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Indice

1. Come si è giunti a questa riforma pag. 3

2. Il contenuto della riforma. Il nuovo Senato pag. 11

3. Le funzioni del nuovo Senato pag. 18

4. La modifica della ripartizione del potere legislativo tra Stato e Regioni

(forma di Stato) pag. 23

5. La forma di governo parlamentare. Non cambia, è già cambiata a

Costituzione invariata pag. 25

6. La maggioranza dispone dell’elezione degli organi di garanzia? pag. 29

7. Il potenziamento degli strumenti di democrazia diretta. Lo statuto delle

opposizioni pag.31

Conclusioni pag. 33

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1 Come si è giunti a questa riforma

A voler essere esaurienti occorrerebbe ricordare che fin dal 1983 si insegue questa

riforma costituzionale. Oggi siamo arrivati all’ultimo atto di quel percorso.

Non ne deriva per questo che si tratti di una buona riforma. Se è una buona riforma lo

si giudica soltanto dai contenuti, rapportati all’oggi. Infatti potrebbero essere stati

tutti cretini (mi sembra poco probabile); oppure potrebbe essere una riforma

invecchiata, superata dal tempo passato. È quanto tenteremo di verificare.

Le proposte del passato remoto

Sono quelle contemporanee alla nascita della Costituzione dell’1 gennaio 1948. Già

allora si dubitava che fosse una buona idea che due camere praticamente uguali – una

doppia ma quasi identica rappresentanza - facessero le stesse cose. Tanto che si

fecero tentativi di differenziazione territoriale del Senato (l’elezione “su base

regionale” del Senato). Si era inoltre consapevoli che si consentivano governi deboli,

totalmente in mano ai partiti rappresentati in parlamento. D’altra parte questo era

esattamente quello che si voleva, in modo che la DC potesse condizionare il PCI e

viceversa. Così (accordo Dossetti/ Togliatti) l’evoluzione è stata nel senso di

uniformare le due camere, anziché differenziarle.

Le proposte del passato prossimo

Sono quelle della Commissione Bozzi (1983-85), che riguardavano principalmente la

riduzione del numero dei parlamentari; la competenza della sola Camera per le leggi

ordinarie; la fiducia al solo Presidente del Consiglio; il potere del Presidente del

Consiglio di nominare e revocare autonomamente i ministri; più poteri dunque al

Governo, ma anche differenziazione delle due camere.

Anni dopo la Commissione De Mita-Iotti (1992-1994) propose di modificare il

rapporto Stato Regioni a favore delle regioni (mediante l’enumerazione tassativa

delle competenze statali), e di introdurre una forma di governo neo parlamentare

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(investitura del solo primo ministro, potere del solo primo ministro di nominare e

revocare i ministri, sfiducia costruttiva) con conseguente rafforzamento del potere del

Governo ma anche del primo ministro (non più soltanto Presidente del Consiglio), ma

non raggiunse nessun accordo su come si sarebbero dovute modificare le camere.

Un anno dopo (1995), in preparazione delle elezioni del 1996 (legge elettorale il

Mattarellum), escono le tesi dell’Ulivo, che confermano la linea del governo del

primo ministro (“Un governo che governa”), prevedono la sfiducia costruttiva per

stabilizzare la maggioranza, garanzie per le opposizioni (in previsione di un sistema

elettorale maggioritario), la Camera delle regioni e l’autonomia regionale nello

scegliere la forma di governo.

Nel 1997 si insedia la Commissione D’Alema (1997- 1998) che riscrive per intero

tutta la parte seconda della Costituzione e che finisce col modificare la forma di

governo, da governo del primo ministro (sempre un governo di tipo parlamentare) al

semi-presidenziale alla francese, che non è più un governo parlamentare1.

Fallita la Commissione D’Alema, il governo Berlusconi riesce a far approvare

una riforma (2005) che sarà poi bocciata nel referendum confermativo (2006). Il testo

costituzionale introduceva una forma atipica di governo, contrastante con i principi

del costituzionalismo. Perché produceva la concentrazione dei poteri in una sola

persona, il primo ministro, il quale riunisce su di sé il rapporto fiduciario, il potere di

scioglimento delle Camere, l’antiribaltone. Il sistema Berlusconi sottrae il primo

ministro ad ogni verifica fiduciaria da parte della sua maggioranza per i 5 anni di

durata del governo, dandogli un potere di vita e di morte sulla Camera politica. Una

soluzione ben diversa da quella dell’attuale riforma, in cui il potere di sfiduciare il

governo rimane.

1 Sono governi parlamentari quelli che necessitano della fiducia del Parlamento, che può sempre revocarla.

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Le proposte di questa legislatura (XVII°)

La legislatura attualmente in corso è nata il 15 marzo 2013 (prima seduta), le elezioni

del 2013 (con il Porcellum) non hanno prodotto una maggioranza, nel senso che il

primo partito (il PD) ha avuto la maggioranza alla Camera (con il premio), non al

Senato. E’ stato quindi necessario formare un governo di coalizione2.

L’incarico fu dato ad Enrico Letta con il compito di formare un governo di larga

coalizione. Le elezioni sono del febbraio, il governo si costituisce soltanto il 28 aprile

2013 (prima vi sono stati i tentativi di Bersani)3. Il governo Letta è stato sostenuto tra

gli altri inizialmente dal Popolo della Libertà, poi da Forza Italia; quindi soltanto dal

Nuovo Centro Destra (dal 16/11/2013), cui si è aggiunto il gruppetto di Verdini.

Alle dimissioni di Napolitano, per conclusione del suo settennato, la trattativa sul

nuovo presidente si inserisce in un contesto storico e politico complesso. Dopo due

clamorosi fallimenti (Marini e Prodi), solo la riconferma di Napolitano sembra a tutti

la soluzione, almeno temporanea. Giorgio Napolitano è stato quindi rieletto

Presidente della Repubblica con un’ampia maggioranza (738 voti su 1008 aventi

diritto).

Quando G. Napolitano parlò alla Camera (22 aprile 2013), si espresse in questi

termini:

2 Nella XVI Legislatura, elezioni politiche 13 e 14 aprile 2008 (dal 29 aprile 2008 al 23 dicembre 2012) vi fu la crisi del Governo Berlusconi IV (16 novembre 2011) e gli successe il Governo Monti (dal 16 novembre 2011 al 27 aprile 2013). Le elezioni politiche si tennero il 24 e 25 febbraio 2013, la legislatura (XVII) iniziò il 15 marzo 2013 con il premier Letta (dal 28 aprile 2013 al 21 febbraio 2014), quindi con il governo Renzi (dal 22 febbraio 2014).

3 L'appartenenza politica dei membri del governo Letta, considerate le variazioni successivamente intervenute, si può così riassumere: Partito Democratico (PD): presidente del Consiglio dei ministri, 8 ministri, 5 viceministri e 12 sottosegretari; Il Popolo della Libertà (PdL) (dal 16/11/2013): vicepresidente del Consiglio dei ministri, 4 ministri, 1 viceministro e 8 sottosegretari; Scelta Civica (SC): 1 ministro, 1 viceministro e 1 sottosegretario; Popolari per l'Italia (PpI): 1 ministro e 1 sottosegretario; Unione di Centro (UdC): 1 ministro senza portafoglio e 1 sottosegretario; Radicali Italiani (RI): 1 ministro; Indipendenti: 3 ministri, 2 viceministri e 5 sottosegretari.

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“Negli ultimi anni, a esigenze fondate e domande pressanti di riforma delle

istituzioni e di rinnovamento della politica e dei partiti - che si sono intrecciate con

un'acuta crisi finanziaria, con una pesante recessione, con un crescente malessere

sociale - non si sono date soluzioni soddisfacenti: hanno finito per prevalere

contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di

convenienza, tatticismi e strumentalismi. Ecco che cosa ha condannato alla sterilità o

ad esiti minimalistici i confronti tra le forze politiche e i dibattiti in Parlamento”.

Imputando il crescente rifiuto dei politici ai “tanti nulla di fatto nel campo delle

riforme”. E considerando “Imperdonabile la mancata riforma della legge elettorale

del 2005”.

Sul piatto vi era anche la necessità di riscrivere la legge elettorale. Era noto infatti che

la Corte costituzionale considerava incostituzionale il Porcellum, quanto meno per

“la norma relativa all'attribuzione di un premio di maggioranza senza che sia

raggiunta una soglia minima di voti o di seggi”. Poco dopo (17 maggio 2013) la

Cassazione rinvia la legge alla Corte. La sentenza n. 1/2014 della Corte ne dichiarerà

l’incostituzionalità.

Il Governo Letta aveva tra i suoi ministri un Ministro per le riforme costituzionali,

Gaetano Quagliariello. Evidente l’intenzione di procedere in questa legislatura,

tuttora in corso, con le riforme costituzionali, più che mai all’ordine del giorno dopo

il richiamo energico del Presidente della Repubblica. Il Ministro Quagliariello si reca

da Napolitano con i due presidenti delle competenti commissioni di Camera e Senato

(20 Maggio 2016). Nel Comunicato a fine incontro si legge: “Il colloquio al

Quirinale con il ministro Quagliariello e i presidenti delle Commissioni affari

costituzionali di Camera e Senato ha permesso di «verificare la comune volontà di

avviare senza indugio e di portare avanti in Parlamento un processo di puntuali

modifiche costituzionali».

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Il 29 maggio 2013 Camera e Senato approvano una mozione identica per l’avvio del

percorso delle riforme costituzionali, la mozione n. 1-56 Senato e n. 1-47 Camera. La

mozione impegna il Governo a presentare alle Camere un ddl costituzionale che

istituisca una procedura straordinaria, in deroga all’art. 138 Cost., per giungere alla

presentazione di un progetto di riforma da sottoporre all’Aula. Quanto al contenuto si

citano le questioni irrisolte ricordate dal Presidente del Consiglio Letta nel suo

discorso programmatico, forma di Stato, forma di governo, superamento del

bicameralismo paritario, riduzione del numero dei parlamentari e riforma elettorale

“coerente e contestuale”.

In attuazione degli indirizzi parlamentari il Governo pro tempore (Letta) presenta un

ddl cost. (AS 813), che dopo due passaggi positivi viene poi abbandonato per la

sopravvenuta crisi del governo4.

A questo punto vi erano disponibili sui temi istituzionali i lavori di due commissioni

di esperti: i “saggi” di Napolitano (Valerio Onida Presidente, Mario Mauro, Gaetano

Quagliariello, Luciano Violante,Enrico Giovannini) che consegnarono il loro

contributo il 12 aprile 20135; e quelli della Commissione Letta (35 professori

6), che

4 DDl costituzionale AS 813, approvato con modifiche e trasmesso alla Camera (AC 1359) concernente l’istituzione di una Commissione per la riforma costituzionale e della legge elettorale (su forma di Stato, forma di governo, superamento assetto bicamerale, riduzione numero dei parlamentari, nonché riforma legge elettorale coerentemente con le disposizioni costituzionali). La procedura costituzionale straordinaria prevedeva che si istituisse un Comitato bicamerale (composto di senatori e deputati) che avrebbe redatto la proposta di riforma costituzionale e avrebbe svolto il ruolo di referente, sia per la riforma cost. sia per la legge elettorale, davanti alle due camere. Le Commissioni prima di Camera e Senato erano escluse. Il testo fu approvato sia dal Senato che dalla Camera e poi di nuovo dal Senato (ottobre 2013) ma poi abbandonato per la crisi del governo LETTA.

5 Per stessa ammissione del presidente della Commissione politico-istituzionale Onida : “Sono inutili, servono a prendere tempo”.

6 Di seguito i nomi che compongono la commissione Letta: - Michele Ainis - Università Roma 3 - Augusto Barbera - Università di Bologna - Beniamino Caravita di Toritto - Università la Sapienza Roma - Lorenza Carlassare - Università di Padova - Elisabetta Catelani - Università di Pisa - Stefano

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consegna i suoi lavori il 18 settembre 2013. Nella relazione dei “saggi” ci si è

espressi all’unanimità per il superamento del bicameralismo paritario e a

maggioranza per un Senato di secondo grado che rappresentasse le regioni e i

comuni. Sulla funzione legislativa si è detto che vi sarebbero state delle leggi

necessariamente bicamerali e che per tutte le altre vi sarebbe stato il potere di

richiamo del Senato.

In questa legislatura dunque si lavora alacremente per la riforma ed alcune scelte

sembrano largamente condivise7.

In definitiva, nella legislatura in corso, che non si è ancora conclusa, non soltanto i

parlamentari hanno assunto solennemente l’impegno a portare in porto la riforma

Ceccanti - Università Roma 3 - Ginevra Cerrina Feroni - Università di Firenze - Enzo Cheli - Presidente Emerito Corte Costituzionale - Mario Chiti - Università di Firenze - Pietro Ciarlo - Università di Cagliari - Francesco Clementi - Università di Perugia - Francesco D'Onofrio - Università La Sapienza Roma - Giuseppe de Vergottini - Università di Bologna - Giuseppe Di Federico - Università di Bologna - Mario Dogliani - Università di Torino - Giandomenico Falcon - Università di Trento - Franco Frattini - Presidente Società Italiana per l'Organizzazione Internazionale - Maria Cristina Grisolia - Università di Firenze - Massimo Luciani - Università La Sapienza Roma - Stefano Mannoni - Università di Firenze - Cesare Mirabelli - Presidente Emerito Corte Costituzionale - Anna Moscarini - Università della Tuscia - Ida Nicotra - Università di Catania - Marco Olivetti - Università di Foggia - Valerio Onida - Presidente Emerito Corte Costituzionale - Angelo Panebianco - Università di Bologna - Giovanni Pitruzzella - Università di Palermo - Anna Maria Poggi - Università di Torino – Carmela Salazar -Università di Reggio Calabria - Guido Tabellini - Università Bocconi di Milano - Nadia Urbinati - Columbia University - Luciano Vandelli - Università di Bologna - Luciano Violante - Università di Camerino - Lorenza Violini - Università di Milano - Nicolò Zanon - Università di Milano.

7 Altri contributi di poco precedenti erano quelli del 2° governo Prodi (2006-2008), in cui vi era

stato il tentativo di Violante e di un gruppo di parlamentari del PD, che produsse un testo che

venne approvato in Commissione I° Affari costituzionali (in cui c’erano anche Romano Prodi e

Roberto Zaccaria), noto come “testo Violante”. Quel testo prevedeva un senato delle autonomie

eletto indirettamente e il potere del Presidente del Consiglio di revocare i ministri. La brevità del

2° Governo Prodi non permise di proseguire. Nel 2012 inoltre era stato prodotto dalla

Commissione I del Senato un ulteriore testo che distingueva le competenze della Camera da quelle

del Senato e riduceva nettamente il numero dei parlamentari. Il testo fu sabotato dal PDL, che

volle introdurre l’elezione diretta del Presidente della Repubblica (una sorta di

semipresidenzialismo). E la cosa si fermò lì.

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costituzionale sui punti ricordati, ma hanno dato ufficialmente al governo il compito

di esercitare l’iniziativa.

La presentazione da parte del Governo Renzi, succeduto al Governo Letta, del

disegno di legge costituzionale su cui siamo chiamati a votare – come modificato dai

lavori parlamentari – non costituisce dunque un colpo di testa di un Presidente del

Consiglio che si atteggia a costituente o che – non essendo passato attraverso il voto

popolare – cerca una legittimazione grazie al successivo referendum. Bensì

l’adempimento di un incarico largamente condiviso. Salvo naturalmente esaminare e

discutere le singole soluzioni sui temi oggetto della riforma.

Quanto alle posizioni del Pd, partito di maggioranza relativa nelle ultime elezioni,

basterà dire che Bersani nelle primarie per diventare segretario del Pd (e quindi

candidato alla Presidenza del Consiglio) aveva detto di voler abolire il bicameralismo

paritario e si era rifatto alla “bozza Violante”. Matteo Renzi, che nel dicembre 2013

vince le primarie del Partito Democratico e ne diventa il nuovo segretario, nel

discorso per la fiducia tenuto in Senato dice: “Comunico fin dall'inizio che vorrei

essere l'ultimo presidente del consiglio a chiedere in quest'aula la fiducia”.

Lo stile lasciava a desiderare, ma era chiaro il riferimento alla riforma del Senato

secondo la bozza Violante.

Il 4 aprile 2014 la prima versione della riforma fu approvata dal Consiglio dei

ministri. A scriverla i funzionari dell’Ufficio legislativo del ministero per le riforme

sulla base dei lavori dei saggi di Napolitano e della proposta Violante del 2007.

Si noti che la proposta del Governo Renzi abbandona la via di una procedura apposita

di revisione e segue la procedura costituzionale ordinaria prevista dall’art.138 (esame

prima in Commissione e poi in Aula), e questo senza che si sollevasse nessuna

polemica. I temi della legge di riforma sono quelli elencati nella mozione di camera e

senato di inizio legislatura, con qualche aggiunta (ad esempio, le norme sul

potenziamento della democrazia diretta).

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Al primo voto in senato, su un testo già modificato dai lavori dell’Aula (8 agosto

2014) si creò una netta divisione: la Lega Nord e le sinistre uscirono dall’aula, PD,

FI-PDL, NCD, SCpl, PI, Per le autonomie, votarono a favore, 183 Si, 0 no, 4 astenuti,

assenti 134 senatori.

Dopo il primo voto a favore e prima della seconda lettura della Camera si lavora alla

riforma della legge elettorale e subito dopo all’elezione del Presidente della

Repubblica, in seguito alle dimissioni del Presidente Napolitano (14 gennaio 2015).

Dopo l’elezione del Presidente Mattarella avvenuto senza accordo con FI (che

rivendicava il patto del Nazareno), anche FI passa all’opposizione.

In conclusione, la maggioranza con la quale si svolge la prima parte di lavori

comprende i due principali partiti (PD, partiti di centro, PDL). Essa viene poi meno

per ragioni politiche estranee al testo di riforma.

Si sarebbe dovuto rinunciare, a quel punto, perché il consenso si era ristretto?

L’impegno di andare avanti rimaneva, era contenuto nella mozione parlamentare più

volte citata. La perdita di quella parte di parlamentari passati all’opposizione non era

dovuta a dissensi sul testo, che rimaneva sostanzialmente il medesimo anche nel

secondo voto, nell’aula della Camera. E comunque il Governo (e la sua maggioranza)

avrebbero dovuto semplicemente rinunciare, non potendo presentare un diverso testo.

U,na responsabilità notevole, dopo i solenni impegni presi. Si scelse di andare avanti.

Ci sarebbe sempre stato, alla fine, il voto popolare.

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2 Il contenuto della riforma. Il nuovo Senato

Dopo sei mesi di campagna referendaria che ha parlato più di legge elettorale e di

governo Renzi che della riforma, è arrivato il momento di passare dai proclami

generici all’esame dei contenuti, da considerare uno per uno. Avvertendo subito che

lo facciamo separatamente per ovvie esigenze di spazio e di riflessione, non perché i

diversi punti non siano tra loro strettamente collegati: lo sono di certo i più

importanti.

Le ragioni per eliminare l’attuale Senato

Tutti o quasi sono d’accordo che le ragioni che hanno portato, al di là delle stesse

intenzioni del costituente del 1947, a due camere entrambe elette a suffragio

universale e che svolgono le medesime attività (riesaminano e modificano le leggi

votate dalla prima camera, fino a che entrambe – camera e senato - approvano lo

stesso identico testo), sono ormai e da tempo superate.

Se i pregi del sistema erano nel tempo venuti meno, restavano i difetti.

La doppia fiducia per il Governo, di fronte a due camere spesso diverse per

orientamento politico (quindi instabilità, come è successo sia a Berlusconi, sia a

Prodi).

La doppia lettura, se talvolta poteva evitare qualche svarione, è servita soprattutto a

introdurre mediazioni su mediazioni, e in definitiva più spesa pubblica. Con due

camere che ripetono l’una il lavoro dell’altra vi è meno chiarezza, meno

individuazione delle responsabilità, oltre che naturalmente maggiori spese8.

8 Ci sono, è vero, leggi veloci, dove sono forti gli interessi comuni e vi è un accordo politico maggioranza/opposizione, ma non è la norma; ci sono testi che nonostante il consenso non riescono a diventare legge, il Collegato agricoltura è diventato legge con due anni di ritardo; la legge sui piccoli comuni è alla 5° approvazione e non è legge). Ma non è questo l’aspetto più importante. La possibilità di rinviare sine die l’approvazione della legge con modifiche anche piccole crea la necessità di continue mediazioni, compromessi, concessioni; non è affatto detto

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L’interrogativo che si poneva a quel punto era dunque: una sola camera

rappresentativa degli elettori, la Camera dei deputati? Oppure accanto alla Camera

dei Deputati una seconda camera, ma per fare che cosa? Tutti interrogativi che le

Commissioni di studio si erano già ampiamente posti.

E introdurre il Senato delle regioni

Una sola camera impoverirebbe la nostra democrazia (ed infatti quasi nessun paese

occidentale ha una sola camera). Ma soprattutto vi è una forte ragione per dare un

ruolo importante ad una seconda camera: siamo uno stato regionalista, che deve dare

voce e rappresentanza alle regioni e più ampiamente ai territori, che amministrano la

maggior parte delle funzioni pubbliche, della spesa pubblica e dei servizi ai cittadini,

insieme con i comuni. Il rapporto tra lo Stato e le Regioni è sempre stato tormentato,

e lo Stato ha sempre teso ad occupare anche gli spazi di competenza regionale, con

l’avallo della Corte costituzionale. Il rimedio è la presenza delle regioni stesse in una

seconda camera, accanto a quella che rappresenta tutti. Un senato delle regioni

dunque è quello che mancava, secondo tutti i progetti e le proposte che sono state

fatte negli ultimi 20 anni: le Tesi dell’Ulivo, che prevedevano la Camera delle

Regioni, la Commissione Quagliariello (2013), che prevedeva il Senato delle

Regioni, la Commissione Letta, che prevedeva anch’essa una seconda camera

variamente rappresentativa delle regioni; la stessa riforma costituzionale del 2001,

che segnalava la mancanza della camera delle regioni.

Per effetto della composizione del Senato le istituzioni territoriali (regioni, comuni e

città metropolitane) hanno (avranno) una posizione “centrale”, sia in senso fisico

(sono rappresentate al centro del sistema), sia in senso figurato (sono più importanti

di prima). Basta pensare che ora le regioni attraverso il Senato partecipano alla

che la legge esca migliorata. Qualche volta serve ad evitare errori, più spesso serve a soddisfare piccoli interessi e ad aumentare la spesa.

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elezione del Presidente della Repubblica nel Parlamento in seduta comune (prima

mandavano al Parlamento in seduta comune 3 rappresentanti ciascuna, che si

perdevano in un Parlamento (le camere riunite) di 945, più i senatori a vita).

Partecipano al procedimento di revisione costituzionale (prima potevano soltanto

chiedere lo svolgimento del referendum confermativo e solo se la legge era stata

approvata a maggioranza assoluta). La maggior parte delle leggi saranno votate dalla

sola Camera dei deputati, che ha la titolarità della funzione legislativa in tutti i casi in

cui non sia previsto il procedimento legislativo bicamerale. Ma il Senato potrà far

sentire la propria voce, come vedremo.

La composizione del nuovo Senato

Una volta presa questa decisione, occorreva risolvere il problema del “come”.

Un Senato rappresentativo delle regioni ma eletto direttamente dagli elettori di

ciascuna regione? Si, ma a condizione che si mantenga il legame con la regione di

appartenenza, che vuol dire con la sua struttura politica e amministrativa, altrimenti si

ricade nella situazione attuale, in cui – se anche vi fosse effettivamente un’elezione

“su base regionale” - non per questo gli eletti in Veneto o in Puglia rappresentano la

rispettiva regione, esprimono semplicemente le loro preferenze politiche.

Oppure eletto da chi all’ente regione già appartiene, in quanto consigliere regionale, e

quindi esprime le esigenze i problemi le preferenze di chi amministra (in senso lato)

ciascuna regione.

Oppure ancora membri di diritto, in forza delle cariche ricoperte in regione.

Su questi temi la Commissione Letta ha lungamente discusso, e ha avuto più adesioni

la tesi dell’elezione indiretta – da parte dei consiglieri regionali - che contribuirebbe a

definire senza equivoci il nuovo ruolo costituzionale del Senato..

Il governo nel ddl di riforma (presentato l’8 aprile 2014) ha proposto che il Senato

fosse composto dai presidenti delle giunte regionali (c.d. governatori), dai sindaci dei

comuni capoluogo di regione e per ciascuna regione da due membri eletti dal

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consiglio regionale e da altri due membri eletti dal consiglio dei sindaci della regione,

con voto limitato a uno. Senonché durante i lavori parlamentari la soluzione dei

membri di diritto (i presidenti di regione, i sindaci delle città metropolitane o

capoluogo di regione) è stata respinta e si è prevista invece l’elezione con metodo

proporzionale da parte dei consiglieri regionali, che possono eleggere soltanto chi è

già consigliere regionale e sindaco (questi ultimi uno per regione), nel numero

complessivo di 95, cui si aggiungono 5 senatori di nomina presidenziale. 100 in

tutto9. E’ stata dunque scelta l’elezione indiretta, con rappresentanza delle minoranze

(si tratta di una mediazione raggiunta in parlamento, tenuto conto che 18 regioni su

21 sono a guida Partito democratico, e che un Senato di governi regionali sarebbe

stato per molti inaccettabile, una provocazione).

Ulteriore mediazione intervenuta durante i lavori parlamentari, mentre prima si dice

che i consigli regionali eleggono i senatori tra i propri componenti, poi si aggiunge

“in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri” in

occasione delle elezioni regionali. La norma sottolineata è frutto appunto del

compromesso tra chi in parlamento voleva l’elezione indiretta, da parte dei

consiglieri, e chi voleva invece l’elezione diretta dei senatori da parte dei cittadini.

Per attuare queste previsioni, occorre una legge, una legge bicamerale che sarà

approvata dalla Camera e dal nuovo Senato composto per la prima volta come

previsto da una disposizione transitoria (art. 39). Ad esempio “ogni lista concorrente

all’elezione del Consiglio regionali presenta un listino composto dal doppio di

senatori spettanti alla Regione. L’elettore disporrebbe di tre voti, attribuibili

disgiuntamente, uno per il Presidente, uno per il Consiglio e uno per il senatore

regionale. I candidati senatori potrebbero essere disposti in ordine di preferenze

ottenute e verrebbero successivamente eletti dal Consiglio tenendo conto dei seggi

attribuiti ad ogni lista sulla base del riparto proporzionale prima della attribuzione del

9 Il numero dei senatori per regione è stato fissato in proporzione alla popolazione, ma nessuna regione (comprese Trento e Bolzano) ne può avere meno di due. Con evidente sproporzione a favore di Trento e Bolzano.

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premio di maggioranza” (B. Caravita di Toritto, La riforma Renzi – Boschi: le

ragioni del sì, in Rivista AIC, n. 2/2016, p. 20).

Come si vede un sistema molto vicino all’elezione diretta. Una proposta in tale

direzione è stata anche redatta dai parlamentari Fornaro e Chiti. E il Presidente Renzi

ha dichiarato che l’avrebbe assunto (a Costituzione approvata) come testo base.

Il Senato è dunque un organo permanente, i cui componenti cambiano quando cessa il

loro mandato di provenienza, poiché sono stati eletti in quanto consiglieri o sindaci.

I senatori, come i deputati, non hanno vincolo di mandato, almeno formalmente,

quindi non rispondono a direttive del governo regionale o di altri.

I senatori non avranno un’indennità aggiuntiva rispetto a quella di cui godono come

consiglieri o sindaci. Avranno certamente un rimborso spese o una diaria, come è

normale. Quindi ci saranno 315 indennità parlamentari in meno.

Godranno, come i deputati, dell’immunità parlamentare ex art. 68 della Costituzione.

Svolgono infatti per certi aspetti le stesse funzioni dei deputati e quindi debbono

avere le medesime garanzie, pena l’incostituzionalità per violazione del principio di

uguaglianza.

E’ questa una buona occasione per ricordare che cos’è oggi l’immunità parlamentare.

Secondo la Costituzione del 1948 il parlamentare non poteva, non dico essere

condannato, ma neppure indagato senza l’autorizzazione della camera di

appartenenza, che non la dava mai. Dalla riforma del 1993 l’immunità è uscita molto

ridimensionata. Sussiste ancora – come è giusto perché l’integrità dell’organo

composto da persone elette dai cittadini va tutelata nei confronti degli altri poteri - ma

non impedisce più di essere indagati, processati, condannati. Soltanto per la

perquisizione personale o domiciliare, per l’arresto o altra privazione della libertà

personale, per il controllo delle comunicazioni personali, è richiesta l’autorizzazione

della camera di appartenenza. Ma quando la sentenza di condanna è irrevocabile, o vi

è flagranza, l’autorizzazione non serve. Non c’è dunque il rischio che i consiglieri

regionali indagati non vengano più processati.

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Per chi non ama, sbagliando, l’immunità parlamentare, va comunque aggiunto che

oggi sono 315 le persone che, oltre i deputati, godono dell’immunità parlamentare di

cui sopra. Domani sarebbero soltanto 100.

I nuovi senatori rappresenteranno il loro territorio, organizzato in comuni e regioni, o

si uniranno ai loro colleghi in filiere di partito? A mio avviso meglio sarebbe stato

conservare il testo iniziale proposto dal Governo, più aderente alla previsione

costituzionale secondo cui “il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni

territoriali”. Molto dipenderà da come sarà fatta la nuova legge elettorale.

In ogni caso si dovrà parlare di orientamento politico del nuovo Senato. Sarà

possibile che si formino maggioranze politiche contrapposte con la Camera, ma non

avendo il Senato la possibilità di sfiduciare il governo, si tratterà di una dialettica

democratica che potrà incidere sulle scelte politiche di Camera e Governo, ma non

impedirà a questi organi di funzionare.

Poiché come abbiamo visto, la posizione di senatore dipende - comunque sia fatta la

legge elettorale del Senato – da quella di consigliere o di sindaco, i singoli senatori

cessano dalla carica quando perdono la qualifica di provenienza. Mentre il Senato è

organo permanente, in cui avviene un mutamento periodico dei singoli componenti.

Le due camere saranno dunque, con la riforma, asimmetriche, l’una rappresenta la

Nazione, cioè l’insieme di tutti i cittadini elettori, l’altra le istituzioni territoriali.

Ciononostante per determinate funzioni si collocano sullo stesso piano (le leggi

bicamerali) e hanno molti elementi in comune (l’assenza di vincolo di mandato,

l’immunità, l’obbligo per il Governo di partecipare ai lavori sia della Camera sia del

Senato). Per altri si differenziano: soltanto la Camera dà (e toglie) la fiducia e

controlla l’operato del Governo appunto in vista della persistenza del rapporto di

fiducia.

Il legame con gli elettori non è a rischio: comunque sarà fatta la legge elettorale, chi

va a votare sa che alcuni consiglieri regionali diverranno senatori o addirittura li

eleggerà come tali. Il legame con gli elettori sarà massimo se in Senato va il

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Presidente della Regione eletto direttamente (ad esempio Zaia, che ha avuto il

massimo di voti diretti).

Ma, si dice, non avranno il tempo per svolgere le funzioni previste. E’ una visione

troppo pessimista. I ministri italiani passano metà del loro tempo in Europa, per le

riunioni del Consiglio, che è l’organo che legifera insieme con il Parlamento europeo.

I delegati regionali passeranno parte del loro tempo a Roma. E’ questione di

organizzazione. E’ un organo che funzionerà in modo diverso dall’attuale Senato; il

lavoro istruttorio sarà fatto da funzionari. A loro spetterà di sciogliere i nodi politici10

.

La qualità dei consiglieri regionali è un argomento che mi rifiuto di considerare, così

come non do’ giudizi sulla qualità degli attuali parlamentari.

10 Funziona così il Bundesrat tedesco (ma lì sono rappresentanti dei governi e

possono farsi sostituire); funziona così il Consiglio federale austriaco (Bundesräte)

con 62 membri eletti con un sistema proporzionale da ciascuna delle assemblee

legislative degli stati austriaci (Landtage).

In Francia i Senatori sono eletti a suffragio indiretto da circa 150.000 grandi elettori:

sindaci, consiglieri comunali, delegati dei consigli comunali, consiglieri regionali e

deputati. Non sono necessariamente amministratori locali. Ma hanno gli stessi vasti

compiti dell’assemblea legislativa.

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3 Le funzioni del nuovo Senato

Regioni e comuni, in quanto rappresentati in una camera nazionale (chiamata Senato,

ma avrebbe potuto chiamarsi Camera delle Autonomie) svolgono questi compiti

essenziali

- Co-decidere con la camera nazionale, la camera dei deputati, le leggi più

importanti, costituzionali e di struttura, indicate in un elenco tassativo di leggi

bicamerali

- Portare al centro gli interessi e i punti di vista dei diversi territori con il potere

di esprimere il proprio punto di vista su tutte le altre leggi (potere di richiamo).

L’invito alla riflessione, che viene a mancare per l’eliminazione della seconda

camera, in questo modo rimane, ed è qualificato perché proviene da

rappresentanti dei territori

- Valutare gli effetti dell’applicazione delle leggi e più in generale delle politiche

pubbliche.

Si tratta di un mutamento molto importante, e nello stesso tempo è una

semplificazione, perché quasi tutte le leggi saranno decise dalla sola Camera.

Particolarmente interessante il ruolo del Senato quando è la sola Camera a decidere.

Il Senato, dice il nuovo testo, rappresenta le istituzioni territoriali ed esercita funzioni

di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica (le regioni, le città

metropolitane, i comuni). Questa funzione di raccordo si esprime certo quando il

Senato “co-decide” nelle leggi bicamerali, ma si esercita ancor più quando il Senato

interviene nell’esercizio delle funzioni della Camera con il potere di “richiamo”, dato

che riceve tutti i disegni di legge approvati dalla Camera nell’ambito della sua

esclusiva competenza. In questo modo quel ruolo di stimolo alla “riflessione” che fin

qui si è citato come l’aspetto positivo del bicameralismo paritario sarà svolto in modo

più qualificato da un organo che rappresenta i diversi territori italiani.

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I nuovi procedimenti legislativi

Molto si critica la macchinosità dei nuovi procedimenti legislativi in rapporto alla

semplicità del testo vigente (art. 70). A parte l’ovvietà della considerazione, e la

possibilità che certi dettagli in futuro possano essere chiariti con i regolamenti interni,

la migliore replica a mio avviso sta nella lettura del testo della Costituzione di

Germania (Grundgesetz) per la parte che qui interessa. La partecipazione delle

regioni/comuni o dei laender alla funzione legislativa non può non richiedere regole

da osservare, che prima non avrebbero avuto ragione di esistere.

Fanno parte dell’ambito riservato al procedimento legislativo bicamerale perfetto

alcune materie di particolare rilievo, fra le quali quelle costituzionali, quelle relative

alle procedure dei rapporti con l’Unione europea e, soprattutto, quelle concernenti i

referendum e le nuove forme di partecipazione e consultazione dei cittadini, sia come

singoli sia come formazioni sociali (art. 71). A queste si aggiunge un non breve

elenco di materie specificamente e tassativamente definite, ma accomunate tutte dalla

caratteristica di riguardare l’attuazione di norme costituzionali direttamente relative

alle autonomie territoriali. E, come già detto, la legge elettorale per il Senato.

L’elenco delle leggi bicamerali si trova nel primo comma dell’art. 70. Per comodità

lo riportiamo nel modo più chiaro possibile in nota11

.

11 Le leggi di revisione costituzionale e le leggi costituzionali; Le leggi sull’ordinamento dei Comuni

e delle Città metropolitane, sui principi delle forme associative dei comuni, e su Roma Capitale,

non le leggi sui profili ordinamentali generali degli enti di area vasta, di competenza della sola

Camera; Le leggi sul regionalismo differenziato; Le leggi sui rapporti tra regioni e Unione europea; e sui

rapporti tra regioni e Stati terzi o loro enti territoriali; le leggi relative al patrimonio degli enti territoriali e

delle regioni; quelle relative al potere sostitutivo dello Stato e di esclusione dei titolari di organi di governo

locali e regionali; al sistema di elezione dei consiglieri regionali; al passaggio dei comuni da una Regione ad

un’altra; le leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati europei; le leggi che stabiliscono le norme

generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa

e delle politiche dell’Unione europea.

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Le leggi bicamerali sono dunque tassativamente previste, e saranno un numero molto

limitato in una legislatura12

. Lì si potrà riprodurre la navetta, perché in questi casi

Camera e Senato sono sullo stesso piano.

In tutte le altre leggi, in cui i senatori possono (se sono un terzo dei componenti)

chiedere di fare rilievi in dissenso (che dovranno essere approvati dall’aula del

Senato a maggioranza), questo potere di richiamo si può esercitare una sola volta e in

termini brevi (10 gg. per esercitarlo, 30 gg. per decidere). Sul “richiamo” del Senato,

dice il testo, la Camera decide definitivamente. I termini sono come si vede molto

stretti. La Camera dopo la proposta del Senato resta libera di non modificare o

modificare il proprio testo di legge, quindi anche di riapprovarla in via definitiva; se

poi le proposte del Senato non giungono in tempo, o non ci sono affatto, la legge

della Camera può essere senz’altro promulgata.

È del tutto infondata l’interpretazione che se la Camera accetta di modificare il

proprio testo approvato si sia di fronte ad un nuovo testo di legge, su cui il Senato

potrebbe fare un nuovo “richiamo”.

Merita anche ricordare che quando la Camera decide in materie altrimenti di

competenza regionale, invocando l’interesse nazionale, la legge resta monocamerale

ma l’intervento del Senato nel procedimento è obbligatorio, richiede la maggioranza

assoluta e il superamento delle proposte del Senato richiede la maggioranza assoluta

anche da parte della Camera.

Merita, infine, ricordare che l’esame da parte del Senato è “necessario” per i disegni

di legge approvati dalla Camera in materia di bilancio, pur non essendo prevista in

questo caso la maggioranza assoluta dei deputati per superare le proposte della

seconda camera. Si riconosce così che le leggi di bilancio riguardano intrinsecamente

non solo lo Stato ma la Repubblica in tutte le sue componenti, senza renderle

bicamerali (come vorrebbe D’Alema), con il rischio che per i diversi orientamenti

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politici regionali non si riesca ad approvare lo stesso medesimo testo nelle due

camere. Senza che il Governo possa porre la questione di fiducia.

Riassumiamo il sistema in questi termini: per la seconda procedura, il potere di

“richiamo”, sono previste varianti procedurali, ad esempio, per la legge di bilancio e

per leggi che intervengono su materie regionali in nome dell’interesse nazionale. È

chiaro che, se consideriamo ogni variante come un tipo diverso di procedimento, il

numero totale sale a sette o più: ma qual è il senso di questi conteggi?

La complessità delle procedure è gonfiata ad arte per poter polemizzare. Le procedure

sono due, la seconda ha delle varianti, tutte ragionevoli e inserite nel testo per

maggior chiarezza. Tutte comprensibili. La Costituzione tedesca (Grundgesetz), che

ha affrontato un problema analogo, tra Bundestag e Bundesrat, lo tratta in 3 articoli

(76, 77 e 78) di complessivi 8 commi. Pretendere di criticare il nuovo testo

costituzionale per la dimensione del nuovo art. 70 è infantile e ridicolo. Ci sono

aspetti più seri su cui soffermarsi.

Il Senato può fare proposte di legge alla Camera? Si, lo può fare, come organo,

deliberando però a maggioranza assoluta, si richiede quindi un largo consenso. In tal

caso la Camera deve deliberare sulla proposta entro 6 mesi dalla data della

presentazione.

Le altre funzioni del Senato

Altri poteri sono attribuiti al Senato:

- di inchiesta “su materie di pubblico interesse concernenti le autonomie

territoriali”, art. 82, 1

- di verificare l’attuazione delle leggi dello Stato, art. 55, 5

- di valutare le politiche pubbliche, art. 55,5

- di verificare l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori, art.

55,5

- di valutare l’attività delle pubbliche amministrazioni.

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Il potere di inchiesta appartiene anche alla Camera, naturalmente, quello del Senato

deve essere limitato alle materie concernenti le autonomie territoriali. Altrimenti si

creerebbero sovrapposizioni. Ci potranno essere contrasti, ma il sistema prevede il

modo di superarli.

Gli altri poteri qui elencati hanno maggiore rilevanza ed interesse. Si tratta di poteri

non esercitati attualmente dalle assemblee legislative, le quali di fatto non utilizzano a

tal fine neppure gli strumenti di cui attualmente dispongono e cioè le Relazioni

periodiche della Corte dei Conti. Le previsioni del nuovo testo vanno molto al di là di

ciò che si può desumere – che è già parecchio – dalle Relazioni della Corte.

Molti hanno irriso a questi poteri del Senato, per il solo fatto che sono poteri non

esercitati fin qui in una sede istituzionale (ma solo privatamente, in enti di ricerca),

dando per scontato che non lo saranno, o per mancanza di interesse e volontà o per

ignoranza ed incapacità. Come se fossero stati assegnati al Senato a mo’ di

riempitivo, non sapendo che cosa d’altro scrivere. Sbagliato.

È molto importante sapere se le leggi approvate sono state tempestivamente applicate

(o non tempestivamente, o del tutto inapplicate). È altrettanto importante sapere se le

politiche pubbliche che sono state introdotte hanno prodotto gli effetti voluti, o non li

hanno prodotti che in piccola parte o ne hanno prodotto di diversi non previsti. Per

correggere consapevolmente quelle politiche. Certo il Senato non è attualmente

attrezzato per svolgere questi compiti, ma nulla impedisce che si attrezzi. Non

mancano le intelligenze e le competenze da utilizzare, anche nell’ambito della

riorganizzazione degli Uffici studi attuali di Camera e Senato.

La sede giusta in cui svolgere questi compiti e trarne le conseguenze è proprio il

Senato, che rappresenta le istituzioni territoriali cui è affidata la maggior parte

dell’applicazione e attuazione della legislazione e della spesa pubblica.

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4 La modifica della ripartizione del potere legislativo tra Stato e Regioni

(forma di Stato)

La clausola dell’interesse nazionale

Prima di esaminare la nuova ripartizione delle competenze legislative tra Stato e

Regioni, occorre parlare della “questione di Stato” o “interesse nazionale”. Si tratta di

una clausola che consentiva allo Stato di intervenire in materie di competenza

regionale in nome di quell’interesse. Esisteva nella Costituzione del 1948, è stata

eliminata nella revisione del 2001 (legge costituzionale 3/2001) e ora è stata

reintrodotta. Eccezionalmente il Governo può proporre che la legge dello Stato, cioè

della Camera, intervenga in materie altrimenti riservate alle regioni “quando lo

richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero

dell’interesse nazionale”. La Camera lo può fare, ma il Senato, a tutela della

competenza legislativa delle regioni, ma anche eventualmente di una diversa visione

dell’interesse nazionale, può proporre modificazioni. In questo caso perché le

modifiche deliberate dal Senato siano rilevanti debbono essere approvate a

maggioranza assoluta. Ma anche la Camera per discostarsene deve deliberare

definitivamente a maggioranza assoluta. A garanzia che vi sia una larga condivisione

dell’interesse nazionale come è stato definito, sia nella rappresentanza nazionale sia

in quella dei territori.

Si può osservare che la maggioranza assoluta può essere facile da raggiungere in sede

Camera dei deputati, se la legge elettorale, come ad esempio il Porcellum, la

garantisce. In realtà il testo costituzionale non è legato ad una legge elettorale che

garantisca una maggioranza, può benissimo convivere anche con una legge

proporzionale, in cui è quasi impossibile che un partito raggiunga la maggioranza

assoluta. Inoltre l’esperienza insegna che anche quando un partito ha acquisito con un

premio in seggi la maggioranza assoluta, le vicende politiche successive rendono

sempre impegnativo raggiungere una tale maggioranza.

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La nuova ripartizione delle competenze legislative

Il testo di riforma introduce modifiche al titolo V molto rilevanti. Si amplia in materia

molto consistente l’elenco delle materie riservate alla potestà esclusiva dello Stato e

si eliminano le materie “concorrenti”, vale a dire ripartite tra Stato e Regioni.

Si recuperano alla sola competenza statale materie che erano state qualificate come

“concorrenti” nella riforma del 2001, ma presentavano una valenza statale in quanto

in quanto attinenti a questioni di dimensione nazionale. Così ad esempio la materia

delle grandi infrastrutture (grandi reti di trasporto e navigazione, porti ed aeroporti

civili), la materia dell’energia (produzione, trasporto e distribuzione nazionale

dell’energia), quella delle comunicazioni. Si aggiungono la disciplina generale del

procedimento amministrativo, il pubblico impiego, la sicurezza sociale. In altre

materie (tutela della salute, politiche sociali, sicurezza alimentare, istruzione,

turismo), lo Stato si riserva di emanare non l’intera disciplina, ma soltanto “norme

generali e comuni”, quelle che delineano la struttura di base del sistema normativo.

Basterà in questa sede dire che con questo testo si rimedia alle critiche ricevute dalla

riforma del 2001, anche se con una certa larghezza, peraltro compensata dalla

possibilità delle regioni di svolgere un ruolo sia politico sia istituzionale direttamente

in sede centrale, in dialogo con il Governo e la Camera dei deputati.

E aggiungere che è stata confermata ed ampliata la possibilità per le Regioni che

hanno il bilancio in ordine di chiedere l’attribuzione di competenza in ulteriori

materie.

Soprattutto sta l’esigenza di attuare finalmente il “federalismo fiscale” della legge n.

42/2009. Il nuovo testo costituzionale contiene, in funzione del federalismo,

l’importante previsione che “con legge dello Stato sono definiti indicatori di

riferimento di costo e di fabbisogno che promuovono condizioni di efficienza”

nell’esercizio delle funzioni pubbliche di regioni, città metropolitane e comuni. In

modo che le siringhe abbiano lo stesso costo per tutti gli ospedali italiani e i livelli

essenziali delle prestazioni sociali sia quanto più possibile uniformi.

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5. La forma di governo parlamentare. Non cambia, è già cambiata a

Costituzione invariata.

Sono governi parlamentari quelli che stanno in piedi con il consenso della

maggioranza che gli ha conferito la fiducia, e che la può togliere. Il governo resterà

“parlamentare” anche dopo approvata questa riforma.

Ma va detto subito che all’interno dei governi parlamentari ci sono governi che sono

completamente nelle mani delle alleanze che si costituiscono in Parlamento (detti

assembleari) e governi che “guidano” la maggioranza parlamentare. Questa seconda

situazione si crea più facilmente se la maggioranza di governo è scelta dai cittadini

nel momento del voto. Se in altri termini il sistema elettorale è pensato per agevolare

la produzione di una maggioranza scelta dai cittadini, o per produrre direttamente una

maggioranza, destinata appunto a governare tendenzialmente per i 5 anni della

legislatura.

Il nostro paese, senza modificare la Costituzione ma sfruttandone l’elasticità, ha già

utilizzato diverse varianti del governo parlamentare quando ha modificato, nel 1993

(Mattarellum) e nel 2005 (Porcellum), le proprie leggi elettorali per il parlamento;

quando ha dovuto registrare gli effetti del terremoto politico che all’inizio degli anni

novanta del secolo scorso ha investito l’impianto originario del nostro sistema dei

partiti (Mattarellum). E quando ha eliminato il voto uninominale, nella convinzione

che avvantaggiasse l’allora opposizione. Le varianti hanno tutte operato nella

direzione di creare una legittimazione popolare della maggioranza di governo e della

persona che si candida a diventare primo ministro. Per le regioni si è addirittura

proposto (con legge nazionale) di eleggere direttamente il presidente della giunta

regionale/capo del governo – non per nulla chiamato ora governatore – e tutte le

regioni hanno conservato questo sistema. Per le elezioni politiche si è fatto ricorso

opportunamente soltanto all’indicazione del leader del partito o della coalizione di

partiti che si presentano alle elezioni. L’indicazione del futuro Presidente del

Consiglio è molto diversa dall’elezione diretta del capo del governo, perché egli è

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sempre sostituibile dalla maggioranza senza sciogliere le camere (un domani la

Camera dei deputati), mentre un PCM eletto direttamente non può essere sfiduciato

senza che ne consegua lo scioglimento dell’assemblea elettiva.

Dalle elezioni politiche del 1994 (Mattarellum) ad oggi si è sempre teso a votare una

maggioranza di governo. La legge elettorale Mattarellum è riuscita a produrla. Dal

2005 (Porcellum) la maggioranza è stata addirittura garantita da un premio in seggi al

primo classificato. Siamo dunque usciti da un sistema tendenzialmente assembleare,

in cui la principale funzione dei partiti era di fare e disfare i governi in parlamento,

ma siamo rimasti una forma di governo parlamentare – perché le maggioranze

parlamentari hanno conservato il potere di sfiduciare i governi. I governi hanno avuto

un po’ più di forza di realizzare i loro programmi, in parte per effetto di modifiche ai

regolamenti di camera e senato, molto per l’uso distorto di alcuni strumenti, il decreto

legge, la questione di fiducia, i maxiemendamenti, le leggi delega generiche. Non per

questo sono state evitate le crisi di governo, perché in definitiva conta molto l’assetto

del sistema politico..

Se si vuole ritornare a prima del 1993, occorre una legge elettorale proporzionale. In

modo che non ci sia un partito o un’alleanza di partiti prevalente e che si sia costretti

a trovare alleanze in parlamento tali da superare il 50% dei voti. E mediazioni su

tutto.

Nella situazione italiana attuale vorrebbe dire un’alleanza non soltanto con il gruppo

di Verdini, ma con tutto il resto del Centro destra, data l’indisponibilità e

l’impossibilità politica del M5S di allearsi. Vorrebbe dire un governo più debole,

privo di un programma chiaro e definito e soprattutto non definito davanti agli elettori

nella campagna elettorale. Meno chiarezza, più compromessi.

Se invece si vuole continuare sulla strada di una maggioranza di governo scelta dagli

elettori, occorre dotarsi di una legge elettorale che possa individuare una tale

maggioranza, che sia garantita (con un premio in seggi) o non garantita (con altri

sistemi maggioritari). Il sistema della legge elettorale detta Mattarellum era un

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maggioritario di collegio a turno unico (in ciascun collegio un solo eletto), con una

correzione proporzionale, che è riuscito a produrre maggioranze che hanno governato

e sono venute meno a causa di dissidi interni alle proprie alleanze. Ora si tratta di

costruire una nuova legge elettorale che ottenga simili risultati.

Il testo costituzionale, quello vigente e quello futuro se il referendum lo approverà,

non c’entrano nulla con queste alternative di legge elettorale. Come si è già

dimostrato sono entrambi compatibili sia con una legge proporzionale, sia con una

legge maggioritaria.

La compatibilità dell’attuale Costituzione con una legge maggioritaria è già

dimostrata dai fatti. La nuova Costituzione non conferisce nessun nuovo potere al

Governo. Anzi restringe fortemente la possibilità di utilizzazione dei decreti legge,

che sono stati l’effettivo strumento di governo di tutte le maggioranze degli ultimi

decenni. Garantisce invece al Governo la possibilità di presentare disegni di legge

necessari all’attuazione del suo programma di cui chiede l’approvazione a data

certa. Approvazione che avverrà soltanto se la Camera avrà dato il suo consenso

all’applicazione di quella procedura.

Una maggiore stabilità del Governo con la riforma c’è, ma dipende da un altro

elemento, dal fatto che il rapporto di fiducia ci sarà con la riforma soltanto con la

Camera dei deputati. Si elimina il rischio del rapporto fiduciario con un Senato che

può avere una maggioranza politica diversa.

Conclusione: la scelta, se dare peso maggiore o minore all’Assemblea parlamentare

(che poi vuol dire dei partiti) nei confronti del Governo, esiste ma dipende da fattori

che non sono scritti in Costituzione (vedi legge elettorale, regolamenti parlamentari),

perché anche questa revisione costituzionale non cambia la collocazione del governo

nella carta costituzionale.

La teoria del “combinato disposto” è fasulla nel senso che il dissenso espresso con

quella formula riguarda la legge elettorale (l’Italicum), non può riguardare – con

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quell’argomento – la riforma costituzionale. L’Italicum verrà cambiato, sia che vinca

il SI sia che vinca il NO.

Con questa riforma il Governo potrà sempre essere sfiduciato dalla sua maggioranza.

Ma, si obbietta, questo non potrà succedere perché il sistema elettorale prevedendo il

voto di lista con capilista bloccati assicura al leader delle truppe fedeli. A parte che

questa è una situazione contingente, che potrà essere modificata perché potrà essere

sempre modificata la legge elettorale, non credo alla fedeltà assoluta delle persone in

politica (si può sempre intravvedere un diverso posizionamento “politico” più

vantaggioso, o, più nobilmente, cambiare idea), e il nuovo testo costituzionale non

necessita di una legge elettorale maggioritaria.

L’Italicum non è oggetto del referendum e potrà essere tranquillamente cambiato

anche a nuova Costituzione vigente (ed infatti già lo si vuole cambiare da uno

schieramento che va da sinistra a destra). Deve essere chiaro che il nuovo testo

costituzionale è compatibile con diversi sistemi elettorali, dal vecchio proporzionale

al Mattarellum. Ed è bene che – quale che sia il giudizio sull’Italicum, e il mio è

negativo perché non mi piacciono i premi di maggioranza – resti fuori dalla

valutazione sulla decisione referendaria.

Non mi piace l’Italicum, ma non credo che porti a un potere autoritario personale

(come ha invece affermato Eugenio Scalfari tra i primi). Il premio di 340 seggi non è

tale da produrre quel potere. Bastano 25 deputati (la maggioranza è di 316) per

mettere in crisi la maggioranza e il governo. E nessun partito italiano di oggi che

ottenesse il premio o al primo turno o al ballottaggio può essere talmente disciplinato

da evitare dissensi in un gruppo di 340. Il pericolo è, semmai, proprio l’opposto. Non

un novello cesarismo, ma frammentazione e caos, specie se il PD continuerà al suo

interno con l’attuale andazzo.

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6 La maggioranza dispone dell’elezione degli organi di garanzia?

Va anche detto subito che la maggioranza, in qualsiasi modo sarà formata, non

dispone delle nomine degli organi di garanzia.

Per il Presidente della Repubblica – eletto dal parlamento in seduta comune -

occorrono i 2/3 e poi i 3/5 dei componenti; da ultimo dei votanti. Premesso che in

Senato la maggioranza potrebbe anche essere opposta a quella della Camera e anche

fosse dello stesso colore, risultando da elezioni regionali diverse, sarebbe meno

omogenea e comunque limitata, nei casi in cui si vota come p, come appunto per il

Presidente della Repubblica, non ci si avvicina a 3/5 (438) neanche sommando i voti

teorici, 340 + 50? (= 390). Non senza tener conto che in quei casi il voto è segreto e il

tasso di fedeltà diminuisce. Senza il contribuito dell’opposizione non sarebbe quindi

possibile concludere l’elezione.

Per i giudici costituzionali sono richiesti i 3/5 dei componenti, 438 membri); con la

riforma la maggioranza resta la stessa. Con la differenza che opportunamente 2

giudici sono eletti dal Senato e 3 dalla Camera.

Gli 8 membri laici del CSM, Consiglio superiore della magistratura sono eletti dai 3/5

dei componenti e dal 3° scrutinio dai 3/5 dei votanti).

L’affermazione che la maggioranza vincente potrebbe disporre da sola dei quorum

necessari per gli organi di garanzia è falsa. E’ sterile e contradditoria anche la censura

della previsione che nelle ultime votazioni il riferimento è ai votanti anziché ai

componenti nell’elezione del Presidente, inteso come via libera agli “inciuci”. Da un

lato si denuncia che la maggioranza potrebbe da sola eleggere il Capo dello Stato,

dall’altro si lamenta che vi sia il contributo dell’opposizione.

Anche per l’elezione dei componenti laici del Csm (8 su 24, gli altri 16 sono

magistrati) si fa ricorso ai tre quinti dei votanti, senza scandalo. E poi in questi casi

votano tutti, con il rischio di paralisi se non si raggiunge il consenso: il riferimento ai

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votanti consente un minimo di elasticità, per agevolare il raggiungimento di un

obiettivo indispensabile.

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7 Il potenziamento degli strumenti di democrazia diretta. Lo statuto delle

opposizioni

Il referendum abrogativo avrà molte più possibilità di avere successo.

Rimane l’attuale previsione: iniziativa di 500.000 firme, quorum per la validità del

referendum metà più uno degli aventi diritto al voto. Ma se le firme raccolte sono

800.000 il quorum per la validità del referendum scende di molto, è sufficiente

raggiungere la metà più uno dei votanti nelle ultime elezioni politiche, un 30% circa.

Il numero di 800.000 non è un aumento, bensì un adeguamento alla crescita della

popolazione dal 1948 ad oggi.

E’ una previsione utile, che ripristinerà la possibilità di far ricorso al referendum

abrogativo delle leggi in vigore. Una previsione che potrà condizionare anche

pesantemente gli indirizzi espressi dagli organi rappresentativi.

Viene potenziata anche la possibilità per i cittadini di presentare proposte di legge.

Una possibilità già esistente, talvolta esercitata dal popolo, mai presa in esame dal

parlamento. Anche in tal caso si adegua il numero delle firme necessarie (da 50.000

a 150.0009, ma si obbliga la Camera a prendere in esame il testo e a concludere i

lavori entro 6 mesi. Più potere ai cittadini, più serietà da parte delle istituzioni.

Il referendum, come è noto, è attualmente soltanto abrogativo. Il costituente del 1948

diffidava della forme di democrazia diretta, le aveva introdotte in dosi minime. Ora

invece si prevede che vi siano anche referendum “introduttivi e di indirizzo”, che non

cancellano le norme che ci sono, ma ne introducono di nuove. Non delle proposte

legislative, delle vere e proprie norme nuove.

La relativa disciplina richiede norme di rango costituzionale, che non si è riusciti a

concordare nel testo in esame. Di qui il rinvio ad una successiva legge costituzionale.

Ma l’impegno in Costituzione c’è tutto.

Infine poche parole sullo statuto delle opposizioni. Abbiamo già chiarito che il nuovo

testo costituzionale può convivere sia con una legge elettorale proporzionale, sia con

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una legge maggioritaria, che tende a produrre l’indicazione di una maggioranza (e del

relativo leader) nel momento del voto. Sul presupposto che possa esservi in

parlamento un partito o una lista che già gode della maggioranza assoluta, il nuovo

testo si preoccupa che sia garantito alle opposizioni (possono essere più d’una) lo

spazio politico, e relative garanzie e procedure, per esprimere le proprie posizioni: le

opposizioni non debbono essere “vittime” della maggioranza.

Lo statuto delle opposizioni dovrà essere contenuto in un regolamento della Camera

dei deputati. Il Senato non dà la fiducia al Governo e quindi neppure si articola in

maggioranza e opposizione, costituita da chi non ha votato la fiducia al Governo.

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Conclusioni

Ci siamo chiesti all’inizio se questa riforma, in itinere da così tanto tempo, non fosse

nel frattempo invecchiata. Rispondiamo: no, anzi. Il contesto italiano, europeo e

internazionale la richiede più ancora di prima.

Semplificare la produzione legislativa, che dipenderà in definitiva dalla sola Camera

che rappresenta l’intera nazione, dare un po’ più – anche se poco - di stabilità al

governo, mediante la fiducia della sola Camera; dare rappresentanza al Centro alle

regioni, cui spetta di utilizzare i fondi europei e debbono concorrere alle relative

destinazioni; eliminare quei passaggi parlamentari che agevolano troppo i

compromessi e la spesa pubblica; rendere più chiara la distinzione tra governo e

opposizioni e le relative responsabilità; è ancora più importante oggi, in cui l’attività

di governo e di legislazione si svolge per una parte importante in sede europea, con

interlocutori che durano intere legislature (mentre i primi ministri italiani no).

Il sistema bicamerale che si è consolidato come lo abbiamo conosciuto ha funzionato

grazie all’esistenza di partiti forti, che dominavano i loro eletti. Oggi non funziona

più. Non possiamo più permetterci un doppione per gran parte inutile e che crea

problemi.

L’obiettivo di avere un governo che governi – il c.d. premierato - è più facilmente

realizzabile se la legge elettorale è maggioritaria. Ma la riforma costituzionale è

perfettamente compatibile con un sistema proporzionale. E’ una riforma che consente

anche risparmi di spesa (eliminazione dei senatori attuali, eliminazione del Cnel), per

quanto modesti, ma che soprattutto consentirà di tenere meglio sotto controllo la

spesa pubblica.

Ma proprio qui casca l’asino. Sorge il dubbio che un “governo che governi” non

piaccia poi molto. Che gli abusi attuali dei poteri del Governo (nei decreti legge, nei

maxiemendamenti) non creino in realtà nessuno scandalo.

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Quello che stupisce, nelle vicende dal 2013 ad oggi, è l’ostilità di molte forze

politiche che prima hanno impegnato il Governo a presentare un progetto di riforma,

poi hanno votato a favore e ora fanno una furibonda battaglia per il no.

Certo, è una riforma da completare. La più evidente esigenza di completamento

riguarda le regioni a statuto speciale. Ma è in mala fede chi dice che si poteva fare in

questa occasione. Mentre è di tutta evidenza che se si fosse inserito anche questo

difficile tema nel testo della riforma, non vi sarebbe stato il consenso necessario alla

sua approvazione.