INNOVAZIONE E SVILUPPO Competitività, l’Italia in maglia nerauna chimera. Per il resto,...

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IL GIORNALE DELL’INFORMATION & COMMUNICATION TECHNOLOGY DAL 10 AL 24 OTTOBRE PAG.7 INNOVAZIONE E SVILUPPO Focus Competitività, l’Italia in maglia nera Paolo Anastasio Il rapporto annuale del World Economic Forum sulla performance economica di 117 paesi ci vede fermi al 47° posto penalizzati da deficit di credibilità all’estero e gap tecnologico L’economia italiana non si muove, anzi continua ad arrancare. Questo l’impietoso giudizio espresso dal rapporto annuale del World Economic Forum (Wef) sullo stato di salute di 117 paesi mondiali, che vede la nostra economia ferma al 47° posto nella spe- ciale classifica che fotografa il grado di competitività. A peggiorare l’immagine dell’Italia, secondo quanto emerge dal “Global Competitiveness Report 2005 – 2006” - con il contributo di Sda Bocconi - ha contribuito il clima di opa- cità e favoritismo percepito all’estero circa le relazioni fra settore pubblico e mondo imprenditoriale. Un centinaio gli imprenditori italiani intervistati. Il 47° posto dell’Italia è lo stesso occupato un anno fa. Ma nessuno gioisce, soprattutto se si confronta la classifica con il 26° po- sto che occupavamo nel 2001. ITALIA PENULTIMA NELL’UE ll ranking dello studio del Wef parla chiaro. L’Italia è penultima nella classi- fica che mette in fila i paesi dell’Ue, alle spalle della Grecia e prima del fanalino di coda, la Polonia, cinquantunesima, magla nera nella classifica tarata sui paesi membri dell’Unione. A preoccupare maggiormente, al di là della fiacchezza mostrata sul piano eco- nomico, il clima di diffusa sfiducia nei confronti del nostro paese. Una sfiducia percepita non soltanto all’interno, da parte degli imprenditori nostrani - gran parte del report dell’istituto ginevrino sulla competitività è basato su giudizi personali di imprenditori che giudicano la situazione del loro paese - ma soprat- tutto all’estero. Un deficiti di credibilità che mina l’immagine dell’Italia al di là dei suoi problemi reali. A penalizzare maggiormente la magra performance italiana, l’insuccesso nel migliorare la condizione delle finanze pubbliche, l’in- vecchiamento della popolazione della penisola, a fronte di una scarsa propen- sione di Governo e imprese ad investire in ricerca e sviluppo. LA SFIDUCIA Il clima di sfiducia è confermato dai commenti di molti imprenditori di punta della nostra comunità economica (da Paolo Vagnone, amministratore dele- gato di Ras a Carlo Pesenti, numero uno di Italcementi, passando per Marco Drago, presidente della De Agostini per finire con Rodolfo De Benedetti, presidente di Cir) che dalle colonne del Financial Times hanno lanciato un allar- me credibilità sul nostro sistema paese. Gli scandali che negli ultimi tempi hanno investito l’economia italiana, sbattuti in prima pagina dalla stampa estera - dal Financial Times all’Economist, come sottolineato dal rapporto del Wef – stan- no minando alla base la fiducia nei con- fronti del nostro paese. La tempesta che ha investito il settore bancario e il gover- natore di Bankitalia, Antonio Fazio, le dimissioni del ministro dell’Economia Domenico Siniscalco a pochi giorni dal varo della nuova finanziaria, il processo all’ex patron di Parmalat Calisto Tanzi sono fatti che ci danneggiano. IL GAP TECNOLOGICO Fra i maggiori problemi dell’Italia c’è il ruolo ancora marginale dell’It. Una carenza che pesa sull’economia. “La penetrazione di internet è buona – spiega Ferdinando Pennarola, direttore del corso di laurea in sistemi informativi dell’Università Bocconi - Il 74% delle aziende italiane ha un indirizzo di posta. L’80% delle Pmi dispone di un account. Il problema è come vengono usate le tec- nologie e i comportamenti di chi lavora con il web. L’unica applicazione utiliz- zata veramente è la posta elettronica”. La diffusione di intranet e extranet è ancora una chimera. Per il resto, sottolinea Pen- narola, le aziende italiane, anche quelle più grandi, usano con il contagocce solu- zioni It più complesse. Le cose si fanno ancora con la raccomandata e la ricevuta di ritorno, la burocrazia appesantisce i processi. Basti pensare che secondo il professore della Bocconi soltanto il 3% - 4% delle aziende dispone di un sistema integrato di acquisti via internet. Il valore complessivo del mercato Ict in Italia era di 61 miliardi di euro nel 2004. Il 32% derivante dal segmento It, a fronte del 68% proveniente dalle Tlc. A livello globale la torta è spartita diversamente: a fronte di un mercato complessivo del- l’Ict di 2.443 miliardi di dollari, il 39% della spesa va in risorse It e il 61% in Tlc. L’Italia resta il paese dei telefonini. Modello A fare la parte del leone la Finlandia che da tre anni mostra la miglior performance Immagine La sfiducia verso l’Italia deriva dai ripetuti scandali che finiscono sulle prime pagine dei giornali ����������������������������������� L’Italia è il fanalino di coda in Europa per la spesa complessiva riseva- ta alle risorse Ict. A fare peggio di noi c’è soltanto la Spagna. E’ questo il primato negativo del nostro paese, che investe in Ict una quota pari al 5,3% del Pil. Meno degli altri, anche se la media europea del 6,3% del Pil non è poi di molto superio- re. Il gap maggiore sta nella ripartizione degli investimenti, che in Italia privile- gia la spesa in telefonini all’acquisto di nuove risorse informatiche. “Analizzando il modo in cui si espan- de la quota di investimenti in Ict, pari al 5,3% del Pil, dedicata al settore aggre- gato It più telecomunicazioni – spiega Piero Galli, partner della società di analisi Bain & Co si vede che il nostro paese riserva il 3,5% al segmento telecomunicazioni e soltanto l’1,8% alle risorse It. In Europa la media è più equi- librata. Il 3,1% della quota d’investi- menti è riservata alle Tlc, mentre il 3,2% va a finanziare l’acquisto di pacchetti informatici”. Se la spesa nel segmento teleco- municazioni (soprattutto telefonini e networking) è in linea con la media eu- ropea, l’Italia risulta carente sul fronte del rinnovamento tecnologico. Secondo gli indicatori del World Eco- nomic Forum (Wef), la penetrazione italiana della banda larga (cavo più Ad- sl) raggiunge il 7% delle persone, poco al di sotto della media europea del 9%. C’è da dire che in paesi più avanzati, come la Danimarca, la penetrazione del broadband raggiunge ormai il18% della popolazione. Non sarà facile invertire la tendenza, che vede l’Italia perdere colpi sul fronte economico ormai da tempo. Dal 1998 l’evoluzione del Pil italiano è la più bassa in Europa insieme all’andamento regressivo della Germania. Altri indica- tori fotografano la situazione del paese, mettendo nero su bianco le ragioni della nostra scarsa competitività a livello mondiale. L’indice di competitività (penultimo in Europa) e l’indice di produttività, strettamente correlato agli investimenti It sono negativi. L’Italia è il paese euro- peo che attrae meno investimenti esteri in It e quello che crea meno brevetti. Fra i punti deboli del nostro paese, secondo il rapporto sulla competitività del Wef, ci sono poi l’inefficienza della burocrazia governativa, la difficoltà ad accedere a nuovi finanziamenti e regole complesse sul fronte della normativa che regola- menta il lavoro. Secondo Bain & Co, per stimolare gli investimenti, soprattutto dall’estero, è necessaria una strategia in tre punti. In primo luogo, investire in ricerca e sviluppo. Poi, trattenere in casa nostra i talenti, tentando di stimolare l’arrivo di ricercatori esteri. Infine, investire in infrastrutture. Sfruttare meglio le risorse che, per quanto limitate, sono mal uti- lizzate. Basti pensare alle campagne per la vendita di pc a basso costo realizzate in Brasile, dove per diffondere l’uso del personal computer il governo ha stretto un accordo con un grande produttore. O magari imitando modelli economici che funzionano, come in Irlanda – maggior produttore europeo di pc - dove i tassi sulle rendite economiche di aziende estere sono fra i più bassi d’Europa. La ricetta per uscire dal tunnel do- vrebbe coinvolgere i distretti industriali, risorsa tipica del tessuto connettivo della penisola. “Una grossa risorsa, tipica del nostro paese, sono i distretti industriali – con- clude Galli – È un asset importante, che potrebbe servire da modello per molte aziende e multinazionali straniere del- l’It, che intendono sviluppare strategie esportabili di sviluppo del mid-market (medie aziende e Pmi). Studiare i nostri distretti e investire qui li aiuterebbe a creare modelli validi anche altrove”. P.A. Il fanalino di coda dell’Europa per investimenti Galli (Bain): La spesa in It e Tlc è pari al 5,3% del Pil ma privilegia i telefonini allʼinformatica Ricerca Il nostro paese crea il minor numero di nuovi brevetti

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IL GIORNALE DELL’INFORMATION & COMMUNICATION TECHNOLOGYDAL 10 AL 24 OTTOBREPAG.7

I N N O V A Z I O N E E S V I L U P P OFocus

Competitività, l’Italia in maglia nera

Paolo Anastasio

Il rapporto annuale del World Economic Forum sulla performance economica di 117 paesi ci vede fermi al 47° posto penalizzati da deficit di credibilità all’estero e gap tecnologico

L’economia italiana non si muove, anzi continua ad arrancare. Questo l’impietoso giudizio espresso dal rapporto annuale del World Economic Forum (Wef) sullo stato di salute di 117 paesi mondiali, che vede la nostra economia ferma al 47° posto nella spe-ciale classifica che fotografa il grado di competitività. A peggiorare l’immagine dell’Italia, secondo quanto emerge dal “Global Competitiveness Report 2005 – 2006” - con il contributo di Sda Bocconi - ha contribuito il clima di opa-cità e favoritismo percepito all’estero circa le relazioni fra settore pubblico e mondo imprenditoriale. Un centinaio gli imprenditori italiani intervistati. Il 47° posto dell’Italia è lo stesso occupato un anno fa. Ma nessuno gioisce, soprattutto se si confronta la classifica con il 26° po-sto che occupavamo nel 2001.

ITALIA PENULTIMA NELL’UEll ranking dello studio del Wef parla

chiaro. L’Italia è penultima nella classi-fica che mette in fila i paesi dell’Ue, alle spalle della Grecia e prima del fanalino di coda, la Polonia, cinquantunesima, magla nera nella classifica tarata sui paesi membri dell’Unione.

A preoccupare maggiormente, al di là della fiacchezza mostrata sul piano eco-nomico, il clima di diffusa sfiducia nei confronti del nostro paese. Una sfiducia percepita non soltanto all’interno, da parte degli imprenditori nostrani - gran parte del report dell’istituto ginevrino sulla competitività è basato su giudizi personali di imprenditori che giudicano la situazione del loro paese - ma soprat-tutto all’estero. Un deficiti di credibilità che mina l’immagine dell’Italia al di là dei suoi problemi reali. A penalizzare maggiormente la magra performance italiana, l’insuccesso nel migliorare la condizione delle finanze pubbliche, l’in-vecchiamento della popolazione della penisola, a fronte di una scarsa propen-sione di Governo e imprese ad investire in ricerca e sviluppo.

LA SFIDUCIA Il clima di sfiducia è confermato dai

commenti di molti imprenditori di punta della nostra comunità economica (da Paolo Vagnone, amministratore dele-

gato di Ras a Carlo Pesenti, numero uno di Italcementi, passando per Marco Drago, presidente della De Agostini per finire con Rodolfo De Benedetti, presidente di Cir) che dalle colonne del Financial Times hanno lanciato un allar-me credibilità sul nostro sistema paese. Gli scandali che negli ultimi tempi hanno investito l’economia italiana, sbattuti in prima pagina dalla stampa estera - dal Financial Times all’Economist, come sottolineato dal rapporto del Wef – stan-no minando alla base la fiducia nei con-fronti del nostro paese. La tempesta che ha investito il settore bancario e il gover-natore di Bankitalia, Antonio Fazio, le dimissioni del ministro dell’Economia Domenico Siniscalco a pochi giorni dal varo della nuova finanziaria, il processo all’ex patron di Parmalat Calisto Tanzi sono fatti che ci danneggiano.

IL GAP TECNOLOGICO

Fra i maggiori problemi dell’Italia c’è il ruolo ancora marginale dell’It. Una carenza che pesa sull’economia. “La penetrazione di internet è buona – spiega Ferdinando Pennarola, direttore del corso di laurea in sistemi informativi dell’Università Bocconi - Il 74% delle aziende italiane ha un indirizzo di posta. L’80% delle Pmi dispone di un account. Il problema è come vengono usate le tec-

nologie e i comportamenti di chi lavora con il web. L’unica applicazione utiliz-zata veramente è la posta elettronica”. La diffusione di intranet e extranet è ancora una chimera. Per il resto, sottolinea Pen-narola, le aziende italiane, anche quelle più grandi, usano con il contagocce solu-zioni It più complesse. Le cose si fanno ancora con la raccomandata e la ricevuta di ritorno, la burocrazia appesantisce i processi. Basti pensare che secondo il professore della Bocconi soltanto il 3% - 4% delle aziende dispone di un sistema integrato di acquisti via internet. Il valore complessivo del mercato Ict in Italia era di 61 miliardi di euro nel 2004. Il 32% derivante dal segmento It, a fronte del 68% proveniente dalle Tlc. A livello globale la torta è spartita diversamente: a fronte di un mercato complessivo del-l’Ict di 2.443 miliardi di dollari, il 39% della spesa va in risorse It e il 61% in Tlc. L’Italia resta il paese dei telefonini.

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ImmagineLa sfiducia verso l’Italia deriva dai ripetuti scandali che finiscono sulle prime pagine dei giornali

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L’Italia è il fanalino di coda in Europa per la spesa complessiva riseva-ta alle risorse Ict. A fare peggio di noi c’è soltanto la Spagna. E’ questo il primato negativo del nostro paese, che investe in Ict una quota pari al 5,3% del Pil. Meno degli altri, anche se la media europea del 6,3% del Pil non è poi di molto superio-re. Il gap maggiore sta nella ripartizione degli investimenti, che in Italia privile-gia la spesa in telefonini all’acquisto di nuove risorse informatiche.

“Analizzando il modo in cui si espan-de la quota di investimenti in Ict, pari al 5,3% del Pil, dedicata al settore aggre-gato It più telecomunicazioni – spiega Piero Galli, partner della società di analisi Bain & Co – si vede che il nostro paese riserva il 3,5% al segmento telecomunicazioni e soltanto l’1,8% alle risorse It. In Europa la media è più equi-librata. Il 3,1% della quota d’investi-menti è riservata alle Tlc, mentre il 3,2% va a finanziare l’acquisto di pacchetti informatici”.

Se la spesa nel segmento teleco-

municazioni (soprattutto telefonini e networking) è in linea con la media eu-ropea, l’Italia risulta carente sul fronte del rinnovamento tecnologico.

Secondo gli indicatori del World Eco-nomic Forum (Wef), la penetrazione italiana della banda larga (cavo più Ad-sl) raggiunge il 7% delle persone, poco al di sotto della media europea del 9%. C’è da dire che in paesi più avanzati, come la Danimarca, la penetrazione del broadband raggiunge ormai il18% della popolazione.

Non sarà facile invertire la tendenza, che vede l’Italia perdere colpi sul fronte economico ormai da tempo. Dal 1998 l’evoluzione del Pil italiano è la più bassa in Europa insieme all’andamento regressivo della Germania. Altri indica-tori fotografano la situazione del paese, mettendo nero su bianco le ragioni della nostra scarsa competitività a livello mondiale.

L’indice di competitività (penultimo in Europa) e l’indice di produttività, strettamente correlato agli investimenti

It sono negativi. L’Italia è il paese euro-peo che attrae meno investimenti esteri in It e quello che crea meno brevetti. Fra i punti deboli del nostro paese, secondo il rapporto sulla competitività del Wef, ci sono poi l’inefficienza della burocrazia governativa, la difficoltà ad accedere a nuovi finanziamenti e regole complesse sul fronte della normativa che regola-menta il lavoro.

Secondo Bain & Co, per stimolare gli investimenti, soprattutto dall’estero, è necessaria una strategia in tre punti. In primo luogo, investire in ricerca e sviluppo. Poi, trattenere in casa nostra i talenti, tentando di stimolare l’arrivo di ricercatori esteri. Infine, investire in infrastrutture. Sfruttare meglio le risorse

che, per quanto limitate, sono mal uti-lizzate. Basti pensare alle campagne per la vendita di pc a basso costo realizzate in Brasile, dove per diffondere l’uso del personal computer il governo ha stretto un accordo con un grande produttore. O magari imitando modelli economici che funzionano, come in Irlanda – maggior produttore europeo di pc - dove i tassi sulle rendite economiche di aziende estere sono fra i più bassi d’Europa.

La ricetta per uscire dal tunnel do-vrebbe coinvolgere i distretti industriali, risorsa tipica del tessuto connettivo della penisola.

“Una grossa risorsa, tipica del nostro paese, sono i distretti industriali – con-clude Galli – È un asset importante, che potrebbe servire da modello per molte aziende e multinazionali straniere del-l’It, che intendono sviluppare strategie esportabili di sviluppo del mid-market (medie aziende e Pmi). Studiare i nostri distretti e investire qui li aiuterebbe a creare modelli validi anche altrove”.

P.A.

Il fanalino di coda dell’Europa per investimentiGalli (Bain): La spesa in It e Tlc è pari al 5,3% del Pil ma privilegia i telefonini allʼinformatica

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