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SOMMARIO PAG . BELLA O FEDELE: Dov’è nata l’America (Cristina Cona) 2 PER CONOSCERSI MEGLIO: Intervista a Luigi Magi, Capo dell’Unità B-IT-02 (La redazione) 5 CULTURALIA: Di seconda mano (Giulia Gigante) 7 VARIE: Detalunizziamo la GU (Cristiano Maria Gambari) 9 CULTURALIA: Divagazioni grammatico-storico-gastronomiche sulle peculiarità della lingua slovena (Raphael Gallus) 10 Comitato di redazione: C. Breddy, C. Cona, R. Gallus, C. M. Gambari, G. Gigante, C. Gracci, D. Murillo, E. Ranucci Fischer, D. Vitali Collaboratori: Luigi Magi Grafica: A. A. Beaufay-D’Amico (Anna-Angela.Beaufay-D'[email protected]) 28 Giugno 2004 trimestrale transardennese dei traduttori italiani Direzione generale della Traduzione – Commissione europea http://europa.eu.int/comm/translation/reading/periodicals/interalia/index_it.htm

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SOMMARIO PAG .

BELLA O FEDELE: Dov’è nata l’America (Cristina Cona) 2 PER CONOSCERSI MEGLIO: Intervista a Luigi Magi, Capo dell’Unità B-IT-02 (La redazione) 5 CULTURALIA: Di seconda mano (Giulia Gigante) 7 VARIE: Detalunizziamo la GU (Cristiano Maria Gambari) 9 CULTURALIA: Divagazioni grammatico-storico-gastronomiche sulle peculiarità della lingua slovena (Raphael Gallus) 10

Comitato di redazione: C. Breddy, C. Cona, R. Gallus, C. M. Gambari, G. Gigante, C. Gracci, D. Murillo, E. Ranucci Fischer, D. Vitali Collaboratori: Luigi Magi Grafica: A. A. Beaufay-D’Amico (Anna-Angela.Beaufay-D'[email protected])

28 Giugno 2004

trimestrale transardennese dei traduttori italiani Direzione generale della Traduzione – Commissione europea http://europa.eu.int/comm/translation/reading/periodicals/interalia/index_it.htm

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bella o fedele DOV’È NATA L’AMERICA

La storia di questa traduzione (o, per essere più esatti, la sua ultima puntata) risale al 1974: fu in quell’anno che, durante un congresso di studi, Peter Christoph, curatore dei manoscritti storici nella New York State Library, fece la conoscenza di Charles Gehring, giovane laureato in germanistica con una specializzazione in studi neerlandesi, e si sentì chiedere da quest’ultimo se, a sua conoscenza, qualcuno fra i suoi colleghi aveva bisogno di un collaboratore per ricerche su documenti olandesi del Seicento. « Altro che! », fu la risposta di Christoph, cui non pareva vero di essere piombato sulla persona giusta.

Proprio in quel periodo, infatti, stava ripartendo praticamente da zero il lavoro sulla documentazione riguardante l’insediamento seicentesco della Nieuw Nederland (che aveva coperto un territorio corrispondente oggi, grosso modo, agli stati di New York, New Jersey, Connecticut, Pennsylvania e Delaware), e in particolare Nieuw Amsterdam, antenata di Manhattan. Gli olandesi erano stati infatti i primi ad esplorare ed occupare questa parte del Nuovo Mondo, e dal 1626 al 1664, anno in cui venne estromessa dagli inglesi, la Westindische Compagnie (WIC), la potentissima società commerciale detentrice del monopolio della colonizzazione nei possedimenti americani, aveva dato vita ad una comunità fiorente e dinamica, caratterizzata da una tolleranza civile e religiosa poco comune all’epoca.

Gli archivi di questo periodo conservati in Olanda erano andati distrutti nel 1821, quando il governo aveva venduto come carta straccia tutti i documenti riguardanti le Compagnie delle Indie sia orientali che occidentali di data anteriore al 1700; quelli rimasti oltreoceano, già andati in parte smarriti nel corso di un secolo particolarmente movimentato e immagazzinati dalla fine del Settecento nella New York State Library di Albany, furono sporadicamente oggetto di attenzione da parte degli studiosi nel corso dell’Ottocento, ma le poche traduzioni fatte riguardavano soltanto i documenti più significativi di carattere amministrativo e politico, ignorando del tutto gli aspetti rappresentati dalla storia sociale e dalla cultura materiale della colonia (che occupavano circa 6000 pagine). A cimentarsi per primo con la traduzione, nel 1818, fu F.A. van der Kemp, un anziano religioso olandese che, oltre ad essere affetto da una forma di cecità andata vieppiù aggravandosi nel corso del lavoro, non aveva una conoscenza sufficientemente approfondita dell’inglese; prevedibilmente lacunoso, il risultato delle sue fatiche venne purtroppo utilizzato per molto tempo dagli storici, che in buona fede lo credettero una fonte adeguata. Quasi un secolo dopo un traduttore esperto e coscienzioso, A.J.F. van Laer, si era impegnato a 2

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bella o fedele

rendere in inglese l’intero corpus per vedere poi il frutto di due anni di lavoro svanire nel nulla (assieme all’opera di van der Kemp) in un incendio che distrusse la biblioteca nel 1911 e causò la perdita di oltre due milioni di documenti relativi alla storia di New York.

Per fortuna gli archivi olandesi sfuggirono all’annientamento totale grazie al fatto che, essendo considerati meno importanti di quelli in lingua inglese, erano stati collocati ai piani inferiori degli scaffali, cosicché vennero protetti dalla caduta di altri volumi. Parecchi documenti andarono comunque distrutti e quasi tutti furono danneggiati dal fuoco, dal fumo e dall’acqua utilizzata per spegnere l’incendio. Van Laer ricominciò a tradurre, ma dopo qualche tempo cadde in preda ad un ben comprensibile esaurimento nervoso e abbandonò l’opera intrapresa

Verso la fine degli anni Sessanta Peter Christoph si era così imbattuto in una massa di documenti bruciacchiati, affumicati e mezzo ammuffiti immagazzinata negli archivi; messosi alla ricerca di un traduttore, si rese ben presto conto della difficoltà di trovare qualcuno che non solo conoscesse l’olandese del Seicento, diverso dalla lingua odierna quanto lo è Shakespeare dall’inglese contemporaneo, ma che fosse anche in grado di decifrare la scrittura (la grafia olandese si è profondamente modificata a partire dal Settecento, così che i testi anteriori a tale periodo risultano incomprensibili ad un lettore moderno). Un altro problema, costituito dalla mancanza di fondi, venne risolto grazie al’intervento di facoltosi americani di origine olandese che, sollecitati, accettarono di fornire i finanziamenti necessari.

Quando Gehring iniziò il lavoro, nel settembre 1974, si trovò di fronte a dodicimila pagine di carta grossolana coperta di una scrittura spesso sbiadita, estremamente difficile da decifrare, che stando alle descrizioni sembrava un incrocio fra l’alfabeto romano e quello arabo o tailandese : si trattava di lettere, atti giudiziari e notarili, testamenti, verbali, diari, una documentazione vastissima che copriva praticamente ogni aspetto delle vicissitudini storiche e della vita quotidiana in quella che sarebbe diventata Manhattan, dalle liti fra vicini, alla compravendita di terreni, all’architettura locale, agli usi e costumi, alla flora e fauna dell’isola. Nel 2000 erano stati pubblicati sedici volumi di traduzioni e restano ancora da tradurre alcune migliaia di pagine. A complicare ulteriormente il lavoro di Gehring è stata fra l’altro la qualità decisamente carente delle traduzioni fatte in passato, che, con l’avanzare del lavoro, l’ha convinto della necessità di procedere, in moltissimi casi, ad un rifacimento completo.

Gehring dirige attualmente il New Netherland Project, un’organizzazione fondata per promuovere la ricerca sul periodo coloniale olandese e completare il lavoro di trascrizione degli archivi, sponsorizzata dalla New York State Library e dalla Holland Society of New York. Il suo lavoro ha permesso a poco a poco di risvegliare l’interesse per questo capitolo finora dimenticato della storia americana e ha ispirato non solo numerosi lavori di approfondimento e tesi universitarie, ma anche libri, come il suo A Journey into Mohawk and Oneida County, 1634-1635, traduzione del resoconto di una missione effettuata per proteggere gli interessi olandesi nel commercio delle pellicce; come

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bella o fedele DOV’È NATA L’AMERICA

Beverwijck, A Dutch Village on the American Frontier 1652-1664 della sua assistente Janny Venema, e come The Island at the Center of the World di Russell Shorto, il più noto fra tutti, recentemente pubblicato in Gran Bretagna (dove « center « è ovviamente diventato « centre »).

La tesi di fondo di quest’ultimo autore, che è anche quella di Gehring, è decisamente ambiziosa, poiché si tratterebbe niente meno che di cambiare radicalmente i presupposti alla base della storiografia americana: secondo quanto sostengono Shorto e Gehring, finora le origini degli Stati Uniti sono state identificate (a torto) pressoché esclusivamente nelle « tredici colonie » del New England fondate dai puritani inglesi, e per un vizio anglocentrico (nonché il fatto che per lungo tempo le fonti disponibili sono state quasi soltanto in inglese) si è ignorato o sottovalutato il ruolo svolto dalla Nieuw Nederland, e più particolarmente da Nieuw Amsterdam, nel plasmare la società americana; la traduzione degli archivi della Nieuw Nederland dovrebbe invece permettere di riequilibrare questa prospettiva, rivalutare l’importanza del periodo olandese per il futuro degli Stati Uniti e chiarire che, lungi dal costituire una congerie pittoresca, ma disordinata e storicamente di poco peso,

la colonia era prospera e dotata di un’amministrazione piuttosto efficiente, e che le rivendicazioni presentate dai suoi abitanti alla Westindische Compagnie testimoniano di un’esigenza di rappresentanza e di partecipazione democratica insoliti per quell’epoca.

Con il suo carattere multietnico, aperto e pragmatico e la sua libertà commerciale (dovuti anche, e proprio, al fatto di trovarsi sotto il controllo dell’Olanda, che in quel secolo era la società politicamente e socialmente più avanzata d’Europa) quella minuscola, variegata comunità avrebbe rappresentato il nucleo prefigurante della società americana. Secondo la formulazione di Shorto: « Manhattan is where America began ».

Cristina Cona

Fonti : Russell Shorto, The Island at the Centre of the World, Doubleday, London 2004 (specialmente introduzione e ultimo capitolo);

S t e v e W i c k , T h e D u t c h P a p e r C h a s e , i n : www.newsday.com/extras/lihistory/2/hs218a.htm;

The Translator of Manuscripts and an Era: Charles Gehring o f t h e N e w N e t h e r l a n d P r o j e c t , i n : ww.thenaf.org/NAFNEWSfall2003.pdf

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per conoscersi meglio

Intervista a Luigi Magi, capo dell’Unità IT-02

Luigi Magi è alla Commissione dal 1975 ed ha una lunga esperienza come capo di unità linguistiche. Gli poniamo quindi alcune domande sui cambiamenti e sviluppi del nostro « mestiere » chiedendogli infine di presentare la sua unità.

D: Come è cambiato il lavoro da quando sei entrato alla traduzione ? R: Alla metà degli anni 70, quando sono stato assunto dalla Commissione, la struttura del servizio di traduzione era molto simile a quella attuale. Si parlava allora di divisioni linguistiche anziché di dipartimenti linguistici. La divisione italiana aveva un numero di traduttori più ridotto, ma un maggior numero di segretarie. I traduttori erano anche allora ripartiti in gruppi specializzati, ma non vi erano capi unità e sul piano amministrativo dipendevamo tutti direttamente dal capo divisione.

Come attività intellettuale il lavoro di traduzione non è cambiato rispetto ad allora, ma le modalità pratiche e gli strumenti di cui disponiamo oggi ci hanno fatto fare un passo in avanti fenomenale. Siamo passati in poco tempo dalla dettatura su disco in plastica a quella su nastro (con dattilografia nel « pool » delle segretarie), quindi a un primo sistema informatico Q-One, seguito da sucessive e sempre più frequenti migrazioni, fino all’ultima XP. Il lavoro di traduzione è divenuto al tempo stesso più semplice e più complesso. Più semplice per la facilità di ricerca delle fonti e dei testi di riferimento attraverso gli strumenti informatici e più complesso per la maggiore varietà di temi trattati e i minori contatti con i richiedenti, che si sono attenuati sempre più nel corso degli anni di pari passo con l’espandersi del numero di lingue e del numero di traduttori.

Sul piano delle lingue utilizzate c’è stato un progressivo e inarrestabile slittamento dal francese all’inglese come principale lingua di lavoro e una diminuzione delle pagine tradotte verso il tedesco e le altre lingue non procedurali.

D: Come giudichi il ripristino dei raggruppamenti secondo un criterio linguistico ? R: Il ritorno alla vecchia struttura sembra confermare, nel suo piccolo, la ben nota teoria dei corsi e ricorsi storici del Vico. È un dato di fatto che l'ingresso dei nuovi paesi e la destinazione delle nuove lingue a Lussemburgo non lasciavano praticamente alternative alla scelta della struttura linguistica a scapito di quella tematica. Non va peraltro dimenticato che la preferenza data alla struttura linguistica rispondeva anche all'esigenza di una maggiore flessibilità tra i traduttori della stessa lingua. Questo era del resto il punto debole della vecchia struttura tematica, che non aveva mai dato risultati soddisfacenti nonostante i vari meccanismi di rilevamento della « pressione » e « temperatura » ideati.

Lo svantaggio evidente di questa compartimentazione è l’affievolirsi dei contatti con le altre lingue, anche se a livello dei capi unità rimangono come occasioni di incontro le riunioni a livello del planning.

D: La traduzione assistita è molto utilizzata nella tua unità ? R: Oltre la metà dei membri dell'unità (traduttori e segretarie) utilizzano più o meno regolarmente il TWB. In questo momento i cinque traduttori più competenti in questo campo hanno promosso un'azione di formazione e di assistenza personalizzata all'interno dell'unità per i traduttori meno esperti. Questa azione consiste in una mezza giornata di introduzione agli arcani del TWB e quindi in un sostegno ravvicinato nei casi di difficoltà.

Anche se il TWB non è indicato per tutti i testi, nella maggior parte dei casi esso consente di risparmiare tempo e risorse e soprattutto di garantire una maggiore coerenza e qualità terminologica dei testi.

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per conoscersi meglio

L’utilizzo delle nuove tecnologie non è sinonimo tuttavia di un corrispondente aumento della produzione. Con la riduzione progressiva del personale di segreteria, i traduttori devono consacrare a compiti segretariali il tempo che potrebbero destinare alla traduzione (ricerca di documenti di riferimento, pretrattamento, clean-up, postallineamento, ecc.).

D: La traduzione automatica è uno strumento cui fate spesso ricorso ? R: Dall'ultima indagine effettuata dal gruppo di lavoro 3 « Informatica : strumenti di ausilio alla traduzione » risulta che l’utilizzazione di Systran nel nostro dipartimento non è molto diffusa. Lo scarso entusiasmo mostrato dai traduttori nel ricorso a questo strumento rivela quanto siano diverse le esigenze degli utilizzatori: i traduttori non devono accontentarsi di una comprensione del testo, ma devono renderlo in maniera impeccabile nella propria lingua.

Come esperienza personale ricordo che qualche anno fa avevo fatto un tentativo per le interrogazioni parlamentari e avevo chiesto alle segretarie di accludere la traduzione Systran ad ogni interrogazione da assegnare. Dopo un mese i risultati sono stati talmente insoddisfacenti che l’esperimento si è concluso con una marcata disillusione.

La coppia EN-IT è ancora inadeguata, mentre quella FR-IT da risultati nettamente migliori. Il gruppo « informatica » del nostro dipartimento ha appena presentato una proposta intesa ad alimentare e perfezionare Systran, che potrebbe essere utilizzato anche in combinazione con il TWB. A mio parere, per ora i traduttori ottengono risultati migliori con i pretrattamenti e i « retrievals ».

D: Due parole sulla tua unità?

R: Unità eccellente! Ma credo che meglio delle parole valga ….. l’immagine

La redazione

L’Unità DGT-IT-02 in missione al parco

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DI SECONDA MANO

« Tradurre un libro è un’ossessione buona che offre un altrove in cui rifugiarsi, dove viaggiare e dimenticare se stessi »

Laura Bocci

Di seconda mano Né un saggio né un racconto sul tradurre letteratura

L’autrice, che è traduttrice di professione (soprattutto, ma non solo, dal tedesco), costruisce un libro che si articola su molteplici piani e, attraverso una serie di divagazioni autobiografiche e storiche, in diversi luoghi: Berlino ma anche Bamberga, in omaggio a Hoffmann, Jena, sulle tracce dei fratelli Schlegel, Londra, naturalmente Roma e persino la Tunisia, paese in cui la Bocci svolge un insolito praticantato.

Una torma di scrittori le si affolla intorno: da Leopardi a Goethe, da von Arnim a Keats, da Schlemil a Shakespeare: non si tratta di fantasmi, bensì di presenze vive che restano tali grazie alle loro opere.

La loro presenza è indispensabile perché solo conoscendoli, solo «entrando nelle loro solitudini», facendole proprie, si potranno tradurre le loro opere. La Bocci, infatti, fa propria l’idea di Paul Auster secondo cui «ciascun libro è un’immagine di solitudine e le sue parole rappresentano molti mesi se non molti anni della solitudine di un individuo» e immagina di vivere in una sorta di simbiosi con lo scrittore che sta traducendo. Secondo lei, la traduzione ha una valenza femminile, «riproduttiva» in quanto essa mette al mondo qualcosa che è stato fecondato da un altro, per dargli voce ed interpretarlo, traducendo codici e segnali che sono ignoti al destinatario finale dell’operazione.

Decisamente contraria alla teoria dello scrittore Javier Marias che ritiene opportuno «portare l’autore al lettore» attualizzando il testo e, in un certo senso, banalizzandolo, l’autrice preferisce tentare un’impresa che vada nella direzione opposta, quella di avvicinare il lettore all’autore senza agevolazioni che snaturino il testo anche a costo di perdere per strada qualche lettore.

Una parte del libro è dedicata ad un personaggio cui la scrittrice tiene in modo particolare : Bettina Brentano, autrice di una rielaborazione in forma di romanzo di un carteggio con Goethe nonché moglie dello scrittore von Arnim con cui ebbe sette figli.

Si può scrivere un libro sulla traduzione senza sciorinare luoghi comuni o condannare i lettori alla noia ?

Si può parlare di traduzione come un mestiere avventuroso o una sorta di alchimia in cui il traduttore è un filtro attraverso cui si opera la trasformazione da un testo in un altro? Si può, con una formula snella e dinamica, priva di pretenziosità, come quella scelta da Laura Bocci in Di seconda mano, una sorta di zibaldone, a metà strada tra la narrazione autobiografica, il racconto storico e il saggio.

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Il risultato è sconcertante : una traduzione originalissima, poetica e melodiosa anche se non sempre corretta : «un misto di audacia e di incoscienza … di vastissima creazione neologica di conio tedesco.…di parole di un lessico inglese antiquato che lei usa invece continuamente per tradurre termini tedeschi contemporanei».

Oltre ai personaggi del mondo della letteratura nel libro entrano anche persone che, in un modo o in un altro, sono diventate parte integrante della vita dell’autrice. E’ così che il lettore conosce la storia di un’oncologa della Germania Est che riesce avventurosamente a passare all’Ovest poco prima che l’abbattimento del muro privi l’impresa del significato assunto nel corso di tutta una vita trascorsa alimentando il sogno segreto di poter, un giorno, vedere Parigi e quella di Monsieur Azouz, singolare editore tunisino, per il quale la Bocci, per un gioco del destino, si trova a tradurre in una lingua che non è la sua.

In conclusione, Di seconda mano è una dichiarazione al tempo stesso di amore (per le possibilità che offre) e di odio (per le condizioni di lavoro) per la traduzione letteraria che è (e sarà sempre) un’arte che richiede una buona dose di eroismo, fantasia e capacità artigianali. Per tradurre un libro bisogna essere disposti a trasferirsi armi e bagagli nel libro stesso e poi a restarci dentro: «il traduttore è libero di sguazzare nel privato dell’autore, di diventare una specie di amico di famiglia, che entra ed esce da casa sua quando e come più gli piace così come entra ed esce dalla sua opera».

Giulia Gigante

Personalità poliedrica ed originale, dalla vita avventurosa o piuttosto dalle molte vite, Bettina, cui pare si debba - grazie alla sua simpatia per Karl Marx - il celebre incipit del Manifesto: «uno spettro si aggira per l’Europa», si accinse ad un’opera ardua: tradurre personalmente (visto che non c’era nessuno disposto a farlo del cui talento si fidasse) in inglese il suo carteggio con Goethe dopo essersi lanciata anima e corpo nello studio e nell’esplorazione di questa lingua.

« Tradurre un libro è un’ossessione buona che offre un altrove in cui rifugiarsi, dove viaggiare e dimenticare se stessi »

Laura Bocci

Di seconda mano Né un saggio né un racconto sul tradurre letteratura

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DI SECONDA MANO

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Non so cosa accada agli altri lettori di questa pregevolissima rivista, ma ogni volta che sulla Gazzetta ufficiale trovo taluni/talune impiegato in quanto aggettivo o pronome riferito a nomi di cosa io provo una vaga sensazione di disagio. Una frase del tipo “È opinione generale che la situazione si presenti nel modo anzidetto; taluni peraltro dissentono in quanto sostengono che/taluni dissenzienti ritengono però che” non mi genera alcun problema, ma una locuzione del tipo “taluni sottoprodotti della lavorazione del riso” mi lascia sempre leggermente perplesso.

Risalendo alle radici della faccenda ho trovato che tale uso sarebbe stato imposto da un mio illustre predecessore di impeccabili origini toscane. Magari il don Lisander sarebbe anche d’accordo, ma io sono un milanese (relativamente) moderno ed oltre al si sono abituato a sentir suonare anche le altre note, cosicché questo uso della lingua non mi piace proprio. (So benissimo che per certuni l’orecchio lombardo è irrimediabilmente guastato in primo luogo dall’assordante mugghiare di innumeri armenti, in secondo luogo dal clangore di fabbriche dissennatamente operose ed in terzo luogo dal tintinnio di fiumane monetarie di portata paperoniana, ubique nella nostra regione. Ma si tratta solo di voci senza fondamento, manifestamente ispirate dalla più bieca invidia).

Per andare a fondo della questione e risolverla a mo’ di nodo gordiano ho quindi consultato, di concerto con un collega di cui apprezzo la sensibilità linguistica, il Grande dizionario UTET della lingua italiana curato da S. Battaglia.

varie

Ho così potuto apprendere che il talpone, “dal veneto talpon, di etimo incerto” non è un mammifero sotterraneo dalle misure eccezionali, bensì un “tronco d’albero di grandi dimensioni. – G. Barbaro: I boschi fanno talponi, che d’un pezzo cavato ne fanno barche che portano otto e dieci cavalli”. (Questo non c’entra niente, ma era troppo bella per lasciarsela scappare).

Poco sotto (manco mal) ho finalmente trovato taluno. La voce è alquanto lunga. Per riassumere, anche se il Battaglia ne menziona in primo luogo la natura di pronome indefinito, eventualmente seguito da partitivo, effettivamente più avanti ne parla anche come aggettivo. Se però guardiamo gli esempi che fornisce, non mi sembra esattamente il tipo di prosa (gli usi poetici fanno caso a parte) cui è raccomandabile ispirarsi nello stilare la versione italiana della GU. D’Annunzio: I frutti numerosi, taluni già tutti d’oro, altri maculati … pendevano in su le teste de’ Termini. Carducci: Raccogliesse talune coccole selvatiche, e quelle con gran cura serbasse.. E. Cecchi: Coltivazione oltremodo stenta e penosa, fuorché in talune località, interne e avvallate, dove l’acqua piovana un po’ si raccoglie e si mantiene. E, dulcis in fundo, con sovrano disprezzo per la grammatica, L’Illustrazione Italiana: Per taluni valori un po’ più di prudenza e una maggior calma non sarebbero sconsigliabile (sic).

In conclusione per svecchiare un pò la Gazzetta ufficiale a me sembra proprio giunta l’ora di mandare finalmente in pensione (salvo forse che nel caso delle coccole selvatiche) il taluni, veterano di tante battaglie, per sostituirlo con un meno appariscente alcuni ovvero, in alcuni casi ma senza esagerare, determinati.

Cristiano Maria Gambari

DETALUNIZZIAMO LA GU

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Divagazioni grammatico-storico-gastronomiche sulle peculiarità della lingua slovena

Da un punto di vista grammaticale lo sloveno, come molte altre lingue indoeuropee, prevede la declinazione dei sostantivi, dei pronomi, degli aggettivi e dei numerali. I casi sono cinque: nominativo, accusativo, genitivo, dativo, locativo e strumentale. I generi sono il maschile, il femminile e il neutro. Anche nello sloveno i verbi vengono coniugati, esistono tre tempi – presente, passato e futuro (il numero limitato dei tempi, anche nello sloveno come in altre lingue slave, è compensato dalla categoria dell'aspetto del verbo, perfettivo o imperfettivo) – e lemmi invariabili quali avverbi, congiunzioni, preposizioni, ecc.

Fin qui tutto bene. Se non fosse per il duale. Eh già, avete capito bene. Il DUALE, questa arcaica categoria numerale, reminiscenza di chissà quale “forma mentis” dei nostri antenati nomadi. Lo sloveno è una delle pochissime lingue vive ad aver mantenuto il duale. Con la conseguenza che il povero e stremato studente di sloveno, prima di pronunciare, alla fine di una faticosissima lezione, la fatidica frase "andiamo a bere qualcosa" deve riflettere bene: al pub ci voglio andare solo con il mio compagno di banco o con tutta la classe? Nel primo caso dovrò dire “Gremo na pijaĉo”, (noi due andiamo a bere qualcosa) nel secondo “Greva na pijaĉo” (andiamo a bere qualcosa) . E quando il nostro studente si troverà a pagare le birre, dovrà stare attento a quel che dirà al cameriere: “plaĉam pivi” se intende pagare solo le due birre che si è bevuto, “plaĉam piva” se intende pagare la bevuta a tutta la classe, e pazienza se il compagno di banco inglese se ne è scolate sette.

Ma come si spiega la persistenza di forme arcaiche come il duale in una lingua codificata in epoca relativamente recente (non fu infatti prima del 1880 che usci la prima grammatica dello sloveno compilata con criteri scientifici, la Grammatik der slawischen Sprache in Krain, Kärnten und der Steiermark di Jernej Kopitar)? Facciamo un passo indietro. Senza stare troppo a rivangare dati storici – la dominazione franca in Carinzia e soprattutto i 640 anni di dominazione absburgica, con conseguente strapotere della lingua tedesca e riduzione dello sloveno a volgare usato dai contadini – possiamo dire che il sentimento nazionale sloveno è da sempre orgogliosamente aggrappato all’identità ed alla purezza della lingua.

Infatti, durante la resistenza contro la germanizzazione operata dagli austriaci, la piccola borghesia di Lubiana e degli altri centri urbani minori si identificò paradossalmente nell’arcaicità originaria di un

culturalia

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Nei cenni introduttivi all’ormai datata ma ancora insostituibile Grammatica della lingua slovena del goriziano Anton Kacin (non esistono infatti più recenti grammatiche dello sloveno dedicate agli studenti italiani) si legge: “Lo sloveno è una delle lingue slave meridionali le quali costituiscono il terzo dei gruppi in cui le lingue slave, sviluppatesi tutte da un unico ceppo – il paleoslavo -, vengono suddivise.” Sviluppatosi come estrema propaggine occidentale del paleoslavo, lo sloveno fu la prima lingua slava ad adottare l’alfabeto latino, come testimoniano alcuni manoscritti del X e XI secolo conservati a Freising, in Baviera.

Oltre che nel territorio della Repubblica slovena, di cui è la lingua ufficiale, oggi lo sloveno è parlato in alcune fasce territoriali dei paesi limitrofi (Austria, Italia, Ungheria). Da un punto di vista semantico lo sloveno è una lingua slava. Tuttavia l’influsso del tedesco, dell’italiano e dell’ungherese, nel corso dei secoli, ha dato allo sloveno alcune delle caratteristiche semantiche che lo differenziano da altre lingue slave.

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volgare rimasto legato alle forme elementari dell'e-conomia contadina, conservandone, insieme ad altri elementi, il duale. In mancanza di istituzioni militari o statali in cui fosse consentito l'uso dello sloveno, la lingua si diffuse grazie all'opera del clero e degli intellettuali: il primo libro sloveno, il Catechismus, fu stampato nel 1551 da Primoz Trubar, il padre del protestantesimo sloveno, cui non a caso oggi è dedicata una delle feste nazionali della giovane Repubblica di Slovenia. La scelta linguistica di Trubar, caduta sulla parlata della propria regione natia, la Carniola inferiore, è rimasta fino ad oggi alla base della lingua letteraria, anche perché malgrado il fatto che Trubar fosse protestante, dopo la Controriforma lo sloveno da lui adottato rimase la lingua del catechismo cattolico.

Tre secoli dopo Jernej Kopitar, con la menzionata Grammatik der slawischen Sprache in Krain, Kärnten und der Steiermark, si fece propugnatore di un purismo sintattico e stilistico che fino ad oggi contrassegna lo sloveno, lingua più che mai letteraria, perché codificata da intellettuali cittadini,

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ma allo stesso tempo scevra da canoni artificiali, perché basata sulla lingua veramente parlata dal popolo e arricchita da apporti di diversa provenienza regionale (è incredibile la varietà dei dialetti e delle pronunce riscontrabile in questo piccolo territorio che si estende tra Carso e Pannonia, tra Alpi e Balcani). Così la lingua slovena ha compiuto in un certo senso lo stesso percorso delle rustiche salsicce della Kraijna, o dei robusti vini del Carso, che approdando sulle raffinate tavole di Lubiana sembrano perdere tutta la loro pesantezza rurale conservando però sapore e genuinità.

E mentre sul piano gastronomico questa genuinità è senz’altro gradevole, sul piano linguistico uno dei suoi contrassegni, ahimè (qui è lo studente che parla), è proprio la sopravvivenza del duale anche nella lingua parlata.

Quando poi nel secolo scorso venne a compimento l’unità degli slavi del sud, prima nell’ambito del Regno dei serbi e dei croati, poi nella Repubblica federativa socialista di Jugoslavia, per differenziarsi dalle due nazionalità dominanti, oltretutto unite da una lingua comune (il serbocroato), ancora una volta l’identità slovena si aggrappò tenacemente alla propria lingua, e con essa alla letteratura; identità nazionale che alla soglia degli anni '90, con il crollo del socialismo, rivenne alla luce come un torrente carsico, non senza cadere in esagerazioni anche ridicole (la parola d’ordine di quegli anni fu quella di una “nazione che si risveglia dopo un sonno millenario”) e perdonabili solo perché passeggiando per il centro di Lubiana, dove vi sono più gallerie d’arte che supermercati e più pub che banche, si comprende che “nazione”, per la maggior parte degli sloveni, significa soprattutto la libertà di praticare la propria cultura cosmopolita senza subire imposizioni esterne. Il povero studente costretto a studiarsi tutte le forme del duale si consola quindi volentieri ordinando ad esempio delle ottime "klobase" (salsicce) tenendo però ben presente che se non vuole appesantirsi troppo in vista della lezione pomeridiana, dovrà ordinare due “klobasi”. E buon appetito. Anzi dober tek !

Raphael Gallus

Divagazioni grammatico-storico-gastronomiche sulle peculiarità della lingua slovena

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Page 12: interalia28 - European Commissionec.europa.eu/translation/italian/magazine/documents/issue28_it.pdf · 6000 pagine). A cimentarsi per primo con la traduzione, nel 1818, fu F.A. van

NESKONČNOST

Vedno ljub mi bil je ta samotni grič,

in ta živa meja, ki široko mojemu

pogledu skrajno obzorje krije.

A ko sedim in gledam v širjave

neskončne onkraj nje, neslutene

tišine in najgloblji mir

se rišejo mi v mislih, da skoraj

mi srce zastane. In ko veter

slišim šelesteti med vejami, ono

neskončno tihost s šepetom tem

primerjam ( in zbudi se večnost,

in minula leta, in sedanjost,

živa, in njen glas). Tako v tej

neizmernosti se utapljajo mi misli,

in mi lepo toniti je v tem morju.

Traduzione dell’Infinito di Leopardi in lingua slovena:

(Traduzione a cura di Neža Čebron Lipovec, Barbara Milharčič, Kaja Petre, Ajda Purger, Erika Šavron, Tjaša Nabergoj, Anja Šinigoj, Ana Zavratnik, Scuola di traduzione di Isola d’Istria, 2003)

culturalia

Giacomo Leopardi

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