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  • 7/30/2019 Integrazione Chiara Giaccardi

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    Il coraggio dell'Integrazione con altre culture

    Chiara Giaccardi - Universit Cattolica di Milano

    Premessa

    Il fatto che le culture siano in movimento rappresenta da sempre una costante del modo umano di

    abitare il mondo: nessuna civilt pensabile a prescindere da una storia di contatti e compenetrazioni tra

    popoli diversi, dato che le migrazioni sono un fenomeno che accade da millenni. Come ha scritto

    Kapuscinsky:

    "Se diciamo che il mondo diventato multietnico e multiculturale non perch le societ e le culture

    siano pi numerose di una volta, ma perch parlano con voce sempre pi autonoma e determinata,

    chiedendo di essere riconosciute e ammesse alla tavola rotonda delle nazioni" [Kapuscinsky, L'altro, Milano,

    Feltrinelli, 2007, p. 75]

    Questo perch

    "Siamo passati da una societ di massa (basata sui confini nazionali) a una planetaria (il villaggio

    globale), grazie allo sviluppo dei media, e in particolare alla convergenza mediale; al sistema delle

    comunicazioni che ha facilitato gli spostamenti, anche a basso costo; ai codici astratti, come il mercato, che

    agiscono a livello sovranazionale e translocale, creando forme di delocalizzazione della produzione e

    generando ulteriori occasioni di mobilit" [ivi, 73].

    La differenza, rispetto al passato, dunque che oggi la mobilit, e quindi la mescolanza hannoassunto proporzioni planetarie: laccelerazione e lespansione dei flussi migratori fanno s che un'ineditavariet di gruppi, lingue, culture, usanze conviva sugli stessi territori. Occorre allora decidere se ignorare il

    fenomeno, vivendo in una sorta di "contiguit disconnessa", pronta in realt a esplodere alla prima

    difficolt, o avere il coraggio di tentare nuovi modi di condividere il mondo, anche accettando il rischio diqualche fallimento, molta fatica ed esiti incerti, ma anche tanta ricchezza inaspettata.

    Per farlo occorre una mossa iniziale solo apparentemente secondaria: definire adeguatamente la

    situazione. Dato che le parole non sono etichette su cose che esistono indipendentemente da loro, ma

    finestre che, a seconda della loro ampiezza, fanno entrare pi o meno luce sulla realt che vogliamo

    comprendere e illuminare; e, inoltre, sono anche progetti di azione, a partire da quanto abbiamo

    compreso, da come abbiamo definito la situazione.

    Una cornice interpretativa distorta ci preclude una serie di scelte; compresa, magari, quella "giusta".

    1) Scegliere le parole

    La presenza di culture, linguaggi e popoli "altri" sui nostri territori descritta con una serie di termini che si

    assomigliano, ma che in realt sono solo apparentemente sinonimi: multietnicit, multiculturalismo,

    intercultura, solo per fare qualche esempio.

    Il primo forse quello meno problematico, poich prevalentemente descrittivo: basta guardarsi intorno per

    vedere che le nostre citt, i nostri quartieri, le nostre scuole, gli uffici, gli ospedali e cos via sono popolati di

    persone che hanno la pelle di colori diversi, che parlano altre lingue, che vestono in modi differenti. "Etnia"

    un termine oggi pi "politicamente corretto" di razza, perch non si appoggia solo su fattori biologici, ma

    include il legame con un territorio, una lingua, una cultura. Anche qui i problemi non mancano: in molti casi

    l'etnia rischia di diventare un'etichetta che pu nascondere e giustificare comportamenti che hanno in

    realt cause ben diverse rispetto a quelle dichiarate (pensiamo alle "guerre etniche"), e l'uso ideologico e

    strumentale del termine sempre in agguato. Tutto sommato, per, nei nostri contesti quotidiani,multietnicit sinonimo di variet.

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    Diverso invece il discorso sul multiculturalismo, un termine che oscilla tra un significato descrittivo (e in

    questo caso, allora, preferibile multietnico) e uno "prescrittivo", cio in grado di rappresentare un

    modello di convivenza tra culture diverse. E in questo senso profondamente carente e inadeguato ad

    affrontare la complessit del presente, come mostrano anche le recenti dichiarazioni di importanti capi di

    stato europei, dalla Merkel a Cameron. Ma vediamo meglio.

    Nel senso descrittivo, multiculturalismo indica la compresenza di molteplici e differenti culture in uno

    stesso ambiente, che pu andare dal quartiere cittadino allintero pianeta. Una vicinanza fisica, che pernon comporta una interazione, e che anzi suggerisce implicitamente una separazione: a ciascuno consentito di praticare (preferibilmente in privato) la propria cultura e la propria religione, purch questo

    non abbia ripercussioni sullo spazio pubblico, soprattutto in termini di sicurezza.

    Non un caso che la"cornice" prevalente, nei media e nell'opinione pubblica, dentro la quale viene

    affrontato il termine della convivenza con persone provenienti da culture "altre" sia proprio quella della

    sicurezza: che, etimologicamente (dal latino sine cura) significa "non doversi preoccupare". Ma, anche,

    "non doversi occupare".

    La pluralit contigua e ingovernata non si armonizza naturalmente, non produce un piacevole "mosaico

    delle culture"; piuttosto, ragionevole pensare che le diversit, poste fianco a fianco, confliggano, o nel

    migliore dei casi si ignorino. Il rischio, dunque, che luso di questo termine sottintenda o uningenuit

    politico-culturale, o una incapacit o disinteresse per la risoluzione di un problema che invece si pone, echiede di essere affrontato in modo consapevole, creativo e coraggioso.

    Se non viene usato con una valenza pi descrittiva, multiculturalismo assume una valenza piprogrammatica e politica. un termine che mette laccento sulla diversit culturale, dunque su ci chedivide, piuttosto che sul dialogo e lo scambio tra culture. Rischia perci, alla fine, di essere unetichetta chedenota una indifferenza alla differenza, il riconoscimento di una molteplicit senza un interesse a

    conoscere il diverso; una tolleranza che accetta la diversit, senza conoscerla, solo a patto che rispetti le

    regole e non crei scompiglio: con il rischio di passare da un multiculturalismo di giustapposizione a un

    multiculturalismo di segregazione.

    In questo senso preferibile usare il termine interculturale, dato che il multi- non implica di per s

    relazione, e pu fare da sfondo teorico a progetti di ghettizzazione culturale, indifferenza culturale o

    relativismo culturale spinto, che teorizza limpossibilit del dialogo. Come scriveva lo ps icologo GiuseppeMantovani gi qualche anno fa

    sia letnocentrismo che il relativismo sono risposte inadeguate alle sfide del mondo in cui viviamo [...]Esse producono quel multiculturalismo a mosaico che sta rendendo problematico il termine stesso di

    multicultura, nel cui nome vengono erette barriere tra comunit diverse, vengono violati i diritti

    delle persone, viene promossa una visione dellappartenenza che mortifica liniziativa delle persone[Mantovani, G. Intercultura, Bologna, Il Mulino, 2004, 8].

    Il modello del mosaico, non pu essere applicato alle culture. Esse, infatti, a differenza delle tessere

    che compongono il mosaico, non hanno contorni netti (la contaminazione culturale, il prestito, l'ibridazione

    sono regola e non eccezione, e sono parte fondamentale della vitalit stessa delle culture: come accade per

    gli esseri umani, le culture che non si mescolano non sopravvivono) n il colore e la consistenza interna

    sono omogenei, dato che le differenze intraculturali sono tante quante quelle tra le culture. L'ideale del

    multiculturalismo a mosaico quello di una generica tolleranza, che nel caso migliore indifferenza alla

    differenza (il contrario del riconoscimento), e in quello peggiore segregazione culturale, pronta a scivolare

    nel razzismo al primo pretesto [Giaccardi, C. La comunicazione interculturale, Bologna, Il Mulino, 2012].

    Il valore programmatico di questo modello pare oggi estremamente indebolito, come mostrano le prese

    di posizione del governo tedesco e di quello britannico su questo tema Dopo la bomba nella metropolitana

    di Londra, nel luglio del 2005, ad opera di giovani Musulmani, nati, educati e cresciuti nel Regno Unito, la

    Gran Bretagna, da sempre pioniera del multiculturalismo, ha cambiato atteggiamento. Lo stesso ha fatto

    Angela Merkel al congresso dei giovani del suo partito a Potsdam nellottobre 2010. Secondo la Merkel,lapproccio Multikulti, del viviamo felicemente fianco a fianco, fallito, completamente fallito. Purriconoscendo che la Germania ha bisogno dei lavoratori immigrati, la cancelliera tedesca ha dichiarato la

    necessit, per loro, di integrarsi adottando la cultura e i valori tedeschi, esprimendo insieme lesigenza che

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    limmigrazione non pesi sul tessuto sociale.Un concetto di integrazione, quindi, che somiglia molto al modello dellassimilazione, ovvero della

    cancellazione delle differenze.

    Su posizioni analoghe David Cameron, che a distanza di poco ha dichiarato il fallimento del

    multiculturalismo di Stato britannico, con le seguenti parole: sotto la dottrina del multiculturalismo distato abbiamo incoraggiato culture differenti a vivere vite separate, staccate luna dallaltra e da quella

    principale. Non siamo riusciti a fornire una visione della societ alla quale sentissero di voler appartenere.Tutto questo permette che alcuni giovani musulmani si sentano sradicati.Ma se lanalisi pu essere condivisibile, la ricetta molto meno convincente: la proposta di Cameron

    stata infatti quella di abbandonare la tolleranza passiva per un liberalismo vigoroso, muscolare. In checosa il liberalismo muscoloso sarebbe diverso dal fondamentalismo? Dato che, come scrive Habermas, "levisioni del mondo fondamentaliste sono dogmatiche nel senso che sono incapaci di riflettere sul rapporto

    che le collega alle altre visioni del mondo. Non capiscono cio di dover condividere con esse lo stesso

    universo di discorso (). I fondamentalisti non ammettono nessuno spazio di reasonal disagreement"[Habermas, J.Taylor, C.Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 92-93].

    Una alternativa pacifica, che emerge soprattutto nei paesi con una storia pi recente di immigrazione

    come lItalia, sembra essere quella di una sorta di armonia risultante dal modus vivendi. Se vero chealcune pratiche ormai largamente diffuse (come il consumo di cibo etnico) hanno fatto pensare a una sortadi multiculturalismo quotidiano [Colombo, E., Multiculturalismo quotidiano. Le pratiche della differenza,Milano, Angeli, 2007] per altrettanto vero che lintegrazione spontanea, prodotta principalmente dalconsumo, intanto non cancella le diseguaglianze in termini di risorse, e poi rischia di scivolare, alla fine, in

    una visione ingenua, che non sa riconoscere, e quindi non si attrezza per risolvere, le questioni

    problematiche e il potenziale di conflittualit che la differenza inevitabilmente genera.

    In altre parole, rischia di promuovere un multiculturalismo banale che non affronta in termini adeguati ilproblema del riconoscimento e quello delle condizioni di convivenza entro una comunit di destino.Come auspica Habermas, occorre invece un atteggiamento riflessivo che non dovrebbe limitarsi alsemplice modus vivendi [Habermas-Taylor 1998, 93].

    Un atteggiamento, appunto, coraggioso.Quale quello autenticamente interculturale: che non d per scontata la convivenza e ne coglie invece il

    carattere problematico, ma nello stesso tempo cerca di costruire ponti, creare occasioni di conoscenza e di

    dialogo, dissodare il terreno delle somiglianze anzich approfondire il fossato delle differenze. Che non

    vede l'altro principalmente come una minaccia, ma come un'opportunit, un'occasione per capire meglio

    chi siamo (come accade, peraltro, in ogni relazione interpersonale e in ogni autentica comunicazione) e per

    costruire con altri, dal momento che non ne siamo i proprietari, le condizioni di una convivenza pacifica in

    un mondo che ormai, ci piaccia o no, plurale.

    Vale la pena, allora, prendere in mano i processi anzich far finta di non vederli o rassegnarsi alle banalit,

    agli stereotipi, alle letture strumentare e ideologiche che inibiscono il nostro senso di responsabilit.

    Deostruire gli stereotipi (dire che tutti i clandestini sono criminali come dire che tutte le bionde sono

    stupide), rifiutare le semplificazioni e le riduzioni (l'altro non mai un semplice rappresentante di unacultura, ma prima di tutto una persona unica e irripetibile, con sogni, aspirazioni, diritti e doveri), avere il

    coraggio di ammettere che la questione delle differenze molto pi complicata di come la vogliamo

    raccontare.

    2) Affinit interculturali e divergenze intraculturali: oltre Ie semplificazioni

    Si d sempre per scontato che l'altro sia qualcuno di esterno (mentre per esempio la psicanalisi, con la

    teoria dell'inconscio, ha mostrato che in un certo senso e in qualche modo noi siamo sempre "stranieri a

    noi stessi") e che venga da lontano: niente di pi falso, se pensiamo alla difficolt di comunicazione tra le

    generazioni (come, per esempio, nel dibattito odierno sulla distanza comunicativa tra "immigrati" e "nativi

    digitali": genitori e figli parlano a volte due lingue diverse, che non riescono a comunicare), ma anche tra i

    generi: maschi e femmine, soprattutto in certe fasi della vita, parlano veramente lingue diverse, che

    esprimono sensibilit e modi di vedere il mondo che spesso faticano a trovare un punto di mediazione. Si

    pu dire, estremizzando, che l'altro semplicemente chiunque sia fuori di me: il non-io.

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    Certo, ci sono altri pi lontani, con cui pi difficile intendersi. Ma la lingua, il paese di provenienza, la

    religione non sono gli unici elementi che generano distanza. Un aspetto cruciale, che pu avvicinare o

    allontanare, quello dell'esperienza.

    E la prova che, per esempio, ormai le seconde e terze generazioni di immigrati, anche grazie alla loro

    riuscita integrazione linguistica, sviluppano una serie di sintonie con il "gruppo dei pari" ( i coetanei, i

    compagni di scuola, gli amici del quartiere) che tende a generare piuttosto difficolt intraculturali nelle

    rispettive famiglie: spesso le madri non parlano la lingua del paese ospitante e sono dipendenti dai figli peruna serie di aspetti. Ma, pi profondamente, la padronanza della lingua da parte delle nuove generazioni

    implica anche un ingresso molto pi significativo nella cultura (che alla lingua profondamente legata), e la

    condivisione di tempo e attivit coi coetanei fa emergere le somiglianze legate alla fase della vita e alle

    esperienze, e accentua le differenze coi genitori che continuano a riferirsi alla cultura di provenienza,

    magari sognando un ritorno.

    Questo salto che si crea pu essere fonte di grandi difficolt all'interno delle famiglie di immigrati, difficolt

    che hanno in alcuni casi degli esiti drammatici, ma che pi in generale creano fatiche e problemi

    nellesercizio della genitorialit e nei processi di trasmissione culturale.Nei casi di integrazione riuscita, invece, proprio attraverso i figli (oltre che attraverso il lavoro) che i

    genitori spesso riescono a percorrere il difficile cammino di un'integrazione che non sia semplicemente

    rinuncia alla propria identit, e che non debba passare dall'isolamento per preservare vive le proprie

    tradizioni: un cammino, appunto, di intercultura.

    3) Intercultura quotidiana e Intercultura pratica: dalle teorie alle prassi locali

    Va rivista dunque innanzitutto lidea di "differenza", che molti pi complessa, articolata, distribuita sudiversi livelli di quanto normalmente si creda.

    Poi occorre rivedere anche il concetto di "tolleranza". Non funziona, la storia recente lo dimostra, una

    tolleranza passiva, che diventa malsopportazione della differenza, vissuta come estraneit.Va invece recuperato il senso etimologico di tolleranza, dove la radice indogermanica tal- (portare) si

    ritrova in molti idiomi, con un significato decisamente attivo: sollevare, prendere su di s, farsi carico.

    Il coraggioso e generoso contrario, insomma, di quel "sine cura" cui le retoriche della sicurezza si

    ispirano.

    Da un lato quindi, vi certamente, la necessit della pazienza, di un orizzonte temporale dilatato oltreil presente da cui guardare le criticit non come assolute, ma in prospettiva, e le distanze come riducibili,e forse superabili.

    Ma, dallaltro, certamente una responsabilit, una capacit di azione guidata da un pensiero capace diincorporare la differenza e riconoscerla come costitutiva di s ("je est un autre", "io un altro" scriveva

    Rimbaud) anzich esteriorizzarla. Un operare insieme (prassi) che sia figlio di un diverso sguardo (teoria),

    come auspicava Hannah Arendt nella sua idea di vita attiva.

    Come pu esserlo, per esempio, un cammino educativo condiviso; o unesperienza intensa di reciprocitquale quella che si genera nei campi scout. Fare con cura le cose insieme, impegnarsi e aiutarsi in vista di un

    obiettivo comune, per la riuscita del quale il contributo di tutti fondamentale, molto pi utile e capace

    di creare ponti tra le differenze che tanti discorsi, per quanto giusti, sulluguaglianza.In questa prospettiva la comunicazione interculturale, intesa come dialogo culturale complesso, ma

    anche come sforzo attivo per la costruzione di sfere e luoghi di riconoscimento dove elaborare risposte

    comuni alle sfide del presente, molto pi di una tecnica per affrontare situazioni conflittuali e

    incomprensioni contingenti, o della fiducia ingenua, quando non ideologica, nelle capacit armonizzanti di

    una mera vicinanza spaziale, ma diventa un obiettivo e insieme una cornice per leggere la

    contemporaneit, orientarsi al suo interno, definire una direzione di azione.

    Per realizzare l'auspicio di Kapuscinski:

    "Riusciremo insieme a trovare ci che parla alla nostra capacit di provare meraviglia e ammirazione, al

    senso del mistero che circonda la nostra vita, al nostro senso della piet, del bello e del dolore, alla segreta

    comunione con il mondo intero e, infine, alla sottile ma insopprimibile certezza della solidariet che unisce

    la solitudine di infiniti cuori umani, allidentit di sogni, gioie, dolori, aspirazioni, illusioni, speranze e paureche lega luomo alluomo e accomuna lintera umanit: i morti ai vivi e i vivi agli ancora non nati" [op. cit, p.77]