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Sommario

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24/30 luglio 2020 • Numero 1368 • Anno 27

“Da ragazzo la cosa che mi piaceva di più delle vacanze con i miei genitori era che non capivo niente”

TOBIAS HABERL A PAGINA 47

ATTUALITÀ

16 Un compromesso che può salvare

l’Unione Die Zeit

17 I punti fondamentali del piano per la ripresa Financial Times

AMERICHE

20 La doppia pandemia è un pericolo reale The Atlantic

VISTI DAGLI ALTRI

28 Energia ad alto rischio Stefano Liberti per Internazionale

LE OPINIONI

36 La Cina si sta facendo troppi nemici Minxin Pei

38 Gli editori a pagamento

non fanno per voi David Randall

CINA

48 Addio alla povertà Financial Times

EUROPA

54 Fragole amare Scena 9

PORTFOLIO

60 Relazioni speciali Nicholas Nixon

RITRATTI

66 Asma al Assad La sposa del regime

L’Orient-Le Jour

GRAPHIC JOURNALISM

70 Cartoline dal Libano Mazen Kerbaj

SERIE TV

72 Frammenti di un trauma Vulture

POP

82 La famiglia del futuro Laurie Penny

SCIENZA

88 Cosa dicono di noi le acque di scarico The Economist

ECONOMIA E LAVORO

92 La cooperazione aiuta a smascherare

gli evasori Le Monde

Cultura74 Schermi, libri,

musica

Le opinioni12 Domenico

Starnone

74 Giorgio Cappozzo

77 Goffredo Fofi

78 Giuliano Milani

80 Pier Andrea Canei

Le rubriche4 internazionale.it

12 Posta

15 Editoriali

95 Strisce

97 L’oroscopo

98 L’ultima

Articoli in formato mp3 per gli abbonati

IN COPERTINA

Il valore delle lingueI programmi di traduzione funzionano sempre meglio e prestopotrebbe diventare inutile imparare una lingua straniera. Ma sarebbe un peccato non farlo. Perché studiare le lingue rende le persone più empatiche e aperte (p. 40). Copertina di Mark Porter Associates

Internazionale 1368 | 24 luglio 2020 3

Internazionale pubblica in esclusiva per l’Italia gli articoli dell’Economist.

Internazionale pubblica in esclusiva per l’Italia gli articoli dell’Economist.

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Ogni settimana il meglio dei giornali di tutto il mondo

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InchiestaEnergia ad alto rischio in Italia

Laurie PennyLa famiglia del futuro

AttualitàUn compromessoche può salvare l’Europa

n. 1368 • anno 2724/30 luglio 2020

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η αξία των γλωσσών

Il valore delle lingue

I software traducono per noi. Ma è solo studiando le lingue che

conosciamo davvero gli altri

Dal 29 luglioil nuovo InternazionaleKids

SciocchezzaLa settimana

In un universo parallelo, le agenzie di stampa hanno diffuso questa notizia: “Il segretario del Partito democratico ha tenuto una conferenza stampa a Lampedusa. ‘Il nostro voto sul rifinanziamento della guardia costiera libica è stato un gravissimo errore’, ha detto. ‘Sento ripetere che destra e sinistra non esistono più, ma è una sciocchezza. Esistono, eccome. E cosa vuol dire essere di sinistra oggi? Quello che ha sempre voluto dire: essere dalla parte dei più deboli, degli oppressi, degli sfruttati. Quindi dalla parte dei migranti, ovunque essi siano. Perché non possiamo appoggiare a parole Black lives matter negli Stati Uniti e impedire nei fatti l’ingresso in Italia a chi viene dalla Libia. E pazienza se perderemo qualche voto. Per quanto la politica sia anche l’arte del compromesso e del pragmatismo, ci sono limiti che non si possono superare. Rinnoveremo gli sforzi per spiegare, a militanti e cittadini, perché la battaglia per la libertà di movimento è una delle battaglie del nostro tempo, insieme a quelle per il lavoro, la scuola, l’ambiente. Ed è una delle grandi battaglie della sinistra, quindi nostre. Perché anche se variopinto, il Partito democratico resta un grande partito di sinistra. Infine consentitemi una nota personale. Ho cominciato a far politica con i giovani comunisti. E per quanto io possa esser cambiato, e lo sono, e per quanto il mondo possa essere cambiato, e lo è anche il mondo, molte delle ragioni che mi avevano spinto a far politica restano attuali. Quand’ero ragazzo, in tanti avevamo in camera il poster di Angela Davis, afroamericana e comunista. E anche se io sono bianco e maschio, mi riconosco ancora nelle parole di Angela Davis che di recente, alla domanda su come si identifichi, ha risposto: ‘Comunista, abolizionista, internazionalista, antirazzista, anticapitalista, femminista, nera, queer, attivista, dalla parte dei lavoratori, rivoluzionaria, intellettuale, creatrice di comunità. È sufficiente?’”. u

Giovanni De Mauro

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ALESSANDRO LUBELLO

Un accordo storico e una sfida per l’Europa Nonostante i limiti, il recovery fund è una grande scommessa e una prova di solidarietà.

CHRISTIAN RAIMO

Un paese senza ricerca universitaria Biblioteche chiuse, incertezza economica. In Italia la pandemia ha peggiorato una situazione già precaria.

Articoli più letti

1L’allarme dell’Italia ignorato

2Le ferite di Genova

3I confini in Europa potrebbero richiudere

4Porno virtuale

5Chi usa la pandemia per un mondo più disuguale

Internazionale.itOnline

Attualità

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Video

Punti di vista

Cultura

ANNALISA CAMILLI

Qual è il futuro del teatro e dei festival? I lavoratori dello spettacolo fanno i conti con la crisi causata dalla pandemia. Un reportage da Santarcangelo di Romagna.

FRANCESCO ERBANI

La Roma dell’abusivismo e le comunali La scelta delle decine di migliaia di persone che abitano in case prima abusive e poi condonate è determinante per chiunque si candidi al Campidoglio.

CLAUDIA DURASTANTI

Passare il microfono agli altri La lettera su Harper’s Magazine contro la cancel culture rischia di non rendere giustizia ai movimenti per i diritti sociali.

GIOVANNI ANSALDO

Guida ai concerti dell’estate 2020 I festival hanno dovuto ridimensionarsi, ma ci saranno comunque diversi eventi interessanti.

PORTFOLIO

Stromboli 1949 Un fotoreporter va sull’isola per raccontare un film, una storia d’amore e una comunità dimenticata.

DANIELE CASSANDRO

Cowboy tossici in chiesa Ci sono dischi così belli che condividerli è una specie di missione. The Trinity session è uno di quelli.

Prima del femminicidioViolenze coniugali e femminicidi sono sempre preceduti da forme di controllo. Nel video di Le Monde due donne raccontano gli abusi fisici e psicologici che sono state costrette a subire per anni dagli ex mariti, e come sono riuscite a uscirne.

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Questi articoli

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Memorabili

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Dragona (Roma), luglio 2020

Sognare su TikTok È un social network diffuso in tutto il mondo tra gli adolescenti e i giovani sotto i trent’anni. Portentoso mezzo di marketing virale e di raccolta dati in mano a un’azienda cinese. L’articolo di Alia Allana, dall’archivio di Internazionale.

Calcutta, India, 2019

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Immagini

A perdita d’occhioManaus, Brasile20 luglio 2020

Le tombe nel cimitero Nossa Senhora Aparecida. Con almeno due milioni di contagi e più di 80mila morti, il Brasile è il secondo paese più colpito al mondo dalla pandemia di covid-19, dopo gli Stati Uniti. Due ministri del governo di Jair Bolsonaro sono risultati positivi al virus, mentre l’Organizzazione mon-diale della sanità ha lanciato l’allarme sul rischio di un aumento dei contagi tra le comunità indigene in tutto il con-tinente americano. Secondo i dati ag-giornati all’inizio di luglio in Brasile almeno 15mila indigeni sono risultati positivi al tampone, diecimila dei qua-li vivono in aree protette. Foto di Mi-chael Dantas (Afp/Getty Images)

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Immagini

Stato di poliziaPortland, Stati Uniti20 luglio 2020

Le madri che hanno formato un grup-po contro la violenza della polizia pro-testano davanti al tribunale distrettua-le di Portland, in Oregon. Nella città le manifestazioni contro gli abusi delle forze dell’ordine sono cominciate su-bito dopo l’uccisione di George Floyd a Minneapolis, il 25 maggio, e da allora si ripetono ogni giorno. All’inizio di lu-glio il presidente Donald Trump ha mandato in città agenti del diparti-mento della sicurezza nazionale. Sui social network sono stati diffusi video in cui si vedono gli agenti, con equi-paggiamento militare, picchiare mani-festanti pacifici e caricarli su veicoli non contrassegnati. Foto di Mason

Trinca (The New Yor k Times/Contrasto)

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Immagini

Rafting di gruppoDalian, Cina10 luglio 2020

Turisti in canotto si preparano a fare rafting sul monte Buyun, a Dalian, nel-la provincia nordorientale del Liao-ning. La Cina ha da poco allentato le restrizioni al turismo interno, consen-tendo le visite guidate di gruppo e al-zando il numero di visitatori giornalie-ri ammessi nei siti. Foto di Wang Hua (Vcg/Getty Images)

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12 Internazionale 1368 | 24 luglio 2020

[email protected]

Dissonanza u Leggo l’espressione “disso-nanza cognitiva” nell’edito-riale di Giovanni De Mauro e ne sono subito colpito. Quan-do ho scoperto di avere la dis-sonanza cognitiva? Quando per la prima volta ho letto sui giornali che l’Italia non do-vrebbe vendere le corvette all’Egitto finché non avrà una risposta decente sulla morte di Giulio Regeni. Se analizzia-mo il commercio internazio-nale di armi dovremmo sape-re che la mancata vendita non si traduce in una rinuncia alle armi da parte dell’Egitto, il quale ha senz’altro la fila di fornitori. E se noi non vendia-mo le armi, il nostro bilancio ne risente e ci saranno anche dei lavoratori licenziati. Ecco perché mi ha colpito la disso-nanza cognitiva. È più giusto rifiutarsi di vendere armi e la-sciare gli altri a fare affari o è più giusto venderle, tanto se non lo facciamo noi ci pensa-no i nostri concorrenti? Cesare Fiorucci u Attenzione a dare per spac-

ciato Donald Trump. Il candi-dato dei democratici, Joe Bi-den, sembra tutt’altro che au-torevole. Si potrebbe invece usare il concetto di dissonan-za cognitiva anche per i fatti di casa nostra. Perché non parla-re dell’“andrà tutto bene” e della reale situazione econo-mica del paese, dei vari decre-ti rilancio, della cassa integra-zione che non arriva, del pa-gamento delle tasse che non sarà posticipato per le partite iva in grandissima difficoltà, della ripartenza che non c’è ancora stata? Flavio Montuschi

I terremoti non smuovono la burocrazia u Ho apprezzato l’articolo di Morten Beiter sulla ricostru-zione di Accumoli e Amatrice (Internazionale 1366). Vorrei gridare a gran voce che sono proprio gli occhi esterni (in questo caso di un inviato da-nese) che riescono a mettere a fuoco le nostre ataviche stor-ture, dalla burocrazia all’ina-deguatezza delle classi diri-

genti alla stanchezza e rasse-gnazione sociali. Non sono luoghi comuni e pregiudizi. Spesso sono gli occhi degli al-tri a farci capire come siamo, e non degli autoreferenziali specchi. Nicola Cocco

Errata corrige u Su Internazionale 1367, a pagina 44, Florian Philippot ha abbandonato il Front Na-tional nel 2017. A pagina 26, il politico maliano Soumaïla Cissé non è stato rapito nel su-dest del Mali, ma vicino a Niafunké, nella parte centro-settentrionale del paese. Errori da segnalare? [email protected]

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Mio figlio di 20 anni, che vi-ve all’estero, verrà a trovar-ci tra qualche settimana e mi ha annunciato che deve parlarci di qualcosa di im-portante. Da mamma, so-no quasi certa che voglia fi-nalmente rivelarci di esse-re gay e vorrei sapere cosa dobbiamo fare.–Anna e

Giacomo

Mentre riflettevo sulla tua do-manda, ho avuto la visione di una festa a sorpresa per il co-ming out di vostro figlio: lui entra a casa con le valigie e viene investito da una pioggia di coriandoli luccicanti e mu-

sica di Lady Gaga. Nel salotto decorato con palloncini arco-baleno ci sono i suoi amici più qualche ragazzo a torso nudo e delle drag queen dal look impeccabile. Voi genitori, en-trambi con un boa di piume di struzzo intorno al collo, corre-te ad abbracciarlo mentre lui è ancora sotto shock e gli dite: “Figlio mio, tu sei fa-vo-lo-sa! Siamo così felici che sei gay!”. Se il mio coming out fosse an-dato così ne sarei stato molto felice, ma la vita non è un so-gno. La mia risposta alla tua domanda è semplicemente: niente. Se vostro figlio vi dirà che è omosessuale, non do-

vrete fare assolutamente niente. Non dovrete amarlo né più né meno di quanto lo amate già, non dovrete preoc-cuparvi di più per lui, non do-vrete smettere di sostenerlo come avete sempre fatto. Vi-sto che non vi dirà nulla che non sapete già, l’unica novità sarà la possibilità di avere una comunicazione più aperta sul-la sua vita sentimentale e for-se un maggior grado di intimi-tà. E succederà spontanea-mente. Certo, se vi è piaciuta molto l’idea della festa, chi so-no io per fermarvi. [email protected]

Dear Daddy Claudio Rossi Marcelli

Una festa da sogno

Gestiminimi

u Parliamo di romanzi. In uno dei suoi saggi, quello dedicato alla Storia dell’occhio di Geor-ges Bataille, Roland Barthes usava un bella formula. L’im-maginazione romanzesca, di-ceva, è “immaginazione timi-da”. Perché? Perché il roman-zo è succube del probabile, che per sua natura è noioso. Meglio dunque l’immagina-zione poetica che, secondo Barthes-Bataille, si nutre di impossibile. Bello, ci sarebbe da ragionare. Ma qui lasciamo da parte l’impossibile, mettia-mo tra parentesi il probabile e sottolineiamo “noioso”. Il ri-schio è che, specialmente nel-la tradizione italiana, ciò che insistiamo a chiamare “vera letteratura” approdi proprio a questo: la noia. Soprattutto perché, nel concepire i nostri testi ambiziosi, nello scriverli, scansiamo come la peste tutto ciò che non sia coerente con la nostra poverissima esperienza quotidiana. La conseguenza è che quel poco che movimenta le storie finisce abusato nei li-bri cosiddetti di intratteni-mento, mentre i nostri libri-li-bri lavorano di bulino su gesti minimi e intimi rovelli. Inutile dire che ogni tanto qualche persona autorevole si sveglia e scopre che non pochissimi libri di intrattenimento sono libri-libri e parecchi libri-libri non valgono un tubo. Ma que-sto non scuote per niente l’or-dine gerarchico delle nostre lettere, ed è un peccato, per-ché far cadere qualche stecca-to in modo definitivo non sa-rebbe male.

Parole Domenico Starnone

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«A ottant’anni volevo prevedere l’uscita di scena di Montalbano, mi èvenuta l’idea e non me la sono fatta scappare. Quindi mi sono trovato ascrivere questo romanzo che rappresenta il capitolo finale; l’ultimo librodella serie. E l’ho mandato al mio editore dicendo di tenerlo in un cassettoe di pubblicarlo solo quando non ci sarò più».

A. C.

Andrea Camilleri

Riccardino

L’ultimo romanzo del

commissario Montalbano

Sellerio editore Palermo

Andrea Camilleri

Riccardino

Andrea Camilleri

RiccardinoSeguito dalla prima stesura del 2005

Sellerio

www.sellerio.it

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Internazionale 1368 | 24 luglio 2020 15

Editoriali

Donald Trump soffia sul fuoco

Un passo avanti per l’Europa

The Washington Post, Stati Uniti

Elodie Lamer, Le Soir, Belgio

Il diritto di protestare è garantito dalla costitu-zione statunitense, e qualsiasi tentativo faccia il governo per negarlo deve essere considerato un affronto ai nostri valori più preziosi. Il vandali-smo e le violenze che per più di un mese hanno macchiato le proteste pacifiche di Portland, in Oregon, sono qualcosa di diverso: un danno ar-recato a cittadini incolpevoli e un regalo politico per il presidente Donald Trump.

Come prevedibile, Trump ha approfittato dei disordini a Portland per distogliere l’atten-zione dalla pandemia e sfruttare le divisioni del paese, sempre più profonde e molto utili per i suoi obiettivi politici. In nome della sicurezza, il presidente ha militarizzato le forze di polizia. Gli agenti sembrano aver ricevuto l’ordine di gettare benzina sul fuoco di una situazione già molto tesa dopo una lunga serie di manifesta-zioni. Queste truppe – non si possono chiamare

in altro modo – ricordano le milizie dei regimi dittatoriali: si spostano su veicoli che non hanno segni di riconoscimento, prelevano i manife-stanti dalle strade senza motivo e non hanno sulle uniformi nomi o codici identificativi.

Trump ha sfruttato la presenza della sinistra radicale per definire tutti i manifestanti “anar-chici” e avere un pretesto per giustificare l’invio delle truppe, che non erano state richieste dalle autorità locali. Con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali, in ritardo nei sondaggi e con deci-ne di migliaia di nuovi casi di covid-19 al giorno, in futuro Trump potrebbe riproporre questa strategia anche in altre città.

L’odio e le divisioni del paese sono alla base della dottrina politica di Trump e della sua stra-tegia per la rielezione. Il presidente è contento se la tensione sale, e il suo scriteriato ricorso alla forza serve a ottenere proprio questo. ◆ as

Robert Schuman, uno dei padri fondatori dell’Unione europea, aveva l’abitudine di dire ai politici europei: “Voi non dovete negoziare. Voi dovete trovare una soluzione”. L’accordo sul piano di rilancio europeo, raggiunto nono-stante le forti tensioni tra i leader, dimostra che questa saggezza ha risuonato nuovamente tra le mura della sede del consiglio europeo.

I 27 hanno trovato un accordo su una solu-zione storica che era difficile immaginare fino a pochi mesi fa, anche se con un taglio di cento miliardi rispetto alle ambizioni iniziali. Il piano prevede di condividere il debito per aiutare i paesi più colpiti da una crisi sanitaria ed econo-mica che nessuno ha provocato e nessuno po-teva prevedere. È lo strumento di stabilità eco-nomica che l’eurozona non era riuscita a creare un anno e mezzo fa. È una svolta storica per la Germania, che ha abbandonato l’ambiguità degli ultimi due anni. Da settimane Berlino si è schierata con decisione al fianco della Francia, facendo cadere il tabù della condivisione del debito.

È davvero il salto decisivo verso il federali-smo e l’integrazione europea che molti atten-devano? In realtà non è ancora detto che que-sto strumento di solidarietà rappresenti una mutazione genetica della nostra Unione, per-

ché i paesi che si sono opposti hanno fatto in modo di inserire una data di scadenza precisa. Il primo ministro olandese Mark Rutte, che ha dichiarato di non essere andato a Bruxelles per farsi nuovi amici, incarna l’idea secondo cui il pragmatismo economico deve prevalere sulla fratellanza tra i popoli e sulla consapevolezza di un destino comune. Gli aiuti non rimborsa-bili devono restare un’eccezione, anche in tem-pi di crisi. L’accordo dimostra anche che i paesi contrari a un cambiamento nella natura dell’U-nione sono capaci di organizzarsi.

A febbraio, quando era stato fatto il primo tentativo per trovare un accordo sul bilancio europeo, questi paesi erano riusciti a paralizza-re il consiglio europeo. Ma stavolta gli altri lea-der sono riusciti a superare il loro muro e a di-mostrare l’incoerenza della loro posizione, dato che i tagli al prossimo bilancio europeo riguardano soprattutto le politiche promosse da questi paesi.

A breve termine i tagli danneggeranno le ambizioni europee. Ma questo dimostra che i paesi favorevoli all’integrazione sono pronti a fare dei sacrifici per costruire un’altra Europa. Nei prossimi anni bisognerà rendere perma-nenti queste conquiste, perché i sacrifici non siano stati vani. ◆ as

“Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio,di quante se ne sognano nella vostra filosofia”William Shakespeare, Amleto Direttore Giovanni De MauroVicedirettori Elena Boille, Chiara Nielsen, Alberto Notarbartolo, Jacopo ZanchiniEditor Giovanni Ansaldo (opinioni), Daniele Cassandro (cultura), Carlo Ciurlo (viaggi, visti dagli altri), Gabriele Crescente (Europa), Camilla Desideri (America Latina), Simon Dunaway (attualità), Francesca Gnetti (Medio Oriente), Alessandro Lubello (economia), Alessio Marchionna (Stati Uniti), Andrea Pipino (Europa), Francesca Sibani (Africa), Junko Terao (Asia e Pacifico), Piero Zardo (cultura, caposervizio)Copy editor Giovanna Chioini (web, caposervizio), Anna Franchin, Pierfrancesco Romano (coordinamento, caporedattore), Giulia ZoliPhoto editor Giovanna D’Ascenzi (web), Mélissa Jollivet, Maysa Moroni, Rosy Santella (web)Impaginazione Pasquale Cavorsi (caposervizio), Marta RussoWeb Annalisa Camilli, Stefania Mascetti (caposervizio), Martina Recchiuti (caposervizio), Giuseppe Rizzo, Giulia TestaInternazionale a Ferrara Luisa Ciffolilli, Alberto EmilettiSegreteria Teresa Censini, Monica Paolucci, Gabriella Piscitelli, Angelo Sellitto Correzione di bozze Sara Esposito, Lulli Bertini Traduzioni I traduttori sono indicati dalla sigla alla fine degli articoli. Matteo Colombo, Stefania De Franco, Federico Ferrone, Susanna Karasz, Giusy Muzzopappa, Fabrizio Saulini, Andrea Sparacino, Mihaela Topala, Bruna Tortorella, Nicola Vincenzoni Disegni Anna Keen. I ritratti dei columnist sono di Scott Menchin Progetto grafico Mark Porter Hanno collaborato Gian Paolo Accardo, Giulia Ansaldo, Cecilia Attanasio Ghezzi, Gabriele Battaglia, Gaia Berruto, Francesco Boille, Giorgio Cappozzo, Catherine Cornet, Sergio Fant, Claudia Grisanti, Ijin Hong, Anita Joshi, Alberto Riva, Andreana Saint Amour, Francesca Spinelli, Laura Tonon, Pauline Valkenet, Francisco Vilalta, Guido Vitiello, Marco ZappaEditore Internazionale spa Consiglio di amministrazione Brunetto Tini (presidente), Giuseppe Cornetto Bourlot (vicepresidente), Alessandro Spaventa (amministratore delegato), Giancarlo Abete, Emanuele Bevilacqua, Giovanni De Mauro, Giovanni Lo StortoSede legale via Prenestina 685, 00155 Roma Produzione e diffusione Angelo Sellitto Amministrazione Tommasa Palumbo, Arianna Castelli, Alessia SalvittiConcessionaria esclusiva per la pubblicità Agenzia del marketing editorialeTel. 06 6953 9313, 06 6953 9312 [email protected] Download Pubblicità srlStampa Elcograf spa, via Mondadori 15, 37131 Verona Distribuzione Press Di, Segrate (Mi)Copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale. Significa che può essere riprodotto a patto di citare Internazionale, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Per questioni di diritti non possiamo applicare questa licenza agli articoli che compriamo dai giornali stranieri.Info: [email protected]

Registrazione tribunale di Roma n. 433 del 4 ottobre 1993Direttore responsabile Giovanni De MauroChiuso in redazione alle 19 di mercoledì 22 luglio 2020Pubblicazione a stampa ISSN 1122-2832 Pubblicazione online ISSN 2499-1600

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Page 16: Internazionale - 24 07 2020

16 Internazionale 1368 | 24 luglio 2020

Attualità

Uno dei vertici più lunghi della storia dell’Unione europea si è concluso la mattina del 21 lu-glio con un successo. Per la

prima volta dalla sua nascita, l’Unione si indebita per combattere un problema co-mune: le conseguenze della pandemia di covid-19.

Per quattro giorni i 27 capi di stato e di governo hanno negoziato fino a notte fonda. Le sessioni sono state interrotte, riprese in ritardo, interrotte di nuovo e riprese. Le trattative sono state dure, a volte i toni si sono accesi: nessuno ha fat-to regali, ma tutti sono rimasti al loro po-sto.

In certi momenti sembrava di essere tornati all’apice della crisi dell’euro. Ma nonostante le dispute e gli scontri, un punto è rimasto fermo: i 27 volevano rag-giungere un accordo. I capi di stato e di governo hanno capito che la pandemia rappresenta una sfida storica, proprio co-me la minaccia di un crollo dell’eurozona qualche anno fa. Se fossero tornati a casa

senza aver trovato un compromesso, avrebbero dovuto convivere per sempre con le accuse di egoismo autodistruttivo. Perché il rischio sarebbe stato di non so-pravvivere alla pandemia come comu-nità.

Ma è così che funziona l’Europa: sen-za negoziati drammatici non si va avanti. Il primo ministro olandese Mark Rutte ha lottato fino all’ultimo. I suoi obiettivi era-no spendere il meno possibile e imporre controlli rigorosi sui fondi erogati. Ha ve-stito i panni del severo calvinista, incas-sando diverse critiche.

A ben guardare, però, tutti hanno combattuto per la loro causa. Il primo mi-nistro italiano Giuseppe Conte voleva ottenere più soldi possibile per il suo pae-se, senza doversi assumere impegni su come spenderli e senza fare promesse di riforme. Il primo ministro ungherese Viktor Orbán voleva uscire dal vertice con il permesso di continuare a governa-re in modo autoritario, senza interrom-pere il flusso di finanziamenti da Bruxel-les a Budapest.

Per alcuni la posta in gioco era più al-

Un compromessoche può salvare l’Unione

Dopo quattro giorni di durissimi negoziati, i leader europei sono riusciti a trovare un accordo sul piano di rilancio che dovrebbe aiutare i paesi più colpiti dalla pandemia a superare la crisi

Ulrich Ladurner, Die Zeit, Germania

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Il Consiglio europeo a Bruxelles, 17 luglio 2020

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ta. Non è per un improvviso moto di ge-nerosità che la cancelliera tedesca Ange-la Merkel ha proposto, di comune accor-do con il presidente francese Emmanuel Macron, di sostenere con 500 miliardi di euro i paesi più colpiti dalla pandemia, come l’Italia e la Spagna. Lo ha fatto per-ché sa che anche la Germania si trovereb-be in grave difficoltà se l’Italia non si ri-prendesse. Lo ha fatto perché in gioco c’è l’integrità del mercato unico europeo, e quindi anche il futuro dell’economia te-desca.

Se si considerano i molteplici interessi in gioco, quello che è stato raggiunto in quattro giorni appare ancora più impor-tante. I capi di stato e di governo hanno preso decisioni per un totale di 1.800 mi-liardi di euro. Il pacchetto di aiuti, il co-siddetto recovery fund, sarà dotato di 750 miliardi, e il bilancio dell’Unione per il periodo 2021-2027 ammonterà a più di mille miliardi.

Qualcosa per ognunoTutti hanno avuto quello che volevano. Rutte, portavoce dei cosiddetti paesi fru-gali (Paesi Bassi, Austria, Danimarca, Svezia), ha ottenuto che dei 750 miliardi solo 390 siano assegnati come sussidi a fondo perduto. Allo stesso tempo, questi paesi si sono assicurati degli sconti sui loro contributi al bilancio europeo. Or-bán ha dovuto accettare che i fondi euro-pei siano vincolati al rispetto dello stato di diritto, ma il meccanismo è così farra-ginoso che può tranquillamente accettar-lo. Germania e Francia hanno raggiunto il loro obiettivo, ovvero che siano conces-si ingenti sussidi ai paesi più colpiti dalla pandemia. Il governo italiano può essere soddisfatto.

Ma questo vertice non è solo la dimo-strazione che la macchina europea del compromesso funziona. È molto di più: per la prima volta la Commissione euro-pea prenderà in prestito denaro sul mer-cato dei capitali internazionali per finan-ziare il piano. È una grande novità, un tabù infranto: il primo passo verso la con-divisione del debito.

Certo, ne sarà valsa la pena solo se il denaro arriverà dove serve davvero e se sarà usato in modo produttivo. Solo allo-ra questo vertice potrà essere definito storico, e l’Europa avrà superato un gran-de ostacolo verso un’unione ancora più profonda. u nv

Come funzionerà il fondo per la ripresa?L’elemento centrale del piano, battez-zato Next Generation Eu, prevede che la Commissione europea prenda in pre-stito 750 miliardi di euro sui mercati fi-nanziari. Circa 390 miliardi saranno di-stribuiti in forma di sussidi, e il resto co-me prestiti, per aiutare la ripresa negli stati dell'Unione.

La parte più importante di questi sussidi, che vale 312,5 miliardi di euro, è il cosiddetto dispositivo per la ripresa e la resilienza, che è stato il principale og-getto della trattativa. Gli stati dovranno presentare dei piani nazionali per la ri-presa e impegnarsi a realizzare delle ri-forme per ottenere la loro parte dei fi-nanziamenti, che saranno erogati tra il 2021 e il 2023. I rimanenti 77,5 miliardi di euro di sussidi saranno usati per i normali programmi di bilancio dell’U-nione.

In che modo sarà distribuito il denaro?Le regole su come suddividere il denaro tra i paesi e sui meccanismi di vigilanza per garantire che gli investimenti pro-ducano le riforme promesse sono state tra i punti più controversi del vertice, in-sieme alla dotazione complessiva dello stesso recovery fund. Su insistenza di molti governi, il consiglio ha modificato i criteri proposti dalla Commissione per distribuire i fondi in proporzione al danno che i singoli paesi hanno subìto a causa della pandemia, invece che in ba-se ai dati sulla crescita e sulla disoccu-pazione precedenti alla crisi.

Dopo una lunga battaglia tra Paesi Bassi e Italia, è stato anche istituito un meccanismo che permetterà a ogni go-verno di sollevare delle obiezioni se ri-terrà che un altro paese non stia realiz-zando le riforme promesse in cambio degli aiuti. Questo sistema, che era una

delle principali richieste del primo mi-nistro olandese Mark Rutte, permetterà a ogni governo di bloccare momentane-amente i trasferimenti finanziari di Bruxelles verso un paese, esigendo che i leader europei verifichino l’effettivo ri-spetto degli impegni. Ma questo pro-cesso di verifica avrà una durata limita-ta a tre mesi e l’ultima parola spetterà formalmente alla Commissione euro-pea.

I leader si sono scontrati anche sul meccanismo che dovrebbe costringere gli stati a rispettare i valori democratici e i princìpi dello stato di diritto per poter ricevere i fondi. Il primo ministro un-gherese Viktor Orbán ha respinto que-sta proposta, con il risultato che i leader nazionali hanno in parte scaricato sulla Commissione il compito di elaborare nuovi strumenti di salvaguardia, pur approvando la possibilità che una mag-gioranza ponderata di governi possa bloccare i finanziamenti a un paese per questioni relative allo stato di diritto.

Cosa c’entra il bilancio dell’Unio-ne?Tutto il pacchetto è stato negoziato in-sieme al bilancio dei prossimi sette an-ni, che ammonterà a 1.074 miliardi di euro e sarà in vigore fino al 2027. Tra i punti più discussi ci sono gli sconti con-cessi agli “stati frugali” (Paesi Bassi, Austria, Danimarca e Svezia) e alla Ger-mania sui loro normali contributi al bi-lancio europeo. I leader hanno quindi stabilito i contributi nazionali per i prossimi anni, e hanno concesso alla Commissione il potere di prendere in prestito denaro sui mercati finanziari per contrastare la recessione. Anche se la maggior parte dei soldi ottenuti an-drà al recovery fund, il resto sarà desti-nato a voci già esistenti nel bilancio dell’Unione, come il programma Hori-zon (dedicato alla ricerca scientifica), lo

I punti fondamentalidel piano per la ripresa

Da sapere

Financial Times, Regno Unito

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18 Internazionale 1368 | 24 luglio 2020

Attualitàsviluppo delle aree rurali e il Fondo per una transizione giusta, che dovrebbe aiutare i paesi più poveri a ridurre le emissioni di gas serra. I sussidi destina-ti a questi programmi sono però stati fortemente ridotti rispetto alla prima proposta della Commissione.

Come saranno ripagati i debiti?Le obbligazioni emesse dalla Commis-sione avranno scadenze diverse, ma tutti i debiti dovrebbero essere ripagati entro la fine del 2058. Questo rischia di pesare sui futuri bilanci dell’Unione, e i paesi europei non sono certo ansiosi di aumentare i propri contributi. Bruxelles sperava che gli stati membri acconsen-tissero a trasferirle i ricavi di possibili nuove imposte ecologiche e tasse digi-tali – definite collettivamente “risorse proprie” – per contribuire a finanziare il debito. Ma l’accordo del 21 luglio offre solo una flebile speranza. I leader si so-no impegnati solo su una nuova tassa sui rifiuti plastici non riciclati. Per il re-sto è stata stabilita una tabella di marcia verso nuove risorse proprie, in base alla quale la Commissione dovrà elaborare una proposta per una carbon border tax (una tassa sulle importazioni che do-vrebbe compensare le emissioni di gas serra legate alle merci prodotte nei pae-si esterni all’Unione europea) e per un’imposta digitale. Il risultato è che le spese per finanziare il debito potrebbe-ro finire per pesare sui prossimi bilanci dell’Unione.

Che succede ora? L’accordo del 21 luglio non risolve tutte le questioni. Per poter prendere in pre-stito i fondi, la Commissione ha chiesto di ampliare il suo “spazio di manovra”, cioè il divario tra le spese effettive e il quantitativo massimo di denaro che l’Unione può raccogliere dagli stati. Questa modifica dovrà essere approva-ta dai parlamenti di tutti i paesi, un pro-cesso che non si concluderà prima del 2021. Inoltre il parlamento europeo avrà un ruolo fondamentale nel trasfor-mare questi progetti in legge. Gli euro-deputati dovranno ratificare il bilancio dell’Unione, e vogliono approfittarne per avere voce in capitolo sul recovery fund, anche per garantire un chiaro le-game tra i fondi europei e il rispetto del-lo stato di diritto. u ff

La maggior parte dei giornali eu-ropei ha accolto con soddisfa-zione l’accordo sul recovery fund raggiunto al vertice di

Bruxelles. Le Monde lo definisce “un segnale inequivocabile che i 27 sono de-cisi a preservare la loro unione in un mondo in cui la pandemia ha esacerbato i rapporti di forza tra le potenze e risve-gliato gli istinti nazionalisti”. Secondo El País l’accordo “è un risultato positivo sia per l’Unione nel suo insieme sia per i paesi più colpiti, come la Spagna, che ri-ceveranno la parte più consistente degli aiuti”.

Per Politiken “i leader europei han-no smentito una volta per tutte le voci su una comunità europea stanca, divisa e vicina al divorzio. Se la forza di un ma-trimonio si vede nelle crisi, la famiglia europea gode di ottima salute”. Secon-do il quotidiano danese la premier Met-te Fredriksen, che faceva parte del grup-po dei cosiddetti paesi “frugali”, “è tor-nata a casa con l’onore intatto, grazie agli sconti ottenuti sui contributi al bi-lancio. Ma quella che ora viene celebra-ta come una grande vittoria nazionale resterà un dettaglio da contabili nella prospettiva più ampia della storia euro-pea”.

Anche il premier ungherese Viktor Orbán può dirsi soddisfatto, scrive il settimanale di Budapest Hvg. “La sua principale richiesta è stata accolta: l’e-spressione ‘stato di diritto’ appare una sola volta nell’accordo. Questo, però, non significa che il pagamento delle sovvenzioni europee non sia soggetto a condizioni politiche. Il punto è che la natura di queste condizioni e il mecca-nismo sanzionatorio adottato rendono molto difficile ogni intervento”.

Molto più critica la tedesca Tages-zeitung, secondo la quale il compro-messo raggiunto “lascia l’amaro in boc-ca” e potrebbe aver piantato i semi della prossima crisi: “Per quattro giorni i lea-der dell’Unione hanno mostrato come pensano davvero: in modo nazionale ed

egoistico. I pericolosi riflessi della crisi provocata dalla pandemia sono riemersi più forti che mai: l’Europa si è rivelata non un’unione di valori basata sulla soli-darietà, ma una comunità di egoisti che si aiutano solo in casi di emergenza e a rigide condizioni. Il taglio ai sussidi si-gnifica che i fondi saranno appena suffi-cienti a tappare i buchi nei bilanci di Ro-ma, Madrid o Atene, non per lanciare un vero programma di stimolo. E anche l’Unione dovrà fare economie, perché i debiti andranno ripagati e il bilancio è stato ridotto”. È della stessa opinione il portoghese Expresso: “L’accordo rag-giunto a Bruxelles è peggio di un falli-mento e avrebbe dovuto essere bloccato dal Consiglio europeo. È un altro passo verso la distruzione del progetto euro-peo e la dimostrazione che quattro paesi possono imporre la loro volontà su quel-la di Germania e Francia”.

L’olandese Nrc si concentra sul ruolo svolto dai Paesi Bassi, che secondo alcu-ni dopo la Brexit hanno sostituito il Re-gno Unito nel ruolo di guastafeste. Il premier olandese Mark Rutte ha guida-to il fronte dei paesi frugali ed è stato paragonato alla britannica Margaret Thatcher, che si era opposta fermamen-te a una maggiore integrazione europea. “È un confronto interessante”, scrive Nrc. “Per i Paesi Bassi gli ultimi mesi so-no stati un brusco risveglio. Finora nei negoziati gli olandesi avevano potuto nascondersi dietro i britannici, ma dopo l’uscita del Regno Unito dall’Unione Rutte ha dovuto esporsi per difendere i suoi interessi. Inoltre bisogna aggiunge-re la crisi innescata dal covid-19 e l’im-provvisa svolta della cancelliera tedesca Angela Merkel. Ma i Paesi Bassi non so-no certo il Regno Unito. Per un piccolo stato basato sul commercio, privo di ri-levanza militare e geopolitica, l’impor-tanza di appartenere all’Unione euro-pea è molto più evidente che per i bri-tannici. Gli olandesi lo sanno benissi-mo, ed è per questo che alla fine sull’ac-cordo c’è anche la loro firma”. u

Tra critiche severe

ed entusiasmo

I commenti

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REGNO UNITO

Interferenzerusse L’influenza russa nel Regno Unito è la “nuova normalità” e il paese è uno dei “principali bersagli occidentali per l’intelli-gence” di Mosca. Sono le con-clusioni a cui arriva il rapporto sull’interferenza russa nel refe-rendum britannico sulla Brexit del 2016, realizzato dalla com-missione parlamentare britan-nica sull’intelligence e la sicu-rezza (Isc) e reso noto il 21 lu-glio. A quanto pare, la pubblica-zione del testo è stata bloccata per mesi dal primo ministro Bo-ris Johnson per evitare che i contenuti influenzassero gli elettori prima delle elezioni del dicembre 2019. Il documento si

occupa di una serie di temi – dalle campagne di disinforma-zione alla guerra informatica di Mosca, fino al ruolo dei cittadi-ni russi nel Regno Unito – e contiene diversi passaggi oscu-rati, relativi a “questioni alta-mente sensibili”. Il dato politico più interessante, scrive la Bbc, è l’accusa ai servizi segreti britan-nici, ma soprattutto al governo, di aver colpevolmente sottova-lutato la minaccia rappresenta-ta dalle attività russe. Prevedi-bile la risposta ufficiale del Cremlino: il rapporto è frutto di “russofobia” e Mosca non si è mai intromessa nella vicende politiche di altri stati sovrani. “Eppure il fatto che il documen-to dipinga la Russia come un nemico temibile molto proba-bilmente non sarà dispiaciuto al Cremlino”, scrive la Bbc.

Le Spagna è alle prese con un preoccupante aumento di casi di covid-19. Il 22 luglio nel paese erano attivi 224 focolai di contagio, 23 in più rispetto a due giorni prima, associati a 2.622 nuovi casi. Le situazioni più critiche sono in Aragona e in Catalogna. Dopo che la scorsa settimana il tribunale di Lleida aveva annullato la decisione di reintrodurre il lockdown in otto comuni catalani, il governo regionale ha studiato altre raccomandazioni per contenere la diffusione del virus. Come spiega La Vanguardia, i cittadini sono invitati a evitare gli assembramenti di più di dieci persone e gli incontri all’aperto a tarda notte. ◆

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Le protestedi Sofia Dall’8 luglio migliaia di persone manifestano a Sofia (nella foto) per chiedere le dimissioni del governo di Boiko Borisov, accu-sato di corruzione e di avere le-gami con la criminalità. Il primo ministro si rifiuta di ascoltare i manifestanti e sostiene che non ci sono alternative alla sua lea-dership, specialmente in tempo di pandemia. “Ma non sembra capire che stavolta non si tratta di proteste con rivendicazioni sociali. I manifestanti vogliono solo una cosa: le sue dimissio-ni”, scrive Duma. “È ora che Borisov affronti le sue responsa-bilità per aver reso la Bulgaria il paese più povero e più arretrato dell’Unione europea”.

MACEDONIA DEL NORD

Votoeuropeista Le elezioni legislative macedoni del 15 luglio hanno dato la vitto-ria al Partito socialdemocratico (Sdsm) di Zoran Zaev, artefice dell’accordo con la Grecia sul cambio del nome del paese. L’Sdsm ha ottenuto 46 seggi su 120, contro i 44 dei nazionalisti di Vmro-Dpmne, ma per gover-nare dovrà allearsi con i partiti della minoranza albanese. “Per ora una cosa è certa”, ha detto a Radio Free Europe il politolo-go Nikola Dujovski, “l’equilibrio delle forze in parlamento terrà il paese sulla strada verso l’Unio-ne europea”.

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RUSSIA

Una grana per Putin “Mentre Mosca dormiva, a Cha-barovsk, a sette fusi orari di di-stanza, trentamila persone scendevano in piazza gridando slogan come ‘Qui l’autorità sia-mo noi’ e ‘Mosca ascoltaci’”. Così l’Economist racconta le proteste nella città dell’estremo oriente russo, scatenate l’11 lu-glio dall’arresto del governatore regionale Sergej Furgal – eletto nel 2018 sull’onda di una mobili-tazione contro il Cremlino – e andate avanti per una settima-na. Per tutta risposta il 20 luglio il presidente Vladimir Putin ha nominato governatore ad inte-rim Michail Degtjarëv, dello stesso partito di Furgal, i liberal-democratici, in realtà populisti e xenofobi. Secondo Newsru, “la mossa del Cremlino è la peggio-re possibile”, e non servirà a pla-care il malcontento, che nella regione cresce ormai da anni.

IN BREVE

Serbia-Kosovo Il presidente serbo Aleksandar Vučić e il pre-mier kosovaro Avdullah Hoti si sono incontrati a Bruxelles il 16 luglio per rilanciare i colloqui tra i due paesi. Il 12 luglio avevano parlato in videoconferenza. Malta Melvin Theum, l’uomo che avrebbe fatto da interme-diario tra i mandanti e gli esecu-tori dell’omicidio della giornali-sta Daphne Caruana Galizia, è stato ricoverato in ospedale il 21 luglio con ferite da arma da ta-glio. Il 22 luglio doveva compari-re in tribunale come testimone.

Barcellona, 21 luglio 2020

SPAGNA

Un’altra ondata di contagi

Europa

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20 Internazionale 1368 | 24 luglio 2020

Americhe

Sette anni fa il governo statunitense si preparava ad affrontare non una ma due pandemie. Nella primave-ra del 2013 molte persone in Cina

erano state contagiate da un nuovo ceppo dell’influenza aviaria H7N9, mentre un’e-pidemia di Mers, una sindrome respirato-ria causata da un coronavirus, era partita dall’Arabia Saudita diffondendosi in altri paesi. “C’era il rischio che entrambe le epidemie si trasformassero in pandemie”, ricorda Beth Cameron, all’epoca nel con-siglio per la sicurezza nazionale della Ca-sa Bianca.

Alla fine non successe, ma il fatto che in quell’occasione gli Stati Uniti abbiano avuto fortuna non deve farli sentire al si-curo. Un virus non è leale. Non ci rispar-mia solo perché un suo “collega” ci ha già colpiti. Inoltre le pandemie tendono a es-sere imprevedibili. Nonostante anni di studi e ricerche, “non abbiamo ancora

trovato il modo di anticipare l’arrivo di una pandemia”, dice Nídia Trovão, virolo-ga dei National institutes of health, un’a-genzia del dipartimento della salute. In un momento in cui emergono nuove malattie a un ritmo sempre più rapido, l’unica cer-tezza che abbiamo è che le pandemie sono inevitabili. Quindi è solo una questione di tempo prima che due pandemie si verifi-chino contemporaneamente.

Ho pensato per la prima volta alla pos-sibilità di una doppia pandemia a marzo. All’epoca l’idea di dover affrontare due eventi rari nello stesso momento sembra-va inutilmente allarmista, ma poi gli erro-ri del governo federale e la riapertura pre-matura delle attività hanno cancellato i progressi fatti con il distanziamento so-ciale. Da due settimane negli Stati Uniti ci sono più di 60mila nuovi casi di covid-19 al giorno, e anche il tasso di mortalità è in aumento. Quindi la domanda che mi face-vo a marzo torna di attualità. Gli Stati Uni-ti stanno affrontando in modo disastroso un virus che si diffonde velocemente. Co-sa succederebbe se ne arrivasse un altro?

Il covid-19 ci ha fatto capire cosa suc-cede quando un paese si fa trovare impre-parato per un evento raro ma devastante. Dopo mesi di pandemia, oggi le relazioni degli Stati Uniti con gli altri paesi sono sempre più tese, le risorse sanitarie scar-seggiano e gli esperti sono demoralizzati. Più il paese andrà avanti in questa dire-zione e più diventerà vulnerabile a nuovi cataclismi come uragani, incendi e altri virus.

Il Sars-cov-2 è solo uno dei molti coro-navirus presenti nei pipistrelli e in altri animali. I maiali e il pollame sono portato-ri di diversi ceppi del virus dell’influenza potenzialmente pandemici, e nell’ultimo decennio ci sono stati decine di casi di al-levatori contagiati. Secondo le stime, i mammiferi selvatici sono portatori di cir-ca 40mila virus sconosciuti, e un quarto di questi potrebbe trasmettersi agli esseri umani. I cambiamenti climatici e la ridu-

zione degli habitat naturali hanno messo questi virus a contatto con le persone e il bestiame, mentre le città affollate e i viag-gi in aereo hanno facilitato la loro diffusio-ne. “Se dovesse scoppiare un’altra epide-mia, di sicuro seguirà il percorso di quella attuale, perché questo è il mondo che ab-biamo creato”, spiega Jessica Metcalf, ecologa e specialista di malattie infettive dell’università di Princeton.

Incubo logisticoAlcuni fattori fanno crescere il potenziale pandemico di un virus. Le malattie che si trasmettono attraverso i fluidi corporei (ebola), il cibo e l’acqua contaminati (no-rovirus) o le punture d’insetto (zika) si dif-fondono lentamente. Al contrario, i virus respiratori come quello dell’influenza, che si trasmette attraverso i colpi di tosse, gli starnuti e le esalazioni, potrebbero viaggiare con velocità tale da sovrapporsi al covid-19.

Molti paesi hanno imparato dall’espe-

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STATI UNITI

u Dopo un rapido aumento del numero dei contagi – dall’inizio di luglio si registrano circa 60mila nuovi casi di covid-19 al giorno – negli Stati Uniti stanno aumentando anche i ricoveri in ospedale e i morti. La situazione ha portato almeno 27 stati a reintrodurre alcune restrizioni sugli spostamenti e sulle attività economiche. Il 20 luglio il presidente Donald Trump, che per mesi si è rifiutato di indossare la mascherina e di imporre un obbligo a livello federale, ha scritto su Twitter che indossare la mascherina è un gesto patriottico. “Ma il presidente starebbe pensando di bloccare lo stanziamento di nuovi fondi per i test diagnostici e per il tracciamento dei contagi”, scrive il Washington Post.

Da sapere Contagi e ricoveri

La doppia pandemia è un pericolo reale

Il governo di Washington fa ancora fatica a gestire l’epidemia di covid-19. Cosa succederebbe se dovesse diffondersi un altro virus?

Ed Yong, The Atlantic, Stati Uniti

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Page 21: Internazionale - 24 07 2020

Internazionale 1368 | 24 luglio 2020 21

rienza del covid-19 e sono pronti ad af-frontare una nuova pandemia, esatta-mente come i paesi asiatici erano pronti ad affrontare quella attuale grazie alle le-zioni imparate fronteggiando Sars e Mers. Tuttavia, la crisi della solidarietà globale è un problema. “Le nostre leggi internazio-nali sono basate sul presupposto che, in caso di una nuova epidemia, un paese av-verta tempestivamente gli altri e in cam-bio riceva una protezione dalle conse-guenze economiche di questa condivisio-ne delle informazioni”, spiega Alexandra Phelan, che all’università di Georgetown si occupa delle ripercussioni legali delle malattie infettive. Questo “patto” è stato violato durante la pandemia di covid-19, perché la Cina ha nascosto alcune infor-mazioni sull’epidemia e altri paesi hanno subito imposto limitazioni agli sposta-menti. Oggi molti divieti riguardano pro-prio gli statunitensi.

Incapace di gestire una pandemia, Do-nald Trump ha reso gli Stati Uniti ancora

più vulnerabili all’eventualità di doverne gestire una seconda. Ha deciso, per esem-pio, di tagliare il contributo degli Stati Uniti all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Non è chiaro se Trump ab-bia l’autorità legale per farlo, ma anche se la minaccia si rivelasse vuota “avrà co-munque effetti immediati”, spiega Loyce Pace, presidente del Global health coun-cil. I funzionari e gli esperti statunitensi, infatti, si allontaneranno dalle istituzioni internazionali, e questo potrebbe spinge-re i funzionari di altri paesi a fare lo stesso.

Questa situazione non solo danneg-gerà l’Oms in un momento in cui il suo ruolo è essenziale, ma intaccherà ulterior-mente la reputazione degli Stati Uniti nel mondo. Un paese che ha gestito in modo vergognoso un’epidemia, ha fatto razzia delle scorte mondiali di farmaci essenzia-li e non rispetta gli accordi internazionali sarà comprensibilmente ignorato quando scoppierà una nuova crisi.

Una seconda pandemia potrebbe esse-

re gestita bene in paesi dove la popolazio-ne è già in guardia e dove le autorità sono in grado di mettere in atto strategie sanita-rie efficaci, per esempio facendo in modo che i test usati per rilevare la presenza del covid-19 siano modificati per individuare anche il nuovo virus.

Questo ottimismo è giustificato per pa-esi come la Corea del Sud, la Nuova Ze-landa e la Germania, che sono riusciti a controllare la diffusione del covid-19. Ma sembra mal riposto per gli Stati Uniti, il Brasile, la Russia o l’India, ancora nella fase acuta dell’epidemia e chiaramente in difficoltà. In questi paesi il covid nascon-derebbe la diffusione di qualsiasi nuovo virus respiratorio, che “potrebbe fare enormi danni prima di essere individua-to”, sottolinea Cameron. Rilevare la pre-senza del nuovo virus sarebbe difficile anche perché “tutte le risorse che solita-mente dedichiamo alla ricerca di poten-ziali virus, dai tamponi agli operatori fino ai ricercatori che analizzano i dati, sono impiegate per l’emergenza attuale”, spie-ga Lauren Sauer dell’università Johns Hopkins. Le scorte di forniture sanitarie stanno per esaurirsi, mentre molti opera-tori sono al limite del crollo nervoso.

Nessuno è immune

In caso di una doppia pandemia gli ospe-dali statunitensi andrebbero in crisi. In molti stati i pronto soccorso e le terapie intensive sono già quasi pieni. Un secondo virus, anche se meno letale e aggressivo del Sars-cov-2, creerebbe una carenza di posti letto ed equipaggiamenti protettivi, e sarebbe un incubo dal punto di vista logi-stico. “Immaginiamo di avere una pande-mia di covid-19 e contemporaneamente una seconda pandemia d’influenza”, ipo-tizza Sauer. “In quel caso ci sarebbero due gruppi diversi di pazienti che andrebbero separati” per evitare che una persona af-fetta da covid-19 possa contrarre anche il virus dell’influenza, e viceversa. I medici e gli infermieri, sfiniti da mesi di lavoro contro il covid-19, dovrebbero gestire nuovi e complicati protocolli sanitari.

Un secondo virus avrebbe effetti parti-colarmente devastanti se prendesse di mira una parte della popolazione diversa rispetto a quella colpita dal covid-19. Con-trariamente al Sars-cov-2, particolarmen-te pericoloso per gli anziani, molti virus respiratori attaccano soprattutto i bambi-ni, mentre la pandemia d’influenza del

Miami, Stati Uniti, 14 luglio 2020

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Page 22: Internazionale - 24 07 2020

Americhe1918 colpì duramente gli adulti tra i venti e i quarant’anni. “Sarebbe devastante a li-vello economico e non avremmo più una fascia d’età protetta”, spiega Zeynep Tu-fekci, sociologa dell’università del North Carolina.

Essere contagiati da virus respiratori diversi contemporaneamente è possibile. All’inizio della primavera, per esempio, negli Stati Uniti alcuni adulti avevano contratto sia l’influenza sia il covid-19. Ma è difficile prevedere cosa succede quando due patogeni particolarmente aggressivi colpiscono la stessa persona. I virus si ri-producono assumendo il controllo delle cellule dell’organismo ospitante, dunque due virus potrebbero ostacolarsi a vicenda contendendosi le stesse cellule. Inoltre è possibile che un virus inneschi una reazio-ne immunitaria, come un’infiammazione, che ostacolerebbe l’altro virus. Ma potreb-be anche succedere che due malattie gravi si peggiorino a vicenda. “Al centro di tutti questi problemi c’è il sistema immunita-rio”, un sistema complicatissimo, ammet-te Metcalf.

Domande in sospesoCapire come funziona il sistema immuni-tario è particolarmente difficile durante una pandemia. In questo momento quasi tutte le energie della comunità scientifica sono dedicate allo studio del covid-19, ep-pure ci sono ancora domande fondamen-tali senza risposta. Perché alcune persone si ammalano e altre no? Qual è la gamma completa dei sintomi? Perché alcune per-sone sono molto più contagiose di altre? Se scoppiasse una seconda pandemia i ri-cercatori dovrebbero studiare i due virus individualmente e anche le interazioni tra loro. Invece di avere risposta a quelle do-mande, l’incertezza aumenterebbe. La confusione sulla pandemia attuale ha già spinto molte persone a sposare teorie in-fondate sul virus. Se si verificasse un se-condo evento improbabile, la paranoia del complotto crescerebbe ulteriormente.

Il 6 luglio si è diffusa la notizia di un ca-so di peste bubbonica nella Mongolia In-terna, una regione della Cina settentrio-nale. La peste è endemica tra i roditori della zona, ma anche tra quelli degli Stati Uniti sudoccidentali. Ogni anno un nu-mero limitato di statunitensi si ammala di peste. Anche se la malattia è curabile con gli antibiotici, la notizia proveniente dalla Cina ha fatto il giro del mondo. “Succede

ancora nel 2020?”, hanno scritto in tanti.Le minacce che attirano di più l’atten-

zione non sono necessariamente le più pericolose. A maggio gli statunitensi sono stati presi dal panico a causa dei cosiddet-ti calabroni assassini, ma nel frattempo la peggiore invasione di locuste degli ultimi settant’anni ha devastato i campi dell’Afri-ca orientale. Mentre un singolo caso di peste in Cina conquista le prima pagine dei giornali, la Repubblica Democratica del Congo è colpita da una raffica di virus: l’ebola è tornato, c’è il covid-19 e anche la peggiore epidemia di morbillo del mondo.

Gli Stati Uniti rischiano di ritrovarsi in una situazione simile. Anche se non do-vesse scoppiare una seconda pandemia, si sta avvicinando l’influenza stagionale. “Sono molto preoccupata”, ammette Sau-er. I giovani adulti, categoria demografica che ha contribuito all’attuale aumento dei casi di covid-19, potrebbero veicolare an-che una brutta stagione influen-zale. Le persone che in condizio-ni normali gestirebbero l’in-fluenza oggi non hanno il tempo di farlo. Il vaccino contro l’in-fluenza stagionale potrebbe ri-sultare meno efficace, perché i virus dell’influenza cambiano costantemente e devono essere accuratamente monitorati per garantire che ogni anno il vaccino sia adatto ai ceppi in circolazione. Ma il pro-cesso risulta estremamente complicato in un momento in cui il covid-19 monopoliz-za le energie e il tempo.

Se la pandemia attuale non sarà supe-rata, altre malattie conosciute e preveni-bili saranno libere di diffondersi. I Centri per il controllo e la prevenzione delle ma-lattie, la massima autorità sanitaria statu-nitense, hanno comunicato che in Michi-gan la percentuale di bambini di cinque mesi in regola con le vaccinazioni è scesa dal 68 per cento al 50 per cento tra il 2019 e il 2020. Le vaccinazioni infantili si sono ridotte in molti altri stati a causa della chiusura degli studi pediatrici o della ri-nuncia dei genitori.

Le iniziative globali per combattere

l’hiv, la malaria e la tubercolosi sono state indebolite dalla necessità di convogliare gli operatori verso la risposta al covid-19, oltre che dalla carenza di forniture e dall’ingolfamento dei laboratori. I pro-grammi per le vaccinazioni sono stati so-spesi in molti paesi, provocando un au-mento dei casi di morbillo, colera e difte-rite. Se queste campagne di vaccinazione rimarranno in pausa per troppo tempo, il mondo rischia di perdere decenni di pro-gressi contro la poliomielite, una malattia che è stata quasi del tutto debellata.

Tappare i buchi non basta“Quando due o più malattie si combina-no, interagiscono e sono influenzate da un fenomeno più grande si parla di sinde-mia”, spiega Emily Mendenhall, antropo-loga medica dell’università di George-town. Il covid-19, per esempio, colpisce in modo sproporzionato le persone affette da diabete e disturbi cardiaci, ma tutte queste malattie sono anche un effetto del-le disuguaglianze. Negli Stati Uniti neri e ispanici hanno più probabilità di vivere in un quartiere povero, di non seguire una dieta sana e di svolgere un lavoro mal re-tribuito e considerato “essenziale”, cioè che non si può interrompere durante un’e-

pidemia. Quindi sono più espo-sti sia alle malattie croniche sia al covid.

Il concetto di sindemia è im-portante, perché ci ricorda che le malattie sono influenzate da

ogni aspetto di una società, dai valori cul-turali che determinano chi viene curato e chi viene ignorato, ma anche dalle scelte politiche che definiscono la capacità di un paese di rispondere a una minaccia. Per prepararsi adeguatamente alle pandemie – una, due o anche cinque – gli Stati Uniti non hanno bisogno solo di innovazioni nel campo biomedico, come vaccini e farma-ci. “Dobbiamo tappare tutti i buchi”, spie-ga Tufekci. Questo significa investire nel-la sanità pubblica per garantire cure medi-che a tutti. Ma bisogna anche smantellare le politiche razziste che hanno costretto le comunità emarginate a sostenere il peso dell’epidemia. u as Ed Yong è l’editor scientifico della rivista statunitense The Atlantic. In Italia ha pub-blicato Contengo moltitudini: i microbi dentro di noi e una visione più grande della vita (La nave di Teseo 2019).

Il mondo rischia di cancellare decenni di progressi contro la poliomielite

22 Internazionale 1368 | 24 luglio 2020

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Internazionale 1368 | 24 luglio 2020 23

CANADA

Lavoratoriabbandonati “In Canada la pandemia di covid-19 ha messo in luce le condizioni di vita dei lavora-tori migranti”, scrive il Guar-dian. Come è successo in molti altri paesi, anche in Ca-nada il virus si è diffuso rapi-damente nelle fattorie dove sono impiegati lavoratori stranieri. Qui le persone vivo-no spesso in condizioni disu-mane, i diritti sindacali non sono rispettati e il controllo delle autorità è praticamente inesistente. La situazione peggiore si è verificata in On-tario, dove più di mille lavora-tori migranti sono risultati positivi al covid-19, e tre di lo-ro sono morti. Il primo mini-stro Justin Trudeau ha am-messo che il paese dovrebbe fare di più per difendere que-sti lavoratori.

IN BREVE

Stati Uniti Il 16 luglio la corte suprema si è schierata a favore di una legge approvata dal par-lamento della Florida che im-pedisce agli ex detenuti di vo-tare se prima non pagano i de-biti contratti con lo stato. Nel 2018 gli elettori della Florida avevano votato per ridare il di-ritto di voto a chi è stato in car-cere, ma in seguito il parla-mento, controllato dai repub-blicani, aveva approvato una legge che imponeva il paga-mento dei debiti. La sentenza potrebbe impedire a quasi un milione di persone di votare alle elezioni presidenziali.

BRASILE

Il virus colpiscegli indigeni In Brasile gli operatori sanitari potrebbero aver contagiato gli indigeni che vivono nelle zone remote del paese. Secondo un’inchiesta del New York Times, almeno mille persone che lavorano per il servizio sa-nitario che si occupa dei popoli nativi (conosciuto come Sesai) sono risultate positive. Il perso-nale del Sesai, che da tempo de-nuncia la mancanza di fondi e forniture, lavora senza disposi-tivi di protezione adeguati. Se-condo i dati aggiornati a inizio luglio, in Brasile almeno 15mila indigeni sono risultati positivi al tampone, incluse diecimila persone che vivono in aree pro-tette.

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Manaus, maggio 2020

VENEZUELA-STATI UNITI

Tagliasul giudice Il 22 luglio il dipartimento di sta-to americano ha chiesto l’incri-minazione di Maikel Moreno, presidente della corte suprema venezuelana, e ha promesso una ricompensa di cinque milio-ni di dollari a chi fornirà infor-mazioni utili per il suo arresto. Secondo l’amministrazione Trump, Moreno fa parte di una rete criminale internazionale. “A marzo Washington aveva in-criminato il presidente Nicolás Maduro per narcotraffico”, scri-ve La Jornada. Caracas accusa Trump di voler destabilizzare il Venezuela.

STATI UNITI-CINA

Attacco diplomatico “Il governo degli Stati Uniti ha ordinato alla Cina di chiudere il suo consolato a Houston, in Te-xas, entro 72 ore. Una decisione destinata a peggiorare ulterior-mente i rapporti diplomatici tra i due paesi”, scrive il Washing-ton Post. Il dipartimento di stato americano ha detto di aver preso questo provvedi-mento “per proteggere la pro-prietà intellettuale statuniten-se”. Le autorità cinesi l’hanno definita una decisione “oltrag-giosa e ingiustificata”, e hanno fatto capire di voler adottare misure di ritorsione. Da tempo il governo di Washington pren-de di mira diplomatici, giornali-sti, accademici e studenti cinesi che si trovano sul suo territorio,

accusati di condurre “operazio-ni di spionaggio illegali contro il governo e i funzionari statuni-tensi”. Lo stesso giorno il dipar-timento di stato ha annunciato di aver ottenuto l’incriminazio-ne di due presunti hacker cinesi accusati di aver rubato infor-mazioni sulla ricerca per il vac-cino contro il nuovo coronavi-rus. Pechino ha sempre negato di condurre queste operazioni, e sostiene che gli attacchi di Trump sono un modo per spo-stare l’attenzione dell’opinione pubblica statunitense dai suoi errori nella gestione della pan-demia e dal calo dei consensi in vista delle elezioni di novem-bre. Poche ore dopo la decisio-ne di Washington, alcuni testi-moni hanno visto del fumo pro-venire da un cortile del consola-to, probabilmente dovuto al fat-to che i dipendenti stavano bru-ciando dei documenti.

Il 17 luglio sono morti John Lewis e C.T. Vivian, due storici leader del movimento dei diritti civili. “Lewis era nato in Alabama nel 1940 durante la segregazione razziale, terzo di dieci fratelli. Negli anni cinquanta si affermò come uno dei leader delle lotte antirazziste al fianco di Martin

Luther King e a partire dal 1987 ha continuato le sue battaglie politiche come deputato del congresso, eletto nello stato della Georgia”, racconta Time. Negli ultimi anni ha sostenuto la riforma delle leggi sull’immigrazione e sul possesso di armi e si è schierato con i militanti del movimento antirazzista Black lives matter. C.T. Vivian, nato in Missouri e cresciuto in Illinois, fu uno dei Freedom riders, gli attivisti che a partire dal 1961 percorsero il paese in autobus per protestare contro la segregazione razziale sui mezzi pubblici. “Lewis e Vivian dovrebbero essere considerati dei padri fondatori degli Stati Uniti”, scrive The Atlantic, “perché senza le loro battaglie il paese sarebbe rimasto una repubblica per bianchi”. ◆

Time, Stati Uniti

STATI UNITI

Padri fondatori

Nuovi contagi giornalieri in Canada

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24 Internazionale 1368 | 24 luglio 2020

AUSTRALIA

Ritorno all’anormalità Il 20 luglio il governo australia-no ha interrotto il piano di assi-stenza per l’infanzia varato per aiutare i lavoratori costretti a casa dal lockdown. Ad aprile il governo aveva sospeso i sussidi e cominciato a pagare diretta-mente il 50 per cento delle rette agli asili nido, mentre i genitori erano esentati dal farlo. È la pri-ma misura presa durante la pandemia a essere soppressa, scrive il Saturday Paper, e ri-

schia di penalizzare soprattut-to le madri che lavorano. Il mi-nistro della salute Dan Tehan non ha voluto spiegare come mai sono stati sacrificati pro-prio gli aiuti all’infanzia. Men-tre il paese va verso un ritorno alla normalità, anche se i con-tagi sono tutt’altro che sotto controllo, il governo si dice soddisfatto perché quasi tutte le strutture per la cura dell’in-fanzia sono rimaste aperte e operative. Ma “operative” non significa “sostenibili”: un quarto delle strutture dice che il piano non è stato sufficiente a mantenere i conti in ordine.

“TikTok sarà la nuova Huawei?”, si chiede il settimanale Caixin in copertina. L’app di condivisione di video, di proprietà cinese, vanta due miliardi di download e la crescita più veloce al mondo. Ma ora deve fare i conti con i paesi che l’hanno messa al bando o minacciano di farlo “per proteggere la privacy degli

utenti”. La sua popolarità in espansione l’ha resa una potenza che i governi non possono più ignorare, scrive Caixin. Negli Stati Uniti TikTok è entrata nel dibattito politico e le elezioni di novembre saranno una sfida per l’app, dice un investitore della Byte Dance, l’azienda madre con sede a Pechino. Il comitato europeo per la protezione dei dati personali a giugno ha creato una task force per indagare su come l’app usa i dati degli utenti. L’India, principale mercato di TikTok fuori dalla Cina, l’ha vietata a giugno “per motivi di sicurezza” e Washington minaccia di fare altrettanto. Il fondatore, Zhang Yiming, nel 2019 ha cercato di mettere l’azienda al riparo dalle accuse di vicinanza al governo di Pechino sostituendo i dirigenti cinesi con manager occidentali, tra cui l’amministratore delegato Kevin Mayer, un veterano della Disney. Zhang ha anche richiamato in Cina tutti gli impiegati nelle sedi all’estero e ha assunto personale locale, e potrebbe spostare la sede di TikTok a Dublino dopo che Londra, la prima scelta, ha messo al bando la Huawei. I suoi sforzi potrebbero però rivelarsi inutili, dato il clima politico internazionale. ◆

Caixin, Cina

INDIA

Uno su quattroè positivo Quasi un abitante di New Delhi su quattro ha contratto il covid-19. Lo dice uno studio del governo indiano secondo cui quasi il 24 per cento delle 21.387 persone a cui è stato fatto il test sierologico per cer-care gli anticorpi è risultato positivo. Il dato, scrive The Hindu, suggerisce che l’infe-zione nella capitale indiana è molto più diffusa di quanto di-cano i numeri ufficiali (circa 124mila casi, pari all’1 per cento degli abitanti) e che la maggior parte degli infetti è asintomatica. Il 22 luglio le autorità del Jammu e Kashmir hanno imposto il lockdown per sei giorni a causa di un au-mento dei contagi.

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CINA

Fabbricate nello Xinjiang Una videoinchiesta del New York Times ha rivelato che al-cune aziende cinesi produttrici di dispositivi di protezione dalle infezioni sfruttano gli uiguri de-tenuti nei centri di rieducazione dello Xinjiang. Recentemente gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni contro i funzionari re-sponsabili del sistema di deten-zione della minoranza turcofo-na e musulmana, che le autorità cinesi sostegono serva a deradi-calizzare gli indipendentisti e i potenziali terroristi. Nei centri di detenzione i prigionieri sono costretti a lavorare e, scrive il quotidiano statunitense, produ-cono anche mascherine espor-tate all’estero, negli Stati Uniti e in Australia. Prima della pande-mia solo quattro aziende produ-cevano dispositivi di protezione nella regione ad amministrazio-ne speciale, ma il 30 giugno era-no diventate 51, di cui almeno 17 si servono della manodopera nei centri di detenzione. Le aziende in questione respingo-no le accuse.

IN BREVE

Thailandia Migliaia di perso-ne sono scese in piazza a Bang-kok per protestare contro il go-verno, chiedendo di emendare la costituzione scritta dai mili-tari e di indire nuove elezioni. È la prima manifestazione da marzo, quando le misure contro il covid-19 hanno aiutato le au-torità a contenere le dimostra-zioni di dissenso.

New Delhi, 10 luglio 2020

ASIA CENTRALE

Polmoniti sospette In Kazakistan e in Kirgizistan stanno aumentando i casi di polmonite, che nel primo paese hanno causato a giugno un terzo delle morti totali per malattia dall’inizio dell’anno. Le autori-tà, però, insistono nel dire che non si tratta di covid-19. I medi-ci sono preoccupati soprattutto per la carenza di personale e di risorse, quale che sia la malattia da affrontare; mentre i cittadini e la società civile in generale te-mono per il palese tentativo di insabbiare la pandemia, scrive Eurasianet.

CINA

Dopo Huawei, TikTok

Asia e Pacifico

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NORDAFRICA

Chi apree chi chiude “La crisi politica in Tunisia non è mai stata così profonda dall’i-nizio della transizione democra-tica nel 2011”, scrive Le Temps. Il 15 luglio si è dimesso il primo ministro Elyes Fakhfakh, accu-sato di conflitto d’interessi. A febbraio la nomina di Fakhfakh aveva permesso di superare uno stallo di quattro mesi, in cui nes-sun partito era riuscito a forma-re un governo dopo le legislative dell’ottobre precedente. I politi-ci – compresi quelli del partito islamista Ennahda – “stanno raccogliendo quello che hanno seminato e hanno completa-mente perso la fiducia dei tuni-sini”, conclude il quotidiano. In-tanto la Tunisia ha accolto il 19 luglio a Djerba il primo volo di turisti europei in tre mesi, nel tentativo di salvare una stagione turistica compromessa dalla pandemia. u Mentre Tunisi è ri-uscita a limitare la diffusione del virus (i casi ufficiali sono 1.347, con 50 morti), dalla fine di giu-gno la vicina Algeria fa i conti con un’impennata di contagi: il bilancio è di più di 24mila casi registrati e 1.100 decessi. La si-tuazione negli ospedali è grave e si moltiplicano le proteste dei medici e del personale sanitario nelle province colpite dal virus, dove sono state reintrodotte mi-sure di confinamento, scrive El Watan. Un gruppo di scienziati ha inoltre rivolto un appello al governo perché sospenda le ce-lebrazioni per l’Aid al Adha, che cominciano il 30 luglio.

MALI

Il volto islamicodelle proteste Mentre in Mali si moltiplicano i tentativi di mediare tra il gover-no e l’opposizione che vuole le dimissioni del presidente Ibra-him Boubacar Keïta, i manife-stanti hanno continuato il 20 lu-glio le azioni di protesta creando barricate e cercando di bloccare strade e ponti a Bamako e in al-tre città. “Ma fin dove è disposto a spingersi l’imam Mahmoud Dicko? L’ex presidente dell’Alto consiglio islamico è il volto più noto delle proteste e i manife-stanti rispettano la sua autorità. Dicko ha unito intorno a sé mar-xisti e liberali, socialisti e reli-giosi. Con i suoi discorsi antim-perialisti ha sedotto i giovani”, scrive Jeune Afrique, aggiun-gendo che i maliani non sem-brano comunque disposti a ri-nunciare alla laicità dello stato.

IN BREVE

Siria Il partito Baath del presi-dente Bashar al Assad ha vinto le elezioni legislative che si sono svolte il 19 luglio nelle regioni si-riane controllate dal governo. L’opposizione in esilio ha defini-to il voto, caratterizzato da una bassa affluenza, “una farsa”.Sudan È cominciato a Khar-toum il 21 luglio il processo all’ex presidente Omar al Bashir per il colpo di stato del 1989.Zimbabwe Il 20 luglio è stato arrestato il giornalista investiga-tivo Hopewell Chin’ono, autore di un’inchiesta che aveva svela-to un giro di corruzione all’inter-no del ministero della sanità.

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Parlamento in sessione plenaria. Il Cairo, 20 luglio 2020

“La speranza decolla”, ha titolato il 20 luglio il quotidiano emiratino The National. In un editoriale celebrativo, il giornale scrive che “gli Emirati Arabi Uniti hanno fatto la storia”, diventando il primo paese del mondo arabo a compiere una missione interplanetaria. Quel giorno la sonda Al Amal (speranza),

fabbricata negli Emirati, è stata lanciata con successo dal centro spaziale di Tanegashima, in Giappone, e dovrebbe raggiungere l’orbita di Marte nel febbraio del 2021, in coincidenza con il cinquantesimo anniversario della fondazione del paese. Come spiega il quotidiano, “la sua missione principale è studiare il clima del pianeta rosso e fornire agli scienziati informazioni fondamentali per espandere la nostra conoscenza dell’universo”. Pur essendo innanzitutto scientifica, la missione è anche “profondamente simbolica”, scrive ancora The National, ed è destinata a superare i confini degli Emirati Arabi Uniti, perché “incarna le aspirazioni e le ambizioni dell’intera regione”. u

The National, Emirati Arabi Uniti

Una missione simbolica Damasco, 19 luglio 2020

Oltre la linea rossaIl parlamento ha approvato all’unanimità il 20 luglio un possibile intervento militare in Libia, se le forze del governo di Tripoli, sostenute dalla Turchia, proseguiranno l’offensiva verso est. Nel conflitto libico l’Egitto sostiene il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte dell’est del paese. Come spiega Al Ahram, il presidente Abdel Fattah al Sisi aveva dichiarato che l’Egitto non sarebbe rimasto “inerte” se fosse stata oltrepassata la linea rossa di Sirte.

EGITTO

EMIRATI ARABI UNITI

Africa e Medio Oriente

Nuovi casi giornalieri di covid-19in Algeria e Tunisia, dal 1 giugnoal 20 luglio 2020

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Page 28: Internazionale - 24 07 2020

InchiestaEnergiaad alto rischioStefano Liberti per InternazionaleFoto di Rocco Rorandelli

Inchiesta

In Italia ci sono diversi progetti di centrali geotermiche. Molti le considerano un’alternativa pulita ai combustibili fossili. Ma minacciano l’ambiente e la salute

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T Santa Fiora, Grosseto, 10 luglio 2020. Termodotto nei pressi di Bagnore

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30 Internazionale 1368 | 24 luglio 2020

Inchiesta

Il gigante di ferro domina la valla-ta. Il fumo denso esce dalle sue sei torri cilindriche diffondendo nell’aria un odore acre di zolfo. Siamo sul monte Amiata, tra i co-muni di Arcidosso e Santa Fiora,

nel cuore di una delle due aree della To-scana dove si produce energia geotermi-ca. Bagnore 4, inaugurata nel 2014, è l’ul-tima di una serie di centrali che estraggo-no fluido dal sottosuolo per produrre energia. L’impianto, detto a ciclo aperto o “flash”, funziona così: il vapore generato dal fluido prelevato a tremila metri di profondità è convogliato in dei tubi verso lo stabilimento, dove finisce in una turbina collegata a un gene-ratore che converte il calore in energia meccanica. Un alterna-tore trasforma l’energia mecca-nica in energia elettrica. Il fumo che esce dalle torri è il residuo gassoso del processo. Bagnore 4 e la gemella Ba-gnore 3, a poche centinaia di metri di di-stanza, sono due delle 34 centrali geoter-moelettriche della Toscana, tutte con-trollate dalla Enel Green Power, la so-cietà del gruppo Enel che si occupa di fonti rinnovabili.

Quella della geotermia in Toscana è una storia più che centenaria e risale alle ricerche condotte nell’ottocento da Fran-cesco Giacomo Larderel a Montecerboli, in provincia di Pisa. Nel 1818 il giovane ingegnere italo-francese riuscì a valoriz-zare il fluido geotermico estraendo acido borico dal vapore e producendo boro a scopi industriali. La sua scoperta fu così apprezzata che il granduca Leopoldo II lo ricompensò con il titolo di conte e decise in suo onore di dare all’area il nome di Larderello. Poco meno di cent’anni dopo, nel 1904, il principe Piero Ginori Conti, succeduto a Larderel nella proprietà dell’industria boracifera, riuscì ad accen-

dere cinque lampadine sfruttando il calo-re del sottosuolo. Da allora la Toscana è diventata il centro della geotermia mon-diale, a Larderello e sul monte Amiata, dove la Enel Green Power ha installato nel corso degli anni le sue centrali, per una potenza complessiva di 916 me-gawatt.

Questa tecnologia, classificata come verde e rinnovabile, è oggi al centro di un duro scontro tra chi la considera una fon-te energetica per sostituire i combustibili fossili e chi invece sottolinea i rischi per la salute e il forte impatto ambientale. Le vallate ai lati del monte Amiata sono pie-

ne di centrali: oltre a Bagnore 3 e 4, i tre impianti di Piancasta-gnaio 3, 4 e 5 contornano le pen-dici di questo massiccio vulca-nico. “Hanno rovinato un terri-torio e hanno svenduto le no-

stre vite”, dice Velio Arezzini, portavoce della rete nazionale No alla geotermia speculativa e inquinante (Nogesi), che da decenni si batte contro questo tipo di im-pianti. “Potevamo puntare sul turismo, sulle bellezze del territorio, su un’agricol-tura di qualità. Invece è stata scelta la geo termia industriale, che rovina il pae-saggio e crea problemi enormi”.

Con vari ricorsi la Nogesi ha provato invano a bloccare la costruzione delle ul-time centrali, in particolare Bagnore 4, sottolineando che non producono affatto energia pulita e che sono dannose per la salute. “Secondo uno studio condotto dal Centro nazionale di ricerca (Cnr) nel 2010, i tassi di mortalità maschile sono più alti del 13 per cento sull’Amiata rispet-to ad altre zone della Toscana”, sottoli-nea Arezzini. “Questo è dovuto alla mag-giore quantità di gas inquinanti liberati nell’atmosfera dalle centrali geotermi-che. Lo denunciamo da tempo, ma nes-suno ci ascolta perché qui gli interessi sono enormi”.

Il villaggio di AsterixNegli ultimi anni la Enel Green Power ha installato nei propri impianti i cosiddetti filtri Amis, Abbattimento mercurio e idrogeno solforato, che riducono note-volmente le emissioni di queste sostanze. Attraverso l’immissione di acido solfori-co negli Amis, nei due impianti di Bagno-re viene ridotto anche il contenuto di am-moniaca diffusa nell’atmosfera. “Queste centrali sono migliori, ma chiamarle ver-

di è un’assurdità, perché continuano a ri-lasciare sostanze nocive. E soprattutto perché liberano enormi quantità di gas che contribuiscono al cambiamento cli-matico, sui quali i filtri non hanno alcun effetto”, spiega Carlo Balducci, ingegne-re della rete Nogesi. Nel 2013, in un arti-colo basato su dati dell’Agenzia regionale

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Internazionale 1368 | 24 luglio 2020 31

per l’ambiente e il territorio della Tosca-na (Arpat), i due studiosi Riccardo Basosi e Mirko Bravi sottolineavano questo con-trosenso: l’energia geotermica, conside-rata pulita, contribuisce in modo rilevan-te all’effetto serra. “A oggi gli impianti toscani rilasciano nell’atmosfera quasi tre milioni di tonnellate di anidride car-

bonica e 43mila tonnellate di metano ogni anno. Hanno un potenziale di riscal-damento globale (Gwp) che le rende pa-ragonabili alle centrali a metano o a olio combustibile. Di fatto stiamo sovvenzio-nando con fondi pubblici l’emissione di gas serra”, sottolinea Balducci. Le cen-trali geotermoelettriche beneficiano di

finanziamenti sostanziosi, che le rendo-no estremamente redditizie. Per ogni megawattora prodotto, la centrale di Ba-gnore 4 riceve un incentivo di 99 euro. Se si considera che produce annualmente

Santa Fiora, Grosseto, 10 luglio 2020. Le centrali geotermiche Bagnore 4 e 3

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Inchiesta300 gigawattora si arriva a un ricavo an-nuale di 29,7 milioni di euro e a un ricavo di 742,5 milioni di euro sui 25 anni previsti di incentivazione. “Sono cifre importan-ti, che noi cittadini paghiamo in bolletta alla voce oneri di sistema”, spiega Bal-ducci. Che conclude con una domanda: “È giusto sovvenzionare con i soldi pub-blici una tecnologia che aumenta l’effetto serra?”.

Per risolvere il problema delle emis-sioni dannose per il clima, sono stati pro-gettati nuovi impianti e previsti nuovi in-centivi, e sulla scena si sono affacciati nuovi attori. A pochi chilometri da Pian-castagnaio, sede fin dagli anni sessanta delle prime centrali sul monte Amiata, il paese di Abbadia San Salvatore si è sem-pre distinto per il suo convinto no alla ge-otermia. Mentre i comuni vicini accetta-vano le offerte dell’Enel e incassavano i fondi di compensazione, questo paese di seimila abitanti è rimasto saldamente an-corato al suo rifiuto, come una specie di villaggio di Asterix accerchiato dalle truppe romane.

Il sindaco Fabrizio Tondi, capofila del-la resistenza, oggi è uno dei più strenui sostenitori di un altro tipo di centrale, che dovrebbe nascere nell’area industriale della Val di Paglia, a pochi chilometri dal centro abitato. Si tratta di un impianto a ciclo chiuso o binario, in cui tutto il fluido estratto viene reimmesso nel sottosuolo, senza alcuna emissione nell’atmosfera. Esistono esempi del genere negli Stati Uniti, in Germania e in Francia, ma non in Italia, dove tutte le centrali geotermo-elettriche sono a ciclo aperto, cioè libera-no i residui gassosi nell’atmosfera. L’Enel ha costruito stabilimenti simili altrove, ma ha sempre escluso questa eventualità sull’Amiata, sostenendo che la quantità di gas incondensabili presenti in quel ser-batoio geotermico rende impossibile la reimmissione totale del fluido. A partire dal 2011 il governo ha concesso la possibi-lità di esplorare questa tecnologia, preve-dendo la costruzione di alcune piccole centrali di questo tipo, con un meccani-smo di incentivazione di 200 euro per ogni megawatt/ora prodotto. La prospet-tiva di aggiudicarsi questi incentivi ha spinto molte aziende a lanciarsi nell’av-ventura. Tra questi il gruppo Sorgenia, che qui ad Abbadia progetta di costruire una centrale da 10 megawatt. “Dopo stu-di approfonditi, abbiamo scelto quest’a-

rea perché ha caratteristiche capaci di garantire che l’impianto sarà a zero emis-sioni”, dice Matteo Ceroti, responsabile dello sviluppo della società. “Oltre a pro-durre energia, la centrale fornirà gratui-tamente calore alla comunità locale per progetti di sviluppo socioeconomico. È una grande opportunità per il territorio ma anche per l’Italia, dove non esiste an-cora un impianto a ciclo binario”.

Il sindaco racconta che a convincerlo è stata proprio la prospettiva di una cen-trale diversa da tutte le altre. “Bisogna uscire dalla logica geotermia sì geoter-mia no e ragionare invece sul tipo di geo-termia che vogliamo sviluppare”, dice Tondi nel suo ufficio, nel municipio de-serto a causa delle misure contro il co-vid-19. “Questi impianti di nuova gene-razione non provocano danni per l’am-biente e possono generare ricchezza”.

Todi, ex chirurgo, confermato nel 2019 per un secondo mandato, coltiva un so-gno: usare la geotermia a zero emissioni per curare l’area da quella che considera la sua principale malattia, la marginalità in cui è piombata negli ultimi decenni. “La mia idea è fare di Abbadia un centro dell’economia verde e circolare, in cui la centrale geotermica e la possibilità di ga-rantire calore a costo zero attragga nuove attività economiche”. Il sindaco parla di molti posti di lavoro che verranno creati, di aziende che dicono di essere interessa-te. Ma alcuni suoi concittadini guardano al suo piano con sospetto. “È l’ennesima colonizzazione di un territorio già pesan-temente compromesso dall’attività delle centrali a ciclo aperto dell’Enel. Continu-iamo a chiamare grandi gruppi che sfrut-tano le nostre risorse, senza ottenere al-cun beneficio”, afferma Arezzini della rete Nogesi. Tondi accusa chi lo critica di essere legato a un’idea romantica e im-mutabile di territorio e di non preoccu-parsi della vita reale delle persone. “Men-tre loro dicono no a tutto, i giovani se ne vanno e i paesi si spopolano”, ribatte il sindaco, assicurando che andrà avanti “perché per governare bene bisogna pen-sare al futuro senza farsi influenzare dal-le reazioni istintive di alcuni”.

La rivolta della TusciaA un sindaco che sposa la causa della ge-otermia a zero emissioni ne corrispondo-no poco più a sud una trentina che sono invece schierati contro questo tipo di im-pianti. Nell’Alta Tuscia, nella fascia di terra che dal nord del Lazio sconfina in Umbria, sono in una fase più o meno avanzata una serie di centrali a ciclo bina-rio. I titoli minerari concessi sono 18, su un territorio che si estende per circa mille chilometri quadrati intorno al lago di Bol-sena.

A differenza dell’Amiata, dove lo sfruttamento del serbatoio geotermico ha una lunga e consolidata tradizione, questa zona ha un unico precedente, non proprio felice. Quando alla fine degli anni novanta l’Enel ha costruito una centrale nei pressi del borgo di Latera, ha dovuto chiuderla dopo pochi mesi a causa di un eccesso di emissioni nocive. Francesco Di Biagi, sindaco della cittadina, all’epo-ca era un ragazzo e ricorda bene cos’è successo. “I responsabili della centrale hanno liberato i gas nell’atmosfera e la

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Da sapere Rinnovabile e alternativaProduzione di energia rinnovabile, in Italia dal 21 luglio 2019 al 20 luglio 2020, gigawattora Fonte: Terna

Idroelettrica

Fotovoltaica

Eolica

Biomassa

Geotermica

Totale

xx

48.396,5

25.513,7

19.169,7

16.901,1

5.672,5

115.653,6

Per risolvere il problema delle emissioni dannose per il clima, sono stati progettati nuovi impianti e previsti nuovi incentivi

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nube tossica è arrivata fino a Montefia-scone, a trenta chilometri di distanza. Molte persone sono dovute andare in ospedale. Il bestiame è morto, le pianta-gioni sono state distrutte”. Oggi lo stabi-limento giace come una cattedrale ab-bandonata in mezzo alla campagna. Di Biagi è in prima linea nel fronte del no a ogni nuovo progetto geotermico, tra cui una centrale a zero emissioni proprio a Latera.

“Il passato ci ha dimostrato che que-sto tipo di produzione energetica è dan-noso. E diversi studi indicano che il no-stro territorio è particolarmente vulnera-bile. Per questo cercheremo di opporci con tutti i mezzi che abbiamo”, dice il sindaco con tono battagliero.

Gli studi a cui fa riferimento Di Biagi sono quelli del vulcanologo Giuseppe

Mastrolorenzo, primo ricercatore dell’I-stituto nazionale di geofisica e vulcanolo-gia (Ingv), nemico giurato di ogni proget-to geotermico. In seguito ai rilievi che ha presentato come semplice cittadino, due progetti di centrali pilota in Campania, a Pozzuoli e a Ischia, sono stati ritirati. Ma-strolorenzo sostiene che i piani per co-struire impianti binari tra il Monte Amia-ta e la Tuscia sono pericolosi. Tratteg-giando su un foglio di carta la struttura geologica dell’area che va da Siena al lago di Bolsena, evidenzia i rischi di un’attivi-tà antropica a quelle profondità. “Questi impianti prevedono una reimmissione del fluido a circa un chilometro di distan-za dai pozzi di estrazione. Presuppongo-no una continuità del serbatoio sotterra-neo che non è dimostrata. Anzi, è dimo-strato proprio il contrario”. Secondo il vulcanologo, ogni piccola variazione nell’assetto tettonico può causare shock devastanti. “Stiamo parlando di un’area

a forte sismicità, in cui un eventuale scompenso causato da interferenza uma-na potrebbe innescare un terremoto fino al sesto grado della scala Richter”.

Forti dei rilievi di Mastrolorenzo, i sin-daci dell’area hanno scritto collettiva-mente al presidente del consiglio Giusep-pe Conte e a vari ministri, oltre che al ca-po della protezione civile Angelo Borrelli e ai presidenti delle regioni Lazio e Um-bria, chiedendo di applicare il principio di precauzione e di sospendere i progetti.

Io sono la geotermia “Quei sindaci sono solo somari con la fa-scia. Non capiscono nulla di geotermia e vogliono bloccare l’innovazione con una protesta in puro stile nimby (not in my backyard, non nel mio cortile)”. A parlare così è Diego Righini, manager della Itw-Lkw Geotermia Italia, l’azienda titolare di quello che ha buone probabilità di di-ventare il primo impianto a ciclo binario

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Marta, Viterbo, 10 luglio 2020. Attivi-sti dell’associazione Sos lago

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Inchiestad’Italia: se infatti il progetto di Abbadia San Salvatore è ancora nella fase della Valutazione d’impatto ambientale (Via), quello della Itw-Lkw è già stato approva-to. Sorgerà a Castel Giorgio, in provincia di Terni, in un’area industriale dove già decenni fa l’Enel ha fatto delle prospezio-ni. I comuni hanno presentato un ricorso al Tar per bloccare la costruzione, ma Ri-ghini è convinto di vincerlo e di poter co-minciare i lavori già in autunno.

La centrale è da anni al centro di pole-miche, controversie legali e accuse di conflitti di interessi. I comitati contro l’impianto definiscono la Itw-Lkw una società di comodo, nata solo per ottenere i ricchi incentivi destinati agli impianti pilota. “È stata fondata nel paradiso fi-scale del Liechtenstein e non ha alcuna esperienza in geotermia: di fatto non ha mai montato neanche un rubinetto”, dice Fausto Carotenuto, titolare di un centro yoga di fronte all’area dove dovrebbe sor-gere la centrale e principale animatore della protesta.

La storia dell’iter per avere l’autoriz-zazione desta molte perplessità: la com-missione per gli idrocarburi e le risorse minerarie (Cirm) del ministero dello svi-luppo economico, incaricata di valutare la fattibilità dell’impianto, ha chiamato come esperto il geologo ed ex ministro Franco Barberi, che è anche firmatario del progetto. La valutazione d’impatto ambientale ha avuto invece il via libera da una commissione nazionale al mini-stero per l’ambiente presieduta dall’inge-gner Guido Monteforte Specchi, che era anche consulente privato della Itw-Lkw. “È grazie a queste entrature che il piano

ha potuto superare ogni ostacolo, mal-grado le evidenti carenze”, sottolinea Carotenuto.

Nel suo ufficio di Roma, a due passi da piazza di Spagna, Righini respinge le cri-tiche all’azienda: “È una società di scopo, nata per sviluppare impianti geotermici in Italia”. Il manager difende Barberi: “Ha lasciato la stanza e non ha partecipa-to al voto”. Inoltre sostiene che dietro la protesta dei sindaci e dei comitati ci sa-rebbe la longa manus dell’Enel. “L’ex monopolista si oppone alle nuove centra-li perché mostrerebbero che la sua tecno-logia è inquinante e obsoleta”.

Righini ripete, con toni volutamente magniloquenti, “la geotermia sono io”, e illustra la sua visione di futuro: la centrale di Castel Giorgio e l’impianto pilota ge-mello progettato dalla sua azienda ad Ac-quapendente, in provincia di Viterbo, dovranno fare da apripista per stabili-menti più grandi, che a medio termine dovrebbero aiutare l’Italia a decarboniz-zarsi e a uscire dalla dipendenza energe-tica. “È un’assurdità che il nostro paese, che ha inventato la geotermia, oggi sia così indietro rispetto ad altri. Abbiamo la possibilità di installare 7.548 megawatt di potenza geotermica sul territorio nazio-nale. Possiamo ridurre le emissioni e at-tuare una vera transizione verso l’energia pulita. Dobbiamo solo superare l’opposi-zione nimby di sindaci e comitati e la ren-dita di posizione dell’Enel”. Ma i dubbi restano: non è un caso che gli incentivi previsti dal decreto del 2016 non sono stati confermati nel decreto sulle energie rinnovabili (Fer1) del 2019 e la gran parte dei progetti è in attesa di un prossimo de-

Produzione di elettricità e teleriscaldamento, 2019 Fonte: Egec geothermal market report

Riscaldamento e raffreddamento geotermico, migliaia di megawatt termici – MWt

Elettricità, migliaia di megawatt elettrici – MWe

2,0

1,75

1,0

0,75

0,5

0,25

1,5

1,25

0

Islanda

Austria

Slovacchia

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Polonia

Grecia

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Repubblica C

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Georgia

Slovenia

Italia

Danimarc

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Spagna

Romania

Croazia

Portogallo

Energia L’Italia punta sull’elettricità

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creto Fer2, che dovrebbe includere di nuovo la geotermia, ma che è stato ri-mandato più volte. I rilievi sulla possibili-tà di un innesco sismico fatti da Mastrolo-renzo non sono grida isolate: in Francia, in seguito a una serie di scosse in Alsazia in prossimità di un impianto geotermico, il governo ha sospeso gli incentivi a que-sta tecnologia.

I finanziamenti sono il nodo cruciale di tutta la vicenda: senza i fondi previsti, 200 euro a megawatt/ora, le nuove cen-trali non sono sostenibili. “Se dovessero vendere l’energia a prezzo di mercato non starebbero in piedi. Invece così si ri-pagano in sette-otto anni l’investimento iniziale per la costruzione della centrale e poi cominciano a incassare dividendi mi-lionari.

“È giusto pagare tre o quattro volte il costo dell’energia per impianti così ri-schiosi?”, si chiede Georg Wallner, ex professore di fisica, impegnato nell’asso-ciazione Bolsena lago d’Europa (Bleu). Wallner, che ha studiato i vari impianti in giro per l’Europa, sottolinea che all’este-ro le centrali sorgono in zone non sismi-che e producono principalmente calore e non energia. “Le centrali in Francia e Germania hanno senso perché distribui-scono teleriscaldamento ai vicini centri

L’AUTORE

Stefano Liberti è un giornalista italiano. Ha scritto I signori del cibo. Viaggio nell’industria alimentare che sta distruggendo il pianeta (Minimum fax 2016). Con Enrico Parenti ha girato Soyalism (2018).

abitati. L’energia è quasi un prodotto se-condario. I progetti italiani mirano inve-ce a produrre energia a costi e rischi altis-simi e considerano il calore un prodotto quasi di scarto, tanto che prevedono di regalarlo alle comunità circostanti”, sot-tolinea Wallner.

Anche Andrea Borgia, che è stato ri-cercatore in geologia all’università di Berkeley, in California, ha più di una per-plessità sui nuovi impianti binari tanto lodati da Righini. “Queste centrali pilota sono state autorizzate in modo un po’ frettoloso, senza dati seri sulla sismicità e senza un’analisi accurata della composi-zione del serbatoio geotermico”. Il geolo-go sa di cosa parla: in quanto esperto di geotermia è stato chiamato a far parte della commissione valutazione impatto ambientale al ministero per l’ambiente. Durante l’istruttoria su Castel Giorgio ha fatto una serie di osservazioni, che non sono state prese in considerazione. “In assenza di uno studio di micro-sismicità, che non era stato presentato, il pericolo di un innesco sismico è reale. Veramente vogliamo rischiare un terremoto deva-stante per 5 megawatt?”.

Modello energeticoBorgia propone una soluzione alternati-va, basata su una nuova tecnologia che estrae dal sottosuolo calore invece di flu-ido e che non richiede quindi reimmissio-

ni. “Si tratta dei cosiddetti impianti Dbhe (Deep borehole heat exchanger, scambiato-ri di calore in pozzi profondi), che sono stati già sperimentati negli Stati Uniti e in Canada e che entro un paio d’anni saran-no sicuramente una tecnologia matura”. Il sistema è formato da tubi inseriti all’in-terno del giacimento geotermico, nei quali circola a ciclo chiuso un fluido vet-tore che, riscaldato, torna in superficie ad alimentare le turbine per l’erogazione di elettricità. È simile a un termosifone, che estrae solo calore dalle rocce e dai fluidi che lo lambiscono. Questo tipo di im-pianti permette di evitare i problemi cau-sati dalle centrali binarie, come l’innesco sismico o l’emissione dei gas inconden-sabili, ma ha un’efficienza minore perché lo scambio di calore avviene nel sotto-suolo e quindi su una superficie ridotta. “In compenso può essere installato ovunque, non solo dove c’è un fluido geo-termico sotterraneo”, assicura il profes-sore.

Borgia è convinto che le centrali bina-rie non si faranno perché i rischi sono ec-cessivi, e auspica che siano gli impianti Dbhe a prevalere se si deciderà d’investi-re sulla geotermia. “Ma quello che manca è un piano complessivo. Bisogna capire come si vuole produrre energia nell’Italia del futuro. In particolare quali fonti rin-novabili preferire”.

Il tema fondamentale è proprio quello del modello energetico e delle sue conse-guenze: in un periodo storico in cui è vita-le ridurre le emissioni di gas che contribu-iscono al riscaldamento globale, le centra-li a ciclo aperto toscane sono un evidente anacronismo. Sulle centrali binarie, che da questo punto di vista sono più innovati-ve, il dibattito resta aperto. Ma tra rischi di innesco sismico, proteste delle comunità e dei rappresentanti locali, è lecito chie-dersi se sia ragionevole incentivare con sostanziosi fondi pubblici una produzione di energia così controversa e poco effi-ciente. “Bisogna capire se il gioco vale la candela”, dice Borgia. O se viceversa è meglio tenere spenta la candela e produr-re energia in altri modi. ◆

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Santa Fiora, Grosseto, 10 luglio 2020. La centrale geotermica Bagnore 4

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36 Internazionale 1368 | 24 luglio 2020

Le opinioni

L a decisione del Regno Unito di esclu-dere l’azienda cinese Huawei dalla li-sta dei fornitori di tecnologie per la nuova rete 5g ha dato un duro colpo al-la Cina. Fino a poco tempo fa Pechino sperava che gli inglesi avrebbero con-

fermato la scelta iniziale di affidare alla Huawei la fornitura di parti non essenziali per le nuove reti di telecomunicazioni mobili, ma due sviluppi recenti l’hanno resa insostenibile.

Il primo è l’escalation della guerra scatenata dagli Stati Uniti contro la Huawei. A maggio Washington ha vietato ai fornitori che sfruttano la tecnologia sta-tunitense di vendere semiconduttori all’azienda cinese. Dato che la tecnolo-gia statunitense è molto usata per fab-bricare i semiconduttori avanzati, indi-spensabili per i prodotti della Huawei, il gigante cinese resterà tagliato fuori dalle forniture. Questo gli renderà qua-si impossibile produrre componenti per il 5g. Una prospettiva più pericolosa per i britannici di qualsiasi potenziale “spionaggio” cinese. Nessun governo responsabile può permettersi di corre-re il rischio di perdere un fornitore chiave. Questo significa che la Huawei aveva i giorni contati dal momento in cui Washington ha premuto il grilletto, a maggio. Si trattava solo di capire quando il premier britannico Boris Johnson avrebbe dato la cattiva notizia al presidente cinese Xi Jinping.

Il secondo sviluppo, che a reso politicamente più facile per Johnson decidere sulla Huawei, è l’imposi-zione da parte della Cina della nuova legge sulla si-curezza nazionale a Hong Kong. La misura, approva-ta dal parlamento cinese il 30 giugno, ha messo fine all’autonomia dell’ex colonia britannica. Dal punto di vista di Londra, è una violazione della Dichiara-zione congiunta sinobritannica del 1984, in cui Pe-chino prometteva di proteggere il sistema legale e le libertà civili di Hong Kong fino al 2047. Forse i leader cinesi pensavano che il Regno Unito fosse troppo de-bole per reagire. Evidentemente si sbagliavano. Londra ha deciso di prendere posizione su Hong Kong, e la Huawei è un bersaglio facile.

A questo punto la Cina potrebbe essere tentata di reagire, e ha i mezzi per farlo. Potrebbe colpire le aziende britanniche che fanno affari sul suo territo-rio. Come il gigante bancario britannico Hsbc, per esempio, che è particolarmente esposto visto che le sue operazioni a Hong Kong rappresentano metà dei suoi profitti. Pechino inoltre potrebbe cancellare le

proprie transazioni finanziarie alla borsa di Londra e ridurre il numero di studenti cinesi a cui permette di frequentare le università britanniche.

Ma la verità è che queste rappresaglie alla fine po-trebbero rivelarsi controproducenti. Allontanare la Hsbc da Hong Kong priverebbe la città del suo ruolo di centro globale della finanza, perché la Cina non riuscirebbe a trovare un’altra banca capace di rim-piazzare quella britannica. Considerando la tensio-ne tra Stati Uniti e Cina, è difficile che Pechino accet-ti istituti come Citibank o JpMorgan Chase come successori della Hsbc.

Allo stesso modo le restrizioni sulle università danneggerebbero la Cina. Al momen-to circa 120mila cinesi studiano nel Regno Unito, e per loro non ci sono molte alternative valide. Gli Stati Uniti valutano la possibilità di limitare l’ac-cesso agli studenti cinesi giustifican-dolo con i rischi per la sicurezza nazio-nale, Pechino ha già minacciato l’Au-stralia di mettere un freno al flusso di turisti e studenti. Le università cana-desi, che ospitano 140mila studenti cinesi, hanno una capienza limitata, e considerando lo stallo diplomatico tra

Ottawa e Pechino dopo che il Canada ha autorizzato l’estradizione negli Stati Uniti di Meng Wanzhou, direttrice finanziaria della Huawei, è difficile che la Cina invii altri studenti in quelle università.

Xi Jinping è in una situazione difficile. La Cina sta perdendo alleati proprio nel momento in cui ne avrebbe più bisogno. I rapporti con l’India si sono incrinati dopo lo scontro militare al confine tra i due paesi. Per punire l’Australia, colpevole di aver chie-sto un’indagine internazionale sulle origini del co-vid-19, Pechino ha imposto dazi sull’orzo australia-no e ha minacciato altre misure punitive. Il 14 luglio il ministro degli esteri cinese ha criticato il rapporto annuale del ministero della difesa di Tokyo, metten-do a repentaglio i tentativi di Xi per un riavvicina-mento con il premier giapponese Shinzō Abe.

I leader cinesi possono solo incolpare se stessi per questo isolamento. Sopravvalutando il loro potere, hanno forzato la mano e hanno allontanato paesi amici o neutrali come il Regno Unito, il Canada, l’In-dia e l’Australia, spingendoli tra le braccia degli Stati Uniti, il principale avversario di Pechino.

Quando reagirà al bando britannico della Huawei, la Cina dovrà tenere presente la prima rego-la fondamentale delle buche: quando sei dentro una buca, smetti di scavare. u as

La Cina si sta facendotroppi nemici

Minxin Pei

La scelta del Regno Unito di escludere la Huawei dalla lista dei fornitori per il 5g ha dato un duro colpo a Pechino, che sta perdendo alleati proprio nel momento in cui ne avrebbe più bisogno

MINXIN PEI

è un professore cinese. Insegna scienze politiche al Claremont McKenna college, in California. Il suo ultimo libro è China’s crony capitalism (Harvard University Press 2016).

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In edicoladal 29 luglio

È in arrivo il nuovo Internazionale Kids! In questo numero: evviva le vacanze, a scuola di manga, avventure in Kenya, nei boschi in mountain bike, consigli per salvare il pianeta e molto altro Ogni mese articoli, giochi e fumetti dai giornali di tutto il mondoper bambine e bambini

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38 Internazionale 1368 | 24 luglio 2020

Le opinioni

L’anno prossimo saranno pubblicati due miei libri, il settimo e l’ottavo. La gen-te ha strane idee su quelli che scrivono libri. La più comune è che chiunque riesca a pubblicare faccia un sacco di soldi. Con due libri in un anno, m’im-

magineranno sdraiato su una spiaggia ad Acapulco affiancato dai miei domestici che staccano acini d’uva e m’imboccano con delicatezza. Non è così. Alcuni dei miei libri sono stati tradotti in molte lingue, ma dubito di averci mai guada-gnato più di seimila euro all’anno, la mia attività di autore è stata essenzial-mente un passatempo finanziato da un lavoro ben retribuito come giornalista. Ve lo dico perché il lockdown ha fatto im-provvisamente aumentare il numero di manoscritti di aspiranti autori che so-gnano ricchezze mitologiche. Nelle ca-selle email di editori e agenti letterari sono arrivate proposte di persone che vanno dall’appena alfabetizzato all’o-stentatamente erudito. Romanzi la cui trama ha un’e-vidente somiglianza con i best seller del 2019, storie per bambini così sentimentali che avrebbero nausea-to perfino Walt Disney, “viaggi” personali di narcisi-sti e fantasie distopiche che dimostrano una cosa: i loro autori, più che di un editore, hanno bisogno di cure psichiatriche. Ma in una montagna di scarti ci saranno uno o due originali, che potrebbero rendere i loro creatori, se non dei miliardari, almeno autori de-gni di essere letti. Visto che alcuni di voi potrebbero unirsi a questa fila di speranzosi, ho pensato di condi-videre alcune riflessioni.

Innanzitutto, evitate come un virus appena arriva-to da oriente l’editoria a pagamento. Una grande casa editrice accoglie pochi autori, e normalmente gli pa-ga un “anticipo” di poche migliaia di euro in cambio dei diritti. La casa editrice sostiene i costi di revisione, grafica, stampa, distribuzione e promozione. Inoltre, quando la percentuale sul prezzo di vendita destinata all’autore (che in Italia va dal 7,5 al 15 per cento) ha coperto i costi dell’anticipo, lo pagherà di più e conti-nuerà a farlo finché il libro avrà smesso di vendere.

Un editore a pagamento funziona in un altro mo-do. A differenza delle case editrici più importanti (molte delle quali non accettano manoscritti non ri-chiesti), accetta quasi tutti i libri che gli vengono of-ferti. Questo perché non guadagna vendendo libri, ma vendendo servizi (e libri) agli autori. In realtà la maggior parte delle librerie, almeno nel Regno Unito, non accetta libri pubblicati da editori a pagamento.

Un editore di questo tipo (che naturalmente non si definisce tale) può essere onesto e offrirvi dei servizi che vi permettono di pubblicare il vostro libro. Si oc-cupa della revisione, della grafica, della stampa ecce-tera e poi prevede un prezzo a copia, a seconda di quante ne ordinerete. Ma ci sono editori che nascon-dono i loro veri obiettivi, vi dicono che il vostro libro ha bisogno di un certo lavoro di revisione e vi spingo-no a rivolgervi a un costoso editor (che pagherà l’edi-

tore per questa raccomandazione). Op-pure vi fanno firmare un contratto in cui accettate di comprare un certo numero di copie del libro (il cui prezzo coprirà ampiamente tutte le loro spese).

Il mondo degli aspiranti scrittori è pieno di autori inesperti che sono pas-sati da editori a pagamento: ne sono usciti alleggeriti di migliaia di euro e con una stanza piena di scatoloni di vo-lumi non letti. È meglio tenersi alla lar-ga da qualsiasi editore vi chieda dei sol-di. Vale anche per gli agenti che voglio-

no essere pagati per un lavoro di revisione. E le trap-pole non finiscono qui. Ci sono concorsi letterari che vivono per spillare i soldi dell’iscrizione agli autori, programmi che attribuiscono dei premi al vostro libro se pagate una quota, e antologie che sceglieranno le vostre poesie solo se accetterete di comprare un certo numero di copie.

Che fare quindi? Continuate a provare con i grandi editori. Le possibilità di successo sono poche (nel Re-gno Unito tra il 96 e il 99 per cento delle proposte vie-ne rifiutato), ma ignorate i no e continuate a lottare. Il libro Lo zen e l’arte della manutenzione della motociclet-ta di Robert Pirsig fu rifiutato 121 volte prima di essere pubblicato, e ha venduto più di cinque milioni di co-pie. Poi provate l’autopubblicazione, come ebook o attraverso Amazon, oppure con un onesto servizio di revisione, grafica o stampa. Un autore britannico si è rivolto a uno di questi servizi pagando 6.956 euro per 1.500 copie, cioè 4,63 euro a copia. Ma ogni copia venduta con Amazon a 11,1 euro gli ha garantito ap-pena 2,80 euro. Solo quelle che ha venduto di perso-na, o nei negozi, hanno generato un profitto (consi-glio della scrittrice Suzan St Laur su Amazon: “Dite agli amici di comprare il vostro libro in un giorno preciso. Questo lo farà salire al primo posto delle vendite per un paio d’ore”). Ma, prima di tutto, ricor-datevi che l’unico motivo per scrivere è avere qual-cosa da dire che meriti di essere raccontato: non fa-telo solo perché avete un po’ di tempo libero o perché sperate di diventare ricchi. u ff

Gli editori a pagamentonon fanno per voi

David Randall

DAVID RANDALL

è stato senior editor del settimanale Independent on Sunday di Londra. Ha scritto quest’articolo per Internazionale. Il suo ultimo libro è Tredici giornalisti quasi perfetti (Laterza 2007).

Il mondo degli aspiranti scrittori è pieno di autori che si sono rivolti a editori a pagamento: ne sono usciti alleggeriti di migliaia di euro e con stanze piene di libri non letti

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U na volta i clienti doveva-

no tirare fuori centomila

euro solo perché Chri-

stian Aeby si mettesse al

lavoro. Era il prezzo di

una giornata di riprese.

Aeby faceva il regista di spot pubblicitari.

Per esempio quello in cui si vedeva una

macchina pazzesca in un paesaggio in-

vernale russo: musica classica in sotto-

fondo e un’auto sportiva bianca solcava

la neve fresca, mentre spuntavano un le-

opardo delle nevi e un orso polare. Poi

una voce profonda diceva: “Qui sopravvi-

ve solo chi si adatta perfettamente

all’ambiente”. E alla fine comparivano lo

slogan “Il vantaggio della tecnologia” e il

logo dell’Audi.Per più di 35 anni Aeby si è guadagnato

da vivere girando pubblicità come que-

sta. Ha lavorato per l’Audi, la Bmw, la

Mercedes, per la Croce Rossa e per l’Ikea.

Ha vinto un premio al festival della crea-

tività a Cannes, una specie di oscar per i

registi pubblicitari. Insomma, Aeby ave-

va un grande successo. O meglio, si era

adattato perfettamente al suo ambiente.

Eppure nel 2018 l’ha lasciato per una vita

completamente diversa.

Oggi Aeby si guadagna da vivere con il

pane: fa il panettiere. Quello che conta

nella sua nuova vita non è più l’ambienta-

zione perfetta, ma l’impasto perfetto.

Non la posizione giusta della cinepresa,

ma la temperatura giusta del forno. “Ac-

canto al mio forno sono felice”, dice oggi

l’ex regista. Sarà vero? Sembra una storia

assurda, ma è emblematica di un bisogno

di cambiamento che è urgente e reale.

Moltissime persone sognano di ricomin-

ciare da capo: fanno il loro lavoro da mol-

ti anni e magari anche con grande succes-

so, eppure vorrebbero dedicarsi a qual-

cos’altro, a cose che per loro hanno più

senso o che promettono di dare più gusto.

L’insoddisfazione non è il lusso di una

minoranza privilegiata. Secondo uno stu-

dio dell’Istituto tedesco di ricerca econo-

mica, in Germania una persona occupata

su otto è insoddisfatta del proprio lavoro:

si tratta di quasi sei milioni di tedeschi.

Secondo un sondaggio della società di ri-

cerche Gallup, invece, tre lavoratori su

quattro – circa trenta milioni di persone –

si limitano a fare il minimo indispensabi-

le, in una sorta di “sciopero bianco”: svol-

gono le loro mansioni in modo diligente e

puntuale, ma non ci mettono né parteci-

pazione né entusiasmo. Non a caso slogan

come “Incrociamo le braccia, comincia il

weekend!” fanno parte del repertorio fis-

so dei presentatori radiofon

ne che si sentono poco appag

ro che fanno sono molte e si c

le cose non potrebbero essere d

Uno studio dell’Istituto di r

mercato del lavoro e delle profe

Germania, uscito nel 2012, stim

ogni anno cambia lavoro il 3 per cen

gli occupati tedeschi, circa 1,3 milio

persone. Succede spesso che chi

commerciante al dettaglio, il venditor

il cuoco si ritrovi a lavorare in un setto

diverso, mentre di solito chi ha un titolo

di studio superiore cambia con minore

frequenza. Ma non c’è una statistica che

riveli quante sono le persone che sogna-

no di fare un passo simile.

Dalla regia al forno

Questo desiderio è sempre esistito. Già

170 anni fa Karl Marx si lamentava del

fatto che ogni persona dovesse svolgere

un’attività lavorativa “che le viene impo-

sta e a cui non può sfuggire” e sosteneva

che nella società comunista sarebbe stato

possibile “fare oggi questa cosa, domani

quell’altra, la mattina andare a caccia, il

pomeriggio pescare, la sera allevare il be-

stiame e dopo mangiato fare il critico”,

senza per forza dover essere cacciatori,

pescatori, pastori o critici.

Era ovviamente un’utopia, e

ra. Infatti, anche se il m

diventato piùmoder

Economia

56 Internazionale 1355 | 24 aprile 2020

Che bello cambiare vit

Kolja Rudzio, Die Zeit, Germania

Molte persone sono scontente o stanche del lavoro che fanno. Spesso

cambiano perché non ne hanno la possibilità o gli manca il coraggio. M

che ci riescono quasi mai rimpiangono il passato

Tre lavoratori su

quattro si limitano a

fare il minimo indispensabile, in

modo diligente e

puntuale, ma senza

entusiasmo

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Page 40: Internazionale - 24 07 2020

In copertina

40 Internazionale 1368 | 24 luglio 2020

Il valore dell

Las Vegas, Stati Uniti, 2015

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Page 41: Internazionale - 24 07 2020

Internazionale 1368 | 24 luglio 2020 41

Nell’antica città di Babele gli uomini parlavano una lingua santa ma, spavaldi e arroganti, vo­levano essere come Dio e decisero di erigere una

torre così alta da raggiungerlo. Quando Dio vide quello che stavano facendo, col­mo d’ira piombò su di loro e ne confuse la lingua affinché non potessero più com­prendersi l’un l’altro e fossero costretti a interrompere la costruzione della torre. Inoltre, li disperse su tutta la Terra e fu così che il mondo si riempì di tante lingue.

La Bibbia, nel libro della Genesi, rac­conta la storia della maledizione del mul­tilinguismo. A distanza di qualche miglia­io d’anni, Alexander Waibel, professore d’informatica al politecnico di Karlsruhe, in Germania, si oppone alla confusione linguistica: chi segue le sue lezioni vive un’esperienza contraria a quella di Babe­le. Waibel parla ai suoi studenti in video­conferenza da Seattle, nell’ovest degli Stati Uniti, a 8.300 chilometri di distanza. Con l’aiuto della tecnologia non solo su­pera la distanza tra un continente e l’altro, ma riesce in un’impresa ancora più gran­de: supera la diversità delle lingue. Waibel tiene la sua videolezione in inglese, men­tre il software Lecture translator inserisce sottotitoli in tedesco per gli studenti a Karls ruhe, neanche fosse una serie su Netflix. Succede tutto in diretta: il soft­ware non conosce in anticipo la lezione di Waibel, ma trascrive le sue parole in tem­po reale e le traduce simultaneamente. Il politecnico di Karlsruhe ha introdotto l’u­so del software cinque anni fa per fornire

lle lingue

I programmi di traduzione funzionano sempre meglio e presto potrebbe diventare inutile imparare una lingua straniera. Ma sarebbe un peccato non farlo. Perché studiare le lingue rende le persone più empatiche e aperte

S. Ka ra e S. Schmitt, Die Zeit, Germania Foto di Edward Peters

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Page 42: Internazionale - 24 07 2020

In copertina

un servizio agli studenti stranieri che ave-vano difficoltà a seguire le lezioni in tede-sco. Nel semestre estivo del 2020 si fa il contrario: Waibel, dagli Stati Uniti, parla in inglese e il software di traduzione forni-sce sottotitoli in tedesco agli studenti del politecnico.

Questa tecnologia, che lo stesso Wai-bel ha contribuito a sviluppare, somiglia sempre di più a un meraviglioso dispositi-vo fantascientifico: il traduttore universa-le. Nel 1979 lo scrittore inglese Douglas Adams aveva inventato per la sua serie di romanzi Guida galattica per gli autostoppi-sti una creatura galattico-poliglotta che aveva chiamato pesce Babele: bastava mettersene uno nell’orecchio per capire all’istante tutte le lingue. Nel 2020 l’uma-nità si sta preparando a superare davvero le barriere linguistiche. Il riconoscimento vocale trascrive il parlato in tempo reale, i software di traduzione offrono servizi di interpretariato e la sintesi vocale trasfor-ma le lettere scritte in suoni. Insomma, le macchine diventano dei suggeritori, ci parlano da dispositivi molto diffusi, come gli auricolari bluetooth, che molti indos-sano per andare a correre e alcuni già por-tano tutto il giorno. Da tempo applicazio-ni come Google traduttore o Microsoft translator ci sussurrano all’orecchio la traduzione di brevi testi in arabo o in cine-se. Per il momento i limiti della tecnologia producono ancora ritardi e curiosi equivo-ci. Microsoft e Google, però, lavorano da tempo alla creazione di interpreti perfetti, e lo stesso fanno Baidu e Alibaba, i giganti della tecnologia cinese. La Apple ha pre-sentato la nuova versione del suo sistema operativo per iPhone, in grado di tradurre da e verso undici lingue. Un sogno dell’u-manità sta per realizzarsi: quello di com-prendersi senza fatica.

Che sollievo per gli studenti torturati, i dirigenti d’azienda stressati e i viaggiatori confusi. Basta vocabolari, basta gramma-tica, basta frasi storpiate: ecco un mondo senza barriere linguistiche. Le aziende eviterebbero d’investire in corsi di lingua per i loro dipendenti e risparmierebbero anche i costi di traduttori e interpreti, un settore che in Germania fattura un miliar-do di euro all’anno. Eppure, a molti piace imparare parole nuove, suoni poco fami-liari ed espressioni insolite. Due tedeschi su tre sono in grado di sostenere una con-versazione in almeno una lingua stranie-ra; quasi uno su tre perfino in due o tre lingue, soprattutto in vacanza, online o chiacchierando con gli amici. Le iscrizioni ai corsi di lingua delle università popolari

nel 2018 sono state più di un milione (all’i-nizio degli anni novanta erano meno di centomila). Durante il lockdown, nel com-pilare la lista delle “cose che si sarebbero sempre voluto fare”, sembra proprio che molti abbiano scritto “imparare una lin-gua”. La berlinese Babbel, che sostiene di essere l’app per l’apprendimento delle lin-gue più venduta al mondo, ha registrato un aumento vertiginoso delle iscrizioni. A marzo, quando la vita pubblica è andata in pausa, sono schizzate verso l’alto, supe-rando di più del 200 per cento quelle regi-

strate nello stesso mese del 2019. La mag-gior parte degli iscritti studia per puro piacere: per uno su tre la motivazione è “l’interesse per la lingua e la cultura”. Solo uno su otto studia per lavoro. Imparare le lingue è un passatempo intelligente.

Il dibattito sui bilingueCosa si perde affidando alle macchine la comunicazione in una lingua straniera? E cosa succede quando se ne studia una? Neuroscienziati e psicologi, linguisti e so-ciologi osservano da tempo gli effetti del plurilinguismo sul pensiero e sulle emo-zioni, cercando di scoprire se ci renda più intelligenti o più so-cievoli e quanto ampli i nostri orizzonti. Ma spesso non c’è ac-cordo sulle conclusioni.

Il dibattito si è riacceso con un nuovo studio del Brain and mind insti-tute dell’University of Western Ontario, in Canada, che ha esaminato un campio-ne di undicimila persone per scoprire se i bilingue fossero più bravi a concentrarsi, come suggerito in precedenza da molti studi psicolinguistici. Si tratterebbe di quello che i neuroscienziati chiamano “controllo cognitivo”, un insieme di capa-cità essenziali alla gestione del quotidia-no. La ricerca del Brain and mind institute ha riscontrato solo un vantaggio esiguo per i bilingue, che si azzerava nel momen-to in cui si teneva conto di fattori come il grado d’istruzione e il reddito.

Un colpo per tutti quei linguisti che considerano il plurilinguismo un partico-lare tipo di allenamento mentale. Una di loro è Ellen Bialystok, psicologa della York university di Toronto, in Canada, e pio-

niera del settore. Già alla metà degli anni ottanta Bialystok scoprì che i bambini bi-lingue sanno distinguere tra forma e con-tenuto dei testi meglio dei bambini che parlano una lingua sola. Bialystok aveva sottoposto ai bambini frasi come “le mele crescono sui nasi”, chiedendo che ne veri-ficassero la correttezza grammaticale. Molti di loro reagivano indignati all’in-sensatezza del contenuto, racconta la psi-cologa. Ma per i bilingue mettere da parte questa indignazione per concentrarsi sul-la grammatica (assolutamente corretta) era più facile. “Questo non aveva niente a che vedere con le loro competenze lingui-stiche”, sottolinea Bialystok, “ma con il modo in cui funzionava il loro cervello, più capace di gestire i conflitti”.

Com’è possibile? L’ipotesi della psico-loga è che, siccome nei bilingue entrambe le lingue sono sempre attive, a livello cere-brale dev’essere sempre attivo un sistema di controllo che permette di scegliere le parole giuste, ignorando la lingua inutiliz-zata. Bialystok definisce questo sistema il “direttore generale”: grazie a lui, dice, possiamo concentrarci sugli elementi rile-vanti ignorando le distrazioni. Il bilingui-smo allena incessantemente il direttore generale. L’aumento dell’attività di ricer-ca e i suoi progressi hanno prodotto molti studi secondo i quali i bilingue sanno con-centrarsi meglio su un compito e passano più facilmente da un compito all’altro. Ja-son Telner, un dottorando di Bialystok, lo

ha dimostrato con un esperi-mento ispirato alla vita quoti-diana: ha messo delle persone in un simulatore di guida e attra-verso gli auricolari gli dava dei compiti di lingua. Era come se

stessero parlando al cellulare mentre gui-davano l’auto. Ed effettivamente i bilin-gue si distraevano meno.

Bialystok ha dimostrato l’utilità gene-rale della seconda lingua, sottoponendo a un test bambini provenienti da famiglie immigrate socialmente svantaggiate. Vo-leva capire se per loro fosse positivo non solo conoscere la lingua del paese in cui vivevano, ma anche quella dei loro geni-tori: effettivamente, in termini di control-lo cognitivo, questo gruppo otteneva ri-sultati migliori rispetto ai bambini che parlavano una lingua sola.

“Il bilinguismo arricchisce i poveri” era il titolo dell’articolo scientifico di Bialystok. Secondo lei, spingere i bambi-ni immigrati a rinunciare alla lingua d’o-rigine era sbagliato: “È una perdita per le famiglie e un’opportunità sprecata”.

42 Internazionale 1368 | 24 luglio 2020

Microsoft e Google lavorano da tempo alla creazione di interpreti perfetti

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Internazionale 1368 | 24 luglio 2020 43

Il plurilinguismo sembrava una medi-cina magica, buona per aumentare la concentrazione, la flessibilità mentale e magari perfino l’equità sociale. L’educa-zione bilingue è diventata una moda: ne-gli ultimi quindici anni in Germania gli asili bilingue sono più che triplicati, men-tre le scuole elementari dello stesso tipo sono addirittura quadruplicate. Perfino genitori non bilingue si sono sforzati di fare lezioni private ai figli, nonostante la grammatica zoppicante e la pronuncia approssimativa.

Poi è arrivato il contraccolpo. “Gli ef-fetti cognitivi del bilinguismo sono so-pravvalutati”, sostiene Harald Clahsen, psicolinguista dell’università di Potsdam, in Germania, che studia da anni l’appren-dimento delle lingue straniere. “Sì, gli stu-di che hanno evidenziato effetti positivi sono molti”, ammette, “ma molti altri non hanno ravvisato nessun effetto”. Le prove scientifiche, insomma, non sono proprio solidissime. E poi Clahsen nega che impa-rare una lingua sia un’attività speciale: “Per allenare il controllo cognitivo va be-ne anche imparare a suonare la chitarra o a giocare a pallone”. Lui guarda con pre-occupazione all’insistenza dei genitori per inculcare nei figli il plurilinguismo:

“In certi casi può anche risultare inutile”. Clahsen non è il solo ad avere dei dubbi. Nel 2019 due linguisti hanno pubblicato per l’Accademia britannica delle scienze umane e sociali un’analisi della letteratu-ra scientifica sull’argomento. Esaminan-do ottocento studi sono arrivati alla con-clusione che “il rapporto tra controllo co-gnitivo e successo nell’apprendimento linguistico è complesso e incoerente”. Nel gergo dei ricercatori questo significa che non si sa esattamente come stiano le cose.

Ma le lingue non hanno forse altri ef-fetti positivi? In fin dei conti non si tratta di una semplice attività cerebrale: servo-no anche ad avvicinare le persone, sono una tecnica socioculturale. Significa che chi è poliglotta ha qualche vantaggio sul piano della socialità? Anche questa è una domanda che i linguisti si fanno. Nel 2018 lo psicolinguista Scott Schroeder, della Hofstra university, negli Stati Uniti, ha riassunto così lo stato attuale della ricer-ca: per i bambini bilingue è davvero più facile immedesimarsi negli altri, sono avvantaggiati in quella che gli scienziati chiamano teoria della mente, la capacità d’immaginare cosa stia succedendo nella testa degli altri. Per studiarla, gli psicolo-gi usano per esempio il “test degli smar-

ties”: fanno aprire un tubetto di smarties a un bambino, che però scopre che la con-fezione è piena di bottoni. Poi gli chiedo-no: “Un’altra persona cosa penserà che ci sia qui dentro?”. Chi ha già sviluppato una teoria della mente risponderà “smar-ties”, mentre i bambini piccoli spesso ri-spondono “bottoni”.

Ágnes Kovács, ricercatrice in scienze cognitive, ha fatto questo esperimento in Romania con bambini di tre anni cresciu-ti in famiglie monolingue o bilingue. Le risposte giuste sono state il doppio tra i bambini che si muovevano quotidiana-mente tra due lingue. Un risultato note-vole. Ma la revisione della letteratura scientifica di Schroeder ha evidenziato che mediamente il vantaggio dei bilingue oscilla tra piccolo e grande.

Perché allora per i bambini bilingue è più facile immaginare cosa pensano gli altri? Per i ricercatori ci sono varie spiega-zioni. Magari questi bambini devono chie-dersi sempre se chi hanno di fronte capi-sce entrambe le lingue o una sola, e quale. Magari invece hanno una capacità mag-giore di sospendere il proprio punto di vi-sta, e in questo caso tornerebbe in gioco il “direttore generale”. Studi più recenti propendono per la prima spiegazione,

Chinatown di New York, Stati Uniti, 2008

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Page 44: Internazionale - 24 07 2020

In copertina

44 Internazionale 1368 | 24 luglio 2020

perché anche quei bambini che non sono bilingue ma incontrano con regolarità una lingua straniera fanno meno fatica a vede-re il mondo con gli occhi degli altri. Secon-do Schroeder questo potrebbe essere do-vuto semplicemente all’esperienza, per cui “le loro conoscenze linguistiche sono diverse da quelle degli altri”.

Sembra una constatazione banale, e invece è fondamentale: si tratta di essere consapevoli dell’esistenza di più di un mo-do di esprimersi e di vedere le cose. “Le lingue che parlo mi tutelano dall’auto-compiacimento di pensare che la mia vi-sione del mondo sia unica e infallibile”, spiega la linguista Aneta Pavlenko. “Mi aiutano a superare i confini del mio mon-do personale”.

La lingua madre di Pavlenko, cresciuta a Kiev negli anni settanta e ottanta, è il russo. “Quando avevo sei anni mia madre provò a insegnarmi l’inglese, ma io mi ri-fiutai”. Poi la madre provò con il polacco, e lì Aneta si appassionò moltissimo alle lingue. A scuola imparò l’ucraino, poi lo spagnolo, poi l’inglese (così, en passant, perché la madre continuava a parlarle in quella lingua). Più avanti studiò il france-se e l’italiano. “Per mia madre le lingue erano un modo per immaginare di supera-re la cortina di ferro”, racconta Pavlenko.

Alla fine il sogno si avverò: nel 1989 Pavlenko con la madre e il figlio neonato lasciarono il paese alla volta degli Stati Uniti. In valigia avevano 300 dollari e un patrimonio di lingue. Pavlenko trovò la-voro come insegnante di lingue all’uni-versità, poi fece un dottorato e oggi inse-gna linguistica applicata a Oslo, dove studia gli effetti del plurilinguismo su pensiero ed emozioni. “Quando parlo in-glese sono professionale, controllata, do-mino gli strumenti linguistici”, racconta. “Il russo invece lo sento accogliente. Quando sono stressata ho bisogno di libri e film russi che mi riportino al mondo si-curo della mia infanzia”. Per capire se fos-se così anche per gli altri poliglotti ha pro-mosso un sondaggio: “Quando parla un’altra lingua le capita di sentirsi un’altra persona?”. Due terzi degli interpellati hanno risposto di sì. Pavlenko lo spiega così: “Il modo in cui ti senti parlando una lingua dipende soprattutto dal contesto in cui l’hai imparata”. Le lingue registrano i ricordi, che tornano alla memoria con il suono delle parole, anche quando sem-bravano sommersi.

Se n’è reso conto scrivendo le proprie memorie un noto poliglotta: Vladimir Nabokov. Nato a San Pietroburgo, Na-

bokov scrisse in russo per trent’anni pri-ma di emigrare negli Stati Uniti, dove raggiunse la notorietà scrivendo in ingle-se. Quando mise nero su bianco i suoi ri-cordi, lo fece in inglese, intitolando l’au-tobiografia Conclusive evidence (Prove conclusive). Quando un editore russo gliene chiese una traduzione, Nabokov si mise al lavoro: ma insieme alle parole russe riaffiorarono improvvisamente al-tri ricordi, molto più nitidi. Il risultato non fu una traduzione, ma un libro nuo-vo. E Nabokov si vide costretto a integra-re la versione inglese, scrivendo le sue memorie per la terza volta.

Ma gli effetti che le lingue hanno sul pensiero e sulle emozioni sono del tutto personali e soggettivi o possono anche es-sere misurati oggettivamente? Per sco-prirlo, gli psicologi che lavorano con Ar-thur Jacobs della Freie Universität di Ber-lino, in Germania, hanno sottoposto a un normale test della personalità madrelin-gua tedeschi e spagnoli che avevano im-parato la seconda lingua quando avevano più o meno vent’anni. Il punto era che do-vevano rispondere alle doman-de una volta in tedesco e una volta in spagnolo. Sono emerse differenze davvero notevoli. In spagnolo i partecipanti erano più estroversi e tendevano di più a oscillazioni emotive, mentre in tedesco si dimostravano più posati, indipendente-mente dalla lingua madre.

La cosa è sorprendente per due ragio-ni: da una parte mostra che l’influenza della lingua sulla psiche va al di là dell’e-sperienza individuale. Dall’altra chiarisce che le lingue straniere agiscono sulla per-sonalità anche quando s’imparano da grandi. Secondo Jacobs e i suoi colleghi, questo è dovuto al fatto che le lingue vei-colano ed evocano concetti culturali, regi-strando non solo ricordi personali ma an-che collettivi. In questo modo, scrivono i ricercatori, danno “al singolo un nuovo ventaglio di possibilità di percepire e mo-strare la propria personalità”. Una donna che ha partecipato a uno studio britannico descrive così l’arricchimento che ne può derivare: “Usare la mia seconda lingua è più o meno come indossare vestiti sedu-

centi e truccarmi per una festa. Non è uno stato del tutto naturale, ma mi consente di brillare e di essere bellissima”. Chi va alla festa con un dispositivo suggeritore all’o-recchio rinuncia a tutto questo.

Per Bialystok c’è un aspetto delle lin-gue straniere ancora più importante emerso dal suo studio: “Più erano anzia-ni, più i soggetti traevano beneficio dall’essere poliglotti”. Il plurilinguismo infatti compenserebbe parzialmente il re-gresso cognitivo dovuto all’età. Di più: studiando le cartelle cliniche di pazienti affetti da demenza e alzheimer, la psicolo-ga ha constatato che i sintomi nelle perso-ne bilingue erano stati diagnosticati dai tre ai cinque anni più tardi. Evidentemen-te quelle persone erano riuscite a com-pensare temporaneamente la perdita di capacità cognitive e mnemoniche, che quindi si erano rivelate solo in un secondo momento. Bialystok ha confrontato le ri-sonanze di malati di alzheimer monolin-gue e bilingue che avevano riduzioni simi-li delle capacità cognitive. La malattia aveva segnato i cervelli dei bilingue più di quelli dei monolingue, eppure quelli dei bilingue funzionavano meglio. Secondo Bialystok, “questi sono effetti tangibili”.

Gli studenti più anzianiEffettivamente scoperte come questa vanno oltre l’accesa controversia sui van-taggi del plurilinguismo. Perfino Clahsen

riconosce che “per quanto ri-guarda gli anziani sono in au-mento gli studi che dimostrano gli effetti benefici della cono-scenza di più lingue sulla capa-cità cognitiva”. Perciò il ricerca-

tore dice che va bene cominciare a stu-diare le lingue anche in tarda età: “Non è affatto vero che sia un’impresa senza speranza!”. I suoi esperimenti hanno ri-velato che anche gli studenti più anziani riescono a imparare la grammatica. “Su questo fronte non ci sono problemi nean-che a ottant’anni. Non l’avrei mai detto”, ammette Clahsen. Gli anziani hanno più difficoltà invece nello studio dei vocaboli, e per questo il ricercatore consiglia le app per l’apprendimento delle lingue: “Com-pensano i punti deboli martellando sem-pre sulle stesse parole”. Hermann Schnitz ler, 81 anni, ingegnere in pensio-ne, ricorre a queste app. Da qualche anno si è messo a studiare inglese. “Il punto è usare la lingua per allenare il cervello”, spiega. “A volte mi sorprendo perfino a pensare in inglese”. Schnitzler s’interes-sa di tecnologia, scienza e soprattutto di

Il plurilinguismo compensa in parte il regresso cognitivo dovuto all’età

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Internazionale 1368 | 24 luglio 2020 45

Poco prima che scoppiasse la pan-demia di covid-19 ho assistito ad Amburgo a una curiosa conver-sazione tra un turista coreano e

l’impiegato di un hotel. Uno parlava al suo cellulare, aspettava un istante, controlla-va lo schermo e poi lo mostrava al suo in-terlocutore; l’altro, a sua volta, rispondeva parlando al cellulare, aspettava, controlla-va lo schermo, e così via. Chiaramente uno non parlava tedesco e l’altro non par-lava coreano ma, anche se i due non si so-

no scambiati una sola parola, la conversa-zione è andata avanti per alcuni minuti. Gli altri ospiti non trovavano niente di strano in quella scena, solo io la osservavo per metà incredulo e per metà scettico, come se per un attimo si fosse aperta da-vanti ai miei occhi una finestra sul futuro. Ancora non ho deciso se mi è piaciuta.

Naturalmente so che ci sono program-mi di traduzione come Google traduttore o DeepL e che funzionano abbastanza bene: i miei colleghi li usano in ufficio, alcuni amici nei loro viaggi. Ma non li ho mai presi sul serio. Spesso le persone mi raccontano quello che questi software non riescono a fare, per esempio che tra-ducono waterproof (impermeabile) con “prova dell’acqua”. Per anni i giornalisti scientifici hanno messo alla prova i servi-zi di traduzione digitale dandogli in pasto aforismi di Nietzsche o passaggi dei ro-

Un’esperienza romantica

Chi cerca di conoscere il mondo con occhi, mani e piedi riesce a fare esperienze più profonde rispetto a chi decide di comunicare con un semplice software di traduzione

Tobias Haberl, Süddeutsche Zeitung Magazin, Germania

astronomia: tutti campi in cui l’inglese è fondamentale. “Senza l’inglese non sa-prei proprio come muovermi online”.

Ma l’hobby di Schnitzler va al di là di un allenamento mentale e di un ausilio per la lettura: “Per me l’inglese è come un amico che mi accompagna sempre”. Nel-la sua allegra parlata renana inserisce un pizzico di pathos pensando che tra cin-quant’anni “l’umanità intera” studierà l’inglese. Pensate a cosa significherebbe per la comunicazione tra i popoli.

Schnitz ler racconta che non molto tempo fa addormentandosi ha pensato: “Una lingua straniera è come un cavallo. A cavallo vedi più in là che a piedi”. Vede-re più in là moltiplica la conoscenza, cosa che a sua volta contribuisce alla com-prensione. “Sapere e comprendere. È questa la cultura”.

E allora questo anziano signore ha un vantaggio rispetto alla tecnologia del pe-sce Babele, per quanto raffinata e dirom-pente possa diventare: magari a breve questa tecnologia della traduzione per-metterà una comunicazione globale, ma la comprensione del mondo e degli altri può scaturire solo da un’autentica tecnica culturale, solo attraverso l’immersione in una lingua straniera. u sk

Oaxaca, Mexico, 2012

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In copertina

46 Internazionale 1368 | 24 luglio 2020

manzi di Kafka, solo per poi prendersi gioco dei risultati.

Da un po’ di tempo, però, nessuno fa più esperimenti simili. Prima di tutto è in-giusto affossare con i capolavori della let-teratura mondiale i software di traduzio-ne, che dovrebbero misurarsi con la lingua parlata. Inoltre, l’uso dell’intelligenza ar-tificiale ha migliorato moltissimo la tradu-zione automatica. Da quando le aziende tecnologiche forniscono agli algoritmi enormi quantità di dati (per esempio tutti i protocolli delle Nazioni Unite tradotti in decine di lingue), i risultati si sono impie-tosamente avvicinati alla qualità delle tra-duzioni fatte dagli esseri umani.

In un episodio di Star Trek del 1967 il signor Spock assembla a partire da pezzi di ricambio trovati in giro una macchina per le traduzioni che ha l’aspetto di una torcia lampeggiante. Mezzo secolo dopo, quell’utopia non è ancora realtà, ma è un sogno che diventa ogni giorno più realisti-co. Gli esperti di software promettono di liberare l’umanità dal multilinguismo. Quasi tutti si rallegrano, alcuni non vedo-no l’ora. “Non dovremo più sfogliare di-zionari”, esulta qualcuno. Una mia amica sostiene che sarebbe fantastico se in futu-ro non ci sentissimo più impotenti quando

viaggiamo in un paese straniero. E quanto tempo in più avranno i bambini se a scuola toglieranno le ore di lingue straniere? In generale le persone si avvicinerebbero e il mondo vivrebbe una fase di crescita co-mune, se tutti potessero parlare libera-mente con tutti.

Capisco le persone che la pensano in questo modo, sarei perfino contento se avessero ragione. Tuttavia resto scettico, anche perché ricordo bene la promessa che i social network avrebbero reso il no-stro mondo più giusto e democratico. Quando cadono le barriere e l’estraneità è abolita, non necessariamente otteniamo comprensione e tolleranza. Più spesso ar-rivano caos, banalità e malintesi.

I programmi di traduzione renderanno sicuramente il nostro modo di viaggiare, lavorare e comunicare più veloce ed effi-ciente. Ho sentito dire di una donna con-golese che ha dato alla luce il suo bambino in un’ambulanza irlandese usando Goo-gle traduttore. Alcuni anni fa un’app di traduzione salvò un turista cinese da un centro per i rifugiati in Germania: dopo che gli era stato rubato il portafogli, aveva compilato per errore una domanda di asi-lo invece di una semplice denuncia di fur-to. Ovviamente so quanto ci si possa sen-

tire impotenti quando non si parla una lingua straniera o la si conosce a malape-na. Anche a me è capitato. Una volta vole-vo fare una battuta in francese: ho cercato le parole giuste in preda all’ansia, ma alla fine sono rimasto zitto, perché il momento magico in cui la frase avrebbe avuto il suo effetto era già passato. C’è sempre uno scarto, una distanza che non può essere colmata e ti fa sentire intrappolato nella tua lingua. Quindi l’idea di lasciarsi quest’esperienza alle spalle è attraente. Per le persone che non hanno mai avuto l’opportunità di imparare una lingua stra-niera sarebbe perfino una liberazione. Senza contare i vantaggi economici: i libe-ri professionisti potrebbero offrire i loro servizi in tutto il mondo, le conferenze internazionali si svolgerebbero in modo più semplice, i risultati della ricerca scien-tifica potrebbero essere condivisi senza problemi. Quasi certamente ci sarebbero modi per guadagnare e risparmiare di più. L’abbiamo visto con la pandemia: per po-litici e scienziati poter superare le barriere linguistiche e comunicare senza troppi intoppi a volte può essere cruciale.

Forse sono io che non riesco a immagi-nare un futuro digitalizzato se non in for-ma di distopia, ma ho la sensazione che

Las Vegas, Stati Uniti, 2017

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questo progresso tecnico ci costerà caro. Spesso succede che risolvendo un proble-ma se ne crei uno nuovo, che guadagnan-do qualcosa, qualcos’altro vada perso, per esempio la diversità, la felicità interiore o le opportunità di condivisione, di costru-zione d’identità e di senso. Non dover più imparare le lingue straniere sarebbe in-credibilmente pratico, anche se non per gli interpreti e i traduttori. Ma nel corso della storia diverse cose presentate come “pratiche” si sono rivelate dannose.

Un salto misterioso

Le lingue e l’alterità mi affascinano da sempre, il salto che è insito in loro mi è sempre sembrato misterioso. Mi piace l’i-dea che sia difficile avvicinarsi alle altre persone, a paesi e continenti lontani. Mi sembra sensato che tra diverse esperienze culturali esista una distanza che non può essere superata senza uno sforzo, come quello di imparare parole per anni. Solo confrontandosi con una lingua straniera possiamo farci un’idea del destino e della mentalità di un popolo. E poi c’è la profon-da soddisfazione, perfino la felicità infan-tile di applicare con successo per la prima volta quello che si è imparato: non dimen-ticherò mai l’orgoglio che provai quando, quindicenne a Parigi, chiesi la prima bouil-labaisse della mia vita e il cameriere non rise di me né mi fissò spaesato, ma si limi-tò a prendere nota di quello che ordinavo. Insieme al fascino e all’immaginazione, è questa vulnerabilità, e l’esperienza di farsi capire pur non parlando una lingua, che rende i viaggi così stimolanti, perfino ero-tici. Il resto è solo il proseguimento della vita quotidiana a temperature piacevoli. Come disse lo scrittore Roger Willemsen, “una delle ultime cose romantiche di que-sto mondo è il multilinguismo. È così amabilmente scomodo, ci costringe a tor-tuose giravolte. Improvvisamente da indi-vidui cosmopoliti e sicuri di sé ci trasfor-ma in ottusi balbuzienti dai modi infantili, che cercano di farsi capire con gesti primi-tivi e stupide sceneggiate”.

Da ragazzo la cosa che mi piaceva di più delle vacanze con i miei genitori era che non capivo niente. Accendevo la tv in albergo e mi emozionava vedere le imma-gini senza capire una parola di quello che sentivo: l’impossibilità di comprendere mi faceva realizzare cosa significasse es-sere lontani da casa. Col senno di poi, cre-do che quella distanza non abbia generato un senso d’impotenza, ma una vigile pre-senza, rispetto e curiosità. C’era da tenere ben aperti occhi e orecchie, c’era qualcosa

di nuovo da scoprire. E non fa male a nes-suno dover aspettare ogni tanto e osserva-re, invece di sentirsi sovrani e fiduciosi e sapere già come andranno le cose.

“A guidarci è l’idea di permettere alle persone di parlare tra loro”, afferma Jaro-slaw Kutyłowski, amministratore delega-to della startup tedesca DeepL, che nei test sulla traduzione ottiene sempre pun-teggi migliori di Google traduttore. Lui è convinto che la comprensione reciproca sarà rafforzata se le persone potranno fa-cilmente confrontarsi tra loro. Io però non credo che la tolleranza derivi dall’a-bolizione dell’alterità, ma dal nostro esporci all’altro e dal nostro tentativo di entrare in comunicazione con posti e per-sone lontani.

Il mio primo grande amore durò appe-na un paio di giorni. Si chiamava France-sca, aveva dieci anni e i suoi genitori pos-sedevano l’hotel dove passavo le vacanze estive. Ci incontravamo ogni sera al don-dolo. Una volta le presi la mano, lei mi sor-rise, fu perfetto. Il giorno della partenza la baciai sulla guancia, salii nella macchina dei miei genitori e cercai di non piangere per 700 chilometri. Non ci scambiammo neanche una pa-rola, ma le poche ore trascorse con lei sono tra le più riuscite della mia vita. Oggi Francesca e io saremmo seduti sul dondolo con lo smartphone in mano, guarderem-mo dei video e continueremmo a ripetere frasi ai nostri telefoni per farcele tradurre, ma saremmo più felici?

“Credo che sia quasi sempre un male quando il lavoro umano è sostituito dai computer”, dice l’autrice e traduttrice let-teraria Esther Kinsky. Nel caso delle tra-duzioni sarebbe una vera e propria minac-cia, perché la lingua verrebbe necessaria-mente standardizzata. Il linguaggio riflet-te la diversità delle esperienze e delle emozioni umane: appena è ridotto alla sua funzione s’impoverisce.

Chi esplora un luogo straniero con i propri occhi, le proprie mani e i propri pie-di, sperimenta sempre qualcosa in più dei turisti che camminano con un telefono in mano. “Per me, questi software sono l’op-posto dell’opportunità di comprendersi”,

dice Kinsky, “perché distolgono le perso-ne dal confronto reale e quindi dal reale avvicinamento”.

Sono ovviamente le considerazioni di una traduttrice letteraria, lontane dalle esigenze dei turisti che in Toscana voglio-no fare quattro chiacchiere mangiando un piatto di spaghetti. Tuttavia, mettono in chiaro il rischio che una tecnica culturale scompaia, che proprio perché possiamo capirci con semplici frasi la nostra curiosi-tà per l’altro possa perdersi.

Già negli anni quaranta Max Horkhei-mer e Theodor W. Adorno si stupivano della “misteriosa inclinazione delle mas-se tecnicamente educate” all’asservimen-to e all’autoannullamento. La gente tende a scegliere la via più facile e si abitua in tempi rapidissimi ai gadget tecnologici che fino a poco prima erano guardati con scetticismo. Le aziende tecnologiche, inoltre, si sono poste l’obiettivo di rendere le nostre vite più semplici e prevedibili possibile. E se invece la nostra umanità si costituisse proprio nella fatica dell’impre-vedibile, se la gioia si generasse dal supe-ramento delle difficoltà, e non dalla loro rimozione?

Il problema è che l’uso dei software modifica gli standard, scrive il critico let-terario Manfred Schneider: l’intelligenza artificiale potrebbe produrre un sistema in cui consideriamo normale una forma ridotta e funzionale del linguaggio, un misto di chiacchiere e istruzioni operati-

ve senza umorismo, spirito e poesia. Già oggi quando scri-viamo sullo smartphone spesso ci limitiamo a scegliere una del-le alternative suggerite dall’al-goritmo.

La traduzione è una questione di ne-goziazione, scriveva il semiologo italiano Umberto Eco, cioè è qualcosa di più di una semplice equazione matematica. È anche il motivo per cui i turisti tornano a casa entusiasti dopo aver pagato sicura-mente troppo in un bazar marocchino invece di fare l’acquisto online con PayPal. Se degradiamo il linguaggio a pu-ro strumento economico, c’è il rischio che alla fine perderemo l’opportunità di esprimere in modo individuale la nostra opinione, la nostra mentalità e la nostra personalità. È possibile che tra qualche decennio non ricorderemo più quanto sia stato appagante imparare un’altra lingua. Come scrive il sociologo Hartmut Rosa, “il mondo non canta e risuona alle perso-ne che sono dominate, ma alle persone che per lui si accendono”. u nv

Mi piace l’idea che sia difficile avvicinarsi agli altri, a paesi e continenti lontani

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Cina

Due grandi fogli appesi al-la porta di casa di Jike Shibu ad Atuleer, un vil-laggio arroccato su una rupe tra le montagne della Cina sudocciden-

tale, sono bastati per decidere il destino della sua famiglia. Il primo è bianco e divi-so in quattro sezioni: “Avere una buona casa; vivere una vita buona; coltivare buo-ne abitudini; creare una buona atmosfe-ra”. Ogni sezione ha un punteggio da uno a cento, e per la casa la famiglia di Jike Shi-bu ha solo 65 punti.

Accanto al cartello bianco ce n’è uno rosso, che riconosce a Jike e ai suoi lo sta-tus di “nucleo familiare colpito dalla po-vertà con tessera e iscrizione a registro”. Sopra ci sono le raccomandazioni scritte a mano da un funzionario su come la fami-glia può migliorare la sua condizione. La “principale causa di povertà”, si legge nel-le raccomandazioni, è una “cattiva infra-struttura dei trasporti e la mancanza di denaro”. Tra le misure consigliate ci sono dedicarsi a colture con un margine di pro-fitto maggiore, come il pepe del Sichuan, e “cambiare abitudini”.

Di per sé, i cartelli non sono molto utili agli abitanti del villaggio: pochissimi di quelli nati prima del 2000 sanno leggere correntemente i caratteri cinesi. Le osser-vazioni scritte, però, possono cambiare il futuro delle persone. Nel caso di Jike, la sua famiglia è stata trasferita in un bruli-cante complesso residenziale nella vicina città mercantile di Zhaojue.

Zhaojue è una città che va di fretta. Il

governo ha fissato una scadenza: entro la fine del mese vuole eliminare la povertà nella prefettura di Liangshan, una delle più svantaggiate della Cina. “Vincere la difficile battaglia per metter fine alla po-vertà”, recita l’insegna elettronica rossa dell’hotel centrale, con sotto il numero dei giorni che mancano alla scadenza. Nelle stradine strette lì intorno, i contadi-ni corrono da una parte all’altra con cesti di vimini pieni di prodotti della terra mentre gli ambulanti vendono scarpe e abiti ammucchiati su teli di plastica.

L’inizio di quest’attività frenetica risale a sette anni fa, quando il presidente cinese Xi Jinping ha fissato l’obiettivo di elimina-re la povertà estrema in tutte le contee ru-rali del paese entro la fine del 2020. Nei quarant’anni trascorsi dall’inizio della ri-forma che ha sancito il passaggio all’eco-

nomia di mercato, la Cina ha fatto enormi progressi in questa direzione, guadagnan-dosi gli elogi delle Nazioni Unite, della Banca mondiale e di personaggi impor-tanti come Bill Gates e Bernie Sanders: circa 850 milioni di persone sono state strappate alla miseria.

Per Xi e per il Partito comunista cinese gli obiettivi di riduzione della povertà non hanno solo un significato politico, sono anche fondamentali fonti di legittimazio-ne, all’interno della Cina e di fronte al mondo. “I politici occidentali lavorano per le prossime elezioni. Pechino, invece, ha un partito al potere che si è dato grandi obiettivi”, osserva Hu Angang, consiglie-re del governo e responsabile per gli studi cinesi all’università di Tsinghua. “Nella storia dello sviluppo umano, raggiungere questo traguardo sarebbe, se non un caso unico, quanto meno un risultato degno di ammirazione”.

Laboratorio nazionaleStando al governo cinese, nei cinque anni del primo mandato di Xi sono state strap-pate alla povertà in media 13 milioni di persone all’anno. Circa 775mila funziona-ri sono stati inviati nei villaggi per guidare le operazioni, e il fondo pubblico contro la povertà è aumentato del 20 per cento e più ogni anno a cominciare dal 2013. A marzo i mezzi d’informazione hanno fat-to sapere che le casse dello stato hanno già distribuito 139,6 miliardi di yuan (17,6 miliardi di euro) dei circa 144 previsti. Ma l’epidemia di covid-19 ha causato una re-cessione economica, e il pil del paese nel

Addio alla povertàYuan Yang e Nian Liu, Financial Times, Regno Unito. Foto di Yufan Lu

Xi Jinping ha promesso di sradicare la miseria dalla Cina entro il luglio 2021, per il centenario del Partito comunista. Reportage da una delle province più arretrate del paese, simbolo di una campagna cruciale per il presidente

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Da sapere Verso il traguardoCinesi che vivono sotto la soglia di povertà (1,90 dollari al giorno), milioni Fonte: Banca mondiale

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primo trimestre è calato per la prima volta dopo quarant’anni. Le regioni povere so-no state tra le più colpite.

Alla fine del 2019 nelle campagne del-la Cina c’erano ancora 5,5 milioni di per-sone in condizioni di povertà estrema. L’obiettivo di Xi è portare la cifra a zero entro luglio del 2021, per il centenario della fondazione del Partito comunista cinese. Rispettare questa scadenza per-metterebbe al presidente di dichiarare che la Cina merita di esercitare la sua lea-dership nel mondo, spiega Gao Qin, esperto di previdenza sociale cinese alla Columbia university: “Il governo è deter-minato a raggiungere questo obiettivo.

Da marzo, le pubblicazioni ufficiali han-no ribadito che deve avvenire entro la fi-ne dell’anno”. Il fronte della “difficile battaglia” di Xi contro la povertà si sta spostando.

“In alcuni villaggi è difficile interveni-re a causa delle condizioni naturali e della mancanza d’infrastrutture di trasporto”, afferma Wang Xiangyang, docente di af-fari pubblici alla Southwest Jiaotong university di Chengdu. “Pochissime per-sone sono in grado di trovare lavoro emi-grando e la comunità deve fare affida-mento sull’agricoltura di sussistenza”. Come succede nella comunità montana sperduta dove vive Jike. Atuleer, noto co-

me il “villaggio sulla rupe”, si trova in ci-ma a una montagna alta 1.400 metri. Al pari di molte comunità appartenenti alla minoranza etnica yi nella prefettura di Liangshan, il villaggio è raramente visita-to dai turisti e difficile da raggiungere, e nulla sarebbe cambiato se a un certo pun-to non fosse diventato un caso nazionale. Nel 2016 un notiziario locale ha trasmes-so le immagini di alcuni bambini che scendevano su una vecchia scala di liane per raggiungere la scuola più vicina, a due ore di distanza. Subito sono arrivati sul posto altri giornalisti e l’amministrazione locale si è impegnata a realizzare una nuova scala d’acciaio lunga 800 metri.

La casa di Jizu Wuluo a Atuleer, maggio 2020 Nella casa di Jike Shibu

Jike Shizuo davanti a casa sua

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Cina

“La prefettura di Liangshan è diventata un’avanguardia nella lotta alla povertà, una specie di laboratorio nazionale”, os-serva Jan Karlach, ricercatore all’accade-mia delle scienze della Repubblica Ceca, il cui lavoro negli ultimi dieci anni si è con-centrato sulle prefetture di Liangshan e Nuosu-Yi. Nel 2017, durante la riunione annuale dell’assemblea nazionale del po-polo, Xi si è presentato alla delegazione della provincia del Sichuan per chiedere informazioni sui progressi nella riduzione della povertà tra la popolazione yi. “Quan-do ho visto in tv il servizio sul villaggio sul-la rupe nel Liangshan mi è venuta l’ansia”, racconta Karlach.

Trasloco in città

Negli ultimi mesi l’amministrazione loca-le ha ordinato il trasferimento di 84 nuclei familiari (circa la metà del villaggio) a Zhaojue, mettendo a disposizione una se-rie di appartamenti a un canone annuale agevolato di diecimila yuan (1.257 euro) per ogni alloggio. Le nuove case si trovano a due ore di auto dalla base della monta-gna di Atuleer, con uno striscione rosso che accoglie i nuovi residenti all’ingresso. Gli assegnatari dei nuovi appartamenti sono contenti di trasferirsi. In cima alla montagna le loro case di argilla sono espo-ste alla pioggia e alle frane, l’unica attività praticabile è l’agricoltura di sussistenza e non esistono né assistenza medica né scuole.

Anche se alcuni accademici della co-munità yi criticano il cambiamento delle abitudini imposto alle famiglie che si sono trasferite da Atuleer, gli sforzi del partito sono stati accolti quasi sempre con favore. “Anche un mio amico tradizionalista che diceva di non poter vivere in una casa sen-za un camino yi ha abbandonato l’idea nel giro di un anno”, dice Karlach. Ora il suo amico vive in città, in un appartamento con un manifesto di Xi Jinping sul muro, gentile omaggio dei funzionari locali per ricordare alle famiglie povere chi devono ringraziare. Altri, però, ancora non hanno capito come adattarsi alla realtà cittadina, perché le abitudini montanare mal si con-ciliano con la vita in appartamento. “Mia madre non vuole lasciare la montagna”, dice Jike, 24 anni. “Agli anziani la città non piace, dicono che manca la terra e che non c’è niente da mangiare. Io gli dico: ‘Man-gerete quello che mangiano gli altri’. Gli anziani non possono restare lassù da soli”.

Per prepararsi al trasloco, nelle ultime settimane Jike ha cominciato a portare a valle grandi carichi di biancheria e vestiti,

e si è anche guadagnato un discreto segui-to sui social network: mentre saltella da una roccia all’altra con il suo gigantesco zaino di plastica in spalla, chiacchiera al-legramente con i fan su Douyin, la versio-ne cinese di TikTok, portando il suo smart phone su un bastone da selfie. Jike arriva a incassare fino a tremila yuan al mese grazie alle dirette in streaming: una fortuna rispetto al reddito medio delle po-polazioni rurali locali, che è di circa 700 yuan (quasi 88 euro).

Jike ha accettato di accompagnarci al suo villaggio anche perché è convinto che quelli che restano abbiano bisogno di un mezzo per far conoscere le loro opinioni. In alcune regioni la strategia di sviluppo attraverso l’urbanizzazione ha portato a demolizioni forzate ed espropriazioni ai danni degli agricoltori, che da un momen-to all’altro si sono ritrovati senza più la ter-ra coltivata dalle loro famiglie per genera-zioni. Atuleer ha il problema opposto: le persone che voglio-no spostarsi sono molte di più di quelle previste dal governo.

Nei due giorni che trascor-riamo nel villaggio molte perso-ne ci mostrano le loro case per farci vede-re come l’amministrazione locale li ha trascurati. A Zhaojue la soglia della po-vertà estrema è 4.200 yuan all’anno e ad Atuleer le famiglie ufficialmente “colpite dalla povertà” hanno diritto a un reddito di base e a nuovi appartamenti a un prez-zo agevolato. In più, ricevono trenta polli.

Ma c’è anche chi non ha la fortuna di essere ufficialmente dichiarato povero, per negligenza, errore di calcolo o intoppi della burocrazia. Anche se hanno diritto ad alcuni aiuti come il salario minimo ga-rantito, queste persone non ricevono gli stessi sussidi e non contano ai fini degli obiettivi di eradicazione della povertà. In alcuni casi, il governo è riuscito a centra-re gli obiettivi grazie a una soluzione “amministrativa”: dall’inizio dell’anno alcune regioni hanno semplicemente smesso di registrare i residenti come “po-

veri”. “È stato tutto già censito, il sistema non accetta più nuovi nuclei familiari”, spiega Azi Aniu, segretario del partito per la prefettura (in seguito si è contraddetto, ammettendo che il sistema era in grado di registrare nuove famiglie povere ma che non è stato fatto per scelta).

Anche se il tasso di riduzione è stato effettivamente molto elevato, il livello reale della povertà può essere impossibi-le da misurare in un sistema che non è stato concepito per ammettere errori. Se-condo il governo, se l’assegnazione del reddito minimo funzionasse corretta-mente, le famiglie povere non esistereb-bero. L’attuale banca dati sarà revisiona-ta per la prossima fase del piano di svilup-po, che riguarderà i nuclei familiari in condizioni “precarie” o “borderline”.

Secondo Li Shi, docente di economia all’università Normale di Pechino, i dati raccolti nel 2014 indicano che circa il 60 per cento dei cittadini che in base al red-dito avrebbero dovuto risultare tra i “po-veri” in realtà non ha ottenuto lo status. Negli anni successivi “sono stati apporta-ti alcuni aggiustamenti e dovrebbero esserci dei progressi”, scrive Li.

Molte delle persone rimaste ad Atule-er si sentono abbandonate. “Mica sarai venuto qui per scrivere uno di quegli arti-coli sull’‘addio al villaggio sulla rupe’, ve-ro?”, mi chiede Jike Quri, che è stato tutto il giorno ad aspettarci in cima alla scala

d’acciaio. “Guarda che non c’è nessun addio: la metà di noi è ancora qui”. Meno di un’ora do-po che abbiamo fatto il check-in, alcuni funzionari locali si presentano davanti al nostro al-

bergo per segnalarci la delicatezza della situazione. Una settimana fa le tv e i gior-nali di stato sono venuti a vedere cosa suc-cede in questo avamposto della lotta alla povertà e hanno scritto una serie di arti-coli sugli abitanti del villaggio che si tra-sferiscono felici nei loro appartamenti.

Su un giornale locale è stata pubblica-ta una foto di Mouse Xiongti, 25 anni, e della sua famiglia nel loro nuovo apparta-mento, davanti a una pila di coperte acca-tastate sul letto. Quando entriamo in ca-sa di Mouse, la troviamo completamente spoglia, a parte i pochi mobili forniti dal governo: un set di armadi, divano, sedie, tavoli e letto. Su quasi tutti i mobili c’è una targa con la scritta “Governo popola-re del comitato provinciale del Sichuan del Partito comunista cinese”.

Il nervosismo dei politici locali è in gran parte dovuto al fatto che Atuleer è

Le famiglie in difficoltà hanno diritto a un reddito di base e a nuovi appartamenti a un prezzo ridotto. In più, ricevono trenta polli

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diventato il simbolo di un obiettivo fon-damentale per il governo: Xi si è impe-gnato personalmente a ridurre la pover-tà, rafforzando la sua immagine populi-sta di “imperatore contadino” che simpa-tizza con la gente comune, un personag-gio non lontano da quello costruito da Mao Zedong.

La propaganda di stato mostra spesso Xi mentre parla dei raccolti con i contadi-ni o è seduto a gambe incrociate nella ca-sa di un villaggio o ride insieme ai pensio-nati. Nel suo primo mandato presiden-ziale, cominciato nel 2012, ha visitato 180 regioni povere in venti province. È stato nel Liangshan nel 2018.

I cartelli rossi e bianchi che hanno as-segnato un appartamento alla famiglia di Jike Shibu sono la parte finale di un pro-gramma che ha richiesto la creazione di una banca dati delle famiglie e il monito-raggio costante dei loro progressi. La campagna prevede un aumento dei fi-nanziamenti pubblici per progetti di assi-stenza sociale nelle zone rurali, l’istitu-zione di un potente comitato incaricato di guidare l’intervento e la creazione di

una banca dati nazionale delle famiglie povere. Entro la fine di quest’anno, la fa-miglia di Jike e altre dovranno essere tol-te dal sistema.

Gli abitanti rimasti ad Atuleer, però, si lamentano di non aver ricevuto la stessa attenzione dalle autorità locali, e le accu-sano di non visitare così assiduamente le case in cima alla montagna. Non c’è alcu-na reale differenza, sostengono, tra le fa-miglie “colpite dalla povertà” e le altre.

Figli a caricoAlcune famiglie hanno il problema di es-sere accorpate in un’unica voce sul regi-stro. Questo succede quando gli adulti con figli risultano ancora a carico dei ge-nitori, e quindi gli viene assegnata una sola casa. Le richieste di registrazione di nuovi nuclei familiari sono spesso respin-te. Altri sono vittime di processi burocra-tici kafkiani. Jizu Wuluo, 37 anni, vedova e madre di quattro figli, di cui due dati in adozione forzata, vorrebbe che i suoi bambini avessero una buona istruzione e ha preso in affitto un appartamento vici-no alla scuola ai piedi della rupe. Jizu

avrebbe diritto a pieno titolo allo status di famiglia “povera”. Eppure, anche se ha cercato più volte di ottenerlo, ogni volta le hanno detto di aspettare. A ottobre 2019 è stato finalmente assegnato a lei e ai suoi due figli un salario minimo garan-tito di 2.940 yuan all’anno, parte del pac-chetto di misure contro la povertà a cui il governo attinge quando non ha altre so-luzioni. In Cina lo ricevono circa 43 milio-ni di persone. Nella contea di Zhaojue l’importo massimo annuale pagato agli aventi diritto che abitano nelle campagne è di 4.200 yuan (525 euro). “So che Xi Jin-ping ha detto di aiutare i poveri, ma quan-do le cose finiscono in mano ai funzionari locali come voi, aiutate solo chi ha già una posizione nella società”, dice Jizu du-rante un incontro con Azi, il segretario locale del partito, che ascolta paziente-mente una serie di rimostranze.

Dopo la nostra partenza Azi si è occu-pato della pratica di Jizu. I motivi per cui non ha avuto la priorità nell’assegnazio-ne di un appartamento sono incompren-sibili. Nel 2013 è stata esclusa dal primo censimento delle famiglie povere. In un

Il salotto di Azi Keer, nel Sichuan, maggio 2020Il nuovo salotto di Laer Yixia, nel Sichuan, maggio 2020

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secondo momento è stata registrata co-me capofamiglia di un “nucleo familiare impoverito senza iscrizione nel registro ufficiale”. Azi non sa dire quando la lista delle famiglie povere ha smesso di essere aggiornata, ma assicura che Jizu sarà tra-sferita in città entro la fine dell’anno. “Gli appartamenti assegnati sono bellissimi, più di molte altre proprietà immobiliari in città, perciò alcuni abitanti del villaggio sono un po’ invidiosi”, dice Azi. “Te lo di-co con la massima sincerità”.

Trasferirsi in città può essere il primo passo per assicurarsi mezzi di sostenta-mento più sicuri, ma la cosa più impor-tante è trovare lavoro. I funzionari locali incoraggiano i giovani a cercare lavoro in città, in particolare lungo la costa sudo-rientale industrializzata. Per decenni la migrazione dalle campagne è stata la strada maestra per il miglioramento delle condizioni di vita: secondo le statistiche del governo, in Cina ci sono circa 236 mi-lioni di lavoratori migranti.

La maggior parte dei ragazzi con cui mi è capitato di parlare, per lo più tra i 18 e i 25 anni, lavorano solo per periodi di po-chi mesi. Di solito svolgono attività poco qualificate nell’edilizia e si spostano in gruppi organizzati da amici o parenti. Co-me tutti i migranti cinesi, quando arriva-no in città i lavoratori del Liangshan sono svantaggiati: non avendo la residenza, nella stragrande maggioranza dei casi non hanno accesso all’assistenza sanita-ria e non possono mandare i figli a scuola. Quando è scoppiata l’epidemia di co-vid-19 questi lavoratori – che spesso han-no dovuto continuare a consegnare la spesa o a fare le pulizie negli ospedali – sono stati particolarmente esposti.

Spesso hanno un basso livello d’istru-zione. Quelli che abbiamo intervistato erano in gran parte e nella migliore delle ipotesi semialfabetizzati, e alcuni non parlavano il mandarino. Oggi, grazie a internet, la situazione sta cambiando. I social network, il commercio online e le piattaforme di live streaming offrono più opportunità di leggere e scrivere fuori dalla scuola. Jike, che è andato a scuola solo per due anni, ha imparato a leggere, a scrivere e a parlare cinese grazie ai vi-deo in streaming. A un certo punto, scor-rendo i commenti di altri utenti sullo schermo, risponde a una donna: “Sorella, non ho capito cosa c’è scritto”.

Un altro mezzo per uscire dal villaggio è l’istruzione. Mentre alcune famiglie mandano i figli a lavorare, altre preferi-scono che studino. Mouse Lazuo, 17 anni,

sorella di Xiongti, spera d’invertire la tendenza del suo villaggio andando all’u-niversità. È l’unica della sua età a studia-re ancora, le altre sono andate a lavorare o si sono sposate. Nella sua classe ci sono in tutto 72 studenti. A casa Mouse parla yi ma studia in mandarino, a parte un’ora e mezza di lezioni di lingua yi a settimana. “Penso che sia un bene introdurre la cul-tura han (l’etnia del 90 per cento dei cine-si), a patto che coesista con quella tradi-zionale”, osserva. “Non possiamo rinun-ciare alla nostra lingua”.

Progetto di civilizzazioneIl popolo yi ha vissuto sulle montagne del Liangshan per secoli, non lontano dai confini del Sichuan con il Tibet e la Bir-mania. Rimasto ai margini dell’impero cinese per più di un millennio, nel 1957 il Liang shan finì sotto il dominio comuni-sta grazie all’aiuto dell’esercito popolare di liberazione. Gli yi furono identificati come tali da-gli antropologi inviati dal go-verno nazionale di Pechino ne-gli anni cinquanta, che compi-larono l’elenco delle 55 minoranze etni-che ufficialmente riconosciute.

“È un progetto di civilizzazione forza-ta”, dice Karlach, che ha vissuto nel Lian-gshan, per spiegare la strategia del gover-no per ridurre la povertà tra le minoran-ze. “Quasi sempre nel Liangshan agli abitanti non viene proposto di moderniz-zarsi alle loro condizioni: la modernità gli viene portata dall’esterno. Gli yi vogliono essere cinesi e sono orgogliosi di essere cinesi, ma vogliono anche essere yi”.

Il governo sostiene che insegnare il mandarino e i costumi han non solo ren-de più facile governare le minoranze, ma le aiuta anche a inserirsi in un’economia dominata dalla cultura han. In Cina la ra-pida urbanizzazione ha cambiato le cul-ture locali, che si sono uniformate alla monocultura della città e del denaro.

A Zhaojue molti negozi danno lavoro alla gente del posto, anche se le attività

più recenti spesso sono gestite da mi-granti han provenienti da zone più ricche della Cina. “In genere i lavoratori locali non rimangono a lungo”, spiega Mao Dongtian, un imprenditore della città co-stiera di Wenzhou che ha aperto una ca-tena locale di caffè e bar con karaoke. I suoi dipendenti guadagnano tra i mille e i tremila yuan – una cifra dignitosa per la zona – ma non amano la disciplina e la scarsa flessibilità del lavoro a tempo pie-no. “Hanno abitudini più arretrate rispet-to alla maggioranza han, e stiamo cer-cando di insegnargli le nostre”, sostiene Mao. Racconta di aver incoraggiato alcu-ni dipendenti malati a cercare assistenza medica invece di affidarsi ai rimedi tradi-zionali, un atteggiamento verso le mino-ranze tipico degli han.

Quando chiedo a Jike cosa gli man-cherà di più di Atuleer, risponde “il pano-rama”. Ogni tanto, dice, tornerà al villag-gio per goderselo. Dopo il tramonto il cie-lo si riempie di stelle e la notte è buia e calma. A Zhaojue, invece, c’è la luce dei lampioni e le strade brulicano di pedoni e automobili.

Dal 30 giugno il governo è passato alla fase successiva del piano di sviluppo: “Il rilancio dei villaggi”. Anche se i piani di sviluppo si sono concentrati sui poveri delle aree rurali, i poveri delle città preoc-cupano sempre di più. Le città sono poco

propense ad accogliere i mi-granti: due anni fa, Pechino ha “fatto pulizia” della “popola-zione di fascia bassa”. Alcuni economisti stimano che circa 50 milioni di lavoratori migran-

ti abbiano perso il lavoro dall’inizio dell’epidemia.

Qualche settimana fa, dopo i successi sbandierati da Xi nella lotta alla povertà, il premier Li Keqiang ha scatenato l’indi-gnazione popolare dopo aver rivelato che i due quinti più poveri della popolazione cinese guadagnano in media meno di mil-le yuan al mese. Sono circa 600 milioni di persone, che costituiscono una percen-tuale significativa degli abitanti delle città e dei poveri delle aree rurali. “In un modo o nell’altro, l’obiettivo sarà dichiarato rag-giunto e farà parte delle grandi celebrazio-ni del 2021. Poi gli obiettivi si sposteranno, immagino su questioni come l’uguaglian-za e l’equità”, osserva Kerry Brown, stu-dioso di politica cinese al King’s college di Londra. “Questo è davvero un campo di battaglia chiave, perché la disuguaglianza in Cina è un problema serio e non ci sono stati miglioramenti”. ◆ fas

Alcuni economisti stimano che circa 50 milioni di lavoratori migranti abbiano perso il lavoro dall’inizio dell’epidemia

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Europa

All’inizio di aprile le aziende agricole e ali-mentari britanniche e tedesche hanno convin-to i loro governi ad auto-rizzare l’organizzazione

di voli speciali per il trasporto dei lavora-tori stagionali romeni, che da più di dieci anni raccolgono la frutta e la verdura nei paesi più ricchi dell’Europa occidentale. Nonostante la Romania si trovasse in pie-no stato di emergenza e avesse imposto ai suoi cittadini un regime di rigorosa qua-rantena, in poche settimane sono partite più di 16mila persone.

Ogni anno il Regno Unito ha bisogno di circa 90mila stagionali, secondo le sti-me degli esperti di agricoltura. Anche se in tempi di Brexit questi lavoratori sono considerati “immigrati non qualificati”, e quindi non graditi, con la pandemia i bri-tannici hanno scoperto di averne estremo bisogno. Per riempire il vuoto lasciato dai lavoratori dell’Europa dell’est che non po-tevano spostarsi a causa della pandemia di covid-19, nel Regno Unito ci sono state diverse campagne sui mezzi d’informa-zione – per esempio Pick for Britain (Rac-cogli per la Gran Bretagna) e Feed the na-tion (Nutri la nazione) – per incoraggiare i cittadini britannici a lavorare nell’agricol-tura. I messaggi facevano leva sul senti-mento patriottico e ricorrevano ai parago-ni con la seconda guerra mondiale, un ca-pitolo particolarmente glorioso della sto-ria britannica. Perfino il principe Carlo è intervenuto: in un video girato in un idil-

liaco paesaggio scozzese incoraggiava i suoi compatrioti ad andare a lavorare nei campi. Per tutta risposta la maggior parte dei commenti al filmato invitava il princi-pe a dare il buon esempio e ad andare a raccogliere la frutta per primo.

Nonostante tutti questi sforzi, e nono-stante l’aumento della disoccupazione a causa della pandemia, non sembra che i britannici abbiano preso d’assalto le fat-torie del paese. Nel 2018, tra le diecimila persone che avevano fatto domanda per un impiego nel settore all’agenzia di re-clutamento Concordia solo due erano britanniche. Nell’aprile del 2020 l’agen-zia ha fatto sapere di aver ricevuto 36mila domande da parte di cittadini del Regno Unito. Solo il 16 per cento di questi, però, ha accettato di sostenere il colloquio onli-ne. Novecento sono stati selezionati e al-la fine appena 112 hanno accettato i con-tratti di lavoro che gli erano stati proposti.

Dopo la quarantenaIon è originario della cittadina romena di Băile Herculane, ha 39 anni e dal 2011 la-vora come stagionale nel Regno Unito. Per circa nove mesi all’anno raccoglie fra-gole per un’azienda dell’Hereford shire. Al telefono mi racconta che sul volo char-ter partito il 6 maggio dall’aeroporto di Otopeni, a Bucarest, i passeggeri erano seduti l’uno accanto all’altro, senza nes-sun distanziamento. Eppure le autorità romene avevano promesso controlli rigo-rosi sulle condizioni di viaggio degli sta-gionali. Ion non crede che sia davvero

un’epidemia. “È solo propaganda politi-ca”, dice. Poi racconta che a bordo dell’a-ereo non c’erano disinfettante, masche-rine e guanti, come invece avevano pro-messo le autorità. In compenso gli hanno dato dell’acqua e un panino, senza speci-ficare se avrebbe dovuto pagarli. Una vol-ta arrivato a destinazione, Ion ha scoper-to di dover restituire cento sterline per il biglietto aereo. Poi gli è stata misurata la temperatura, cosa che nessuno aveva fat-to prima, né a Bucarest né all’aeroporto d’arrivo in Inghilterra. È rimasto in qua-rantena per sette giorni – invece di 14, come raccomandato dalle autorità sani-tarie – e infine ha cominciato a lavorare.

FragoleamareOana T, enter, Scena 9, Romania

Per la raccolta di frutta e verdura le aziende agricole del Regno Unito e di altri paesi europei dipendono dai lavoratori romeni e bulgari. Un sistema che nasconde abusi e sfruttamento

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Raccoglie fragole per otto ore al giorno, ed è deluso perché non gli permettono di lavorare di più.

Ion racconta che durante il lavoro nes-suno si occupa di far rispettare le misure di sicurezza contro il virus Sars-cov-2, come invece è previsto dalle linee guida del governo britannico per l’agricoltura. Per fare la spesa, gli stagionali possono andare nei negozi della cittadina più vici-na, ma sono invitati a stare lontani dalla gente. E la sera devono anche evitare di socializzare in gruppo. Ma “da un orec-chio ci entra e dall’altro ci esce”, dice Ion.

All’inizio della pandemia il governo britannico ha preparato una guida indi-

rizzata ai coltivatori con i comportamenti da adottare per evitare la diffusione del covid-19. Nello stesso periodo Bev Clark-son, del sindacato Unite, uno dei più grandi del Regno Unito, ha chiesto al go-verno di chiarire se i voli che trasportano gli stagionali rispettano le regole di di-stanziamento sociale, se ai lavoratori vengono fatti i test diagnostici per il co-vid-19, se gli viene misurata la tempera-tura, se rimangono in autoisolamento quando necessario e se vivono in condi-zioni che gli permettono di rispettare le misure di prevenzione.

Secondo Clarkson, “gli stagionali quando arrivano finiscono in un buco ne-

ro: nessuno sa esattamente cosa succede nelle aziende agricole”.

Vlad ha 27 anni, è originario di un pae-se nei pressi di Craiova e il 22 maggio è partito da Bucarest per andare a lavorare in un’azienda agricola vicino a Cam-bridge, come fa dal 2015. Racconta che sull’aereo le regole di distanziamento so-ciale sono state rispettate e che in azien-da i nuovi arrivati sono incoraggiati a sta-re distanti gli uni dagli altri. Il periodo di quarentena, invece, non è stato osserva-to: tutti hanno cominciato a lavorare ap-pena arrivati. Ad aprile il sottosegretario all’agricoltura John Gardiner aveva an-nunciato in parlamento che gli stagionali

Feversham, Regno Unito, 29 giugno 2018

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Europa

dovevano osservare una quarantena di 14 giorni, periodo che poteva essere ridotto se l’approvvigionamento alimentare fos-se stato a rischio. Da giugno, invece, l’iso-lamento non è più obbligatorio.

Vlad sostiene di riuscire a riempire una cassetta di fragole da quattro chili in quat-tro minuti. La paga oscilla tra 1,05 e 1,20 sterline a cassetta. È tra i lavoratori più ve-loci dell’azienda ed è motivato, oltre che dai soldi, dalla sfida personale: “Sono competitivo. Dopo sei anni sono sempre più rapido. E mi piace sfidare gli altri”.

Dodici ore nei campiChi non ha mai lavorato in una fattoria fa fatica ad adattarsi alle richieste dei pro-duttori. Con le fragole, per esempio, la pressione a raccogliere più in fretta au-menta quando le piante cominciano a fare più frutti. Se qualcuno non riesce a riempire le cassette richieste entro l’ora di pranzo viene rimandato nei dormitori per punizione. Le aziende britanniche hanno pretese sempre maggiori anche perché in Europa dell’est le misure contro il covid-19 sono state allentate: ora che hanno libero accesso alla forza lavoro straniera, possono sostituire i dipendenti con grande facilità.

Pressioni simili sono la norma nell’a-zienda agricola di Chichester dove Adrian Mares, ha lavorato prima come assistente e poi come responsabile della raccolta. Se i lavoratori non riuscivano a portare a termine il compito richiesto en-tro l’ora di pranzo, venivano congedati per la giornata e ricevevano un avverti-mento. Dopo sei avvertimenti rischiava-no il licenziamento. Per questo si era af-fermata una regola non scritta: i più velo-ci davano una mano ai più lenti in cambio di soldi. “Tutti erano sotto pressione. Ci sono stati anche casi di depressione”, spiega Mares, .

Nel Regno Unito quasi tutte le aziende agricole pagano i lavoratori a cottimo. Alexandru Barbacaru, direttore dell’a-genzia di collocamento East-West servi-ces, spiega che questo sistema può essere molto ingiusto: se è vero che alcune per-sone riescono a guadagnare anche mille sterline a settimana, ci sono diversi lavo-ratori con rendimenti e paghe parecchio più bassi. A molti romeni con cui ho par-lato il sistema non dispiace: in Romania per un giorno di lavoro in agricoltura gua-dagnerebbero circa cento lei (20 euro), una cifra che nel Regno Unito con il cotti-mo possono accumulare in due ore.

Anche per quanto riguarda le condi-

zioni di lavoro, molti non hanno nulla da ridire. Iulia Racolt,a ha lavorato per cin-que anni in un’azienda agricola nel Kent e racconta di essersi sempre trovata be-ne. Dormivano in quattro in una roulotte e “c’era anche una persona che faceva le pulizie”. Adrian Mares, conferma. “Il la-voratore ha un letto, piatti e posate a di-sposizione, lenzuola pulite, trasporto per l’aeroporto e per fare la spesa, e anche feste organizzate. Il lavoro è duro, certo. Ma le persone fanno le loro scelte”.

Giulianela Calina, ex supervisora in un’azienda agricola di West Peckham, racconta che “nei campi ci si divertiva, si rideva tanto. Ma c’erano giorni in cui pio-veva moltissimo e faceva freddo. Alcune ragazze avevano tracce di sangue nelle urine: prendevano freddo ai piedi e si beccavano un’infezione alle vie urina-rie”. Il problema principale era l’orario di lavoro, particolarmente lungo durante l’alta stagione. A volte si cominciava alle quattro di mattina e si finiva alle nove di sera, con un po’ di riposo pomeridiano sotto gli alberi se faceva troppo caldo. Quando faceva buio, i campi erano illu-minati con i fari delle macchine. Giulia-nela spiega che tutti lavoravano oltre l’o-rario stabilito per guadagnare di più. E quando arrivavano gli ispettori del lavoro era normale dichiarare il falso. “Ti sta chiedendo quante ore lavori al giorno, vedi di rispondere otto o dieci”, diceva agli altri raccoglitori, per i quali traduce-

va dall’inglese al romeno. Per spiegare ai bulgari come rispondere, alla fine Giulia-nela aveva anche imparato la loro lingua. E nei registri segnava sempre meno ore di quelle effettivamente lavorate.

Nel 2014 – l’anno in cui alcuni paesi europei, tra cui il Regno Unito, hanno eli-minato le restrizioni sui lavoratori rome-ni e bulgari – i migranti dell’est sono di-ventati i bersagli preferiti della stampa scandalistica britannica, impegnata a denunciare un’imminente invasione. Il 31 dicembre 2013 il tabloid The Daily Mail scriveva che centinaia di autobus e aerei pieni di romeni erano già in viaggio verso il Regno Unito, e che i biglietti era-no costati fino a tremila sterline. Ovvia-mente erano notizie senza fondamento. Nigel Farage, il leader politico nazionali-sta favorevole alla Brexit, ha costruito la sua strategia sulla retorica anti-immigra-ti, accusando i romeni di rubare il lavoro ai britannici e di voler approfittare del welfare del Regno Unito.

Tuttavia, da quando la pandemia ha stravolto gli equilibri del mercato del lavo-ro, quotidiani come il Sun e il già citato Daily Mail, abituati ad associare gli immi-grati dell’est a criminalità e povertà, han-no cambiato registro. Oggi i romeni sono chiamati brave Romanians e critical wor-kers (“romeni coraggiosi” e “lavoratori essenziali”) in articoli con titoli come “Romanians to the rescue” (I romeni ven-gono a salvarci). Florina Tudose, del Cen-tro risorse per i lavoratori esteuropei nel Regno Unito, lo conferma: “Ma appena questo delirio finirà, la situazione tornerà com’era prima: ormai gli immigrati sono il capro espiatorio per tutti i problemi del paese. In occasione del referendum sulla Brexit, nel giugno del 2016, i crimini d’o-dio erano aumentati. Dopo che la pande-mia sarà finita e avremo a che fare con la fase più critica della crisi economica, l’on-data d’odio sarà anche maggiore”.

Schiene di ferroNei mesi scorsi, quando i giornali e le tv hanno accusato i britannici di non voler faticare nei campi, diverse persone sono intervenute per raccontare la loro espe-rienza: erano state selezionate dalle agen-zie di lavoro, ma nessuna azienda le ha chiamate. Harry Pyrgos, 26 anni, dice che tutte le aziende agricole a cui aveva fatto richiesta gli hanno risposto che, prima di reclutarlo, dovevano capire se i lavoratori dell’est sarebbero potuti arrivare. Per l’e-state Pyrgos aveva programmato di lavo-rare nei festival musicali, montando pal-

I tabloid britannici hanno cambiato tono: gli stagionali romeni sono diventati eroi

Da sapere L’Europa agricolaI primi dieci paesi dell’Unione europea per occupati in agricoltura, 2016, % sul totale

*dati del 2015 Fonte: Eurostat

Romania

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15

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5

0

Bulgaria

Grecia*

Polonia*

Portogallo

Slovenia

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Croazia

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Lettonia

Irlanda

Cipro

Italia

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56 Internazionale 1368 | 24 luglio 2020

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Internazionale 1368 | 24 luglio 2020 57

chi e servendo ai bar. Annullati i festival, aveva pensato all’agricoltura, settore in cui aveva già qualche esperienza. A con-vincerlo erano stati anche gli appelli del governo. In più, Harry aveva una roulotte in cui avrebbe potuto abitare durante i pe-riodi di lavoro, e come lui molti altri ragaz-zi britannici. Se queste persone non sono reclutate è perché alle aziende conviene impiegare gli stranieri: per l’esperienza, certo, ma soprattutto perché gli stranieri sono costretti a pagare agli agricoltori l’af-fitto dei prefabbricati e delle roulotte dove dormono, fino a 50 sterline alla settimana.

“Le campagne per incentivare il lavoro agricolo non possono funzionare, perché gli inglesi sono scollati dalla realtà”, dice Alexandru Barbacaru. “L’idea di aiutare il paese, come nella seconda guerra mon-diale, è anche bella, ma tra cento britanni-ci che cominciano a lavorare nei campi il lunedì, se alla fine della settimana ne ri-mangono due è già tanto. Per molti si trat-ta di un lavoro sotto la soglia della dignità umana”.

Durante i tre anni in cui ha lavorato co-me responsabile alla fattoria di Chiche-ster, Adrian Mares, ha avuto a che fare con un solo lavoratore britannico: era stato inviato dall’ufficio di collocamento e ha

resistito una settimana. “Gli inglesi non lavorano più nei campi. Quanto agli immi-grati, più mettono radici nel paese, più si spostano verso altri settori con impieghi pagati meglio e meno faticosi”, continua Mares, . “I polacchi, per esempio, ormai sono tutti in fabbrica. I romeni, invece, continuano a lavorare nell’agricoltura”.

Iulia Racolt,a e il marito hanno lavorato per cinque anni in un’azienda nel Kent: “I britannici erano pochissimi. E raccoglie-vano in un giorno quello che noi raccoglie-vamo in una o due ore. Non sono abituati e non vogliono fare questi lavori. Li consi-derano troppo umili”.

Ion è dello stesso parere: “Non resisto-no, non gli piace. E non sono rimasti nean-che quando erano pagati in base alle ore di lavoro e non a cottimo”.

Vlad racconta che quest’anno per la prima volta ha dei colleghi britannici, che però non fanno la raccolta, ma si occupa-no della cura delle piante.

“I romeni sanno che rimangono a la-vorare per un periodo che va dai tre ai sei mesi, quindi lavorano fino allo sfinimen-to”, spiega Mares, .

“Si danno da fare, non stanno mai fer-mi”, aggiunge Giulianela Calina. “E fan-no di tutto per guadagnare i soldi che gli

servono per finire di costruirsi la casa in Romania”.

“Più lavoro ci danno, meglio è. È per questo che sono andato via da casa”, af-ferma Ion.

Anche se nel Regno Unito i coltivatori sono quelli che hanno più bisogno degli immigrati esteuropei, molti hanno votato per la Brexit. Vicki Hird, esperta di agri-coltura sostenibile e consulente dell’asso-ciazione Sustain, citando un vecchio pro-verbio britannico li paragona ai “tacchini che votano per il Natale”. Ma la situazione attuale e la penuria di forza lavoro nel set-tore alimentano diversi dubbi su quello che succederà dopo che la Brexit sarà completata, quando cioè l’immigrazione dei romeni e dei bulgari sarà molto limita-ta. Nel paese si discute di introdurre nel 2021 un sistema di visti per circa diecimila stagionali all’anno, ma i coltivatori sanno già che avranno bisogno di molte più brac-cia. Ali Capper, coltivatrice iscritta al sin-dacato britannico degli agricoltori, non crede che ci saranno grandi sconvolgi-menti, perché il lavoro degli stagionali è temporaneo, e molto duro, e il Regno Uni-to attingeva alla manodopera esteuropea anche quando aveva tassi di disoccupa-zione del dieci per cento, nel 2013.

La raccolta delle fave nel Warwickshire, giugno 2016

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Europa

58 Internazionale 1368 | 24 luglio 2020

Gli stagionali romeni pagano ai datori di lavoro un affitto per l’alloggio e si spez-zano la schiena dalla fatica. Eppure ogni anno tornano nel Regno Unito, e non si lamentano delle condizioni e degli orari di lavoro. “Non rivendicano i loro diritti, an-zi, spesso non sanno di averne. Per questo sono vulnerabili. E poi molti non parlano inglese, e non riescono a far valere le loro ragioni”, spiega Florina Tudose. Ion, per esempio, dice di non aver mai letto il suo contratto, anche se lavora nella stessa azienda da nove anni.

I più vulnerabiliPer verificare il rispetto delle regole, ogni due anni Alexandru Barbacaru visita le aziende agricole per le quali la sua agenzia di lavoro fa da intermediaria. In caso di denunce, l’agenzia fa indagini interne e, se necessario, sposta il lavoratore in un’altra fattoria.

Per assumere dipendenti, le aziende agricole britanniche devono ottenere la licenza dalla Gangmasters and labour abuse authority (Glaa), che tutela i lavora-tori dagli abusi e dallo sfruttamento e pre-vede ispezioni annuali. La Glaa è stata istituita nel 2005, dopo che l’anno prece-dente 23 immigrati cinesi, senza permesso

di soggiorno e assunti in nero, erano anne-gati nel golfo di Morecambe mentre rac-coglievano conchiglie. Nel 2013 il ministe-ro dell’interno britannico stimava che nel paese ci fossero 13mila vittime di schiavitù e tratta, soprattutto albanesi, romene, viet namite e nigeriane. Nel 2015 Londra ha adottato la legge contro la schiavitù moderna, che impone alle aziende di assi-curarsi che la manodopera non sia costret-ta a lavorare in condizioni di schiavitù, e ha introdotto l’ergastolo per i trafficanti di esseri umani. Lo stesso anno alcuni citta-dini lituani costretti a lavorare in un’azien-da che produceva uova hanno fatto causa a un’agenzia di lavoro del Kent, descriven-do le condizioni disumane e degradanti in cui avevano vissuto tra il 2009 e il 2012. Nel 2017 la Glaa ha acquisito nuovi poteri e responsabilità. Ormai funziona come una sorta di forza di polizia specializzata nei casi di sfruttamento dei lavoratori.

In un recente rapporto l’agenzia ha do-cumentato casi di persone costrette a la-vorare per 15 ore di fila, sette giorni su set-te e per salari sotto il minimo garantito. E poi incidenti mai denunciati e alloggi del tutto inadeguati. Secondo lo studio, i più esposti allo sfruttamento sono i romeni e i bulgari. Nonostante queste premesse,

tutte le organizzazioni che ho contattato mi hanno confermato che, per paura di perdere il lavoro, gli stagionali esteuropei difficilmente parlano delle loro esperien-ze. “Il sindacato è la voce dei più deboli”, dice Bev Clarkson di Unite, “ma è diffici-le svolgere il nostro compito se, come succede in questo periodo, i lavoratori dell’est hanno paura a parlare con noi”. In poche parole, se i lavoratori non li denun-ciano, gli abusi sono difficili da punire. Del resto decidere di esporsi è complica-to. “Quando viene scoperto un abuso”, spiega Paul Coffey della Glaa, “l’immi-grato perde il lavoro. Era sfruttato, e ne era consapevole, ma guadagnava parec-chio più che nel suo paese. Così molti te-mono che, se denunciano lo sfruttamen-to, saranno costretti a tornare a casa, do-ve probabilmente trovano una situazione tutt’altro che rosea”.

Un altro problema è rappresentato dal fatto che la maggior parte dei romeni non parla inglese. Per metterli in guardia dalle inserzioni che potrebbero nascondere sfruttamento e abusi, qualche mese fa la Glaa ha creato una pagina web in romeno, che è stata visualizzata più di un milione di volte. Le segnalazioni sono aumentate, ma non quanto si aspettava l’agenzia.

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Emigrati esteuropei a Boston, nel Lincolnshire. Agosto 2018

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Page 59: Internazionale - 24 07 2020

Internazionale 1368 | 24 luglio 2020 59

Kristjan Bragason, segretario genera-le della Federazione europea dei sindaca-ti alimentari, agricoli e turistici (Effat), conferma che nel Regno Unito come in Germania non mancano i casi di persone pagate meno del salario minimo. E poi c’è l’affitto: non esistono infatti leggi che sta-biliscano quanto può essere trattenuto dal salario per l’alloggio. O meglio, nel Regno Unito alcune norme ci sono, ma non sono quasi mai applicate, anche a causa dei tagli al settore dei controlli sul lavoro. Emily Kenway, dell’ong Focus on labour exploitation, è d’accordo: “Non veniamo a conoscenza degli abusi sem-plicemente perché ci sono pochi control-li. Probabilmente spesso sono abusi di poco conto. Ma la pandemia sta cam-biando tutto. Presto molti saranno dispo-sti ad accettare qualsiasi condi-zione pur di avere un reddito”.

Kristjan Bragason ha fatto pressione sulla Commissione europea per avere più controlli in agricoltura e per assicurare il rispetto delle misure contro il covid-19. La risposta ricevuta all’inizio del lock-down dai governi britannico e tedesco è stata contraddittoria: gli ispettori del la-voro non potevano fare i controlli a causa dei provvedimenti contro il virus. “Abbia-mo saputo di condizioni di lavoro terribi-li, anche nel Regno Unito, di alloggi in cui è impossibile osservare il distanziamento e le regole di igiene consigliate dalle au-torità”, spiega Bragason. In seguito la Glaa ha dichiarato di aver ripreso le ispe-zioni, ovviamente nel rispetto delle misu-re di sicurezza contro la pandemia. All’i-nizio del lockdown, inoltre, l’agenzia ha accelerato le verifiche per le concessioni delle licenze, in modo da velocizzare le pratiche burocratiche e garantire l’ap-provvigionamento dei negozi. Una prati-ca che però nasconde più di un rischio per la sicurezza degli stagionali.

Sotto pressioneL’agricoltura, insomma, è un settore in cui il rischio di sfruttamento è molto alto, an-che a causa della dipendenza dei lavorato-ri stagionali dai padroni per l’alloggio, il trasporto e il vitto. Con l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, questa dipen-denza aumenterà. Oggi, infatti, gli immi-grati esteuropei in teoria possono decide-re di lasciare il datore di lavoro che li sfrut-ta e cercare un impiego altrove. In futuro, invece, il loro visto per il Regno Unito sarà legato al posto di lavoro, e la paura di esse-re licenziati li renderà ancora più docili.

Nella campagna referendaria del 2016 i sostenitori della Brexit avevano promesso che con l’uscita dall’Unione non sarebbero più arrivati immigrati non qualificati oltremanica. E qualche mese fa in parlamento il conservatore Kevin Foster ha assicurato che il nuovo sistema di immigrazione a punti attirerà gli stra-nieri “migliori e più intelligenti” e che l’economia britannica non sarà più di-pendente dalla “manodopera europea a basso costo”. Quello che è successo nei mesi della pandemia dimostra il contra-rio: i lavoratori stranieri non qualificati sono essenziali per il Regno Unito.

L’agricoltura britannica deve fare an-che i conti con chi la critica per i suoi me-todi non sostenibili, perché distrugge il suolo e danneggia le falde freatiche. Inol-

tre, tutte le associazioni dei pro-duttori si lamentano dell’enor-me potere che hanno le catene della grande distribuzione. Ol-tre a imporre standard rigorosi per le dimensioni e l’aspetto

della frutta e della verdura, i grandi su-permercati decidono i prezzi da pagare agli agricoltori, spesso inferiori ai costi di produzione. Il risultato è che i coltivatori sono costantemente sotto pressione e cercano di risparmiare sull’unico capito-lo di spesa che possono controllare: gli stipendi degli stagionali e le loro condi-zioni di lavoro.

Così, in situazioni estreme, il panico dei coltivatori di fronte a questo modello economico si traduce in abusi e sfrutta-mento. “Prezzi bassi nei negozi il più del-le volte significa sfruttamento dei lavora-tori”, spiega Kristjan Bragason. “Il siste-ma di approvvigionamento si regge sulla promessa di forza lavoro a basso costo. Se le aziende non trovano manodopera lo-cale economica, ricorrono ai lavoratori dei paesi dell’est dell’Unione europea. E se non basta, vanno a cercare braccia an-cora più a est: in Ucraina, Bielorussia, Thailandia, Filippine e Cina. Nell’Unio-ne europea ormai si parla molto di nuove direttive sul lavoro e di un maggior con-trollo sulla filiera alimentare”.

Vicki Hird spiega che questi interventi non comporteranno necessariamente prezzi più alti, ma un rapporto più sempli-ce e diretto tra i consumatori e i produtto-ri, che così potranno occuparsi di più dell’azienda e trattare meglio i lavoratori. Per il momento, la cosa certa è che il siste-ma agroalimentare britannico non fun-ziona: “Fa male all’ambiente, fa male ai lavoratori e fa male ai consumatori”. ◆ mt

Le opinioni

Le immagini dei lavoratori romeni e bulgari che tra aprile a maggio, in piena pandemia, si accalcavano

in aeroporto per imbarcarsi sui voli charter che li avrebbero portati a racco-gliere asparagi in Germania o fragole nel Regno Unito hanno alimentato sulla stampa europea un acceso dibattito sui metodi dell’industria agroalimentare. “In un certo senso i raccoglitori di aspa-ragi e di insalata e le badanti dei paesi dell’est rappresentano la forma più effi-ciente di manodopera in Europa: econo-mica, altamente produttiva e non tassa-ta, anche se umiliata e, in tempo di pan-demia, potenzialmente pericolosa per la salute pubblica”, hanno scritto sul Guardian Costi Rogozanu e Daniela Gabor. “Il sistema economico europeo ha creato il perfetto soldato universale postcomunista, capace di trasformarsi, a seconda delle stagioni, da badante a bracciante agricolo a operaio edile. La libertà di movimento è diventata neces-sità di migrare per sopravvivere, un pri-vilegio però riservato a chi è fisicamente in forma”.

“In tutto il mondo”, commenta il quotidiano turco Hürriyet Daily News, “la maggior parte della frutta e della ver-dura, in particolare quella che non può essere raccolta con mezzi meccanici, ne-cessita del lavoro degli immigrati stagio-nali. Ci sono realtà molto diverse: si va dai giovani volontari che lavorano in strutture e in condizioni perfette fino ai braccianti vittime di schiavitù, come gli immigrati africani che nell’Italia meri-dionale raccolgono i pomodori e le aran-ce. È certamente vero che abbiamo biso-gno di mangiare, ma il nostro sistema agricolo va ripensato”.

Nelle ultime settimane qualcosa si è mosso. Il 19 giugno, scrive Mediapart, il parlamento europeo ha approvato, con i voti di 593 deputati sui 705 dell’assem-blea, “una risoluzione che per la prima volta si occupa della protezione sanitaria e sociale dei lavoratori transfrontalieri e stagionali”. Il testo chiede agli stati dell’Unione di intensificare le ispezioni e alla Commissione europea di lottare “contro le pratiche abusive di subappal-to” che danneggiano i lavoratori. ◆

Un modelloda cambiare

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Relazioni speciali

Spesso capita che un artista o un fotografo sia ricordato per un progetto in particolare. Non si sa bene perché, ma quel lavoro nel tempo assu-me più importanza degli altri,

è più apprezzato, s’impone come sinoni-mo di tutta la sua opera. È un po’ quello che è successo a Nicholas Nixon con la serie The Brown sisters. Il fotografo, nato a Detroit, in Michigan, il 27 ottobre 1947, incontrò Bebe Brown nel 1970. Un anno dopo si sposarono. Brown aveva vent’anni e da quel momento ha avuto un ruolo cen-trale nella vita e nella carriera artistica del marito. Nixon aveva fatto studi letterari e si appassionò alla fotografia mentre lavo-rava in una libreria, dove scoprì il lavoro di Henri Cartier-Bresson e di altri grandi autori. Dopo un master in fotografia all’u-niversità del New Mexico, nel 1974 scattò la prima foto di una serie che si sarebbe arricchita ogni anno di una nuova imma-gine: le quattro sorelle Brown in posa una accanto all’altra.

All’epoca Nixon si dedicava soprattut-to alla fotografia di paesaggio e non era interessato a ritrarre le persone. “In pra-tica questa serie è nata dalla noia. Il fine settimana andavamo sempre a trovare i genitori di Bebe e c’erano anche le sue sorelle. Mimi aveva 15 anni, Laurie 21, Heather 23 e Bebe 25. Era tutto molto for-male. Con tutte avevo una certa compli-cità e per interrompere quella situazione ripetitiva che non ci piaceva molto, lan-ciai l’idea: ‘E se per passare il tempo ci facessimo una foto?’”.

Quella volta il fotografo non trovò l’immagine molto convincente e non la

Portfolio

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Da più di quarant’anni Nicholas Nixon fotografa persone di tutte le età. Accostando uno stile documentario a una forte empatia, scrive Christian Caujolle

io a una

conservò nemmeno. A partire dall’anno successivo però tornò a fotografare la stessa scena, in maniera frontale e ravvi-cinata. Anno dopo anno, da quell’incon-tro, che era diventato al tempo stesso un appuntamento e un momento di condivi-sione, prese forma un progetto diventato un capolavoro della fotografia del nove-cento, e che è ancora in corso.

L’essenza dell’onestà La prima immagine del progetto risale al 1975. Tutte le altre sono state scelte insie-me alle quattro donne. Da subito Nixon riuscì a convincerle a mantenere l’ordine in cui si erano posizionate nel primo scat-to (volevano tutte stare al centro della foto) per mantenere una coerenza logica e narrativa. Nel corso degli anni ha fatto qualche piccola modifica: “Ho capito che se mi fossi avvicinato i loro volti si sareb-bero visti meglio. Allo stesso tempo il loro affetto reciproco e la voglia di essere vici-ne erano diventati più intensi ”. Con di-screzione a volte il fotografo si è inserito nel gruppo con la proiezione della sua ombra.

Si resta colpiti dalla naturalezza, dalla duttilità e dalla dolcezza che caratteriz-zano la serie, subito molto apprezzata dalla critica. Il Moma le ha dedicato due mostre, una per i 25 anni e una per i 40 an-ni dalla prima foto scattata.

Dal 1990 il fotografo fa solo dieci stampe della nuova immagine (prima ne stampava cinquanta copie), per cui oggi esiste solo una quarantina di esemplari della serie completa, conservata in mu-sei, fondazioni e in mano ad alcuni colle-zionisti privati, che ogni anno si prenota-

no per la nuova foto. Per molti le sorelle Brown sono diventate un segno del tem-po che passa, senza angoscia e senza pau-ra, una constatazione tenera e amichevo-le. Come in tutti i suoi lavori, Nixon usa una macchina a pellicola di grande for-mato 8×10, in bianco e nero. Dai suoi pro-vini a contatto si vede già una grande sen-

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sibilità per la modulazione della luce. La profondità dei neri, l’intensità dei bian-chi, le variazioni sensuali dei grigi.

La prossimità cercata nelle foto delle quattro sorelle è mantenuta anche negli autoritratti e nelle numerose immagini scattate a Bebe e ai figli Clementine e Sam grazie a un approccio in cui riesce ad

accostare uno stile documentario a una forte empatia.

“La mia macchina fotografica è molto ingombrante, la gente la guarda e si chie-de cos’è e cosa voglio da loro”, afferma Nixon. “Bisogna inserire il supporto della pellicola, nascondersi dietro il panno scuro, tirarsene fuori, lasciare alle perso-

ne la scelta tra guardare me o in macchi-na. Sembra più un mobile antico che uno strumento tecnologico. È una scatola di legno, è fuori moda e ha un aspetto poco ergonomico. Penso che piaccia alla gente perché è qualcosa di lento (anche se pos-so usare dei tempi molto rapidi) e un che di goffo. Sono molto affezionato a questo

Plant City, Florida, 1982

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modo di fare fotografia. E penso che istin-tivamente le persone capiscano che quan-do usi la pellicola è molto più difficile de-formare l’immagine. Per me è importante che nulla cambi troppo. Forse si possono rendere alcune parti della foto più chiare o più scure, ma si tratta dei vecchi trucchi della fotografia tradizionale. Non posso cambiare la forma degli occhi né un’e-spressione, non posso eliminare una per-sona e mettere al suo posto qualcun altro. E comunque una cosa del genere non mi sarebbe interessata. Per me è importante conservare l’onestà della fotografia, e questa macchina è la quintessenza dell’o-nestà”.

Una meravigliosa sfidaNicholas Nixon ha fotografato tutte le età della vita: neonati, adolescenti, anziani e poi coppie, famiglie numerose, la sua fa-miglia. E anche se a volte ha fatto foto di architettura, a New York o a Boston, sono soprattutto le persone al centro del suo

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Sopra: Il dottor Robert Sappenfield con il figlio Bob, Dorchester, 1988. Sotto, da sinistra: Bebe e io, Savignac-de-Miremont, Francia, 2011; Boston, 2020.Nella pagina accanto, sopra: Battery plaza, New York, 1975. Sotto: Clementine e Bebe, Cambridge, 1986.

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Portfolio

lavoro umanista. Nel 1988 è stato tra i pri-mi a fotografare i malati di aids ritraendo-li circondati da amanti, amici, genitori, oppure emaciati e soli.

Oggi fotografa i malati di covid-19 e le persone con le mascherine “per sapere a cosa somiglia un volto di cui l’espressione è in parte nascosta”. Le ragioni sono sem-pre le stesse e Nixon risponde così a chi lo rimprovera di “fare arte con il dolore”: “Non fotografo nessuno se non ci trovo niente di interessante. Indipendentemen-te da quello che mi piace – gli occhi, il mo-do in cui tiene la testa – sono soprattutto onesto. Non è una strategia, è il solo modo in cui riesco a comportarmi. Il punto di partenza deve essere un legame o un senti-mento che nasce dalla bellezza. È come una sfida meravigliosa. La macchina è una sorta di terzo elemento. Tra me, la macchi-na e il soggetto s’instaura un rapporto. Tut-to l’insieme ha una sua dignità, che per-mette alle persone di prenderlo sul serio”. Nel 2020 la serie delle Brown sisters com-

Sopra: The Brown sisters,

1975. Qui accanto: J.A., E.A.,

Dorchester, Massachusetts, 2001.Nella pagina accanto, sopra: The Brown sisters,

1995. Sotto: The Brown sisters, 2016.

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pirà 50 anni. Ci si chiede come prosegui-rebbe il lavoro se una delle protagoniste dovesse morire. “Vorrei continuarla, qualunque cosa succeda. Scherzando ci chiediamo cosa succederebbe se dovessi morire io. Ma ci penseremo quando sarà il momento. So di essere più vicino alla morte, ma grazie a Bebe e al mio lavoro sono abbastanza sereno su questo. Ora sto pensando di fotografare dei malati in fase terminale, ma non farò nulla finché non sarò veramente sicuro. Un lavoro del genere potrebbe far riflettere sulla morte e sulla medicina stessa”. u adr

u I lavori di Nicholas Nixon sono raccolti nel libro Nicholas Nixon (Kehrer Verlag 2017), che contiene duecento immagini. Altri volumi raccolgono le singole serie: People with aids (David R Godine publisher 1991), Close far (Steidl 2013), The Brown sisters, forty years

(Moma 2014).

Da sapere I libri

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Ritratti

Una fotografia che sembra un gesto di sfida. Asma al Assad è proprio al cen-tro, avvolta in un parka. Il cappuccio le copre le orecchie. Alla sua sini-

stra il marito Bashar, che non buca certo lo schermo. Ai lati della coppia ci sono dei soldati dall’aria non troppo sveglia. In seconda fila si vedono i figli: Hafez, Zein e Karim. Il messaggio è cristallino: “Sia-mo qui e siamo determinati a restarci”. Più la pressione è forte, più bisogna mo-strarsi forti.

Il 17 giugno 2020, un giorno prima che quello scatto fosse diffuso, la moglie del presidente siriano è stata messa pubblica-mente alla gogna e inserita in cima alla li-sta delle persone colpite dal Caesar act, il pacchetto di sanzioni economiche deci-se dagli Stati Uniti contro il governo siria-no. Agli occhi dell’amministrazione Trump, Asma non è semplicemente la moglie di un dittatore. Partecipa “perso-

Asma al AssadLa sposadel regime

nalmente agli orrori che la Siria sta attra-versando” ed è addirittura considerata “una delle persone che speculano di più sulla guerra”.

Un’evoluzione sorprendente per una donna che è rimasta nell’ombra per vent’anni, nel tentativo di ritagliarsi una posizione all’interno del clan Assad. Il re-gime l’ha presentata di volta in volta co-me l’europea, la donna alla moda, o anco-ra la moglie fedele; per Washington sa-rebbe ormai un avvoltoio pronto a spolpa-re quello che resta del suo paese, strema-

to dopo nove anni di guerra. È la verità? È difficile avere certezze quando si parla del regime siriano. Basta pronunciare il no-me di Asma per ricevere una serie di porte in faccia. “Non possiamo dire niente”, ri-sponde subito su WhatsApp una fonte che l’ha conosciuta in un’altra vita, di cui for-se si pente.

Anche se è in ginocchio, devastato dal-la guerra e da una crisi economica senza precedenti, il regime siriano continua a incutere terrore, anche fuori dai suoi con-fini. “Curiosamente è più facile parlare di Bashar che di sua moglie”, confida una giornalista di origine siriana. Dopo l’inter-vista al Times di Londra del febbraio 2012, in cui affermò di voler rimanere al fianco del marito, Asma non si è più fatta vedere sui mezzi d’informazione. Eppure oggi il suo nome è al centro di un intrigo da tele-novela degno di Dynasty: l’affare Rami Makhlouf. Il cugino miliardario del presi-dente siriano, che un tempo aveva in ma-no i cordoni della borsa del clan, recente-

Paul Halabi, L’Orient-Le Jour, LibanoFoto di Daniele Saba

È la moglie del dittatore siriano Bashar al Assad. Cresciuta in occidente, si è costruita un’immagine raffinata e discreta. Ma è accusata di speculare sulla guerra

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◆ 1975 Nasce a Londra, nel Regno Unito.◆ 1996 Si laurea al King’s college. Comincia a lavorare nel settore bancario.◆ 2000 Sposa Bashar al Assad e si trasferisce in Siria. Un anno dopo nasce il figlio Hafez. ◆ 2012 L’Unione europea congela i suoi beni e quelli del marito in base al programma di sanzioni contro il regime.

Biografia

mente è stato messo in disparte. Alcuni sospettano che dietro questo disconosci-mento pubblico ci sia lo zampino della first lady. “Niente lascia credere che Asma possieda cose intestate a suo nome. Tutta-via da varie fonti risulta che ha un peso crescente nella famiglia, che cerca di pro-teggere i figli e, attraverso di loro, di raffor-zare il suo ruolo”, spiega Jihad Yazigi, di-rettore del sito di giornalismo economico The Syria Report.

Makhlouf, costretto a cedere varie aziende e a pagare pesanti multe, si è ri-volto addirittura a Bashar al Assad in al-cuni video su Facebook. Tra le righe, l’o-biettivo del miliardario è chiaro: i sosteni-tori di Makhlouf infatti accusano Asma al Assad, cresciuta in una famiglia sunnita, di voler sottrarre agli alawiti (l’altra cor-rente dell’islam, di cui fa parte lo stesso Bashar) la loro parte della torta. “Asma è fermamente convinta che la famiglia As-sad resterà al potere e fa di tutto per pre-parare suo figlio Hafez alla successione”,

assicura Ghassan Ibrahim, un giornalista siriano che vive a Londra, “ha molta in-fluenza sul marito, al punto da spingerlo ad allontanare il suo stesso cugino, per-ché pensa che i soldi della famiglia deb-bano essere gestiti solo da lei o dal figlio. Ci sono miliardi di dollari all’estero, e non vuole perderne il controllo”. Asma, che da giovane ha lavorato in banca, è de-cisa a prendere il controllo della situazio-ne finanziaria usando le sue competenze di amministratrice, sostiene Ibrahim. Non è più disposta a fare la comparsa.

La first lady è tornata sulle scene nell’a-

gosto 2019. Con i suoi capelli biondi ossi-genati e corti, è apparsa alla televisione siriana per annunciare di aver sconfitto il cancro al seno che le era stato diagnosti-cato un anno prima. Un anno di lotta con-tro la malattia che il regime ha trasforma-to in strumento di propaganda. La moglie del presidente sarebbe potuta andare in Russia a farsi curare, ma ha scelto di resta-re in Siria. Il regime cerca di ridare fiducia ai propri sostenitori mostrando che, anche se strangolato dalle sanzioni occidentali, il paese è in grado di occuparsi dei malati. “Negli ultimi anni, l’immagine di Asma, lavoratrice umanitaria modesta che, no-nostante la sua malattia, dedica sempre del tempo agli ex combattenti e alle fami-glie povere, è stata enfatizzata dal regi-me”, dice Nizar Mohammad, un esperto di Siria che vive in Canada.

Asma è diventata una figura emblema-tica per alcuni ferventi lealisti, che non esitano a commentare le foto del suo ac-count Instagram, dove appare sorridente anche se dimagrita, con la testa calva rico-perta da un foulard. “Sii forte, abbiamo bisogno di te”, scrive uno di loro. “Hai un cancro al cuore”, commenta un opposito-re. Molti siriani che si oppongono ad As-sad la disprezzano. “Nessuno ha mai pen-sato che avrebbe preso posizione contro il marito o lasciato il paese”, confida Zahi, un attivista di Aleppo rifugiato in Turchia. “Ha accettato il suo ruolo fino in fondo, senza battere ciglio”, aggiunge.

Amori giovaniliSecondo le cronache ufficiali Asma Akhrass, figlia di un cardiologo sunnita originario di Homs e residente a Londra, incontrò Bashar al Assad nel 1992, quan-do lui era uno studente di oftalmologia nel Regno Unito. Qualche anno più tardi tra i due nacque una storia d’amore, che sarebbe rimasta nascosta fino alla morte di Hafez al Assad, il padre di Bashar. La vecchia guardia al potere avrebbe spinto il giovane Bashar, diventato presidente nel 2000, a fidanzarsi con Asma per consoli-dare i legami tra le due comunità. “Quest’alleanza con una sunnita è stata indubbiamente traumatica per alcuni ala-witi. Ha fatto crescere il timore che Bashar, il quale si presentava come un modernista e un riformatore, attuasse nel paese dei cambiamenti di cui avrebbe fat-to le spese la sua comunità d’origine”, spiega Nizar Mohammad.

Molto rapidamente i due cercarono di trasformarsi in perfetta coppia moderna per entrare nel club dei potenti del mon-

Asma Assad insieme al marito Bashar a Parigi, nel dicembre 2010

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Ritratti

do. Durante una visita in Francia nel 2002, Asma rifiutò di seguire il programma tra-dizionalmente previsto per le first lady e preferì visitare la Scuola di studi commer-ciali superiori (Hec) di Parigi e la Banca di Francia. “Voleva soprattutto evitare di essere percepita come una moglie da esi-bire. Fu una sorpresa, perché venivamo da trent’anni di Hafez al Assad, una persona-lità austera la cui moglie non appariva mai”, ricorda il fotografo franco-siriano Ammar Abd Rabbo, che in passato ha fre-quentato la coppia presidenziale.

Era un atteggiamento molto lontano dalla visione passatista del padre di Bashar, e seduceva anche i più scettici. “Asma e Bashar non dicevano che Hafez aveva fatto ogni cosa nel migliore dei mo-di. Dicevano ‘ereditiamo un paese dove resta da fare tutto’, lasciando così inten-dere che prima non era stato fatto niente. Ed era quello che volevo sentire”, conti-nua il fotografo.

Dottor Jekyll e mister HydeI giornali occidentali s’innamorarono di questa siriana nata nel Regno Unito, dal portamento altero, intelligente, bella e di-screta. “Asma si incaricò anche di curare l’immagine del marito, assumendo dei consiglieri stranieri ed elaborando, con il loro aiuto, una narrazione destinata agli occidentali, che rendeva la coppia presi-denziale occidentalizzata e presentabile”, spiega la scrittrice francese Isabelle Haus-ser, che ha vissuto in Siria tra il 2006 e il 2009. La campagna di marketing portò i suoi frutti.

Nel 2012, a guerra già cominciata, Asma al Assad fu soprannominata “rosa del deserto” in un lusinghiero ritratto pub-blicato su Vogue, che in seguito fu rimosso dal sito della rivista. “Se Asma al Assad ha un aspetto così occidentale – qualsiasi sia il significato della parola – è perché, pur essendo musulmana sunnita e di origini siriane, è nata a Londra nel 1975”, ha scrit-to qualche settimana fa l’edizione italiana della rivista femminile Marie-Claire.

I coniugi Assad sono dei maestri a gio-care a dottor Jekyll e mister Hyde: caloro-si e moderni all’estero, riservati e distanti in patria, per continuare a ispirare paura. “Bashar al Assad indossa abiti costosi e parla di pluralismo laico quando è all’e-stero, mentre nel suo paese esalta la tradi-zione islamica della Siria quando si riuni-sce con i suoi ministri e posa con abiti in-formali quando fa visita a cittadini comu-ni”, spiega Mohammad. Se il presidente siriano è un puro prodotto del regime, sua

moglie è stata un personaggio di rottura rispetto alla first lady precedente, Anissa Makhlouf. “Asma era piuttosto apprezza-ta dalla buona società. Una donna di Da-masco un giorno mi ha detto: ‘È la nostra Lady D’”, racconta Hausser. Per vari me-si, Asma viaggiò in incognito per visitare la Siria rurale e sentire il polso del paese. “Nessun bambino in fila che cantava l’in-no nazionale né messinscene come quel-le che ci si possono immaginare in una situazione simile. Vedeva quello che non andava, e ascoltava le critiche o i com-menti sul regime di persone che non sa-pevano con chi stavano parlando”, spiega Abd Rabbo.

Non era ancora la donna raffinata ap-prezzata dalle riviste per la sua grazia e il suo portamento. “Quando la incontrai la prima volta mi colpì la sua estrema ma-grezza, pensai che fosse anoressica. Ave-va i capelli lunghi, mal pettinati, e indos-sava un paio di jeans. Dava l’impressione di essere scostante”, racconta Isabelle Hausser.

Come ritagliarsi un ruolo in un univer-so che si oppone a ogni cambiamento? “In certi momenti ho avuto l’impressione che fosse ingenua o che fingesse di esserlo”, racconta il fotografo che la seguiva nei suoi spostamenti. Intorno al 2005, duran-te una visita archeologica al sito di Apa-mea, vicino a Hama, i giornalisti locali che seguivano il convoglio chiesero allo staff della first lady cosa avrebbero dovuto scri-vere. “Qualche giorno dopo mi raccontò l’aneddoto nel suo ufficio, dicendomi: ‘È assurdo, sono dei giornalisti, hanno visto con i loro occhi cosa è successo ma non sono in grado di scrivere’. Sembrava sor-presa e non capiva che potessero aver pau-ra di scrivere qualcosa di sgradito”, rac-conta Abd Rappo. Ma era impossibile non accorgersi, fin dal suo arrivo in Siria, che il

regime governava il paese con il pugno di ferro. I servizi segreti controllavano tutto e spiavano anche lei. “Mi diceva di non usare il telefono dell’albergo per parlarle. Sembrava terrorizzata”, confida Gaia Ser-vadio, scrittrice e biografa italiana, che ha lavorato con Asma al Assad.

Si dice che la first lady siriana abbia sempre avuto un’enorme influenza sul marito, perdutamente innamorato di lei. Ma c’è solo una donna a cui Bashar non poteva dire di no: sua madre, Anissa Makhlouf. “A Damasco mi dicevano che Asma faticava a integrarsi nella famiglia d’adozione e all’epoca il marito sembrava aver preso le parti della madre e della so-rella”, racconta Isabelle Hausser. Oltre a controllare tutte le azioni e i gesti della nuora, Anissa Makhlouf pretese di con-servare il titolo di first lady fino alla morte. Dopo la morte della suocera, nel 2016, la nuora si sta prendendo la sua rivincita.

Come distinguere il vero dal falso in questa storia, in uno dei regimi più opachi al mondo? Asma al Assad resta un enig-ma. Tutte le persone che l’hanno fre-quentata ne parlano bene, anche quelle ostili al governo. Se la sua immagine di donna affascinante e poi quella di stam-pella del regime sono state strumentaliz-zate dal potere, può darsi che si sia sentita così a suo agio in questo ruolo da volerse-ne appropriare? Chi è davvero Asma al Assad? Una donna piena di buone inten-zioni trasformata dal marito? O un’oppor-tunista che ha chiuso gli occhi di fronte agli orrori commessi dal potere quando le faceva comodo?

La grande avvocata“C’è stato un momento, immagino, in cui Asma avrebbe voluto andarsene, appena è cominciata la guerra. So che chiamava al telefono alcuni amici per discutere della manifestazione a Deraa del 2011, repressa con la forza dall’esercito”, dice Servadio. Ma non c’è stata nessuna discussione. Al contrario ha aderito al suo ruolo al punto di diventare la più grande avvocata del re-gime siriano. Nelle interviste televisive ribatte colpo su colpo – anche se tutti san-no che è tutto preparato prima – e snoccio-la come una brava allieva la retorica com-plottista alla quale ha finito per aderire.

“Se siamo forti insieme, supereremo questo momento insieme. Ti amo”, ha scritto a suo marito qualche anno fa, in un’email resa pubblica da WikiLeaks. Bashar le ha risposto inviandole un link di iTunes a una canzone intitolata God gave me to you, dio mi ha dato a te. u ff

Chi è davvero Asma al Assad? Una donna piena di buone intenzioni trasformata dal regime siriano? O un’opportunista?

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Graphic journalism

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Cultura

N ella primavera del 2015 la mia vita si è divisa in due. Il tentati-vo di cercare il linguaggio più adatto a descrivere questa frat-

tura ha richiesto molto tempo, e ancora più tempo ci è voluto per guarire. Era una sera come tante altre, mi trovavo con un’a-mica in un bar affollato e dalle luci soffuse in cui mi sentivo a mio agio, quasi come fosse una seconda casa. A un certo punto della serata hanno messo della droga nel mio drink e un uomo che non conoscevo mi ha portato a casa. Quella notte esiste nella mia memoria solo sotto forma di

schegge luminose e indistinte. Ricordo la sensazione delle parole impastate in boc-ca come melma, il corpo fuori dal mio controllo. Ricordo le sue mani su di me. Ricordo il dolore, la rabbia e il senso di col-pa che mi risaliva in superficie la mattina dopo, mentre cercavo di ricostruire quello che era successo. Per quanto possa pro-varci, non riuscirò mai a trovare tutti in-sieme i ricordi di quella serata.

Cambi di tono

Guardando il dolorosissimo e sarcastico I may destroy you di Michaela Coel non ho potuto fare a meno di tornare con la men-te a quella sera del 2015 e ripensare a tutti i modi in cui la mia vita poteva essere diver-sa se quella sera non ci fosse mai stata. Quando, verso la fine del primo episodio, Arabella, la seducente ed edonistica scrit-trice protagonista della serie, entra senza

farci troppo caso in un bar che si chiama Ego death, sapevo cosa sarebbe successo. La sua fisicità rendeva leggibile ciò che la trama avrebbe rivelato in seguito: nel suo drink c’era una droga, lei viene violentata e la via per la guarigione sarà accidentata.

La nuova coproduzione della Hbo e della Bbc, uscita all’inizio di giugno, è sta-ta descritta come una serie sul consenso, ma questa definizione è troppo limitata rispetto a quello che I may destroy you compie da un punto di vista narrativo, vi-sivo ed emotivo. Mentre Arabella cerca di scrivere il suo secondo libro assillata dagli agenti letterari e indaga su cosa le sia suc-cesso la sera in cui il suo drink è stato alte-rato, la serie esplora attraverso moltissimi percorsi non solo la natura del consenso ma anche le dinamiche degli appunta-menti moderni e dello stesso desiderio.

I may destroy you agisce su diversi livel-li: è una lettera d’amore al potere dell’ami-cizia, è un approfondimento su quanto la memoria possa ingannare e dare forma all’identità, è una riflessione sulla vita di chi scrive. Michaela Coel è autrice della serie, ne è protagonista e dirige alcuni epi-sodi, e dimostra ancora una volta il suo straordinario talento dopo Chewing gum, la sua commedia allegramente britannica che parla di una ragazza decisa a perdere la verginità a tutti i costi. Con la sua nuova serie non vuole impartire una lezione al pubblico, ma vuole fargli intraprendere

In I may destroy you Michaela Coel racconta la realtà di una donna vittima inconsapevole di una violenza sessuale

Frammenti di un trauma

Angelica Jade Bastién, Vulture, Stati Uniti

Serie tv

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I may destroy you

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un viaggio che mette in discussione i no-stri assunti. Ciascuno dei dodici episodi da trenta minuti è capace di spezzare il cuore dello spettatore e, in misura uguale, di farlo ridere.

Una delle cose che colpisce di più, fin dall’inizio di I may destroy you, è il tono. Nel primo episodio, mentre viene traccia-to il perimetro della vita di Arabella, l’at-mosfera è molto intima e familiare: le sue amicizie più strette, il suo contorto senso dell’umorismo, il suo lavoro di scrittrice, che comprende un libro che l’ha fatta di-ventare famosa su internet, Chronicle of a fed-up millennial (Diario di una millennial stufa). Poi l’episodio compie una rotazio-ne completa sul suo asse nel singolo, bre-vissimo istante in cui Arabella ricorda un frammento dell’aggressione subita, con l’immagine di un uomo che incombe su di lei con un ghigno malato. Questi cambi di tono percorrono tutta la serie: scene che cominciano con sfumature sexy diventa-no strazianti, i momenti bui sono smussa-ti da tratti comici senza perdere di vista la ricchezza dei risvolti drammatici.

In I may destroy you la memoria è un terreno fertile. Accelera, illumina, oscura, nasconde. È in questo che la serie eccelle: nel descrivere come ci si sente quando, dopo un trauma, la mente rema contro e il corpo sembra non appartenerci più. A vol-te un rumore simile a un trillo nell’orec-chio attraversa all’improvviso una scena e

Arabella ha immediatamente la sensazio-ne di spostarsi in un mondo senza senso.

Forse il principale punto di forza della serie, oltre alla precisione con cui si de-streggia tra le diverse tonalità, è il modo in cui delinea le dinamiche che intercor-rono tra Arabella e i suoi due migliori ami-ci: Kwame (Paapa Essiedu), un istruttore di aerobica perennemente su Grindr; e Terry (Weruche Opia), un’esuberante at-trice con una sensibilità sincera. Ciascun personaggio consente alla serie di esplo-rare attraverso nuove vie temi come il consenso e il desiderio, a livelli talvolta strazianti. Sia Essiedu sia Opia contribui-scono ai loro personaggi con un’introspe-zione struggente e vulnerabile oltre ad altri aspetti, più turbolenti, che li rendono amici perfetti per l’almeno occasional-mente irrequieta Arabella.

Precisione fulminante

Alla fine, però, la serie si fonda sulla forza del lavoro di Coel come autrice, regista e attrice. La regia è lucida, con un uso della cinepresa al tempo stesso curioso e genti-le. La scrittura colpisce per la determina-zione a immergersi in un territorio scomo-do senza mai ritrarsi dai suoi rovi emotivi. Quello che continua a tornarmi in mente quando penso a I may destroy you però è l’interpretazione di Coel. È selvaggia, ca-rismatica, appassionata e capace di passa-re in un attimo da uno stato emotivo all’al-

tro. Nelle scene in cui affronta l’argomen-to con il suo flirt italiano (l’uomo che fini-sce per dare a lei la colpa di essere stata violentata), oppure quando è in terapia di gruppo, quello che mi ha colpito è la chia-rezza delle sue emozioni, il modo in cui un piccolissimo cambiamento nel suo com-portamento o uno sguardo in lontananza riescono a svelare l’irrequieta realtà emo-tiva della situazione.

Guardando l’interpretazione di Coel sono riuscita a vedere con precisione ful-minante il linguaggio fisico e verbale del mio stesso trauma. Spesso cercare un lin-guaggio preciso che includa un’esperien-za traumatica come uno stupro sembra impossibile. Come si può dare un senso ai ricordi fisici che riecheggiano a ritroso fi-no a quella notte? Come affrontare il tur-binio di emozioni che ti scivolano tra le mani nell’istante stesso in cui cerchi di afferrarle? Come evocare in modo esau-stivo il dolore, la rabbia e il senso di estra-neità? I may destroy you offre la risposta. Grazie alla straordinaria interpretazione di Michaela Coel, le strazianti complica-zioni del processo di guarigione da un trauma sessuale sono esposte alla luce del sole, con un’onestà e una complessità da cui si può solo imparare. u gim

Angelica Jade Bastién è una giornalista di Chicago. Ha collaborato con il New York Times, The Atlantic e The Village Voice.

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Televisione Giorgio Cappozzo

Arrivederci SaigonRai Storia, sabato 25 luglio, ore 22.50Le Stars erano un gruppo femminile della provincia toscana. Nel 1968 gli viene proposto un tour in oriente, dove scoprono che il loro pubblico sono i soldati delle basi statunitensi in Vietnam.

Bienvenido a El DoradoRai Tre, venerdì 31 luglio, ore 00.05Lo stato di Bolívar in Venezuela è uno dei distretti auriferi più ricchi del mondo. Migliaia di minatori vivono ammucchiati in baraccopoli, sfruttati e minacciati da gruppi criminali coinvolti nel traffico di armi e droga.

Come stanno i ragazziRai PlayIl suicidio è diventato la seconda causa di morte tra gli adolescenti in Italia. Il racconto di medici e pazienti alle prese con i problemi psichiatrici dei ragazzi.

Julian Assange: operazione hotelArte.tvMigliaia di video, fotografie e registrazioni usati nell’accusa di spionaggio contro Assange sono stati raccolti durante il suo esilio nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra.

La guerra dei vacciniHistory, lunedì 27 luglio, ore 21.50La soluzione al covid-19 sarà un vaccino, ma lo accetteranno tutti? Il movimento No vax è nato dalle tesi fraudolente dell’ex medico Andrew Wakefield. Il suo successo nell’era dell’odio per la scienza mette a rischio la salute pubblica.

Shane Dawson aveva 19 anni quando caricò il suo primo video su YouTube. Oggi ne ha 32 e grazie alla popolarità dei suoi tre canali ha partecipato a film e pubblicato canzoni e libri. Dopo che si è scusato per essersi preso gioco di persone afroamericane in passato, è ricomparso online un suo vecchio video in cui finge di masturbarsi davanti a un poster di Willow Smith, la figlia di Will Smith che allora aveva undici anni. YouTube ha sospeso la monetizzazione di tutti i contenuti di Dawson, che ha perso in pochi giorni un milione di seguaci. “È l’inizio di un’ondata: ecco ciò che subiranno i creatori di contenuti affermati che hanno un passato discutibile”, ha detto a The Verge lo youtuber Roberto Blake.Gaia Berruto

YouTubeDocumentari

Peacock, 12 episodiNella scintillante New Lon-don tutto è organizzato per garantire la felicità. Ma Leni-na (Jessica Brown Findlay) e Bernard (Harry Lloyd) sento-no il bisogno di qualcosa di di-verso. Anche John (Alden Eh-renreich), che vive nelle terre selvagge una volta conosciute come Stati Uniti, sogna una

vita diversa. Brave new world accusa i quasi novant’anni del romanzo di Aldous Huxley da cui è tratta. Ma non è una di quelle serie che si risparmia in vista del colpo di scena finale. Gli interpreti, la colonna so-nora e alcuni lampi da com-media fanno il resto. Con Demi Moore. Entertainment Weekly

Serie tv

Brave new world

Colperegistrate

La mattina della presentazio-ne dei palinsesti Rai le agenzie di stampa battevano la notizia secondo cui in Italia il numero delle pensioni avrebbe supera-to quello degli stipendi. Nuova luce sugli anziani, ultimo pre-sidio di reddito sicuro. Poche ore dopo il direttore di Rai Uno, parlando dell’offerta au-tunnale, sottolineava con leci-ta enfasi l’arrivo sull’ammira-glia di The voice senior, talent dedicato agli over sessanta. Condotto da Antonella Clerici, la gara coinvolgerà aspiranti

cantanti, chiamati a esibirsi davanti a una giuria che ne va-luterà solo la voce, senza farsi distrarre dall’aspetto fisico e dalla teatralità. All’estero è già un successo. Nonni in omag-gio al flower power, gorgheggi e capigliature alla Robert Plant, nonne con stivaloni e tinte purpuree che commuovono la platea con i classici di Amy Wine house. Nell’edizione olandese una concorrente che somiglia alla signora in giallo propone At last di Etta James: “Alla mia età non potevo non

scegliere un brano con quel ti-tolo”. Come nell’originario The voice, una delle componenti più intriganti è ciò che avviene ai margini del palco, con i fa-miliari che esultano e tifano per i loro parenti. Ma se nel format “giovane” l’euforia è appannaggio di genitori e fi-danzati, coinvolti nel possibile collocamento del congiunto, in questa versione a galvaniz-zarsi sono figli e nipoti: mentre nonna riscatta un sogno di gio-ventù, loro vagheggiano su co-me capitalizzare i suoi allori. u

La voce del nonno

Cultura

Schermi

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Internazionale 1368 | 24 luglio 2020 75

The old guardGina Prince-Bythewood, Netflix

GreyhoundAaron Schneider, Apple Tv

Gangs of London9 episodi, Sky, Now Tv

Il re di Staten islandDi Judd Apatow. Con Pete Davidson, Marisa Tomei. Stati Uniti 2020, 136’. In sala●●●●● Dopo aver visto Il re di Staten island viene voglia di abbrac-ciare il suo interprete principa-le Pete Davidson. Il film pren-de in prestito molte cose reali dalla biografia di Davidson, star del Saturday Night Live che come il suo personaggio, Scott, ha perso il padre vigile del fuoco e vive ancora con la madre. E come Davidson, non c’è un singolo momento in cui Scott non è la persona più ado-rabile dell’universo. È un clas-sico di Judd Apatow: prendere un personaggio che il pubblico adora – Davidson, Steve Ca-rell, Amy Schumer – e ammor-bidirlo con un batticarne cine-matografico per consegnarci un vortice di emozioni. Il film, sceneggiato da Apatow insie-me a Davidson e Dave Sirius, immagina cosa avrebbe potuto essere la vita del protagonista se non fosse diventato un co-mico. Meno scintillante di al-tre commedie di Apatow, si poggia sull’umorismo tipico di Davidson, ma anche su un’e-mozionante onestà che non scade nel sentimentalismo. Il film si chiude con un’immagi-ne iconica dello Staten island

Film ferry, che fa venire in mente Una donna in carriera, Manhattan e altri classici new-yorchesi di cui ora anche Il re di Staten island fa parte. Johnny Oleksinski, New York Post

Un’intima convinzioneDi Antoine Raimbault. Con Marina Foïs, Olivier Gourmet, Laurent Lucas. Francia 2018, 110’. In sala●●●●● Il regista Antoine Raimbault si è ispirato a fatti reali – la sparizione di Suzanne Viguier e in particolare il secondo pro-cesso contro il marito Jacques Viguier, professore di diritto all’università di Tolosa, difeso da Éric Dupond-Moretti – ma ha aggiunto un personaggio inventato: Nora, una giurata nel processo di appello, ani-mata da una convinzione inti-ma così forte da imporsi all’avvocato difensore come assistente, finendo per sacrifi-care la propria vita privata. Una sorta di Erin Brockovich meno smagliante. Al di là del-le scene in tribunale, fedeli al-la procedura francese e senza “americanate”, il film cattura il pubblico attaccandosi alla compulsiva ricerca della veri-tà di questa giustiziera ordina-ria e improbabile, con una messa in scena nervosa. Chi è più impressionante? Marina Foïs, quasi in trance, o Olivier

Gourmet con la toga dell’av-vocato? Verdetto impossibile. Guillemette Odicino, Télérama

Good mannersDi Juliana Rojas e Marco Dutra. Con Isabél Zuaa, Marjorie Estiano. Brasile/Francia 2018, 136’. Mubi●●●●● Per non rovinare le sorprese è meglio dire lo stretto necessa-rio di Good manners. Clara è una giovane nera della perife-ria di São Paulo che si propone come tata. Ana, giovane bian-ca dei quartieri alti della città, non ha ancora partorito ma cerca un aiuto in casa anche prima della nascita del suo primo figlio. Clara così si tra-sferisce nel ricco appartamen-to di Ana. Dipinge la futura stanza del bimbo, fa la spesa, bada alla casa. Ana fa shop-ping, ginnastica davanti alla tv e poco altro. La ragazza non ha marito e il nascituro non ha padre. Confida a Clara di es-sere stata cacciata di casa dal-la sua famiglia e tra le due donne s’instaura una relazio-ne complicata. Il film ha qual-cosa di mostruoso, bizzarro, impuro, iconoclasta, come tante favole per bambini. Il mito del lupo mannaro si colo-ra nella periferia di São Paulo. Etienne Sorin, Le Figaro

Selah and the SpadesDi Tayarisha Poe. Con Lovie Simone, Jharrel Jerome, Celeste O’Connor. Stati Uniti 2018, 97’. Prime Video●●●●● Alla Haldwell school, l’ele-gante collegio della Pennsyl-vania dove è ambientato il film di Tayarisha Poe, le cric-che di studenti che dominano la scuola sono chiamate “fa-zioni”. Ma si potrebbero chia-mare tranquillamente “fami-glie”, perché dopo pochi mi-nuti il film sembra suggerire che le “fazioni” menano le danze in modo non così diver-so da come le cinque famiglie della mafia newyorchese ge-stivano la città negli anni tren-ta. Non ci sono sparatorie e omicidi su commissione, ma Selah and the Spades prende spunto da classici film adole-scenziali ambientati a scuola come Clueless o Bella in rosa aggiungendoci qualche ele-mento del Padrino. E alla fine il film d’esordio di Poe ha un suo stile capace di far sembra-re meno stantio l’ennesimo film adolescenziale. A tratti la storia sembra addirittura più interessante di quello che è in realtà. È un film per adole-scenti che si distingue da tutti gli altri film del genere. E an-che da quelli di gangster.Steve Pond, The Wrap

DR

Good mannersDR

Il re di Staten island

I consigli della

redazione

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Page 77: Internazionale - 24 07 2020

Internazionale 1368 | 24 luglio 2020 77

La scrittrice indiana Madhuri Vijay offre ai lettori un viaggio in una regione senza pace Con il suo primo romanzo, The far field, pubblicato nell’e-state del 2019, la scrittrice Madhuri Vijay si è guadagnata tre premi letterari in India, pa-ese dov’è nata, e ottime re-censioni negli Stati Uniti, pae-se dove si è stabilita. “Vijay af-fronta grandi temi – il sistema dei clan, il dispotismo, il tradi-mento, la morte e la resurre-zione – con una prosa raffinata ma non leziosa”, scrive il New Yorker. Jan Stuart sul New York Times esalta la fluidità del racconto e la creazione di personaggi che non si fanno dimenticare. Shalini è una giovane di Bangalore che de-cide di partire per un piccolo

Dall’India

Nel cuore del Kashmir

John O’HaraThe New York storiesBompiani, 470 pagine, 16 euroPer chi ama l’arte del racconto, oggi trascurata anche per le tentazioni alla facilità scrittoria che vengono dai computer, questo libro è un vero regalo. O’Hara (1905-1970) fu penalizzato in vita dal confronto con maestri quali Fitzgerald e tre Nobel – Faulkner, Hemingway, Steinbeck – nonché Dos Passos e, nel racconto, Dorothy Parker, ma non fu certo uno scrittore minore.

Volle inciso sulla sua tomba di “aver raccontato meglio di tutti la verità sul suo tempo”, sulla borghesia e dintorni nella prima metà del novecento. “Scriveva bene e in modo onesto”, aggiunse, e illuminò un mondo importante come quello dei ricchi, dalla finanza allo spettacolo, e delle loro donne frustrate o aggressive e di altre loro vittime. Dei loro umani fallimenti nella società del denaro, come nel libro che gli dette fama, il primo e il più bello, Appuntamento a Samarra, il cui “eroe” finiva in

alcol e suicidio. I racconti qui raccolti, 32 dei quattrocento che scrisse soprattutto per il New Yorker, sono molto belli, ora feroci, ora malinconici. Li ha tradotti Maurizio Bartocci e si spera che altre ne seguano: piccoli quadri sociali esemplari (e crudeli) che sembrano dar sangue alle analisi della grande sociologia statunitense coeva, Wright Mills e dintorni. Non hanno niente da invidiare a Maupassant, Čechov, Mansfield, e hanno insegnato a Carver e a Cheever.u

Il libro Goffredo Fofi

Un’arte trascurata

Italieni I libri italiani letti da un corrispondente straniero. Eva-Kristin Urestad Pedersen è una giornalista freelance norvegese.

Flavia GasperettiMadri e noMarsilio, 160 pagine, 17 euro

●●●●●“Essere madre è così”. Per tutta la mia vita, mia madre ha ripetuto questa frase per difendere certi comportamenti. Usava queste quattro parole che nessun altro in famiglia poteva capire, perché l’unica madre era lei. Erano parole vuote, ma inattaccabili. Oggi le potrei rispondere, candidamente, che “non essere madre è così”. Un argomento che mia madre, per definizione, non può capire. Purtroppo la mia risposta non ha la stessa potenza della sua. A livello culturale, come idea, la forza del proprio intelletto o l’amore per se stessi non possono essere neanche lontanamente paragonati alla forza dell’amore di una madre. Ma è giusto che sia così? I bambini ormai sono quasi uno status symbol, un gioiello per chi se lo può permettere, come un macchinone o una bella villa al mare. È cambiato il modo in cui pensiamo ai bambini. Non dovrebbe anche cambiare il modo di pensare alle madri o a chi madre non è? Le convenzioni quasi sempre sopravvivono alla realtà, ma bisogna cominciare da qualche parte. Madri e no, un libro di grande saggezza e cultura, è perfetto per provare a pensare insieme a cosa vuol dire, oggi, essere madre. O non esserlo. Senza nostalgie e senza trappole culturali.

villaggio nell’Himalaya, dov’è convinta di trovare delle ri-sposte sulla recente morte della madre. Vijay ha messo al centro del romanzo un sog-getto avvincente per gli india-ni ma interessante anche per un pubblico internazionale: il Kashmir. The far field offre un resoconto esaustivo delle tra-

gedie di quella regione ac-compagnando i lettori nel suo cuore pulsante. Un anno fa, il 5 agosto 2019, il primo mini-stro indiano, il nazionalista hindu Narendra Modi, ha can-cellato l’autonomia del Kash-mir, privandolo dei suoi diritti sanciti dalla costituzione. The Hindustan Times

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Srinagar, Kashmir, 2 maggio 2020

Cultura

Libri

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Page 78: Internazionale - 24 07 2020

78 Internazionale 1368 | 24 luglio 2020

Michele MasneriSteve Jobs non abita più quiAdelphi, 256 pagine, 20 euroCosa succede oggi in Califor-nia? La valle in cui quarant’an-ni fa è cominciata la rivoluzio-ne digitale che ha travolto le nostre economie e le nostre vite è ancora il posto in cui si costruisce il futuro? A San Francisco ci si ricorda ancora di quando era la capitale dei fricchettoni? A domande co-me queste risponde Michele Masneri in questo reportage divertente costruito con le corrispondenze scritte per il

Foglio negli ultimi quattro an-ni: dallo shock dell’elezione di Trump a quello del nuovo co-ronavirus. Mettendosi in sce-na con uno stile di racconto gonzo, senza dimenticarsi dell’Italia, Masneri parla di come si vive nella bay area, delle feste alle quali s’imbuca, delle persone che incontra: scrittori famosi, bizzarri capi-tani dell’industria digitale con i capelli grigi o tinti, giovani “startuppari” ansiosi di parla-re della loro idea e tanti altri personaggi spesso assurdi, qualche volta patetici, tutto

sommato umani che ruotano intorno al mondo di quella che un tempo si chiamava new eco-nomy e che ormai tanto nuova non è più. L’impressione che se ne ricava è quella di una re-altà stralunata e fuori fase in cui ognuno va per la sua strada senza accorgersi di quello che succede intorno, uno strano occhio del ciclone del cambia-mento, abitato da anime non troppo consapevoli di quello che sta avvenendo intorno a loro, concentrati come sono sulla visione dell’avvenire che sono chiamati a costruire. u

Non fiction Giuliano Milani

Ciclone californiano

Hwang Sok-yongTutte le cose della nostra vitaEinaudi, 176 pagine, 18 euro●●●●●In Tutte le cose della nostra vita Hwang Sok-yong, uno dei ro-manzieri più affermati della Corea del Sud, esamina il lato oscuro della modernizzazione attraverso una micro-società di “rifiuti umani” e di emargi-nati che vivono nella discarica di una città senza nome. Il pa-dre di Occhiapalla è mandato dal governo in un campo di ri-educazione e gli altri familiari sono costretti a cercare cibo in una baraccopoli ironicamente chiamata Isola fiorita. Si uni-scono ai raccoglitori di rifiuti che cercano materiali ricicla-bili, avanzi di cibo e pezzi utili a costruire abitazioni, e vivono in baracche di cartone e sta-gno. Occhiapalla e il suo nuo-vo amico Pelatino si nutrono degli alimenti raccolti nella spazzatura e frequentano la scuola solo quando ne hanno voglia. Accanto alla discarica

c’è un mondo fantastico che appartiene a un’epoca prece-dente dell’Isola fiorita, una fantasmagoria di bellezza e natura dove i due ragazzi pos-sono fuggire. Incontrano quest’isola parallela attraverso un ragazzo magico i cui andiri-vieni tra i due mondi sono in-terrotti dalle correnti di nebbia e dai cumuli di immondizia della città. Questo ragazzo magico è la manifestazione fi-sica di una creatura mitologica nota come dokkaebi: una crea-tura pericolosa, secondo il fol-clore, ma che nel romanzo rappresenta anche le tradizio-ni minacciate. Il ragazzo lotta per sopravvivere perché il suo mondo mistico è minacciato dalla spazzatura. Hwang os-serva i mastodontici accumuli di rifiuti della nostra vita quo-tidiana, “l’inferno che abbia-mo creato”. Ci sfida a guardar-ci indietro e a considerare il costo della modernizzazione, per poter vedere cosa e chi ci siamo lasciati alle spalle. Krys Lee, The Guardian

Hao JingfangPechino pieghevoleAdd editore, 350 pagine, 18 euro●●●●●La luce solare è così scarsa che è razionata in base alla classe sociale. Le scuole sono così piene che i genitori più poveri devono aspettare in fila per giorni per assicurare un posto ai figli. È il triste scenario di Pechino pieghevole di Hao Jingfang. La storia è ambienta-ta nel futuro, anche se molte scene sembrano fondate sui problemi che affliggono la so-cietà cinese di oggi. Alcuni ro-manzi di fantascienza cinese, dice Hao Jingfang, “sembrano saggistica con qualche tocco di fantascienza”. Pechino pieghe-vole descrive una società pro-fondamente stratificata, e in effetti il problema della disu-guaglianza è evidente nella Pechino contemporanea, con i migranti poveri accanto ai multimilionari. “Nel romanzo parlo del futuro, ma l’ispira-zione è attuale”, spiega Hao. “Nella società di oggi, persone

che vivono nella stessa città hanno spesso vite molto diver-se e nessun contatto l’una con l’altra. Vorrei che i lettori si rendessero conto che la loro vita è circondata da invisibili e che le loro decisioni, anche se in apparenza innocue, posso-no avere conseguenze enormi sulla vita degli altri”. Javier C. Hernández e Karoline Kan, The New York Times

Manuel VilasLa gioia, all’improvvisoGuanda, 416 pagine, 19 euro●●●●●Per cogliere pienamente gli aspetti morali del nuovo ro-manzo di Manuel Vilas, l’idea-le è leggerlo in contrappunto a In tutto c’è stata bellezza. Solo così il lettore capirà fino in fondo i motivi per cui il prota-gonista è traghettato dall’in-ferno al paradiso. Il primo ro-manzo raccontava il tracollo di un uomo dopo il divorzio: un padre che si vede allontanato dai figli cerca rimedio nella spirale distruttiva dell’alcoli-smo. Ma siamo classici: dopo Dioniso arriva Apollo, e la luce che scorgiamo in fondo al tun-nel ci rigenera e ci riempie di entusiasmo. Un autore di suc-cesso, proprio per aver raccon-tato la storia del romanzo pre-cedente, viaggia per gli aero-porti e gli hotel. A un certo punto del libro raggiunge l’ac-cettazione delle cose come una forma necessaria di sere-nità. È un libro ben scritto per-ché Vilas è un bravo scrittore, ma i romanzi felici corrono lo stesso rischio delle famiglie felici di cui parlava Tolstoj all’inizio di Anna Karenina: “Tutte le famiglie felici si so-migliano fra loro, ogni fami-glia infelice è infelice a suo modo”. Di solito la felicità è vissuta e non descritta perché, forse, non ce n’è bisogno. Juan Ángel Juristo, Abc

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Gialli

Guillaume MussoLa vie est un roman Calmann-LévyIl nuovo romanzo di Musso (Antibes, 1974) si svolge tra Parigi e New York. Flora è una scrittrice che vive a New York con la figlia di tre anni, Carrie, che un giorno scompare, mentre giocano in casa.

Lorenzo SilvaEl mal de Corcira Ediciones DestinoIl corpo nudo di un uomo viene trovato su una spiaggia di Formentera. Alcuni testimoni l’hanno visto nei locali gay di Ibiza. Ma spunta fuori anche l’Eta. Lorenzo Silva è nato a Madrid nel 1966.

Jan Costin WagnerSommer bei Nacht Kiepenheuer & WitschUn bambino di cinque anni scompare durante una gita scolastica. Le indagini fanno pensare che il caso sia legato alla scomparsa di un ragazzino eritreo in Austria. Jan Costin Wagner è nato nel 1972. Vive a Francoforte.

Amanda CraigThe golden rule Little, Brown and CompanySu un treno per la Cornovaglia due donne decidono di fare fuori i loro ex mariti con un accordo da film di Hitchkock: ognuna ucciderà il marito dell’altra. Craig, britannica, è nata in Sudafrica nel 1959.Maria Sepausalibri.blogspot.com

Fumetti

Western gotico

Boselli-CarnevaleTex. La vendetta delle ombre Sergio Bonelli editore, 264 pagine, 8,90 euroOmbre della coscienza. Sot-totraccia questa graphic no-vel è infatti pervasa da ciò che (s)muove la palude dell’inconscio, da quel che è rimosso. Per lo speciale esti-vo di Tex, in edicola in forma-to gigante, Mauro Boselli, che si conferma tra i migliori sceneggiatori del fumetto italiano, crea un racconto dalle molte sfaccettature e non manicheo sugli “india-ni” che qui rivendicano più che mai il loro essere nativi. Boselli con originalità salda il western revisionista su una trama quasi horror e dagli ac-centi gotici, come già in altri episodi di Tex e nella serie da lui creata, Dampyr. Potrebbe essere indigesto, invece è un grande racconto dalle forti

atmosfere e dai continui ri-baltamenti. Notevole e raffi-nato il lavoro di Massimo Carnevale, il disegnatore ospite di questo speciale, anche se non raggiunge le vette di altri, come per esempio Pasquale Frisenda (Patagonia e Il giudice Bean, riediti per le librerie). Unire nativi e altri emarginati, co-me i cosiddetti freaks dei cir-chi itineranti, suggerisce molteplici angolazioni di lettura. E la vendetta dei na-tivi, se è mossa da una logi-ca unilaterale e inumana, tuttavia rovescia su bianchi ipocriti e sterminatori pro-prio la logica bianca dell’oc-chio per occhio. Alla fine re-sta la cosa più bella e più ve-ra: la gigantesca ombra ven-dicativa che, se lasciata stra-ripare, rischia di divorare ogni umanità, un’ombra ge-nerata da un immenso dolo-re. Francesco Boille

Ragazzi

Specchiarsinell’altro

Tommy WallachLe parole che non posso dirtiPiemme, 272 pagine, 16,50 euroTommy Wallach è il fortunato autore di We all looked up, or-mai un classico della letteratu-ra per ragazzi. Per raccontare questa storia, commovente e strampalata, Wallach usa più di un espediente narrativo e, alla maniera di Cervantes, a volte troviamo storie solo ap-parentemente legate alla vi-cenda principale. È un classico romanzo di formazione, che racconta quel momento dell’a-dolescenza che non è solo un passaggio all’età adulta, ma è anche uno dei momenti più densi della nostra vita. Il pro-tagonista Parker Santé è un ra-gazzo particolare. Dalla morte del padre non parla più, non emette nessun suono. Ha scel-to suo malgrado un silenzio monastico. Gli piace gironzo-lare per gli hotel di lusso e guardare le persone, scopren-do mondi, storie, mode, stili. Ed è una ragazza ad attirarlo. Ha la sua età, capelli argentati come una strega o una fata, e gli spiega candidamente che lei non ha l’età che dimostra, non è un’adolescente, ma una donna di 250 anni di nome Zelda. Per Parker comincia un’avventura, perché spec-chiarsi nell’altro, chiunque sia, è il vero viaggio che ognuno di noi è chiamato a fare. Il ro-manzo commuove e fa ridere, ma se proprio dovessimo usa-re un aggettivo per descriverlo sarebbe dolce. I fan di Wallach non possono perderselo. Igiaba Scego

Lawrence OsborneL’estate dei fantasmi(Adelphi)

Hari KunzruL’imitatore(Il Saggiatore)

Alasdair Gray1982 Janine(Safarà)

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I consigli della

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Album

Nicolas JaarTelasOther People ●●●●●

Nel 2020 il producer Nicolas Jaar ha già pubblicato tre di-schi molto diversi l’uno dall’altro. Come prima cosa ha fatto uscire un nuovo al-bum del suo progetto parallelo house Against All Logic, 2017–2019, ricco di campiona-menti di Beyoncé e Kanye West, che suonava come l’ul-timo party prima che febbraio diventasse marzo. Poi, in pie-na quarantena, è arrivato Ce-nizas, che esplorava un senso di solitudine appoggiandosi su passaggi ambient. Sono passati mesi e, mentre il co-vid-19 continua a colpire le Americhe, il producer cileno statunitense ci regala Telas, un altro lavoro solitario, succes-sore della colonna sonora ci-nematografica del 2015 Pome-granates. Telas è un lavoro te-so, bilanciato e composto da quattro lunghi brani che arri-vano a un’ora di musica. Il di-sco comincia con Telahora: si sente subito il corno, uno de-gli strumenti preferiti da Jaar negli ultimi tempi, accompa-gnato da percussioni metalli-che fabbricate da due artisti, Anna Ippolito e Marzio Zo-rio, che danno sensazioni sospese tra ancestralità e futu-ro. Anche il pezzo successivo, Telencima, è pieno di passaggi simmetrici, che per creare movimento non hanno biso-gno di essere ballabili. L’ulti-mo brano, Telallás, è costruito su frasi più ripetitive rispet-to al resto del disco, ma è una conclusione appropriata del percorso. Ormai Nicolas Jaar ha poco da dimostrare, è evi-dente che sa fare tutto. Daniel Felsenthal, Pitchfork

1 Ciulla Mamma, ho perso lo stereo Fuga da Lucca a Pisa nel

1997 (“20 km che sembrano 107” nella geografia della per-cezione), causa divorzio (tra madre pittrice e padre regista) subìto da un seienne; poi, un’adolescenza che si srotola, e “ti odio, Peter Pan”; autori-tratto dell’artista da cucciolo, tra sfide giganti (studiare mu-sica per film al Centro speri-mentale di Roma; riconciliarsi con il proprio cognome da universitario a Bologna), e crescere “tra Prodi, Pannella e Brunori Sas”. Tanta roba, e anche personale; ordinario caos della vita che genera un pezzo buffo e toccante.

2 Brunella Selo CiccibaccoIn 43 minuti da Napoli a

Rio de Janeiro e ritorno, via Bacoli e Salvador de Bahia; musicalità solare, acustica; mandolino e percussioni; e saudade, samba, schiavitù, nell’album Terre del finimondo. Un Vesuviagem in napoletano e portoghese dove s’imbarca-no, a vario titolo, la poesia di Chico Buarque de Hollanda (Sinhá) e il flauto di Daniele Sepe (Nasco ddoje vote), e dove un bozzetto da vicoli napole-tani, tracciato a parole dal po-eta partenopeo Alessio Sollo, può sfociare in un chorinho carioca. Tutto il mondo è quartiere.

3 Chris Obehi Cu ti lu dissiCinque mesi dalla Nige-

ria alla Sicilia, con sosta in ga-lera libica e traversata medi-terranea; nel 2015 Chris Obehi, minorenne, già bassi-sta e pianista in chiese gospel, approda a Palermo. Scopre Rosa Balistreri e ne canta per strada le ballate strappacuore: lu cori mi scricchia, e a picca a picca a picca trova un nuovo pubblico, un bravo produttore, Fabio Rizzo, e un’etichetta (la 800A). Obehi è il suo primo album, in inglese, italiano, si-culo e dialetti esan, da venti-duenne che si porta dietro la sua odissea con leggerezza afrobeat-cantautoreggae.

Playlist Pier Andrea Canei

Viaggi nello strazio

La storica rivista britannica chiude dopo 34 annia causa del coronavirus La rivista Q, un caposaldo del giornalismo musicale del Re-gno Unito, non uscirà più in edicola. Messo in crisi dalla pandemia, il giornale non è ri-uscito a superare il momento difficile, come confermato dal direttore Ted Kessler su Twitter. “Il numero del 28 lu-glio sarà l’ultimo”, ha annun-ciato Kessler, che si è scusato per non essere riuscito “a tene-re a galla Q”. La diffusione del mensile negli ultimi anni ave-va avuto un forte calo: dalle 200mila copie del 2001 alle 28mila degli ultimi mesi. Fon-

dato nel 1986 da due giornali-sti di Smash Hits, Mark Ellen e David Hepworth, Q era nato durante la rivoluzione del cd ed era riuscito a catturare lo spirito dei tempi. La sua esau-stiva sezione di recensioni non copriva solo le nuove uscite, ma le molte ristampe che le etichette discografiche usava-no per attingere dai loro archi-

vi. La prima star sulla coperti-na della rivista fu Paul McCart ney, seguito da Rod Stewart ed Elton John. Poi ci fi-nirono anche Madonna, Prince, Kate Bush, Nirvana, Britney Spears incinta e Teren-ce Trent D’Arby nudo. Q ven-deva molto soprattutto nel pe-riodo del britpop, ma negli ul-timi anni si segnalava princi-palmente per le classifiche (ti-po i dieci più grandi concerti di tutti i tempi o le 120 più grandi storie del rock’n’roll), propo-nendo un giornalismo di livel-lo un po’ inferiore. Sotto la di-rezione di Keller la rivista era tornata su buoni livelli, ma non è bastato. Mark Savage, Bbc

Dal Regno Unito

L’ultimo numero di QQ

Cultura

Musica

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cian sembrino usciti da un film di fantascienza di se-rie b, il resto del disco prose-gue con chitarre e percussio-ni semplici e tranquille. Blasphémie è un po’ diversa e rivela un legame forte con I thought I was an alien,il suo debutto acustico del 2012. In quest’ultimo brano la voce è calda ed emozio-nante; è la versione di Soko che vorremmo. Purtroppo se nella prima parte ogni can-zone sembra l’istantanea di un ricordo, nella seconda tutto appare confuso e un po’ di ordine non le avrebbe fatto male. Feel feelings è un lavoro imperfetto, ma in fon-do racconta esattamente quanto sia complessa e im-perfetta l’esperienza umana. L’impegno di Soko nel rea-

lizzarlo è innegabile, e spe-riamo che la cantante conti-nui su questa strada.Chloe Johnson, Music Omh

Antonio PappanoGiuseppe Verdi: Otello

Jonas Kaufmann, Federica Lombardi, Carlos Álvarez; Orchestra e coro dell’Accademia di Santa Cecilia, direttore: Antonio Pappano Sony Classical●●●●●

La copertina di questo Otello è solo un primo piano di Jonas Kaufmann abbronzato e con la barba di tre giorni. Non ci sono dubbi: questa registrazione del capolavoro verdiano è stata co-struita intorno al tenorissimo. Federica Lombardi, che è De-sdemona, sarà una rivelazione per molti. La voce è molto bel-la, e la sua gestione della linea di canto rivela una musicista matura e sensibile. Ma la gio-vane artista non ha mai porta-to Desdemona in scena, e si sente in una certa timidezza del personaggio. È un po’ lo stesso difetto dello Iago di Carlos Álvarez, baritono soli-do ma senza brividi. Però Kauf mann è all’altezza della sua leggenda: un colosso dai piedi d’argilla le cui esplosioni non sono mai solo dimostra-zioni di potenza, ma navigano verso un oceano di cantabile per conservare a ogni frase la sua grazia infinita. Questo Otello è un uomo la cui psiche turbata trova, grazie a un’arte delle mezze tinte vertiginosa, un’incarnazione di sbalorditi-va complessità. Pappano si conferma uno dei direttori d’o-pera più completi del nostro tempo, dal pugno di ferro della tempesta iniziale al guanto di velluto di scene intimiste dalle mille delicatezze. Emmanuel Dupuy, Diapason

influenzato dal krautrock te-desco degli anni settanta e dai suoni after hour dei rave bri-tannici. A questo Jarvis Cocker aggiunge le sue storie assurde. Insomma, britpop aggiornato ai tempi del co-vid-19? Può essere.Joachim Hentschel, Süddeutsche Zeitung

SokoFeel feelingsBecause Music●●●●●

L’ultimo disco della cantan-te e attrice francese Soko è spazioso e aperto, a volte an-che troppo. La musicista, or-mai di casa a Los Angeles, ha cominciato a lavorare all’al-bum dopo un periodo passa-to all’Hoffman institute, un centro per il sostegno psico-logico dov’era stata per la-sciarsi alle spalle alcuni trau-mi infantili. Il raggiungi-mento di questa maturità emotiva ha segnato un cam-biamento anche dal punto di vista musicale: Soko è passa-ta dal caleidoscopio ispirato soprattutto dai Clash del precedente album a un suo-no più snello e ritmato. Feel feelings è chic, ricorda Char-lotte Gainsbourg e Cat Power. Nonostante i primi secondi di Are you a magi- Soko

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Antonio PappanoVerdi: Otello

Sony Classical

Alina IbragimovaŠostakovič: concertiper violino Hyperion

Charles Munch The legacyDecca

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Thiago NassifMenteGearbox Records ●●●●●

Nel 2015, quando Arto Lind-say, leggendario musicista no wave statunitense e Thiago Nassif, giovane produttore brasiliano di São Paulo, si so-no incontrati hanno capito di avere molte cose in comune. Del resto Lindsay è stato in Brasile per un decennio, pro-ducendo album per alcuni de-gli artisti più stimati del paese, come Caetano Veloso, Tom Zé, Carlinhos Brown, Marisa Monte. Oggi, cinque anni do-po il loro incontro, Nassif e Lindsay fanno uscire il mate-riale migliore che hanno regi-strato insieme. Mente è un di-sco sinuoso e ambizioso in cui Thiago Nassif esplora uno spazio ricco di suggestioni tra no wave e bossa nova, appog-giandosi massicciamente sul groove e, canzone dopo can-zone, anche sulla melodia. Dalla diversione verso l’ingle-se nel singolo Soar estranho al samba deteriorato di Feral fox, fino al disorientante esoteri-smo di Santa, il piacere con cui Nassif si diverte a sterzare improvvisamente a sinistra è molto contagioso.Alex Robert Ross, The Fader

Jarv IsBeyond the paleRough Trade●●●●●

Jarvis Cocker, grande star del britpop insieme ai Pulp, torna a undici anni di distanza dal suo ultimo album solista con la formazione Jarv Is, fondata nel 2017. Beyond the pale, una raccolta di pezzi registrati in studio e altri dal vivo, è una delle cose migliori della car-riera del musicista britannico: un pop dalle tinte fosche, claustrofobico ma illuminato,

Thiago Nassif

ClassicaScelti da Alberto

Notarbartolo

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82 Internazionale 1368 | 24 luglio 2020

Pop

“Sappiamo se aveva famiglia?”. Auto isolata nella mia stanza, ho finalmente guardato Avengers: End game, finendo per commuo-vermi alla scena in cui i difenso-ri della Terra si riuniscono per

seppellire Vedova Nera. In precedenza, il personag-gio era stato ritratto nella serie cinematografica della Marvel come tragico e solitario, unica femmina del gruppo, supersoldata in spandex che non riesce mai davvero ad andare d’accordo con Oc-chio di Falco o Hulk, “mostruosa” in quanto sterile. La single senza figli, donna sola per definizione. Finché Ca-pitan America non sottolinea l’ovvio. Vedova Nera ce l’aveva eccome, una famiglia. “Noi”.

Quel momento, quello in cui l’ac-cozzaglia di supereroi si rende conto di essere una “vera famiglia”, è una meta-fora pop culturale ancora abbastanza toccante da non risultare abusata. So-prattutto quando sei chiusa in camera tua da una settimana, intrappolata in un corpo che ti spaventa, a farti venire crisi di tosse per una smania di auto-monitoraggio, avendo solo un coinquilino che ti lascia fuori dalla porta tazze di tè preparate, se non con perizia, con affetto. Come milioni di altre perso-ne, anch’io, durante la pandemia di covid-19, ho finito per ripensare il mio concetto di famiglia. L’idea di “fa-miglia trovata” è un costrutto culturale per cui i tempi sono definitivamente maturi, dal momento che molti di noi oggi se ne stanno creando, e ricreando, una.

Alla fine di marzo, una giornalista amica di amici mi ha chiamato per sapere come funzionava la fami-glia in cui vivevo a Los Angeles. Stava scrivendo un articolo su chi passava la quarantena con persone che non erano né parenti né amanti. Cioè noi: io e il mio coinquilino, più un amico e un’amica che vivono da soli nei paraggi. Tutti separati dai genitori dalla di-stanza e dalla malattia, tutti estremamente single. Pur non essendo una famiglia esattamente tradizio-nale, avevamo bisogno di un termine per riferirci l’u-no all’altra, quindi – visto che in questo momento il mondo sembra un po’ una di quelle cronologie alter-native da serie tv di fantascienza distopica all’ultima stagione – abbiamo deciso di definirci una “capsula”.

Ho conosciuto il mio coinquilino, compositore e cantautore, qualche anno fa a una festa a New York, in

un pulsare di luci ultraviolette e musica pompata. Ab-biamo subito capito che a un certo punto saremmo stati importanti l’uno per l’altra; quel momento è arri-vato alla fine del 2019, quando ho avuto bisogno di un coinquilino per un appartamento in subaffitto a Silver Lake, con un pessimo bagno con lavandini doppi e una pianta di limone nell’aiuola. Gli altri compagni di capsula sono una musicista e terapista di vedute ses-suali ampie conosciuta su Twitter e uno strano giova-ne giornalista conosciuto in fila per il bagno alla caf-

fetteria di quartiere, dove ci siamo mes-si a parlare dei nostri programmi radio-fonici preferiti.

Il motivo per cui è nata la capsula è stato più accidentale che profondo: io e il mio coinquilino ci siamo presi le cimi-ci dei letti. Le cimici dei letti sono schi-fose, costose da eliminare e sfiancanti, oltre a importi d’interpretare un tuo personale film catastrofico, incenerire buona parte dei tuoi effetti personali e disinfestare il resto. Il giornalista della caffetteria ci aiutava a trasbordare tutti

i nostri vestiti alla lavanderia automatica; io dormivo sul divano dell’amica terapista per sfuggire alle pun-genti bastardine del mio letto. Quando hanno annun-ciato che Los Angeles chiudeva, eravamo già stati a contatto così ravvicinato che, se uno di noi fosse stato esposto al virus, lo saremmo stati tutti. Abbiamo de-ciso di condividere il rischio. Dividerci le pulizie, l’in-trattenimento, le commissioni da fare in macchina. Assicurarci che, in ogni momento, tutti avessero ab-bastanza snack per non impazzire e che nessuno se la squagliasse per incontrare degli sconosciuti rimor-chiati con un’app. Era logico. O almeno così abbiamo detto alla giornalista.

Pensavo che sarebbe stata una breve intervista, che saremmo apparsi a metà di un articolo. Di lì a qualche giorno, la nostra foto era in prima pagina sul Los Angeles Times: “L’isolamento è più leggero con i compagni di quarantena”, diceva il titolo. Di colpo ci siamo ritrovati a dare interviste alle tv locali e alla ra-dio nazionale. La cosa stava sfuggendo un po’ di ma-no. Perché, mi chiedevo, facciamo notizia?

La storia che la maggior parte di noi sta vivendo è molto diversa da quella che ci aspettavamo di vivere. A noi millennial, come a diverse generazioni prima di noi, è stato insegnato che l’età adulta sarebbe comin-ciata nel momento in cui avessimo trovato la perfetta

L’amore è un lavoro. La convivenza è un lavoro. Stufi di fare anticamera per l’età adulta socialmente rispettabile, noi millennial abbiamo deciso di metter su casa qui

LAURIE PENNY

è una giornalista britannica. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Meat market. Carne

femminile sul banco

del capitalismo (Settenove 2013). Questo articolo è uscito sull’edizione statunitense di Wired con il titolo Live long

and prosper: covid-19

and the future of

families.

La famiglia del futuro

Laurie Penny

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persona del sesso opposto con cui accasarci. Funzio-nava così: aspettavi una persona con cui poter creare una vera famiglia e tutto quello che veniva prima o dopo erano solo cazzate. “Se pensiamo alla famiglia statunitense, molti di noi continuano a preferire quell’ideale”, ha scritto di recente l’opinionista con-servatore David Brooks in un pezzo sull’Atlantic inti-tolato “La famiglia nucleare è stata un errore” . “La consideriamo come la norma anche se per decine di migliaia di anni prima del 1950 la principale modalità di vita degli esseri umani non è stata quella”.

La famiglia nucleare, come osserva Brooks, è un’aberrazione storica. Era un’ipotesi di organizza-zione della società praticabile solo con strutture in grado di renderla possibile: abitazioni a prezzi conte-nuti, reti di sostegno locale formate da famiglie allar-gate di parenti e amici, un generoso sistema previ-denziale, lavori ben retribuiti che permettevano ad almeno un genitore di occuparsi in larga parte dei fi-gli, e una cultura che per lo più escludeva le donne da questi lavori, rendendo il ruolo di moglie e madre l’u-nico al quale la maggior parte di loro potesse aspirare.

Tutto questo, nel bene o nel male, è cambiato. Economicamente esclusa da tutti i tradizionali indi-catori di successo, dai figli alla casa di proprietà, un’intera generazione si è costruita una vita nello spa-zio tra la storia che la società ha previsto per lei e quel-la che di fatto è possibile. C’è chi vive da sola, chi vive con un compagno o una compagna, con i genitori o con entrambi. Moltissimi hanno dei coinquilini.

Con l’arrivo del covid-19, nel grande gioco delle sedie musicali che era la nostra melodrammatica convivenza, la musica si è interrotta. Di colpo abbia-mo dovuto ammettere che le persone con cui abitia-mo sono le persone con cui viviamo davvero, che si tratti di coinquilini, della nostra famiglia allargata, dei genitori anziani, della sorella del fidanzato o del fidanzato della figlia, degli amici sposati o del colle-ga alcolizzato divorziato da poco che lo scorso gen-naio è stato da noi un paio di settimane e ora è la per-sona con cui parliamo di più al mondo. Sono loro la nostra famiglia, nell’accezione originaria del termi-ne, che deriva da quello latino con cui s’indicava un nucleo familiare. La familia comprendeva i parenti di sangue ma anche gli ospiti, i visitatori, le guardie, i servi, gli schiavi, chiunque per scelta, circostanze o coercizione vivesse sotto lo stesso tetto e a cui si do-vesse una sorta di fedeltà.

Durante i mesi del lockdown globale, il concetto di “casa di quarantena” è entrato nel lessico culturale. Girano meme in cui si chiede con quale eroe della Marvel o dei cartoni animati, divinità greca o scrittore famoso preferiremmo essere rinchiusi, sforzandoci di sondare un inscrutabile futuro senza ucciderci a vicenda. Ma anche se aumenta il numero delle perso-ne che vivono in nuclei familiari imbastiti ad hoc per i tempi di crisi, permane una certa confusione ogni volta che il nucleo in questione non corrisponde a for-me familiari. “Le quarantene tra amici a volte incon-trano la riprovazione di chi aderisce a una definizione di famiglia tradizionale”, ha scritto la giornalista del

Los Angeles Times (con la quale, devo dire, è stato un piacere parlare, tanto che ci messaggiamo ancora).

Siamo sempre più numerosi a non avere motivi per aderire a una concezione di famiglia tradizionale. A Los Angeles, quasi metà degli adulti convive con un/una “non partner”. Circa un terzo degli statuni-tensi adulti, e la maggioranza di quelli tra i 18 e i 34 anni, vive in condivisione. Per tutti loro, il modello della coppia sposata e avvolta dalla benigna stabilità insieme ai figli, quell’unica versione di ciò che avreb-bero dovuto essere l’amore, l’impegno e la sicurezza, non è la vita che conoscono. E non è neanche la mia.

Una parte di me ha sempre saputo che la mia sto-ria non sarebbe finita come un film della Disney, con le campane, la pioggia di riso e i titoli che scorrono sulla coppia perfetta dietro la sua staccionata, per sempre felice e contenta. Ma era possibile, senza quello specifico “per sempre”, essere felici? Da bam-bina inquieta e ombrosa cresciuta in una cittadina fuori Londra, pensavo di no. Fino a un sabato per il resto normale di quando avevo 13 anni.

Mamma e papà si stavano separando, il posto in cui preferivo rinchiudermi lasciando fuori il mondo era il cinema d’essai di quartiere, dove quel giorno vidi un film molto strano. Era in svedese, ambientato negli anni settanta. Parlava di una madre di periferia che fugge da un matrimonio agli sgoccioli per andare a vivere, con due figli al seguito, in una scombinata comune hippy piena di comunisti, edonisti e varie gradazioni di idealisti suscettibili che discutono di chi deve lavare i piatti. Il film era Together, diretto da Lukas Moodysson; il titolo significa “insieme”.

Together mi ribaltò il mondo. Vedevo il matrimo-nio dei miei genitori naufragare e al tempo stesso cer-cavo di capire come doveva essere la vita adulta. Ave-vo già la fastidiosa sensazione che i programmi dei miei coetanei non avrebbero funzionato per me. Ed ecco quindici bestie rare stipate in un’unica grande casa. La vita che facevano non era normale né per gli standard della Stoccolma degli anni settanta né per quelli della Londra degli anni duemila, eppure stava-no insieme. C’era un che di romantico. Sapeva di li-bertà. Sembrava facile, come sempre quando si tratta di una storia vista da fuori.

Vent’anni dopo, sono ormai vissuta insieme ad al-tri per la maggior parte della mia vita adulta. Dopo l’università, nei primi anni della grande recessione, andai a vivere in un sudicio appartamento condiviso a Londra, in Turnpike lane, nel tentativo di ricreare un po’ dello spirito di Together. C’erano, va da sé, ac-cesi confronti politici sulla rotazione dei turni per la-vare i piatti e dibattiti etici su come e se sterminare i topi grandi come terrier che andavano a rovistare nei bidoni. Scoprimmo presto che condividere lo spazio smette di essere divertente in un punto compreso tra la prima volta in cui metti il piede nel vomito del coin-quilino mentre stai uscendo per andare al tuo lavoro a salario minimo e la milionesima volta in cui non rie-sci a dormire perché chi condivide il muro con te sta facendo un casino da ventitreenne qual è. Subito do-po andai a vivere con un archeologo scozzese tabagi-

Storie vereFrederick Moulton, 53 anni, ha visto una finestra aperta in un appartamento di Swindon, nel Regno Unito. “Dovevo pagare un debito al mio spacciatore”, ha detto Moulton, “così ho deciso di provare a entrare”. Gli è andata male: ha dovuto chiamare lui stesso la polizia per salvarsi, dopo che è rimasto incastrato, appeso nel vuoto, mentre provava a uscire. L’uomo, che ha già una lunga serie di condanne per furto, è stato arrestato e condannato a 18 mesi di servizi sociali.

Pop

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sta e una coppia di hacker insonni a Mile end. Poi in un appartamento di Hackney con due poete lesbiche. Poi ci furono le occupazioni studentesche del 2010 e i campi di Occupy nel 2011, dove abitai per vari mesi di fila (una volta ho condiviso una stanza in una comune a Willesden green, una credenza riconvertita e un materasso sul pavimento con una simpatica darketto-na australiana alla modica cifra di 450 sterline al me-se, che mi sembrava pure un affarone). Non mi è mai passato per la testa di mettere su famiglia. Innanzitut-to non potevo permettermelo. Complessivamente, tra il 2008 e il 2020, ho avuto 35 case in cinque paesi con, a seconda del metodo di conteggio, più di due-cento coinquilini, i loro partner, le loro eccentricità e i loro traumi infantili, tentando di creare famiglie temporanee in attesa che la nostra “vera vita” comin-ciasse.

L’ultima comune in cui sono vissuta, a Londra nel 2015, era nel capannone di un magazzino abbandona-to in cui, teoricamente, avrebbero dovuto vivere due o tre persone in qualità di “custodi”. Quando entrai eravamo sette, tutti tra i 22 e i 34 anni. Poi, man mano che lo spazio al piano di sotto si sviluppava, diventam-mo otto, poi dieci, più in genere un paio di scapestrati extra che dormivano sui divani. Avevamo una cosa che pochi giovani nella capitale avevano: spazio.

Non tantissimo, ovviamente, e non lussuoso. Le tubature vittoriane si rompevano ogni estate, e condi-videre un gabinetto portatile con nove persone solle-va seri dubbi sulla mia capacità di fare delle scelte giuste, così come giocare all’infinito gioco di attribu-ire l’appartenenza di una tazza o di un fidanzato par-ticolarmente lerci. Però c’era un che di romantico, e c’è ancora a cinque anni e ottomila chilometri di di-stanza, mentre sono confinata in quarantena con tre persone che l’anno scorso conoscevo appena.

“È una cosa che non ha una spiegazione eteroses-suale”. Poco dopo che la nostra capsula da quarante-na è finita sul giornale, Reddit se n’è accorto e di colpo centinaia di sconosciuti hanno cominciato a chieder-si chi di noi scopasse segretamente con chi. C’entrava non poco la fotografia che accompagnava l’articolo, in cui il mio favoloso coinquilino cantautore era ada-giato tra di noi con degli stivali vistosi e un paio di pan-taloncini attillati che andavano bene per il distanzia-mento sociale ma decisamente malissimo per il lavo-ro. “È il gruppo di persone più assurdo che abbia mai visto, e passo un sacco di tempo a guardarmi allo specchio”, diceva uno su Reddit. “Una persona con i capelli magenta per me non può essere etero”, le ave-vano fatto eco. Io m’indignavo: sono la prima a sor-prendermi della mia passione per il sesso eteroses-suale canonico, ma questo non vuol dire che non mi vada di colorarmi i capelli o di vivere con un’allegra cucciolata di svalvolati queer.

Le persone queer hanno sempre formato “fami-glie alternative”: può essere facile, soprattutto se vivi in una bella zona progressista di una bella metropoli progressista, dimenticarsi di quanti giovani ancora oggi siano abbandonati dalla famiglia, scagliati dolo-rosamente di peso in una vita adulta per cui non sono

preparati. Ma negli anni trascorsi dalla crisi del 20008 le ragioni per cui persone di ogni tipo, queer o no, for-mano famiglie alternative sono andate aumentando.

Gli stipendi sono crollati, gli affitti volati alle stelle, in molti ci siamo ritrovati a vivere, per necessità, quel-lo che in passato sarebbe stato considerato uno “stile di vita alternativo”. Ci sono madri single che decido-no di vivere insieme per creare un nucleo familiare in cui darsi aiuto e sostegno reciproco. Giovani coppie sposate che faticano a pagare il mutuo accolgono amici in stanze e garage liberi, facendogli pagare l’af-fitto. Persone adulte vanno o tornano a vivere con amici e genitori. La cosiddetta coabitazione, come le case minuscole, gli incontri scadenti e le tinture casa-linghe sbagliate, è una tendenza diffusa. Perché i mil-lennial non hanno un soldo. Il motivo per cui tanti di noi vivono con uno, due, cinque o sei coinquilini non è che abbiamo preso la decisione collettiva di distrug-gere le norme sociali dei nostri genitori, o non solo. È anche una necessità economica.

Ma la famiglia, in ogni epoca, lo è sempre. La fami-glia nucleare, durante il suo breve apogeo, era fonda-mentalmente una strategia economica, che facilitava il controllo del fabbisogno di manodopera e l’organiz-zazione della cura dei figli e del lavoro domestico in modo che le donne lo svolgessero quanto più possibi-le gratuitamente. Un assetto simile oggi non ha più senso, né economico né emotivo, e i millennial lo sanno: in fin dei conti quasi la metà di noi è cresciuta con i genitori divorziati o con un genitore solo. Eppu-re, la famiglia nucleare è ancora l’unica forma di fa-miglia culturalmente legittimata.

In questo momento c’è un bisogno profondo non solo di trovare altri modi di vita, ma che quei modi

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siano riconosciuti e sostenuti dalla società. Però que-sto desiderio di fatto è realizzato solo in un posto: nel-la narrativa, soprattutto quella di genere, che può permettersi più libertà nell’immaginare mondi diver-si dal previsto, dall’ordine e dalla normalità.

La metafora della famiglia trovata circola da de-cenni. Un gruppo di outsider, riuniti dal caso, trova un modo per convivere e crescere insieme. La cosa funziona in quanto soddisfa un desiderio, anche per chi è cresciuto senza un gruppo di amici su cui fare affidamento. E perché le possibilità drammaturgi-che sono infinite. Molto spesso le narrazioni di gene-re si aprono ingegnando un modo per riunire perso-ne disparate. S’incontrano tutti in una taverna o su una nave spaziale o mentre fuggono da una razza padrona fatta di robot. Appartengono tutti alla stes-sa unità militare, frequentano la stessa accademia per supereroi, sono delinquenti minorenni con i su-perpoteri seguiti dagli stessi assistenti sociali. A vol-te inizialmente si odiano, ma poi le loro vite finisco-no per intrecciarsi.

Le scrittrici, in particolare, sono da tempo pionie-re di un genere di romanzo futuristico che cerca alter-native d’immaginazione alla famiglia nucleare intesa come unità fondamentale dell’esistenza umana. Ur-sula K. Le Guin, Octavia Butler e Sheri S. Tepper, ma anche Marge Piercy, N.K. Jemisin, Lois McMaster Bujold, Joanna Russ e Lidia Yuknavitch si sono impo-ste come creatrici di alternative fantastiche alla felici-tà tradizionale. Molto spesso, per farlo devono inven-tare nuove strutture di parentela aliene. Nuove cap-sule, nuovi sistemi amicali, nuovi “surrogati”, come li definisce la teorica Sophie Lewis nel suo libro Full surrogacy now. La famiglia surrogata, o struttura fami-

liare surrogata, nell’appropriazione che Lewis fa del termine, sostituisce e migliora la forma tradizionale della famiglia patriarcale attraverso nuove reti di ac-cudimento fluide.

Nella serie di romanzi di Becky Chambers Way-farers, una banda di fuorilegge spaziali scorrazza per l’universo incrociando varie società aliene. La mia preferita è quella degli Aandrisks, per i quali è norma-le, nel corso della vita, avere tre famiglie. Prima viene la famiglia di nascita, o “di schiusa”, che non sempre coincide con quella di sangue. In seguito, da giovani, si formano “famiglie piuma”: chi ne fa parte produce figli ma non li alleva, in quanto impegnato a costruirsi una vita e ad attraversare il melodramma che per molti di noi caratterizza il periodo tra i venti e i trent’anni. Infine c’è la “famiglia casa”, in cui ci si riu-nisce con altri adulti maturi per crescere i figli che si è finalmente pronti a educare.

E se vivere con amici, estranei, genitori, fratelli e sorelle non fosse considerato un fallimento? O se fos-se un fallimento non necessariamente nel senso de-teriore del termine? Il filosofo pop Jack Halberstam parla di “un’arte queer del fallimento”, che sceglie di abbandonare fragili modelli di successo in ogni caso non concepiti per noi. È uno stile di vita che “si rivolge all’impossibile, all’improbabile, al poco realistico e all’ordinario. Che perde con serenità, e nel farlo im-magina altri obiettivi per la vita, per l’amore, per l’in-dividuo”. Una spiegazione eterosessuale per tutto questo in effetti non c’è.

Per una famiglia trovata si può soffrire come per una tradizionale. Nell’ottobre 2016 compivo trent’an-ni e ho fatto una festa nella mia comune di Londra. È stata una bella festa. Si beveva, ci si scambiavano se-greti e anche baci poco prudenti, ed ero felice pensan-do che la mia vita adulta era quella. Tre giorni dopo, i nove intimi amici con cui convivevo, compreso qual-che ex amante, mi hanno consegnato una lettera di sette pagine, fronte retro, in cui mi si spiegava, con retorica fricchettona atrocemente dettagliata e fero-cemente nonviolenta, che ero sostanzialmente un brutto spreco di tessuti umani, e venivo quindi espul-sa dalla casa che coincideva con la mia intera sfera sociale. È stato un colpo. Ero già vissuta in situazioni poi deteriorate, ma mai mi sarei aspettata di esser tra-scinata fuori per l’orecchio senza preavviso. Pensavo che quelli fossero i miei amici, la mia famiglia.

Il colpo al cuore ha avuto un peso fisico. Nessuna relazione finita, prima di allora o dopo, mi ha fatto male anche solo la metà. Ci sono stata male per molto tempo, e la cosa peggiore, forse, è stata non avere una lingua in cui tradurre il lutto. Se avessi rotto un fidan-zamento, spiegare quel dolore sarebbe stato più faci-le. I miei parenti hanno mostrato comprensione ma anche sollievo: mi volevano bene, ma a quel punto speravano accettassi soluzioni più tradizionali, qual-cosa di più solido e sicuro.

Ho deciso che forse avevano ragione. Forse avevo fatto un errore, deviando dalla storia che le donne eterosessuali devono raccontarsi sulla propria felici-tà. Poiché sforzarmi di vivere come se fossimo agli

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albori di un paese migliore era troppo doloroso, avrei cercato di essere normale. Sono andata a vivere con un caro amico appena diventato un partner senti-mentale, in un piccolo appartamento tutto nostro nella cittadina dove ero cresciuta. All’epoca sembra-va un’ottima idea. Stavamo entrambi facendo grandi sforzi di normalità per corrispondere in tutti i sensi a ciò che è normale. Diventare quadrati. Tagliare via i pezzi più morbidi e inusuali del nostro cuore ricavan-do le linee nette pretese dalla società. Forse, se erava-mo in due a fare quello che ci si aspettava che facessi-mo, avremmo potuto essere felici. Al sicuro.

Era un piano sciocco. Presto mi sono ritrovata di nuovo single, in una casa con il mutuo intestato a me grazie all’eredità di un parente. Per tenere a bada il tarlo della solitudine ho cominciato ad arredarla in modo frenetico. Sapevo che ero fortunata. Ma allora perché ero tanto infelice? Perché sarei stata pronta a rinunciare a tutto non per il compagno perfetto, il ma-trimonio perfetto o il mutuo perfetto, ma per condivi-dere di nuovo un bagno malconcio e le bollette e i la-vori di casa con nove amici e relativi tic, alla faccia della precarietà e dell’insicurezza?

La lezione che ho dovuto imparare è: oggi la fami-glia nucleare tradizionale non è né più stabile né più sicura né più destinata a una duratura felicità delle famiglie alternative. Nel romanzo Le sirene di Titano, Kurt Vonnegut impiega centinaia di pagine per arri-vare alla conclusione che lo scopo – o quantomeno uno degli scopi – “della vita umana, indipendente-mente da chi la controlla, sia quello di amare chiun-que si abbia vicino”. Il problema delle famiglie trovate è lo stesso di qualsiasi altro tipo di famiglia. Non esi-ste una struttura perfetta, un unico insieme di regole, capace di garantire che ci si comporti sempre bene l’uno con l’altro, che a tratti non si debba crescere un po’, e che a nessuno venga mai più spezzato il cuore.

Nella serie tv Buffy l’ammazzavampiri, un gruppo di liceali combatte mostri e demoni mentre tenta di vivere una vita normale, per poi rendersi conto che la vita normale, forse, non è poi un granché. Alla quinta stagione, la banda deve affrontare uno dei mostri più spaventosi che ci siano: i genitori retrogadi, a cui non sta bene che Tara, una delle protagoniste, sia lesbica oltre a essere una strega. “Noi siamo i suoi parenti di sangue”, grida il padre. “E voi chi diavolo siete?”. È Buffy a sottolineare l’ovvio: “La sua famiglia”.

Durante il lockdown per il covid-19, milioni di per-sone hanno dovuto confrontarsi con gli aspetti talvol-ta coercitivi della famiglia tradizionale. Stime al ri-basso suggeriscono che gli episodi di violenza dome-stica nel mondo sono aumentati tra il 20 e il 30 per cento, per il numero di persone, soprattutto donne, che si sono trovate in trappola con i loro aguzzini. Ma anche prima del confinamento, negli Stati Uniti ogni settimana 19 donne erano uccise dal marito o da un conoscente stretto. La famiglia nucleare, come tutte, può essere un posto pericoloso.

Il punto non è che i legami, che siano di sangue o di altri liquidi corporei, sono superflui, irrimediabil-mente violenti o, come nel caso di Buffy, diretta-

mente demoniaci. È che non sono gli unici rapporti che contano, e per chiarirlo a una società che da trop-po tempo considera la diversità un pericolo c’è volu-ta una pandemia. L’isolamento forzato ci ha reso iperconsapevoli di ciò che esigiamo e ci aspettiamo dalla coabitazione, e della speranza di un cambia-mento. Forse il vero pericolo, ora, non è il semplice fatto che un numero consistente di noi possa non formare mai una famiglia tradizionale, ma l’idea che alcuni di noi preferiscano non farlo. Che forse biso-gna smettere di farlo perché si deve e comin ciare a farlo perché si vuole.

Durante il lockdown mi sono ritrovata a stiracchia-re i muscoli sociali intirizziti dai tempi della comune: la matematica da dispensa dei pasti da organizzare, dello sfamare con cibi nutrienti e interessanti persone squattrinate, impaurite e con precisi cibi da evitare che vogliono solo cenare con qualcosa di buono. La difficoltà di rimanere generosa anche quando il ba-gno non si pulisce magicamente da solo, e secondo te chi è che porta sempre fuori l’immondizia, eh? La fa-tina dei cassonetti?

Litighiamo, certo. Io e il mio coinquilino abbiamo avuto una settimana di liti come possono esserlo quelle tra una scrittrice nevrotica e un musicista ne-vrotico intrappolati insieme in un buco con un sacco di lavoro per il quale una ha bisogno di tanto silenzio e l’altro di tanto rumore. Ci sono state lacrime. Torte impastate con rabbia. Sommesse ammissioni del fat-to che entrambi, da tutta la vita, lottiamo per trovare uno stile di vita in cui l’essere diversi, ambiziosi, crea-tivi e queer non significhi per forza stare da soli.

Le liti hanno occupato mezza settimana. L’altra metà l’abbiamo passata a cercare un’altra casa da condividere quando scadrà il contratto, perché il la-voro emotivo è stato sfiancante e importante, e nessu-no dei due ha voglia di ricominciare da zero con altre persone. Il coinquilino sa infastidirmi quasi più di chiunque altro, e se qualcuno gli fa del male lo am-mazzo. Quando a maggio ho avuto dei sintomi si-mil-covid, è stato lui a impedirmi di lavorare a questo articolo, a insistere che mi mettessi a letto una volta per tutte, magari con un bel film stupido di supereroi. Il significato di famiglia, io credo, è questo.

Vuol dire amare chiunque si abbia vicino. E non deve sempre piacerti. L’amore è un lavoro. La con-vivenza è un lavoro. Stufi di fare anticamera per l’età adulta socialmente rispettabile, noi millennial abbiamo deciso di metter su casa qui. Non aspettia-mo che cominci la “vera vita”. Potremmo non avere mai la sicurezza e la stabilità che ci hanno insegnato a desiderare, ma possiamo impegnarci lo stesso e fare comunità. La vera vita, per me, è questa. Sono queste le famiglie e i rapporti che mi hanno cresciuto, mi hanno insegnato ad aver cura di me stessa e degli al-tri, e che mi hanno spezzato il cuore, il cervello e non poche delle mie tazze preferite. Sono le nostre vere vite, brevi e bellissime, sciocche e improbabili, e le vivremmo molto meglio se non avessimo solo il con-tentino della fiction, ma il permesso di credere nel loro valore. u mc

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Scienza

Si dice che siamo quello che man-giamo. Quindi quello che espellia-mo racconta molto di noi. E que-ste informazioni possono fornire

utili indizi demografici. La pensa così Saer Samanipour, dell’università di Amster-dam, che analizzando le acque di scarico ha ricavato un profilo piuttosto accurato degli abitanti di determinate zone.

Per poter confrontare il suo studio con informazioni il più possibile aggiornate, Samanipour ha effettuato le analisi con-temporaneamente a un censimento. Ha scelto quello condotto in Australia nel 2016, avvalendosi dell’aiuto di alcuni col-leghi dell’università del Queensland.

Come spiegano i ricercatori in un arti-colo pubblicato su Environmental Scien-ce and Technology Letters, sono stati

prelevati campioni da più di cento im-pianti per il trattamento dei liquami, tutti i giorni per circa una settimana, cercando quaranta sostanze chimiche considerate rivelatrici sotto il profilo socioeconomi-co. La nicotina, per esempio, è associata alle zone rurali più che a quelle urbane, perché solitamente chi vive in campagna fuma di più. Il consumo di caffeina è cor-relato a livelli di studio più intensi e quel-lo di amfetamina alla criminalità.

Oppioidi e antidepressiviComplessivamente i ricercatori hanno analizzato le concentrazioni di sei so-stanze legali, tra cui la caffeina e la nicoti-na, due illegali (amfetamina e metanfe-tamina), sette oppioidi (la cui legalità di-pende dalla situazione), otto tra antide-pressivi e antipsicotici, nove altri farma-ci, due dolcificanti artificiali e sei indica-tori della dieta, tra cui l’enterolattone, prodotto dal consumo di fibre vegetali. Le informazioni raccolte in ciascun im-pianto sono state abbinate ai dati del cen-simento per creare un modello in grado di riprodurre la composizione chimica delle acque di scarico di comunità con

determinate caratteristiche socioecono-miche. Tra le correlazioni individuate, i ricercatori hanno scoperto che quantità significative di vitamine B (abbondanti nella carne rossa, nei cereali integrali e nella verdura a foglia verde), alcol e caf-feina sono associate ai quartieri ricchi, mentre oppioidi e antidepressivi abbon-dano nelle aree con lavoratori a bassa specializzazione.

Queste correlazioni non sorprendono più di tanto (anche se risulta interessante quella tra l’assenza di connessione inter-net e l’antipertensivo atenololo, forse le-gato all’età), ma Samanipour ha scoperto che, nel loro insieme, rivelano con una certa precisione la composizione demo-grafica del bacino di utenza di un impian-to di trattamento. Ne ha avuto conferma applicando il modello ideato per i cento impianti iniziali ad altri nove e preveden-do per ciascuno le condizioni socioeco-nomiche dell’area, che poi si sono rivela-te conformi ai dati del censimento.

Le previsioni erano piuttosto specifi-che: quanti abitanti hanno concluso la scuola secondaria, quanti hanno l’auto-mobile, quanti sono genitori single e così via. Su 37 domande che riguardavano istruzione, occupazione, reddito, vita so-ciale e abitazione, il modello ha previsto le risposte a 30 domande, con uno scarto inferiore al 25 per cento rispetto ai valori emersi dal censimento.

I ricercatori sostengono che, conside-rando la relativa facilità, il costo contenu-to e la frequenza con cui è possibile ana-lizzare i campioni delle acque di scarico, il loro modello potrebbe essere molto utile, se non come sostituto del censi-mento, almeno come strumento per mo-nitorare i cambiamenti nella composizio-ne demografica di una popolazione tra un censimento e l’altro. u sdf

Cosa dicono di noile acque di scarico

Analizzando i liquami in cerca di sostanze chimiche considerate rivelatrici, alcuni ricercatori sono riusciti a individuare le caratteristiche socioeconomiche di alcune comunità

The Economist, Regno Unito

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CHIMICA

u Il Centro britannico per l’ecologia e l’idrologia, in collaborazione con alcune università, sta mettendo a punto un test in grado di rilevare la presenza del virus Sars-cov-2, che provoca il covid-19, nelle acque di scarico. La quantità rilevata nei campioni dovrebbe fornire una stima piuttosto accurata dei contagi all’interno di una comunità, individuando gli eventuali focolai con una settimana di anticipo rispetto ai test medici.

Da sapere Un test per il virus Sars-cov-2

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ARCHEOLOGIA

La verità sugli hyksos A differenza di quello che tra-mandarono i faraoni, probabil-mente gli hyksos non erano de-gli invasori stranieri che con-quistarono l’Egitto con la forza, causando disordine e caos. Era-no piuttosto una comunità di immigrati i cui antenati erano arrivati in Egitto molto tempo prima, da varie zone dell’Asia occidentale. La nuova versione della storia è il risultato di una lettura degli isotopi di stronzio presenti nello smalto dei denti degli scheletri sepolti nell’anti-ca capitale degli hyksos, Avaris, 350 anni prima che arrivassero al potere. Ben 24 dei 36 schele-tri portati alla luce appartene-vano a persone provenienti dall’estero, scrive Plos One. Inoltre, gli archeologi non han-no trovato tracce di combatti-menti e distruzioni. L’ipotesi è che gli hyksos arrivarono pacifi-camente al potere, tra il 1638 e il 1530 aC, in un momento di debolezza delle dinastie egizie. Anche se governarono per poco più di cent’anni, con sei farao-ni, influenzarono molto la sto-ria e la cultura egizia.

PALEOANTROPOLOGIA

I primi colonizzatori Le origini della presenza uma-na nelle Americhe potrebbero essere più antiche di quanto si pensava. Due studi, pubblicati su Nature, suggeriscono che le prime popolazioni potrebbero essere arrivate già 30mila anni fa. Finora si pensava che la mi-grazione fosse avvenuta dall’A-sia attraverso l’Alaska circa 13mila anni fa, perché in prece-denza il passaggio era bloccato dai ghiacci. I primi colonizzato-ri potrebbero però essere arri-vati nel continente prima della diffusione dei ghiacci o seguen-do la linea della costa.

IN BREVE

Agricoltura La rotazione delle colture e del tipo di mais transgenico coltivato potrebbe aiutare a mantenere sotto con-trollo la diffusione degli insetti. I campi negli Stati Uniti sono in-festati dalla diabrotica del mais (nella foto), un insetto che con il passare del tempo è diventato resistente alle tossine prodotte dal mais transgenico. Lo studio, pubblicato su Pnas, è stato con-dotto in Illinois, Iowa e Minne-sota in collaborazione con alcu-ne aziende biotecnologiche. Tecnologia L’analisi dei mes-saggi pubblicati su social net-work come Twitter e Reddit po-trebbe aiutare a individuare quelli di propaganda. È stato in-fatti sviluppato un sistema in-formatico che in base a para-metri come il numero di parole, i link e l’ora dei messaggi pub-blicati, li attribuisce a campa-gne di disinformazione. Il siste-ma funziona se, com’è avvenu-to finora, i testi sono prodotti da poche persone, scrive Science Advances.

GENETICA

Partoriresenza dolore Una variante genetica potrebbe spiegare perché alcune donne non soffrono particolarmente durante il parto. Secondo Cell Reports, il fenomeno potrebbe essere dovuto a una variante del gene kcng4, presente più o meno in una donna su cento, che regola l’attività di una pro-teina delle cellule nervose. Le donne con questa variante ge-netica hanno una soglia del do-lore più alta.

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Uno dei possibili vaccini contro il Sars-cov-2, il virus che causa il covid-19, ha superato la prima fase della sperimentazione negli Stati Uniti. Il test ha coinvolto 45 persone dai 18 ai 55 anni, in buone condizioni di salute. Il vaccino, chiamato mRNA-1273, è risultato sicuro, con effetti collaterali minori. Come per

altri vaccini in fase di sperimentazione, prende di mira le proteine sulla superficie del virus, le cosiddette spine, necessarie per penetrare nelle cellule. Il vaccino sviluppa una risposta immunitaria che garantisce una buona produzione di anticorpi. Tuttavia, si tratta di risultati preliminari. I partecipanti sono stati pochi e non rappresentano la popolazione generale. Il vaccino dovrà dimostrarsi sicuro anche per le persone anziane e per quelle con altre patologie, che sono le più vulnerabili all’infezione. Inoltre, non è ancora chiaro per quanto tempo fornisca una protezione. A queste domande si cercherà di rispondere nella seconda e nella terza fase della sperimentazione. La seconda è già cominciata, ma quella decisiva sarà la terza, perché servirà a verificare l’efficacia del vaccino durante un periodo di diffusione del virus. ◆

The New England Journal of Medicine, Stati Uniti

L’ultranero come arma di difesaNel golfo del Messico e nella baia di Monterey i biologi della Duke university hanno identificato 16 specie di pesci dal colore ultranero che vivono a più di duecento metri di profondità. Il colore dipende dalle caratteristiche dei loro melanosomi (organelli contenenti me-lanina), che assorbono più del 99,5 per cento di luce. Grazie a mela-nosomi più grandi e più fitti rispetto ad altre specie, riescono a camuffarsi nelle acque profonde, scrive Current Biology.

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CORONAVIRUS

BIOLOGIA

Al lavoro per un vaccino

Un esemplare di Anoplogaster cornuta

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90 Internazionale 1368 | 24 luglio 2020

Il diario della Terra

u La pandemia di covid-19 ha costretto il mondo accademi-co a ripensare i convegni scientifici. Negli ultimi mesi alcune iniziative sono state cancellate, mentre altre si so-no svolte online. Una nuova programmazione delle attivi-tà, basata sulle esperienze fat-te durante la pandemia, po-trebbe aiutare a ridurre le loro conseguenze negative per l’ambiente. Le conferenze producono infatti emissioni di anidride carbonica. Secondo un’analisi pubblicata sulla rivi-sta britannica Nature, i viaggi dei 28mila partecipanti alla conferenza dell’American geo-physical union, nel dicembre scorso a San Francisco, hanno prodotto 80mila tonnellate di anidride carbonica. I voli in-tercontinentali sono una delle principali fonti delle emissioni di CO2. Un volo di andata e ri-torno da Hong Kong a San Francisco emette più anidride carbonica delle attività di un abitante del Regno Unito in un anno.

Durante la pandemia molti convegni si sono svolti in rete, tra cui quello dell’European geosciences union, con 26mi-la partecipanti. In futuro le conferenze si potrebbero or-ganizzare in modo diverso. Per esempio, alcune potreb-bero essere online, oppure di-ventare biennali invece che annuali, intervallate da riu-nioni su internet. O ancora, si potrebbero scegliere luoghi facilmente accessibili, mini-mizzando gli spostamenti. Un’altra ipotesi è far parteci-pare fisicamente alle confe-renze chi non viene da troppo lontano, e invitare online tutti gli altri.

Conferenze

online

Alluvioni

in Asia

meridionale

Il nostro clima

Alluvioni Almeno 191 perso-ne sono morte nelle alluvioni causate dalle forti piogge mon-soniche che hanno colpito l’A-sia meridionale: 79 in Nepal, 67 in Bangladesh e 45 nello stato dell’Assam, nel nordest dell’India. Più di cento animali selvatici, tra cui almeno otto esemplari di rinoceronte in-diano, sono morti nel parco nazionale di Kaziranga, nell’Assam. u Gli allagamenti sull’isola di Sulawesi, in Indo-nesia, hanno causato la morte di almeno 36 persone.

Caldo Secondo il consorzio

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World weather institution, l’ondata di caldo che dall’ini-zio dell’anno ha colpito la Si-beria, con temperature supe-riori alla media di cinque gradi centigradi e un picco di 38 gra-di, sarebbe “praticamente im-possibile” in assenza del cam-biamento climatico causato dagli esseri umani. Secondo i ricercatori, un fenomeno del genere si verifica per “cause naturali” una volta ogni 80mi-la anni. u Il 12 luglio nella De-ath valley, in California, sono state registrate temperature superiori ai 53 gradi, le più alte sul pianeta dal 2017.

Terremoti Un sisma di ma-gnitudo 7,8 sulla scala Richter è stato registrato al largo dell’A-laska. Le autorità hanno lan-ciato un’allerta tsunami.

Foreste Circa 1.590 chilometri quadrati di foresta sono stati

distrutti nel 2019 in Colombia. La deforestazione si è ridotta del 18 per cento rispetto al 2018.

Orsi polari Secondo uno stu-dio pubblicato su Nature Cli-mate Change, gli orsi polari po-trebbero estinguersi entro il 2.100 a causa dello scioglimen-to della banchisa artica.

Visoni La regione dell’Arago-na, in Spagna, ha ordinato l’ab-battimento di più di 92mila vi-soni d’allevamento dopo che l’87 per cento è risultato positi-vo al covid-19.

Antartide Alcune parti dell’Antartide non sono mai state raggiunte da un essere umano. Queste aree costituiscono meno del 32 per cento della superficie totale e si trovano soprattutto nella parte centrale del continente. Le aree più visitate sono invece quelle lungo la costa e quelle prive di ghiacci. Complessivamente, circa il 99 per cento del territorio è incontaminato o toccato solo parzialmente dalle attività umane, come il turismo e la ricerca scientifica. In futuro potrebbe essere possibile raccogliere informazioni da remoto sulle zone inesplorate. Lo studio, pubblicato su Nature, ha analizzato viaggi, esplorazioni e altre attività in Antartide registrate ufficialmente tra il 1819 e il 2018. Nella foto: pigoscelidi antartici su un iceberg nel canale di Lemaire

Radar

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Page 91: Internazionale - 24 07 2020

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u La repubblica delle Maldive, popolare destinazione turistica grazie alle sue spiagge bianche, è uno stato insulare che si trova nell’oceano Indiano, circa 700 chilometri a sudovest dell’India

e dello Sri Lanka. L’arcipelago è composto da 1.192 isole coralli-ne raggruppate in 26 atolli, che occupano 90mila chilometri quadrati di oceano.

Un atollo è una struttura co-

sulla sommità di un’antica cate-na montuosa vulcanica.

Quest’immagine, scattata da un satellite della missione Sentinel-2 dell’Esa, mostra la parte settentrionale dell’atollo Ari. Lungo 90 chilometri e lar-go 30, è uno dei più grandi delle Maldive. È composto da 82 iso-le, 18 delle quali abitate. Il colo-re turchese indica la presenza di acque limpide e poco profon-de, che contrastano con quelle più scure e profonde dell’ocea-no Indiano.

Le Maldive sono uno dei pa-esi più bassi del mondo, con più dell’80 per cento del territorio a meno di un metro sul livello del mare. Questo rende l’arcipela-go particolarmente vulnerabile all’aumento del livello dei mari causato dalla crisi climatica. I dati satellitari indicano che ne-gli ultimi venticinque anni il li-vello dell’acqua è cresciuto, in media, di tre millimetri all’an-no. Ma di recente l’innalzamen-to ha subìto un’accelerazione, con una crescita annua di cin-que millimetri. Il riscaldamento degli oceani e lo scioglimento dei ghiacciai stanno rendendo l’aumento del livello del mare una minaccia molto concreta per le isole basse come le Mal-dive.–Esa

L’atollo, lungo novanta chilometri e largo trenta, è uno dei più grandi dell’arcipelago. È composto da 82 isole coralline, 18 delle quali abitate.

Il pianeta visto dallo spazio 12.04.2019

L’atollo di Ari, alle Maldive

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Page 92: Internazionale - 24 07 2020

92 Internazionale 1368 | 24 luglio 2020

Economia e lavoro

Continuano a crescere gli scambi automatici d’informazioni tra paesi sui conti correnti aperti da persone che risiedono altrove,

società di comodo o fondazioni. La conse-guenza è una maggiore trasparenza sul denaro nascosto all’estero, nei cosiddetti paradisi fiscali. In un comunicato diffuso il 30 giugno l’Organizzazione per la coo-perazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha annunciato che 97 paesi nel 2019 si so-no scambiati informazioni (saldi, interes-si, dividendi, cessione di beni e altro anco-ra) su 84 milioni di conti correnti o di conti di deposito titoli, per un valore complessi-vo di circa diecimila miliardi di euro. Tra i paesi citati ci sono numerosi stati o territo-ri noti per avere un regime fiscale che pra-ticamente non impone tasse ad alcuni

soggetti, come le isole Cayman o Bermu-da. Ci sono anche paesi che, come la Sviz-zera o il Lussemburgo, fanno pagare le tasse ma a livelli decisamente bassi.

Il documento indica somme enormi, su cui gli stati potranno fare le opportune verifiche. Bisognerà controllare se questi redditi sono stati dichiarati alle rispettive amministrazioni fiscali confrontandoli con i conti indicati nei libri contabili o se, al contrario, si tratta di soldi sottratti al fi-sco da persone, aziende o esponenti di organizzazioni criminali. Il totale di beni passati al vaglio è raddoppiato rispetto al 2018, il primo anno in cui c’è stato un vero scambio automatico: due anni fa furono scambiate informazioni su cinquemila miliardi di euro circolati in 96 paesi su 47 milioni di conti correnti bancari.

Secondo l’Ocse queste cifre dimostra-no che la cooperazione internazionale (più che necessaria ai fini della trasparen-za fiscale e della lotta contro i flussi illeciti di denaro) ha cominciato a funzionare bene. Lanciato nel 2016 dopo il grande scandalo finanziario dei Panama papers (l’inchiesta che svelò milioni di documen-ti riservati sui paradisi fiscali) e messo a

punto nel 2017, lo scambio automatico di dati bancari tra paesi che vogliono traccia-re i frutti di frodi fiscali o le attività di rici-claggio di denaro sporco (traffico di droga, corruzione) è considerato uno dei modi migliori per favorire la trasparenza.

Alcuni avvocati fiscalisti continuano a criticare questo metodo, approvato anche dai paesi del G20 (il gruppo dei 19 paesi più ricchi del pianeta più l’Unione euro-pea): sostengono che violi il diritto alla protezione dei dati dei loro clienti, ma in realtà cercano soprattutto di tutelare i loro interessi finanziari. Oggi, grazie allo scambio automatico, certe tesi perdono terreno. In questo modo rientra buona parte del denaro mancante alle casse di uno stato e, secondo le stime dell’Ocse, si riducono i depositi bancari nei paradisi fiscali.

Il raddoppio delle quantità d’informa-zioni condivise tra il 2018 e il 2019 si spie-ga in particolare con l’aumento degli ac-cordi bilaterali: i 97 paesi che oggi parteci-pano allo scambio automatico, sottolinea l’Ocse, trasmettono le loro informazioni a un numero crescente di paesi partner, per un totale di 4.500 relazioni bilaterali. Questi scambi si basano su dati inviati dal-le banche alle amministrazioni fiscali e usano sistemi estremamente sicuri, so-prattutto nei paesi in via di sviluppo. Chi partecipa al progetto nella speranza di re-cuperare i soldi degli evasori, quindi, è obbligato a investire in sistemi inviolabili. Lo ha fatto l’India, e anche la Svizzera ha accettato di condividere informazioni con i paesi in via di sviluppo.

Riciclaggio di denaroGli scambi aumentano anche perché le informazioni non riguardano più solo i conti aperti da singoli individui, ma anche il complesso dei conti offshore, una novità che aumenta notevolmente le cifre di de-naro controllate e promette di far emerge-re più attività di frode e di riciclaggio di denaro. “Questo sistema multilaterale offre ai paesi di tutto il mondo, compresi quelli in via di sviluppo, una miniera di nuove informazioni grazie alle quali le amministrazioni fiscali possono assicu-rarsi che i conti all’estero siano adeguata-mente dichiarati”, ha sottolineato il segre-tario generale dell’Ocse, Ángel Gurría. “I governi potranno disporre di maggiori entrate, una prospettiva molto importan-te alla luce della crisi che stiamo vivendo a

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La cooperazione aiutaa smascherare gli evasori

Nel 2019 quasi cento paesi hanno accettato di scambiarsi i dati su milioni di conti bancari per combattere l’evasione fiscale. È un risultato incoraggiante

Anne Michel, Le Monde, Francia

FISCO

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causa della pandemia di covid-19. Inoltre potranno far diventare il pianeta un posto in cui chi commette frodi fiscali non riu-scirà più a nascondersi”.

I nuovi dati pubblicati dall’Ocse do-vranno essere esaminati bene dagli eco-nomisti e dai ricercatori che, dopo la crisi finanziaria del 2008 e sulla scia del lavoro di Gabriel Zucman, professore associato dell’università della California a Berke-ley e autore con Emmanuel Saez del sag-gio The triumph of injustice (Il trionfo dell’ingiustizia), s’interessano alla “ric-chezza nascosta delle nazioni”(è il titolo di un altro saggio di Zucman, scritto in-sieme a Thomas Piketty e uscito in Italia nel 2017 per Add Editore) nei centri fi-nanziari offshore. Una delle grandi que-stioni è capire quanto queste cifre, che comprendono denaro dichiarato regolar-mente e ricchezza nascosta al fisco, coin-cidano con le stime degli economisti e a cosa potranno servire.

Nel 2017 Zucman si era basato in parti-colare sulle statistiche bancarie interna-zionali per stimare che nei paradisi fiscali si trovavano circa 8.700 miliardi di euro. I dati globali resi noti dall’Ocse, che pub-blica informazioni nuove e inedite, con-fermano le sue ricerche.

Secondo Zucman, allievo di Piketty, lo scambio automatico dei dati bancari non basterà per avere la meglio sulla fro-de e sull’elusione fiscale internazionale, anche se indubbiamente è un progresso. L’economista francese chiede in partico-lare l’introduzione di sanzioni finanziarie nei confronti dei paradisi fiscali e, da molti anni, l’istituzione di un’anagrafe finanziaria mondiale, simile a quella che esiste dal 1791 in Francia nel settore im-mobiliare ma per censire tutti i titoli fi-nanziari. u gim

Da sapere Larghe inteseLo scambio di informazioni sui conti bancari.

Fonte: Ocse

Paesi che scambiano dati bancari

Scambi bilaterali di dati

Conti da cui provengono i dati (milioni)

Valore dei conti (migliaia di miliardi di euro)

48

2.600

11

1,1

96

4.500

47

4,9

2017 2018

97

6.100

84

10,0

2019

AMERICA LATINA

Debitialle stelle

L’America Latina, una del-le regioni più colpite dalla pandemia di covid-19, ri-schia anche una crisi eco-nomica senza precedenti, scrive il Financial Times.In un continente che già soffriva di bassa crescita e alto indebitamento, il lun-go confinamento e i costi enormi dei piani di salva-taggio hanno peggiorato le finanze pubbliche di molti paesi. Secondo l’Istituto per la finanza internazio-nale, quest’anno il Cile, il Brasile e il Messico regi-streranno la più alta cresci-ta di debito pubblico ri-spetto al loro pil. Per il Cile l’aumento sarà pari al 30 per cento.

STATI UNITI

SUDAFRICA

I dannidella chiusura

“In Sudafrica circa tre mi-lioni di persone hanno per-so il lavoro durante il confi-namento deciso per contra-stare la pandemia di covid-19”, scrive The Con-tinent. Altri 1,5 milioni di lavoratori non sono stati li-cenziati ma hanno visto di-minuire il loro reddito. I da-ti arrivano dal National in-come dynamics study – co-ronavirus rapid mobile sur-vey (Nids-Cram), uno stu-dio realizzato su un cam-pione di settemila lavorato-ri in tutto il Sudafrica.

UNIVERSITÀ

Clima e disparitàmeritano spazio

Argomenti come le disu-guaglianze, la biodiversità e il clima dovrebbero esse-re più presenti nei piani di studio delle facoltà di eco-nomia. È l’appello lanciato da Economists for future, una rete formata da studio-si di economia di tutto il mondo, scrive Die Tages-zeitung. “Quello che s’in-segna nelle università spes-so non ha legami con i pro-cessi economici reali o l’e-sperienza quotidiana. Si basa quasi sempre su meto-di astratti, che non permet-tono agli studenti di com-prendere davvero l’econo-

mia. I metodi tradizionali ignorano gli ultimi risultati della ricerca economica e le conoscenze acquisite gra-zie allo scambio con altre discipline scientifiche, co-me per esempio la climato-logia”. Un’economia che guardi al futuro, conclude Economists for future, do-vrebbe occuparsi di più di fenomeni concreti come la crisi climatica.

Un sogno infranto

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Santiago del Cile

Grazie all’estrazione di petro-lio con la tecnica del fracking (fratturazione idraulica), gli Stati Uniti erano diventati in poco tempo un esportatore netto di greggio, un produttore capace di mettere paura perfi-no all’Arabia Saudita. Il merito principale non era di tradizio-

nali colossi come la Chevron o la Exxon Mobil, ma di molte piccole aziende sparse tra il Texas e il Wyo-ming. Oggi, scrive Bloomberg Businessweek, il calo del prezzo del petrolio causato dalla pandemia di covid-19 ha messo in ginocchio queste aziende. Piene di debiti e a corto di entrate, molte hanno li-cenziato gran parte dei dipendenti. “Negli ultimi mesi più di trenta compagnie del settore hanno di-chiarato fallimento. Ma soprattutto questa crisi”, aggiunge il settimanale statunitense, “ha anche messo in forse ciò che gli Stati Uniti davano ormai per scontato: la possibilità di assicurare il fabbiso-gno energetico nazionale senza dover dipendere dai sauditi, dai russi o da altri grandi produttori di petrolio”. u

Bloomberg Businessweek, Stati Uniti

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Internazionale 1368 | 24 luglio 2020 95

Strisce

Stai bevendo acqua da una lattina?

LA REGINADEL FOCOLARE

È IN CASA?

SÌ.

HAI VISITE.

ENTRI.

serve moltaenergia per

Produrre le lattinee probabilmenteè rivestita con

qualcosa ditossico.

Bere acqua fa male,fatti una birra.

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COSA PENSI SIA PIÙ IMPORTANTE, LA FELICITÀ

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COMUNE?

PERCHÉ DOVERSCEGLIERE? HO ADOT TATO

UN CANE DEL CANILEE SONO MOLTO

FELICE .

E TU QUESTOLO CHIAMIMARTINI?

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Preparate le valigie: dal 31 luglio in tutte le edicole c’è un numero speciale di Internazionale

Centosessantaquattro pagine di reportage, racconti di viaggi e immagini dai quattro angoli del pianeta

Viaggio

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L’oroscopo

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ubuntu, un termine zulu che signi-fica “io sono perché noi siamo” o “fiducia in un legame universale che unisce l’umanità”. L’arcive-scovo sudafricano Desmond Tu-tu, premio Nobel per la pace, scri-ve: “Una persona ubuntu è aperta nei confronti degli altri. Non si sente minacciata se gli altri sono buoni e capaci, perché ha una si-curezza di sé che nasce dalla con-sapevolezza di appartenere a un insieme più grande, e quindi si sente sminuita se gli altri vengono umiliati”. Spero, Bilancia, che da oggi al 25 agosto metterai la parola ubuntu al centro della tua azione. Applicala più che puoi.

SCORPIONE

“Le dimensioni dei tuoi so-gni devono essere sempre

superiori alla tua attuale capacità di realizzarli”, dice l’ex presidente liberiana Ellen Johnson Sirleaf, dello Scorpione. “Se i tuoi sogni non ti spaventano, non sono gran-di abbastanza”. Probabilmente nelle ultime settimane l’avevi già capito da solo. E spero che tu ab-bia avuto il coraggio di espandere i tuoi sogni fino a superare la tua capacità di realizzarli. Se non l’hai ancora fatto, ti prego di comincia-re subito. Se l’hai fatto, passa alla fase successiva, che consiste nel mettere a punto un piano per ac-quisire le capacità e le risorse ne-cessarie per realizzare i tuoi nuovi e più ambiziosi sogni.

SAGITTARIO

La poeta Emily Dickinson, del Sagittario, scriveva:

“L’anima dovrebbe sempre star socchiusa / perché ove il cielo chieda / non sia obbligato ad aspettare / o tema di disturbarla”. Sono certo che nelle prossime set-timane questi versi ti saranno uti-li. Penso che per “cielo” Dickin-son intendesse meravigliosi inter-venti, sacre rivelazioni e fortunati incidenti, ma anche inviti appas-sionati, opportunità improvvise e fenomeni soprannaturali. Cosa puoi fare per socchiudere la tua anima a fenomeni come questi?

CAPRICORNO

“Tutto è complicato”, scri-veva il poeta Wallace Ste-

vens. “Se non lo fosse, la vita, la poesia e tutto il resto sarebbero noiosi”. Sono d’accordo con lui! Penso che dovresti liberarti di qualsiasi risentimento tu possa avere per il fatto che il nostro mondo è un folle groviglio di sto-rie interessanti e misteriose. Non sperare che la vita smetta di esse-re così affascinante, confusa e in-trigante. Impara invece a goderti i suoi profondi enigmi, a celebrare la sua intrigante complessità e a essere grato per la sua paradossale bellezza. Spero di averti preparato ad affrontare al meglio le prossi-me quattro settimane.

ACQUARIO

Nelle prossime settimane sarai particolarmente sen-

sibile agli stimoli. Ogni minimo evento ti toccherà più del solito. Ogni percezione sarà più capace di commuoverti e influenzarti. Per questo t’invito a essere vigile e a proteggerti. Costruisci uno schermo mentale intorno a te stesso. Fa’ in modo che i tuoi con-fini siano chiari e netti. Riafferma il tuo impegno ad allontanare le vibrazioni che non ti sono utili e ad accogliere quelle che ti fanno stare meglio.

PESCI

L’attrice Gwyneth Paltrow ha fondato Goop, un’azien-

da che propone trattamenti esotici e molto costosi. Paltrow sostiene che le terapie con pietre preziose a raggi infrarossi e i bagni di cristalli dissolvano la negatività. Che le punture di api permettano di far sparire le cicatrici. Che bere “suc-co di sesso”, una miscela di angu-ria e acqua alcalina, aumenti la li-bido. Che il “martini al collage-ne”, un cocktail a base di vodka, vermut, succo di oliva e collagene idrolizzato, distenda le rughe del-la pelle. Vorrei che nelle prossime settimane tu facessi qualcosa per migliorare il tuo benessere, Pesci, ma ti consiglio di provare cure più economiche e affidabili di quelle proposte da Paltrow. Un esempio? Tanto per cominciare, dormi mol-to, mangia sano, fai esercizio fisi-co, passa più tempo nella natura, medita ed esprimi con tenerezza il tuo amore.

LEONE

“Come posso far capire ai conigli selvatici che sono loro amica?”, chiede su Twitter la blogger Ghost Girl. Que-sta domanda è un buon punto di partenza per riflettere

su come migliorare il tuo rapporto con ogni genere di cose selva-tiche: animali, persone, condizioni meteorologiche, paesaggi e le tue stesse fantasie esotiche. Penso che potrai potenziare la tua in-telligenza e il tuo benessere entrando più in contatto con influen-ze che non rispettano necessariamente le regole convenzionali e che traggono la loro energia da fonti primitive.

COMPITI A CASA

Come potresti trarre vantaggio dal diventare una persona più equilibrata?

ARIETE

“La creazione del mondo non è avvenuta una volta e

per sempre, ma avviene ogni gior-no”. Ti sottopongo questa osser-vazione del drammaturgo Samuel Beckett perché stai entrando in una fase particolarmente creativa del tuo ciclo astrale. Spero che l’intuizione di Beckett ti spinga a improvvisare e sperimentare. Mi auguro che t’incoraggi a immagi-nare nuove possibilità e tendenze, e a concepire altri universi da far nascere con un nuovo big bang.

TORO

“Spesso la solitudine nasce dal fatto che abbiamo perso

contatto con alcune parti di noi stessi”, dice la scrittrice Diane Ackerman. In questa fase potresti provare qualcosa di simile, Toro. Forse hai perso un po’ il contatto con alcuni aspetti della tua psiche che sono fondamentali per la tua consapevolezza di te. Hai dimen-ticato di nutrire certe qualità im-portanti che ti mantengono saggio e in buona salute. Cercare quelle parti di te in altre persone è del tutto inutile: dovrai trovarle den-tro di te. La buona notizia è che ora è il momento ideale.

GEMELLI

“Qualcuno dovrebbe farlo, ma perché proprio io?”. Se-

condo la scrittrice e attivista An-nie Besant, questa frase è il motto dei codardi morali, quelli che san-no riconoscere un’ingiustizia ma non fanno niente per correggerla. È un difetto molto comune. Quasi tutti, me compreso, a volte deci-diamo di soddisfare il nostro biso-gno di sicurezza invece di ribellar-ci all’ingiustizia. Ma in questo pe-

riodo, Gemelli, è più importante del solito evitare ogni viltà mora-le. Dalla tua integrità e dal tuo co-raggio dipendono più cose di quanto pensi.

CANCRO

Nata nel 1936, la scrittrice e attivista June Jordan è

stata una femminista bisessuale nera figlia di immigrati giamaica-ni. Quando era bambina, il padre la picchiava e la madre si suicidò. In seguito, allevò un figlio da sola. Nonostante le difficoltà, pubblicò 28 libri, vinse premi e fu molto in-fluente. Il suo segreto? Era una Cancerina molto evoluta, nel sen-so che aveva deciso di trattarsi be-ne. “Voglio amarmi e rispettarmi come se la mia vita dipendesse dall’amore e dal rispetto per me stessa”, diceva. Vorrei che questa fosse la tua nota dominante per il resto del 2020. Cerca di amarti co-me faceva June Jordan.

VERGINE

Non è mai troppo tardi per vivere un’adolescenza ri-

belle, possibilmente migliore di quella che hai già vissuto. Secon-do la mia analisi dei presagi astra-li, è un buon momento per provar-ci. C’è qualche autorità troppo ri-gida di cui ti vorresti liberare? Qualche convenzione opprimente che sarebbe il caso d’infrangere? Qualche vecchia tradizione che bisognerebbe cancellare? Penso che attirerai la buona sorte se avrai il coraggio di metterti nei guai e di tentare qualche fantasio-so esperimento.

BILANCIA

La tua parola chiave per le prossime settimane è

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L’ultima

Le regole Crema solare1 Se ti scivola tutto dalle mani, ne hai messa troppa. 2 Lo schermo totale non basta: resta sotto l’ombrellone. 3 Con la protezione 15 stai solo prendendo in giro te stesso. 4 Hai messo l’olio abbronzante? Benvenuta nel 1981. 5 Se la gente ha paura quando ti guarda in faccia, devi spalmarla meglio. [email protected]

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“Ho detto ‘forse finalmente qui sta rinfrescando’”.Siamo tutti nella stessa barca… “Finché non limita

la mia libertà personale!”.

Lo staff della Casa Bianca si prepara alla prossima conferenza stampa.

La svolta ecologista di Macron. “Tutto a destra!”.

Vivacizza la tua vita: scegli un’altra lingua al bancomat. “Uhm… coreano”.

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