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Indice

Introduzione 1

1. Come,quandoeperchémentiamo 5 Cos’è la menzogna 5 Ma quanto mentiamo? 6 C’è bugia e bugia 8 Quattro ragioni per mentire 10 Anche la bugia ha i suoi anni migliori 11 Le bugie di lei e quelle di lui 13 Più ricchi, più disonesti 17 Anche i medici mentono 18 Questione di personalità 19

2. Smascherarelemenzogne 27 Cosa rende credibile una bugia 27 Quanto siamo abili a riconoscere i bugiardi? 32 Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio 34 Prendere esempio dai lie detector umani 34 Migliorare il proprio fiuto 38 Fidarsi dell’intuito 39 La sicurezza di sé porta a sbagliare 40

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Come reagiamo all’inganno? 41 Le scienze «esatte» e la ricerca sulla menzogna 42

3. Isegnalinonverbalidellamenzogna(parteprima) 53 Premessa 53 Facciamo i conti con la realtà 54 Pregiudizi e luoghi comuni 55 Perché il corpo non mente? 61 La triade delle emozioni-spia 62 Il sovraccarico cognitivo 69 Il controllo del comportamento 71 Perché è difficile interpretare i segnali emotivi? 73 L’incoerenza tra piano verbale e non verbale 76 Il naso di Pinocchio 78 Ammiccamenti ambigui 79 Indizi vocali 83 Lo sguardo parla 85 Gli indizi nei gesti 93 Gesti traditori 95

4. Isegnalinonverbalidellamenzogna(parteseconda) 103 Le espressioni del volto: una lingua universale 103 Cosa ci dice un’espressione? 105 Come si mostra un’espressione? 105 Sorpresa 106 Paura 107 Collera 111 Disgusto 113 Scetticismo, incredulità 115 Tristezza 116 Delusione 117 Dolore 118 Felicità 118 Le microespressioni 120

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Le espressioni soffocate 128 Eloquenti asimmetrie 129 Questione di tempo 130 Cambiamenti incontrollabili 131 Espressioni mescolate 134 La mimica facciale come segnale convenzionale 135 Un’indagine illuminante 136

5. Gliindiziverbalinellamenzogna 149 Uno strumento efficace: la SVA 150 Fuga di informazioni 158 Chiamate rivelatrici 166 Gli strumenti della linguistica 175

6. Lamenzognanellacoppia 187 Perché il partner mente? 188 Chi ben comincia… 190 Dating on line: i cacciatori di frodo della rete 191 La bugia più grossa 194 Indizi di tradimento 196 I gelosi: troppo sospettosi 200

7. Il«terzogrado»:comefarconfessareunbugiardo 203 Il peso di una confessione 203 I sentimenti dell’accusato 204 Le false confessioni 205 Intervista o terzo grado? 208 La tecnica Reid 210 Una linea ancora più dura 217 Imparare ad ascoltare 219 L’intervista indagatoria 222 L’uso del silenzio 226 Domande inattese: una prova ardua 227 Carpire le intenzioni senza scoprirsi 228

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L’esibizione delle prove 234 Il riepilogo sbagliato 237 La ripetizione in ordine inverso 237 Nella mischia 240

Ringraziamenti 251Bibliografia 253

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Introduzione

Smascherare le bugie è un tema accattivante e intrigante per chiunque.Se ne sono occupati filosofi come Socrate, Kant, Vico e Nietzsche;

teologi quali Tommaso d’Aquino e, in tempi moderni, psicologi come Paul Ekman, e molti altri.

La prima cosa che ho imparato approfondendo questa materia è stata una scoperta sconcertante: non esistono segni di menzogna!

Proprio l’analisi del comportamento menzognero ha messo in evidenza che non c’è niente di analogo al naso di Pinocchio per di-stinguere il falso dalla verità. La ricerca scientifica o l’esperienza di agenti speciali come Joe Navarro e Mark McClish hanno portato a rilevare numerosi indizi (prove fisiche, segnali non verbali, modi di dire, espressioni e microespressioni facciali); non uno di questi segni, però, preso di per sé, ci dice con certezza che ci troviamo di fronte a una bugia.

Sbugiardando (è il caso di dirlo) la facilità con cui i detective dei telefilm riconoscono la menzogna, mi sono allora reso conto che in-dividuare le bugie è un compito complesso, che richiede di prestare attenzione al contesto, al comportamento usuale del «sospettato», alla personalità di chi abbiamo di fronte eccetera.

Perfino l’indagine scientifica ha prodotto studi frequentemente in contrasto fra di loro, specie se si confrontano le analisi svolte fino agli anni Ottanta-Novanta con quelle più recenti; inoltre, le osservazioni

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sul campo di agenti di polizia spesso non coincidono con quanto emerso dalle ricerche degli psicologi, e l’esperienza comune al riguardo è ancora diversa.

In questo quadro caotico mi sono trovato inizialmente spiazzato e ho individuato il bandolo della matassa solo dopo aver letto tantissimo ed essermi allenato a riconoscere le menzogne analizzando filmati, trascrizioni di interrogatori e altro materiale.

Il frutto del mio lavoro sono i sette capitoli del libro: alla fine, credo, il migliore che abbia scritto.

Il primo capitolo tratta della definizione di bugia, di quanto è diffusa, di come cambia a seconda del sesso, della classe sociale, della personalità e così via.

Il secondo spiega quali sono gli ingredienti di una buona bugia e quali strategie adottare per migliorare il proprio fiuto, anche prendendo esempio dai cosiddetti «lie detector umani».

I successivi due capitoli sono interamente dedicati all’illustrazione degli indizi non verbali della menzogna (posture, gesti, movimenti degli occhi eccetera) e del modo corretto in cui vanno interpretati. Il quarto capitolo, nello specifico, tratta delle espressioni facciali, di come riconoscerle e di come essere in grado di coglierle quando sono associate alla bugia (a volte, in questo caso, si presentano per un ven-ticinquesimo di secondo!). Qui sono stati analizzati anche dei filmati legati a fatti di cronaca, come gli omicidi di Sarah Scazzi e di Melania Rea, individuando i potenziali segni di menzogna degli indagati.

Il capitolo che segue si occupa invece di un nuovo strumento per l’individuazione delle bugie attraverso l’analisi del linguaggio: è pro-babilmente il capitolo più originale, e riporta numerosi esempi tratti da interrogatori o chiamate ai servizi d’emergenza.

Il sesto si concentra su uno dei temi più vicini al lettore comune: i segni di infedeltà. Sono stati infatti scoperti indizi specifici che si manifestano in quell’ambito.

L’ultimo capitolo spiega quali tecniche dialettiche sono state usate dalla polizia per gli interrogatori e quali sono le attuali strategie per indurre un bugiardo a tradirsi o a confessare.

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I segnali non verbali della menzogna

(parte prima)

Premessa

Una primitiva forma di riconoscimento della menzogna era in uso ben duemila anni fa in India: all’ipotetico bugiardo veniva messo un chicco di riso in bocca e gli veniva detto di masticarlo; se riusciva a sputarlo significava che stava sostenendo la verità; in caso contrario, voleva dire che la paura di essere scoperto gli aveva reso la gola asciutta e così la sua colpevolezza veniva confermata.

Ricerche scientifiche e aneddoti di agenti di polizia o esperti truffa-tori hanno messo in evidenza che smascherare un bugiardo è tutt’altro che semplice.

Per prima cosa, non esistono segni verbali o non verbali che ac-compagnino in modo inequivocabile la menzogna: spesso si tratta di indizi che vanno quindi approfonditi; inoltre, solo la combinazione di segni verbali e non verbali ci porta a supporre con buona probabilità di trovarci di fronte a una bugia.

L’analisi di questi comportamenti ha messo in luce che esistono al riguardo due fronti opposti: da un lato l’indagine accademica, seria, rigorosa, ripetibile, che però non crea la stessa condizione di stress delle menzogne spontanee; dall’altro gli aneddoti riportati da investigatori e criminali che, pur non possedendo alcuna preparazione scientifica, dimostrano un particolare talento per sbugiardare i truffatori.

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Il confronto fra queste due posizioni porta inevitabilmente a co-

gliere numerose contraddizioni: quelli che sono segni di menzogna

per gli uni, non lo sono per gli altri.

Comportamenti come deglutire, stringere le labbra o un improvviso

abbassamento di voce, che dagli accademici sono interpretati solo

come sintomi d’ansia, possono diventare indici attendibili di bugia

quando colti nel giusto contesto e valutando con attenzione chi si ha

di fronte. Inoltre, come spiegheremo approfonditamente nel prossimo

paragrafo, spesso ci avvaliamo di indizi che esulano dall’osservazione

del comportamento non verbale o dall’analisi dello stile linguistico

dell’indiziato. Infine, chi è particolarmente abile nel riconoscimento

della menzogna si avvale dell’esperienza e dell’intuito.

Facciamo i conti con la realtà

In questo e nel prossimo capitolo andremo a illustrare gli indizi

non verbali che segnalano una menzogna, così come sono emersi

dall’indagine scientifica e dalle intuizioni di investigatori navigati.

I ricercatori Hee Sun Park, Timothy Levine, Steven McCornack e

altri hanno però mosso un’importante critica a queste scoperte: non

è così che la gente scopre le menzogne nella vita vera!

In un tipico esperimento sul tema viene «assoldato» un certo nu-

mero di partecipanti: questi sono invitati a dire una bugia oppure la

verità. Un altro gruppo di volontari ha invece il compito di stabilire

chi menta e chi no. Sulla base di un procedimento di questo tipo, i

giudici superano appena la media, cioè nelle loro valutazioni sono

molto vicini alla casualità.

La cosa non deve sorprendere, sostengono gli studiosi: innanzitutto,

gli unici comportamenti su cui i giudici devono basarsi sono segnali

verbali e non verbali. Inoltre, vengono costretti a farlo immediatamente

dopo l’osservazione di un breve filmato. In sostanza, non conoscono

di persona gli individui ripresi; non hanno interazioni a faccia a faccia

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con loro, non dispongono di informazioni sulla loro vita, sulle loro abitudini o sulla loro personalità, né hanno altri indizi.

Nella realtà, puntualizzano gli autori della ricerca, una menzogna viene scoperta dopo un’ora, una settimana e perfino dopo qualche anno, e le «spie» che portano a questa conclusione sono molteplici. I ricercatori hanno così condotto un’indagine e hanno appurato che, di norma, chi viene a sapere di essere stato ingannato viene spesso «imbeccato» da terze persone (nel 32% dei casi) oppure lo accerta in base a molteplici elementi (30,9%) o a prove (nell’85% dei casi) come l’estratto conto della carta di credito, una ricevuta d’albergo lasciata inavvertitamente nella giacca o uno squillo del cellulare in un orario insolito.

Non è solo la carenza di indizi a rendere la ricerca scientifica al riguardo deludente, ma anche, secondo gli psicologi Stephen Porter e Leanne ten Brinke, il fatto che in quel contesto la posta in gioco è modesta: non ci sono grandi vantaggi a mentire e le conseguenze, nel caso si fosse scoperti, sono praticamente inesistenti. Se il rischio aumenta, anche le reazioni emotive (paura, rimorso, rabbia e perfino eccitazione) crescono, così come lo sforzo mentale e il bisogno di autocontrollo: con l’effetto che il bugiardo si lascia inevitabilmente scappare una maggiore quantità di segnali involontari a livello sia verbale sia non verbale.

Pregiudizi e luoghi comuni

Segnali ingannevoli, anche per gli esperti

Come in altri campi, anche a proposito degli indizi di menzogna fioccano leggende e convinzioni popolari.

Le credenze più diffuse riguardano soprattutto i movimenti del volto; in uno studio condotto da 91 ricercatori in 75 Paesi e 45 diverse lingue è emerso che ben 4 di 9 presunti segni coinvolgono la faccia: in particolare, i movimenti degli occhi, l’evitare lo sguardo, le espressioni

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facciali e i cambiamenti di colore del volto (rossore o pallore). L’in-dagine ha messo in luce che il 71,5% dei partecipanti ritiene che chi mente distolga lo sguardo mentre parla; il 65,2% crede che il mentitore sia piuttosto irrequieto e cambi spesso posizione del corpo; il 64,8% ritiene che il bugiardo si tocchi e si gratti più del comune; il 62,2%, poi, pensa che il discorso di chi dice il falso sia più lungo del normale.

Aldert Vrij, in un sondaggio sulle menzogne quotidiane (le più comuni con cui abbiamo a che fare), ha appurato che i partecipanti, invitati a riferire le loro esperienze e i loro sentimenti al riguardo, puntualizzavano di sentirsi particolarmente a disagio a mentire e di trovarlo difficile e penoso: questo spiegherebbe perché esista la convinzione diffusa che chi mente appaia nervoso, mentre negli studi scientifici al riguardo i soggetti risultino alla peggio un po’ tesi.

Altri segni – non universali però – sono il balbettio, le pause lunghe, le gesticolazioni eccessive, un’espressione cupa e seriosa.

Esiste anche un’altra convinzione piuttosto radicata nel pensiero popolare: chi mente tende a ridere. Non riuscire a trattenere il riso quando si viene accusati di qualcosa è in realtà un modo di sfogare un senso di imbarazzo; non è escluso che questo possa anche dipendere dall’ansia di essere scoperti, ma è un segnale altamente inaffidabile.

L’elenco degli stereotipi sulla bugia non è solo condiviso dalla gente comune; purtroppo le forze dell’ordine non sono esenti da questi pregiudizi: un esame della capacità di giudizio di poliziotti e investigatori ha messo in evidenza che il 75% di chi fa parte di questa categoria reputa che segni di ansia come distogliere lo sguardo o strin-gere nervosamente qualcosa (per esempio un lembo dei pantaloni o una pallina di carta) siano sicuri indicatori di inganno.

In un’indagine sui pregiudizi sulla menzogna Aldert Vrij e Gün Semin hanno messo a confronto studenti universitari, professionisti nel riconoscimento delle bugie (investigatori, guardie carcerarie, agenti di custodia) e criminali incarcerati. L’esito ha dimostrato che solo i malfattori erano sufficientemente scaltri e capaci di distinguere pos-sibili indizi di menzogna da luoghi comuni: per esempio, i malviventi giudicavano che comportamenti come cambiare spesso posizione,

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gli autocontatti e i movimenti di mani e piedi diminuiscono quando uno mente, mentre secondo le altre due categorie aumentano. Inol-tre, studenti e professionisti ritenevano che distogliere lo sguardo sia un segno attendibile di menzogna; per contro, i galeotti pensavano l’esatto contrario (che cioè sia un indizio maggiormente affidabile il guardare più fissamente del normale).

I due sessi hanno un’idea diversa di quali siano i «sintomi» della bu-gia: è quanto hanno rilevato Taku Sato e Yoshiaki Nihei dell’Università del Tohoku, in Giappone. Esaminando un gruppo di 171 persone (91 donne e 80 uomini) hanno scoperto che le donne, più degli uomini, ritengono che chi mente mostri dei segnali non verbali (come toccare il proprio corpo o mordersi le labbra), appaia piuttosto inespressivo e sorrida poco. Inoltre, sempre le donne reputano che un bugiardo sia più irrequieto e abbia un discorso stentato e ingarbugliato.

Giovane e bello = innocente?

Giudici e giurie sono tutt’altro che indifferenti all’aspetto fisico degli imputati; numerose ricerche infatti dimostrano che la percezio-ne dell’onestà o della colpevolezza è influenzata dalla fisionomia del volto, e questo incide perfino nelle decisioni della pena da comminare.

Ancora adesso, insomma, non ci siamo emancipati dalle teorie del criminologo Cesare Lombroso che, nel XIX secolo, sosteneva che i criminali possedessero dei lineamenti diversi da chi non aveva un’inclinazione a delinquere.

In un’indagine condotta dagli psicologi Ran Hassin e Yaacov Trope su 535 israeliani, intervistati in merito all’opinione che le fattezze del volto possano riflettere la personalità di un individuo, ben il 75% delle persone interpellate ha risposto di sì; questa credenza però è stata ampiamente disconfermata dalla scienza: in sostanza, non c’è nessuna relazione tra aspetto esteriore e determinate attitudini.

Le psicologhe Diane Berry e Leslie Zebrowitz-McArthur hanno messo in luce, per esempio, che chi ha un volto dai tratti infantili (sopracciglia alte, occhi grandi, guance rotonde, fronte larga e mento

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rotondo) viene percepito come più sincero e onesto rispetto a chi presenta lineamenti più maturi.

In un esperimento condotto dalle due studiose, una giuria fittizia doveva esprimere il proprio parere su un fatto compiuto da individui con un volto dalle caratteristiche infantili. In una versione, un com-messo mostrava una certa negligenza non avvertendo il cliente dei potenziali pericoli cui poteva andare incontro nell’usare il prodotto che gli stava vendendo. In un’altra versione, il venditore ingannava deliberatamente il cliente. Curiosamente, i giurati reputavano chi aveva tratti infantili negligente (un comportamento che si accordava con le sue fattezze), mentre trovavano difficile pensare che avesse ingannato in modo volontario (perché questo non era in linea con il suo aspetto).

In un’indagine analoga, la stessa Zebrowitz, insieme con Susan McDonald, ha evidenziato che è più facile che chi ha un aspetto in-

Pregiudizi razziali

Perfino la razza dell’imputato può influenzare giudici e giurati: negli Stati Uniti le statistiche dimostrano per esempio che i colpevoli di colore hanno ricevuto condanne più severe dei bianchi; nemmeno la polizia è immune da questi pregiudizi: Aldert Vrij ha provato infatti che gli agenti di polizia in America tendono a essere più sospettosi se l’indiziato è afroamericano invece che caucasico.

Questa propensione negli States è talmente marcata che gli psicologi Irene Blair, Charles Judd e Kristine Chapleau, analizzando gli schedari di un carcere americano, hanno scoperto che per quanto bianchi e neri avessero ricevuto in media la stessa pena per crimini analoghi, all’interno della stessa razza i detenuti con un aspetto più marcatamente africano subivano pene più pesanti.

Tale pregiudizio razziale non è un fenomeno solo «a stelle e strisce»: basta pensare al caso tutto italiano della scomparsa di Yara Gambirasio, di cui è stato accusato in prima battuta il marocchino Mohammed Fikri, additato da tutti come colpevole e rivelatosi poi innocente.

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comportamentoabitualeperpoicoglierelealterazioniquandosiaffrontanogliargomenticritici. Così, se supponiamo che l’interlo-cutore abbia qualcosa da nascondere, è buona regola iniziare a parlare del più e del meno e, solo dopo aver capito qual è il suo modo di fare «standard», passare alle questioni su cui supponiamo menta e rizzare le antenne per cogliere eventuali variazioni nel comportamento. Se una persona è nervosa di suo, potrebbe diventare più composta e rigida; se è estroversa e tende a gesticolare, potrebbe continuare a farlo ma in modo artefatto ed eccessivo.

L’incoerenza tra piano verbale e non verbale

La contraddizione tra ciò che viene espresso a parole e quello che comunica il corpo sembra un segnale attendibile di menzogna: questa constatazione è stata messa in evidenza dagli psicologi David Matsumoto e Hyi Sung Hwang, della San Francisco State University, insieme con Lisa Skinner e Mark Frank.

In una loro indagine i partecipanti si trovavano in due condizioni sperimentali. Nella prima avevano la possibilità di commettere un crimine (rubare 50 dollari da una borsa) e poi veniva chiesto loro se avessero compiuto il furto o meno. In una seconda situazione i volon-tari dovevano dire la verità o una bugia riguardo ai loro orientamenti politici. In entrambi i casi, se fossero stati giudicati bugiardi, la pena comportava la perdita del contributo ricevuto per la partecipazione all’esperimento e l’attesa obbligata di un’ora in una stanza angusta, seduti su scomode sedie di metallo ad ascoltare un suono fastidioso (quindi erano molto motivati a risultare credibili).

Dopo aver selezionato 20 persone, 10 per ogni condizione spe-rimentale, i ricercatori hanno codificato i loro comportamenti non verbali (le espressioni facciali e i gesti) e hanno preso nota del fatto che fossero coerenti o meno con ciò che ammettevano (gli sperimentatori sapevano come erano andati i fatti e quale fosse la tendenza politica dei volontari). Inoltre, hanno trascritto quanto detto dal gruppo e l’hanno

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analizzato con uno strumento che esamineremo in un successivo ca-pitolo, l’analisi delle dichiarazioni (in sintesi, hanno osservato alcuni parametri come minimizzare o amplificare gli avverbi, cambiare la forma dei verbi – per esempio dire «pensavo di andarmene» invece di «me ne andavo» –, poche espressioni riferite ai sensi come «vedere», «sentire», «toccare», «appoggiare», «sbirciare» eccetera, e cambiamenti dei sostantivi – per esempio, usare «attrezzo» invece che «corda»).

L’analisi ha messo in luce che chi mentiva generava più compor-tamenti non verbali incoerenti con il contesto o con il contesto di quello che diceva rispetto a chi dichiarava la verità: un partecipante, per intenderci, ha affermato che non aveva trafugato il denaro, ma mostrava segni di paura e di stress mentre lo diceva. Per contro, chi era onesto produceva molti più segnali in linea con quanto sosteneva, come per esempio annuire mentre dicevano «sì».

Curiosamente, affermano gli autori della ricerca, non c’erano se-gnali non verbali che di per sé esprimessero la verità o la menzogna; invece era molto attendibile l’incongruenzatraquantosostenutoaparoleequantoespressoconilcorpo.

Vediamo qualche altro esempio. Una donna che non voglia dare a intendere al suo accompagnatore che è venale può rispondere alla domanda: «Ti va di venire a fare un giro sulla mia Ferrari?» con un rifiuto, ma contemporaneamente portare il busto in avanti in segno di interesse.

In modo analogo, un’opportunista che riceve in regalo dal suo fidanzato un anello con diamante può dire: «Sai che non ci tengo a queste cose: quello che mi piace in un uomo sono la sensibilità e l’affidabilità», e al tempo stesso non distogliere un attimo lo sguardo dall’anello.

Si può paragonare a questi casi l’atteggiamento di una moglie che, infuriata perché la sera prima il marito è tornato ubriaco, affermi: «Non ti giudico» – e intanto incroci le braccia in segno di chiusura – «basta che tu mi racconti perché l’hai fatto».

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Il naso di Pinocchio

Per quanto, come abbiamo precisato, gli indizi non verbali di men-zogna vadano esaminati caso per caso, in rapporto alla persona con cui abbiamo a che fare e, soprattutto, in riferimento al comportamento normale del «sospettato», esistono alcuni comportamenti o schemi di comportamenti che valgono per tutti.

In un esperimento condotto da Paul Ekman e Wallace Friesen, alcune allieve infermiere assistevano a dei filmati piacevoli o impres-sionanti (come l’amputazione di un arto o un’autopsia). Dopodiché dovevano raccontare quanto avevano visto a un gruppo di volontari; alcune, indipendentemente dal video, dovevano dire la verità, altre mentire. In entrambi i casi, le volontarie apparivano piuttosto im-mobili; quando però dovevano dire una bugia sulle scene più crude tendevano a portare le mani sul volto: toccandosi il naso, avvicinando la mano alla bocca, tirandosi una ciocca di capelli eccetera. Inoltre, cambiavano la posizione da sedute, gesticolavano poco e si lasciava-no sfuggire delle brevi espressioni facciali che rivelavano la loro vera reazione emotiva al filmato.

L’atto di sfregarsiilnaso, preceduto da un reale prurito, viene da molti indicato come un indizio di menzogna. È stato osservato, per esempio, da diversi venditori quando il cliente dava un appuntamento a cui non si sarebbe presentato.

In un comizio pubblico, Barack Obama ha dichiarato: «[…] come alcuni di voi hanno sentito, lo Stato delle Hawaii ha rilasciato il mio certificato di nascita completo e ufficiale»; dopo queste parole si è pizzicato il naso. E in effetti, si è scoperto che il certificato era falso.

Un altro esempio analogo è quello di Hillary Clinton durante una conferenza stampa svoltasi il 29 luglio 2009 a Washington. Sta parlando della situazione in Iran: «[…] come mi avete sentito dire prima, di sostegno al popolo iracheno, che possa esprimere le proprie opinioni, che possa manifestare liberamente e apertamente e mettere in atto proteste pacifiche per la libertà di stampa, perché i giornalisti non siano presi, arrestati e deportati, e ciò fa parte di tutte le preoccupazioni che

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abbiamo espresso» /qui solleva le sopracciglia in una microespressione

di perplessità e si gratta velocemente la narice sinistra – in questo caso,

verosimilmente indica che probabilmente non si identifica in coloro che

hanno preso quella posizione, ma non può ammetterlo/ «per settimane

su ciò che avevamo visto nel comportamento delle autorità in Iran».

Ammiccamenti ambigui

Alcune ricerche hanno messo in luce che chi racconta bugie tende

a battere le ciglia più spesso di chi è onesto, mentre altre hanno evi-

denziato che chi mente le batte meno: molto dipende dal momento

in cui viene colto il segno, dalla personalità, dal contesto, da quanto

uno si sia preparato a mentire eccetera.

Mediamente, noi battiamo le ciglia 12 volte al minuto per motivi

fisiologici (per umidificare l’occhio). Si è appurato che in condizioni

di tensione emotiva o di eccitazione, la frequenza dell’ammiccamento

aumenta; chi è più a disagio, rischia di più o è più ansioso tenderà a

sbattere le ciglia più spesso di chi è più calmo o più sicuro di sé.

Quando una persona è attenta o in allerta l’ammiccamento ral-

lenta; quando qualcuno legge qualcosa di interessante le palpebre

vibrano leggermente e, per contro, battono poco se ci si annoia. Se si

è concentrati fisicamente o mentalmente le palpebre sbattono meno;

al contrario, se si è confusi, disorientati, preoccupati, seccati si tende

ad ammiccare più del normale. Le persone dominanti o sicure di sé

sbattono le ciglia poco; lo fanno tanto invece le persone timide e ini-

bite. Anche chi ha poca stima di sé tende ad ammiccare velocemente;

per questo motivo talvolta chi deve fare un discorso si isola in modo

da distendersi prima di iniziare e inibire lo sfarfallio. I conduttori

dei telegiornali riducono la frequenza del battito delle ciglia quando

sbagliano per minimizzare i loro errori.

Va sottolineato comunque che l’aumento dell’ammiccamento

palpebrale o lo sfarfallio delle palpebre (una vibrazione scomposta

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associata a volte a un rovesciamento dei bulbi oculari) possono anche valere come indizi di menzogna.

Dal momento che questa alterazione del comportamento è in sostanza un segno d’ansia, chi mente può mostrare un’intensifica-zionedellafrequenzadiammiccamentodopo che gli è stata posta unadomandaspecifica.

Poniamo che una moglie sospetti che il marito la stia tradendo e abbia trovato in una tasca della sua giacca il conto di un ristorante: a quel punto, potrebbe iniziare a parlargli del più e del meno (in modo da non metterlo sulla difensiva e fare leva sul fattore sorpresa) e poi, all’improvviso, chiedergli: «Cosa mi dici della ricevuta del ristorante che ho trovato nella tua giacca?» Se il marito batte le ciglia più velo-cemente è probabile che abbia qualcosa da nascondere.

Naturalmente lo stesso non vale se la domanda può suscitare di-sagio per il fatto di essere sospettati. Per esempio, mettiamo che un agente di polizia dica: «Hai rubato tu i soldi?!» al commesso di un negozio dove è stato trafugato l’incasso: se quest’ultimo intensifica la frequenza del battito delle ciglia vuol dire che va in ansia per essere stato accusato, ma non che sia colpevole.

Una particolare sequenza di ammiccamento si è rivelata uno degli indici di menzogna più simili… al naso di Pinocchio.

Numerose ricerche hanno infatti dimostrato che l’ammiccamento delle palpebre diminuisce quando si è impegnati in compiti mentali complessi e – come già sappiamo – spesso mentire richiede uno sforzo intellettuale maggiore.

Sharon Leal e Aldert Vrij con altri colleghi hanno così voluto veri-ficare se, con questi presupposti, si potesse cogliere un cambiamento significativo nel comportamento di sbattere le palpebre. Hanno quindi ideato un test: a metà dei partecipanti è stato chiesto di parlare dei propri affari, all’altra metà di rubare il testo di un esame dall’ufficio del professore e poi negare di averlo fatto.

L’esperimento ha dato un esito importante: chi erainvitatoamentirediminuivalafrequenzadell’ammiccamento,masubito dopoaverdettolabugiailbattitodicigliaaccelerava per una

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sorta di effetto compensazione. Chi invece diceva la verità aveva un aumento della frequenza di ammiccamento quando veniva invitato a riferire un fatto accaduto rispetto a quando doveva parlare di sé: questo probabilmente avveniva per il fatto che, nel momento in cui sapeva di essere esaminato, si sentiva giudicato e viveva uno stato d’ansia.

IL CASO La sparizione della piccola Ayla

L’ammiccamento come segnale di menzogna è stato rilevato in un’intervista a Phoebe DiPietro, nonna di una bambina di 20 mesi, Ayla Reynolds, sparita il 16 dicembre 2011 dalla sua casa di Waterville, nel Maine.

La bambina è scomparsa dalla sua camera da letto: il padre, Justin DiPietro, l’aveva messa a dormire alle 20 circa e il mattino dopo si è accorto che non c’era più. Stranamente, la cuginetta che dormiva nella stessa stanza non era stata toccata. Il giorno successivo, la madre di Justin, Phoebe, ha rilasciato una dichiarazione a una rete televisiva, rispondendo in modo evasivo quando le è stato chiesto se c’erano stati incidenti la sera precedente alla scomparsa e se ci fossero altre persone in casa oltre a lei e Justin. All’indomani dell’intervista, Phoebe ha ammesso invece che lei non c’era quella sera.

Quello che segue è uno stralcio dell’intervista con i commenti sul comportamento verbale e non verbale della donna.

Giornalista: Poteva essere successo qualche incidente quella sera?Phoebe DiPietro: /scuote la testa/ No /chiude gli occhi/Giornalista: Non c’era nessun altro qui?Phoebe DiPietro: /continua a scuotere la testa/ No /chiude gli occhi/Giornalista: Lei, Justin…Phoebe DiPietro: No /chiude gli occhi/Giornalista: C’erano altre persone qui?Phoebe DiPietro: /scuote nuovamente la testa/ No, no /chiude gli occhi/[più avanti nell’intervista]Giornalista: Quando ha scoperto che lei [la nipote] non era lì, cosa ha pensato?

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Phoebe DiPietro: Iooo /batte tre volte le ciglia mentre lo dice; poi accenna un sorriso – ha gli angoli delle labbra sollevati, la bocca socchiusa e un visibile rigonfiamento degli zigomi –, prontamente bloccato/ ho pensato che non volevo che mio figlio andasse a prendere qualche amico e assieme andassero a prendere a calci le porte [delle case] per cercarla.

Commento: allo stato attuale delle indagini (agosto 2012) Justin DiPietro non è stato accusato di aver fatto del male alla bambina e ha superato il test con il lie detector.

Tuttavia, ci sono degli elementi sospetti nel comportamento della madre di lui: forse ha mentito solo per far sì che il figlio non fosse sospettato di essere implicato nella sparizione di Ayla. In ogni caso, chiudere gli occhi dopo ogni «No» (per altro, come già detto, rispondere «sì» o «no» è un modo comune adottato dai mentitori per evitare di dare risposte più compromettenti) è eccessivo e verosimilmente indicava – anche alla luce dei fatti – che stava omettendo qualcosa.

Quando poi la giornalista le ha chiesto «Cosa ha pensa-to» in relazione alla scompar-sa della nipote, Phoebe ha battuto le ciglia tre volte, mentre esitava verbalmente («Iooo»), segno che non sapeva cosa rispondere.

La reazione più strana è però il sorriso trattenuto: un comportamento del tutto fuori luogo per una nonna che si mostra disperata per la scomparsa dell’amata nipote.

Phoebe DiPietro trattiene a stento un sorriso; segno che sta nascondendo qualcosa

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I segnali non verbali della menzogna

(parte seconda)

Le espressioni del volto: una lingua universale

Il nostro volto è una sorta di orologio svizzero, un meccanismo congegnato alla perfezione composto da 43 diversi muscoli che possono essere combinati in modo da produrre innumerevoli espressioni; si è calcolato che il numero di combinazioni possibili può dare luogo a circa 11.000 atteggiamenti diversi. La loro funzione principale è di comunicare le emozioni.

Il primo scienziato a cogliere il valore emotivo delle espressioni facciali è stato Charles Darwin, l’ideatore della teoria dell’evoluzione. Il biologo sosteneva che molte delle espressioni facciali (emozioni) fossero state selezionate per ragioni di adattamento all’ambiente, cioè servissero a comunicare qualcosa: lo stato interiore di una persona che, senza bisogno di parole, trasmette agli altri come si sente in quel momento (triste, felice, timoroso e via dicendo). Tutto ciò ha un valore sul piano personale e sociale; per esempio la paura è un’emozione che segnala in genere un pericolo, e quindi è utile comunicarla ad altri membri della stessa specie.

In tempi attuali, le osservazioni di Darwin sono state approfon-dite e sviluppate dallo psicologo americano Paul Ekman. Ekman ha esaminato migliaia di espressioni facciali e ha elaborato un modello scientifico per la loro interpretazione.

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Gli atteggiamenti del volto osservati da questo ricercatore sono gli stessi anche all’interno di culture molto diverse. Per esempio, in un gruppo della Nuova Guinea, di cultura primitiva, le espressioni facciali che gli individui esibiscono quando provano un’emozione sono identiche a quelle mostrate da chi vive nel mondo occidentale.

A cambiare da cultura a cultura sono invece le cosiddette «regole di esibizione»; in Oriente, per esempio, c’è una forte inibizione a mo-strare pubblicamente le emozioni negative come rancore, tristezza o dolore (specie tra gli uomini).

Un nuovo studio di David Matsumoto e altri ricercatori della San Francisco State University ha dato prova che la mimica facciale non si apprende, ma nasce con noi.

Gli scienziati hanno condotto l’indagine analizzando le foto di 4.800 atleti di judo provenienti da 23 diversi Paesi, ripresi alla ceri-monia di premiazione dei Giochi olimpici e paraolimpici del 2004; tra questi c’era anche un nutrito gruppo di non vedenti. Dall’esame delle espressioni facciali è emerso che gli atleti ciechi e quelli vedentiavevano la stessa mimica in tutto e per tutto: per esempio, chi aveva conquistato la medaglia d’oro esprimeva felicità ed entusiasmo, mentre chi era arrivato secondo esibiva un sorriso di circostanza, che lasciava trapelare una certa amarezza.

Questo riscontro ha portato gli studiosi ad affermare che le espres-sioni emotive sono scritte nel nostro DNA proprio perché, anche chi non le aveva mai potute vedere e quindi assimilare, le mostrava nell’identico modo degli altri.

A ulteriore riprova del fatto che le espressioni emotive sono innate contribuisce una recente ricerca di un team composto da una psicologa, Nadja Reissland, un medico, James Mason, un docente di statistica so-ciale, Brian Francis, e Karen Lincoln, ostetrica e ginecologa; l’indagine, in questo caso, è stata condotta studiando l’atteggiamento facciale dei feti attraverso un’apparecchiatura a ultrasuoni che permette di avere un’immagine tridimensionale del nascituro. Il comportamento è sta-to analizzato nel periodo tra la ventiquattresima e la trentaseiesima settimana di gestazione.

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Si è così osservato che alla ventiquattresima settimana i feti sono in grado di muovere un solo muscolo facciale alla volta: per esempio, possono tirare le labbra o aprire la bocca; dalla trentacinquesima, invece, diventano capaci di muovere i muscoli del volto in combina-zione: possono stirare le labbra, e al contempo abbassarle e rendere il solco naso-labiale (quello che va dal naso agli angoli della bocca) più profondo. In definitiva, possono mostrare un’espressione facciale completa.

In questo capitolo preciseremo quali sono gli indici espressivi delle emozioni principali e le loro più significative varianti; inoltre, parleremo di come queste espressioni si legano agli atti non verbali. Avremo così uno strumento in più per «leggere» il nostro interlocutore e capire se è sincero o bugiardo.

Cosa ci dice un’espressione?

L’osservazione dei cambiamenti dell’espressione del volto in rela-zione a degli stimoli ci può dire:

• quale emozione sta vivendo l’individuo;• se prova due emozioni contemporaneamente;• l’intensità dell’emozione.

Come si mostra un’espressione?

L’espressione del volto si può mostrare:

• in modo completo per alcuni secondi (se permane di più non è genuina);

• come microespressione (per pochissimi istanti): l’espressione è completa, ma si mostra per un tempo brevissimo;

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• in modo soffocato: l’espressione appare in modo parziale; cosa che, in certi casi, ne rende difficile l’interpretazione;

• in modo asimmetrico: gli stessi atteggiamenti compaiono sulle due metà del viso, ma con intensità diversa; in questo caso siamo di fronte a un’espressione fasulla, simulata.

Passiamo ora a elencare i tratti distintivi delle principali emozioni.

Sorpresa

Il tratto più distintivo della sorpresa è un repentino sollevamen-to delle sopracciglia, che appaiono curve; inoltre, il lembo di pelle

tra palpebra e sopracciglia ha un aspetto teso e risulta più esteso che in condizioni normali.

Se l’inarcamento delle soprac-ciglia viene esibito senza le conco-mitanti modificazioni della pelle sopra le palpebre e dell’occhio, è un modo per esprimere incredulità (in questo caso, si tratta di un segnale intenzionale).

Questa posa delle sopracciglia determina un corrugamento del-la fronte provocando delle lunghe

pieghe che l’attraversano orizzontalmente.Gli occhi sono spalancati: le palpebre superiori sono sollevate e

quelle inferiori abbassate; la parte bianca dell’occhio, la sclera, è visi-bile sopra l’iride (il cerchio colorato al centro) e talvolta anche sotto.

Alle volte potremo osservare che gli occhi vengono aperti per un istante senza che ci sia l’interessamento delle sopracciglia: in quel caso, l’espressione segnala un inatteso aumento dell’interesse.

Il mento tende a cadere verso il basso, portando le labbra a dischiu-

Espressione di sorpresa

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intende rimarcare che ciò che dice è serio e grave oppure che prova disappunto per la situazione o l’argomento.

Un’indagine illuminante

Come abbiamo commentato nel capitolo precedente, Porter e ten Brinke hanno evidenziato un limite negli studi sul riconoscimento della menzogna: il fatto che i soggetti esaminati non hanno in genere grandi ragioni per «scomporsi» mentre mentono, tanto si tratta solo di simulazioni.

I ricercatori hanno così pensato di analizzare il comportamento di persone che potenzialmente avevano molto da perdere a essere scoperte: per questo motivo hanno studiato 78 appelli televisivi di familiari o parenti che si rivolgevano a «presunti rapitori» affinché liberassero i loro cari; la scelta è caduta su queste situazioni perché – lo abbiamo già anticipato – nella realtà è stato dimostrato che almeno nel 50% dei casi chi faceva l’appello era il colpevole della sparizione, o almeno ne era coinvolto.

I filmati sono stati esaminati alla ricerca di indizi verbali e non verbali di menzogna, analizzando le espressioni facciali e il discorso.

Per essere certi che le loro conclusioni fossero corrette, gli autori hanno confrontato ciò che avevano riscontrato con prove oggettive (raccolte dalla polizia e utilizzate nelle aule di tribunale, come l’analisi del DNA, oppure tabulati telefonici e testimonianze) che avevano portato alla condanna dei familiari o alla loro esclusione dalla rosa degli indiziati.

Il risultato ha dato così prova che c’è modo di distinguere i colpe-voli dagli innocenti soprattutto dall’esame delle espressioni del volto.

Gli assassini che mentivano più facilmente esprimevano segni di disgusto, specie sollevando il labbro superiore: quando questo atteggiamento non era legato a un contenuto specifico, ipotizzano gli autori della ricerca, probabilmente rifletteva la ripugnanza per l’omicidio commesso, il senso di colpa e la vergogna per le loro azioni

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o un sentimento di repulsione per la vittima; per contro era difficile trovare segni di tristezza genuina. Il contrario avveniva invece con chi era innocente: questi ultimi esprimevano segni di tristezza e ansia. Sor-prendentemente, sono state notate parecchie espressioni di sorpresa in chi mentiva; secondo gli autori, ciò accadeva non perché questi ultimi provassero davvero quella emozione, ma perché cercavano di simulare in modo maldestro preoccupazione e afflizione. L’atteggiamento an-golato delle sopracciglia nella tristezza e la forma a triangolo scaleno è praticamente impossibile da ricreare; in modo analogo, l’apprensione, in cui le sopracciglia vengono sollevate (come appunto nella sorpresa) ma unite al centro, formando un solco verticale sulla fronte, è quasi altrettanto difficile da riprodurre in modo volontario. Proprio nel tentativo di fingere queste espressioni i mentitori rivelavano la loro effettiva mancanza di genuino coinvolgimento emotivo.

Un altro segno distintivo dei bugiardi era la presenza, in genere molto rapida, di un sorriso: probabilmente, commentano i due ri-cercatori, si trattava di un «sorriso nervoso» oppure di una sorta di piacere sadico. In ogni caso, proprio questo tratto si era dimostrato uno degli indizi più attendibili di menzogna.

A livello linguistico, chi diceva il falso usava molte più espressioni verbali di incertezza («forse», «più o meno» eccetera). È stato poi rilevato che questi appelli venivano fatti molto prima dai colpevoli che dagli innocenti.

IL CASOL’omicidio di Sarah Scazzi

Mettiamo ora alla prova queste osservazioni in un caso reale: il caso di Sarah Scazzi, noto anche come «il delitto di Avetrana». L’omicidio della quindicenne di Avetrana, in provincia di Taranto, ha suscitato molto scalpore a livello mediatico.

Del fatto, accaduto il 26 agosto 2010, è accusata la cugina Sabrina Misseri, la madre di lei, Cosima Serrano (che avrebbe architettato il tutto) e il padre, Michele Misseri, prima reo confesso e attualmente sotto accusa per occultamento di cadavere.

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Analizzando la prima intervista che Sabrina Misseri ha rilasciato alla trasmissione Chi l’ha visto? possiamo cogliere dei segnali che sembrano esprimere proprio un atteggiamento di disprezzo e disgusto parlando della cugina: si tratta di microe-spressioni che durano meno di 1 secondo.

Quella che segue è la trascrizione dell’intervista con gli atteggiamenti sospetti rilevabili in base a quanto esposto in queste pagine.

Giornalista: So che vi scrivevate messaggi quotidianamente… con il cellulare.

Sabrina: Sì, erano semplici messaggiii… per parlare di uscite; cosa stai facen-do o quando ci potevamo vedere, se poteva venire a casa mia… messaggi normalissimi.

Giornalista (parzialmente sovrapponen-dosi a Sabrina): Ma Sarah non ti ha mai parlato di… Internet /qui Sabrina socchiude gli occhi e assottiglia le labbra in quella che è un’espressione di collera/ non ti ha mai detto nulla?

Sabrina: Lei raccontava che qualche volta andava a casa di un’amica per entrare nel profilo di Facebook; però lei si lamentava perché diceva che ogni volta mi diceva che non riusciva ad entrare, perché ogni volta non ricordava la password…

Giornalista: Ma che tu sappia, lei usava un nickname, un nomignolo…

Sabrina: No, lei mi diceva sempre che usava solo il nome e il cognome e basta; poi non lo so… io so soltanto che la password ce l’ha più di qual-cuno, poi non lo so /tira l’angolo destro delle labbra e solleva lo zigomo, tanto da rendere più evidente il solco naso-labiale in un’espressione a metà tra il disprezzo e un sorriso crudele/

Sabrina Misseri: espressione di rabbia

Sabrina Misseri: espressione di disprezzo

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Commento: riassumendo, siamo di fronte a due indizi che, secondo lo studio di Porter e ten Brinke, potrebbero essere indicativi del rancore di Sabrina per la cugina; inoltre, tutti e due si riferiscono a Internet o Facebook, quindi potrebbero essere legati a quello che è considerato il movente della cugina di Sarah: la gelosia per il rapporto di quest’ultima con Ivano Russo, di cui Sabrina era innamorata. In altre parole, Sabrina potrebbe aver espresso quella mimica facciale riguardo ai possibili messaggi che i due si sarebbero mandati via Internet.

Esaminiamo a questo punto anche la prima intervista di Michele Misseri: in quell’occasione, aveva finto di aver ritrovato il cellulare della nipote per una casualità.

Quella che segue è la trascrizione dell’intervista.

Michele Misseri: È stataaa proprio un caso, proprio… io non volevo che lo trovassi… magari la gente dice – ma proprio lo zio lo doveva trovare? /sol-leva le braccia in un gesto plateale/ non volevo. Ho detto ai carabinieri di non dire niente a nessuno… purtroppo, si è saputo lo stesso.

Giornalista: Mi racconta come è suc-cesso?

Michele Misseri: Allora, eee, ieri abbia-mo pulito gli alberi dell’olivo con una scopatrice… con un amico, ahh, un certo Bellino Dicimmo di Avetrana. Mi sono dimenticato un cacciavi-te, che per caso del cacciavite s’è trovata questa fortuna. Come sono sceso dove ho parcheggiato que-sta mattina ho visto una cosa della bruciacchiatura e mi è venuta /mette entrambe le mani sul petto e incassa la testa/ una cosa forte /si mette a pian-gere e si massaggia il petto/ e /mette la

Michele Misseri: atteggiamento normale

Michele Misseri: espressione d’ansia

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Gli indizi verbali nella menzogna

Nel 1994 Susan Smith, una ventitreenne del South Carolina, rilasciò un’intervista in televisione sostenendo che i suoi due bambini erano stati rapiti. Successivamente, la polizia scoprì che la donna aveva affogato i figli in un lago e inscenato il rapimento per nascondere il suo gesto.

Quando ancora non era sospettata dell’omicidio la Smith aveva affermato pubblicamente: «I miei bambini mi volevano; avevano bi-sogno di me e adesso io non posso aiutarli». È stata proprio l’analisi linguistica delle dichiarazioni della donna a smascherarla. Mentre nelle sue interviste il padre parlava al presente (ritenendo appunto che i figli fossero ancora vivi), la madre si riferiva a loro usando i verbi al passato: un modo di esprimersi decisamente inconsueto in chi nutre la speranza di ritrovare i propri cari dispersi.

Sulla base dell’esame delle dichiarazioni di mentitori e persone sincere si è potuto evidenziare che esistono degli elementi del lin-guaggio che maggiormente tradiscono le bugie. In questo capitolo vedremo quali sono.

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Uno strumento efficace: la SVA

Il primo modello strutturato per la discriminazione delle dichia-razioni veritiere da quelle false è la SVA.

La sigla sta per Statement Validity Analysis, o Analisi della veri-dicità delle dichiarazioni, ed è la tecnica più diffusa per misurare la credibilità delle testimonianze, e in particolare per cogliere gli indizi verbali della menzogna.

Questo strumento è stato ideato dallo psicologo tedesco Udo Undeutsch nel 1967 e poi riformulato e perfezionato da altri studiosi per l’analisi dei casi di abuso fisico su minori. Successivamente, si è appurato che è un metodo di analisi valido anche nell’esame dei racconti degli adulti riguardo ad argomenti diversi dai reati di stampo sessuale.

La SVA si compone di tre elementi principali:

• un colloquio strutturato;• l’analisi dei contenuti determinata con precisi criteri (CBCA,

Criteria-based content analysis);• il confronto fra gli esiti dell’analisi e gli altri elementi di prova.

Il punto di forza della SVA è proprio la CBCA. La tecnica, che è stata affinata da Max Steller e Günter Köhnken, comprende 19 criteri che si presume riflettano la qualità del contenuto di una dichiarazione (in termini di vivacità, concretezza, vividezza, coerenza psicologica ecce-tera) e alcuni aspetti quantitativi (il numero di dettagli, la lunghezza degli enunciati, la presenza e la ripetitività di esitazioni, intercalari, pause eccessive e così via).

Tali criteri sono stati studiati per consentire di riconoscere le differenze tra un racconto credibile e uno inventato: per esempio, un elevato numero di dettagli è un buon indice di credibilità; al riguardo le ricerche hanno dimostrato che chi mente fornisce, in effetti, meno informazioni di chi dice la verità.

L’analisi condotta con la SVA viene accettata come elemento pro-

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IL CASOUna battuta fuori luogo

Mettiamo alla prova gli elementi di cui disponiamo finora per analizzare la chiamata al 911 di Sergio Celis in occasione della scomparsa di sua figlia Isabel.

Ascoltando la telefonata (la si può trovare su YouTube e su Internet è disponibile la trascrizione), la prima anomalia che salta all’occhio è il tono pacato e calmo di lui; del tutto implausibile per un padre a cui non solo è scomparsa la figlia, ma che ha motivi fondati per ritenere che sia stata rapita (ricordiamo che la bambina è sparita dalla sua stanza, e che inoltre la finestra era aperta e il vetro era stato tolto e appoggiato sul muro esterno della casa).

Quelli che seguono sono alcuni passaggi della telefonata.

Centralino: Qual è la sua emergenza?Sergio Celis: Voglio denunciare la scomparsa di una persona; di mia figlia piccola

di 6 anni. Credo sia stata rapita da casa mia.Centralino: Dove abita?(Alla risposta, l’addetto gli dice di rimanere in linea per parlare con la polizia di

Tucson.)Receptionist: Polizia di Tucson, dipartimento di GabhartSergio Celis: Salve, devo denunciare un, uhm, la scomparsa di una bambina. Credo

sia stata rapita da casa mia.Receptionist: Bene, si tratta di sua figlia o?…Sergio Celis: Sì.Receptionist: Perché pensa sia stata rapita?Sergio Celis: Non ne ho idea. Ci siamo alzati questa mattina e siamo andati a sve-

gliarla per portarla alla partita di baseball che aveva e lei non c’era. Ho svegliato i miei, miei figli. Ho guardato dovunque in casa e il mio figlio più grande ha notato che la sua finestra [di Isabel] era aperta e il vetro era appoggiato nel cortile.

[…]Receptionist: C’è anche la mamma?Sergio Celis: Uhm, lei era appena uscita per andare al lavoro: l’ho giusto chiamata

e le ho detto di portare a casa il culo (risate).[…]Receptionist: Avete…

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Sergio Celis: Ah, ah…Receptionist: …avete ricevuto qualche strana telefonata; qualcosa del genere, visto

qualcuno aggirarsi nei paraggi?Sergio Celis: No. Siamo tornati tardi dalla partita di baseball dei miei figli […] mi

sentivo assonnato e non ho mai sentito niente di strano.

Commento: come abbiamo già sottolineato, la voce tradisce la mancanza di preoccupazione del padre (in totale contrasto con quanto mostrato nell’appello in TV che abbiamo esaminato in precedenza).

L’analisi del discorso evidenzia poi alcuni elementi decisamente sospetti: in-nanzitutto, nella prima telefonata si riferisce alla propria figlia prima dicendo che è una persona scomparsa e successivamente una bambina; per altro, mentre nel primo caso specifica che si tratta di sua figlia, in seguito non si prende nemmeno la briga di precisarlo, tanto che tocca al centralinista chiederlo. Come abbiamo detto, usare espressioni impersonali per parlare di un proprio familiare è un modo per esprimere una dissociazione emotiva dalla persona o dalle eventuali azioni compiute contro di lei.

Inoltre, quando l’addetto gli chiede perché pensa sia stata rapita, Celis risponde in prima battuta che non ne ha idea, quando invece ha visto la finestra aperta senza il vetro; ma precisa questo dettaglio solo in un secondo momento.

Del tutto fuori luogo anche la battuta sulla moglie: «le ho detto di portare a casa il culo» e la risata che ne segue. A un genitore in ansia non verrebbe mai in mente di fare dello spirito, per di più da caserma.

Infine, in risposta alla richiesta del receptionist se avesse notato qualcosa di insolito, replica commentando che si sentiva assonnato e che non ha mai sentito niente di strano: quell’avverbio stride se riferito a un fatto specifico.

In definitiva, l’analisi della telefonata avvalora ancora di più l’ipotesi di coin-volgimento di Celis nella sparizione della bambina; cosa già emersa dall’esame della mimica facciale nel corso dell’appello in TV.

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Alla successiva domanda dell’operatore («cos’è successo?»), Peterson non menziona come stia la moglie, se stia sanguinando o qualcosa del genere, ma si premura a precisare che le è capitato un incidente (verosimilmente per prendere le distanze dal fatto); solo alla successiva domanda (la terza) precisa che è caduta dalle scale: questo tergiversare sull’accaduto è decisamente sospetto.

La puntualizzazione «Non avrei mai voluto che le accadesse qualcosa di male» stride con la dichiarazione che si sia trattato di un incidente: la propria volontà non c’entra niente con una disgrazia; la frase diventa quindi un’implicita e involontaria ammissione di colpa.

Ma il punto più significativo è che in nessun momento l’uomo chiede espli-citamente assistenza medica per la vittima!

Il tono di voce

Nell’indagine di Adams e Harpster le richieste di assistenza medi-ca sincere erano accompagnate da una modulazione della voce. Per contro, un tononeutroepacatoèsospetto; solo il 4% dei chiamanti innocenti non mostrava variazioni di voce, mentre il 35% dei colpevoli aveva un tono uniforme e controllato.

In modo analogo, in tale situazione chi telefona fa un’esplicita richiesta di intervento medico. Nello studio, il 37% dei chiamanti ha espresso questa urgenza: tutti erano innocenti. Al contrario, il 22% dei soggetti dichiarava una situazione d’emergenza,masimostravapazienteecontrollato:si sono rivelati tutti colpevoli.

Altri parametri significativi

Il grado di collaborazione del chiamante è un’altra importante discriminante tra individui innocenti e colpevoli: i primi sono pronti a rispondere alle domande e danno numerose informazioni;icolpevoli, per contro, appaionoriluttantiaparlare,ripetonoleparoleedannorispostepocochiare. Nell’indagine di Adams e Harpster, il 51% di chi ha chiamato il servizio emergenze per denunciare un omicidio ha

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ripetuto delle parole nel corso della telefonata: la totalità di costoro era colpevole.

Quando un chiamante risponde a una domanda rilevante con espressioni come «ah», «uhm», «cosa?» eccetera è in stato confusionale (a meno che non ci siano dei rumori che disturbino la ricezione) e, di per sé, ciò non è indice di colpevolezza. Rilevantisono invece leinterruzionideldiscorsoeil fatto dicambiareargomento rispetto al motivo della telefonata. Il 30% dei chiamanti che si è comportato così si è rivelato colpevole: la presenza di questi segni, sostengono gli studiosi, è un indizio frequente di colpevolezza.

IL CASOChe fine ha fatto Zahra?

Una chiamata che ripropone proprio cambiamenti di discorso, mancanza di interesse per quello che si sta dicendo e altri elementi sospetti è quella di Adam Baker in relazione alla sparizione di sua figlia Zahra Claire.

La bambina, di 10 anni, scomparve dalla sua casa nel North Carolina il 9 ottobre 2010: due mesi dopo, nel novembre di quell’anno, furono ritrovati i suoi resti smembrati.

Elisa Baker, la matrigna, aveva chiamato il 911 alle 5.20 circa di quel giorno per denunciare un incendio nel giardino. Nella sua telefonata parla del fatto che il giardino andava a fuoco, ma non fa alcun cenno alla scomparsa della figliastra. Ci penserà il marito, Adam Baker, numerose ore dopo (circa alle 14), ad avvisare le autorità.

Successivamente, Elisa Baker è stata incriminata e condannata per l’omicidio della ragazzina, con l’accusa di aver redatto anche una falsa richiesta di riscatto.

Per completare il quadro va menzionato il padre, Adam, che seppure sia risultato estraneo all’omicidio, non è detto che non ne fosse a conoscenza; inoltre, si tratta di una figura tutt’altro che immacolata: il 5 gennaio 2012 è stato condannato pure lui per aggressione a mano armata e per altri reati minori.

Esaminiamo quindi la chiamata al 911 di Adam Baker.

Adam Baker: Hey, come va? /il suo tono è calmo e controllato/Centralino: Bene…

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Adam Baker: Ho bisogno della polizia (a quel punto la telefonata viene dirottata al distretto giusto).

Centralino: 911, qual è l’emergenza?Adam Baker: Ah… sì, mia figlia è scomparsa […]. La polizia è stata qui ieri notte

[per la denuncia di incendio]. Hanno trovato una richiesta di riscatto per la figlia del mio capo... ehm... mi sono alzato un po’ di tempo fa... e sembra che abbiano preso mia figlia al posto della figlia del mio capo […].

Centralino: Quando è scomparsa?Adam Baker: Uhmmm… abbiamo controllato questa notte attorno alle 2.30 e

lei era lì: tutto è successo stanotte attorno alle 5.00… così, io non so se loro hanno dato fuoco al giardino per distrarci e farci uscire per poi entrare con tutta calma dalla porta… o… non so.

Centralino: Non sono a conoscenza di quanto è accaduto stanotte… cosa è suc-cesso questa notte?

Adam Baker: Ok, questa notte ci siamo alzati… il mio cane mi ha svegliato e c’era un incendio nel cortile e qualcuno ha versato della benzina nel camion della mia compagnia che io guido per lavoro. Hanno lasciato una lettera di riscatto sul veicolo indirizzata al mio capo dicendo che avevano sua figlia e che suo figlio sarebbe stato il prossimo. […] e sua figlia è gentile. Sua figlia è venuta con lui ieri sera quando l’ho chiamato [si riferisce al capo]. E ah, sembra che abbiano preso mia figlia al posto di sua figlia.

Commento: il padre non vede la figlia dal momento in cui va a letto; non si preoccupa di controllarla quando scoppia l’incendio né sembra allarmarsi di non trovarla in piedi quando arrivano i mezzi di soccorso che sicuramente fanno un sacco di rumore. Nemmeno gli viene il dubbio che la «figlia» di cui si parla nella richiesta del riscatto possa essere la sua. La sua «preoccupazione» è tale che dà l’allarme 6 ore dopo che il giardino è andato in fiamme…

Del tutto insoliti sono il suo modo di presentarsi al 911 («Hey, come va?») e il tono pacato: esprimono un totale disinteresse per le sorti della figlia (forse perché sa che le è successo qualcosa?).

Inoltre, quando gli viene chiesto qual è l’emergenza, risponde in modo stupito; parla del supposto equivoco di persona e fa un commento del tutto irrilevante come: «ehm... mi sono alzato un po’ di tempo fa»; le sue espressioni sono con-fuse: «uhmmm», «non so»; inoltre, a un certo punto, sembra dimenticarsi della

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