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LAUREA DI LIVELLO IN INFERMIERISTICA A.A. 2014/0715 Dott.ssa D.A.I. Sr. Graziella Zecca Infermieristica Generale e Clinica INFERMIERISTICA GENERALE E TEORIE DEL NURSING

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LAUREA DI LIVELLO IN INFERMIERISTICA

A.A. 2014/0715 Dott.ssa D.A.I. Sr. Graziella Zecca

Infermieristica Generale e Clinica

INFERMIERISTICA GENERALE E TEORIE DEL NURSING

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INFERMIERISTICA GENERALE E CLINICA

INTRODUZIONE

26 FEBBRAIO 1999: con la legge 42 il Parlamento ha finalmente sancito la definitiva

abrogazione del mansionario. Il significato dell'avvenimento è evidente: l'esercizio della

professione ha smesso per sempre di essere scandito da un rigido, obsoleto, e giustamente

aborrito elenco di compiti vecchio di ben un quarto di secolo.

Ogni adeguamento dello statuto normativo della nostra professione alle mutate esigenze

assistenziali ha richiesto lunghi anni di maturazione: in un primo momento è stata istituita la

figura dell'infermiere (1925), poi è stato emanato il primo mansionario(1940) definito una

"protezione" nei confronti dell'abuso professionale e dell'affidamento agli infermieri di compiti

eccessivamente complessi. Infine, nel 1974, è stato pubblicato il testo del DPR 225 che

regolamentava sino a pochissimi mesi fa l'esercizio professionale degli infermieri sulla base di un

elenco di attribuzioni sicuramente adeguato all'epoca in cui fu redatto, ma che alle soglie del

Duemila appare del tutto superato nella pratica clinica e nei principi ispiratori.

Tecnicamente ogni tentativo di regolamentare una professione sanitaria attraverso un elenco delle

sue prestazioni è destinato al fallimento poiché nessun aggiornamento (sempre che ci sia) sarà

mai in grado di tenere il passo con il ritmo e l'articolazione dei progressi scientifici, tecnologici e

culturali.

Per la professione infermieristica, chiusa una parentesi durata 25 anni, si profila dunque la

meritata occasione di entrare nel terzo millennio senza paralizzanti zavorre.

Il campo proprio di attività e responsabilità dell'operato dell'infermiere sarà infatti definito - così

recita la legge emanata dal Parlamento - dai contenuti del Decreto Ministeriale istitutivo del

profilo professionale e dagli ordinamenti didattici del corso di diploma universitario e di

formazione post base nonché dal codice deontologico. Sono fatte salve, precisa la legge "...le

competenze previste per le professioni mediche e per le altre professioni del ruolo sanitario per

l'accesso alle quali è richiesto il possesso del diploma di laurea, nel rispetto reciproco delle

specifiche competenze professionali ".

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Una precisazione necessaria, certo, ma che almeno per quel che riguarda gli infermieri è

decisamente superflua, dal momento che essi non hanno mai ambito a invadere spazi

professionali altrui, ma, semmai a vedersi ufficialmente riconosciuti i propri.

Finalmente, dopo anni di pressioni, alla Federazione, organismo di rappresentanza degli oltre 320

mila infermieri italiani è stato riconosciuto il ruolo di principale interlocutore istituzionale sulle

questioni che riguardano la professione. Questo risultato è stato possibile grazie al contributo di

molti fattori : la coesione dimostrata dal gruppo professionale, la partecipazione attiva dei Collegi

in tutto il territorio nazionale, il prezioso contributo delle associazioni infermieristiche. E' stata

sostenuta una battaglia per la dignità professionale a volte con la sensazione da parte degli

infermieri di essere soli e vincendo le ironie di chi considerava la categoria come troppo

sognatrice e poco pragmatica.

L'abrogazione del DPR 225/74 da parte del Parlamento è un punto di partenza per la

professione: è un impegno per ciascun infermiere il far divenire la professione infermieristica

ancora più "PROFESSIONALE" attraverso un lavoro quotidiano competente, responsabile,

orientato al paziente e reso con coscienza e secondo scienza. Questo gli infermieri lo facevano già

ieri ma da domani bisognerà farlo di più e meglio visto e considerato che dopo anni di lotta viene

riconosciuta per la prima volta alla categoria autonomia e responsabilità.

L'infermiere d'ora in poi si assumerà in prima persona la responsabilità degli atti che compie con

lo scopo di evitare disagi ai pazienti e uno spreco di risorse; e per l'assistenza infermieristica si

apre a tutti gli effetti la stagione del pieno riconoscimento della sua dignità di professione

"ADULTA" e pienamente responsabile delle proprie scelte e dei propri atti.

La sanità del terzo millennio dunque avrà al suo centro la persona, non sarà più organizzata

piramidalmente bensì orizzontalmente con il coinvolgimento pieno di tutte le risorse

professionali ; la tutela della salute sarà il principio primo organizzato attraverso una chiara e

trasparente attribuzione delle responsabilità e fondato sulla competenza e sulla capacità.

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CAPITOLO PRIMO

1. STORIA DELL’ASSISTENZA INFERMIERISTICA DA FINE OTTOCENTO

SINO AL PRIMO DOPOGUERRA

L'evoluzione storica dell'assistenza infermieristica è strettamente collegata allo sviluppo sociale e

culturale e, soprattutto a partire dal secolo scorso, allo sviluppo della scienza e della pratica

medica. L'Italia di fine ottocento è una nazione abbastanza povera che ha da poco raggiunto

l'unità e nella quale il processo di industrializzazione è agli inizi; il livello di istruzione della

popolazione è basso: nel 1906 ad esempio quasi il 50% dei bambini non si iscrive neanche alla

scuola elementare.

L'assistenza infermieristica negli ospedali è scadente nonostante l'arte dell'assistere e del curare gli

infermi ha sempre fatto parte della cultura e della saggezza dei popoli. La professione

infermieristica e l'erogazione dell'assistenza erano praticamente assenti dall'interesse specifico

dello Stato di allora che lasciava l'organizzazione e la gestione del personale alle singole

amministrazioni ospedaliere interessandosi del controllo reddituale e patrimoniale delle opere pie

piuttosto che dell'effettiva qualità e finalità dell'assistenza.

I medici auspicano alla creazione di una nuova figura professionale che tolga loro parte di quel

lavoro principalmente tecnico, come la somministrazione della terapia, le medicazioni ecc., che li

tiene impegnati in ospedale gran parte della giornata: questo obbliga gli infermieri ad

abbandonare ogni possibilità di richiesta per migliorare le proprie condizioni lavorative a causa

della scadente qualità dell'assistenza e della cattiva immagine conseguente a questa situazione.

Con l'inizio del secolo si incominciano ad avere delle profonde modificazioni in ambito

ospedaliero: il nosocomio abbandona la sua classica fisionomia settecentesca la cui funzione

principale era di tipo contenitivo e coercitivo e nella quale l'utenza veniva suddivisa

principalmente in base alle condizioni economiche piuttosto che per patologia.

L'ospedale veniva visto più come un luogo di assistenza alla pari con qualsiasi ospizio gestito da

religiosi piuttosto che come un luogo di cura e riabilitazione e lo si legava comunque ad uno

status sociale povero. La popolazione infatti preferiva ricorrere a figure alternative ( in particolare

femminili ) che offrivano loro pareri e consigli di cura principalmente basati su riti magici e

pratiche religiose.

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Fino ad inizio secolo il personale ospedaliero era impreparato e mal pagato, i pochi corsi esistenti

erano nettamente inadeguati ai bisogni di allora, il titolo di studio richiesto era la quarta

elementare e le suore ospedaliere (all'epoca in numero superiore rispetto al personale laico) si

dedicavano più all'assistenza religiosa piuttosto che a quella sanitaria.

Bisogna sottolineare inoltre che l'assistenza di allora era affidata quasi esclusivamente a personale

femminile gran parte del quale analfabeta e di estrazione sociale umile con nessun tipo di

preparazione se non un brevissimo tirocinio di tre mesi svolto nel servizio di lavanderia.

Vorrei citare un breve passo per far capire l'inefficienza e l'ignoranza in cui navigava l'assistenza

infermieristica di allora: "La donna addetta al suo servizio e chiamata servente era sudicia e sciatta nella

persona e nel vestire e ignorante di ogni più elementare regola scientifica riguardo al servizio degli ammalati.

Inorridii a ciò che ebbi a vedere e a sentire durante le mie visite all'amica mia, tanto che iniziai una piccola

inchiesta per conto mio intorno ai metodi in uso per il servizio degli ospedali, e così venni a sapere che in Italia non

c'era una scuola per infermieri nel senso come si intende da noi in Inghilterra, in Germania e in America e che per

conseguenza la cura e l'assistenza degli ammalati viene affidata alle monache necessariamente ignoranti in materia

scientifica e a donne sul genere di quella che aveva veduta io, vale a dire, ineducate, ignoranti e provenienti da un

gradino della scala sociale ancora più basso da quello da cui provengono le donne di servizio."(1)

Si capisce subito che uno degli obiettivi era quello di elevare sia moralmente che culturalmente il

ruolo della donna in ospedale.

Sicuramente le motivazioni della scelta della donna nell'assistenza infermieristica rispetto all'uomo

sono ben evidenti: costano molto meno rispetto ad un uomo non avendo il carico della famiglia,

sono ritenute più idonee a garantire ubbidienza tecnica ed organizzativa, qualità che alla classe

medica di allora, e non solo, piacevano molto.

Al Congresso dell'associazione dei Medici Ospedalieri del 1913 si afferma:

"...le donne possiedono maggior dolcezza, attività, pazienza, attenzione e disciplina, tanto che non si può pensare

ad un servizio ben fatto se non disimpegnato da donne."

"...la donna, per qualità naturali è nota per esercitare la vita dell'infermiera."

I primi anni del secolo sono anche quelli in cui si ha di nuovo un fiorire di congregazioni

femminili (numerose erano già sorte nel secolo scorso) le quali avevano nella parola "carità" il

minimo comune multiplo.

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Le finalità principali erano : " educazione delle bambine e delle ragazze, cura dei poveri e dei malati a

domicilio e negli ospedali, assistenza agli orfani ed ai sordomuti, e, man mano che si avanza nel secolo, istruzione

professionale, scuole di lavoro, scuole serali, colonie agricole; assistenza a prostitute, carcerate; cucine economiche,

convitti per operaie ecc."(2)

Una delle organizzazioni femminili più famose in Italia all'epoca è l'Unione femminile di Anna

Celli la quale svolge un'opera di assistenza e si impegna nella ricerca di nuove professionalità

laiche da contrapporre alle vecchie forme caritative.

Nel 1908 Anna Celli afferma: " Nessun'altra professione femminile richiede tanta abnegazione , tanti

sacrifizi, tanta rinnegazione dalla propria personalità come quella di infermiera; e d'altra parte non gode ancora

fra di noi la simpatia e la stima che si portano a tanti altri rami dell'attività femminile. Eppure nessun'altra

professione è così adatta per il carattere e l'indole della donna come questa in cui essa può esercitare ogni giorno,

ogni ora, ogni minuto delle qualità che sono il forte del nostro sesso, cioè la pazienza, la pietà, la carità."(3)

La Celli incomincia quel processo di elevazione morale ed culturale della donna in ospedale

contro lo stato di abbandono del mondo femminile all'interno dei nosocomi.

Un altro problema di cui la Celli si occupa è quello della presenza di personale religioso all'interno

dei nosocomi che occupava i posti direttivi e di sorveglianza .

La qualità della disciplina e della moralità delle suore era indiscutibilmente superiore a quella del

personale laico però l'assistenza diretta al malato era abbastanza scadente anche a causa dei

numerosi divieti a svolgere alcune mansioni poste dal loro stato monacale.

Afferma la Celli: "prima che sotto la disciplina del medico esse si credono sotto quella del loro ordine religioso...in

molti casi fanno il servizio più con l' idea di guadagnarsi un buon posto in cielo, non credono sia necessario

imparare la professione e considerano questa una funzione religiosa."(4)

Bisogna inoltre sottolineare la convenienza economica del personale religioso: le amministrazioni

ospedaliere pagavano la comunità di appartenenza della suora ed era poi la comunità che si

occupava del mantenimento di quest'ultima. Si andava delineando sempre più una netta

distinzione tra personale laico e quello religioso.

Le suore comunque mantenevano all'interno degli ospedali il potere economico e gestionale dei

servizi quotidiani in qualità di ispettrici, sorveglianti o capo-sala, custodivano il guardaroba, la

lavanderia, la cucina, la farmacia e tutti i servizi economali.

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Il personale religioso continuava e continuerà a lungo a rimanere all'interno delle istituzioni non

solo per un fattore finanziario ma anche per altre qualità ritenute indispensabili soprattutto dalla

classe medica che vedeva nel volontariato e nella sottomissione i cardini principali sui quali basare

la professione infermieristica; inoltre si sottolineava sempre la moralità e la disciplina. Si legge in

una nota di Baccarini: "Si presume che la suora, la quale si è dedicata volontariamente ad una vita di sacrificio

e di lavoro, abbia qualità molto migliori di quelle di un'infermiera che ha scelto questa professione per campare la

vita..." "...le religiose curano l'economia dell'azienda evitando ogni sciupo e mantenendo in buono stato il materiale

ospedaliero...e sono pronte a richieste di maggior lavoro."(5)

Veniva sottolineato inoltre il loro spirito di servizio che si univa alla sicurezza che esse offrivano

all'ospedale nell'escludere rivendicazioni salariali o un miglioramento delle condizioni lavorative,

questioni che all'interno del personale laico incominciavano a nascere. Come conseguenza di

questa complessa situazione si aveva l'esclusione totale del personale laico dai posti direttivi e di

responsabilità nonché l'esclusione di ogni minima possibilità di carriera.

Questi furono alcuni dei motivi che fecero sì che tante giovani abbandonarono il loro lavoro in

ospedale scegliendo come opzione la famiglia e la crescita dei figli che altrimenti non avrebbero

mai potuto avere.

Si prospettava dunque l'idea di ricercare nuovo personale infermieristico altrove, ad esempio

rivolgendosi a classi sociali di maggior levatura intellettuale, di maggior raffinatezza di origine o di

studio che consentissero di resistere alle dure condizioni di lavoro e di ambiente morale. Le

ragazze della piccola e media borghesia però difficilmente si sarebbero potute adattare alle

condizioni allora vigenti sia di alloggio, sia di paga che di riposo. In Gran Bretagna ad esempio già

60-65 anni prima la professione infermieristica era maggiormente " tenuta in onore " e lo status

sociale dell'infermiera era nettamente superiore a quello italiano e tutto lo si deve grazie al lavoro

di Florence Nightingale la quale lasciò un'impronta indelebile nella storia sanitaria non solo della

Gran Bretagna ma di tutto il mondo.

La Nightingale proveniva da una famiglia agiata senza alcun tipo di problema economico, con un

tenore di vita elevato e con numerose conoscenze nel mondo politico e culturale internazionale di

allora. La Nightingale conosceva il greco, il latino, il francese, l'italiano, la storia, la filosofia, la

musica, il disegno e la matematica e fu questa sua cultura insieme al suo status sociale che la

indirizzarono a migliorare le condizioni delle infermiere in ospedale: la Nightingale voleva

formare infermiere delle quali ci si potesse fidare e le quali fossero provviste di nozioni necessarie

alla professione. Solo in questa maniera l'opinione pubblica avrebbe cambiato idea sulla figura

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dell'infermiere e si sarebbero poste le basi per migliorare le condizioni di quest'ultimo e fu così

che molti anni dopo anche in Italia, grazie agli insegnamenti delle nurses inglesi, si incominciò a

reclutare ragazze della piccola borghesia, di " famiglie di onesti e laboriosi operai" e " ragazze di

buona famiglia".

La Celli aveva perfettamente in mente il modello proposto dalla Nightingale: dalla qualità del

vitto e dell'alloggio alla necessità della presenza di " direttrici laiche che le sorveglino, le guidino e si

prendano cura di loro".(6) Le condizioni quindi per cambiare e migliorare le condizioni del personale

infermieristico le possiamo riassumere:

1) Separazione completa del personale laico da quello religioso facendo dei reparti speciali.

Separazione del lavoro da infermiere da quello di facchina;

2) Indipendenza completa del personale laico da quello religioso. Abolizione dei sorveglianti

uomini, e invece direttrici e capo-sala laiche, lasciando il personale religioso in cucina, guardaroba

ecc.;

3) Abitazione e vitto nell'ospedale, stato nubile o vedovanza delle infermiere;

4) Riposo giornaliero, settimanale ed annuale senza diminuzione di stipendio;

5) Iscrizione alla Cassa pensione per gli infortuni, per la invalidità e vecchiaia; mercede in caso di

malattia;

6) Scuola preparatoria tecnico-pratica anche per le allieve esterne della durata di almeno sei mesi.

Obbligo di avere fatto almeno la quinta elementare e certificato di buona condotta.

1.1 LA NASCITA DELLE PRIME SCUOLE INFERMIERI IN ITALIA

All'inizio del ventesimo secolo ci sono ancora pochissimi ospedali che avevano istituito una

scuola di preparazione professionale per infermieri i quali il più delle volte venivano chiamati a

svolgere il proprio lavoro senza nessun tipo di formazione e privi delle nozioni cliniche più

elementari.

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Ci sono i medici che temono il rallentamento della modernizzazione clinica degli ospedali già in

ritardo rispetto ad altri paesi europei; ci sono le leghe sindacali degli infermieri che vedono

impedita ogni possibilità di richiesta e di riscatto delle proprie condizioni lavorative a causa dello

scadente prodotto lavorativo. Ci sono infine i movimenti femminili che vedono nell'assistenza

infermieristica un'occasione professionale particolarmente adatta per le "signorine" della

borghesia.

Secondo un rendiconto del Ministero dell'interno, nel 1902 solamente venticinque ospedali su

milletrecentoquattro in tutto il Regno avevano istituito una scuola per infermieri. Le

amministrazioni nella maggior parte delle realtà ospedaliere preferivano non istituire le scuole che

non erano giudicate utili e che oltretutto costituivano una consistente voce passiva nel bilancio.

Sono numerosi gli appelli ad aumentare le pochissime scuole professionali esistenti, per avere un

maggior numero di infermieri istruiti, possibilmente laici e di sesso femminile, indispensabili per il

buon funzionamento della nuova macchina produttiva ospedaliera.

La scuola è ritenuta ormai necessaria perché si va affermando l'idea che forse l'infermiere non è la

stessa cosa come darsi ad un mestiere qualunque ma richiede abilità ed attitudini particolari che

possono essere sviluppate soltanto con la formazione di " una vera personalità di professionista".

Si incomincia a parlare di un infermiere con una specifica professionalità e non più di un volgare

automa solo adatto a cambiare traverse sudice, a vuotar vasi o a sfacchinare e si ritiene quindi

necessaria una seria organizzazione della scuola, con un metodo didattico che superi l'empirismo

che ha sino a questi anni caratterizzato l'impostazione dei pochi corsi di formazione avviati negli

ospedali per evitare situazioni come quelle rilevate da un medico torinese che scrive: " gli sforzi

convergenti degli infermieri e dei sanitari hanno ottenuto, dopo lunghi anni di lotta, la scuola. Ma quale embrione

di scuola! Senza testi, senza programmi ben definiti, con apparenza di titoli abilitanti, con larve di esami!".(7)

Nel tentativo di migliorare l'istruzione di base così deficitaria negli infermieri, si organizzano delle

scuole serali di istruzione primaria dove si vuole insegnare anche "una discreta cultura generale, per

confortare moralmente i poveri ammalati, le loro famiglie ed intendere la delicatezza della professione in maniera

tale da essere ubbidiente alla necessità della scienza, senza ferire i sentimenti del malato".(8)

Un modello di scuola più apprezzato in quel periodo è quello delle scuole anglosassoni secondo

l'impostazione della Nightingale dove "si diviene nurse attraverso studi biennali, triennali per i quali esiste

tutta una letteratura, opuscoli, manuali, trattati, periodici, studi (...) Lunghi e (...) Ardui".(9)

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Si auspica così alla figura di un infermiere che sappia tecnicamente intervenire nell'ambito della

prevenzione e della cura delle infezioni, ambito tra i più importanti per la buona riuscita

terapeutica, in particolare degli aumentati interventi chirurgici. Un infermiere che sappia poi

praticare correttamente altre tecniche che, un tempo appannaggio della professione medica, ma

ora ampiamente sperimentate e diventate routine, possono dai medici essere delegate ad altri

operatori con una minore preparazione .

Gli altri paesi europei sono tutti più all' avanguardia, basti pensare che in Italia esisteva un solo

manuale per gli infermieri scritto in lingua italiana mentre di manuali infermieristici ne esistono

invece 13 in Francia, 25 in Germania e ben 140 in Inghilterra. E cosa ancora più importante i

manuali inglesi esprimono una specifica competenza professionale che non è solo quella acquisita

dalla delega medica poiché in essi si trovano descritte attività autonome infermieristiche quali : " il

differente modo di fare il letto secondo le malattie, il letto per i fratturati, per i laparatomizzati; il modo di trattare

l'ammalato perché non si raffreddi durante il cambio delle lenzuola".(10)

Col Ministero Luzzati viene per la prima volta presentato nel 1910 un disegno di legge la cui

seconda parte riguarda le scuole per infermieri. Il progetto di legge prevede che : "in ogni provincia

del Regno (...) Verranno tenuti corsi speciali di scuola per infermieri (...), agli iscritti ai detti corsi, che avranno

superato le prove finali di esame, sarà rilasciato il corrispondente diploma di abilitazione (...), a principiare dal

primo gennaio 1913 (...) Le istituzioni pubbliche di beneficenza non potranno assumere in servizio in qualità di

(...) Infermieri se non persone munite del diploma".(11)

Questo disegno di legge, approvato al Senato e presentato alla camera dei Deputati nel febbraio

1911, con la caduta del ministero Luzzati e il ritorno al governo di Giolitti, subisce delle

lungaggini e non viene approvato definitivamente.

Anche gli infermieri stessi premono affinché vengano istituite delle scuole teorico-pratiche in

ogni provincia affinché ci sia un minimo di omogeneità a livello nazionale la quale dovrebbe

essere garantita anche da un programma di studi di cui vengano già definiti i contenuti generali,

da esami finali di idoneità sostenuti innanzi ad una Commissione presieduta da un delegato

governativo e dall'obbligatorietà per gli ospedali di impiegare soltanto " infermieri ed infermiere muniti

di certificato di idoneità rilasciato dalle scuole e valido in tutte le province italiane".(12)

La durata della scuola è prevista di due anni con lezioni teorico-pratiche su modello inglese a

dimostrare come questo modello sia di riferimento per tutti coloro che si stanno interessando alla

riforma assistenziale.

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Un'altro punto importante è ai posti di capo-sala " il corso di scuola superiore tra il decimo dei riusciti e

classificati primi per poter concorrere",(13) posti questi da riservare esclusivamente ai laici. Si nota

subito il duplice obiettivo di questa proposta: per primo formare un gruppo dirigenziale capace su

basi meritocratiche e non più clientelari e per secondo estromettere pian piano il personale

religioso continuando a seguire il progetto di laicizzazione degli ospedali di cui ho parlato prima.

La formazione infermieristica di base e l'istituzione delle relative scuole professionali vennero

regolate appena nel 1925 con il RDL 15 agosto n° 1832. Questo decreto rappresenta la prima

norma che fissa con un' unica direttiva valida su tutto il territorio nazionale i criteri istitutivi e

gestionali delle scuole convitto per infermiere, sancendo così il riconoscimento della professione

da parte dello Stato. Il decreto rappresenta il tentativo di porre rimedio, con una direttiva centrale

ed univoca, alla estrema frammentarietà e disomogeneità della informazione infermieristica del

tempo; con esso vennero gettate le basi sulle quali impostare la riforma dell'apparato assistenziale

italiano.

Il decreto vide la luce in piena epoca fascista: il clima politico e l'impianto ideologico imposti dal

regime su ogni aspetto della società italiana di quegli anni influenzarono anche le scelte compiute

in materia sanitaria e ne stabilirono gli orientamenti.

All'indomani dell'unità e fino al primo conflitto mondiale i governi liberali avevano cercato di

attuare una politica di laicizzazione della società nel suo complesso e della materia sanitaria in

particolare. Questa tendenza ad attuare un più severo controllo statale sul delicato settore

dell'assistenza e della beneficenza, fortemente osteggiata dalla Chiesa, aveva trovato il suo apice

nella legge Crispi 1890 sul riordino delle opere pie. Dopo il primo conflitto mondiale questa

situazione si fece critica e generò una serie di contraddizioni e di difficoltà a tutto il sistema

ospedaliero italiano, il quale fu costretto a vivere ed a svilupparsi "nell'ambito angusto di quella vera e

propria camicia di forza che fu, sempre di più con il passare del tempo, la legislazione crispina sulle opere pie".(14)

La progressiva entrata dei cattolici nella politica attiva riuscì inoltre a congelare gli effetti

innovativi che pure la legge aveva avuto e, soprattutto riuscì a mantenere in piedi il meccanismo

amministrativo e finanziario su cui si basavano le opere pie: la carità privata. Il sistema caritativo

rimase una delle principali fonti di reddito degli ospedali. Durante il ventennio fascista, anzi, le

scelte legislative che si andarono compiendo si rivolsero decisamente alla ricomposizione della

storica frattura tra Stato e Chiesa e ci si indirizzò verso più stretti rapporti tra regime e Santa

Sede.

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Con l'avvento del fascismo cioè si assisti ad un vero e proprio arretramento rispetto alla linea

adottata dai giovani liberali, con l'inversione di quel processo storici di laicizzazione della

beneficenza culminato con la legge del 1890; l'aspetto privato e caritativo della beneficenza stessa

conobbe anzi una nuova rilevanza ed esaltazione.

Soprattutto durante il conflitto la situazione finanziaria e patrimoniale delle aziende ospedaliere

era diventata critica ed a far precipitare le cose concorsero numerosi fattori:

1) l'eccezionale aumento dei ricoveri (conseguenza della guerra ma anche delle nuove aspettative

terapeutiche offerte dagli ospedali).

2) l'aumento dei costi e dell'inflazione, che aveva fatto lievitare di quattro, cinque volte le rette

ospedaliere di degenza.

3) il calo delle rendite dei beni fruttiferi di proprietà degli istituti .

4) la crisi finanziaria che aveva investito gli enti locali.

Questa situazione di instabilità finanziaria ebbe molti effetti: prima di tutto le amministrazioni

operano la scelta di aprire le cosiddette " camere a pagamento " per una clientela abbiente, poi

adottano diverse misure di restrizione delle spese tra cui la drastica riduzione dei ricoveri, il

raggruppamento di numerosi reparti, la soppressione di numerosi servizi, l'aumento delle ore

lavorative per il personale, numerosi licenziamenti ed infine la sostituzione del lavoro maschile,

più costoso, con quello femminile.

L'ideologia antifemminista del regime che riservava alle donne unicamente attività marginali e

sotto retribuite, si espresse anche nella scelta di rendere di esclusiva competenza femminile

l'attività assistenziale in una logica di rigida divisione dei ruoli. In questo clima culturale di

soppressione di ogni forma di democrazia, caratterizzato da un'ideologia demagogicamente

conservatrice ed antiliberale, venne varato il RDL del 1925 il quale finì, ovviamente, per assorbire

e riprodurre i valori politico-sociali del regime al potere.

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IL RD 15 AGOSTO 1925 N. 1832

Il decreto si compone di 15 articoli che fissano le disposizioni per l'istituzione e l'amministrazione

delle scuole professionali per infermiere. La possibilità di istituire le scuole veniva accordata alle

facoltà medico-chirurgiche, ai comuni, alle istituzioni pubbliche di assistenza, ad enti morali.

Il decreto, che obbligò le scuole ad affiancarsi ad un ospedale pubblico o privato, dava piena

autonomia gestionale all'ente promotore nei confronti dell'ospedale di riferimento con la facoltà

anche di nominare il consiglio di amministrazione della scuola stessa. La grossa novità di questa

legge fu l'istituzione di Scuole di specializzazione di medicina, pubblica igiene ed assistenza

sociale per assistenti sanitarie visitatrici. Con l'istituzione di scuole per assistenti sanitarie, a cui si

poteva accedere dopo il conseguimento del diploma di infermiera professionale, lo Stato fece la

scelta di una diversificazione e specializzazione professionale che maggiormente rispondeva alle

esigenze sanitarie. Quelle scuole rilasciavano un diploma che costituiva titolo di preferenza per

l'assunzione in servizio presso le istituzione di carattere medico sociale e le opere di igiene e di

profilassi urbana e rurale sotto la direzione e la responsabilità del personale medico.

Particolare importanza riveste l'art. 4 del RDL nel quale si prevede l'istituzione di una

Commissione permanente che avrebbe dovuto occuparsi di assistenza infermieristica ed in

particolare avrebbe dovuto esprimere pareri sul funzionamento e l'organizzazione delle scuole

professionali . La Commissione doveva essere composta dal Direttore generale di sanità pubblica,

da tre illustri sanitari e da una rappresentanza infermieristica, i quali dovevano costituire un trait-

d'union tra le direzioni delle scuole e gli organi dello Stato.

IL RD 21 NOVEMBRE 1929 N. 2330

Il regio decreto del 1925 fu reso esecutivo con l'emanazione del RD 21 novembre 1929 n. 2330

con il quale venivano specificate con maggior precisione le disposizioni e le norme pratiche per

l'istituzione e l'organizzazione delle scuole-convitto, disposizioni che erano già contenute nella

normativa precedente ma che venivano ora sviluppate ed integrate.

Il decreto è suddiviso in otto titoli.

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Ad ogni scuola viene riconosciuta la possibilità di mantenere un proprio regolamento, stilato in

base agli statuti di fondazione dell'istituto di appartenenza della scuola stessa, riservandosi il

governo unicamente la possibilità di revisione e di correzione dei medesimi.

Con il regolamento del '29 la posizione della direttrice viene sostanzialmente ridimensionata. Con

l'art. 12 si introduce la figura del Direttore didattico, medico, che poteva essere eletto dal

consiglio di amministrazione della scuola con l'incarico di sorvegliarne l'andamento generale e dal

quale la direttrice, un'infermiera che avesse conseguito il certificato di " abilitazione alle funzioni

direttive ", dipendeva gerarchicamente per quanto riguarda l'insegnamento impartito alle allieve.

Comunque, con il RD del '29 si vengono a delineare due diverse figure direttive all'interno della

scuola professionale: da un lato il direttore medico e dall'altro la direttrice non medica alla quale

venivano delegate unicamente funzioni di controllo e di vigilanza. Alla direttrice spettavano infatti

la distribuzione dei compiti delle allieve , la determinazione dei turni e degli orari di tirocinio, la

sorveglianza sulla disciplina, sull'ordine , sulla pulizia e sulla educazione morale delle allieve; essa

era inoltre responsabile della buona conservazione delle suppellettili e della biancheria della

scuola. In realtà la direttrice veniva a trovarsi a svolgere funzioni di " padrona della casa

convitto", responsabile del buon funzionamento quotidiano della scuola, ma non le veniva più

riconosciuta quella autonomia dirigenziale ed organizzativa implicita nella normativa precedente e

che aveva forse rappresentato l'elemento di maggiore rilevanza della riforma assistenziale inglese.

L'introduzione della figura del direttore didattico si tradusse quindi in un ridimensionamento del

ruolo della direttrice e nella sua subordinazione ad un rappresentante della categoria medica,

fissando con una norma precisa il carattere di ausiliarietà e di dipendenza attribuito alla

professione infermieristica nei confronti di quella medica.

Con il RD del '29 venne resa obbligatoria la struttura a convitto delle scuole nelle quali le allieve

dovevano alloggiare in internato per tutta la durata del corso di studi (l'obbligatorietà all'internato

verrà abolita appena nel 1971); venne prevista anche la possibilità di equiparare alle allieve del

convitto le altre allieve che frequentavano la scuola senza l'obbligo dell'internato. Nell'art. 39 del

decreto venne fatta una concessione prevista per il personale femminile religioso, cioè che per

coloro che per regola del loro istituto non potevano praticare l'assistenza agli uomini, veniva

rilasciato un diploma professionale specificante tale limitazione.

Si stabilivano inoltre le disposizioni per l'organizzazione delle lezioni e del tirocinio pratico delle

allieve, le norme disciplinari, le punizioni ed i programmi di insegnamento.

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Con questo decreto si concede il diploma di stato alle infermiere laiche o religiose che avevano

effettuato un tirocinio ospedaliero di almeno quattro anni; per il certificato di abilitazione a

funzioni direttive occorreva un tirocinio di almeno sei anni.

Una ulteriore concessione riguardava le infermiere volontarie della Croce Rossa che avevano

prestato servizio durante la guerra negli ospedali militari, e per le quali veniva dimezzata la durata

minima di tirocinio professionale richiesto per il rilascio del diploma di stato.

Già con la legge 23 giugno 1927 n. 1264 sulla "disciplina delle arti ausiliarie delle professioni

sanitarie" nella quale si stabiliva l'obbligo di possedere una licenza di infermiere per poter

esercitare la professione, si riconobbe l'idoneità al servizio per quanti avessero lavorato come

infermieri per almeno due anni.

Queste disposizioni rappresentarono una vera e propria sanatoria per il personale infermieristico

compromettendo, di fatto, l'attuazione di una riforma reale positiva, così come era stata concepita

dieci anni prima.

Questa scelta finì per legalizzare la posizione di tutto quel personale di assistenza che svolgeva le

mansioni di infermiere spesso senza alcun titolo ma vantando solamente l'esperienza acquisita sul

campo; all'interno degli ospedali italiani lavoravano dunque infermieri spesso impreparati e con

una formazione professionale estremamente disomogenea.

Le scelte compiute si tradussero in una pesante ipoteca che gravò in modo duraturo sulle effettive

possibilità di sviluppo e miglioramento della professione infermieristica.

Tornando alle disposizioni per l'esercizio delle arti ausiliarie delle professioni sanitarie ausiliarie, in

questo periodo viene creato un nuovo operatore: con il RD del 22 maggio 1940 n. 1310 si crea la

figura dell'infermiere generico, un operatore di livello inferiore rispetto a quello professionale il

quale lavora sotto la responsabilità dell'infermiere professionale.

Con le riforme attuate nei primi quaranta anni del ventesimo secolo si ottennero numerosi ed

importanti risultati per la professione: sicuramente si attuò una reale svolta nell'organizzazione

assistenziale ospedaliera creando le condizioni necessarie alla nascita di una figura professionale

nuova e colta.

L'infermiera italiana era ancora però concepita come ausiliaria del medico e della medicina

scientifica, alla quale unicamente era affidata la tutela della salute. L'assistenza era ancora

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considerata in secondo piano e le era soprattutto negato il potere di curare; essa rimaneva

solamente un'arte empirica e domestica e per queste ragioni non poteva legittimare una sfera di

autonomia professionale: l'infermiera doveva solamente eseguire i compiti che il medico le

ordinava; ella doveva solamente "fare" intendendo con questo termine una mera esecuzione

manuale di una prescrizione medica, giudicata l'unico momento intellettuale della prestazione

sanitaria.

Questa matrice vocazionale ed ausiliaria conferita all'assistenza ha definito le basi di partenza per

la costruzione della professione pesando fortemente sul processo di crescita e di autonomia

personale e professionale dell'infermiere.

CAPITOLO SECONDO

2. RAPPRESENTANZA E RAPPRESENTATIVITÀ DAL '46 AD OGGI

2.1 PROBLEMATICHE SOCIALI E SANITARIE ALL'INDOMANI DELLA SECONDA

GUERRA

Dopo la seconda guerra mondiale, la Resistenza e la caduta del regime fascista, agli inizi del 1948

entra in vigore la Costituzione repubblicana, la quale insieme alla Dichiarazione dei diritti

dell'uomo, prende in considerazione e cerca di risolvere in tutte le maniere possibili numerosi

soprusi e problemi sia di origine sociale che economica sino ad allora esistenti.

Le donne ora sono considerate persone aventi gli stessi diritti e la stessa dignità dell'uomo senza

alcuna discriminazione con la possibilità di ricoprire ruoli di rilevanza sociale, politica ed

economica (questo almeno in teoria poiché sappiamo benissimo che ci vorranno ancora parecchi

anni affinché la donna raggiunga la vera parità dei diritti). La donna infatti, sia prima che durante

il periodo fascista, non poteva accedere a professioni di prestigio né ricoprire cariche importanti

grazie alla politica razzista ed antifemminista che il fascismo attuò per ben vent'anni offrendo alla

donna solamente due scelte possibili:

1) diventare infermiera, segretaria o impiegata, professioni considerate secondarie.

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2) sposarsi e dedicarsi alla famiglia.

Ovviamente la donna che sceglieva la professione infermieristica non poteva sposarsi, doveva

vivere principalmente per l'ospedale per il quale lavorava sottomettendosi completamente al

medico eseguendo tutti i suoi ordini in silenzio mettendo così in secondo piano la persona

bisognosa di assistenza.

Negli articoli della Costituzione italiana si legge anche "...tutti i cittadini hanno pari dignità sociale

e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso..." oppure "...la donna lavoratrice ha gli

stessi diritti a parità di lavoro, la stessa retribuzione che spetta al lavoratore " oppure " sono tutti

elettori i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età".

Anche la Dichiarazione Universale dei Diritti afferma principi innovatori come: "tutti gli esseri

umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti senza distinzioni alcune per ragioni di razza, di

colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica...".

La legislazione vigente sembrava essere favorevole allo sviluppo sociale e professionale della

donna e non solo, in realtà come ho già accennato prima, il processo di sviluppo era solamente

all'inizio.

Nel periodo della ricostruzione si hanno dei miglioramenti nell'assistenza sanitaria, ma restano le

sue carenze di fondo e le sue distorsioni. Gli interventi sanitari continuano ad avere un carattere

quasi esclusivamente ripartivo e l'assistenza è erogata da molti enti, con notevoli differenze nelle

prestazioni che sono fornite alle varie categorie.

Con la fine della guerra la voglia di ricostruzione e di innovazione è tanta anche per la classe

infermieristica anche se quest'ultima naviga ancora in mille problemi. La professione medica,

tuttora appannaggio quasi esclusivo delle classi medie e superiori, conosce importanti mutamenti.

In un libro del 1973 leggiamo: "Il cosiddetto libero professionista allo stato puro, cioè il medico

che lavora esclusivamente per la clientela privata è ormai una rarità. Il rapporto prevalente è

quello convenzionato, tra i medici e l'organizzazione mutualistica, che rappresenta un

compromesso tra la professione privata e il rapporto di impiego (...). Il lavoro del medico si trova

oggi in una fase precaria, determinata dalla rottura di un equilibrio, dal superamento di una figura

sociale tradizionale, senza che ancora si sia raggiunto un equilibrio nuovo, si sia affermata una

figura professionale e scientifica diversa da quella del passato". Lo stesso autore scrive tra l'altro:

"il ruolo del medico è stato finora, prevalentemente, quello di adattare l'individuo all'ambiente;

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ora deve spostarsi verso la modifica dell'ambiente, per adattarlo alle esigenze degli individui".(15)

Ma questo accade di rado.

In Italia si incomincia a vedere un incremento delle domanda di istruzione che avrà il suo culmine

negli anni sessanta e settanta: alla fine degli anni settanta vi sarà un medico ogni 346 abitanti, un

numero piuttosto elevato e, cosa che merita essere sottolineata, l'Italia ha, per contro, un indice di

salute fra i più scadenti.

In mancanza di stime attendibili dei bisogni e della programmazione di un'adeguata rete di servizi

sanitari in tutto il paese, il numero dei medici cresce mentre sono carenti altri addetti alla salute,

come gli odontotecnici, i fisioterapisti e gli infermieri professionali.

Quello a cui è utile accennare è che l'alto numero dei medici non favorisce l'impegno, che pure

sarebbe necessario, nella preparazione di un maggior numero di infermieri professionali, nel

miglioramento qualitativo della loro formazione, e in una definizione aggiornata delle loro

funzioni. In poche parole, il problema dei medici contribuisce a non fare emergere in tutta la sua

gravità il problema infermieristico.

Gli ospedali restano enti di assistenza sino al 1968: la loro qualificazione è spesso molto bassa. Il

loro sviluppo sul territorio nazionale è disordinato, a danno soprattutto delle regioni meridionali.

Data la permanente scarsità del personale infermieristico qualificato, molti ausiliari sono addetti

all'assistenza negli ospedali e vi sono infermieri generici che fungono da capo-sala. I turni sono

pesanti e le paghe basse, cosa che costringe una buona parte del personale a svolgere un secondo

lavoro. Nel 1947 viene stipulato il primo accordo nazionale di lavoro del dopoguerra per i

dipendenti ospedalieri; con esso i sindacati ottengono una certa limitazione dell'autonomia delle

singole amministrazioni nel determinare i trattamenti economici dei lavoratori.

Si incomincia dunque a rincorrere quella autonomia e quella affermazione che la classe

infermieristica auspicava dopo la caduta del fascismo.

2.2 IL CONTESTO SOCIO-CULTURALE IN CUI NASCONO I COLLEGI

Nel 1946 incominciano a costituirsi delle associazioni infermieristiche, come la Consociazione

nazionale delle infermiere professionali e assistenti sanitarie visitatrici, l'attuale Cnaioss. Nello

stesso periodo nasce l'Acipsa, l'attuale Acos, grazie all'unione donne dell'azione Cattolica e la

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Firo, formata da infermiere religiose. Tutte queste associazioni, ovviamente, erano sostenute dalla

classe medica.

Con il decreto legislativo del 13 settembre 1946 n. 233 si stabilisce la disciplina relativa all'albo

professionale per le professioni sanitarie il quale fu applicato solamente nel 1950 con il DPR n.

221 ma appena nel 1954 con la legge 1049 del 29 ottobre 1954 nacquero i Collegi provinciali

Ipasvi. Nello stesso anno viene regolamentata la preparazione dell'infermiere generico, mediante

la Legge 1046 del 29 ottobre. Essa consente l'istituzione di scuole apposite, separate dalle scuole-

convitto professionali, alle quali possono accedere uomini e donne in possesso della licenza

elementare. Il corso ha la durata di un anno e fra i motivi che hanno portato all'approvazione del

provvedimento non è da escludere vi sia stata la volontà di evitare che prendesse campo la

richiesta di aprire anche agli uomini le scuole professionali.

Ma come mai passarono otto anni dal decreto legislativo del '46 all'effettiva istituzione degli albi

professionali e dei collegi?

Non dobbiamo dimenticarci che soprattutto in Italia la professione infermieristica non riuscì

facilmente a distaccarsi dalla tradizionale impostazione caritativa e filantropica che da sempre

aveva caratterizzato l'assistenza agli infermi negli ospedali e che derivava dal secolare controllo

che la chiesa cattolica aveva esercitato su numerose professioni educative ed assistenziali (tra cui

non aveva fatto eccezione l'attività infermieristica). La penetrazione degli ordini religiosi

femminili negli ospedali era divenuta nei secoli capillare e massiccia ed aveva fatto sì che si

imponesse una concezione di assistenza che privilegiava la cura dello spirito piuttosto che quella

del corpo malato; era una visione che tendeva a mantenere l'aspetto caritativo dell'assistenza a

scapito dei più moderni criteri fondati su basi scientifiche.

Essere infermiera, seppure laica e professionista, divenne sempre più un ideale da raggiungere e

l'esigenza di una diversa cultura e preparazione per il personale infermieristico non si scontravano

con la persistenza di questo modello religioso, ma anzi lo integravano e lo assorbivano.

L'assistenza infermieristica dunque, seppur fornita di una veste ufficiale di professione

socialmente riconosciuta, si sviluppò rimanendo legata ad un'impostazione di tipo religioso;

l'infermiera veniva quasi nobilitata da questa idea di missione divina e trovava in esso

l'appagamento di una professionalità che, altrimenti, le avrebbe riservato ben poche gratificazioni.

Anche il vestito, che diventa "divisa", uniforme bianca, diventa il simbolo della sacralità della

missione infermieristica; si profila dunque un'immagine precisa e ben identificabile di purezza e di

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irreprensibilità morale: la donna infermiera casta e martire, coraggiosa e pronta al sacrificio è

un'immagine che risulta molto funzionale all'epoca.

Questa logica fece sì che, dall'inizio del secolo sino alla caduta del fascismo, la tendenza da molti

caldeggiata di riservare alle sole donne la professione infermieristica si perpetuasse senza evidenti

soluzioni di continuo; ma anzi tale logica finì propino col caratterizzare la nascita della figura di

infermiera professionale che si andava delineando.

Forse adesso abbiamo ulteriormente chiarito il contesto socio-culturale in cui nacquero i collegi

Ipasvi e delle enormi difficoltà che ovviamente trovarono alla loro nascita.

2.3 RAPPRESENTANZA O RAPPRESENTATIVITÀ

Rappresentanza o rappresentatività? La professione infermieristica del dopo guerra era più

rappresentata o più rappresentativa? E quella di oggi? Prima di cercare di rispondere a queste

domande cerchiamo di dare una definizione esauriente di questi due termini. Per rappresentanza

intendiamo la forma di un'idea, pensiamo subito ad un dovere istituzionale, burocratico, ad un

componimento di attività giuridica in nome e per contro di altri. Per rappresentatività invece,

intendiamo un'ideale con un ben chiaro significato etico, civile e storico con un chiaro contenuto

interiore che non dà molta importanza all'esteriorità e che ovviamente implica un'adesione

dall'esterno da parte di una categoria ben precisa di persone.

Cosa importantissima da sottolineare è che, mentre la rappresentanza si impone, la

rappresentatività è retta e sostenuta dalla cultura e dalle emozioni di un gruppo di persone e non

è coperta da quel mantello istituzionale che è tipico della rappresentanza.

Si nota subito che la professione infermieristica del dopoguerra era rappresentata ma per niente

rappresentativa e questo grazie soprattutto alla condizione sociale della categoria in quegli anni.

Le infermiere di allora non si rendevano conto della loro importanza a livello sociale e del loro

ruolo rappresentativo, infatti furono i medici a volere la creazione di un Collegio che fosse

rappresentativo della categoria infermieristica.

All'inizio della creazione dei Collegi, quest'ultimi non ebbero un gran seguito: ad esempio dal

verbale della prima seduta delle iscritte al Collegio Ipasvi delle province di Perugia e Terni il

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giorno 7 giugno 1958 erano iscritte solamente 20 persone su 43 (all'epoca l'iscrizione al Collegio

non era obbligatoria), e di queste non vi era neanche una infermiera professionale.

Si evince subito che la classe infermieristica non è per niente rappresentativa, non ha ancora

coscienza della sua esistenza e della sua importanza a livello sociale ed è proprio attraverso il

Collegio che si cerca di far diventare la professione prima rappresentante, poi rappresentativa. I

problemi da analizzare e da risolvere non erano sicuramente pochi a cominciare dall'iscrizione

all'albo che non era ancora obbligatoria e non era richiesta per l'assunzione come dipendente sino

al problema della libera professione la quale non era sottoposta a nessun tipo di controllo.

Di solito è molto più facile abbattere un muro che non costruirlo ma quando si tratta di un muro

fatto di decenni di usi, abitudini, riti e tabù abbatterlo non è così facile come non è facile rendere

cosciente una categoria professionale della propria importanza sociale e del proprio ruolo nei

confronti della persona da assistere.

Il Collegio dunque è importantissimo per perseguire questi obiettivi sia all'epoca della sua nascita

sia ai giorni nostri. Non va dimenticato che il Collegio è un'associazione di soggetti riuniti per

formare un'altra persona, quella giuridica, al fine di perseguire scopi che trascendono di norma le

singole persone fisiche e che, comunque, quand'anche riguardi il singolo aderente nella sua

individualità, vengono realizzati nei modi scelti dal Collegio in conformità alla legge istitutiva.

Compito del Collegio è quello di curare e formare una coscienza ed una prassi associativa del

gruppo, in generale sanitaria e in particolare specificamente della professione. Dall'adempimento

di tale obbligo deriva la funzionalità del Collegio per il bene comune, cioè per quello generale dei

destinatari del servizio professionale, e per quello particolare del gruppo professionale e quindi, di

riflesso, per l'interesse del singolo professionista. Inoltre solo per tale via si realizza

un'associazione partecipativa, che evita al Collegio di apparire un ente inutile o, all'opposto,

troppo burocratizzato.

La natura "associativa" del Collegio determina obblighi anche a carico dei singoli iscritti, i quali

debbono sentire di far parte del gruppo professionale e debbono collaborare con il Collegio,

costituendo essi per legge l'organo di base che è l'assemblea degli iscritti.

Il Collegio è un ente pubblico "territoriale", in quanto la sua sfera di competenza è per legge

limitata ad un determinato territorio, di norma coincidente con la provincia.

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Il Collegio è un ente pubblico "necessario ed obbligatorio": necessario in quanto voluto dalla

legge; obbligatorio poiché l'iscrizione ad esso è prescritta quale condizione inderogabile per

l'esercizio effettivo della professione senza distinzione tra le diverse possibili forme di

svolgimento dell'attività professionale.

E' importantissimo sottolineare che il Collegio ha il potere di autoregolamentazione, in

riferimento sia alla soggettività degli organismi pubblici professionali, sia alla loro incidenza nella

vita collettiva, per l'efficacia che dispiegano all'interno del gruppo professionale e all'esterno verso

i destinatari dell'attività sanitaria degli iscritti all'albo.

Sono infatti espressione del potere di autoregolamentazione, ad esempio, l'approvazione e

l'emanazione delle tariffe professionali, il codice deontologico, che hanno evidenti effetti anche

nei confronti di soggetti esterni alla categoria.

Esempi di autonomia amministrativa del Collegio sono:

1) il potere del Consiglio direttivo di stabilire la tassa annuale entro i limiti necessari per coprire le

spese (art.4, primo comma, decreto 233/1946);

2) la tassa per l'iscrizione all'albo;

3) la tassa per il rilascio dei certificati e dei pareri per la liquidazione degli onorari.

Il potere di autoamministrazione del Collegio, grazie alla tassa annuale per le spese di

quest'ultimo, si manifesta anche come autofinanziamento. Questa è una delle caratteristiche

peculiari degli enti pubblici professionali, i quali non gravano in alcun modo sul bilancio dello

Stato ed acquisiscono i fondi strettamente necessari per il loro funzionamento solo ed

esclusivamente dalla contribuzione degli iscritti negli albi.

E' importante sottolineare anche che il Collegio è un ente pubblico democratico perché alla

formazione del suo organo direttivo partecipano tutti gli iscritti con votazione primaria, mentre

gli altri organi (presidente, vice presidente, segretario e tesoriere) sono eletti con votazione

secondaria all'interno del Consiglio.

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2.4 FINI E COMPITI ISTITUZIONALI

L'art.3 del D.L.C.P.S.n.233/1946 stabilisce che al Consiglio direttivo di ciascun Ordine o Collegio

spettano le seguenti attribuzioni:

A) Compilare e tenere l'albo professionale del Collegio e pubblicarlo al principio di ogni anno.

L'attribuzione relativa alla compilazione e tenuta dell'albo e alla sua pubblicazione è

dettagliatamente disciplinata nel capo 1 del Regolamento del DPR n.221/1950.

All'inizio l'iscrizione all'albo non era obbligatoria anche se fortemente consigliata. Leggiamo in un

passo tratto dal notiziario della Federazione nazionale del marzo 1957: "...la tenacia di coloro i quali

hanno svolto tutta la loro opera per ottenere, con il riconoscimento giuridico dei Collegi da parte dello Stato, la

piena tutela degli interessi di una categoria per lungo tempo misconosciuta, è oggi ricompensata dall'entusiasmo con

il quale moltissime interessate, religiose e laiche, hanno sollecitato ed ottenuto la loro iscrizione all'albo professionale

.E' necessario tuttavia ricordare a tutte le Ip-Asv-Vi non ancora iscritte agli Albi, l'opportunità di farlo, poiché si

possa con il peso del numero, meglio intervenire dove è richiesto, per assicurare il rispetto delle leggi esistenti in

favore della categoria e sensibilizzare in tutti i campi quei problemi del nostro lavoro che incessantemente si

proiettano nel settore delle attività assistenziali e sanitarie. L'Albo con l'imponenza degli iscritti è salvaguardia

dell'etica professionale, tende ad un'azione unitaria ed equilibrata delle varia iniziative, assicura alla categoria il

raggiungimento di effettive migliori condizioni e il riconoscimento giuridico di un prestigio finora da tutti soltanto

platonicamente ammesso...".

Queste parole sicuramente potevano essere uno stimolo non indifferente per il raggiungimento di

una vera rappresentanza e rappresentatività anche se in realtà siamo ancora molto lontani dal

raggiungimento di una vera rappresentanza e rappresentatività.

B) vigilare alla conservazione del decoro e dell'indipendenza del Collegio.

Non è sicuramente facile stabilire l'esatto significato dei termini "decoro" e "indipendenza" e la

correlazione esistente tra loro, mentre appare evidente che con il termine "Collegio" la norma

intende riferirsi non tanto all'ente persona giuridica pubblica, bensì al gruppo professionale che lo

costituisce e che con esso si identifica.

Il Consiglio direttivo del Collegio ha il diritto-dovere di salvaguardare e di tutelare il decoro e

l'indipendenza della professione e del Corpo professionale nel suo complesso e nelle persone dei

singoli iscritti.

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Cerchiamo ora di dare un significato alla parola "decoro": si può affermare che esso afferisce a

quanto ha relazione con il buon nome del gruppo professionale con riferimento alla sua

professionalità, all'onore, alla stima ed ai meriti dello stesso.

Con la parola "indipendenza" invece ci riferiamo alla libertà dell'esercizio professionale, intesa

come "diritto di porre in essere, in piena autonomia di giudizio e decisionale, tutte le attività lecite

direttamente conseguenti all'esercizio delle attribuzioni riconosciute dalla legge".

Il Collegio ha il dovere quindi di vigilare e di prendere provvedimenti disciplinari nei confronti di

chiunque offenda o attenti al decoro e all'indipendenza della professione tramite mezzi civili,

penali od amministrativi.

Non occorre sottolineare che all'epoca della nascita del Collegio per il decoro si guardava

solamente l'esteriorità delle persone mentre per quanto riguarda l'indipendenza era praticamente

inesistente vista la totale sottomissione della categoria nei confronti dei medici.

C) Designare un proprio rappresentante presso Commissioni, enti ed organizzazioni di carattere provinciale o

comunale.

La designazione di uno o più rappresentanti del Collegio fu concepita e va ricercata nella volontà

legislativa di assicurare all'interno delle commissioni, enti ed organizzazioni la presenza di esperti

della sanità, quali sono i professionisti del settore.

Indipendentemente dal sistema sanitario vigente, è da ritenersi opportuno che ciascun Consiglio

direttivo abbia l'onere di identificare tutte le commissioni, enti ed organizzazioni esistenti in

ambito locale presso i quali la partecipazione del rappresentante professionale possa risultare utile

ed opportuna.

Il rappresentante dunque diventa il portavoce sia dei colleghi che degli utenti e lavora rispettando

i doveri e i diritti professionali nonché seguendo e rispettando l'etica professionale. In questo

caso ci troviamo di fronte ad un esempio di rappresentanza vera e propria anche se sarebbe

opportuno che chi svolge la funzione di rappresentante sia visto anche come figura

rappresentativa.

D) Promuovere e favorire tutte le iniziative intese a facilitare il progresso culturale degli iscritti.

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Il termine "promuovere" ha il chiaro significato di una iniziativa del tutto affidata al Consiglio

direttivo il quale deve esercitare il proprio diritto-dovere di curare la promozione del progresso

culturale degli iscritti, secondo l'evolversi della scienza e delle tecniche.

Il Collegio dunque, mentre resta del tutto estraneo al momento della formazione di base, è

coinvolto in prima linea per quanto riguarda la formazione post-base: la formazione extra-

scolastica gli è istituzionalmente riconosciuta ed affidata.

Se oggi questo compito di promozione stenta ad andare avanti in maniera ottimale, figuriamoci

30-40 anni fa, quando il Collegio si comportava come un organo di rappresentanza superiore

rispetto ai suoi iscritti.

E) dare il proprio concorso alle autorità locali nello studio e nell'attuazione pratica dei provvedimenti che comunque

possono interessare il Collegio stesso.

Il compito di dare il proprio concorso alle autorità locali nello studio e nell'attuazione dei

provvedimenti che comunque possono interessare il Collegio è, insieme a quella della

promozione culturale, l'attribuzione che dovrebbe ricevere più continua attuazione. Nella realtà,

si tratta invece di un compito istituzionale che non ha avuto storicamente la dovuta attuazione,

nonostante la sua incontestabile utilità anche sotto il profilo dell'interesse pubblico generale. Non

si è considerato l'inserimento effettivo dei professionisti con un loro ruolo attivo nella società:

questo è un altro esempio di rappresentanza e poca rappresentatività.

F) esercitare il potere disciplinare nei confronti degli iscritti all'albo.

La disposizione di cui alla lett. F) dell'art.3, D.L.C.P.S.n.233/1946 dà luogo ad un delicato

problema di natura strettamente giuridica dal momento che il potere disciplinare è riconosciuto

"nei confronti dei sanitari liberi professionisti, iscritti all'albo". In questo caso ci sarebbero poche

possibilità di applicazione del potere disciplinare da parte dei Collegi, tenuto conto che la maggior

parte professionisti sono pubblici dipendenti e solo pochi esercitano attività libero-professionali.

Con la sopravvenuta obbligatorietà dell'iscrizione all'albo, è stata abrogata quella più antica,

contenuta nell'art.10 del D.L.C.P.S. n.233/1946: come conseguenza si ha la modifica di tutto

l'impianto della legge sull'ordinamento professionale, la quale sarebbe applicabile nella sua

interezza ai professionisti pubblici dipendenti, anche per quanto concerne l'esercizio del potere

disciplinare.

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Quanto alle sanzioni disciplinari e al procedimento per la loro comminazione, la materia è

disciplinata dalle norme del Capo IV del D.P.R.n.221/1950, le quali però vanno integrate con

alcuni articoli del decreto fondamentale 233/1946.

L'art. 38 del D.P.R.n.221 enuncia il principio sul quale è fondato il potere disciplinare:

"I sanitari che si rendono colpevoli di abusi o mancanze nell'esercizio della professione o, comunque, di fatti

disdicevoli al decoro professionale, sono sottoposti a procedimento disciplinare da parte del Collegio della provincia

nel cui Albo sono iscritti. Il procedimento disciplinare è promosso d'ufficio o su richiesta del prefetto o del

procuratore della Repubblica."(16)

Si trattava di un codice disciplinare formale, molto lontano dal codice deontologico attuale la cui

idea venne fuori molti anni dopo.

G) Interporsi, se richiesto, nelle controversie fra iscritto ed iscritto o fra iscritto e persona o enti a favore dei quali

l'iscritto abbia prestato o presti la propria opera professionale per ragioni di spesa, oneri o per altre questioni

inerenti all'esercizio professionale, procurando la conciliazione delle vertenze e, in caso di non riuscito accordo,

dando il suo parere sulle controversie stesse.

L'intendimento legislativo è comprovato dal dovere di dare il proprio parere sulle controversie

stesse, in caso di non riuscito accordo con il chiaro scopo di far pervenire il parere innanzi

all'autorità competente a risolvere la questione in sede giudiziale, la quale potrà così disporre già

di un rilevante e qualificato apporto istruttorio.

All'epoca ovviamente l'intervento del Collegio veniva vissuto come quello di un giudice che

interviene tra i diverbi dei sudditi.

2.5 DAGLI ANNI SESSANTA AI GIORNI NOSTRI

Verso la metà degli anni sessanta si incominciarono ad avere dei cambiamenti: si svolge il

secondo Congresso nazionale, si incomincia a parlare di aggiornamento, si incomincia a parlare di

sindacati.

Si legge sul verbale della adunanza ordinaria del Consiglio nazionale e sul Congresso pubblicato

sul "Notiziario" n°1 del gennaio 1970:

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"Congresso Nazionale svoltosi a Roma nei giorni 15,16,17 ottobre 1969, il secondo congresso nazionale è stato

caratterizzato da una considerevole partecipazione di nostre professioniste (circa 1300). Esso ha offerto la

possibilità per un'ampia e profonda disamina dei problemi riguardanti la preparazione e l'impiego del personale

sanitario non medico, ha contribuito a sensibilizzare ulteriormente gli Organi responsabili e l'opinione pubblica, ha

comportato per la Federazione un maggiore e più preciso impegno che essa intende assolvere sulla linea di condotta

espressamente indicata dalle mozioni conclusive del Congresso medesimo.

Il merito della riuscita della manifestazione è da attribuirsi in parte al comitato organizzativo, nel quale erano

rappresentate anche Associazioni professionali, ma soprattutto alla fattiva collaborazione dei nostri collegi".(17)

Il gran numero degli iscritti al Congresso è un chiaro indice di una voglia di rappresentatività in

un periodo in cui grandi cambiamenti erano alle porte:

Il mansionario stava per essere rivisto

Il codice deontologico stava per essere cambiato

Le scuole per infermieri professionali stavano andando incontro ad una riforma

C'era l'idea di intensificare i rapporti con i sindacati e l'istituzione

Il vento di cambiamenti che investì la categoria a partire da quegli anni proseguì con la legge

124/71, con la quale la figura maschile viene ammessa all'esercizio della professione: la

professione infermieristica perde così la sua connotazione prettamente femminile e il ruolo

sociale dell'uomo e della donna tendono ad eguagliarsi.

Le scuole convitto cambiano nome in "scuole per infermieri" e viene abolito l'obbligo

dell'internato per le allieve infermiere aprendo così non solo le scuole ma anche l'immagine che la

categoria per anni aveva dato alla società

Nel 1974 con il DPR 225 viene istituito il mansionario, indubbiamente innovativo all'epoca,

anche se già allora limitava di molto l'agire professionale dell'infermiere subordinandolo alla classe

medica.

Grazie alla formazione universitaria per dirigenti dell'assistenza infermieristica, si inizia la crescita

culturale dell'infermiere, per troppi anni considerata una professione non intellettuale.

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Nel 1978 viene emanata la legge 833 che in teoria doveva essere la massima espressione per la

crescita e lo sviluppo della professione infermieristica, cosa che in realtà non è avvenuta

completamente.

Nel 1979 con il DPR 761/79 si rende obbligatoria l'iscrizione all'albo professionale: di

conseguenza aumenta la rappresentanza, i vertici della Federazione nazionale vengono cambiati

ed incomincia ad essere forte la voglia di diventare anche rappresentativi.

Gli anni novanta sono caratterizzati anche da grossi cambiamenti :

Vengono istituiti i primi servizi infermieristici

Nel 1994 con il DM 739 viene emanato il profilo professionale dell'infermiere

Con il DLGS 502/92 si avvia la formazione universitaria per gli infermieri

Con la legge 42 del febbraio 1999 viene abolito il mansionario ed istituito il nuovo codice

deontologico

Sicuramente con tutti questi cambiamenti la professione e soprattutto il professionista è molto

cambiato: ciascun infermiere è cosciente della propria responsabilità etica, politica, sociale ed

civile; non conta più solo l'estetica ma anche i contenuti della professione.

Finalmente il professionista si sta costruendo un'immagine di infermiere agli occhi della gente

comune degna di questo nome, incomincia a interiorizzare certi valori e principi che prima non

aveva ancora la consapevolezza di avere: incomincia finalmente ad essere rappresentativo di una

professione intellettuale rimasta per troppi anni chiusa nel suo guscio di misera rappresentanza a

livello di Federazione.

CAPITOLO CINQUE

5. LA STAGIONE DELLA RESPONSABILITÀ

5.1 PROFESSIONALIZZAZIONE INFERMIERISTICA: UN PROCESSO ANCORA INCOMPIUTO

Il riconoscimento dell'autorità professionale è una caratteristica principale di ogni professione, possiamo

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infatti affermare che una occupazione non professionale ha degli avventori mentre un'occupazione

professionale ha dei clienti.

Colui che ha "clienti" ad essi risponde e dagli stessi viene valutato; deve possedere pertanto autonomia

professionale, da esplicarsi esclusivamente nell'ambito della sua "competenza teorica".

Cosa che il mansionario limitava, in quanto lo stesso responsabilizzava l'infermiere solo su singole

mansioni; fino ad una decina di anni fa non vi è stato alcun movimento per abolire il mansionario: gli

infermieri erano però chiamati a svolgere attività non regolamentate e di competenza medica.

Questo ha comportato anche situazioni per le quali sono stati avanzati ricorsi alle vie legali; la Federazione

dei Collegi, quale organo di tutela della professione, si è trovata a non poter difendere l'esercizio

professionale dei propri iscritti chiamati in causa per azioni non pertinenti all'attività dell'infermiere e quindi

non tutelate dalla legge. Nulla valeva come difesa il richiamo alla consuetudine o alla prassi.

Non rimaneva alla Federazione che richiamare gli enti al rispetto del mansionario ed a chiedere agli

infermieri di eseguire solamente le mansioni ivi previste.

Il mansionario rappresenta lo strumento con cui le organizzazioni rigide standardizzano i comportamenti

degli operatori definendo nel dettaglio le procedure da compiere, cosa assolutamente impensabile in una

professione come quella infermieristica.

Di fatto la professione infermieristica è rimasta per anni confinata in un limbo di professioni di nome ma

non di fatto con un'autorevolezza sicuramente minore rispetto ad altre professioni. L'ausiliarietà che sino a

poco tempo fa caratterizzava la professione infermieristica ha contribuito sicuramente a dare scarsa

autorevolezza agli occhi della gente comune insieme ad altri due motivi principali:

L'inesistenza di leggi adeguate che rendessero l'infermieristica una scienza vera e propria e la formazione

non prevista sino al 1992 in ambito universitario;

La poca attenzione della gente comune verso il lavoro degli infermieri e verso la loro attività unica ed

insostituibile.

I cambiamenti degli ultimi anni con l'ingresso in università, il profilo professionale, l'abolizione del

mansionario e il nuovo codice deontologico hanno fatto crescere enormemente la professione ma per

raggiungere il pieno riconoscimento dell'autonomia e della responsabilità, la professione deve continuare a

crescere e porsi ulteriori obiettivi:

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1. Conseguire la laurea, le specializzazioni e la dirigenza;

2. Continuare la trasformazione professionale ed organizzativa;

3. Consolidare il proprio riconoscimento professionale di fronte all'opinione pubblica.

5.2 LA COMPETENZA PROFESSIONALE

Competenza è un termine molto ampio per il quale è difficile stabilire dei confini ben precisi. Il suo

significato è facilmente intuibile, ma per non cadere nell'errore ci riferiremo ad un contesto specifico.

La competenza è lo strumento per assumere le responsabilità inerenti ad un dato lavoro e si acquisisce

progressivamente attraverso conoscenze di carattere generale e specifico: esistono quindi diversi livelli di

competenza e diversi fattori che contribuiscono allo sviluppo ed alla definizione delle competenza.

Quale definizione possiamo allora dare della parola "competenza"? Le più comuni sono:

"piena capacità di orientarsi in determinate questioni" (Devoto, 1971);

"capacità, adeguatezza" (Webster's Third New International Dictionary);

"idoneità e autorità a trattare, giudicare, risolvere determinate questioni; capacità di affrontare efficacemente una situazione

interagendo attivamente con l'ambiente" (Taber, 1994);

"raggiungimento di chiari obiettivi specifici che caratterizzano la competenza in un dato campo" (Clayton, 1983).

Se ci rifacciamo alla definizione più classica citata in letteratura, la definizione di competenza possiamo

dividerla in due:

"caratteristica intrinseca dell'individuo, causalmente collegata ad una performance eccellente in un'azione" e "si compone di

motivazioni, tratti, immagine di sé, ruoli sociali, conoscenze e abilità".(22)

La competenza dunque, è un qualcosa di molto ampio: ogni singolo infermiere, per essere considerato

competente, oltre ad avere un vasto campo di conoscenze teoriche e la coscienza del suo ruolo sociale, deve

avere anche uno spiccato senso di appartenenza alla professione.

Un vero professionista competente deve disporre di intuito, di abilità, di percezione, di esperienza, deve

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essere responsabile delle proprie azioni.

L'esperienza è importantissima per creare competenza poiché è grazie all'esperienza che si diventa esperti

ma non basta; anche la conoscenza è importantissima per diventare competenti poiché è grazie alla

conoscenza che il professionista cresce intellettualmente. Bisogna allora unire i due fattori ed aggiungerci

una buona dose di motivazione per affrontare anche le situazioni assistenziali complesse senza "cadere nella

routine e nell'abitudine", e bisogna inoltre lavorare in un contesto organizzativo che non ostacoli

l'infermiere nell'esercizio quotidiano della sua professione.

La competenza non è automatica, ma deve essere esercitata e sviluppata dall'infermiere motivato al

processo di salute della persona affinché l'assistenza competente diventi il risultato delle variabili

precedentemente nominate.

Da non dimenticarsi in questa analisi dell'importanza della creatività intesa come "particolare sensibilità ai

problemi, capacità di produrre idee, originalità nell'ideare, capacità di sintesi e di analisi, capacità di definire, di strutturare in

modo nuovo le proprie esperienze e conoscenze" (Vocabolario della lingua italiana, Treccani, 1983) che consente

l'acquisizione di dati, l'ascolto, il processo di traduzione dei dati in modelli significativi e l'adattamento di

questi alla situazione del momento.

Ma come fa l'infermiere per acquisire e per mantenere la competenza?

Attraverso l'uso di strumenti come i protocolli o le linee guida ad esempio e tenendo sempre conto di certi

punti a partire:

Dai mutamenti che vive un'azienda giorno per giorno trasformandosi, in modo da erogare prestazioni

sempre migliori;

Dalla flessibilità intesa come caratteristica di adattarsi ai fattori esterni dell'organizzazione ottenendo sempre

risultati rispondenti alle esigenze dell'utenza;

Dall'interazione tra le diverse variabili caratterizzanti la professionalità dell'infermiere;

Da una concezione di centralità delle risorse umane e da una organizzazione che favorisca e sostenga lo

sviluppo della competenza.

L'infermiere deve inoltre seguire altre vie per acquisire sempre più competenza:

Deve riuscire a tradurre le conoscenze in competenze trasformando le sue conoscenze teoriche in capacità

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di azione;

Deve riuscire ad apprendere dall'esperienza;

Deve riuscire ad acquisire conoscenze dall'esterno ovvero deve formarsi adeguatamente e deve soprattutto

aggiornarsi;

Deve riuscire a condividere le conoscenze come elemento di apprendimento nei gruppi di lavoro;

Deve riuscire a focalizzare la conoscenza come un elemento fondamentale del processo di lavoro e che

comporta una sostanziale evoluzione rispetto ai tradizionali modelli di gestione e leadership.

Carper (1978)-lavoro ripreso e approfondito da Chinn e Kramer(1991)- ha esaminato la letteratura

infermieristica e ha descritto quattro modi nei quali gli infermieri usano e sviluppano la conoscenza nella

competenza delle pratica quotidiana:

1. LA CONOSCENZA ETICA che è la componente della conoscenza morale del nursing;

2. LA CONOSCENZA ESTETICA, cioè l'arte del nursing, il dare significato alla percezione e come

questa si riflette nell'azione etica;

3. LA CONOSCENZA PERSONALE nel nursing ovvero la conoscenza del sé, per mettersi in rapporto

con gli altri e per stabilire relazioni interpersonali efficaci;

4. LA CONOSCENZA EMPIRICA e cioè la scienza del nursing. Empirismo come modello di

conoscenza derivante dall'idea tradizionale di scienza dove la realtà è vista come un qualche cosa di

misurabile e verificabile.

Queste conoscenze sono in continua integrazione e gli infermieri sviluppano su questi punti le competenze

mettendo a fuoco ed integrando l'uno o l'altro momento della conoscenza.

Un particolare metodo per valutare la competenza fra i professionisti, sperimentato e dimostratosi efficace,

è la "valutazione tra pari", considerata una tecnica di valutazione e miglioramento della qualità

dell'erogazione delle cure. Coloro che valutano e coloro che vengono valutati appartengono alla stessa

professione e l'obiettivo che ci si pone è quello di migliorare la qualità professionale.

Questo metodo potrebbe sicuramente trovare applicazione nella moderna logica dell'accreditamento

professionale in cui gli infermieri decidono degli standard di assistenza accettabili.

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IL GRUPPO DI LAVORO

Il gruppo di lavoro o teamwork è un altro metodo per migliorare le proprie competenze e per apprendere; il

gruppo di lavoro va inteso come espressione di collaborazione, condivisione di sforzi e di coordinamento di

risorse, per la realizzazione di un obiettivo specifico. I professionisti sperimentano situazioni differenti

rispetto alla normale routine organizzativa ed acquisiscono, attraverso queste esperienze, nuove

competenze tecniche ed organizzative.

Attraverso i gruppi di lavoro si può osservare:

La crescita motivazionale nel raggiungere obiettivi collegati con le performances aziendali;

L'aumento della responsabilità individuale e di gruppo;

La presa di coscienza del proprio ruolo, delle proprie responsabilità ed anche di quelle dei colleghi;

I risultati che si possono ottenere con il lavoro di gruppo possono essere molto gratificanti ed educativi sia

a livello individuale che collettivo; è da sottolineare però che i risultati del lavoro di gruppo sono

strettamente collegati con le risorse messe a disposizione dall'azienda, l'effettiva convinzione e

collaborazione dei professionisti facenti parte del lavoro di gruppo e le metodologie usate.

LA CONSULENZA INFERMIERISTICA

Altro fattore importante per valorizzare la competenza infermieristica è la consulenza infermieristica clinica,

una novità per gli infermieri ed un ottimo strumento per dimostrare la propria competenza nella gestione

della propria attività quotidiana, facendo emergere la complessità presente in certe aree ad elevato impegno

assistenziale ed evidenziando l'impegno professionale nel garantire alla persona prestazioni di elevata

qualità.

Sono state individuate delle aree di intervento della consulenza infermieristica, sono stati elaborati dei

moduli cartacei sui quali viene documentata la consulenza effettuata elencando anche il materiale utilizzato

ed il tempo impiegato.

Queste esperienze sono nuove ed esistono solo in pochissime aziende però si è visto che si favorisce di

molto la comunicazione tra gli infermieri, la motivazione aumenta e si valorizza al massimo l'infermiere

"esperto".

Per stabilire e definire quindi la competenza infermieristica è necessario avere ben chiari quali sono i campi

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teorici e pratici dove agisce e si sviluppa il nursing. Il modello concettuale nel quale si inscrive la

competenza infermieristica deve essere ben chiaro e reso esplicito poiché deve rappresentare la guida per la

formazione e per la pratica clinica.

E' necessario dunque essere chiari affinché:

1. Il cittadino sappia chiedere l'utilizzo della competenza infermieristica e sappia inoltre cosa può aspettarsi

dall'infermiere;

2. I nostri colleghi, i medici ed altre figure professionali conoscano gli ambiti del nostro lavoro e conoscano

bene le nostre competenze.

A differenza di quando vigeva un modello di assistenza per compiti dove il campo di azione dell'infermiere

era limitato dal mansionario, oggi nell'organizzazione del lavoro dove i problemi della persona sono al

centro di tutto, emerge il vero ruolo del professionista con un ampio bagaglio di conoscenze da trasformare

in competenza professionale nel lavoro quotidiano di ogni giorno.

Grazie a questi cambiamenti ed a questa nuova organizzazione del lavoro tutti gli utenti individueranno

nell'infermiere l'unica figura professionale competente nell'assistere la persona bisognosa.

5.3 AUTONOMIA E RESPONSABILITÀ

Negli ultimi anni gli assetti organizzativi ed i modelli di funzionamento sono cambiati profondamente: è

stato istituito il servizio infermieristico, è stata implementata l'assistenza domiciliare, sono nate le Rsa, sono

stati creati i Dipartimenti e l'organizzazione aziendale che ormai caratterizza la nostra Sanità può ottenere

ottimi risultati solo attraverso la valorizzazione e la responsabilizzazione degli operatori i quali devono avere

la possibilità di prendere decisioni legate alla propria competenza.

E' in questo contesto che l'autonomia e la responsabilità dell'infermiere si coniugano nel nuovo scenario

organizzativo, uno scenario in cui è il singolo a promuovere il cambiamento ed il contesto organizzativo,

con le sue figure chiave, non deve far altro che sostenerlo, guidarlo e facilitarlo.

Stiamo assistendo ad un cambiamento delle competenze, promosso dai singoli professionisti e sostenuto

dall'organizzazione ed a un cambiamento dell'organizzazione, promosso dai dirigenti organizzativi e

sostenuto dai singoli professionisti.

Singolo e gruppo devono essere uniti ed integrarsi per ottenere dei cambiamenti, ma quali sono i segreti del

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cambiamento?

Il cambiamento ci deve sempre accompagnare; quando parliamo di autorità, di autonomia, di competenze

professionali o di sviluppo scientifico, il cambiamento deve sempre affiancare la nostra pratica quotidiana;

Il cambiamento deve operare dentro ogni professionista poiché solo in questo modo le motivazioni

aumentano, le prestazioni migliorano e cresce il livello generale di assistenza;

Il cambiamento richiede più consapevolezza da parte di ogni operatore allo scopo di: aprirsi mentalmente

quando bisogna chiudere qualche porta con il passato per evitare l'ansia; saper lavorare in gruppo e

collaborare con altre persone; riuscire a capire se stiamo davvero cambiando oppure no, se stiamo

migliorando ed avere la capacità di sapersi mettere in discussione.

L'infermiere gioca un ruolo importantissimo nel processo di cambiamento anche se spesso non ne è

consapevole; esiste piuttosto una storica sottovalutazione della professione rispetto al proprio operato.

Gli infermieri hanno bisogno di percepire un grado di libertà affinché possano regolare il processo di

cambiamento e stabilirne le progressioni.

Per cambiare c'è bisogno di tutti gli infermieri, siano essi impegnati nella pratica clinica, nell'organizzazione

o nella formazione affinché il cambiamento si configuri come una responsabilità diffusa e progettata, che si

differenzia nei diversi livelli in cui si esprime la professione ed in integrazione con altri professionisti.

IL PROFILO DELL'UTENTE DI DOMANI: UN POLO DI ATTRAZIONE DELLA

RESPONSABILITÀ

La professione infermieristica, essendo una professione di servizio, impone una lettura dell'autonomia e

della responsabilità prioritariamente all'interno del rapporto con il cliente. Il prendersi cura della persona,

considerare l'utente come "soggetto" aiutandolo ad acquisire la libertà nell'assumere responsabilmente la

propria cura è la base fondamentale dell'assistenza infermieristica. Ma come si è evoluta la domanda di

salute negli ultimi anni nei Paesi Occidentali?

L'aumento delle aspettative di vita e delle malattie croniche pone in evidenza il problema della perdita di

autonomia delle persone, intesa non solo come riduzione dell'autosufficienza ma anche come un insieme di

fattori che compromettono lo stato di salute. Tutti fattori che potremmo definire "la patologia della

modernità" e che sembra traggano origine da stili di vita caratterizzati da isolamento, solitudine, carenze

comunicative che sono responsabili di problemi sul piano relazionale.

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Il nucleo familiare tende a diventare sempre più piccolo, cosicché il paziente di domani, soprattutto se

anziano, potrà contare su un numero ridotto risorse familiari.

Potremmo quindi classificare in quattro punti i cambiamenti dei problemi dell'utente di domani:

La rivoluzione socio-demografica;

La crescente incidenza delle malattie cronico-degenerative;

La comparsa di nuove stratificazioni sociali nell'uso e consumo delle strategie di cura;

Le attese sollecitate da nuove tecnologie e da nuovi problemi di salute.

Inoltre il cliente:

Mette e metterà in crisi lo schema tradizionale di relazione asimmetrica con il personale sanitario;

Esige ed esigerà l'individuazione di una nuova modalità relazionale che è rappresentata dalla

"contrattazione";

Afferma progressivamente la sua autonomia e un atteggiamento critico rispetto alle indicazioni terapeutiche

prescritte.

Si delinea quindi, un'utenza più attiva nella scelta, che chiede professionisti seri e credibili in grado di

coinvolgerli.

Ed è proprio in questa complessità che trova ampio spazio l'autonomia del professionista.

La relazione assistenziale si instaura in momenti particolari, spesso legati ad uno sconvolgimento della vita

dell'utente ed è in questo contesto che l'infermiere può e deve esplicitare la propria professionalità e la sua

competenza intesa come "azione autonoma e responsabile" con il fine di:

Aiutare una persona a riprogettarsi ovvero informare ed educare l'utente a degli stili di vita migliori, ad una

qualità di vita migliore oppure cercare di accompagnarlo verso la morte;

Aiutare una persona ad avere sempre la possibilità di fare un progetto:ad esempio le persone in coma, gli

anziani ecc.;

Aiutare una persona a progettare o a decidere per se stesso: ad esempio tutte le persone che non sono più

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in grado di decidere per sé o che momentaneamente non possono farlo possono e devono essere

consigliate dall'infermiere.

L'infermiere esprime quindi competenza quando, esercitando la sua autonomia, riesce a creare delle

condizioni in cui sia sostenuta e sviluppata l'autonomia della persona che sta assistendo.

LA RESPONSABILITÀ INFERMIERISTICA TRA LA SPECIFICITÀ E L'INTEGRAZIONE

Parlando di responsabilità ci si riferisce anche al rapporto che esiste fra la specificità (indispensabilità) di una

competenza professionale e la sua contemporanea relatività, determinata dalla necessità di integrarsi con

altre figure professionali, non essendo il problema di salute rivendicabile come campo esclusivo.

Parlando di indispensabilità possiamo dividerla in due: quella "sancita" e quella "riconosciuta".

L'indispensabilità "sancita" della professione e delle sue responsabilità è quella sancita dalle norme

giuridiche e che richiama ogni infermiere al senso dell'esistenza della stessa professione.

L'indispensabilità "riconosciuta" è quella derivante dall'esercizio visibile della responsabilità nel quotidiano

che coinvolge personalmente l'infermiere e lo richiama ad assumersi delle responsabilità di fronte all'utente.

È proprio su questo secondo punto che l'infermiere dimostra ogni giorno la capacità di qualificare la

competenza, di gestire la responsabilità e di definire la sua autonomia in un momento in cui non esistono

più dei "confini" che senza dubbio limitavano di molto l'esercizio delle professione e l'assistenza verso le

persone.

L'infermiere oggi segue i profili professionali, i protocolli operativi con lo scopo di mettere la persona

assistita nelle condizioni di:

Constatare che, di fronte alla necessità di aiuto, l'infermiere è in grado di interpretare la richiesta e di attivare

le risorse necessarie;

Fare in modo che la persona assistita sia in grado di poter partecipare alle decisioni ed abbia la possibilità di

poter esprimere il proprio consenso rispetto a scelte che la riguardano direttamente;

Percepire l'infermiere come responsabile dei risultati ottenuti (ovviamente per quanto riguarda le sue

competenze).

Responsabilità vuol dire, come già detto prima, saper cooperare con altre figure professionali con diverse

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competenze ma con obiettivi comuni.

Relatività ed integrazione implicano dunque il riconoscimento e la definizione del campo d'azione comune

su cui le diverse professionalità operano con la propria specificità.

Si può cominciare a parlare oltre che di profilo di competenza del singolo professionista, anche di profilo di

cura dell'utente intendendo con questo termine una visione standard delle necessità prioritarie della persona

assistita in relazione al suo problema di salute, esplicitando le azioni necessarie ed evidenziando i risultati

attesi. L'infermiere in questo modo ha la possibilità di concentrarsi sulla realtà del singolo utente riuscendo

a personalizzare al meglio l'assistenza.

LA DISCREZIONALITÀ DECISIONALE

Nel quotidiano esercizio della professione, l'infermiere si trova spesso a dover prendere decisioni da solo ed

anche se esistono dei protocolli operativi o delle linee guida, la decisione assistenziale finale non è sempre

facile da prendere essendo l'infermiere un essere umano.

Prendere delle decisioni non è quindi facile ne viene usata sempre solo la ragione per farlo poiché in certi

contesti assistenziali l'operatore può essere influenzato da convinzioni personali sulla vita, sulla felicità, sul

futuro.

Dovrebbe essere l'utente a decidere, a prendere delle decisioni che lo riguardano da vicino poiché non

dimentichiamoci che il nostro concetto di "qualità della vita" potrebbe essere profondamente diverso da

quello dell'utente.

È quindi fondamentale che il vero professionista di fronte a certe situazioni non si domandi solo se "sono

in grado di" ma anche "a chi giova quello che sto facendo"; in questo modo prendere decisioni, diventa

anche un'operazione culturale ed etica che richiede uno spessore professionale che la formazione e

l'organizzazione possono sostenere e sviluppare con vigore.

LAVORO MULTIPROFESSIONALE E LAVORO IN RETE

Il lavoro multiprofessionale è più o meno importante a seconda della tecnicità che caratterizza l'attività

professionale. Un infermiere che lavora in sala operatoria ad esempio ha sicuramente una ridotta influenza

sul risultato complessivo della presa in carico della persona assistita e sente meno la necessità di prendere

decisioni integrate.

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Un'assistenza dove prevale di più la sfera umanistica, è un'assistenza dove prevale di più la ricerca del lavoro

multiprofessionale e per fare questo si presuppone che l'équipe sia evoluta intellettualmente e culturalmente

e si richiede ad ogni componente del gruppo coinvolto nella discussione di essere intellettualmente pronto

ad accettare il dibattito, a lasciarsi influenzare, a cambiare idea, se gli si presenta un'argomentazione a cui

non aveva precedentemente avuto accesso.

Bisogna inoltre abituarsi a respingere la logica che vede la validità di una posizione solo in funzione della

posizione gerarchica di coloro che la sostengono.

Il lavoro multiprofessionale è quindi indispensabile per garantire un'azione assistenziale efficace soprattutto

se ci riferiamo a processi assistenziali globali come ad esempio un utente a domicilio.

Parliamo di lavoro in rete quando, partendo da un problema specifico, definiamo le integrazioni necessarie

per garantite continuità nei percorsi e le interrelazioni tra le funzioni dei servizi coinvolti, a vantaggio di un

miglior trattamento dei problemi di salute della persona o della comunità.

Ci devono essere dei legami contrattuali chiari tra i servizi ed i professionisti in essi coinvolti devono avere

delle competenze affinché possano:

Integrarsi con altre professionalità;

Garantire continuità;

Utilizzare metodi e strumenti multiprofessionali;

Promuovere il self-care;

Educare il cittadino e la sua famiglia.

Il professionista deve cercare di entrare in empatia con l'utente, deve cercare di mettere in pratica le sue

competenze, deve realizzare dei progetti di lavoro con il fine di:

Definire meglio i risultati che si intendono perseguire e i processi di lavoro che si vogliono attivare;

Favorire la valorizzazione delle competenze specifiche;

Rendere espliciti i livelli di responsabilità dei singoli;

Obbligare a porsi costantemente la domanda di senso di ciò che si sta facendo.

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È in questa maniera che il livello assistenziale cresce di qualità ed il professionista diventa veramente

responsabile.

La responsabilità.

L'art. 1 della legge 26 febbraio 1999 n. 42 ed il codice deontologico degli infermieri approvato nel gennaio

2009 mostrano una straordinaria convergenza di carattere lessicale per quanto riguarda il tema generale

della"responsabilità dell'infermiere".

Analizziamo il termine responsabilità definendone il concetto in generale. La parola responsabilità ha, infatti, un

duplice significato: non solo quello di essere chiamati a rispondere ad una qualche autorità di una condotta

professionale riprovevole, ma anche quello di impegnarsi per mantenere un comportamento congruo e

corretto. L'aspetto primo indicato della responsabilità corrisponde ad un concetto "negativo" del termine

(essere chiamati a rispondere, magari in giudizio penale, quando ormai l'errore o l'omissione è stato

commesso), in contrapposizione a quello "positivo" dell'essere responsabili, dell'assumersi cioè le

responsabilità che l'esercizio professionale comporta.

Tabella I - l'ambivalenza del termine responsabilità

Ottica positiva

Ottica negativa

Coscienza degli obblighi connessi con lo svolgimento di un incarico

Essere chiamati a rendere conto del proprio operato; colpevolezza

Impegno dell'operatore sanitario ex ante

Valutazione da parte di un giudicante ex post

Considerato il peculiare significato che assume in relazione all'esercizio della professione il termine

responsabilità inteso in senso positivo, occorre indicare come si concretizzi una siffatta responsabilità, quali

siano cioè i principi ai quali conviene ispirarsi per raggiungere l'obiettivo dell'essere responsabili nella

condotta professionale. In generale, si può affermare che la condotta professionalmente responsabile

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discende dal rispetto di quanto indicato nei tre punti seguenti:

1) Presupposti scientifici delle attività e delle funzioni proprie della professione;

2) Valori etici condivisi ed indicazioni che derivano dalla coscienza personale;

3) Norme di riferimento.

In merito al punto 3, si rimanda alla tabella II che fornisce indicazioni, sulle norme di riferimento dalle

quali scaturiscono, a vario titolo, ambiti di responsabilità diversificati.

Tabella II - Ambiti normativi della responsabilità

Ambito di riferimento

Fondamentali fonti normative

Penale

Codice penale

Civile

Codice civile

Amministrativo-disciplinare

Varie: ad es. Legge 833/78, D.P.R. 761/79, D.L.vo 502/92, D.L.vo 29/93

e rispettive modificazioni e/o integrazioni

D.P.R. 13 marzo 1992

D.M. 739/94

Deontologico-disciplinare

Codice deontologico degli infermieri

Etico

Valori etici

Della responsabilità in relazione alla professione infermieristica si discute in modo sistematico a partire dalla

pubblicazione, nella Gazzetta Ufficiale n. 50 del 2 marzo 1999, della legge 26 febbraio 1999 n. 42

"Disposizioni in materia di professioni sanitarie"; in realtà, la discussione, in convegni, congressi, riunioni di

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studio era già stata avviata. Nel secondo comma dell'art. 1 della legge, compare proprio il sostantivo

responsabilità. Il comma 2 richiama "il campo proprio di attività e di responsabilità delle professioni

sanitarie", fra le quali vi è evidentemente anche quella infermieristica.

Una siffatta indicazione circa l'esistenza di una responsabilità anche dell'infermiere ha indotto qualcuno a

porsi domande: nasce la responsabilità professionale dell'infermiere che prima non esisteva? Oppure vi è

ora una diversa connotazione della responsabilità dell'infermiere rispetto a prima? In realtà questo richiamo

alla responsabilità operato dalla legge 42 non può considerarsi, in relazione alla professione infermieristica,

come un’indicazione normativa nuova. A prescindere dalle avvenute, per quanto infrequenti, pronunce

giurisprudenziali in punto di responsabilità, colposa e dolosa, dell'infermiere, ed a prescindere da

provvedimenti e sanzioni deontologiche ed amministrative in genere, fatti che stanno, tutti, a dimostrare

l'esistenza di una responsabilità dell'infermiere nell'esercizio della professione, non sono rilevabili, anche dal

punto di vista meramente lessicale, in questa legge 42 del 1999, novità significative. Proprio il concetto di

responsabilità, con riferimento alla professione infermieristica, ricorreva, infatti, anche all'interno di altre

norme dello Stato. Si tratta delle seguenti. La prima fonte normativa, in ordine cronologico, è il D.P.R. 13

marzo 1992 "Atto di indirizzo e di coordinamento alle Regioni ... In materia di emergenza sanitaria", che

testualmente, all'art. 4 ("Competenze e responsabilità nelle centrali operative"), secondo comma, prevede che

"la responsabilità operativa è affidata a personale infermieristico professionale." Pur se riferita alla dimensione

operativa, è la prima volta che compare esplicitamente la parola "responsabilità" in rapporto alla professione

infermieristica. Il concetto di responsabilità è ripreso nel Decreto del Ministero Sanità 14 settembre 1994

"Regolamento concernente l'individuazione della figura e del relativo profilo professionale dell'infermiere";

l'art. 1 del D.M. recita "l'infermiere è l'operatore sanitario...responsabile dell'assistenza generale

infermieristica". Qui la responsabilità è contemplata di portata più ampia, investendo globalmente tutto il

piano assistenziale.

Nella legge 42, quindi, il concetto di responsabilità compare ormai per la terza volta in una norma dello Stato,

il che rappresenta quindi più una conferma che una novità. Sta comunque, di fatto, che detta "conferma",

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vissuta come una novità, ha sollecitato una grande attenzione sul significato da dare al richiamo alla

responsabilità dell'infermiere operato da queste norme dello Stato. Tuttavia la normativa dello Stato, anche

considerando il sopra menzionato D.P.R. del 1992, non è stata particolarmente tempestiva nel citare

esplicitamente la responsabilità dell'infermiere, essendo stata preceduta, nel 1977, dalle indicazioni del

codice deontologico degli infermieri, il cui punto 6 richiamava la "responsabilità" dell'infermiere, indicandola

come "autonoma", ma correlandola alla collaborazione attiva con i medici e con gli altri operatori socio-

sanitari. Storicamente, è dunque ben documentato uno specifico interesse del codice deontologico degli

infermieri proprio al tema della "responsabilità", quando di questo termine, in rapporto alle professioni

sanitarie non mediche, non risulta traccia nelle leggi dello Stato se non in epoca di quindici anni successiva.

Dalla lettura degli articoli riportati nel Codice Deontologico, emerge pacificamente che il concetto è usato

sempre nella sua accezione positiva, quella cioè dell'assumere, anche con le pertinenti iniziative, una

condotta congrua rispetto ai bisogni della persona assistita. Anche la legge 42 del 1999 si esprime

testualmente in modo da far risaltare il valore positivo da conferire al termine responsabilità.

L’art. 1 della legge 42 colma il vuoto lasciato dall'abrogazione del mansionario e della concezione del ruolo

ausiliario di talune professioni sanitarie, indicando che "il campo proprio di attività e di responsabilità" è

determinato dai contenuti:

­ Dei decreti ministeriali istitutivi dei relativi profili professionali;

­ Degli ordinamenti didattici dei rispettivi corsi di diploma universitario;

­ Degli ordinamenti didattici dei rispettivi corsi di formazione post-base;

­ Degli specifici codici deontologici.

È soprattutto da notare che, nell'indicare come colmare il vuoto, la legge 42 si esprime con modalit

particolarmente appropriata ed attenta. In altre parole, la legge 42 oltre a fornire le precisazioni necessarie su

riferimenti normativi dai quali ricavare i contenuti dell'esercizio delle professioni, ha mostrato, qua

atteggiamento tenere nel momento in cui si assumono queste funzioni. In particolare, l'art. 1 della legge 4

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associa i sostantivi attività e responsabilità; tale accostamento non è casuale ed induce ad approfondire l

riflessione. E' chiarissimo che responsabilità non è qui considerata solo come attitudine ad essere chiamati

rispondere per errori od omissioni nell'esercizio della professione, ma anche come capacità di rispondere a

bisogni dell'assistito, mantenendo un comportamento congruo e corretto. Analogamente attività non va intes

come semplice esecuzione di atti, bensì come stimolo ad attivarsi, cioè ad assumere una condotta attiva,

prendere le iniziative necessarie. L'associazione dei due termini rafforza quindi concetti analoghi e sta i

definitiva a sollecitare l'impegno che il professionista sanitario deve spontaneamente assumere di fronte a

una situazione di bisogno, al di là delle richieste esplicite dell'assistito. Si tratta di una concezione che no

mette più al primo posto come avveniva in passato il timore di trovarsi a fare ciò che invece non

strettamente consentito, ma che è caratterizzata dalla consapevolezza del dover fare, ovviamente nell'ambit

di intervento della singola professione, compiutamente tutto il necessario. Anche il codice deontologico

molto attento a richiamare il fatto che l'infermiere deve mantenere un comportamento attivo, che pass

attraverso non solo le risposte alle domande di salute esplicitamente formulate dagli assistiti, ma anche quell

inespresse, ma percepibili.

CAPITOLO SESTO

6. FORMAZIONE UNIVERSITARIA E DIRIGENZA: UNA SFIDA PER IL FUTURO

La professione infermieristica si è dimostrata sufficientemente matura e forte per chiedere

responsabilmente l'adozione di scelte che possano risultare utili a se e ai cittadini che.

L'inserimento nell'università del corso di studi infermieristici significa eliminare definitivamente le diversità

che il precedente iter formativo aveva e sancisce invece l'effettivo riconoscimento dell'importanza e della

specificità della disciplina infermieristica.

Solo nell'università l'assistenza infermieristica può affermarsi come Disciplina; infatti l'infermieristica può a

tutto titolo configurarsi una disciplina in quanto ne possiede tutte le caratteristiche.

La formazione alla professione non deve solo fornire un elevato numero di conoscenze e di informazioni,

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ma deve creare nel futuro professionista la capacità di un giudizio autonomo che gli permetta di prendere

decisioni ponderate, responsabili, tenendo conto delle conoscenze acquisite.

Nel momento formativo quindi, devono essere stimolate la creatività e l'iniziativa individuale; la revisione

del curricola formativo deve portare alla puntualizzazione dello "specifico" professionale: ciò è possibile

solo all'interno dell'università. La nuova formazione infermieristica deve essere orientata da un preciso

quadro concettuale, da un preciso modello infermieristico.

In secondo luogo l'Università dovrà prevedere quanti infermieri docenti dovranno essere adeguatamente

preparati ad affrontare un nuovo progetto di formazione. Si è stabilito che il rapporto di un infermiere

docente ogni quindici studenti è ottimale ma non è sufficiente poter disporre del numero ottimale per

cambiare l'attuale formazione e di conseguenza il livello della qualità dell'assistenza: occorrono docenti

capaci, preparati e motivati.

Inoltre l'attività tutoriale deve garantire che il tirocinio non mimetizzi una forma di lavoro come spesso

accadeva una volta. Infatti si devono inventare nuove modalità pur valorizzando il patrimonio di esperienza

che in settant'anni le scuole professionali hanno accumulato.

Le scuole istituite nel 1925 sono da ritenersi all'avanguardia se poste in relazione al momento della loro

nascita; esse si ponevano l'obiettivo di preparare un infermiere che sapesse "fare" l'infermiere; il nuovo

obiettivo generale della formazione dovrà porsi l'obiettivo più ampio di preparare un infermiere che sappia

anche "essere e divenire" un infermiere.

La continuità nella docenza è estremamente importante e la scelta universitaria è da ritenersi quanto mai

opportuna anche sotto questo punto di vista.

Un altro punto fondamentale strettamente collegato alla formazione universitaria è la dirigenza

infermieristica.

Gli infermieri, ai quali è stato recentemente riconosciuto il ruolo di professionisti sanitari, garantiscono

infatti ai cittadini il soddisfacimento del bisogno di assistenza infermieristica, operano in stretto contatto

con altri professionisti della sanità e collaborano con tutte le componenti del sistema per definire e

perseguire progetti assistenziali. All'interno dell'azienda la loro è la presenza più diffusa e numericamente

più consistente e tutti insieme rappresentano "la sanità visibile", anche perché operano in funzione di un

bene\valore come la salute che ha un alto contenuto emotivo oltre che sociale.

Gli infermieri sono portatori di un loro sapere, di una loro capacità di individuare il bisogno assistenziale e

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di risolvere il problema; l'istituzione di una dirigenza infermieristica appare quindi indispensabile sia per

l'organizzazione di una componente professionale così articolata, sia per sostenere, valorizzare e

concretizzare le proposte e le potenzialità della compagine professionale.

Nessuno meglio di un appartenente alla professione può riuscire a mettere in risalto le potenzialità già

espresse, così come quelle ancora non valorizzate.

Invece gli infermieri sono stati costantemente sottostimati e spesso mal "utilizzati", sacrificando così non

solo le loro esigenze di riconoscimento professionale, ma anche il contributo che in termini di qualità,

efficienza ed efficacia avrebbero potuto portare all'organizzazione del lavoro.

Si può cambiare tutto questo con la creazione appunto di figure quali l'infermiere dirigente dell'azienda ed i

responsabili infermieristici di Dipartimento.

Non tutti sono però d'accordo con questo nuovo disegno di riorganizzazione dell'assistenza infermieristica:

alcune associazioni mediche ad esempio si sono opposte poiché temono una intromissione dell'infermiere

nel processo diagnostico-terapeutico.

Un servizio infermieristico gestito da infermieri significa una corretta gestione delle risorse, procedure

adeguate di selezione del personale ed una giusta definizione degli obiettivi e dei processi per raggiungerli,

significa anche una valutazione dell'attività assistenziale continua con la possibilità di attuare dei meccanismi

premianti ed incentivanti.

Ci sono già state delle sperimentazioni in Italia a partire dal 1996 come ad esempio all'azienda Ospedaliera

di Bologna Policlinico S.Orsola-Malpighi con degli ottimi risultati: oggi un infermiere, legato al direttore

generale da un rapporto fiduciario e agli altri dirigenti da una logica condivisa di gestione orientata ai

risultati, siede alla pari al tavolo della strategia e della programmazione e può, in prima persona non solo

rappresentare le necessità dell'assistenza infermieristica e dei professionisti che vi lavorano, ma anche

guardare più in là, prefigurando le risposte ai problemi posti dalla continua rimodulazione

dell'organizzazione determinata da interventi legislativi o, più semplicemente, dai mutamenti della domanda

sanitaria.

Sono nati i Dipartimenti, e gli infermieri dirigenti hanno la possibilità di organizzare l'assistenza

infermieristica ed hanno la possibilità di confrontarsi con altre direzioni e con altri colleghi infermieri alla

ricerca di soluzioni ottimali per raggiungere gli obiettivi aziendali.

I risultati sono stati ben presto visibili: la risorsa infermieristica, che potendo finalmente esprimersi sui

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propri modelli e contenuti culturali, è cresciuta a ogni livello sia quello professionale che quello di

coordinamento che quello direzionale. Ci sono stati effetti positivi anche nell'uniformità delle prestazioni

assistenziali raggiunte nelle varie unità operative, prima concepite come compartimenti stagni anche sotto il

profilo dell'impiego delle risorse professionali. E' stato impostato un modello di impiego flessibile degli

infermieri che, partendo dalle competenze di ciascuno e compatibilmente con esse, vengono impiegati in

vari servizi e situazioni. In questa maniera non solo si garantisce uniformità nel livello delle prestazioni , ma

si ha anche un benefico sviluppo degli scambi diretti e quindi delle conoscenze tra i singoli professionisti.

Si ha inoltre una migliore organizzazione del lavoro: le visite mediche ad esempio avvengono ad orari

concordati tra infermieri e medici, con un coinvolgimento diretto degli infermieri professionali piuttosto

che del capo-sala, in quanto direttamente interessati alla pianificazione assistenziale.

Si lavora assieme senza imporre regole, ma cercando di trovare assieme delle soluzioni con il fine di

migliorare sempre più l'assistenza verso il cittadino.

Non si privilegia più l'anzianità come valore, ma si valorizza e si premia la professionalità. Non è più

pensabile come una volta che grazie all'anzianità di servizio certi infermieri si sottraggano a certe prestazioni

che pure richiedono precise competenze ed esperienze, pretendendo che vengano svolte da infermieri

appena entrati in servizio. Questi automatismi dannosi, con un buon lavoro di organizzazione sui turni,

possono essere evitati, ovviamente tutto a vantaggio dell'assistenza.

Credo che l'esperienza dell'ospedale bolognese sia stata molto positiva e possa essere da esempio per l'intera

categoria e soprattutto per i politici che hanno il compito di promulgare le leggi.

La dirigenza infermieristica, che il Parlamento italiano stenta tanto ad assumere, non è orientata a soddisfare

le richieste di carriera di poche centinaia di infermieri, ma si pone l'obiettivo di poter far conto su

professionisti che oltre a partecipare alle scelte aziendali, sappiano orientare, coordinare, sostenere, creare

condizioni, valorizzare i professionisti clinici che seguono piani di assistenza.

Parlando di dirigenza infermieristica, non ci riferiamo al solo dirigente infermieristico, ma ad un sistema

articolato a vari livelli di complessità partendo dal direttore infermieristico fino ai dirigenti di unità

operative.

Per l'Azienda sanitaria significherebbe poter disporre di un direttore dell'assistenza infermieristica che può

portare agli occhi del gruppo dirigente il particolare modo di vedere i problemi assistenziali, tipico della

cultura infermieristica, in grado di individuare le priorità assistenziali, di proporre soluzioni organizzative

congruenti con gli obiettivi aziendali e con quelli professionali.

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Per gli infermieri significherebbe partecipare alle strategie e alle scelte, vedere il proprio lavoro valorizzato e

utilizzato per la sua specificità, significherebbe diventare una presenza reale nel sistema e non solo di

supporto.

L'infermiere che lavora nell'unità operativa sarebbe supportato dall'infermiere dirigente e, all'interno di

strategie condivise con il direttore infermiere, avrebbe la possibilità di affidare ad operatori specifici le

attività di supporto assistenziale, conservando l'esclusività dell'individuazione del bisogno d'assistenza

infermieristica e del processo di risposta alla stessa.

Per affrontare quindi un'attività tanto complessa quale quella infermieristica è necessaria un'adeguata

formazione e per mantenere le competenze adeguate e per fare in modo che si evolvano con le innovazioni

scientifico tecnologiche, è necessaria una preparazione adeguata alle esigenze.

L'infermiere oggi si forma in università secondo un ordinamento didattico ben preciso in accordo con le

linee europee. Il passaggio in università è stato un cambiamento importantissimo per la professione sia

perché consente una maggiore "spendibilità" del percorso di studi compiuti, sia perché dà un diverso

riconoscimento sociale, sia perché demolisce la vecchia consuetudine secondo cui il tirocinio era forza

lavoro oltre che momento di apprendimento.

La formazione di base però non può bastare e sono necessari sia l'aggiornamento individuale, sia quello

promosso dalle Aziende sanitarie, sia la formazione specializzante la quale però, nonostante sia prevista dal

decreto 739 del 1994, non ha ancora trovato una regolamentazione da parte del Ministero della Sanità.

L'ulteriore livello di formazione che oggi sarebbe necessario alla professione è quello della laurea in Scienze

infermieristiche il cui cammino però risulta essere pieno di ostacoli. La laurea sarebbe ovviamente

sequenziale e successiva al diploma e fornirebbe all'infermiere le capacità di:

Esprimere competenze avanzate di tipo assistenziale, educativo e preventivo in risposta ai problemi prioritari di salute della

popolazione, consentendo così un più qualificato esercizio clinico della professione;

Applicare e valutare l'impatto di diversi modelli teorici dell'assistenza infermieristica e di programmare, gestire e valutare i

servizi infermieristici per migliorare la qualità dell'assistenza (pianificazione, organizzazione,direzione, controllo) aprendo così

la prospettiva in ambito dirigenziale sino a giungere al livello di direttore infermieristico di azienda;

Apprendere specifiche metodologie didattiche per la formazione di base complementare e permanente degli infermieri dotando i

laureati di conoscenze adeguate per la funzione docente;

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Utilizzare metodi e strumenti della ricerca.(23)

La laurea è quindi necessaria alla professione e determina il definitivo affermarsi dell'autonomia oltre che

della responsabilità professionale.

La formazione di base, la laurea e la formazione complementare costituiscono dunque un fondamento per

l'efficace esercizio della professione infermieristica la quale deve potersi articolare a vari livelli sostenuti

dall'esperienza e dalla formazione.

Oggi l'infermiere deve basarsi non solo sull'esperienza ma anche sull'acquisizione di competenza, di

specializzazione, della laurea ed il suo "nuovo" lavoro non solo va riconosciuto ma va anche retribuito.

L'infermiere che sceglie la carriera dirigenziale deve possedere il diploma di laurea ed avere sia un mandato

formale all'interno dell'organizzazione aziendale sia un mandato sociale proponendosi come vera e propria

risorsa per il sistema e per i cittadini.

CONCLUSIONI

Con tutti i cambiamenti avvenuti negli ultimi anni, possiamo dire che la stagione della responsabilità per gli

infermieri è in pieno sviluppo. La nostra professione è fondamentale all'interno di un Servizio Sanitario che

vuole porre nella qualità il suo punto forte e che pone il cittadino-utente al centro del suo interesse.

È indispensabile quindi un sempre maggior sviluppo della competenza e delle condizioni di lavoro adeguate

tenendo sempre presente dei principi di riferimento che si fondano:(24)

Sulla considerazione dell'utente come persona, dotato quindi di autocoscienza e autodeterminazione;

Sulla specificità infermieristica che dialoga con altre professionalità in una logica di integrazione;

Su una operatività quotidiana fondata sul lavoro per processi più che per atti;

Sulla ricerca, innovazione e sperimentazione di strategie assistenziali che nel campo tecnico, relazionale ed educativo consentano

all'infermiere di offrire prestazioni efficaci ed appropriate;

Su un contesto organizzativo di tipo aziendale che fa della qualità il concetto portante, e dell'accreditamento

istituzionale\professionale il principale sistema di protezione dell'utenza e di stimolo a un miglior funzionamento dei servizi ed

all'approfondimento delle competenze dei professionisti.

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Il superamento del mansionario è indubbiamente una vera e propria conquista che permette all'infermiere il

riconoscimento del merito, la responsabilizzazione e la valorizzazione delle funzioni gestionali e soprattutto

la possibilità di fare carriera.

L'assistenza agisce oggi in un contesto multidimensionale, nel quale la complessità obbliga a ripensare la

conoscenza secondo un'organizzazione del sapere trasversale e interdisciplinare.

Principi come il diritto alla vita, alla sicurezza, all'integrità personale, alla libertà di decisione e di scelta dei

cittadini, che sono costantemente messi in discussione, devono trovare negli infermieri risposte coerenti e

deontologicamente fondate. In questo nuovo contesto "l'infermiere care manager" assume particolare

importanza come mediatore capace di prendersi cura e di rispettare nella loro globalità le esigenze della

persona assistita, che richiede un servizio personalizzato.

L'infermiere care manager coordina le cure erogate con il fine di mantenere e ristabilire il benessere

dell'individuo grazie alle sue competenze specifiche, alle sue conoscenze ed alle responsabilità che si

assume.

Ciò richiede il passaggio da una condizione di "eteronomia" a quella di "autonomia professionale" cercando

di superare le innumerevoli difficoltà che il lavoro quotidiano presenta mantenendo sempre viva la

riflessione e lo stimolo, dimostrando dinamicità ed orgoglio professionale ed essendo consapevoli che

apparteniamo ad una professione che può fare veramente tanto per il prossimo.

Vorrei concludere questa mia analisi sulla professione infermieristica citando un pezzo tratto dal "Piccolo

Principe" di Antoine de Saint-Exupèry:

"...poi soggiunse:

<< Và a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo. Quando ritornerai a dirmi addio, ti regalerò un segreto>>.

Il piccolo principe se ne andò a rivedere le rose.

<<Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente>>, disse. <<Nessuno vi ha addomesticato, e voi

non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho

fatto il mio amico ed ora è per me unica al mondo>>.

E le rose erano a disagio.

<<Voi siete belle, ma siete vuote>>, disse ancora. <<Non si può morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante

crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perché è lei che ho innaffiata. Perché è lei

che ho messo sotto la campana di vetro. Perché è lei che ho riparata col paravento. Perché su di lei ho ucciso i bruchi /salvo i

due o tre per le farfalle). Perché è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perché è la mia

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rosa>>.

E ritornò dalla volpe.

<<Addio>>, disse.

<<Addio>>, disse la volpe. <<Ecco il mio segreto. E' molto semplice: non si vede bene che col cuore. L'essenziale è

invisibile agli occhi>>.

<<l'essenziale è invisibile agli occhi>>, ripeté il piccolo principe, per ricordarselo.

<<E' il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante>>.

<<E' il tempo che ho perduto per la mia rosa...>> sussurrò il piccolo principe per ricordarselo.

<<Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello

che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa...>>

<<Io sono responsabile della mia rosa...>> ripeté il piccolo principe per ricordarselo.(25)

ALLEGATI:

Disposizioni in materia professioni sanitarie

Il Profilo professionale

L'Ordinamento didattico

Il Codice deontologico

NOTE

1) ZIMMERN H., Infermiere patentate e inservienti, in: La nuova antologia, 16 settembre 1910

2) ibidem 1

3) CELLI A., La donna infermiera in Italia, in: La nuova antologia, 1 ottobre 1908, p.481

4) ibidem 3

5) BACCARANI U., Infermieri ed infermiere, Modena, Società tipografica modenese, 1909

6) ibidem 3

7) CORTINI A., l'infermiere laico, 15 aprile 1907

8) ibidem 5

9) ibidem 7

10) ibidem 5, Il manuale a cui fa riferimento è: PUGLIESI G., Manuale dell'infermiere

11) Disegno di legge sulle Stazioni municipali per le disinfezioni, sui locali di isolamento per le malattie

infettive, e sulle scuole per infermieri e disinfettori pubblici

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51

12) ibidem 5

13) ibidem 5

14) ibidem 5

15) EHRENREICH D.-ENGLISH B., Streghe, levatrici e infermiere, MONTHLY REVIEW nov\dic 1973

16) D.P.R. 5 aprile 1950 n° 221 - regolamento attutivo al DLCPS N° 233,46

17) Rivista "NOTIZIARIO", n°1, gennaio 1970

18) BRIGNONE R., Convegno regionale della Sardegna, 1983

19) GIUGNI G., Ipotesi e strategie per la programmazione didattica nella scuola, 1°ed. Teramo, GIUNTI e

LISCIANI EDITORI, 1984

20) PRANSTRALLER G.P., Sociologia delle professioni, CITTÀ' NUOVA EDITRICE, 1980, p.105\114

21) ibidem 20, p.115

22) Proposta da KLEMP (1980), da BOYATZIS (1982) e con una formulazione più compiuta da

SPENCER e SPENCER nel 1993

23) CARLI E., Relazione effettuata al Congresso nazionale IPASVI svoltosi a Rimini il 15,16,17 ottobre

1999

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