na industria del turismo – sono camerieri, manager, venditori di souvenir – o continuano le attività tradizionali come la pesca e l’agricoltura. Nel bene o nel male, vivono vite fatte di compostezza e pazienza. La guerra e le attrazioni di un vil-laggio balneare portano visita-tori, con le loro seccature e le loro richieste. Uno dei racconti migliori, ambientato nel 1947, include un disertore america-no che si nasconde in un vil-laggio. La prosa di Yoon è scar-na e bellissima. Le sue narra-zioni afrontano una sida inte-ressante: si basano su perso-naggi che non credono nell’azione. Molti di loro sono tormentati dallo struggimento – un’orfana è sicura che più di un uomo sia il ragazzo perduto di cui un tempo si prese cura; una ragazzina continua a ve-dere una donna spettrale nella neve vestita come sua madre morta – ma i loro aneliti si

esprimono più in gesti frustrati che in azioni drammatiche. Eppure la bellezza di questi racconti giace appunto nel lo-ro riserbo: sono teneri e duri allo stesso tempo. I personaggi di questa raccolta si muovono attraverso gli eventi con una rassegnazione o una pazienza rare nella letteratura contem-poranea. La riva del silenzio è l’opera di un talento sicuro.Joan Silber, The New York Times

Hiromi KawakamiLe donne del signor NakanoEinaudi, 228 pagine, 19 euro

●●●●●Nell’universo descritto da Hi-romi Kawakami ciascuno ri-trova lentamente il proprio po-sto in una bottega di oggetti improbabili. C’è il signor Na-kano, che ha un tic verbale, delle curiose abitudini senti-mentali, un modo tutto suo di parlare per ellissi. Sua sorella Masayo costruisce bambole, chiacchiera ai quattro venti e

possiede il dono di attirare i clienti. Hitomi, la narratrice, lavora con loro, constatando la dolce follia che regna in questa boutique di roba vecchia. Hi-tomi è innamorata di Takeo che però non sembra interes-sarsi a lei. Ancora una volta, nei libri della giovane scrittri-ce giapponese non accade quasi nulla, ma ogni istante di-venta magico. La porta si apre su un cliente bizzarro, si beve del tè mangiando tartine al li-mone, si attende l’arrivo di vecchi mobili… I legami si in-tessono lentamente, dopo un buon pasto, un bicchiere di vi-no, qualche risata. L’atmosfera è strana, come quegli oggetti di rigatteria che simboleggia-no un passato su cui si posa la polvere. Kawakami non cerca di penetrare il mistero dei suoi personaggi, descrive con umo-rismo i loro aspetti ridicoli, le loro tristezze senza futuro, te-nendoci leggermente a distan-za per non disturbarli.Christine Ferniot, Télérama

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Patrick KeillerThe view from the train VersoIn una serie di saggi su temi che vanno dalla percezione surrealista della città, alla rela-zione tra architettura e cine-ma, il regista britannico pa-trick Keiller ofre una prospet-tiva colta e originale sul suo paese.

Gary KamiyaCool, gray city of love Bloomsbury Una storia di San Francisco raccontata in 49 capitoli, ognuno dedicato a un partico-lare luogo della città. Kamiya è nato a Oakland, vicino a San Francisco, nel 1953. È uno dei fondatori di Salon.

William HelmreichThe New York nobody knows Princeton University PressCamminare è il modo miglio-re per esplorare le città. Helm-reich, professore di sociologia, ha percorso a piedi pratica-mente tutti gli isolati di New York e nell’arco di quattro anni ha composto un’originale mappa della città.

Bradley GarrettExplore everything VersoGarrett, fotografo, scrittore e ricercatore, va alla scoperta dei luoghi oscuri e dimenticati di Londra, parigi, Berlino, De-troit, Chicago, Las Vegas e Los Angeles. Maria Sepausalibri.blogspot.com

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RicevutiRagazzi

Fumetti

Detersivo per cervelli

Un grande foglio

Smolderen e ClérisseSouvenir dell’impero dell’atomoBao publishing, 144 pagine, 19 euroEcco un fumetto strano ma ge-niale: tratta dell’estetica domi-nante in un periodo storico importante, quello degli anni cinquanta e dei primi anni ses-santa, che videro la nascita della guerra fredda ma anche dell’estetica vintage. Quest’ul-tima è quasi vista come un “la-vaggio del cervello” sublimi-nale, un magniico estetismo infantile prodotto dal sistema capitalista per veicolare il na-scente consumismo investen-do tutti gli ambiti: teleilm, cartoni animati (ricordate I pronipoti, The Jetsons in origi-nale, di Hanna e Barbera?), fu-metti, tanto design di oggetti, elettrodomestici e non solo, e ovviamente tanta, tanta pubblicità.

Gli autori saldano l’ispirato compendio di quell’estetica con una rivisitazione delle teo-rie del complotto iorite dopo

Lucia ZappullaStoria di Po’Verbavolant, 12 euroPo’ è rotondo, ha gli occhi a palla e delle mani lunghissime con cui vuole abbracciare il mondo. Po’ come tutti noi va al cinema, legge libri, ama la pizza. Po’ però a volte si sente solo. Vuole amicizia, amore, viaggi, futuro. E alla ine cercando, cercando, riesce a trovare tutto ciò di cui ha bisogno. Certo a volte fa dei toni tremendi, rimane deluso, ma di certo non si dà per vinto e non smette mai di sperare. È la vita che lo spinge a cercare un po’… un altro po’… poi ancora un altro po’… e tanti altri po’. Ed è in quel momento che smette di essere solo, perché capisce che la forza è dentro di lui. È lui a fabbricarsi con le sue mani lunghe la sua felicità. Questa storia che può essere di fatto la storia di tutti noi, grandi e piccini, è resa in modo lieve e originale. Infatti le edizioni Verbavolant, per la collana Libri da parati, hanno creato dei libri-poster, su un unico foglio che è contenuto, come i regalini dell’uovo di pasqua, in un involucro cartonato che fa anche da copertina. Una volta aperto, il grande formato si apre davanti a noi dispiegandosi come le ali di una bella farfalla. Sta a noi decidere se lo vogliamo mettere tutto bello piegato negli scafali della nostra libreria o se attaccarlo al muro per ricordarci ogni giorno quanto è importante che i po’ stiano insieme agli altri po’.Igiaba Scego

quel decennio come il proget-to Mk-Ultra. Voluto in quegli anni dalla Cia di Allen Dulles in reazione ad analoghi piani dei paesi comunisti, mirava a creare una sorta di controllo mentale delle persone, attra-verso mezzi artigianali come lsd, messaggi subliminali, ip-nosi e sieri della verità al ine di avere assassini inconsape-voli. L’Mk-Ultra, secondo al-cuni, non sarebbe mai real-mente cessato ma sarebbe og-gi esteso anche ad altri paesi e funzionerebbe con micro-chip impiantati nel cervello. I capi della Cia hanno le facce del democratico Johnson e del repubblicano Nixon, e come I pronipoti erano una garbata parodia dell’America in un’estetica futurista, qui siamo a metà tra derisione e una sin-cera inquietudine suscitata da questi esperimenti terribili. Il tutto in un quasi saggio, diver-tito e divertente, di semiologia pop-psichedelica. Una droga da non perdere.Francesco Boille

Stefano LaiLa congiura contro i giovaniFeltrinelli, 174 pagine, 14 euroL’Italia è un paese dominato dalla gerontocrazia, in cui i giovani talenti sono mortiica-ti e la disoccupazione giovani-le dilaga. Come siamo arrivati a questa situazione? E quali sono gli interessi e le logiche che la governano?

Francesca Mandelli e Bettina MüllerIl direttore in bikiniCasagrande, 83 pagine, 14 euroScivoloni linguistici tra fem-minile e maschile. Esempi esi-laranti e consigli utili per evi-tare la confusione di genere.

Nicolò CarnimeoCome è profondo il mareChiarelettere, 172 pagine, 13,60 euroLa plastica, il mercurio, il trito-lo e il pesce. Un viaggio nel Mediterraneo, per capire co-me stanno cambiando i mari.

Valeria ParrellaTempo di imparareEinaudi, 130 pagine, 17 euroAllacciarsi le scarpe, imparare l’alfabeto, riconoscere il peri-colo. Un rapporto tra madre e iglio, fatto di piccoli passi, complicato dalla disabilità.

Angelo D’OrsiAlfabeto brasileiroEdiesse, 239 pagine, 12 euroLuoghi, personaggi e tradizio-ni della cultura brasiliana, dal-la a alla z.

Mario Dell’ArcoRitratto di Gioacchino BelliCastelvecchi, 136 pagine, 16 euroBiograia di Belli scritta nel 1963 dal poeta dialettale Ma-rio Dell’Arco.

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Cultura

1 Eua La storia “Mi sento grande come il

potere d’acquisto degli ultimi anni della lira”. Afacciarsi co-sì, con senso della prospettiva, nel mondo afollato della bal-lata ironico-signiicativa, alle calcagna dello Zeitgeist anche se musicalmente non troppo sorprendente, l’abbecedario con i segnalibri giusti, da De André ino ai Perturbazio-ne; una praticità di Parma, un senso del surreale e un titolo bello e condivisibile per l’al-bum: Tanto valeva viver come bruti. Ebbene, così bardati possono afrontare l’inverno, e si lasciano ascoltare con curio-sità superiore alla media.

2 Tintinette Swing Orchestra Sweet Dreams

Proprio nei giorni in cui tra ba-cheche cazzeggione spunta il cartello “Sweet dreams are made of cheese / Who am I to dis a Brie?”, ecco la medesi-ma pietra miliare degli Eurythmics parafrasata in un modo ancor più contundente: dall’arrangiamento di swing leggero tendenza ukulele spaz-zole e kazoo bucato; ma è il timbro vocale di Annamaria Tammaro, da punkadolescen-te lasciva con tonsille passibili di tagliando, che resta impres-so nell’album Resistenza è amo-re…, il resto sono esercizi di sti-le e gesti rapidi da sciuscià.

3 Claudia Cantisani Pezzettini di pazienza“La bellezza gira nuda in

bicicletta / ischiettando ti sa-luta e se ne va”. Fantasia illu-strata nella copertina dell’al-bum Storie d’amore non troppo riuscite; siamo in territorio cock tail jazz swingante, e lei è una fredbuscagliona decafei-nata e denapolitanizzata. Alle-grie ma non troppo agevol-mente collocabili nel territorio del “carino”, con menzione speciale per il lavoro degli stru-mentisti assemblati dal saxista Felice Clemente; musica leg-gera per chi ama le serate al Blue Note quando non ti devi sforzare troppo; solite perle, solite scarpe bicolori.

MusicaDal vivoCharli Xcx+ Phoenix Can Die, Bologna, 18 gennaio, covoclub.it

Laurel HaloBologna, 24 gennaio, locomotivclub.it

Soft MoonMarghera (Ve), 24 gennaio, spazioaereo.com; Roma, 30 gennaio, teatrolospazio.it; Milano, 31 gennaio; Bologna, 1 febbraio, covoclub.it

Move DFirenze, 24 gennaio, tabascogay.it; Milano, 25 gennaio, dude-club.net

Stephen Malkmus & The Jicks Milano, 23 gennaio, tunnel-milano.it; Bologna, 24 gennaio, covoclub.it

Muchachito y Sus Compadres Segrate (Mi), 22 gennaio, circolomagnolia.it; Bologna, 24 gennaio, estragon.it; Firenze, 25 gennaio, log.it

Pumajaw Foligno (PG), 18 gennaio, serendpt.it; Ferrara, 19 gennaio, zuni.it

Geof Farina Roma, 22 gennaio, initroma.com; Firenze, 23 gennaio, tenderclub.it; Bologna, 24 gennaio

I musicisti keniani raggiungono un nuovopubblico grazie a internet

Il gruppo keniano Just A Band ha sempre realizzato videoclip ironici e scanzona-ti. Ma per il brano Matatizo la band ha scelto di girare nella prigione Nyayo House di Nairobi. Un luogo simbolo delle torture e delle violazio-ni dei diritti umani avvenute sotto la presidenza di Daniel arap Moi. I Just A Band han-no perino aggiunto un link al rapporto di 77 pagine sulle torture commesse dal gover-no di arap Moi sulla loro pagi-na YouTube. “Non risolvere-mo mai le cose se non la

smettiamo di nascondere la polvere sotto il tappeto”, ha detto il cantante Bill Sellanga. Sarebbe stato impossibile pubblicare un video con que-sti contenuti politici ino a po-chi anni fa.

I Just A Band si sono for-mati nel 2003, un anno dopo che Daniel arap Moi ha lascia-to il potere e nel paese è co-

minciato un periodo di fer-mento creativo dopo anni di repressione. In molti paesi africani i mezzi d’informa-zione sono ancora sotto con-trollo, ma il risveglio della so-cietà civile e l’esplosione di internet permettono agli arti-sti locali di raggiungere un nuovo pubblico. Non è un ca-so se i Just A Band nel 2013 hanno partecipato al festival TedGlobal e al South by Southwest di Austin, in Texas. “Solo perché sono un africano con la pelle nera, non signiica che non vince-rò”, cantava il leader della band, Bill Sellanga, a un re-cente concerto a Nairobi. Sydney Morning Herald

Dall’Africa

Una band contro la tortura

Playlist Pier Andrea Canei

Kazoo swing

CIN

EM

A k

EN

YA

Charli Xcx

Just A Band

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Album

Sharon Jones & The Dap-KingsGive the people what they want(Daptone)●●●●●

Se volete un suono soul-funk classico d’annata, chiamate i Dap-Kings. Come hanno fatto Amy Winehouse e Mark Ron-son, che avevano assoldato la band di New York per le regi-strazioni di Back To Black. Ma il lavoro quotidiano del grup-po è accompagnare la vetera-na del soul Sharon Jones. Il lo-ro quinto album in studio mantiene uno standard di qualità elevatissimo, addirit-tura paragonabile a quello dei capolavori di leggende come Aretha Franklin e Otis Red-ding. La pubblicazione del di-sco, inizialmente prevista per l’estate, è stata rinviata per dare a Jones la possibilità di curarsi dalla grave malattia che l’aveva colpita. Oggi le condizioni di salute della can-tate sono in netto migliora-mento. E il disco mantiene le promesse: mescola groove vi-vaci, arrangiamenti rainati e canzoni di tre minuti che co-prono gli anni tra il 1963 e il 1969 e tutti gli stili più classici del soul, da Detroit a Mem-phis, da Los Angeles a Fila-delia. Oggi gruppo culto per gli appassionati, qua-rant’anni fa Sharon Jones & The Dap-Kings sarebbero sta-ti delle superstar. Mat Snow, Q

Bruce Springsteen & The E Street BandHigh hopes(Columbia)●●●●●

Il diciottesimo album in studio di Bruce Springsteen è molto diverso dal suo predecessore. Mentre Wrecking ball, del 2012,

bum è comunque originale. Le improvvise raiche di me-lodia ed elettronica di Blood e di Street ires entusiasmano e danno il tono al resto del di-sco. La title track, accompa-gnata dalle campane di un monastero, ha un avvio quasi puriicante, mentre la sognan-te Wrong two words dà il giusto respiro alla baraonda ritmica. L’unico brano davvero scialbo è Induction, che fa un po’ per-dere all’album la sua spinta. Ma è un peccato veniale.Lauren Murphy, The Irish Times

Mouse On Mars

Spezmodia(Monkeytown)●●●●●

Da anni i Mouse On Mars esplorano territori musicali molto diversi da quelli dei loro esordi, e già nel loro ultimo disco, Parastrophics, avevano proposto una musica colorata e pop. Ora arriva Spezmodia, un ep di cinque tracce che pro-pone la produzione più vicina alla dance fatta dal duo tede-sco negli ultimi tempi. Abbon-dano le strutture ritmiche tipi-che dei Mouse On Mars e me-lodie al synth. Continua inol-tre la sperimentazione con le voci, come dimostrano I see Dizzy e la title track. Ai Mouse On Mars, insomma, piace ancora giocare con i suoni, e questo Spezmodia è l’ulteriore prova che la loro musica sa es-

sere sempre afascinante e divertente. Larry Fitzmaurice, Pitchfork

Chris ThileBach: sonate e partite per violino, vol. 1Chris Thile, mandolino(Nonesuch)●●●●●

Chris Thile è un virtuoso del mandolino e il fondatore del gruppo di progressive blue-grass Punch Brothers. L’ho visto per la prima volta alle prese con Bach nel bel docu-mentario di Michael Lawrence Bach & friends, e sono rimasto stregato dalla sua abilità rilas-sata e trasparente, combinata con una precisione spietata. Thile è sempre stato un artista dalle inluenze eclettiche, e ha lavorato con musicisti come Yo-Yo Ma, Hilary Hahn ed Edgar Meyer, che ha anche prodotto questo album. Ma è stata la registrazione delle Variazioni Goldberg di Glenn Gould del 1981 che gli ha acce-so per la prima volta la passio-ne per la musica classica: “Do-po averle sentite ho comincia-to a divorare tutto il Bach su cui riuscivo a mettere le ma-ni”, racconta nelle note che ac-compagnano il cd. Quindi non stupisce che ci sia qualcosa di gouldiano nel Bach di Thile, che brandisce il suo plettro con una destrezza sovrumana nei movimenti più rapidi – il presto della partita in si minore è più veloce della luce e allo stesso tempo pieno di colori – ma tro-va una delicata sonorità da cla-vicembalo in quelli più lenti. Sono esecuzioni straordinarie di un musicista straordinario, che estende i suoi conini mu-sicali rendendo omaggio a uno dei più grandi compositori di tutti i tempi. William Yeoman, Gramophone

era un urlo di rabbia contro i banchieri responsabili della crisi inanziaria globale, High hopes è un guazzabuglio di cu-riosità, cover e pezzi vecchi ri-visitati. Springsteen lo ha regi-strato mentre era in tour, il che signiica che se questo mate-riale insolitamente sparpaglia-to trova un po’ di coesione è grazie a una E Street Band in grandissima forma. Il Boss ha scelto con cura le canzoni dal suo catalogo, con vertici come American skin (41 shots), in ori-gine scritta come reazione alla morte di Amadou Diallo, am-mazzato dalla polizia di New York nel 1999, e ora ridedicata a Trayvon Martin. Harry’s place torna dopo essere stata tagliata dalla scaletta di The rising (2002), e il duetto a gran voce con Tom Morello dei Ra-ge Against The Machine nella nuova versione di The ghost of Tom Joad è pieno di giusta rab-bia. Forse High hopes è solo un tappabuchi, ma almeno è fatto con cura e passione.Ian Gittins, The Guardian

PatternsWaking lines(Melodic)●●●●● A volte non è diicile indivi-duare le inluenze di una band. I Patterns, quartetto di Manchester, hanno l’approc-cio sperimentale degli Animal Collective e dei Deerhunter, e la vocazione commerciale dei Bastille, ma il loro primo al- Chris Thile

PA

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Chris ThileBach: sonate e partite per violino, vol. 1(Nonesuch)

Vladimir HorowitzLive at Carnegie Hall(Rca)

Les Nouveaux CaractèresRameau: Les surprises de l’amour(Glossa)

Sharon Jones

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ClassicaScelti da Alberto

Notarbartolo

80 Internazionale 1034 | 17 gennaio 2014

Cultura

Eames. Architetti, pittori, designerSabato 18 gennaio, ore 22.15 LaefeQuando la bellezza incontra la funzionalità: nel 1941 in Cali-fornia i coniugi Eames iniziano a sviluppare le idee che rivolu-zioneranno il mondo del de-sign e trasformeranno l’arte in oggetti quotidiani.

Joaquin Phoenix. Io sono quiDomenica 19 gennaio, ore 13.15 Sky ArteUn po’ di tempo fa hanno co-minciato a difondersi notizie di comportamenti inspiegabili di Joaquin Phoenix. Erano le situazioni paradossali create e ilmate per questo esilarante mockumentary sulla sua vita.

FotograiLunedì 20 gennaio, ore 21.10 Sky ArteAl via la seconda stagione, con otto nuovi ritratti dedicati a grandi fotograi italiani con-temporanei.

Giuni Russo. La voce di un gabbianoMartedì 21 gennaio, ore 21.15 Rai StoriaSpeciale dedicato a un’inter-prete dalla straordinaria esten-sione vocale, dall’esordio a Sanremo nel 1968 passando per le canzoni più celebri, i tor-mentoni estivi e le melodie so-isticate.

Go!Mercoledì 22 gennaio, ore 1.15 RaiTre“L’America tra la beat e la byte generation” è il sottotitolo di questa serie di reportage che, in un viaggio da New York a San Francisco, esplorano so-miglianze e diferenze tra la generazione beatnik america-na anni cinquanta e quella de-gli odierni nativi digitali.

Video

fullsocialjacket.orgMentre in Italia sembra sem-pre più impietosa l’evidenza della crisi economica e si fati-ca ad afrontare con realismo argomenti come la ridistribu-zione del reddito e gli ammor-tizzatori sociali, è utile capire la situazione in altri paesi eu-ropei, ed esaminare in che modo l’austerità stia indebo-lendo lo stato sociale, patri-monio tipico dell’Europa. Questa produzione belga s’in-terroga sull’attacco al welfare portato dalle politiche comu-nitarie e nazionali, in dieci brevi ilm che raccontano una storia per ogni paese, ciascu-na accompagnata da statisti-che e altri materiali informati-vi. La social jacket del titolo è quella che dovremmo poter indossare per difenderci dai rovesci della crisi, protetti da un’Europa sociale e solidale.

In rete

La Bulgaria è quasi assente dalle cronache degli ultimi tempi, al contrario di paesi vi-cini che a turno attirano l’at-tenzione, come la Grecia per la crisi o la Romania per i fe-nomeni migratori. Ilian Metev con Soia’s last ambulance ha raccontato la situazione del paese dalla cabina di una delle tredici ambulanze rimaste in

servizio a Soia, dove si può aspettare ino a cinque ore per un intervento d’urgenza, e do-ve corruzione e criminalità as-sorbono buona parte dei i-nanziamenti, strozzando ser-vizi fondamentali come quello sanitario. Uno dei documen-tari europei recenti più pre-miati esce in dvd in Germa-nia, con sottotitoli in inglese.

Dvd

L’ultima ambulanza

Full social jacket

In una sorta di frenesia di co-municazione, la maggior parte dei musei pubblica riviste lus-suose e spedisce inviti sempre più elaborati, oggetti destinati a impressionare.

Il Museo della fotograia di Charleroi, in Belgio, fa esatta-mente il contrario. Il museo ha la più grande supericie esposi-tiva d’Europa per quanto ri-guarda la fotograia e l’anno scorso ha festeggiato i suoi 25 anni di vita, di mostre esigenti e di una collezione sempre più

ricca. Il suo bollettino, Photo-graphie ouverte, inviato quattro volte all’anno per presentare la programmazione del museo, ha un aspetto modesto ma molto curato, e i biglietti di in-vito per le esposizioni sono in-seriti al suo interno. Eicienza, sobrietà, chiarezza e una pub-blicazione stampata con cura, ecco una strategia che si fa ap-prezzare.

L’ultimo bollettino annun-cia un’ambiziosa mostra dedi-cata al surrealista Marcel Ma-

riën, autore tra l’altro di mera-vigliosi collage. Erotismo, umorismo, gioco di immagini e di testi: un insieme su cui il conservatore Xavier Cannone lavorava da anni, un appunta-mento da non mancare. Tutto il contrario di molte sterili ini-ziative attuali pubblicizzate in modo furbo. Inoltre la mostra di Charleroi sarà in perfetta sintonia con Kodachrome. Cro-ping America, ambiziosa rilet-tura di diapositive trovate dall’altro lato dell’Atlantico. u

Fotograia Christian Caujolle

Una sobrietà invitante

Internazionale 1034 | 17 gennaio 2014 81

Per un’arte globaleWhere does it all begin? Con-temporary abstract art in Asia and the west, Pearl Lam galleri-es, Singapore, dal 17 gennaioNel 1989 la caduta del muro di Berlino promette di riunire l’Europa, Tim Berners Lee im-magina una rete che connetta il mondo intero e l’apartheid comincia a crollare. È ancora il 1989 quando il Centre Pompi-dou di Parigi inaugura Les ma-giciens de la Terre, una mostra celebratissima e abusata che dà il benvenuto all’arte nel mondo globale. Dei cento arti-sti presenti in mostra, la metà viveva oltre i conini dell’Eu-ropa occidentale. L’obiettivo della mostra era porre rimedio a un sistema in cui il cento per cento delle mostre ignoravano l’80 per cento della terra. Oggi le cose sono cambiate: i musei occidentali acquistano opere a qualsiasi latitudine, mentre ar-chivi, gallerie, iere internazio-nali rappresentano artisti di tutto il mondo. Se tutto è così globale, perché tanto entusia-smo per l’anniversario di Les magiciens? E perché non c’è al-trettanto interesse nel celebra-re China/Avant-garde, la mo-stra che annunciava l’ingresso dell’arte cinese sul mercato in-ternazionale? La mostra ebbe una notevole eco sui mezzi d’informazione, ma una vita breve. La mancanza di interes-se per l’arte asiatica in parte nasce dall’ignoranza, in parte è la conseguenza di un senti-mento di superiorità. L’arte si sta lentamente avviando alla globalità solo ora. Les magi-ciens ha amputato l’arte da culture, tradizioni e storie par-ticolari riconducendola a una categoria superiore. Il contra-rio di quanto annuncia Where does it all begin?, che cerca una matrice comune dell’arte astratta in oriente e occidente. Financial Times

Anna Wahli aveva appena otto anni quando è successo la pri-ma volta. Indossava il suo abi-to rosso con il colletto di pizzo, i capelli biondi sciolti. Si fermò davanti a lui spaventata dai suoi occhi penetranti. Era cu-riosa di sapere cosa sarebbe successo nello studio di quel famoso pittore, il grande Bal-thus. Ogni mercoledì andava da lui, in quella casa piena di caramelle, dove le era consen-tito indossare bellissimi costu-mi. Anna era lusingata dall’ammirazione di lui e cu-riosa di sapere come le avreb-be acconciato i capelli. E poi le

scattava mille fotograie: più di 2.400 polaroid, che per la pri-ma volta sono sotto gli occhi di tutti. Anna ha dato il consenso. Molti sentono odore di afari. Al Metropolitan la recente mo-stra di Balthus ha già fatto di-scutere. La Gagosian gallery ha messo in vendita a partire da 20mila dollari alcune pola-roid come souvenir per gli ap-passionati. Ad aprile è prevista una grande antologica a Essen. Ci si andrà per vedere Anna di-pinta in pose lascive. Sulla tela tutto è avvolto da un’atmosfera allegorica e surreale. Le pola-roid, invece, svelano l’avidità

dell’occhio maturo. E subito si parla di pedoilia. Quello che per anni nessuno ha notato, oggi è diventato tabù. Come la mettiamo con Jawlensky, che mise incinta una ragazza di 14 anni o Gauguin, che ne sedus-se una di 13? Gli espressionisti tedeschi portavano giovani donne sui laghi di Moritzburg. C’era il bisogno insaziabile di sovvertire l’ordine borghese, a costo di scandalizzare. Bambi-ni nudi sono sempre stati di-pinti nella storia dell’arte. È diicile deinire il conine tra ispirazione e abuso. Die Zeit

Germania

Le foto del desiderio

Cultura

Arte

DR

Balthus, Untitled

82 Internazionale 1034 | 17 gennaio 2014

La voce del pilota mi sveglia. Gracchia nel ronzio assonnato dell’aereo, e mi sem-bra di sentire qualcosa sul fatto che stia-mo per atterrare. Possibile che io abbia dormito tanto? Guardo l’ora. Sono passate solo tre ore del viaggio da Lagos

ad Atlanta. Gli assistenti di volo corrono avanti e indie-tro. Il pilota continua a parlare. “Si è verificata un’emergenza a bordo e abbiamo dovuto dirottare il volo su Dakar”.

Sento l’aereo che scende. Mi sembra troppo veloce. Un vuoto vorticoso. La nebbia del sonno si dirada im-mediatamente. C’è qualcosa che non va, il pilota è troppo criptico, gli assistenti di volo hanno l’espressio-ne troppo vuota mentre aferrano tazze e raddrizzano sedili. Penso: se devo morire, spero che sia in fretta e di non accorgermene.

La donna al mio ianco si fa il segno della croce. Poi torna la voce del pilota. È un’emergenza medica, dice: una don-na in stato interessante è entrata in tra-vaglio prima del tempo e ha appena avu-to un bambino. Avverto intorno a me un silenzio collettivo di sollievo e meravi-glia. Un parto in aereo!

Atterriamo a Dakar. Sono le due del mattino. Arriva di corsa il personale me-dico in giubbotto arancione, un uomo con una scatola nera, una donna allampanata che tra-scina un’asta per la lebo, gli occhi pesanti di sonno. Mi chiedo di cosa avrà bisogno il bambino, e se hanno quello che gli serve.

Ben presto la donna allampanata se ne va cullando un fagotto di stofa. Il bambino. Mi sforzo di vedere meglio, spero di sentirlo piangere.

Poi compare la mamma, una giovane con un tubo appeso al braccio, seguita dall’altro assistente medico che cerca di sostenerla. Ma lei non ne ha bisogno. Tira dritto, camminando sicura e spedita, così in fretta che riesco a vederle il volto solo di sfuggita. Ha un’aria stordita e frustrata. Mi sembra incredibile non solo che abbia appena partorito in volo, ma che sia in piedi, normale ed eiciente.

Il pilota esce dalla sua cabina. È un uomo alto dall’aria disinvolta, ci dice che è un maschietto e che madre e iglio stanno bene. Il suo umorismo america-no si fa sentire: “È da parecchio che volo, ma questo ancora non mi era mai successo!”.

Noi, i passeggeri nigeriani, ridiamo con la stessa

Cambiamento di programma

La voce del pilota mi sveglia. Gracchia nel ronzio dell’aereo, e mi sembra di sentire qualcosa sul fatto che stiamo per atterrare. Possibile che io abbia dormito tanto?

allegria, come se per il semplice fatto di essere presen-ti avessimo contribuito a far venire al mondo questo bambino.

Gli assistenti di volo americani sono sconcertati. “La madre aveva detto di essere alla ventiquattresima settimana, ma quel bambino sembrava più grande. Perché correre un rischio del genere?”, si chiede una di loro.

Noi non ci chiediamo perché. La nuova mamma stava viaggiando da sola, nessuno sapeva chi fosse, eppure abbiamo la sensazione di conoscerla. Faccia-mo ipotesi sulla sua situazione. Probabilmente aveva avuto problemi con il visto – era arrivato più tardi di quanto avesse calcolato oppure non aveva pianiicato tutto per tempo – o magari la possibilità di partire si era

presentata a gravidanza avanzata e lei aveva deciso di fare quello che doveva perché l’obiettivo luminoso che giustii-cava tutto era un bambino nato negli Stati Uniti. Penso alla sua espressione mentre scendeva dall’aereo, più frustra-zione che paura, un lamento per il passa-porto statunitense adesso sfumato.

Alcuni passeggeri scherzano sulla sua sfortuna. “Ora ha un iglio senegale-se, ahi, brutta storia per il bambino!”, dice uno. “È sempre meglio un passa-porto senegalese che nigeriano”, obietta

un altro. “Per un senegalese è più facile avere il visto”. “Meno male che il bambino ha aspettato il decollo, ce l’abbiamo il diritto a servizi di emergenza nell’aero-porto di Lagos?”, chiede un altro ancora. Ridacchia-mo. Ci sentiamo trasportare dal buonumore. Grazie a Dio è inita bene, dicono in molti, grazie a Dio. Correre un rischio è una cosa che ci è familiare. Per troppi, nel nostro mondo, è semplicemente la norma: non avere scelta e dipendere dal caso.

La voce del pilota torna a darci notizie. Si è forata una gomma e la compagnia aerea in Senegal non ha le risorse per aggiustarla in tempo. Dovremo passare la notte a Dakar. Mentre lasciamo l’aereo e saliamo sugli autobus, mandiamo messaggi e brontoliamo per il fa-stidio di arrivare un giorno dopo il previsto.

Ma sono lamentele appena accennate, perché quello che conta è che il parto è andato bene. In alber-go, alcuni passeggeri si mettono in posa accanto alla fontana: perché perdere l’occasione di una foto in una città africana che altrimenti forse non avrebbero mai visitato? “Per favore, sorella, hai delle pillole per dor-

CHIMAMANDA NGOZI ADICHIE

è una scrittrice nigeriana nata nel 1977. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Metà di un sole

giallo (Einaudi 2011). Questo articolo è uscito sul New York Times con il titolo A light

diversion.

Chimamanda Ngozi Adichie

Pop

Internazionale 1034 | 17 gennaio 2014 83

ga

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mire?”, mi chiede uno sconosciuto.Il mattino dopo, leggermente disorientata e stra-

volta dal sonno, salto la colazione.Quando inalmente scendo nell’ingresso dell’al-

bergo, buona parte dell’equipaggio e dei passeggeri si sono già radunati e aspettano il pullman per l’aeropor-

to con il volto stanco e spento, le voci ridotte a un de-bole mormorio.

Mentre mi unisco al gruppo, una donna mi chiede se ho saputo.

“Saputo cosa?”, domando.“Il bambino è morto”. u gc

84 Internazionale 1034 | 17 gennaio 2014

Storie vereLo stato delle isole Hawaii ha cambiato il formato delle patenti di guida per permettere la scrittura integrale di cognomi e nomi lunghi ino a quaranta caratteri e secondi nomi lunghi ino a trentacinque. Il provvedimento è stato preso per risolvere il caso di Janice Lynn Keihanai-kukauakahihuliheek-ahaunaele, di 54 anni. La donna doveva andare in giro con un documento senza il nome, cosa che le aveva creato dei problemi quando era stata fermata dalla polizia stradale.

compiti sempre più piccoli e noiosi. Da una parte la ric-chezza, dall’altra noia e infelicità. Se un lavoro noioso mantiene un elemento di manualità, possiamo almeno trovare un ritmo ed entrare in una dimensione in cui il tempo passa facilmente e la fatica è coronata da un senso di realizzazione. Nel romanzo di Jack Kerouac Big Sur (1962) c’è una meravigliosa descrizione di Neal Cassady che lavora come un pazzo a cambiare pneu-matici e alla ine si scopre quasi esaltato invece che mortiicato dalla fatica. L’industrialismo tende alla monopatia a causa della sempre maggiore divisione del lavoro, ma è solo quando viene eliminato l’elemen-to materiale che cominciano i veri problemi. Quando il corpo rimane fermo e la mente è costretta a fare qual-cosa di ripetitivo, l’umano dentro di noi si ribella.

Oggi la maggior parte dei lavori è svolta da qualcu-no che sta fermo davanti a un computer. Una persona con un unico interesse che prevale su tutto ha una vi-sione ristretta, è noiosa, ma è anche uno specialista, un esperto. Benvenuti nel mondo monopatico, un luogo dove solo chi ha una issazione può prosperare. Ovvia-mente siamo tutti bravi a ingere di essere degli specia-listi. Manipoliamo il nostro curriculum per far credere che vendere cellulari o macchine Nespresso sia sem-pre stato il più grande obiettivo della nostra vita. È semplice buon senso, cerchiamo di sembrare total-mente dediti al lavoro che vogliamo ottenere. Non è sempre stato così?

No, non è sempre stato così. Nell’antichità classica, un “polimata” (dal greco “sapere molte cose”) era un uomo che “aveva imparato molto” riuscendo a eccel-lere in campi diversi. Nel quattrocento, Leon Battista Alberti – architetto, pittore, matematico, arciere e in-ventore – scrisse: “Un uomo può fare tutte le cose se lo vuole”. Durante il rinascimento, la polimatia si rilette-va nell’idea dell’uomo universale, poliedrico mae stro di grandi capacità intellettuali, artistiche e atle tiche. Si diceva che Leonardo da Vinci fosse orgoglioso della sua capacità di piegare le sbarre di ferro non meno che della Gioconda.

Personalità come Leonardo, Goethe e Benjamin Franklin collezionarono tali risultati che potremmo sentirci un po’ riluttanti a usare il termine polimata per deinire i nostri umili tentativi di diventare più versati-li. Non possiamo essere tutti dei geni. Eppure a tutti noi piace fare attività poliedriche e polivalenti, fa parte di quel che ci rende umani. Perciò, diciamo che ciascuno di noi potrebbe in teoria diventare un polimata. Ed è qui che notiamo un’enorme dissonanza cognitiva al centro della cultura occidentale: un’enorme confusio-ne su come nascono veramente le nuove idee, le nuove scoperte e la nuova arte.

La scienza, per esempio, ama considerarsi precisa, logica, razionale e priva di emozioni. Di fatto procede in modo piuttosto casuale, spinta dai inanziamenti e dall’ego, aidandosi all’ispirazione e alle intuizioni dei grandi scienziati. E soprattutto è eclettica. Le nuove idee spesso nascono dall’ibridazione di due campi di-versi. Francis Crick, che intuì la struttura del dna, in origine era un isico e sosteneva che solo grazie a que-sta formazione aveva saputo risolvere problemi che i

Ero in viaggio con dei beduini nel deserto occidentale egiziano. A un certo punto abbiamo bucato, e loro hanno usato del nastro adesivo e una vecchia camera d’aria per succhiare gas da tre pneumati-ci e goniare il quarto. È stato il cuoco a

suggerire l’idea. Probabilmente era abituato ad avere da mangiare per quattro persone e farlo bastare per un’intera tavolata. Tutt’altro che imbarazzati per il fat-to che non avevano una pompa, mi hanno detto che portarsi dietro troppi utensili è tipico di un uomo debo-le: rende pigri. Il vero maestro non ha nessuno stru-mento, solo un’ininita capacità d’improvvisare con quello che si trova a disposizione. E più campi del sape-re riesci ad abbracciare, maggiori sono le tue capacità d’improvvisazione.

Sentiamo usare continuamente termini come psico patico e sociopatico. Eccone uno nuovo: monopa-tico. Indica una persona dalla mente limitata, un cer-vello monodirezionale, un noioso, un superspecialista, un esperto privo di altri interessi: in altre parole, il mo-dello del mondo occidentale. Ne ho avuto un esempio a giugno, quando sono stato invitato al programma To-day, su Bbc Radio 4, per dire qualcosa sul Nilo, visto che avevo appena pubblicato un libro sull’argomento. Il presentatore continuava a chiamarmi “dottor Twigger” e io ne ero lusingato, ma allo stesso tempo provavo una certa sensazione di panico, perché non ho un dottorato di ricerca. Al terzo “dottore” ho gentil-mente corretto il presentatore. Non ci sono stati pro-blemi, perché non voleva a tutti i costi che fossi uno specialista. Però è quello che vuole la cultura dominante. Il mio libro sul Nilo è l’opera di un genera-lista. Ma la radio ha bisogno di ospiti credibili, ha bi–sogno di un esperto, altrimenti perché dovremmo ascoltarla?

Il modello monopatico deriva parte della sua credi-bilità dal successo che ha avuto nel mondo dell’econo-mia. Alla ine del settecento, Adam Smith (un uomo poliedrico che scrisse non solo di economia ma anche di ilosoia, astronomia, letteratura e legge) osservò che la divisione del lavoro era il motore del capitali-smo. Il suo celebre esempio era che la fabbricazione di spilli può essere suddivisa nelle sue componenti au-mentando l’eicienza generale del processo di produ-zione. Ma Smith disse anche che un’eccessiva divisio-ne del lavoro provocava la “mutilazione mentale”. Oppure, come scrisse Alexis de Tocqueville, “nulla tende ad abbrutire l’uomo e a privare la sua attività del-la minima traccia di pensiero quanto l’estrema divisio-ne del lavoro”.

È dall’inizio dell’era industriale che conosciamo i pro e i contro della frammentazione dei mestieri in

Per imparare sempre

Robert Twigger

ROBERT TWIGGER

è uno scrittore e giornalista britannico. Questo articolo è uscito su Aeon Magazine con il titolo Master of many

trades.

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biologi consideravano insolubili. Richard Feynman ebbe le idee sulla elettrodinamica quantistica che gli valsero il nobel rilettendo su un suo strano hobby: far ruotare un piatto sul dito (suonava anche il bongo ed era un abile scassinatore di cassaforti). Percy Spencer, un esperto di radar, notò che le radiazioni prodotte dal-le microonde avevano sciolto una barretta di cioccola-to che aveva in tasca e inventò il forno a micro onde.

eppure, rimane sempre attuale la storiella malinco-nica dello scienziato che individua un’intera nuova area di studio e deve immediatamente scartarla per-ché sconina in troppi campi diversi e non troverebbe mai i inanziamenti necessari. In qualche modo, que-sto è credibile almeno quanto il numero di straordina-rie scoperte ispirate dall’incrocio di più discipline.

Si potrebbero raccontare molte storie simili anche per le rivoluzioni nell’arte: il cubismo fuse la semplici-tà delle sculture africane con la nuova tendenza non figurativa della pittura europea, e Jean-michel Ba-squiat e Banksy hanno preso i graiti di strada facen-doli accettare alle gallerie d’arte. negli afari, la fecon-dazione incrociata è fonte d’innovazioni di ogni tipo: le ibre ispirate alle tele di ragno sono alla base del tessu-to a prova di proiettile, ogni telefono cellulare di fatto sembra essere anche un computer, una videocamera e un navigatore gps. Per avere queste idee, devi conosce-re cose al di fuori del tuo campo di specializzazione. meglio ancora, più è ampio il raggio delle tue cono-scenze, maggiore è il tuo potenziale di innovatore.

l’invenzione è nemica della specializzazione. la natura e il progresso umani sono fondamentalmen-te eclettici. e la vita è varia: ci vogliono molte capacità per riuscire a viverla. nelle culture popolari, tutti san-no fare un po’ di tutto. Un uomo può essere il miglior cacciatore o fabbricante di trappole, ma non fa solo quello.

non è difficile capire i vantaggi dell’eclettismo nell’innovazione. È molto più diicile capire come ab-biamo potuto permetterci di perderli di vista. Il proble-ma, credo, sono alcuni presupposti sbagliati sull’ap-prendimento. Ci siamo convinti di poter imparare solo da giovani e che solo le persone con un dono innato possano acquisire certe abilità, pensiamo di avere un bilancio limitato per l’apprendimento e che le diverse abilità assorbano tutti i nostri sforzi senza lasciarci qualcosa da dedicare ad altri obiettivi.

la sensazione che sia più facile imparare quando si è giovani non è del tutto sbagliata, o almeno ha una ba-se concreta nella neurologia. ma il presupposto che l’apprendimento in un certo senso s’interrompa quan-do lasciamo la scuola o l’università o raggiungiamo i trent’anni è smentito dai fatti. Sembra che molto di-penda dal nucleo basale, situato nel prosencefalo ba-sale. Questa parte del cervello, oltre a svolgere tutta una serie di altri compiti, produce grossi quantitativi di acetilcolina, un neurotrasmettitore che regola la rapi-dità con cui si creano nuove connessioni tra le cellule cerebrali, il che a sua volta determina la velocità con cui formiamo ricordi di vario genere e la nostra capaci-tà di trattenerli. Quando il nucleo basale è “acceso” l’acetilcolina scorre e si creano nuovi collegamenti.

Quando è spento, i nuovi collegamenti sono molti di meno.

Tra la nascita e i dieci-undici anni, il nucleo basale è sempre acceso e contiene acetilcolina in abbondan-za, quindi si creano continuamente nuovi collegamen-ti. Di fatto questo signiica che un bambino impara quasi senza interruzione: se vede o sente qualcosa se la ricorda. ma quando ci avviciniamo alla tarda adole-scenza il cervello diventa più selettivo. Dalle ricerche su come le persone colpite da ictus riescono a recupe-rare le capacità perdute emerge che il nucleo basale si accende solo quando si veriica almeno una di tre con-dizioni: una situazione nuova, uno shock oppure una concentrazione intensa e mantenuta con un’applica-zione ripetuta o continuata.

Dopo aver studiato arti marziali in giappone, so per esperienza personale come uno studio intenso assicu-ri risultati che non si possono raggiungere con la prati-ca occasionale. Per un anno ho studiato un’ora al gior-no tre giorni alla settimana, con progressi minimi. Poi per un altro anno ho frequentato un corso intensivo di cinque ore al giorno per cinque giorni alla settimana. I beneici sono stati impressionanti e permanenti, e mi hanno fatto ottenere la cintura nera e un patentino di istruttore. nel mio intimo pensavo che per imparare veramente un’arte marziale ci volesse un dono di natu-ra. Poi ho visto atleti nati fare passi indietro perché non si esercitavano abbastanza. e questo, mi vergogno ad ammetterlo, è stato un grande incoraggiamento.

Il fatto di essere riuscito dove altri avevano fallito mi ha dato anche una chiave importante per avvicinar-mi al segreto dell’apprendimento. Io non avevo niente di speciale, ma avevo lavorato sodo e ce l’avevo fatta. Il motivo per cui tanta gente rifugge da attività polivalen-ti è che pensa di non poter acquisire nuove abilità. Io credo che tutti possano farcela – e a qualunque età – ma solo se continuano a imparare. “Usalo o perdilo” è la parola d’ordine della plasticità cerebrale.

le persone di novant’anni capaci di trovare nuovi interessi che impongono d’imparare qualcosa manten-

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gono la capacità d’imparare. Se smettiamo di sforzarlo, il nucleo basale comincia ad atroizzarsi. In alcune per-sone più anziane si è visto che non conteneva più ace-tilcolina: era rimasto spento così a lungo che non fun-zionava più. In casi estremi questo è considerato un fattore dell’Alzheimer e di altre forme di demenza che si curano – inizialmente con eicacia – aumentando artiiciosamente i livelli di acetilcolina. Ma cimentarsi con nuove attività sembra ofrire beneici anche a chi non sofre di Alzheimer. Bastano brevi periodi d’impe-gno e la capacità di stabilire nuove connessioni aumen-ta. Però non basta fare le parole crociate: bisogna dav-vero sforzarsi d’imparare qualcosa di nuovo.

La monopatia, o la superspecializzazione, alla ine ci porta a difendere quello che abbiamo già imparato invece di creare nuove connessioni. L’impulso iniziale all’apprendimento viene meno e l’esperto, come un animale, si limita semplicemente a difendere il suo territorio. Lo vediamo in campo accademico, dove gli anziani professori competono tra loro per scacciare gli intrusi dai loro terreni. Ma l’uomo universale, quale che sia il suo livello o status sociale, non è costretto a difendere il suo territorio. L’identità e il valore dell’uo-mo universale derivano dal suo dominio di più campi. Per giunta, non è da escludere che le materie umanisti-che non abbiano troppo di cui preoccuparsi: una ricer-ca molto stimolante inanziata dalla Dana foundation e riassunta da Michael Gazzaniga della University of California di Santa Barbara, suggerisce che studiare le arti sceniche – danza, musica e recitazione – di fatto migliora la capacità d’imparare qualunque altra cosa. Mettendo a confronto diversi studi, i ricercatori hanno scoperto che le arti sceniche generano livelli di moti-vazione molto più alti rispetto ad altre discipline. E questi alti livelli rendevano consapevoli gli studenti della loro capacità di concentrarsi e di ottenere un mi-glioramento. In seguito, anche se rinunciavano alle arti sceniche, potevano applicare il loro nuovo talento

e concentrarsi per imparare qualunque altra cosa.È un’ipotesi che trovo molto suggestiva. La vecchia

idea rinascimentale di padroneggiare mestieri manua-li e intellettuali sembra davvero inluire positivamente sulla nostra capacità d’imparare nuove cose. È sentirsi sicuri di poter imparare qualcosa di nuovo che apre le porte a un’attività poliedrica e polivalente.

Penso che vada promossa una nuova branca di stu-dio che contrasti la deriva monopatica del mondo mo-derno. Chiamiamola “polimatia”. Una disciplina di questo tipo dovrebbe fondere educazione isica, arti-stica e scientiica in modo da essere veramente com-pleta. Il punto non è soltanto che lo sviluppo delle abi-lità isiche aiuta l’apprendimento in generale. Se esclu-diamo la isicità dell’esistenza e riduciamo tutto quan-to vale la pena di sapere a quello che si studia sui libri, perdiamo una fetta enorme di ciò che ci rende umani. Non dimenticate: per trovare la sua nuova idea, Feyn-man doveva avere suiciente destrezza manuale da far ruotare un piatto con un dito.

La polimatia potrebbe puntare su metodi di appren-dimento rapido che consentano di padroneggiare di-versi campi. Potrebbe anche lavorare per sviluppare metodi di apprendimento trasferibili. Gran parte di questa disciplina si dedicherebbe alla creatività, incro-ciando cose tra loro scollegate per inventare qualcosa di nuovo. Ma la polimatia non sarebbe semplicemente un sinonimo di innovazione. Contribuirebbe, credo, a sviluppare una migliore capacità di giudizio in tutti i campi. C’è spesso qualcosa di piuttosto scontato nelle persone con pochi interessi: sono noiose e non hanno senso dell’umorismo. Non riescono a capire che è as-surdo dedicare la propria vita a un minuscolo settore della conoscenza e non avere altri interessi. Sospetto invece che diventando più poliedrici, il senso della pro-porzione e dell’equilibrio si raforzi, e di conseguenza il senso dell’umorismo migliori. E questo non può es-sere un male. u gc

Quanto sono stimati gli insegnan-ti nei vari paesi del mondo? Le va-lutazioni oscillano. In alcuni paesi agli insegnanti è attribuito uno status pari o poco superiore a quello dei social workers, inclusi gli “operatori ecologici”, in altri si va più in alto, verso avvocati e mana-ger, ma senza raggiungere il top, medici e ingegneri. Rilevare con cura i diversi fattori che compon-gono il riconoscimento dello sta-tus sociale degli insegnanti con-frontando ventuno paesi è il com-pito che si è data la britannica Var-

key Gems foundation che lavora a migliorare l’istruzione includendo gli svantaggiati. In ottobre ha pub-blicato un rapporto di Peter Dol-ton e Oscar Marcenaro-Gutiérrez, Global teacher status index. Lo sta-tus assegnato agli insegnanti è graduato da un indice (tra 1 e 100). Si va dalla Cina (100) a Isra-ele (2).

I risultati, ben fondati, sono però puzzling, enigmatici, come scrive in una breve nota Andreas Schleicher, direttore dei servizi educativi dell’Ocse. Se non sor-

prendono il quarto posto della Corea (62,1) o il penultimo, bas-sissimo, del Brasile (2,4), sorpren-dono gli indici alti di Grecia (73,7), Turchia (68,0), Egitto (49,3). Pre-vedibile l’indice basso dell’Italia (13,9), quartultima, ma quintulti-mo è il Giappone, sestultima la Germania, solo undicesima la mi-tica Finlandia (28,9). La graduato-ria non collima con quelle delle retribuzioni né con le graduatorie dei test Ocse. Capire cos’è la scuo-la per un paese è più complicato che badare solo a dollari e test. u

Scuole Tullio De Mauro

Stimato professore

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Scienza

88 Internazionale 1034 | 17 gennaio 2014

Vietato difondere

Un tempo era normale che i ri­cercatori si scambiassero le ri­stampe dei loro articoli. Di so­lito gli editori delle riviste ne

fornivano agli autori più di una ventina di copie proprio a questo scopo e, quando i­nivano, un salto in copisteria bastava a far continuare il dibattito scientiico. Anche se tecnicamente era una violazione del copy­right, a nessuno importava granché.

Poi è stata inventata la rete – all’inizio, come spesso succede, doveva servire a fa­cilitare la condivisione dei risultati degli scienziati – e tutto è cambiato. Ora qualsia­si scienziato ha un sito web che spesso con­sente al visitatore occasionale di scaricare copie del suo lavoro. E, anche se ci hanno messo un po’, alcuni editori hanno deciso che gli importa, e uno in particolare, Else­vier (che ha sede nei Paesi Bassi), è passato al contrattacco.

Sfruttando il Digital millennium copy­right act (Dmca), una legge statunitense che permette a chi detiene il copyright di esigere la rimozione di qualsiasi testo pub­blicato online senza il suo consenso, sta chiedendo agli scienziati di eliminare dai loro siti gli articoli pubblicati sulle sue rivi­ste. Così facendo ha scatenato un vespaio.

I primi a ribellarsi sono stati gli utenti del social network Academia.edu. All’ini­zio di dicembre hanno cominciato a rice­vere delle email che li informavano della rimozione dal sito dei loro articoli in segui­to alle richieste di Elsevier. Quando alcuni di loro hanno denunciato la cosa su Twit­ter, si è saputo che anche alcune università avevano ricevuto la richiesta di Elsevier di rimuovere dai loro siti gli articoli dei ricer­catori.

La conseguenza è stata un forte mal­contento tra gli scienziati.

Elsevier (che possiede il social network scientiico Mendeley, concorrente diretto di Academia.edu) sembra avere la legge dalla sua. Come i giornalisti che scrivono per i quotidiani, anche gli studiosi che in­viano i loro lavori alle riviste di solito irma­no un contratto per la cessione dei diritti d’autore alla casa editrice. Tuttavia, se dal punto di vista legale l’editore è nel giusto, dal punto di vista culturale la questione è spinosa. Come dice Thomas Hickerson, direttore della biblioteca dell’università di Calgary, “la richiesta di Elsevier è in con­litto con la natura stessa dell’attività acca­demica: la condivisione della ricerca è un elemento essenziale di questa attività”.

Per il momento, gli scienziati e i loro datori di lavoro intendono cercare delle scappatoie legali nel caso in cui Elsevier insistesse su questa linea, e altri editori lo seguissero. Come suggerisce al suo perso­nale l’università della California di Irvine, che ha ricevuto diverse ingiunzioni, in ge­nere è solo la versione inale dell’articolo, cioè quella che compare sulla rivista, a es­sere coperta dal copyright. Niente può im­pedire agli scienziati di rendere disponibi­

Per legge non si potrebbe, ma la maggior parte degli scienziati rende disponibili online i propri studi pubblicati sulle riviste specializzate. Ora un colosso dell’editoria vuole che smettano

The Economist, Regno Unito

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li le versioni precedenti. In un articolo pub­blicato online subito dopo l’inizio delle polemiche, lo stesso Elsevier fa notare che le versioni precedenti si possono condivi­dere liberamente.

Efetto boomerangAlla lunga questa rigidità rischia di ritor­cersi contro gli editori e di accelerare l’au­mento delle pubblicazioni ad accesso libe­ro, disponibili gratuitamente online. Molti fautori dell’accesso libero avanzano anche ragioni etiche, sostenendo che la ricerca è un bene comune e che in buona parte è pa­gata dai contribuenti. ross Mounce, pa­leontologo dell’università di Bath e soste­nitore dell’accesso libero, è entusiasta. ri­ferendosi alla disputa dice che “è stata un bene. Chi prima era apatico comincia a rendersi conto dell’importanza del modo in cui la ricerca scientiica viene difusa”.

Questo aspetto non sfugge nemmeno agli editori. Perino Elsevier ha delle riviste ad accesso libero e può consolarsi con il fatto che, almeno per ora, nessuna taccia d’infamia ha avuto ricadute sul bilancio. Nel 2012, infatti, ha registrato un fatturato di 2,53 miliardi di euro e utili per 938 milio­ni. u sdf

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IN BREVE

Tecnologia Un gruppo di ricer-catori guidato da Brian Huskin-son, di Harvard, ha sviluppato un prototipo di batteria ricarica-bile ed economica, che potrebbe aiutare a immagazzinare l’ener-gia prodotta dai pannelli solari o dalle pale eoliche. Questa batte-ria di lusso usa un composto or-ganico, il chinone, più facilmen-te reperibile dei metalli usati nelle batterie di lusso conven-zionali, spiega Nature. Salute È stato analizzato il dna del microrganismo che causò l’epidemia di colera del 1849 a Filadelia, negli Stati Uniti, scri-ve il New England Journal of Medicine. Sembra che l’antico ceppo di Vibrio cholerae sia di-verso da quello oggi dominante. Ancora non si conoscono i moti-vi della scomparsa del vecchio ceppo, né è stato possibile rico-struire l’evoluzione del vibrione e le variazioni della sua patoge-nicità.

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SALUTE

La lunga guerra alle sigarette L’11 gennaio 1964 Luther Terry, responsabile della sanità pub-blica statunitense, pubblicò il primo rapporto sugli efetti no-civi del tabacco. Da allora si sti-ma che negli Stati Uniti 18 mi-lioni di persone siano morte per cause legate al fumo. Ma grazie alle politiche per il controllo del tabacco ne sono state salvate otto milioni e i fumatori sono diminuiti: dal 42 al 18 per cento della popolazione. Il Journal of the American Medical Asso-ciation (Jama) lo deinisce il più grande successo della sani-tà pubblica moderna. Ma resta ancora molto da fare per con-trastare il fumo, che ha un costo sociosanitario di 200 miliardi di dollari all’anno. Il tasso di grandi fumatori non è cambiato nelle fasce sociali più basse e cresce tra i giovani: si stima che su 3.800 adolescenti americani che fumano la loro prima siga-retta, mille diventano fumatori abituali. Un altro studio pubbli-cato sul Jama rivela che dal 1980 al 2012 la percentuale di fumatori in 187 paesi del mon-do è passata in media dal 41 al 31 per cento tra gli uomini e dal 10,6 al 6,2 per cento tra le don-ne. In Messico, Canada, Islanda e Norvegia è dimezzata. Ban-gladesh, Cina, Indonesia e rus-sia sono i paesi con una mag-giore prevalenza di consumo di tabacco. Poiché la popolazione mondiale è in crescita, il nume-ro assoluto di fumatori assidui è salito, passando dai 721 milioni del 1980 ai 967 milioni del 2012.

Ecologia

L’importanza dei carnivori

Leoni, licaoni e lontre sono alcune tra le 31 specie di grandi carnivori in pericolo di estinzione. Questi animali inluenzano il funzionamento degli ecosistemi, in modo non ripetibile dall’azione antropica. La scomparsa dei predatori dipende da quattro cause principali: la distruzione dell’habitat,

la caccia sportiva o a scopi commerciali, la persecuzione umana e la mancanza di prede. Una variazione del numero di carnivori ha un forte impatto sugli altri animali, dagli uccelli ai mammiferi ai rettili. Secondo Science, inluenza anche l’entità delle popolazioni degli animali spazzini, la difusione delle malattie, la quantità di carbonio immagazzinata nell’ambiente, la morfologia dei corsi d’acqua e lo stato delle coltivazioni. Per esempio, il declino del puma ha causato un aumento dei cervi e una riduzione di foreste, rettili, anibi e farfalle. A yellowstone, negli Stati Uniti, la reintroduzione del lupo ha indirettamente modiicato la morfologia dei iumi (grazie alla riduzione degli erbivori che mangiano le piante lungo le rive) e la produzione di bacche. Sarebbe quindi fondamentale promuovere la coesistenza paciica tra i grandi predatori e le popolazioni umane, per mantenere gli ecosistemi in equilibrio. u

Science, Stati Uniti

Quanti pesci che brillano Da un’indagine condotta alle Bahamas, a Little Cayman e alle isole Salomone, ma anche in acquari pubblici, sono emerse circa 180 spe-cie di pesci luorescenti. La caratteristica è difusa tra animali molto diversi tra loro, come i pesci cartilaginei e quelli ossei. La bioluore-scenza potrebbe servire ad attirare il partner o a mimetizzarsi nella barriera corallina, scrive PlosOne. u

Biologia TECNOLOGIA

Internet in Amazzonia L’Istituto brasiliano di ricerca spaziale prevede di installare dei palloni a 300 metri d’altez-za, ancorati a terra, nella foresta amazzonica e nelle regioni rura-li per collegare a internet anche le zone più isolate. Al momento il progetto Conector è in fase sperimentale: dai primi test con-dotti a São Paulo è emerso che ogni pallone, che farebbe da ri-petitore, può garantire la con-nessione in un raggio di 30 chi-lometri. I costi sono inferiori a quelli dei sistemi satellitari e delle reti tradizionali. F

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Consumo annuo pro capite di sigarette negli Stati Uniti tra gli over 18, migliaia

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Il diario della Terra

Australia

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Stati Uniti5,1 M

Messico5,6 M

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Stati Uniti4,6 M

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Stati Uniti4,2 M

Messico

Messico Cina5,1 M

Pakistan6,8 M

Papua NuovaGuinea

7,1 MHonduras

Australia

Stati Uniti

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Africaoccidentale

Grecia4,7 M

Vanuatu6,6 M

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Cile

Indonesia

Nel sud della Scozia potrebbe nascere una città a basse emis-sioni di gas serra. Dovrebbe sorgere nella Douglas valley, vicino a New Lanark, un cen-tro fondato dal filantropo Ro-bert Owen all’inizio della rivo-luzione industriale come mo-dello di insediamento moder-no. Più di due secoli dopo, su quelli che una volta erano campi di patate, dovrebbe sor-gere Owenstown, una città ba-sata su princìpi comunitari ed ecologici. Si prevede la costru-zione di 3.200 case ecologiche. “L’insediamento sarà gover-nato dai suoi cittadini e sarà di loro proprietà”, scrive l’Inde-

pendent. Il progetto dovrebbe portare alla creazione di quat-tromila posti di lavoro, in un’area depressa a causa dell’abbandono delle attività estrattive e industriali.

Il progetto non ha ancora ricevuto il via libera dalle auto-rità, ma le richieste, dal Regno Unito e dal resto dell’Europa, sono già 1.500. Molte sono di coppie con bambini piccoli, spesso con un lavoro, ma che non possono permettersi di comprare una casa. In effetti, le abitazioni di Owenstown dovrebbero costare il 60 per cento del loro prezzo di merca-to grazie alla minimizzazione dei costi del suolo, del lavoro, del capitale e di impresa, a fa-vore degli utenti finali. Lo sco-po dell’iniziativa, finanziata dalla fondazione Hometown, è di rispettare l’ambiente e offri-re la possibilità di condurre una vita sostenibile, anche fi-nanziariamente. è prevista la costruzione di tre scuole, im-pianti sportivi, orti urbani co-muni, ma anche bar, ristoranti, negozi e spazi per le industrie.

Utopiascozzese

Ethical living

Incendi Un incendio ha causato la morte di un uomo e ha distrutto 52 case alla perife-ria di Perth, in Australia. Il go-verno ha lanciato l’allarme per il rischio di incendi in tutto il paese, dove in questi giorni le temperature hanno superato i 40 gradi. u Il governo cileno ha lanciato un allarme sanita-rio in quattro delle 15 regioni del paese a causa del fumo de-gli incendi che hanno distrutto 16mila ettari di vegetazione.

Cicloni Una persona è mor-ta nel passaggio del ciclone Ian sull’arcipelago di Tonga. Alcu-ni villaggi sono stati completa-mente distrutti. u Il ciclone 01B si è formato nel golfo del Bengala. Terremoti Un sisma di ma-gnitudo 4,7 sulla scala Richter ha colpito il sudovest della Grecia, senza causare vittime.

Alluvioni Circa ventimila persone sono rimaste isolate a

causa delle alluvioni che han-no colpito le province di Atlán-tida e Colón, in Honduras.

Fulmini Tre persone sono state uccise da un fulmine su una spiaggia a Villa Gesell, a quattrocento chilometri da Buenos Aires, in Argentina.

Vulcani L’eruzione del vulcano Sinabung, sull’isola indonesiana di Sumatra, si è intensiicata portando il numero degli sfollati a più di 25mila. u Le deformazioni del suolo alla base di un vulcano potrebbero permettere di prevederne l’eruzione. Un gruppo di ricercatori ha analizzato l’eruzione del maggio 2011 del vulcano Grímsvötn, in Islanda, la cui colonna di cenere ha costretto alla chiusura dello spazio aereo. I dati dinamici gps della deformazione, osservati già un’ora prima dell’eruzio-ne, erano in relazione con la variazione successiva dell’altezza della nube, scrive Nature Geoscience.

Locuste Sciami di locuste hanno distrutto migliaia di ettari di coltivazioni nello Yemen. La Fao ha lanciato l’allarme per il rischio di care-stia nel paese.

Leoni I leoni in età per ri-prodursi che vivono in libertà in Africa occidentale sono ap-pena 250. Lo ha rivelato uno studio dell’ong Panthera.

Elefanti Il governo cinese ha distrutto pubblicamente più di sei tonnellate di avorio prove-niente dal commercio illegale di zanne d’elefante. è la prima volta che la Cina, principale consumatore d’avorio del mondo, compie un’azione di questo tipo, manifestando il suo impegno contro il bracco-naggio e il mercato illegale di avorio.

Epidemie Le autorità ca-nadesi hanno confermato il primo caso di morte causata dal virus aviario H5N1 nelle Americhe. La vittima era appena tornata da Pechino. è raro che gli esseri umani siano infettati, ma la mortalità è del 60 per cento. Finora nel mondo sono stati registrati 649 casi di cui 385 mortali.

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Avorio sequestrato nel mondo,tonnellate

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u Al largo della costa del Perù un efetto ottico simile all’arco-baleno, noto come “gloria”, ha dato un tocco di colore al grigio e al bianco degli stratocumuli marini. Per chi le osserva dalla supericie terrestre o da altezze moderate, le glorie sono visibili di tanto in tanto sotto forma di anelli concentrici colorati nelle nubi rade o nella nebbia.

Appaiono nella direzione opposta al Sole, perché la luce viene rilessa all’indietro (difra-zione) dalle goccioline d’acqua nell’aria verso l’osservatore.

L’anello ruota intorno a un pun-to o a un’ombra.

Un fenomeno simile è a vol-te visibile dallo spazio, anche se una rapida occhiata alle foto d’archivio dell’Earth observato-ry mostra che le glorie viste dal-lo spazio non sono sempre cir-colari. Per acquisire immagini come quella in alto, lo spettrora-diometro Modis scansiona la Terra in fasce perpendicolari ri-spetto alla rotta del satellite. Le fasce sono spaccati orizzontali degli anelli della gloria, che quindi appare sotto forma di

due bande allungate di colore che corrono parallele alla rotta del satellite.

In questa foto le nuvole “so-no un ottimo esempio di strato-cumuli marini a ‘cella chiusa’”, scrive Joe Munchak, del God-dard space light center della Nasa. “Sono caratterizzate da ampie regioni di aria ascenden-te debole (che forma le nubi) cir-condate da regioni più piccole di aria discendente, le linee sottili di aria limpida o di nubi più sot-tili che circondano le celle”.–Mi-

chael Carlowicz

Il satellite Terra della Nasa ha scattato questa foto di una gloria al largo del Perù il 21 dicembre 2013, giorno del solstizio d’estate nell’emisfero australe.

Il pianeta visto dallo spazio 21.12.2013

La gloria sul Paciico

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Economia e lavoro

Nel 1909 uscì nel Regno Unito La grande illusione, un saggio del giornalista Norman Angell. La tesi del libro, in sostanza,

era questa: ormai l’economia è così globa-lizzata che la guerra è diventata impossibi-le dal punto di vista economico, perché tutti subirebbero perdite ingenti e nessuno vincerebbe. Una guerra del genere, inoltre, non sarebbe inanziabile. Secondo Angell, l’umanità e, soprattutto, l’Europa (che all’epoca era ancora di gran lunga il conti-nente più ricco) si trovavano di fronte a un futuro glorioso: un mondo paciico in cui, grazie alle innovazioni tecnologiche e ai progressi economici, tutti gli esseri umani avrebbero potuto contare presto su una buona qualità della vita.

Margaret MacMillan, una storica cana-dese che insegna a Oxford, spiega nel suo

libro The war that ended peace perché An-gell aveva ragione sul piano economico ma, nonostante tutto, sbagliò le sue previ-sioni. “Quello che trascurarono Angell e altri osservatori erano gli svantaggi delle interdipendenze create dalla globalizza-zione”, scrive MacMillan in un saggio scrit-to per il Brookings institute di Washington. Agli inizi del ventesimo secolo l’antica no-biltà terriera era incalzata sempre più da vicino da una nuova nobiltà inanziaria ur-bana e da una borghesia emergente. Allo stesso tempo gli operai venivano sfruttati ed esclusi dal benessere della globalizza-zione. In queste condizioni prosperò una perida miscela di nazionalismo, militari-smo e antisemitismo. A livello ilosoico questa ideologia era raforzata dal darwi-nismo sociale dominante all’epoca, soste-nuto da autori come Herbert Spencer, Oswald Spengler o anche da Friedrich Nietzsche.

A questi elementi si aggiungeva la de-bolezza di carattere di alcuni potenti. L’im-peratore tedesco Guglielmo II era un insi-curo che si compiaceva nell’ostentare la sua potenza, mentre lo zar Nicola II era un bigotto ingenuo. Entrambi avevano al se-guito una massa di opportunisti. In Francia

la terza repubblica fu scossa da crisi politi-che permanenti, la più grave delle quali fu l’afare Dreyfus. Il Regno Unito si dirigeva verso il crepuscolo nel suo “splendido iso-lamento” e l’Austria era appunto l’Austria.

Una nobiltà terriera decadente, una so-cietà divisa dalla globalizzazione, un’as-surda corsa agli armamenti navali tra Ger-mania e Regno Unito, una concezione perversa del mondo, politici e militari in-capaci e un nazionalismo in rapida espan-sione condussero cento anni fa l’Europa verso una catastrofe che non si riesce an-cora a spiegare in maniera razionale. Ma l’aspetto decisivo è che neanche le dipen-denze economiche che legavano gli stati l’uno all’altro (la Germania era il più im-portante partner commerciale del Regno Unito e viceversa) poterono impedire il conlitto. La globalizzazione dell’econo-mia, quindi, non è una garanzia di pace.

Scendere a pattiLe idee di Angell sono molto difuse anco-ra oggi. Thomas Friedman, inluente edi-torialista del New York Times, continua a citare la tesi secondo cui i paesi che hanno in comune la stessa catena di distribuzione delle multinazionali non possono farsi la guerra in nessun caso. Margaret MacMil-lan non è d’accordo. “Nel mondo attuale si osservano parallelismi inquietanti con quello di un secolo fa”, scrive la studiosa. “In tutta Europa e negli Stati Uniti i movi-menti di estrema destra come il Tea party o il British national party fanno da valvola di sfogo per le frustrazioni e le angosce di chi non riesce a scendere a patti con le rapi-de trasformazioni e con la crescente insi-curezza occupazionale. La globalizzazione può avere anche la conseguenza parados-sale di incoraggiare un intenso localismo e di intimidire le persone al punto di fargli cercare rifugio in piccoli gruppi che condi-vidono le loro stesse idee”.

Nel 1914 la prima guerra mondiale col-se tutti di sorpresa. In precedenza l’otto-cento aveva avuto un andamento paciico per le condizioni dell’Europa. Ma proprio la competizione che si scatena in un’eco-nomia globalizzata tra i singoli luoghi che vogliono attirare le imprese può causare efetti collaterali pericolosi. “A livello na-zionale, la globalizzazione accentua la ri-valità e i timori reciproci tra paesi da cui, invece, ci si aspettano rapporti di amici-zia”, avverte MacMillan. E chissà che non abbia ragione! u fp

La globalizzazionenon garantisce la pace

Un secolo fa l’economia era globalizzata come oggi, ma questo non impedì lo scoppio della prima guerra mondiale. Il saggio di una storica canadese mette in parallelo le due epoche

Philipp Löpfe, Tages-Anzeiger, Svizzera

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Privatizzazioni

Il numero Tito Boeri

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L’importo medio della retta mensile massima negli asili nido pubblici italiani è di 394 euro. Nelle strutture private la media sale a 487 euro. Se-condo un recente studio del ministero del lavoro, nel 2008-2009 la retta massi-ma di alcuni comuni ha toc-cato i settecento euro.

A cosa è dovuta la varia-zione, spesso abissale, tra i diversi comuni? La diferen-za si spiega in parte con le po-litiche redistributive (cioè con gli scaglioni tarifari sta-biliti in base alle risorse eco-nomiche della famiglia): le

regioni del nord attuano un criterio di redistribuzione più marcato rispetto a quelle del centrosud. Le prime della classe sono il Trentino-Alto Adige e l’Emilia-Romagna, mentre i fanalini di coda sono la Calabria e il Molise.

Le altre variabili che inlu-iscono sulle tarife sono lega-te alla partecipazione femmi-nile ai processi decisionali e al mercato del lavoro. Come dimostra lo studio di Ales-sandro Bucciol, Laura Caval-li, Paolo Pertile, Veronica Po-lin e Alessandro Sommacal su lavoce.info, i comuni am-

ministrati da una donna e quelli dove la partecipazione femminile al mercato del la-voro è più alta evidenziano una maggiore attitudine alla redistribuzione.

Non riveste nessuna in-luenza a livello statistico, in-vece, il partito di appartenen-za del sindaco. Se si tiene pre-sente che oggi quasi un quin-to dei bambini italiani vive in nuclei familiari al di sotto della soglia di povertà, ci ca-pisce perché le politiche dell’infanzia sono ancora più indispensabili. Per non dire fondamentali. u

Vendite miliardarie

“In passato i politici hanno appoggiato le privatizzazioni più volte e per ragioni diverse”, scrive l’Economist. “Negli anni ottanta Margaret Thatcher lo fece per indebolire i sindacati, e negli anni novanta i paesi dell’Europa dell’est per smantellare l’economia pianiicata. Oggi, in piena crisi dei

debiti pubblici, il motivo principale è quello di fare cassa”. Le cose da vendere non mancano: “Nei paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici (Ocse) beni come le aziende di stato, le partecipazioni, i terreni, gli immobili e le risorse del sottosuolo valgono 35mila miliardi di dollari”. Certo non tutto può e deve essere venduto: secondo il settimanale solo novemila miliardi di beni sono “vendibili”. Privatizzare, però, non è facile, ammette l’Economist. Sia perché i politici sono spesso contrari, sia perché talvolta si inisce per svendere i “gioielli di famiglia”. In alcuni casi, inoltre, le privatizzazioni non servono: le aziende e i beni dello stato, se gestiti in modo corretto, possono garantire entrate preziose alle casse pubbliche. u

The Economist, Regno Unito

GERMANIA

Il turismo sociale Ha provocato proteste in Ger-mania un rilievo della Commis-sione europea al welfare tede-sco. Bruxelles, spiega la Frank-furter Allgemeine Zeitung, ha deinito “contraria al diritto comunitario” la norma secondo cui gli immigrati di altri paesi dell’Unione sono esclusi dai sussidi se si trovano in Germa-nia da meno di tre mesi. Secon-do Bruxelles, la norma non va applicata automaticamente, ma caso per caso. È bastato questo, osserva Die Welt, per far urlare “ai populisti” che Bruxelles vuol trasformare la Germania in una meta del “turismo sociale”. Nel paese si è scatenato “un dibatti-to basato su miti, interessi elet-torali ed emotività” che ignora la realtà dei dati. “Solo il 3 per cento dei cittadini comunitari (17 milioni) vive in un altro pae-se dell’Unione”. Queste persone emigrano per lavorare e, soprat-tutto, per “svolgere mansioni per cui in Germania c’è una do-manda alta e poca disponibilità dei tedeschi a svolgerle”. Nella foto: la cancelliera tedesca Merkel

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CINA

Primato commerciale Nel 2013 la Cina ha superato gli Stati Uniti come paese con il più alto volume di scambi commer-ciali al mondo. L’anno scorso, spiega il Financial Times, gli scambi di Pechino sono cresciu-ti del 7,6 per cento rispett0 al 2012, raggiungendo il valore di 4.20o miliardi di dollari. dal 2009 la Cina è il primo esporta-tore mondiale. Il risultato del 2013 è dovuto soprattutto all’au-mento delle importazioni, in li-nea con l’obiettivo del governo di raforzare i consumi interni e ridurre la dipendenza dell’eco-nomia cinese dalle esportazioni.

Cina

4,2

Stati Uniti

3,9

Germania

2,7

Giappone

1,4

Volume degli scambi commerciali, migliaia di miliardi di dollari, 2013

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Polonia

Grecia

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Russia

Romania

Serbia

Ucraina

Portogallo

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Immigrati in Germania, migliaia, 2012

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137

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110

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283

468

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OKAY, SI PARTE.IL SERPENTE DI MARE HA

I GIORNI CONTATI.

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E ADESSO CHE C’È?

SÌ, SBRIGATI PRIMA CHE IL MOSTRO SBRANI MIA

SORELLA!

MI SCUSI, CAPITANO, MA È IL SUO TURNO DI PULIZIA DA UNA SETTIMANA E NON

HA ANCORA MOSSO UN DITO. A NOI NON STA TANTO BENE.

INSOMMA, E MIA SORELLA?

I TURNI DI PULIZIA SONO IMPORTANTI. SE NON ME NE OCCUPO SUBITO, AL PROSSIMO EVENTO DELLA COMUNE

NON POTRÒ USCIRE DALLA MIA CAMERA.

L’oroscopo

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ma non permetterai che succeda ancora.

VERGINE

“Le persone che non cor-rono rischi di solito com-

mettono due grossi errori all’an-no”, diceva lo scrittore Peter Dru-cker. “Ma anche chi corre dei ri-schi commette due grossi errori all’anno”. In generale sono d’ac-cordo con questa afermazione. Ma penso che per adattarla alla tua situazione dei prossimi mesi dovrò leggermente modiicarla: nel 2014 le Vergini che non corro-no rischi commetteranno una me-dia di 3,1 grossi errori. Invece quelle che li corrono commette-ranno al massimo mezzo errore.

BILANCIA

“Sapete qual è la più gran-de tragedia del mondo?”,

chiede lo scrittore Terry Pritchett. “Il fatto che esistano delle perso-ne che non scoprono mai cosa vo-gliono veramente o in cosa sono veramente brave”. Se pensi di ri-conoscerti anche solo un po’ in questa descrizione, Bilancia, se non sai ancora in cosa sei brava e non sei sicura di quello che vuoi fare, i prossimi mesi saranno il momento ideale per risolvere il problema. Datti da fare. Sottopo-niti a qualche test attitudinale. Chiedi a una persona intelligente di cui ti idi cosa pensa dei tuoi ta-lenti speciali e delle tue qualità uniche. E un’ultima cosa: cerca di essere totalmente sincera con te stessa su quello che ti entusiasma.

SCORPIONE

Nel suo libro Schottenfreu-de: german words for the hu-

man condition, Ben Schott crea nuove parole tedesche composte da usare in inglese. Eccone una che ti sta a pennello per la prossi-ma settimana: Fingerspitzentanz. Signiica “danza sulla punta delle dita” e Schott dice che indica “piccoli trioni di destrezza e agi-lità manuale”, come per esempio allacciare un braccialetto, stringe-re una minuscola vite, sciogliere un nodo, arrotolare uno spinello, riconoscere un oggetto al tatto. Nelle prossime settimane sarai più agile e sciolto del solito, Scor-

pione, un vero maestro della Fin-gerspitzentanz.

SAGITTARIO

I quattro elementi che com-pongono la cocaina sono gli

stessi della dinamite, della cafei-na e del nylon: idrogeno, carbonio, azoto e ossigeno. Ovviamente si combinano in modo diverso per creare le varie sostanze. Ma, per quel che ci interessa, il punto è che gli stessi materiali grezzi possono produrre risultati diversi. Prevedo che nella tua vita succederà qual-cosa di simile, Sagittario. Il modo in cui assemblerai gli ingredienti che hai a disposizione potrebbe produrre un viaggio sconvolgente, un piacevole stimolo o una risorsa utile. Cosa sceglierai?

ACQUARIO

Il pittore iammingo Jan van Eyck (1385-1441) era fa-

moso per l’innovativo uso della tecnica a olio. Era solito irmare le sue opere non solo con il suo nome ma anche con il motto Als ich can, la cui traduzione idiomatica è “Il meglio che posso fare”. Quello che intendeva dire è che aveva spinto il suo talento e la sua arte al limite, poi aveva smesso e si era rilassato, contento di aver dato tutto quello che poteva. Ti invito ad assumere un atteggiamento simile nel con-cludere i tuoi progetti attuali, Ac-quario. Usa tutta la tua passione e la tua intelligenza per ottenere il miglior risultato possibile, ma cer-ca anche di capire quando ti devi fermare. Non sforzarti troppo. Sforzati e basta.

PESCI

È un ottimo momento per ribellarti al senso comune.

Ti invito a immunizzarti contro il pensiero di gruppo e di farla in barba allo status quo. Divertiti a sfruttare al massimo il tuo spirito giocoso per trovare alternative al solito modo di fare le cose. Al tempo stesso cerca di non perdere la compassione e il tuo buon sen-so. Non essere intransigente e liti-gioso. Se seguirai questi consigli, sarai in grado di portare a compi-mento una leggiadra insurrezione che placherà, e al tempo stesso stimolerà, la tua anima.

CAPRICORNOMetaforicamente parlando, sei appena entrato in pos-sesso di alcuni nuovi semi. Sono robusti. Resistenti. Hanno tutte le potenzialità per diventare iori grandi e

forti. La domanda è: quando dovresti piantarli, sempre metafori-camente parlando? Io ti suggerisco di aspettare ancora un po’. Non succederebbe niente di male se li seminassi subito, ma pen-so che vivrebbero ancora più a lungo se aspettassi almeno una settimana, o meglio ancora due. Fidati del tuo intuito.

COMPITI PER TUTTI

Quando dicono “Sii te stesso”,di quale te stesso parlano?

ARIETE

Di chi sei il nemico? Sei l’avversario, il disturbatore

o almeno la persona meno ap-prezzata da qualcuno? Rispondi sinceramente, per favore. Prossi-ma domanda: interpretare questo ruolo ti porta dei vantaggi? Se la risposta è sì, va benissimo. Non cercherò di dissuaderti. Continua a godere dei beneici che ricavi ostacolando qualcuno. Ma se que-sto modo di fare non ti è di nessu-na utilità, sarebbe un buon mo-mento per modiicarlo. In questa fase sei più capace del solito di smettere di essere un antago-nista.

TORO

Di solito voi Tori avete i piedi ben piantati a terra

più di tutti noi. Ma questa setti-mana potreste essere tentati di sfuggire alla legge di gravità e di ribellarvi al richiamo del dovere. Credo che, almeno nei tuoi sogni, farai trasgressive incursioni nel regno delle nuvole. Galleggerai senza peso in una nave spaziale interplanetaria, ti trasformerai in un’aquila e veleggerai sopra le fo-reste, indosserai uno zaino-razzo per sfrecciare nel cielo o farai un picnic su una nuvola a base di zucchero ilato, pane degli angeli e tè alla menta. Non ti piacerebbe portare queste cose divertenti nella tua vita da sveglio?

GEMELLI

Quale parte della tua vita è troppo piccola e vorresti

che diventasse più grande? C’è una situazione troppo coinvolgen-te e drammatica che vorresti sa-per prendere più a cuor leggero senza lasciarti opprimere? Sei im-pegnato in una ricerca che sta di-ventando claustrofobica e vorresti

trovare il modo per renderla più aperta e rilassata? Se hai risposto sì ad almeno una di queste do-mande, Gemelli, ho una buona notizia per te. Molto presto avrai un incontro ravvicinato con la ma-gia che ti serve per aprire quello che è chiuso e allargare quello che è stretto. Non lasciartela sfuggire. Cerca di imbrigliarla e di usarla a tuo vantaggio.

CANCRO

Nella poesia Catch a body, Ilse Bendorf racconta che

non ama il consiglio “non dire mai niente a nessuno”. D’altra parte, neanche “dire tutto a tutti” le sembra giusto. A giudicare dai tuoi presagi, Cancerino, deduco che sei indeciso tra questi due estremi. Devi coltivare il potere che ti dà il silenzio, lasciando che siano gli altri a indovinare quali sono i tuoi veri sentimenti? O cer-care un rapporto più intimo e ri-schiare di rinunciare a quel potere confessando i tuoi pensieri più se-greti? Ti consiglio di scegliere la via di mezzo. Dì tutta la verità, ma con cautela e un po’ alla volta.

LEONE

Una volta che è stata bru-ciata, una sostanza non

può essere bruciata di nuovo. È pura e semplice isica. Se invece vuoi sapere se una persona può bruciarsi più di una volta – meta-foricamente parlando, ovviamen-te – la risposta, purtroppo, è sì. Ci sono persone che non imparano mai dai loro errori e non hanno abbastanza intelligenza emotiva per evitare i prepotenti e i mani-polatori dai quali rimarranno di nuovo scottate. Ma sono sicuro che tu non sei così, Leone, o alme-no non lo sarai nei prossimi gior-ni. Forse sei già rimasto scottato,

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L’ultima

“Ammettilo Ralph, non è per sciare che vai in Colorado”.

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“Figliolo, tua madre e io, nonno Jack, nonna kate, zio danny,zia sue, nonno sy, nonna Jenny, tua cugina Rhonda,

Virgola e Rex siamo gay”.

Referendum in egitto. “Chi è a favore della nuova costituzione alzi le mani!”.

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Ariel sharon è morto. “Perché non posso entrare?”. “Qualcuno ha circondato il paradiso con un muro”.

In dubbio la sicurezza del presidente hollande. “Cosa credete, io mi proteggo”.

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Le regole Lavare i piatti1 l’unica via di scampo è dire prima degli altri: “Io cucino”. 2 lavi le stoviglie con i guanti? Cos’è, il 1956? 3 non ti idare di un invitato che si ofre di fare i piatti: ha un secondo ine.4 la garanzia di pulito è il croccante attrito tra dito e piatto. 5 la prossima volta piatti di plastica. [email protected]

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