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INDICE

Voglia di comandare Parte prima IL FAZZOLETTO ROSSO L’ateo a orologeria Parte seconda LA CAMICIA NERA L’uomo della Provvidenza Parte terza IL CASCO COLONIALE L’impero di retroguardia

Parte quarta IL CAPPOTTO TEDESCO Infauste sponde

E-book realizzato da Filuc (2003)

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VOGLIA DI COMANDARE

Al colpo di pistola di Sarajevo, che pochi udirono, seguì il rombo del cannone che sorprese l’Europa in pieno tango argentino, il ballo in voga. L’Italia doveva decidere se entrare in guerra, e a fianco di chi, o se rimanerne fuori. Mussolini, dopo lunghe incertezze, cominciò a parlare di neutralità «condizionata», una formula ancora ambigua, sebbene potesse significare la preferenza per un intervento accanto alla Francia. Anche gli uomini a lui più vicini non capivano bene che cosa egli volesse. A cena, una sera, alcuni suoi colleghi giornalisti gli chiesero quale fosse mai il suo pro-gramma, ed egli rispose d’impeto nel suo dialetto romagnolo, e perciò in tutta sincerità: «Me a voi cmandè!», «Io voglio comandare!». Indicava così, con una battuta quasi casuale, la sua visione della vita, una Weltanschauung, come amerà dire in seguito per nobilitare una filosofia poco sapiente, ma molto calcolatrice.

Per quanto possa apparire paradossale, il suo continuo richiamo a un alto insegnamento nicciano, «Vivere pericolosamente», che divenne un suo motto di battaglia, non era che una modesta copertura per i rischi verso i quali il suo impertinente pragmatismo avrebbe potuto condurlo. Non era «volontà di potenza» la sua, per dirla ancora con il pensatore tedesco, ma più praticamente «voglia di comandare». E ciò perché l’ansia di potenza comporta anche il sacrificio per le proprie idee, mentre la smania di comando ne impone l’abbandono.

Nella sequenza delle parti in cui questo libro è suddiviso, sono indicate, attraverso capi d’abbigliamento, le fasi della metamorfosi politica mussoliniana, protese o ad acquisire un potere sempre più ampio o a salvare il salvabile, quando tutto sembra perduto. Sicché le idee non sono che uno sfondo trascurabile, una sorta di quinta teatrale mobile e sostituibile secondo le esigenze del momento e gli obiettivi che si intende perseguire. Nelle sue trasformazioni, mirate di volta in volta a soddisfare la voglia di comandare, Mussolini è stato rivoluzionario e conservatore, repubblicano e monarchico, ateo e credente. È stato massimalista quando quella scelta gli consentiva il dominio sul partito socialista, e conservatore quando colse la natura moderata del paese, rendendosi conto che in Italia un estremista di sinistra non sarebbe mai arrivato al potere. È stato ateo a orologeria quando agiva

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tra le masse più diseredate; si è mostrato credente quando doveva consolidare il potere con l’appoggio della Chiesa. Da repubblicano ha accettato la monarchia, avendo ancora bisogno del sostegno d’un grande convincimento popolare, e tornò a essere repubblicano a Salò, Quisling di Hitler, in odio al Savoia che lo aveva licenziato. Ciò che contava era l’esercizio del comando, e non la difesa delle proprie idee che, se diventavano un ostacolo, venivano rimosse e cambiate.

Mussolini stesso, con una punta di civetteria intellettuale, usava definirsi un «problemista». Si dipinse così fin dalla prima ora del fascismo. Per lui le ideologie erano «maglie di ferro» e, per fare dell’ironia, aggiunse che erano anzi «maglie di stagnola». Alla voce sul fascismo, che scrisse con Gentile per l’Enciclopedia italiana, pose in rilievo il pragmatismo e l’adattabilità della sua azione politica. Non sentendosi vincolato a pregiudiziali, egli poteva essere, per sua esplicita ammissione, reazionario e rivoluzionario:

«Se il carro precipita, credo di fare bene a fermarlo; se il popolo corre verso un abisso, non sono reazionario se lo fermo, anche colla violenza».

Gli chiedevano quale fosse il suo programma non soltanto i colleghi giornalisti, a cena, ma un po’ tutti. Egli rispondeva con imperio: «Non sono, ahimè, i programmi che difettano in Italia!». E allora che cos’era il fascismo? «Il fascismo è un movimento di realtà, di verità, di vita che aderisce alla vita. È pragmatista. Non ha apriorismi. Non promette i soliti paradisi dell’ideale». Si poteva almeno sapere chi fosse realmente Mussolini? Se lo chiedevano in continuazione, in Italia e all’estero. Gli inglesi lo chiamavano l’«uomo del mistero», e questa definizione incontrava il suo gradimento, come si arguì quando tirò le orecchie a un giornalista che aveva rivolto ai suoi lettori quella stessa domanda: «Chi è Benito Mussolini?». Lui gli mandò a dire di chiudere subito il referendum, pubblicando bene in vista questa autodefinizione: «Poiché l’onorevole Mussolini dichiara di non sapere esattamente ciò che egli è, assai difficilmente lo possono sapere gli altri».

Giovanni Ansaldo, che lo aveva amato e odiato, andava compilando nel dopoguerra per il «Borghese» ancora longanesiano un dizionario degli italiani illustri e meschini. Giunto al nome di Mussolini rinviò laconicamente il lettore a quanto si sarebbe scritto su questo personaggio nel 1990. Nella scarna noticina, Ansaldo si rivolgeva al lettore «curioso o malizioso». Al lettore da lui ipotizzato è dedicato questo libro. Mussolini vi appare con le sue contraddizioni che non lo assolvono dalle sue responsabilità, poiché la condanna storica del fascismo, di cui egli è stato il fondatore e l’interprete, è senza appello. Vi appare con le luci (poche?) e le ombre (molte?) necessarie al racconto di una vicenda personale intessuta di eventi di cui un popolo è stato protagonista e vittima. Vi appare, astuto

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manipolatore di folle, con la spregiudicatezza che lo distingueva, con la straordinaria abilità manovriera, la vivace fantasia, l’acuta intelligenza, la debolezza degli avversari, l’acquiescenza di chi se ne serviva, il fascino e la seduzione misteriosa d’una personalità che insieme attraeva e respingeva.

Nei momenti di sfiducia pensava che forse avrebbe tutt’al più meritato un busto al Pincio: «Le balie e le serve, vi si ritroveranno per i loro appuntamenti». Non si sbagliò di molto. «Vediamoci stasera sotto il balcone della buonanima», è il saluto dei romani nel darsi convegno in piazza Venezia.

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MUSSOLINI

«MUSSOLINI BENITO. Uomo politico ( 1883-1945). Rinviamo il lettore curioso o malizioso a ciò che sarà pubblicato su questo personaggio nel 1990.»

Giovanni Ansaldo [1952]

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Parte prima

IL FAZZOLETTO ROSSO

L’ateo a orologeria

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I

Le figure di tre grandi rivoluzionari dell’Ottocento dominavano l’animo di Alessandro Mussolini, un risoluto esponente dell’internazionalismo romagnolo barricadiero, fabbro ferraio nella vita civile. E quando il 29 luglio del 1883 ebbe il primo figlio maschio dalla giovane moglie Rosa Maltoni, maestra elementare di campagna, volle fanaticamente glorificare le imprese sediziose dei tre personaggi imponendo al neonato i loro celebri nomi: Benito, Amilcare, Andrea. In cambio di una decisione smaccatamente ribellistica, la moglie pretese che il neonato fosse battezzato in chiesa. E per qualche tempo il compromesso faticosamente raggiunto mantenne tesi i rapporti fra i coniugi che peraltro si fronteggiavano esponendo sulle pareti di casa i loro idoli: da una parte un’immagine della Madonna di Pompei, dall’altra un’effigie di Garibaldi a cavallo.

Scegliendo quei tre nomi, il fabbro correva col pensiero alle gesta di Benito Juàrez, di Amilcare Cipriani e di Andrea Costa. Ne era ammirato e travolto. Nelle riunioni degli internazionalisti aveva sentito parlare delle vicende che non molti anni prima avevano insanguinato il Messico e di come Juàrez, capeggiando la resistenza all’instaurazione imperiale voluta da Napoleone III, avesse vinto la battaglia facendo passare per le armi Massimiliano d’Asburgo.

Più vicine ad Alessandro Mussolini erano le imprese di Amilcare Cipriani, appena d’una decina d’anni più anziano di lui. Cipriani era ancora avvolto nella gloria della spedizione dei Mille cui aveva partecipato raggiungendo l’Aspromonte. Era repubblicano, antipapalino e, al momento della nascita di Benito, già da un anno si trovava nel penitenziario di Porto Longone a scontare una condanna per propaganda sovversiva.

Andrea Costa, il «romagnolino», il terzo degli eroi che infiammavano la fantasia di Alessandro, si batteva, insieme con Giosue Carducci, Filippo Turati, Mario Rapisardi, per ottenere la scarcerazione di Cipriani. A questa azione il fabbro non faceva mancare il suo apporto. Andrea Costa, con Bakunin e Carlo Cafiero, aveva inoltre progettato una insurrezione in Italia, che doveva prendere le mosse da Bologna con l’obiettivo di scatenare nel paese una rivoluzione sociale: «Su via, rovesciamo questo mondo che ci schiaccia». E il fabbro leggeva avidamente una sorta di racconto utopico che

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il «romagnolino» aveva pubblicato nel 1882, intitolandolo Un sogno, pari a un Louis-Sébastien Mercier casalingo. In esso Imola, la città natale dell’autore, veniva immaginata come una libera e fiorente cittadella del sole socialista.

Nel clima d’un’Italia in subbuglio nasceva Benito. L’Italia aveva raggiunto l’unità politica da poco più d’un ventennio e Roma era diventata capitale del nuovo Stato appena da tredici anni. Per il settanta per cento la popolazione, che non superava i ventotto milioni di abitanti, era costituita da analfabeti. Aspro era il contrasto fra Stato e Chiesa. Soprattutto in Romagna, terra di mangiapreti, la lotta per la supremazia volgeva in rissa. In politica estera l’Italia si era affiancata all’Austria e alla Germania, dando vita alla famosa alleanza che prese il nome di Triplice.

Benito nacque alle due pomeridiane di una domenica di asfissiante calura. L’evento si verificò a Dovia, una frazione di Predappio verso l’Appennino, in provincia di Forlì. I coniugi Mussolini, che si erano sposati l’anno prima, abitavano in una vecchia casa un po’ isolata dal resto del villaggio, su una leggera altura. Compresa la cucina disponevano di sole due stanze, adiacenti all’aula-tugurio in cui Rosa faceva scuola. La casa aveva una scala esterna e, nonostante il suo misero aspetto, si gloriava d’un nome altisonante. Varano dei Costa. Anche quel giorno come ogni altra domenica avevano bevuto una tazza di brodo, mangiato un po’ di granturco e un pezzo di pecora bollita che appariva sulla loro mensa una sola volta la settimana a causa delle ristrettezze finanziarie in cui vivevano. Dalla finestra della camera da letto le stoppie del grano appena falciato e le famose vigne di sangiovese sembravano arse dal sole; nell’alveo sassoso del fiume Rabbi non scorreva un filo d’acqua; sullo sfondo, aspri si aprivano i calanchi.

Non si levava tutto intorno un alito di vento e le lenzuola erano infuocate. Il giorno prima un violento terremoto aveva distrutto sull’isola d’Ischia l’abitato di Casamicciola, e si temeva che quella vampa infernale, che rendeva satura d’elettricità l’atmosfera, preannunciasse nuovi disastri tellurici un po’ dappertutto.

Alessandro, Sandrein per i compagni, aveva baffi imponenti; la domenica, vestendosi a festa, portava la cravatta nera alla Lavallière a significare il suo internazionalismo. Nelle manifestazioni di piazza era in prima fila e inalberava una bandiera verde con la scritta «Vivere lavorando, morire combattendo». Quella bandiera simboleggiava una «Società dei bevitori» da lui costituita per far da copertura a un circolo politico eversivo, essendo proibito esporre drappi rossi. Ovviamente la sezione socialista di Predappio possedeva una bandiera di raso rosso, e il fabbro la teneva chiusa in una cassetta di ferro, nascosta in cantina in una fossa scavata nel pavimento. La voce del popolo lo rappresentava come un perdigiorno e un blaterone,

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sebbene avesse assaggiato il carcere a causa delle idee politiche internazionaliste che andava propagandando rumorosamente. Rosa aveva lineamenti forti, gli occhi erano profondi e malinconici. Indossava abiti severi, addolciti talvolta da camicette ornate di trine, ma egualmente castigate, chiuse fino al collo. Romagnoli entrambi, ma profondamente diversi: tumultuoso, miscredente e indebitato l’uno; pacata, religiosa, sparagnina, proprio una dona a l’antiga, l’altra. Questa diversità di carattere e di convinzioni causava tra loro continui litigi.

Alessandro s’incapricciava di altre donne e per pagarsele sgraffignava un po’ di soldi dalla cassetta dei risparmi della moglie, la quale veniva sistematicamente informata dalle amiche dei tradimenti del marito. Da tempo egli non sopportava più il faticoso lavoro di fabbro, sicché, avendo Rosa ereditato una somma di denaro da una vecchia zia, colse l’occasione per acquistare un podere nella zona. Si montò la testa e si mise a fare il padrone, tanto che i socialisti di Dovia decisero di sospenderlo dalla sezione del partito. Abbastanza presto perse la moglie e, rimasto solo, lasciò Dovia per traslocare a Forlì dove si diede a una nuova attività, quella di oste, in società con una donna, Annina Guidi, già sua amante da diversi anni. Annina, a sua volta vedova, aveva tre figlie. La più giovane di esse era una bella ragazzina bionda, di nome Rachele, chiamata Rachiletta o Chiletta ancor più vezzosamente, che poi diventerà moglie di Benito. Anche le ragazze furono impiegate nell’osteria a servire i clienti, come la madre. La trattoria «Al Bersagliere» si trovava a pochi passi dalla ferrovia e a sera si riempiva di anarchici pronti ad attaccar briga con chiunque. Alessandro trattava Rachele con particolare affetto, e gli avventori mettevano in giro la voce che la bela burdela fosse sua figlia naturale, avuta da Annina. Nessuno pensava mai che un giorno Benito, se fosse stata vera la diceria, si sarebbe trovato a sposare la sorellastra, di nove anni più giovane di lui. I figli del-l’ostessa e quelli della maestra vivevano in sufficiente armonia, salvo le intemperanze di Benito. Gli erano nati un fratello - Arnaldo, così chiamato per la persistente passione del padre volta a celebrare personaggi scomodi della storia (Arnaldo da Brescia) - e una sorella, Edvige, di cui non si conosceva la ragione della scelta onomastica.

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II

Benito, che fisicamente somigliava alla madre, fu ben presto attratto dal ribollente modo di vivere del padre. Era affascinato da quell’uomo in perenne agitazione, che parlava urlando, che piegava sull’incudine il ferro rovente a suon di potenti martellate e che voleva aver sempre ragione. Imitava istintivamente quel padre di fuoco, e già a otto, nove anni si rivelò prepotente e manesco. Era anche svelto di lingua e ciò divertiva i genitori che avevano penato per lui poiché fino a tre anni non gli avevano sentito dire una parola. Avevano temuto di aver messo al mondo un figlio muto. Un medico di Forlì li tranquillizzò: «Non c’è da preoccuparsi. Tarda a parlare, ma parlerà. Anzi, a guardare i suoi occhi vivaci, ho idea che parlerà anche troppo».

La sua prima maestra fu la madre nella misera scuoletta di Dovia. Era distratto e svogliato, fingeva di concentrarsi sui quaderni, ma in realtà vagava con l’immaginazione nei campi a caccia di uccelletti ancora nel nido, oppure pensava malinconicamente alla civetta che teneva su un trespolo. In piena notte s’incantava a contemplarne gli occhi tondi e fosforescenti che lo vegliavano. Preferiva aiutare il padre nell’angusta fucina o sullo spiazzo, all’aperto, nella bella stagione. Tirava il mantice a perdifiato senza stancarsi. Invece la domenica, trascinato in chiesa dalla madre, si mostrava insofferente e scontroso, mai riuscì ad assistere a un’in-tera funzione. Sembrava che avesse nel sangue un’avversione naturale per le cerimonie religiose, per l’incenso e i canti sacri. Si sentiva incoraggiato dal padre che non aveva mai messo piede in un luogo di culto, se non per prendere moglie, e che, sui settimanali socialisti e repubblicani di Forlì, scriveva parole di veemente polemica anticlericale: «O preti, non è lontano il giorno in cui cesserete di essere inutili e falsi apostoli di una religione bugiarda».

Alessandro era un attivo propagandista, un fabbro-giomalista che trattava le parole e i concetti con la stessa rudezza impiegata nel battere il ferro sull’incudine. Era un autodidatta, ma grande era la sua capacità di attirare l’attenzione dei lettori. Nei suoi scritti lamentava l’estrema povertà delle classi più derelitte: «La miseria sale! I poveri paria della società sono in uno stato compassionevole, magri, sparuti, macilenti, malvestiti, lor si vede scolpita sulla fronte la miseria patita. Povera umanità! E dire che a ogni casa

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dimandano un tozzo di pane per isfamarsi»; condannava l’ignoranza politica in cui le masse erano tenute e ne incolpava la borghesia, lo Stato, la Chiesa: «È sconfortante vedere quanti sono ignari di tutte le grandi idee sociali di emancipazione economica e morale. Spesso accusano Dio per la loro miseria. E Dio non è che un espediente borghese messo in giro dai più furbi per intimorire i poveri di spirito»; esaltava i princìpi del positivismo insistendo nella riprovazione dell’oscurantismo religioso e chiamando «cretini cattolici» coloro che credevano alle prediche dei preti: «Bisognava sentire con quale trasporto certo Padre Agostino - cantar non evirato e Cicerone apostolico - scongiurava l’ira celeste e ne implorava i fulmini contro il progresso e contro la ragione che sostituisce la fede. Ma la nostra mèta è segnata: emancipazione economica, politica, intellettuale e morale; quindi l’abolizione di tutto ciò che è contrario alla ragione».

Erano gli anni dell’emigrazione più amara e Alessandro, col piglio del cronista impegnato, raccontava le vicende dei suoi luoghi: «Questa mattina qui al villaggio di Dovia sono partite nove famiglie, in tutti una cinquantina diretti a San Paolo del Brasile, angosciati dal dolore. Essi partono avventurandosi al di là dell’Oceano in paesi sconosciuti per vedere se laggiù mediante il lavoro onesto delle loro braccia possano trovare quel tozzo di pane che la terza Italia, l’Italia borghese nega ai poveri lavoratori. Oh! potenze della dura necessità, quanto è mai triste l’ora che volge!».

Quando Sandrein scriveva queste righe, Benito aveva una quindicina d’anni. Al ragazzo egli leggeva ad alta voce i suoi articoli e ne spiava l’effetto sul suo volto. Il piccolo assorbiva ogni cosa e gettava le prime occhiate sulle pagine victorughiane dei Miserabili. La madre aveva voluto mandarlo a scuola dai preti, in un convitto faentino dei salesiani, e lì egli aveva dato l’impressione di farsi meno aspro. Talora si scioglieva in lacrime al pensiero del lucherino che aveva dovuto abbandonare a casa in una gabbietta. Il cambiamento avveniva soltanto nella scorza - portava il cravattino come un ometto - ma nell’animo era ancora percorso da impeti di rivolta, anche per reagire alla severità delle regole monastiche del collegio. Trattava aspramente e con distacco i compagni, ai quali dava del voi, soprattutto se appartenevano a famiglie ricche. Una volta, durante una rissa, ne ferì uno alla mano con un piccolo coltello che teneva nascosto in una tasca dei calzoni, e poi si allontanò con atteggiamento sprezzante, testa all’indietro, mento in fuori, pancia all’indentro. Per punizione dovette trascorrere alcune ore della notte nel cortile insieme ai cani da guardia di cui aveva un sacrosanto terrore.

Il direttore del collegio fece del ragazzo un identikit in cui predominavano violenza e ribellione. Lo descriveva «d’indole appassionata e riottosa»; parlava di lui come di uno scolaro che si poneva «in contrasto con ogni

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ordine e disciplina dell’Istituto», che «non sapeva sopportare, volendo sempre la rivincita»; il ragazzo «si ribellava a ogni castigo e correzione», per cui il direttore chiedeva ai genitori di ritirarlo da quella scuola, concludendo: «La sua natura è tutt’altro che acconcia ad un sistema di educazione quale si impartisce seriamente in ogni Collegio Salesiano». Il ragazzo era un po’ il frutto dell’ambiente saturo di violenza in cui era vis-suto fin dalla più tenera età. La vicenda d’un povero disgraziato di Dovia lo aveva particolarmente impressionato. Era la storia d’un gobbo al quale per ironia della sorte avevano imposto il nome di Fortunato. Il gobbo era stato respinto nelle sue profferte d’amore da una donna. Teresa, che gestiva una piccola osteria, ed egli per vendicarsi era corso a spifferare al marito di Teresa tutto ciò che sapeva sui tradimenti di lei, specificamente su una tresca con un giovanotto che dava una mano nell’officina di Alessandro. Alla rivelazione di quegli intrighi amorosi, il marito si era messo a per-seguitare la moglie fedifraga e l’aiutante fabbro, al punto che i due caddero in una grave crisi psichica. Le loro menti si annebbiarono, ed entrambi un giorno, non reggendo più alle angherie, si tolsero la vita tra lo scalpore del contado.

La violenza era il pane quotidiano di Benito che diventava sempre più manesco. Preso a sassate dai coetanei, rispondeva a sassate. Faceva spesso a pugni nelle strade e nei campi, tanto che a Dovia dicevano di lui: «Non discute, picchia!». Negli studi il profitto del ragazzo lasciava a desiderare, fra un’espulsione e l’altra per indisciplina. Era estroso e imprevedibile. Un giorno fu assegnato alla sua classe un tema: «II tempo è danaro». Erano passati pochi minuti quando lui, proprio come un Pierino, presentò all’in-segnante un breve svolgimento, due righe in tutto: «Il tempo è moneta, perciò vado a casa a studiare la geometria avvicinandosi l’esame. Non le pare più logico?». Rinviato frequentemente a ottobre in più materie si immergeva nella lettura di giornali, di libri, di poemi epici, e declamava a squarciagola, anche per strada senza curarsi dei passanti che si voltavano a guardarlo, i versi carducciani dell’Inno a Satana. Quei versi lo esaltavano sommamente; lo appassionava anche la musica, e si mise a suonare la trom-ba nella banda della scuola di Forlimpopoli dove il padre era riuscito a farlo iscrivere. Giosue Carducci andò in visita a quell’istituto ch’era diretto da suo fratello Valfredo, e il giovane gli fu presentato come chi un giorno si sarebbe fatto onore. Benito amava le opere di Verdi. Aveva diciotto anni quando, morto il grande compositore, ne pronunciò per incarico del preside l’elogio funebre. La notizia apparve sull’«Avanti!», in due righe: «Ieri sera nel teatro comunale di Forlimpopoli il compagno studente Mussolini commemorava Giuseppe Verdi, pronunciando un applaudito discorso». Aveva parlato di politica, non di musica.

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Divenuto maestro elementare - con qualche buon voto in italiano, in storia e perfino in canto a conclusione del corso alle magistrali di Forlimpopoli -, il padre voleva farlo entrare nel municipio di Predappio come aiuto del segretario comunale. Il sindaco però, un clerico-moderato, si opponeva, e una mattina il vecchio fabbro, affrontandolo negli uffici del comune, gli urlò in faccia: «Non lo volete come impiegato? Un giorno lo avrete come padrone!». Benito non aveva le idee chiare sul suo futuro, perciò non gli dispiacque il rifiuto del sindaco, ma egualmente tremava all’idea di dover fare il maestro. I primi contatti con le scolaresche del luogo, quando sostituiva la madre nell’insegnamento, non gli erano andati a genio. Non sopportava quei mocciosi che, a naso in su, guardavano volare le mosche; di piacevole non c’era che una bimba rotondetta dalle lunghe trecce bionde, Rachele.

Non lo abbandonava la preoccupazione di non riuscire a trovare un lavoro. Ma quale? Si rodeva nell’indecisione: «Sono dimagrito, sono pallido e bieco. Questo lo vedo nello specchio, ma v’hanno condizioni che riflettono la realtà dell’anima mia che aspirava ad una meno ignobile gioventù». Inviava domande d’impiego a dritta e a manca, pronto ormai anche a fare il maestro. Partecipava a concorsi e si atteggiava a filosofo, pur sempre pronto a venire alle mani. «L’altro giorno», scriveva a un amico, «fui ad un pelo per accoltellarmi con un contadino che mi aveva insultato. Ma vedi: la filosofia m’ha reso perfettamente uno stoico. Che è la nostra miserabile esistenza a paragone del macrocosmo?». Cercava di reagire con filosofia anche alle bocciature nei concorsi, sebbene esclamasse: «Non so più dove battere la testa». Alfine - dopo aver tentato invano a Forlimpopoli, a Tolentino, ad Ancona - gli si aprì inopinatamente una porta a Gualtieri, una cittadina in provincia di Reggio Emilia. Gli offrivano un posto di maestro supplente in una sperduta scuola rurale, nella frazione di Pieve Saliceto, a un chilometro dalla riva destra del Po. Non avendo fatto domanda in quel comune, la richiesta del sindaco lo lasciò stupefatto.

Il primo comune conquistato in Italia dai socialisti era proprio Gualtieri, e i suoi amministratori pensarono bene di affidare la supplenza a un giovane che si era messo in luce nella difesa degli ideali di progresso. Ma avevano fatto male i conti. I socialisti di Gualtieri erano moderati, seguaci di Camillo Prampolini che dirigeva il giornale «La Giustizia» di Reggio Emilia, e presto si avvidero quanto fosse distante dalle loro posizioni quel Mussolini estremista, massimalista, violento. Sulle prime lo avevano perfino nominato segretario del locale Circolo socialista. Il sindaco, che faceva il barbiere, lo aveva convocato una mattina nella sua bottega per dargli la notizia, certo che l’avrebbe gradita. Ma il giovane frequentava più volentieri un’osteria, detta della «Fratellanza operaia», che non il Circolo. Cercava la compagnia di gente del popolo, genuina sì ma anche rissosa e prepotente. Quelli del

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Circolo li chiamava con scherno «socialisti delle tagliatelle» o «fantocci impagliati». Teneva testa a tutti, in osteria e nelle balere; non si separava mai da un coltello a serramanico e si era anche fornito d’un «pugno di ferro» per colpire gli avversari con la certezza di atterrarli,

Alle scazzottature e alle serate danzanti alternava infuocati discorsi politici e retoriche celebrazioni. Parlò in piazza per il ventesimo anniversario della morte di Garibaldi sollevando l’entusiasmo della folla e dei più poveri che lo attorniavano macilenti; accusò la borghesia di aver tradito i princìpi rinnovatori del Risorgimento; si disse un rivoluzionario che portava in tasca una medaglia nichelata con l’effigie di Marx; presentò l’Eroe dei due mondi come un ribelle alle leggi che perpetuavano le condizioni di miseria materiale e morale dei popoli. Per la prima volta accennò a un nuovo simbolo, quello della camicia nera: «L’epoca della camicia rossa molti dicono che abbia fatto il suo tempo. Noi già vediamo i minatori degli Stati Uniti e del Canada, attraverso la loro forza rivoluzionaria, iniziare la nuova epopea, quella della Camicia Nera che riveste il torso massiccio di tutti i lavoratori di ogni parte del mondo».

Alcune di quelle cose le aveva già dette ai socialisti pastasciuttari del Circolo: «Sono un rivoluzionario e non accetto il riformismo poiché non ammette l’insurrezione armata di un popolo da quarant’anni servo di falsi idoli e di istituzioni falsamente democratiche». Riscuoteva il consenso di rivoluzionari in ascesa, come Nicola Bombacci, un insegnante della vicina borgata di Cadelbosco, e come Alceste De Ambris da lui raggiunto a Parma dove si gettavano le basi di un movimento sindacalista.

Nella fredda aula della scuola rurale, popolata da una quarantina di ragazzetti, il maestro Benito Mussolini si mostrava meno irruento. Ma egualmente giudicava i suoi piccoli allievi con durezza, per quanto dichiarasse di amarli. Sul registro scriveva accanto a questo o a quel nome: «Ragazzo strafottente», «apatico», «privo d’ingegno e di volontà». Nella sua povertà, per risparmiare le scarpe le portava a tracolla appese ai lacci, e arrivava a scuola scalzo. Era a pensione presso la famiglia di Elisa e Teofilo Panizzi cui versava, per vitto, alloggio e bucato, una somma mensile di quaranta lire che detraeva dal suo stipendio di cinquantasei lire. Con il restante denaro comprava libri, giornali, e anche dolcetti per le donne che accompagnava il sabato sera e la domenica sulle piste da ballo dei dintorni. Gli piaceva la musica, «il ritmo dei movimenti»; cercava «il contatto con le ragazze dai capelli profumati, dalla pelle secernente un sudore acre all’odorato». Nei mesi invernali appariva intabarrato. Il suo ampio mantello era ormai popolare, e così il suo cappellaccio nero. Spiritati erano i suoi grandi occhi da africano. Le donne,

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un po’ affascinate, un po’ impaurite, se lo indicavano con una mossetta, e, ridacchiando, mormoravano, «Mamma mia, ecco l’uomo nero».

Durante un ballo conobbe una bella emiliana ventunenne, Giulia Fontanesi, che aveva il marito lontano, militare a Sulmona. Si scrissero tre o quattro biglietti per qualche settimana, poi Benito ruppe gli indugi e la scongiurò di accettare un suo appuntamento in luogo solitario. La sera dell’incontro, la ragazza aveva una camicetta rosa. Era raggiante, e aspettava il giovane corteggiatore sulla porta di un caseggiato in un vicolo buio del paese. Continuarono a vedersi, ma di lì a poco qualcuno svelò il loro segreto. Seppe della tresca, che faceva scandalo, anche il marito soldato il quale perentoriamente ingiunse alla moglie di sparire dalla sua vita. A Giulia non rimaneva che ubbidire e, col suo fìglioletto, si sistemò altrove, in una cameretta. Lì si incontrava con Benito. «Allora fummo più liberi», diceva l’ardito maestro.

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III

Il maestro si stancò presto di Gualtieri, dei riformisti, dei compagni popolani, degli scolari e delle donne. Quell’angolo della Padania gli era proprio venuto a noia. Diceva: «Se resto ancora in questa piatta esistenza divento pazzo». Gli era venuta a noia la vita stessa e, se un giorno Giulia non lo avesse trattenuto con le lacrime e le implorazioni, avrebbe certamente attuato i suoi propositi suicidi gettandosi nelle acque del Po. A causa delle sue mattane, anche i superiori si erano stancati di lui, ne gli avrebbero confermato la supplenza. L’anno scolastico del 1902 volgeva al termine, così nella mente di Benito lampeggiò l’idea di cercare fortuna all’estero. Lo tentava l’ignoto, l’avventura. La Svizzera entrò nei suoi piani, e si fece preparare un passaporto, volendo, come diceva, lasciare la terra di Dante per quella di Guglielmo Tell.

All’inizio di luglio si mise in viaggio alla volta di Chiasso, oltre il confine italiano. Aveva trascorso la notte con Giulia che si scioglieva in lacrime tra le sue braccia e non voleva lasciarlo andare. «Alle cinque della mattina la baciai per l’ultima volta. Il treno partiva alle sei. Le feci un cenno con la mano alla svolta del vicolo, poi continuai la mia strada, verso il mio nuovo destino», scriveva nei suoi appunti. Si vedeva nei panni più miseri, quelli di un operaio costretto a emigrare senza soldi, benché la madre gli avesse spedito un vaglia telegrafico di quarantacinque lire; senza arte ne parte, col padre in galera per aver fracassato le urne in un seggio elettorale di Predappio. Si considerava tuttavia un intellettuale accentuando l’attività di giornalista e di agitatore politico. Si diceva socialista svolgendo una propaganda profondamente venata di anarchismo e di anticlericalismo. Diceva di leggere Marx, sebbene i suoi preferiti fossero Nietzsche, Schopenhauer, Stirner, oscillando tra superomismo e nichilismo. Diceva di ispirarsi al marxismo, sulla cui strada fu in realtà sospinto da Angelica Balabanoff, ma nei fatti si comportava come un seguace di Blanqui, Ni Dieu ni mattre, volendo rovesciare l’ordine sociale esistente con una insurrezione capeggiata da una piccola minoranza di iconoclasti. Era più vicino alle dottrine del sindacalismo rivoluzionario, come poté verificare da se stesso leggendo un testo di Sorel allora in gran voga, Les réflexions sur la violence.

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In Svizzera vagò per due anni e mezzo tra Berna, Losanna, Bellinzona, Ginevra, tornando brevemente in Italia a trovare la madre ammalata, raggiungendo altrettanto brevemente la Savoia, fantasticando di andarsene nel Madagascar o a New York, facendo per una settimana il manovale muratore e più a lungo il garzone in una macelleria e presso un vinattiere (lavori che non gli spellavano le mani), frequentando i fuorusciti d’ogni nazionalità, ascoltando poco e male all’università di Losanna le lezioni di economia politica del professor Parete, dando lezioni di italiano agli svizzeri francesi e di francese agli italiani immigrati. Fu sfaccendato, disoccupato, mendicante, e quindi la polizia lo arrestò per vagabondaggio dopo averlo sorpreso a dormire, macilento e affamato, in una cassa sotto il Grand Pont di Losanna. Successivamente, rivelatosi organizzatore sindacale, fu nominato segretario dell’Associazione italiana muratori e manovali di Losanna, un impiego che gli dava il diritto «alle consumazioni gratis duran-te le assemblee che si tenevano al Caffè Bock». Aveva cominciato a scrivere sulle pagine dell’«Avvenire del Lavoratore» che di quel sindacato era espressione, mentre inviava articoli retribuiti al «Proletario» di New York e all’«Avanguardia Socialista» di Milano per attaccare la «democrazia borghese». Il suo primo articolo apparso sull’«Avvenire del Lavoratore» si intitolava Una caduta e prendeva spunto dal crollo del campanile di San Marco a Venezia, avvenuto in quei giorni, per accusare il mondo politico internazionale che menava lai per quell’evento e restava indifferente al cospetto del genocidio degli armeni impunemente perpetrato dai curdi.

Tentava di fare traduzioni dal tedesco, pur non avendo appreso di quella lingua che scarsi rudimenti. Lo aiutava nell’improba fatica l’esule russa Angelica Balabanoff. la quale non si lamentava soltanto della sua abissale ignoranza del tedesco, ma soprattutto della sua «eccezionale sporcizia» che rendeva irrespirabile l’aria della sua stanza. Tra gli esuli russi era tuttavia chiamato Benituchta, con benevolenza. Da miscredente, alla scuola di Giacinto Menotti Serrati, compilò un opuscolo, L’uomo e la divinità, quarantasette pagine complessive, nelle quali negava l’esistenza di Dio. Lo definiva «un mostruoso parto dell’ignoranza umana», come già faceva nei comizi col ricorso ad argomenti più grossolani.

A Losanna in uno di quei comizi, mentre si avviava alla conclusione d’una lunga intemerata, chiese in prestito un orologio, il suo era al Monte di pietà, perché intendeva sottoporsi a un esperimento. Uno dei presenti gli consegnò una grossa patacca da tasca, mentre un suo vicino mormorava «Attento che te lo frega», volendo alludere alla voce secondo cui l’oratore qualche giorno prima aveva rubato un orologio e se l’era rivenduto per procurarsi un pezzo di pane. Avuto davanti ai comizianti l’oggetto richiesto, Benito lo alzò al cielo esclamando: «Do cinque minuti al Padre Eterno per

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fulminarmi. Se non mi colpisce, vuoi dire che non esiste. Io qui lo sfido». In altre occasioni assumeva toni messianici. Nel pieno d’una riunione, un giorno battezzò solennemente un neonato chiamandolo Avanti!, con il titolo del giornale dei socialisti italiani, fondato pochi anni prima. A una ragazza diede l’appellativo di Avvenire. A Predappio invece accadeva che una coppia di genitori imponesse a un proprio figlio il nome di Benito nella sezione socialista, avendo rifiutato di presentarlo al fonte battesimale. Ed era il primo Benito d’una lunga serie a lui ispirata.

Da anarchico tradusse Paroles d’un révolté di Kropotkin nelle poche settimane che, tornato dalla Svizzera, trascorse a Dovia accanto alla madre ammalata. Rifletteva sull’opportunità di restare in Italia, ma si decise a riprendere il fardello dell’emigrato per sfuggire all’imminente chiamata della leva militare. Si professava antimilitarista e non intendeva indossare le stellette. Quando si trovava ancora a Berna aveva anzi scritto all’amico e locatore di Gualtieri, Teofilo Panizzi, di essere disposto a partire per l’Africa lontana pur di «sfuggire la leva e l’inutile vita della caserma».

In Svizzera era atteso da una giovane e graziosa polacca, Eleonora H., studentessa in medicina. Aveva dunque una ragione in più per passare nuovamente le Alpi. Tornò in territorio elvetico prima che scadesse il suo permesso di espatrio, e, pensando di mettersi al sicuro con i documenti e di evitare il servizio militare, contraffece la data del passaporto per cui il 1903 divenne sotto la sua penna il 1905. Il trucco fu scoperto dalle autorità svizzere, mentre in Italia, non essendosi presentato al distretto, veniva con-dannato in contumacia per diserzione. Nell’aprile del 1904 la polizia elvetica lo espulse, come renitente alla leva, dal cantone di Ginevra ma non dall’intera Confederazione. Quindi, grazie a un’azione svolta in suo favore da sfegatati ammiratori, fu condotto nel canton Ticino e liberato a Bellinzona, senza essere consegnato alle autorità italiane di confine. Egli imprecava contro la «democrazia salsicciaia, la quale credeva che a perpetuare una tradizione di libertà bastasse la mela di Guglielmo Tell». Non aveva abbandonato la terra di Dante per quella dell’eroe leggendario? Ma ormai disprezzava gli svizzeri, così presi dai commerci alberghieri, e, nella sua rabbiosa ironia, Guglielmo Tell diventava Guglielmo Hotel.

I giornali davano ampio spazio alla vicenda dell’espulsione, per cui la notizia rimbalzò a Roma. «La Tribuna», in una corrispondenza da Ginevra, scriveva: «Oggi è stato cacciato dal cantone il socialista italiano Mussolini, romagnolo, che era da qualche tempo il grande duce della locale sezione socialista italiana». Come a Gualtieri Emilia, Benito aveva parlato per la prima volta della camicia nera, così ora egli veniva per la prima volta chiamato duce; non soltanto duce, ma anche grande, e non aveva che vent’anni.

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Poté rimanere per altri mesi in territorio elvetico, ma egli già considerava conclusa l’esperienza dell’emigrante. Nel frattempo il governo italiano concedeva un’amnistia per festeggiare la nascita del principe ereditario Umberto di Savoia, e lui poté tornarsene tranquillamente in patria in seguito all’estinzione del reato di diserzione che altrimenti, senza l’amnistia, gli sarebbe costato un anno di galera. Non era naturalmente affrancato dal servizio militare, e fu costretto a sottostarvi come un comune mortale quale ancora era.

Avvertiva il richiamo della terra romagnola dove giunse nuovamente nel novembre del 1904, sempre incerto sul suo futuro. La Svizzera gli aveva insegnato molte cose ma non gli era servita a trovare la strada maestra. E poi l’imminenza del servizio militare lo opprimeva. Scribacchiava stancamente su qualche giornale socialista, sostituiva talvolta la malferma madre nella scuoletta adiacente alla cucina di casa, amoreggiava senza gusto. Insomma girava a vuoto. Da recluta, aveva da poco raggiunto a Verona il 10° reggimento bersaglieri, quando dovette tornare a Dovia per l’immatura morte della madre, quarantaseienne. Riuscì a farsi prolungare la licenza per un paio di mesi durante i quali intrecciò una relazione con una maestrina forlivese, Paolina Dianti, un po’ altezzosa, chiamata a sostituire l’insegnante scomparsa: «Ci amavamo fortemente quando io tornai soldato a Verona».

Nella vita militare si sentì imprevedibilmente a proprio agio. Eppure aveva sbeffeggiato nelle lettere agli amici e nei suoi scritti, le uniformi, «i petti irti di croci, medaglie, decorazioni e simili chincaglierie». Aveva predicato la diserzione: «Siamo noi che ingrassiamo la mala bestia, sono i figli del Proletariato che popolano le caserme, è la nostra impotenza che fortifica il patriottismo guerrafondaio». Aveva insistito: «Se un demente megalomane sorgesse, il Proletariato non si presterebbe più, armento tranquillo, all’Olocausto». Aveva condannato le imprese coloniali, scrivendo che «il sogno di un ministro guerrafondaio, Francesco Crispi, e di un sovrano imperialista, Umberto I, era affogato nel sangue di Adua». Ma gli era bastato un berretto a fez da bersagliere per cambiare idea; adesso era orgoglioso del nuovo copricapo.

L’esercizio fisico gli «faceva bene», si distingueva nel salto in alto. Rispettoso e disciplinato fu apprezzato dagli ufficiali i quali, in base alle informazioni di polizia, si aspettavano di dover competere con una pericolosa «recluta rossa». Il suo antimilitarismo sembrava essersi dissolto nelle gelide camerate della caserma di Castelvecchio. In un rapporto si affermava che Mussolini si era segnalato «per capacità, zelo e ottima condotta, tanto da averne lodi speciali». Da antimilitarista si era trasformato in un laudatore della guerra. In una lettera al suo capitano parlava dell’esigenza di compiere «tutti i doveri di soldato e di cittadino». Sosteneva

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la necessità di «commemorare gli eroi che col loro sangue han cementato l’unità della Patria» e di prepararsi a «opporre valido baluardo di petti qualora i barbari del Nord tentassero di ridurre l’Italia a "un’espressione geografica"».

Una volta congedato, risorsero in lui con accentuata virulenza gli umori antimilitaristi e anticlericali. Stazionò per un paio di mesi a Dovia intessendo un nuovo intrigo sentimentale che egli chiamava «una specie di relazione semi-amorosa». La preda era ancora una maestrina, Virginia Salvolini, ma l’amoretto fu di breve durata. Ottenuta una nuova supplenza partì per Tolmezzo, in Gamia, dove lo aspettava un’aula di seconda elementare con quaranta ragazzini. Si confermò nell’idea che il mestiere del maestro non faceva per lui, anche per la difficoltà di mantenere in classe la disciplina. Alcuni di quei quaranta scolari apparvero ai suoi occhi come «pericolosi e incorreggibili», ed era strano che un giovane forte e deciso come lui si facesse disarmare da ragazzetti che non superavano gli otto o nove anni di età, considerando che fra loro potessero essere! dei ripetenti.

Tolmezzo non gli piaceva, «pioveva sempre», il Tagliamento mugghiava. Perciò riprese a bere senza regola, dopo che in Svizzera aveva smesso di farlo, come aveva scritto da Berna al suo amico Teofilo Panizzi: «Stenterete a credere che ho dimenticato quasi completamente il vino e ogni genere di liquori». Le sue ubriacature divennero epiche e duravano l’intero fine settimana. Spesso la mattina lo ritrovavano in preda ai fumi dell’alcol sui gradini della chiesa. Una notte si addormentò fra le tombe del cimitero di Pieve di Santa Maria, dopo avervi declamato con voce stentorea poesie eroiche, erotiche e blasfeme. Altre volte con spirito goliardico cercava di spaventare la gente facendo il fantasma nel buio delle strade del paese, avvolto in un lenzuolo bianco. Quando non la spaventava con le mattane notturne, lo faceva con i discorsi infuocati, come avvenne un giorno con una movimentata commemorazione di Giordano Bruno, il ribelle dei ribelli. Ma ricadeva anche in preda a profonde crisi di sconforto come quella volta in cui fu salvato in extremis dall’amico Dante Marpillero che, capitato nella sua camera, lo trovò con una pistola in mano pronto a uccidersi, convinto di aver contratto la lue durante le sue sarabande amorose. Proprio a Tolmezzo, il primo a prenderlo in cura per quella malattia venerea fu il dottor Cecchetti. primario dell’ospedale.

A Tolmezzo visse «nell’abbrutimento, nella dissipazione fisica e spirituale», dando pieno sfogo ai suoi istinti giovanili. Nelle stramberie del carnevale di quell’anno, il 1907, strinse «una relazione amorosa per tale Graziosa Bocca», ma subito abbandonò questa ragazza per una donna sposata, «sulla trentina, ancor bella e piacente», bionda e robusta, proprio il tipo di femmina da lui preferito. Si chiamava Luigia Pajetta Nigris, siora

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Gigia per la gente del luogo, ed era la padrona della trattoria «Alla Scala» dove Benito mangiava e dormiva. La loro relazione menava scandalo, il marito di Gigia «ringhiava» e un giorno si decise ad affrontare a viso aperto lo spudorato maestrucolo. Si presero a male parole e poi vennero alle mani. Come si vantava Mussolini, «nel pugilato la peggio toccò al marito di Luigia, più vecchio e più debole».

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IV

Per lui a Tolmezzo l’aria si era fatta irrespirabile, così come era già avvenuto a Gualtieri. In Emilia lo chiamavano «l’uomo nero», in Carnia si guadagnò l’appellativo di «tiranno». Anche lì si era rivelato manesco, sboccato e bestemmiatore. Quando fu chiamato dalle autorità scolastiche a render conto delle imprecazioni blasfeme cui si abbandonava, cercò di scusarsi dicendo che lui di tanto in tanto se ne usciva semplicemente con un «porco Buddha». Sicuro che nemmeno a Tolmezzo gli avrebbero rinnovato la supplenza, chiese di lasciare la scuola. Se ne tornava ancora una volta in Romagna con le pive nel sacco. Non volendo più fare il maestro elementare, provò a salire di grado, e quindi affrontò gli esami di abilitazione all’insegnamento della lingua francese nelle scuole secondarie.

Si presentò al giudizio della commissione all’università di Bologna, con l’aria del superuomo maleducato: sigaretta in bocca, mani in tasca. Interpretava a suo modo il messaggio di Nietzsche che aveva cominciato a leggere in Svizzera. Gli esaminatori si mostrarono scandalizzati da quel comportamento, ma non infierirono su di lui e gli concessero l’abilitazione. Uscì dall’aula gridando: «Sono professore!». Dovette però attendere alcuni mesi prima di ottenere una cattedra di francese. Nella morta gora di Predappio ebbe un ritorno di fiamma per la siora Gigia e, fremente, un giorno saltò su un treno per la Carnia. Arrivato alla stazione più vicina a Tolmezzo non trovò una diligenza che lo portasse a destinazione. Non gli rimaneva altro da fare che percorrere a piedi i quattordici chilometri che ancora lo separavano dalla sua donna. Era notte alta quando bussò alla porta dell’antica pensione. Luigia, nel vederlo così all’improvviso, per poco non cadeva svenuta: «Sembrava folle dalla sorpresa. Salimmo le scale che mi erano così note, entrai nella stanzetta dov’ero solito mangiare. E il marito? Dormiva. Passammo alcune ore deliziose». All’indomani mattina ripartì sempre in incognito, avvolto, com’era arrivato, nella capparella, il mantello dei romagnoli, e un berretto di pelo calato sugli occhi.

Con l’assistenza di un ufficio di collocamento per insegnanti fu chiamato da una scuola tecnica privata di Oneglia, sulla riviera ligure. Gli avevano parlato di una cattedra di francese, ma in realtà volevano fargli fare l’istitutore. «Ero caduto nel solito tranello». Entrò subito in conflitto con i

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suoi capi, cattolici osservanti e bacchettoni. Per di più essi avevano ricevuto dalla prefettura di Forlì pessime informazioni sul suo conto. Una scheda biografica della polizia così lo descriveva: «Statura: m. 1,67. Corporatura: tarchiata. Capelli: color castano chiaro. Viso: color pallido - dimensioni: lungo. Fronte: forma giusta. Occhio: colore scuro. Naso: forma aquilina. Barba: colore castano scuro. Bocca: larga. Espressione fisionomica: simpatica».

Mussolini, nel braccio di ferro con quei baciapile dei suoi superiori, si appoggiava agli amministratori comunali di Oneglia che erano socialisti e che gli avevano affidato la direzione d’un loro anemico settimanale, «La Lima». In men che non si dica, egli si era messo a fare il direttore sul serio. Aveva convocato nella sua minuscola stanza i cinque redattori del foglio e li aveva arringati con fiere parole: «Ho accettato il mandato della sezione. Badate però che intendo esercitarlo severamente. Il giornale non deve essere più aperto a una collaborazione irregolare per cui chi arriva primo in tipografia consegna e fa pubblicare il suo manoscritto qualunque sia l’argomento ed il contenuto. L’indirizzo ed il tono del giornale saranno di mia sola competenza. Ognuno di voi avrà un incarico preciso, una rubrica ben definita e tutti gli scritti passeranno al mio vaglio. Se accettate bene, diversamente declino la nomina e non ne parliamo più». Accettarono.

Ormai Benito pensava di darsi al giornalismo e chiese la direzione di un quotidiano, «La Provincia di Mantova». Ma non l’ottenne, i tempi non erano ancora maturi. Sulla «Lima» scriveva articoli roventi che, da miscredente, firmava con lo pseudonimo di «Vero eretico». Gli avversari, sul «Giornale ligure», lo accusavano di seminare odio. Egli replicava chiamando «pipistrelli» i preti e ravvisando nella massa dei cattolici le sopravvissute «pallide ombre» del Medioevo: «Non profanate la libertà voi che avete acceso i roghi». Con toni sempre più grevi negava l’esistenza storica di Cristo e l’autenticità dei Vangeli, mentre definiva il sacramento dell’eucaristia una «coscrizione religiosa». Lanciava nuove accuse ai preti, appellandoli «gendarmi neri al servizio del capitalismo», e all’intero cristianesimo che per lui rappresentava 1’«immortale stigmata di obbrobrio dell’umanità». Sul terreno più strettamente politico attaccava il clientelismo di Giolitti che guidava il governo, e definiva Turati «il riformaiolo». Toccava temi di cultura dichiarandosi ammiratore di De Amicis, di cui, in occasione della morte, esaltò liricamente il Cuore, un libro «insuperato e insuperabile».

L’attivismo politico non gli impediva d’intrecciare nuovi legami amorosi. Nella sua vita si affacciava Giovannina A., una ragazza che presto tornava nell’ombra e si confondeva con una Giovannina P. Per ammissione della sorella Edvige i suoi rapporti con le donne erano «assai rapidi, poco

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importanti, con qualche crudeltà, più crudeltà che abbandono». Anche l’esperienza di Oneglia si concluse con un licenziamento e con un ritorno a Predappio. Lasciò a malincuore la cittadina ligure, come appariva dal suo articolo di addio pubblicato sulla «Lima». Attaccò il prefetto, la polizia, i carabinieri: «Fra pochi giorni me ne vado e perché possiate "segnalarmi" vi lascio il mio recapito esatto. "Casa situata sulla strada provinciale del Rabbi, al Km. 15, frazione Dovia, comune di Predappio, provincia di Forlì". Prendetene atto e studiate se non sia possibile licenziarmi anche da casa mia».

Era amareggiato. Con nell’animo quell’afflizione si gettò a capofitto nella lotta che era esplosa tra mezzadri e braccianti nelle campagne romagnole. Dopo tante predicazioni passò all’azione diretta ponendosi alla testa di squadre di braccianti che, furiosi contro i mezzadri oppressori e reazionari, andavano travolgendo le trebbiatrici nelle aie. C’era nel forlivese un’atmosfera di stato d’assedio, con la cavalleria che, caricando, cercava di disperdere i manifestanti sabotatori. In uno dei pomeriggi di quell’infuocato luglio del 1908, Mussolini si trovò a fronteggiare un noto incettatore di crumiri, i quali rompendo il fronte dei braccianti in rivolta, consentivano alle trebbiatrici dei mezzadri di funzionare più o meno regolarmente. L’incettatore, tale Emilio Rolli, gli passò accanto, al che lui, agitando un grosso bastone, lo minacciò urlando: «Ti svirgolo!». L’incettatore non fece motto, ma si diresse in questura a denunciarlo. A causa di quella minaccia, Mussolini fu arrestato la sera stessa, quindi sottoposto a giudizio e condannato a tre mesi di reclusione, poi ridotti a quindici giorni.

Tornato libero improvvisò un comizio non autorizzato sulla «necessità della rivolta». Gridava: «Alle fiamme, alle fiamme il Codice!». Intendeva porsi al di sopra delle comuni norme, cercava nuove leggi, altre simbologie. Si mise a scrivere con accanimento un saggio di ampio respiro, La filosofia della forza, che il giornale dei repubblicani forlivesi, il «Pensiero Romagnolo», pubblicò in tre puntate. Nello scritto prendeva lo spunto da una conferenza che Claudio Treves aveva tenuto a Forlì sulla filosofìa di Nietzsche; polemizzava con l’esponente riformista accusandolo di non aver capito nulla del pensatore tedesco. Mussolini invece considerava quel filosofo come lo «spirito più geniale» dell’Ottocento. Lo aveva particolarmente colpito una sua espressione, «Vivere pericolosamente», e immediatamente la fece propria. Piuttosto ovviamente osservava che il superuomo era la «grande creazione» nicciana. Lasciandosi trascinare dalle estatiche visioni del filosofo e cercando d’imitarle, aggiungeva che per comprendere a pieno l’ideale del superuomo sarebbe stato necessario l’avvento di «una nuova specie di "liberi spiriti" fortificati nella guerra, nella solitudine, nel grande pericolo [Vivere pericolosamente!], spiriti che

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conosceranno il vento, i ghiacci, le nevi delle alte montagne e che sapranno misurare con occhio sereno tutta la profondità degli abissi, spiriti che ci libe-reranno dall’amore del prossimo, spiriti nuovi che trionferanno su Dio e sul Nulla!».

Fu in quei giorni che il padre decise di lasciare Dovia per aprire un’osteria a Forlì, unendosi ad Annina Guidi, madre di Rachele. Benito lo seguì, pur andando ad abitare per conto proprio in una camera di via Giove Tonante. Non vi stazionò a lungo, tanto quanto bastò per accorgersi delle attrattive di Chiletta, la prosperosa diciassettenne dagli occhi turchini «freddi ma conturbanti». Gli occhi di Benito, invece, come li vedeva Rachele, erano «di fuoco». Quando i due giovani si incontrarono nuovamente, si rivolsero parole comuni, ma dietro la maschera di convenienza brillava qualcosa. Benito la vide per primo e la chiamò. Rachele si voltò ed ebbe «il cuore in gola». Lui disse: «Mi conoscete ancora? Sono Benito». Lei taceva, mentre le orecchie le si facevano «rosse per l’emozione». Lui soggiunse: «Come vi siete fatta grande, siete già una signorina». Lei taceva ancora. E lui: «Quando ero lontano ho pensato spesso alla bambinetta della scuola di Predappio. Ora siamo qui. Perché non siete venuta a trovarci? C’è con noi anche vostra madre». Finalmente Rachele trovò la forza di parlare. «I miei padroni, dove sono a servizio, mi sgriderebbero». «Ah, questi signori, questi signori! Come sono ingrati con chi lavora per loro», esclamò cupamente Benito. Si salutarono, ma si rividero presto. Rachele aveva ottenuto il permesso di andare a trovare la mamma, e Benito le propose di lasciare la famiglia dove era a servizio per riunirsi ad Annina. L’osteria andava bene e abbisognava di braccia giovani. Tutti in casa Mussolini approvavano la proposta, sicché la ragazza si preparò al cambiamento.

Anche Benito, ancora una volta senza lavoro, si apprestava a partire per una nuova peregrinazione La meta era Trento, in territorio austriaco, dove lo chiamava Cesare Battisti che dirigeva «Il Popolo». Comunicò a bruciapelo la notizia: a Rachele che ne rimase stordita. Tuttavia la ragazza organizzò una cena e un ballo d’addio. Benito suonò il violino, e durante una pausa, in un angolo dell’osteria, chiamò a sé Chiletta e imperiosamente le disse all’orecchio: «Domani parto, ma al mio ritorno diventerai mia moglie. Ti ordino di aspettarmi».

Fu a Trento per soli sette mesi come agitatore e giornalista che continuava a vivere alla giornata senza una precisa collocazione nelle grandi battaglie politiche di quegli anni. In un ambiente di italiani irredentisti e patrioti mal si conciliava il suo persistente internazionalismo. Nell’anticlericalismo trovava invece punti di confluenza e in nome delle battaglie anticlericali gli fu affidata la direzione del settimanale 1’«Avvenire del Lavoratore» insieme alla segreteria della Camera del lavoro. Risvegliò il giornale col suo

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dinamismo e Cesare Battisti lo volle al «Popolo» di cui divenne redattore capo. Battisti lo presentava ai lettori come «scrittore agile, incisivo, polemista vigoroso con una cultura multiforme e moderna». Mussolini mantenne questo incarico soltanto per un mese, sentendosi diverso da Battisti e dai socialisti trentini di lingua italiana.

Con ferocia volgeva i suoi strali contro gli agrari, definendo un’accolita di «criminali» gli aderenti alle associazioni agrarie. Ma gli obiettivi preferiti erano i clericali trentini, i governanti austriaci che li sostenevano e un giovane leader dei cattolici, Alcide De Gasperi, direttore del più diffuso quotidiano locale, «Il Trentino». Lo chiamava «pennivendolo», uomo «senza coraggio», «intellettualmente stitico». Per tutta risposta gli avversari lo accusavano di essere «cannibalescamente antireligioso».

Si agitava irrefrenabilmente, faceva conferenze, scriveva articoli su articoli, piccoli saggi e racconti, sfornava traduzioni, trascorreva lunghe ore nella ben fornita biblioteca comunale. Affermava di ispirarsi nei suoi racconti, un po’ ossessivi, a EdgarAllan Poe. Uno di essi si intitolava Un suicidio, un altro Il convegno, e l’intera raccolta, una volta conclusa, si sarebbe dovuta chiamare Novelle perverse. Era scontento e si vedeva ancora professore. Sull’«Avvenire del Lavoratore» fece pubblicare un avviso in cui si proponeva come insegnante privato: «Lezioni di francese, lingua e letteratura, da giovane professore. Metodo rapido e sicuro». Sempre incerto sul suo futuro pensava che avrebbe potuto vivere suonando il violino: «Quando imparerò a strimpellarlo, girerò il mondo». Intanto metteva a rumore il quieto mondo trentino. A causa dei suoi articoli e dei comizi violentissimi fu più volte imprigionato e multato, mentre l’«Avvenire» per sua colpa subiva continui sequestri. Il carcere non lo impensieriva e ricordava in proposito un proverbio russo secondo il quale «per diventare uomini bisogna fare sei anni di ginnasio, due di università e due di reclusione». Non si mostrava scontento della polizia austriaca che giudicava migliore di quella svizzera. Poteva sostenerlo a ragion veduta avendo sofferto due espulsioni dalla Confederazione che egli da quel momento aveva cominciato a chiamare la «liberissima repubblica dei salumai». Concludeva le sue tirate dicendo di non aver motivi di lamentarsi del «forcaiolo, cattolico, feudale impero d’Austria».

Ma su di lui già pendeva la minaccia d’una nuova espulsione e d’un rimpatrio forzato. I cattolici, che definivano «scempio» 1’«Avvenire», premevano sulle autorità trentine e viennesi per ottenere l’allontanamento di quell’ateo provocatore, il quale li attaccava scrivendo che molti di loro «preferivano al corpo di Gesù una buona bistecca».

Il suo motto era «Viver liberi» e lo aveva scritto in un cartello che teneva a capo del letto. Si sentiva libero da ogni costrizione anche in amore. Una

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sera, durante un’animata riunione alla Camera del lavoro, conobbe una giovane e ardente militante socialista, Femanda Oss Facchinelli, che si strinse subito a lui. Era minata dalla tubercolosi, ma taceva il suo male. Voleva un figlio da Mussolini e lo ebbe, ma il bambino, di cui non si seppe mai il nome, non visse che pochi mesi. Ben presto anche la madre lo seguì nella tomba. Nel frattempo Benito aveva conosciuto un’altra ragazza trentina, Ida Irene Dalser, di modeste origini, figlia di un oste. Era sua coetanea, originaria dei dintorni. Sopramonte. Era elegante e slanciata ma gelosa e diffidente, dal carattere difficile di femmina tragica. Mussolini, preso dall’amore per Fernanda e dalle visite di Angelica Balabanoff, sempre più innamorata di lui, non diede sulle prime grande importanza alle attenzioni della fiammeggiante austro-ungarica. In lui il fuoco covava sotto la cenere.

Altrove covava ai suoi danni un provvedimento di espulsione dall’impero austriaco. L’occasione dello sfratto fu offerta da una visita di Francesco Giuseppe a Innsbruck, visita che a Trento diede l’avvio ad alcuni scontri fra clericali e socialisti. I socialisti presero di mira con uova marce i redattori del giornale degasperiano, «II Trentino», e la polizia si diede alla caccia degli autori di quel gesto compiendo perquisizioni e arresti. Si scoprì un furto di trecentottantamila corone dalle casse di una banca cooperativa e si sospettò degli irredentisti. Furono rovistati anche l’abitazione e gli uffici di Mussolini, asportandovi ogni cosa. Vi si rinvennero carte compromettenti, o ritenute tali, comunque sufficienti per tradurlo in carcere a Rovereto, e imbastire un processo. Nel corso del dibattimento le imputazioni si rivelarono inconsistenti, ed egli fu assolto, ma non subito scarcerato, per cui in segno di protesta proclamò uno sciopero della fame. Solo a questo annuncio le autorità austriache lo accompagnarono al confine di Ala diffidandolo dal tornare indietro.

Si ritrovò nuovamente in Italia, in condizioni peggiori di quando era partito, esacerbato nell’animo e con indosso gli abiti più sdruciti che mai avesse avuto. Per continuare il viaggio da Verona a Forlì, dovette chiedere al vecchio padre d’inviargli qualche soldo con un vaglia telegrafico. Quando Rachele lo rivide non poté trattenere le lacrime. Lui non amava Forlì, «la città di mercanti, di maiali e di erba medica», come la chiamava. A Forlì si sentiva prigioniero, quasi come nella cella del carcere austriaco di Rovereto. Passò l’autunno e l’inverno aiutando il padre a servire i clienti nell’osteria, accanto a Rachele, e scrivendo un paio di libri ai quali aveva già pensato durante i mesi trascorsi nel Trentino: un «romanzaccio storico», come egli stesso lo definiva, e un saggio politico. Mussolini narratore volle dare alla sua opera letteraria un titolo a effetto, Claudio Particella, l’amante del Cardinale, come del resto era a sensation la trama. Mussolini saggista si

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mostrò invece estremamente misurato nell’intitolare le pagine dell’opera dedicata alle esperienze da lui vissute nelle zone di un territorio austriaco dove si parlava italiano. Il Trentino era il laconico titolo iniziale, e se poi lo chiamò Il Trentino veduto da un socialista, lo si dovette a Prezzolini che gli aveva suggerito l’aggiunta prima di pubblicarlo nelle edizioni della «Voce».

Il romanzaccio di Claudio Particella, pesantemente anticlericale, appariva a puntate sul «Popolo» di Battisti. Era anche quello un modo di far propaganda politica narrando a briglia sciolta gli amori scandalosi fra una bella ragazza, Claudia per l’appunto, e l’ultimo principe-vescovo di Trento, Carlo Emanuele Madruzzo, satiresco personaggio vissuto nel Seicento. Fra i comprimari della vicenda, Mussolini inserì se stesso nelle vesti d’un rivoluzionario, don Benizio, e una biondina, dama di compagnia di Claudia; la chiamò Rachele, come atto di omaggio al suo amore forlivese. «Dalle piccole chiese nascoste tra il verde rigermogliato delle valli, l’Ave Maria della sera veniva dolcemente a morire sul lago», era l’incipit del romanzo, un centinaio di pagine fitte.

Cesare Battisti era entusiasta dei feuilleton, e lo scriveva all’autore inviandogli le quindici lire quale pagamento per ogni puntata: «L’appendice è letta con molta avidità. I compensi finanziari sono scarsi, ma rischi di avere un monumento in Piazza del Duomo. Ti par poco?». Mussolini anche con Battisti bussava sempre a soldi: «"Verbis brevis", ti chiedo 200 lire. Converrai che romanziere non deprezzò mai a tal punto la sua prosa narrativa». Firmava le sue lettere anteponendo il cognome al nome, Mussolini Benito, mentre Battisti non dimenticava di far precedere alla sua firma il titolo accademico di dottore: «Saluti cordialissimi, tuo Dr. Ces. Batt.».

Benché povero e disorientato, Mussolini aveva un’alta cognizione di sé. Spesso agli amici diceva di aver incontrato ben pochi uomini che potessero stargli alla pari. Per esempio Giolitti era «una misera anima di burocrate, un anacronismo, una vergogna». E si azzardava a prevedere che «una prossima ventata lo avrebbe spazzato via». Anche a Forlì fu nuovamente tradotto in carcere dove lo tennero rinchiuso per una decina di giorni, non avendo pagato una multa inflittagli per un comizio indetto senza autorizzazione. Era di una impazienza patologica, lo rodeva un complesso di persecuzione fin nelle piccole cose. Scalpitava come un puledro selvaggio. Scriveva a un caro amico, al socialista visionario, Torquato Nanni: «Ecco, mando una traduzione a Milano, l’accettano e non si decidono a pubblicarla; spedisco un lavoro alla "Voce". Prezzolini mi risponde che "va benissimo e mi manderà le bozze". Sono passati 15 giorni. Le hai viste tu? Potrei conti-nuare. Insomma, mi prendono in giro? Sta di fatto che queste inesplicabili lungaggini mi esasperano e mi fanno cadere le braccia».

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Bussò alla porta di alcuni importanti quotidiani, sempre col proposito un po’ vago di fare il giornalista di professione, ma non ricevette buona accoglienza. Ripiegò allora sul progetto di fondare in proprio, con l’amico Nanni, un periodico culturale, la «Fonte», ma anche questa idea abortì. Si accingeva perciò ad accettare un modesto impiego nell’ufficio comunale di Argenta, mentre lasciava aperta la possibilità di trasferirsi in America dove gli proponevano di dirigere un quotidiano socialista. Scriveva infatti a Rino Alessi, suo compagno di Forlimpopoli: «Sono stanco di stare in Romagna, sono stanco di stare in Italia, sono stanco di stare al mondo (intendi l’antico, non la lacrymarum valle). Voglio andarmene nel nuovo».

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V

In tanta incertezza volle mettere un punto fermo almeno nella sua vita privata. Dopo aver fatto qualche avance con una sorella maggiore di Rachele, l’esuberante Augusta che lo chiamava «il fanfarone», e averne ottenuto un rifiuto, sonoro perché accompagnato da un ceffone, si volse decisamente a Chiletta chiedendola ufficialmente in sposa. Sia il padre di Benito, sia la madre della ragazza erano contrari a quell’unione: «Lasciala stare, gli diceva il vecchio Alessandro, non hai lavoro, non hai soldi. E poi la politica farà soffrire te e Rachele». Benito non smetteva di corteggiarla, si mostrava sempre più geloso di lei. Non la portava più nemmeno ai comizi, con la scusa che alla sua presenza non riusciva a essere naturale. Ma la realtà era ben diversa. Era avvenuto che una sera, a conclusione d’una manifestazione socialista, si fossero aperte le danze. Ballò pure Rachele avendo accettato l’invito d’un prestante contadinotto. Benito, entrando nella sala, la vide, la strappò all’uomo, la prese tra le sue braccia e la trascinò in un ballo impetuoso e terribile. La fissava intensamente negli occhi, chiuso in un impeto di rabbia. Poi riaccompagnandola a casa, sempre in silenzio, la tormentò per tutta la strada con pizzichi e spintoni. La teneva lontana anche dall’osteria, popolata com’era da avventori avvinazzati e lunghi di mano, fino a quando un giorno all’improvviso la trascinò in campagna, a San Martino, presso un’altra sorella, e le impose di non allontanarsi di lì e di non farsi mai più vedere da anima viva.

Insomma, doveva uscire soltanto con lui, soltanto lui le avrebbe aperto gli occhi sul mondo. Una sera la portò a vedere la Cena delle beffe di Sem Benelli, e Rachele, che non aveva mai messo piede in un teatro, ne fu profondamente impressionata. Lungo la strada del ritorno all’osteria, Benito bloccò la ragazza contro un muro, in un angolo buio, e le chiese non certo dolcemente: «Sei decisa a sposarmi?». «Sì», fu la pronta risposta di Chiletta. «Bene, allora andiamo». Benito aveva in mente un piano. Difatti, arrivati all’osteria, chiamò il padre, chiamò Annina. Mise una mano alla tasca della giacca traendone una grossa pistola. E con tono melodrammatico, ma decisamente minaccioso, esclamò:

«Se non mi date Rachele, qui ci sono sei colpi. Uno per lei», e indicò la ragazza che gli era accanto, «gli altri cinque per me». L’argomento fu

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risolutivo. Seduta stante Benito ottenne l’assenso desiderato. Quella stessa notte se ne andarono insieme nella vicina villa Carpena, e non tornarono nelle loro case se non dopo alcuni giorni.

Gli era arrivato un lavoro, un po’ per merito suo, un po’ dei compagni forlivesi. Insieme avevano dato vita a un piccolo settimanale socialista, la «Lotta di Classe», quattro pagine in tutto, per contrastare il predominio d’un deputato della zona, Giuseppe Gaudenzi, leader repubblicano e personalità di grande prestigio. Mussolini fu naturalmente il direttore del periodico, diventando altresì il segretario della federazione socialista. Tutto questo suc-cedeva il 9 gennaio del 1910, e soltanto pochi giorni più tardi, il 17, egli decideva di unirsi definitivamente a Rachele. Lo fece «senza vincoli ufficiali, ne civili, ne religiosi». La ragazza accettò ogni cosa, senza fiatare. Con una punta di snobismo, Benito chiamava quell’unione il loro faux-ménage. Andarono a vivere in un desolato appartamento d’una camera e cucina al pian terreno d’un caseggiato di via Merenda. Pagavano quindici lire mensili di affitto. Lo stipendio di direttore era di centoventi lire che egli, con gesto autopropagandistico, ridusse a cento per offrire generosamente la differenza al partito.

Il faux-ménage Benito-Rachele disponeva di quattro lenzuola, quattro piatti, sei posate - roba presa ai genitori - un letto, una madia, due sedie, un violino e relativo leggìo con spartito che troneggiava nel bel mezzo dell’unica camera. Benito scriveva di sé e di Rachele: «Nell’appartamento di via Merenda, numero 1, abbiamo passato la nostra breve luna di miele. Il 1° settembre, alle 3 del mattino, la mia compagna partorì felicemente una bambina, alla quale ho posto il nome di Edda». Egli aveva ventisette anni, la moglie diciassette e ne dimostrava molto meno. La bambina non fu denunciata all’anagrafe come figlia di Rachele, in quanto, come spiegava Mussolini alla compagna, essi non erano una coppia regolare. La stessa Rachele riconosceva che dalla mancata denuncia era nata la «stupida insinuazione» secondo cui Benito aveva avuto la prima figlia dall’agitatrice Angelica Balabanoff durante i loro incontri di Losanna dove il giovane viveva, secondo il giudizio dell’esule russa, come un «miserabile vagabondo». Su chi fosse la madre di Edda fiorivano le leggende. Si favoleggiava che la bambina fosse effettivamente il frutto d’una relazione consumata in Svizzera, ma non con Angelica, piuttosto con quella Eleonora H., studentessa polacca, amata a Ginevra. Si diceva che Rachele tacesse su tutto e che, pur di vivere accanto a Benito, avesse accettato di prendere con sé la piccola Edda, crescendola come fosse propria.

Oltre le fantasie dei maliziosi, lui visse con emozione quella nascita. Aspettava una femmina e da qualche mese le aveva già trovato il nome. Un nome inusitato, due sillabe dure, Edda, che aveva probabilmente raccolto

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dagli echi popolari del dramma ibseniano, Hedda Gabler, in gran voga, più che, come amava far credere, per scienza diretta dalle narrazioni delle imprese degli eroi scandinavi. Nata la bambina, per prima cosa e di prima mattina, il padre felice uscì di casa per precipitarsi in un negozio a comprare una culla di legno dalle fattezze e dalle dimensioni principesche. Se la caricò sulle spalle, senza badare ai motteggi dei passanti. Il lieto evento moltiplicò le sue energie, lo rese più ardimentoso nella lotta politica. Ma la miseria non abbandonava casa Mussolini. «Raramente la carne», diceva Rachele, «seguiva al piatto di minestra, mentre la cena spesso consisteva in cavoli e radicchi». Per cui essi chiamavano amorevolmente Edda «la figlia della povertà». Chiletta faceva miracoli per arrivare alla fine del mese con i pochi soldi che le dava il marito, e si piegava a coglier cicoria nei campi.

Nella competizione politica Mussolini diventava sempre più un arrabbiato blanquista, propugnatore della maniera forte. Nel primo numero della «Lotta di Classe» scrisse che il «socialismo, sulle orme di Blanqui, baserà sul ferro la sua volontà di ascesa». Si presentava ai comizi come un esaltato, gli occhi di bragia, la barba incolta, gli abiti consunti con le tasche della giacca rigonfie di carte. Urlava, imprecava, minacciava, si dimenava gesticolando. Si impossessava di ogni slogan che gli piacesse e ripeteva che la religione era «l’oppio dei popoli», che la bandiera nazionale era «uno straccio da piantare nel letame». Proclamava di «non volere ne Dio ne padroni», e fu così che cominciarono a chiamarlo ‘e matt, il matto. Ma lui teorizzava sulla pazzia: «Ho sempre sputacchiato il buon senso. Dai greci la pazzia era ritenuta d’origine divina, e le rivoluzioni sono le rivincite della follia sul buon senso».

Era stato nominato corrispondente dell’«Avanti!» da Forlì. Il bilancio familiare sembrava assestarsi, sicché fu possibile trasferirsi in un appartamento meno indecente, in piazza XX Settembre. Il vecchio Alessandro era morto e i Mussolini poterono sbarazzarsi dell’osteria. Benito dovette registrare una battuta d’arresto alla sua ascesa durante il congresso nazionale socialista che si svolse a Milano nell’ottobre del 1910. Aveva parlato in tono perentorio e scattante alla presenza di pochi congressisti; aveva accusato i parlamentari riformisti di «accontentarsi di quattro lenticchie, invece di mettere i piedi nel piatto». «Il Giornale d’Italia» di Roma, in un articolo di Goffredo Bellonci, lo definì «un contadino dall’oratoria a scatti»; «Il Momento» di Torino ironizzò sull’assonanza del suo nome con quello del terribile brigante calabrese Musolino, e ancora un giornale di Roma, «La Tribuna», scrisse che era stato costretto a interrompere il discorso per le «risate della platea».

Poté prendersi la rivincita al successivo congresso di Reggio Emilia dal quale uscì finalmente con la statura di leader nazionale, da rivoluzionario

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trionfante. Al successo suo e della fazione estremista avevano sommamente contribuito il rumore e l’emozione suscitati dal suo arresto con l’imputazione di resistenza alla forza pubblica e di azioni di sabotaggio - strappo delle traversine ferroviarie - in opposizione alla guerra di Libia, la «nuova avventura africanista», come egli la chiamava, non senza aggiungere che meglio si sarebbero impiegati capitali ed energie «a colonizzare i molti Tripoli d’Italia». Definiva «idiota» il canto Tripoli, bel suol d’amore ne ascoltava il richiamo guerresco delle terzine dannunziane in cui si esaltava la Gesta d’oltremare. I rivoluzionari di Mussolini, affiancati dai repubblicani forlivesi con alla testa Pietro Nenni, un giovane animoso alla Robespierre, avevano scatenato nella provincia un formidabile sciopero generale. E Mussolini, davanti ai giudici che lo processavano, gridava: «Se mi assolverete mi farete piacere, se mi condannerete mi farete onore».

Dovette trascorrere cinque mesi abbondanti in prigione, lasciando la moglie sul lastrico. Rachele ricordava che al momento dell’arresto di Benito, aveva in tutto dodici lire. La soccorsero i compagni socialisti, e lei poteva di tanto in tanto permettersi di portare al marito in prigione un dolce e un po’ di frutta. Aveva qualcosa da mangiare anche per Nenni, alquanto trascurato dagli amici repubblicani. Benito, nella cella n. 39 delle carceri forlivesi, scriveva un’autobiografia definendo la propria giovinezza «avventurosa e tempestosa». Che cosa gli riservava l’avvenire? Lo attraeva il nomadismo: «Io sono un irrequieto, un temperamento selvaggio». Ri-cordava di aver amato molte donne: «Ma ormai su quegli amori lontani stendeva il suo grigio velo l’oblio».

Era quanto mai dominato dall’incertezza, e si preparava a fare una nuova domanda di lavoro, accontentandosi di un posto di maestro elementare. Ma finalmente, col sostegno di Angelica Balabanoff e di altri leaders rivoluzionari, ottenne il riscatto politico al congresso di Reggio Emilia. «Il Giornale d’Italia» lo chiamò «capo degli intransigentissimi». Il suo astro brillò all’improvviso, la sua ascesa fu irresistibile e fulminea. In quelle assise si gettarono le basi della sua nomina a direttore dell’«Avanti!», il giornale del partito. Non aveva che ventinove anni. Dal partito venivano «ghigliottinati», cioè espulsi, i riformisti «tripoleggianti», con alla testa Bissolati, da lui accusati di «prostituire il socialismo amoreggiando con Giolitti e la monarchia». Aveva avuto altresì buon gioco contro i riformisti Bissolati e Bonomi che aveva potuto additare al disprezzo dell’assemblea per aver espresso la loro solidarietà a re Vittorio Emanuele, uscito indenne da un attentato di un anarchico nelle vie di Roma. Lui gridava contro i tripo-leggianti: «O col Quirinale o col socialismo!», e non gli importava di spezzare l’unità socialista che definiva «un feticismo assurdo». I riformisti «si prostituivano», mentre lui dichiarava di avere una concezione

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«religiosa» del socialismo, impressionando Benedetto Croce che osservava come Mussolini volentieri si dicesse «idealista».

Mussolini riscuoteva da Mosca il consenso di Lenin, il quale dichiarava che i socialisti italiani si erano messi sulla «strada giusta». Amilcare Cipriani da Parigi esclamava: «Quell’uomo mi piace molto». Gli faceva eco George Sorel: «È un condottiero del XV secolo. Un giorno lo vedrete alla testa di un battaglione sacro». «Il Nuovo Giornale» di Firenze non mancava però di ravvisare nella «teoria del prof. Mussolini qualcosa di pazzesco», pur riconoscendo che quella teoria era stata difesa «da un uomo sottilmente dialettico, fecondo, sdegnoso». Invece Angelica Balabanoff parlava di lui come di «un semplice poetino che aveva letto qualche pagina di Nietzsche». I riformisti battuti lo descrivevano sulla «Giustizia» come un individuo dall’«isterico temperamento nevrotico», mentre il rivoluzionario Francesco Ciccotti proclamava ammirato: «Ha la testa d’un pronipote di Socrate». In quei giorni Mussolini si vedeva «deambulare nelle sembianze di un esule in una società di mercanti, fra rottami di uomini»; l’Italia gli appariva come «una giostra per gli invertiti di tutte le fedi»; si vergognava perciò di vivere in un paese di «funamboli e di giocolieri della politica», si sentiva rivoltare lo stomaco per il «barzinismo» dei corrispondenti di guerra.

L’aver assunto la direzione dell’«Avanti!» significò il suo trasferimento a Milano, seguito di lì a poco dalla famiglia. Una volta riuniti, affittarono un piccolo appartamento di due stanze all’ultimo piano d’un cadente edificio di via Castelmorrone 19, in periferia. Arrivò anche Annina, la madre di Rachele, e stavano davvero stretti in quattro. Disponevano d’una toilette, non d’una vasca da bagno. Se volevano lavarsi per bene dovevano recarsi ai bagni pubblici, ma la cosa non impensieriva Benito che al mattino usava sciacquarsi la faccia di corsa e non sempre si sbarbava. Nella stessa via, al n. 9, abitava Angelica Balabanoff rimasta zitella. Ogni giorno lei e Benito facevano la strada insieme per recarsi al giornale. L’esule russa era la più sicura collaboratrice del nuovo direttore che le aveva affidato l’incarico di vice caporedattore. Angelica ricordava il giorno in cui a Milano vide assieme per la prima volta Benito e i suoi familiari: «Lo accompagnavano una donna dimessa, umile e silenziosa e una bambina denutrita, con un vestito trasparente, bagnato dalla pioggia che veniva a dirotto. "È la mia compagna Rachele, e mia figlia," disse presentandole. Lo spettacolo di quei due esseri suscitò in me pietà, e collera per Mussolini».

Sotto la sua veemente direzione, la tiratura del giornale balzò dalle ventottomila copie iniziali a quota centomila, ma rapidamente si guastò il clima di collaborazione fra lui e Angelica che, nella collera di profuga, «non lo trovava mai abbastanza sovversivo». Eppure Paolino Vaierà, barricadiero per eccellenza, lo rappresentava sulla vetriolesca «Folla» come un «atleta

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della penna rivoluzionaria» e umanamente lo ricordava sempre stretto e in-freddolito «in un paltoncino proletario dal bavero rialzato». Scacciò dal giornale i riformisti, a cominciare da Claudio Treves, e ne aprì le colonne ai rivoluzionari e ai sindacalisti, a personaggi di grande cultura come Arturo Labriola e Gaetano Salvemini, sensibile com’era alle questioni connesse con la revisione teorica del socialismo in chiave rivoluzionaria.

Il rinnovamento teorico non poteva andare disgiunto da un’azione concreta di propaganda rivoluzionaria, e difatti, al cospetto degli eccidi di Roccagorga, un’antichissima località della Ciociaria, esplose con particolare violenza tutto il suo odio contro le forze governative e ancora contro i riformisti del partito, non completamente domati. Il 6 gennaio del 1913 la polizia, fronteggiando uno sciopero dei braccianti nelle campagne del Lazio, aveva brutalmente abbattuto sette contadini. Il giorno successivo Mussolini pubblicò un articolo furente dal titolo Assassinio di Stato!. Ne seguirono altri non meno furibondi, con titolazioni sempre più dure, a tutta pagina: Al grido di "Savoia " la truppa scarica 300 colpi di fucile contro inermi donne ed innocenti bambini; La politica della strage; La fatalità degli eccidi e la cuccagna dei conservatori.

Le gravi repressioni di Roccagorga rientravano in una più ampia operazione del governo volta a frenare con maniere forti le agitazioni dei braccianti che esplodevano in più parti d’Italia. Mussolini, alla sua prima prova importante come direttore dell’«Avanti!», scriveva che la patria aveva distribuito «una memorabile strenna della Befana al proletariato italiano; un po’ della molta mitraglia che la pace di Losanna aveva risparmiato agli arabi ed ai beduini della Libia». Insistendo su questo motivo e chiamando Giolitti «ministro omicidiario» aggiungeva che «quando gli arabi di Rocca Gorga chiedono le fogne, i medici, l’acqua, la luce, allora il governo, manda i carabinieri e annega nel sangue la civile, la santa, la umana protesta del popolo». Gli «arabi» di Roccagorga, i parenti delle vittime, furono presenti al processo cui venne sottoposto Mussolini per le sue veementi accuse al governo, e furono visti così da occhi pietosi: «Tre donne dal volto chiuso e triste, di età indefinibile, alcuni uomini giovani dall’aria smarrita, vestiti da pastori, con le ciocie ai piedi, i capelli ricci e cadenti sul collo, lo sguardo atono: vera gente della gleba».

Mussolini istigava alla rivolta cruenta: «Nessuna violenza è più legittima di quella che viene dal basso come reazione umana alla criminosa politica della strage». Ma non aveva dalla sua parte ne Claudio Treves, com’era naturale, ne Filippo Turati, il quale riceveva da Anna Kuliscioff una lettera in cui Mussolini era chiamato un «anarchico perfetto». Con lui però, come aumentavano le copie dell’«Avanti!», così crescevano gli iscritti al partito che da trentamila erano saliti a cinquantamila. L’opinione pubblica più

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avvertita seguiva con interesse quella lotta intestina, e si divertiva alle uscite polemiche di Mussolini che accusava Treves di «sognare un partito di eunuchi». Quando si presentò alle elezioni politiche del 1913 nel collegio di Forlì, ne uscì tuttavia sconfìtto e non fu tra i cinquantatre deputati che il partito socialista portò nell’aula di Montecitorio.

Si consolava della sconfitta personale, che però non oscurava il successo ottenuto dal partito e quindi dalla fazione rivoluzionaria, immergendosi in un singolare rapporto con una stravagante signora di mezza età, scrittrice e intellettualoide, dedita alla religione musulmana, paludata d’abiti egiziani e convinta di essersi reincarnata dopo aver vissuto una prima volta nei tempi remoti del faraone Cheope. Questa dama. Leda Rafanelli, non gli si concesse, confusa dalle sue credenze fìlosofico-religiose. Era comunque fortemente attratta dalla originale personalità di Mussolini, il quale non riusciva a penetrare il mondo di lei. Egli non si rendeva conto come una donna, che pure lo ammirava intellettualmente, potesse resistergli sessualmente. Spesso i loro incontri si risolvevano in scontri. Lui attaccava, lei resisteva. Parlavano di politica, di letteratura, di scienze esoteriche, di reincarnazione.

Leda, che peraltro si atteggiava ad anarchica, lo aveva visto per la prima volta durante una manifestazione politica a Milano. Egli celebrava con toni violenti il blanquismo della Comune di Parigi, e lei, restandone affascinata, lo esaltò in un suo articolo: «È il socialista dei tempi eroici. Mi si è rivelato come un artista della parola e del pensiero. È un artista rude e colossale». Mussolini la ringraziò con un «bigliettino gentile» e Leda gli chiese di incontrarlo. Mussolini le scrisse ancora: «Sento che fra noi è cominciato qualche cosa». La dama lo ricevette nel suo appartamento di viale Monza, in periferia, in uno scenario orientaleggiante, fra bassi divani, stuoini e cuscini disseminati sul pavimento, mentre «dal braciere salivano le spire odorose dell’incenso, del benzoino, del sandalo».

Il «socialista dei tempi eroici» le apparve, così da vicino, assai diverso. «Lo avevo veduto sul palco», raccontava lei, «in giacchetta, con la barba non rasa, gli occhi dallo sguardo un po’ folle, eccitato, fremente; e ora vedevo un signore vestito elegantemente di nero, la fronte altissima per la precoce calvizie, il cappello duro tra le mani come certi personaggi da commedia». Al primo incontro, che si mantenne sul terreno d’uno scambio di esperienze intellettuali, ne seguirono altri, mentre si scambiavano bigliettini. «Quando vorrò portare una parentesi nella mia vita tumultuosa, congestionata e solitaria», le scriveva Mussolini, «verrò da voi. Mi farete vivere ore orientali. Leggeremo Nietzsche e il Corano». E ancora, antici-pando i temi delle loro conversazioni, osservava: «Il futurismo è a terra. È finito. Lo ha ucciso Marinetti. Ritorna il chiaro di luna».

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Con rammarico, un giorno, lui dovette confessarle di non conoscere il greco: «Non ho studiato molto», le disse abbassando gli occhi e chiedendole, di lì a poco, di insegnargli l’arabo. Poi si venne al punto: Mussolini le diceva di aver bisogno d’una donna sua, anzi d’un’ispiratrice, d’una consolatrice, e portava l’esempio di Scarfoglio che mai sarebbe diventato un grande giornalista senza la Serao. Alla Rafanelli, che gli chiedeva se fosse sentimentalmente impegnato, rispondeva di essere libero «come l’aria». Leda sapeva benissimo del suo rapporto con Rachele e non gliene fece mistero, ma Benito replicava giurandole e spergiurandole di non essere legato a nessuna. Le rivelava tuttavia l’esistenza di due donne che lo amavano «follemente». Ma egli non le voleva: «Una è troppo brutta, pur avendo un’anima nobile e generosa. L’altra è bella, ma ha l’anima subdola, avara, sordida anzi. È ebrea». Le fece i nomi: Angelica Balabanoff e Margherita Sarfatti. Sulla Sarfatti, scrittrice e moglie d’un avvocato, aggiungeva pesanti giudizi: «Mi perseguita col suo amore, ma io non potrò mai amarla. La sua spilorceria mi disgusta. É ricca e abita in un grande palazzo di corso Venezia. Ebbene, quando viene pubblicato un suo articolo, manda all’Avanti!" la sua cameriera per prenderne tre copie gratis, per risparmiare tre soldi. E ha l’edicola a pochi passi».

Insomma voleva far capire alla Rafanelli che amava soltanto lei, e una sera per farglielo intendere meglio, senza possibilità di equivoci, la strinse a sé e la baciò «con gesto improvviso, inatteso», mentre ardeva in volto. Leda non ricambiò e Mussolini dovette battere in ritirata. Si rividero, ma la donna manteneva un atteggiamento distaccato. Egli cercò ancora di piegarne la resistenza, continuava a dirle di non poter fare a meno di lei e che lei doveva aiutarlo sulla strada del successo: «Tutti parleranno di me. Vorrei diventare l’uomo del giorno, l’uomo del destino». Alla freddezza iniziale, la Rafanelli univa ormai l’irrisione, e, a quelle ultime parole, esclamò, per l’appunto con sarcasmo: «Come Napoleone!». Di rimando e senza ironia, egli disse: «Più di Napoleone!».

Persa la battaglia con la Rafanelli, rimastagli «impenetrabile come un’araba», si volse a un’altra donna, la quale non aspettava altro che gettarglisi tra le braccia. Era Ida Irene Dalser, la giovane austro-ungarica fugacemente conosciuta a Trento. Ida si era trasferita a Milano al seguito di una vecchia zia che le aveva trovato un lavoro di governante-infermiera presso una famiglia di milionari, i Taveggia. La ragazza era intelligente e volenterosa, leggeva le opere di qualche filosofo non escluso Nietzsche, e scriveva versi in realtà un po’ incomprensibili. La signora Taveggia prese a proteggerla, e considerate le sue inclinazioni estetiche, la incoraggiò a seguire le lezioni di massaggiatrice presso l’Ospedale Maggiore. Al momento della morte, le lasciò una buona eredità in denaro, per cui con quel

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gruzzolo e con ardimento la Dalser prese il volo per Parigi dove si iscrisse ai corsi d’una rinomata Scuola internazionale di ortopedia e massaggio. Si distinse negli studi e nella pratica, ottenne con ottima votazione il diploma e, tornata a Milano, aprì il «Salone orientale di igiene e bellezza. Ma-demoiselle Ida». In quei giorni la rivide Benito che così da un momento all’altro passò dall’orientalismo intellettualistico della Rafanelli a quello prosaicamente manuale della Dalser.

Politicamente si preparava ad affrontare un nuovo congresso nazionale del partito e le elezioni amministrative nella capitale lombarda. Dalle elezioni uscì eletto consigliere comunale a Milano, guadagnandosi il titolo di «Barbarossa socialista». Il congresso si svolse ad Ancona nell’aprile del 1914 e segnò un ulteriore successo suo e della fazione rivoluzionaria (sebbene divisa all’interno), con la rinnovata sconfitta dei riformisti, e l’espulsione dei massoni. Per poco non scalzò Costantino Lazzari alla segreteria del partito. I rivoluzionari erano attratti dalla sua «figura ascetica», come scrivevano polemicamente gli esponenti della destra di «Azione socialista», da «quella voce a mormorio di foresta»; i suoi erano «gesti di persona agitata sempre da un incubo»; sulle masse più estremiste egli «esercitava fatalmente una potenza fascinatrice e trascinatrice». Poiché osava richiamarsi al modello napoleonico, si poteva già dire di lui ciò che Madame de Stael diceva di Bonaparte: «Quando gli si è vicini, si ha l’impressione che un vento impetuoso ci sibili nelle orecchie».

Sul terreno ideologico-culturale dedicava gran parte delle sue energie a una rivistina da lui fondata, «Utopia», col proposito di contribuire a una più rapida revisione rivoluzionaria del socialismo, in connessione con un suo corso di lezioni sulla storia del pensiero socialista, da Fiatone a Campanella, alla rivoluzione francese. In quel corso si insigniva del titolo di professore e vivi erano i complimenti di Prezzolini. Maturavano nuovi eventi che via via influivano sulla sua stessa predicazione. Proprio sulle pagine dell’«Utopia» prevedeva un possibile e imminente rigurgito del militarismo intemazionale che avrebbe potuto condurre difilato a una guerra. Che cosa fare, si chiedeva, qualora fosse esploso un conflitto d’immani proporzioni?

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VI

Nel diffuso timore d’un risorgente spirito guerrafondaio si sviluppava nel paese un forte movimento antimilitarista, con epicentro Ancona, la città che ospitava il più avventuroso degli anarchici, Errico Malatesta, tornato in Italia. All’inizio di giugno scoppiarono agitazioni, ci furono scontri tra forza pubblica e dimostranti un po’ dovunque. Ad Ancona si svolse la più imponente delle manifestazioni contro il militarismo cui partecipavano tutte le organizzazioni proletarie, sindacati, anarchici, socialisti, repubblicani. Era sceso in piazza lo stesso Malatesta. Il governo Salandra, succeduto a Giolitti, intendeva dare un segnale di fermezza, e scatenò una violenta repressione, per cui nella città marchigiana caddero uccisi tre operai: un repubblicano, un anarchico e un ragazzo di sedici anni. Dieci furono i feriti. I partiti, fra lentezze e contraddizioni, risposero proclamando uno sciopero generale nelle Marche e nell’Emilia-Romagna. La protesta, che si diffonde-va in altre regioni, era in gran parte spontanea nei toni insurrezionali apertamente antimonarchici e anticlericali. Ad Ancona e altrove gli insorti dichiararono la decadenza della monarchia, procedettero alla proclamazione della repubblica, mentre nelle piazze s’innalzavano alberi della libertà come ai tempi furiosi della rivoluzione francese.

Si dava la caccia ai preti; si penetrava nelle chiese, armi in pugno; si impose a un sacerdote di capitanare un corteo di rivoltosi suonando la tromba; si sequestrò un generale dei bersaglieri; si provocarono incendi e danneggiamenti ai servizi pubblici; si confiscarono grandi quantitativi di derrate, uova e polli per rivenderli a pochi centesimi alle folle esaltate. Nella confusione generale si perpetrarono uccisioni e vendette personali. Quei giorni tumultuosi e sanguinosi, dal 7 al 14 giugno, prendevano il nome di «settimana rossa» che aveva per protagonisti Malatesta, Mussolini, Nenni, Filippo Corridoni chiamato l’«Arcangelo sindacalista». Sull’«Avanti!» Mussolini rilanciava l’accusa di «assassinio premeditato» e si augurava che i lavoratori dicessero che era davvero arrivata l’ora «di farla finita». Evitava però di raggiungere Ancona, preferendo capeggiare le agitazioni milanesi. Agli scritti faceva seguire le azioni. «Occupiamo le piazze!», gridava dalle gradinate del Duomo, ma un drappello di polizia a cavallo affrontò i manife-

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stanti e li disperse. Mentre si ritirava a sua volta, alcuni poliziotti lo colpirono alla testa con un nerbo di bue e lo lasciarono a terra privo di sensi.

Lentamente nel paese si andava smorzando l’entusiasmo rivoltoso, anche perché la Confederazione del lavoro, guidata dai riformisti turatiani, aveva deciso di sospendere lo sciopero, con atto che Mussolini definì di grave «fellonia». Nenni e Filippo Corridoni furono arrestati, Malatesta poté mettersi in salvo riprendendo la strada dell’esilio. I detenuti scrivevano orgogliosamente alle loro famiglie: «Il nostro indirizzo è: Carceri Giudi-ziarie - Milano». Sull’«Avanti!» Mussolini pubblicò un articolo ambiguo dal titolo Tregua d’armi. Quel moto di popolo era stato il più profondo che «avesse scosso la Terza Italia», i borghesi ne erano rimasti «atterriti» poiché si era anche lanciato il grido «Al Quirinale!» e si erano abbattuti gli stemmi di casa Savoia. Poi si era entrati in un periodo di «tregua sociale», ma quando «batterà nuovamente la Diana Rossa, il proletariato si troverà pronto alla più decisa battaglia».

In realtà i socialisti si dilaniavano fra loro. I riformisti accusavano il direttore dell’«Avanti!» di aver tradito col suo folle estremismo il partito e i lavoratori. Ne chiedevano la testa, ma egli non demordeva, e di Filippo Turati scriveva: «Se non fosse al disopra dei sospetti lo si direbbe un poliziotto o un agente provocatore». Mussolini aveva detto che «l’Italia aveva bisogno d’una rivoluzione e che l’avrebbe avuta». Ma quando? E attraverso quale via? La «settimana rossa» era abortita, bisognava attendere altre occasioni oppure provocarle.

Non erano ancora trascorsi quindici giorni dai moti popolari della «settimana rossa» quando, nei Balcani, a Sarajevo, uno studente irredentista serbo uccise con una pistola Browning l’odiato arciduca Francesco Ferdinando d’Austria e la moglie morganatica, duchessa Sofia. Era il 28 giugno. L’assassinio dell’erede al trono asburgico innescò la miccia d’un conflitto che doveva assumere proporzioni mondiali. L’Austria colse l’occasione per aggredire la Serbia, e lo fece senza informare l’Italia, sua alleata nella Triplice. Già questo semplice fatto, in forza degli accordi sotto-scritti, legittimava l’Italia a dichiararsi neutrale, tanto più che si sapeva quanto si fosse impreparati militarmente, quanto fosse gracile l’economia del paese e quanto fosse ampiamente diffuso tra la gente il sentimento pacifista.

Mussolini sulle prime scrisse un articolo in favore della neutralità «assoluta», cui diede un titolo che non ammetteva equivoci: Abbasso la guerra! Esploso il conflitto, si cominciò tuttavia a discutere tra le forze politiche italiane su cosa fare. Primi fra tutti si dichiararono per la neutralità assoluta i socialisti rivoluzionari, mentre i riformisti alla Bissolati - insieme ad altre personalità come Salvemini, l’irredentista Cesare Battisti, i

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sindacalisti rivoluzionari come Alceste De Ambris e Corridoni - la consideravano una soluzione dannosa e propugnavano l’alleanza con la Francia. I sindacalisti rivoluzionari erano convinti che la neutralità avrebbe condotto direttamente alla vittoria del militarismo tedesco, e questo sarebbe stato il peggiore dei risultati. «La neutralità è dei castrati», sbottava Corridoni appena uscito dal carcere. C’erano insomma gli interventisti di sinistra, i quali pensavano che con la caduta degli Imperi centrali si sarebbe avviato il riscatto dei popoli attraverso una grande rivoluzione sociale, e c’erano gli interventisti di destra che puntavano, sempre in chiave antitedesca, a obiettivi di espansione territoriale. I repubblicani, che amavano definirsi interventisti democratici, promossero una campagna per l’entrata in guerra al fianco della Francia. Infine i liberali erano divisi fra giolittiani e antigiolittiani; i primi tiepidamente neutralisti; i secondi interventisti col sostegno della monarchia sabauda, del presidente del Consiglio Salandra, del ministro degli Esteri barone Sonnino, del direttore del «Corriere della Sera» Albertini. I soli a sostenere un intervento immediato accanto agli Imperi centrali, e in omaggio alla Triplice, erano i nazionalisti che definivano i socialisti neutralisti «un’associazione a delinquere contro la Patria». Ma poi cambiarono segno al loro interventismo volgendolo contro l’Austria. I cattolici si dichiaravano neutrali soprattutto perché non gradivano appoggiare una Francia laica contro un’Austria cattolica.

Mussolini modificherà via via la sua posizione, mediante contraddizioni fra quanto affermava in pubblico e quanto diceva in privato.. Era difficile capire da che parte fosse e con chi volesse schierarsi. Appariva come una sfinge in bilico. I suoi stessi redattori all’«Avanti!» si scambiavano occhiate interrogative. Un giorno a Bologna si seppe alfine quale fosse il suo vero obiettivo. Era a cena con alcuni colleghi del «Resto del Carlino» - a un tavolo dove sedevano Nello Quilici, Pippo Naldi, Eugenio Giovannetti, Mario Viana - e a bruciapelo quest’ultimo lo apostrofò: «Ma insomma, qual è il tuo programma?». Lui di rimando, in romagnolo esclamò: «Me a voi cmandèf», «Io voglio comandare!».

Alla notizia dell’attentato di Sarajevo si era confidato con un amico, in vacanza con lui a Cattolica. Gli aveva espresso la persuasione che il governo, in caso di guerra, dovesse dichiararsi per una neutralità «condizionata» e quindi acconsentire a un intervento al fianco della Francia qualora l’avessero trascinata nel conflitto. Si era anche detto convinto che l’eventuale estendersi della guerra austro-serba non avrebbe potuto lasciare indifferenti nemmeno i neutralisti.

Inizialmente e in pubblico proponeva però che si proclamasse uno sciopero generale nel caso di un intervento dell’Italia, sia accanto all’Austria

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e alla Germania, sia accanto alla Francia e all’Inghilterra. Il conflitto si estendeva rapidamente in tutta l’Europa che si era lasciata sorprendere dal rombo del cannone mentre ballava il tango argentino; i soldati tedeschi aggredivano il Belgio e lo invadevano per puntare su Parigi. I partiti socialisti dei paesi in guerra si mostravano disorientati. Perfino in Germania erano impotenti «a contenere l’onda guerresca», come diceva Bissolati. Apertamente in Italia si condannavano le crudeltà dell’«orda teutonica», mentre cresceva un moto di simpatia per le vittime del «brutale» militarismo germanico. Ancora Bissolati osservava che si andava preparando «l’anima del proletariato italiano» alla guerra.

All’interno del partito socialista si discuteva con animazione, al punto che 1’«Avanti!» aprì le sue pagine a un dibattito e a un referendum: «Siete per la guerra o contro la guerra?». Ne venne fuori una gran confusione, per quanto dibattito e referendum fossero controllati dall’alto. Nelle sezioni socialiste c’era già chi prevedeva il passaggio di Mussolini dal neutralismo all’interventismo. Ma pure in privato, scrivendo alla Rafanelli, egli ancora mostrava di adontarsi nei confronti di chi voleva imbracciare le armi: «É terribile. Corridoni apologista della guerra». Scrivendo a un amico anarchico, soggiungeva: «Anche Corridoni vuol marciare. Sovversivismo pagliaccio, nazione carnevale». Nondimeno Corridoni era convinto di averlo dalla sua parte: «Le mie idee sono condivise dallo stesso Mussolini. Egli non osa dichiararsi pubblicamente per paura delle scomuniche dei suoi compagni». E questa era anche la convinzione di Cesare Battisti.

La guerra era scoppiata a fine luglio; ai primi di agosto l’Italia si era dichiarata neutrale. Ma già a settembre si verificavano le prime manifestazioni di piazza a favore dell’ingresso in guerra al fianco della Francia, propugnate dai futuristi di Marinetti, da Corridoni e da un movimento d’azione internazionalista chiamato «Fascio rivoluzionario». Mussolini invece sembrava confermarsi neutralista assoluto, ancora una volta in quel mese di settembre quanto mai agitato. In realtà, profonda era la sua indecisione, una indecisione ormai nota a tutti. L’ispiratore del «Fascio rivoluzionario» Massimo Rocca - un anarchico interventista, un libertino che si firmava Libero Tancredi - ne scriveva esplicitamente e duramente. Il direttore dell’«Avanti!» smascherato. Un uomo di paglia, era questo il titolo d’un suo articolo in cui condannava Mussolini per non aver proclamato apertamente ciò che sapeva benissimo, e cioè quanto fosse «esiziale» all’Italia la neutralità. Tancredi rivelava che Mussolini gli aveva espresso, in colloqui privati, la propria avversione all’Austria aggiungendo che avrebbe partecipato «con entusiasmo» a una guerra contro gli Imperi centrali; gli aveva perfino fatto «l’elogio del fucile modello 1891».

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Sebbene lo chiamassero con sarcasmo «Amleto Mussolini», un suo articolo della metà di ottobre sorprese tutti. Vi annunciava il suo passaggio dalla neutralità «assoluta» alla neutralità «attiva e operante», il che significava prepararsi ad abbracciare la tesi dell’intervento al fianco della Francia. Scrisse che era assurdo «rifiutarsi di distinguere tra guerra e guerra» e che «pretendere di opporsi a tutte le guerre con identici mezzi» equivaleva a dar prova di «una inintelligenza confinante con l’imbecillità». Non ne aveva parlato con i dirigenti socialisti i quali ne furono sdegnati. In pochi mesi, dall’estate all’autunno, aveva cambiato fronte. Il suo gesto non poteva non apparire improvviso, per quanto fosse il frutto d’una certa macerazione che alcuni definivano «intima tragedia» o «penoso enigma». Altri scrivevano di lui: «Dubita, tentenna, monologa, cavilla, mozzorecchieggia».

Ruppe infine gli argini e sollecitò il partito socialista a dichiararsi per la guerra. La richiesta appariva assurda nonostante le lacerazioni in cui i socialisti si dibattevano. Da Parigi, grandi personaggi come Amilcare Cipriani e Pëtr Kropotkin, ferventi rivoluzionari, lo scongiuravano di far capire ai socialisti italiani quanto fosse grave il pericolo del militarismo prussiano e come fosse colpevole la neutralità. Cesare Battisti, ormai profugo in Italia, testimoniava l’insopprimibile aspirazione dei trentini a liberarsi dal giogo austriaco. Giovani sindacalisti, nelle uniformi di nuovi garibaldini, partivano volontari per combattere in Francia agli ordini di Peppino Garibaldi. Giuseppe Prezzolini scriveva che per un italiano prendere le armi contro l’Austria era una «causa giusta e santa».

Certo, Mussolini non sperava di trascinare con sé il partito, e sapeva in partenza che la reazione dei suoi dirigenti sarebbe stata furente. La crisi fu immediata. La direzione del partito confermò la scelta della neutralità «assoluta» e lui non poté fare altro che dimettersi da direttore dell’«Avanti!», mentre la sezione di Milano alla quale era iscritto votava la sua espulsione durante la più infuocata delle assemblee. Come un apprendista stregone, Mussolini, che aveva sommamente contribuito a portare i socialisti sul terreno del neutralismo totale, ora se li trovava spietatamente contro. L’«affascinante duce» del socialismo ufficiale era scalzato di sella, e più tagliente nelle accuse era proprio la vecchia amica Angelica Balabanoff.

Gli gridavano: «Venduto!», venduto a una potenza straniera, la Francia, che notoriamente spargeva oro a piene mani per fare proseliti interventisti. Gli gridavano: «Traditore!», traditore degli ideali socialisti e degli interessi del proletariato. Lo accusavano di essere un «intellettuale asservito idealmente alla borghesia» e al capitalismo che ingrassava fabbricando cannoni. Lui, che pochi anni prima aveva divelto i binari dei treni e aveva

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fatto saltare i ponti ferroviari in segno di protesta contro la guerra in Libia, era diventato il più arrabbiato interventista. Col suo comportamento rendeva verosimile ogni accusa, anche la più infamante. A pochi giorni dalle sue dimissioni dall’«Avanti!» si cominciò a parlare del suo proposito di fondare un giornale che dipendesse soltanto da lui e che propagandasse tra i lavoratori l’interventismo. L’uscita del nuovo quotidiano precedette la sua espulsione dal partito, un’espulsione quindi inevitabile. La presenza del giornale mussoliniano nelle edicole rendeva quanto mai infuocata l’assem-blea della sezione milanese del partito socialista.

La riunione si svolse in un teatro cittadino zeppo fino all’inverosimile. Il principale capo d’accusa era proprio il giornale, apparso nelle edicole la mattina del 15 novembre, nove giorni prima che si tenesse la riunione socialista. Si intitolava «II Popolo d’Italia», rilanciando il nome d’un foglio fondato a Napoli da Garibaldi; si autodefiniva «quotidiano socialista» ed era ovviamente diretto dallo stesso Mussolini. Alla sinistra della testata figurava un motto di Blanqui: «Chi ha del ferro, ha del pane», a destra uno di Napoleone: «La rivoluzione è un’idea che ha trovato delle baionette». Il primo numero recava un articolo di fondo che il direttore aveva scritto concitatamente sul bancone d’una vecchia tipografia adattata alle nuove esigenze. Con quell’articolo, intitolato Audacia, andava diritto allo scopo che si era prefisso; proclamava che «la propaganda antiguerresca era la propaganda antirivoluzionaria»; potevano perciò farla i «preti temporalisti e i gesuiti, i borghesi e i monarchici», non i rivoluzionari il cui ruolo era ben diverso. Quindi scriveva: «Io cammino! Riprendendo la marcia - dopo la sosta che fu breve - è a voi, giovani d’Italia; giovani delle officine e degli atenei; giovani d’anni e giovani di spirito; giovani che appartenete alla generazione cui il destino ha commesso di "fare" la storia, è a voi che io lancio il mio grido augurale. Il grido è una parola che io non avrei mai pronunciato in tempi normali e che innalzo invece forte, a voce spiegata, senza infingimenti, con sicura fede, oggi: una parola paurosa e fascinatrice: Guerra!».

Nella platea del teatro i socialisti più arrabbiati sbandieravano copie del nuovo giornale che ai loro occhi appariva schifoso come un «rospo volante» e che rappresentava il corpo del delitto. Si consumava un vero e proprio processo politico a Mussolini. Era notte alta, gridavano tutti a perdifiato. Dove aveva preso i denari il Giuda fondatore del giornale? Li aveva avuti dal governo francese? E allora fuori dal partito il volgare imbroglione, il vituperevole Rabagas voltagabbana. Così rudemente lo apostrofavano nel bailamme generale. Il clima era ormai da tribunale speciale e l’imputato rischiava il linciaggio.

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Altri parlavano di consistenti aiuti finanziari offertigli mediante Pippo Naldi, direttore del giornale bolognese «II Resto del Carlino». Ed erano finanziamenti che provenivano dalla pubblicità, dagli abbonamenti, in buona parte da industriali i quali, una volta entrati in guerra, speravano di rifarsi con le forniture militari.

Claudio Treves era in quei giorni il più implacabile accusatore. Firmava sull’«Avanti!» gli articoli con un significativo pseudonimo, «Palancagreca», e Mussolini gli rispondeva per le rime sul «Popolo d’Italia» fino a che non arrivarono a scontrarsi in un furibondo duello alla sciabola che costò al «traditore» un pezzetto d’orecchio. Il nuovo giornale, sebbene raggiungesse punte di ottantamila copie di vendita, non navigava in buone acque. Il direttore ne scriveva a Prezzolini, gli faceva sapere che le cose non andavano bene a dispetto d’una tiratura che aumentava «gradualmente e confortevolmente»; la vendita era limitata alle grandi città: «Nei piccoli centri è boicottato spontaneamente dal panciafichismo indigeno. Non ci sono stati mille interventisti in tutta Italia che mi abbiano fatto credito per un anno con un vaglia di 15 lire. Dopo questo non ti sorprenderà la mia decisione che è quella di ridurre allo strettissimo necessario le spese redazionali e di amministrazione. Riduco questa ultima a tre persone, dispenso dal servizio quattro redattori. Ti confesso, l’avvenire è incertissimo». Al giornale si respirava aria d’indigenza. La redazione somigliava a una topaia, in quelle poche stanzette al primo piano d’un edifi-cio di via Paolo da Cannobio, a pochi passi dal Duomo. La sua stanza da direttore non era che un angusto cubicolo. Benito seguiva le vendite da vicino, tastava il polso agli edicolanti dai quali, quando la domenica uscivano insieme, inviava Rachele a chiedere informazioni. E qualcuno le diceva in dialetto milanese, facendoli entrambi felici, che il giornale si vendeva «specialment quand gh’è l’articol de quel crapòn de Mussolini».

Nella tempestosa seduta in cui fu decretata la sua espulsione, egli si difese, ma inutilmente, a suo modo, con qualche paradosso e con frasi a effetto. Lo lasciarono parlare a malapena fra gli urli e le ingiurie. Gli gettavano manciate di monetine, gridando:

«Giuda! Ecco i trenta denari!». E lui, con fare melodrammatico, con molte pause, ondeggiando in tutto il corpo, rispondeva: «Voi mi odiate perché mi amate ancora. Voi credete di perdermi, ma vi illudete. Sono e rimarrò un socialista». Alte proteste della platea sommergevano la sua voce, ma, placato il clamore, poteva riprendere a parlare: «II tempo dirà chi ha ragione. Non crediate che io mi separi gaiamente da questa tessera. Strappatemela pure, ma non mi impedirete di essere in prima fila per la causa del socialismo, quando verrà l’ora». E quindi concludeva, con

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l’intento di aprire una falla nei loro animi: «Io vi dico che urlate invano. La guerra vi trascinerà tutti».

Un giornale lo rappresentava in quella bolgia con la barba nera, il volto di un pallore terreo: «L’uomo soffriva. Era lapidato dalla folla che lo aveva accarezzato, elevato, idolatrato, portato in trionfo. Si fischiava con le dita in bocca e con le chiavi alle labbra». Mussolini uscì sconfitto. Si sentiva solo, lo diceva a un giornalista, ma sentiva ancora scorrere il sangue nelle vene. Non si sarebbe arreso: «Fin che mi resta una penna in mano e un revolver in tasca io non temo nessuno». E sempre con accenti istrionici aggiungeva: «Sono forte nonostante sia quasi solo; dirò quasi che son forte appunto perché son solo». Tanto solo non era. Aveva perduto vecchi compagni, ne trovava di nuovi, anche se molto diversi. Prezzolini, usando lo stesso tono caro all’espulso, gli inviò un telegramma efficace: «Partito socialista ti espelle. Italia ti accoglie». Erano con lui Alfredo Fanzini, che lo chiamava «figlio della generosa Romagna», e Papini, d’Annunzio, Leonida Bissolati, Scipio Slataper, Enrico Corradini, Cesare Battisti e i fratelli Garibaldi.

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VII

In quell’autunno tumultuoso, Mussolini aveva l’impressione di vivere in un mondo impazzito mentre avvertiva il bisogno di fermarsi un attimo. Aveva rivisto Ida Dalser, l’austro-ungarica, e dall’incontro nacque un amore morboso, fortemente carnale. Ida era una donna slanciata ed elegante, anche se non bella di viso. Era affascinata da quell’uomo. Nel suo appartamento di via Foscolo aveva tappezzato le pareti con fotografie di lui, adorne di fiori, nei più vari atteggiamenti di tribuno. Diceva di essere pronta a tutto per quel focoso personaggio e gli dimostrò, non meno focosamente, che le sue non erano soltanto parole quando, nei primi giorni del loro nuovo incontro, in ottobre, si parò di scatto davanti al pugnale di un esaltato che intendeva punire Benito traditore del socialismo. Fu tra i suoi rari sostenitori anche nella burrascosa assemblea dei socialisti milanesi, in cui lo difese strenuamente prendendo a schiaffi uno dei più rumorosi accusatori.

Ida sperava di farne il proprio uomo strappandolo a Rachele, con la quale Benito non era ancora sposato. In quei mesi Mussolini, con il peso del «Popolo d’Italia» sulle spalle, aveva quanto mai bisogno di soldi. La donna vendette il «Salone orientale di igiene e bellezza», portò al Monte di pietà i gioielli e si disfece del suo appartamento di via Foscolo, riducendosi a vivere in una stanzetta d’albergo. Gli diede ogni cosa, senza ottenere da lui null’altro che generiche promesse di convivere stabilmente insieme un giorno o l’altro: doveva prima congedare Rachele senza troppe scosse. Lei ormai capiva che non lo avrebbe mai avuto tutto per sé. Ne era sconvolta e cominciò a dare segni di una progressiva instabilità mentale. Voleva rompere quella relazione, e per un certo tempo mancò agli appuntamenti notturni al giornale. Lui invece non intendeva perderla, e le scriveva biglietti appassionati: «Carissima, a mezzanotte, mentre affrettavo il lavoro per attenderti e passare con te qualche ora, non sei venuta. Comprendo il tuo stato d’animo, ma ti prego, ardentemente ti prego, di non precipitare le cose. Sarai ancora bella, felice, adorabile. Tu sai come stanno le cose. Perché questi scoraggiamenti, queste disperazioni?».

Ida non aveva più un soldo. Benito, mosso a pietà, cominciò a farle qualche regalo in denaro: «Ti mando un po’ di mitraglia», le diceva facendo dell’ironia a sproposito. Poi le acquistò un appartamentino in cui si

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incontrarono poche volte ancora concependo alfine un figlio cui la donna impose il nome di Benito Albino, in onore dell’uomo amato e del nonno che non aveva dimenticato.

Il bambino nacque quando il padre, essendo l’Italia entrata in guerra, era già al fronte. Mussolini aveva lasciato Milano giurando eterno amore alla donna che stava per dargli un erede. Le aveva perfino parlato di matrimonio, e davvero non si era mai spinto tanto in là. Ida aveva finito col riacquistare l’antica fiducia. Si faceva chiamare «signora Mussolini», e molti le credevano. Lo stesso direttore dell’ospedale di Treviglio si ritenne in dovere di comunicare a lei la notizia che il bersagliere Mussolini Benito era colà degente, ammalato di paratifo. Ida corse a Treviglio recando in braccio il figlio che non aveva ancora un genitore legittimo; proruppe come una furia nella corsia dell’ospedale gridando al suo imprendibile uomo: «Devi riconoscerlo. Ti costringerò a farlo!». Il bersagliere, che non riusciva a placarla, dovette prometterle che l’avrebbe sposata appena avesse riacquistato le forze. La donna se ne tornò a casa tranquillizzata, mentre lui sapeva di aver soltanto procrastinato nuove e più furenti scenate non poten-do mai mantenere la promessa. Per un semplice fatto: il giorno precedente, in quella stessa corsia, aveva sposato Rachele con rito civile e quasi in segreto, quella Rachele che l’estetista considerava a ragione come la sua più pericolosa rivale e che ora a sua volta aspettava un erede da lui.

Mussolini non sposò Ida, ma presto fu da lei costretto a riconoscersi padre naturale di Benito Albino. Il riconoscimento avvenne a Milano, nel gennaio del 1916 davanti al notaio Vittorio Buffoli, quando il piccolo Benito Albino aveva appena due mesi. La madre pensava di avergli assicurato un avvenire, in forza di un documento sottoscritto dall’amante: «Dichiaro che al momento della nascita di tale mio figlio, io non avevo nessun vincolo matrimoniale con alcuna donna e che la madre signora Ida Dalser non ha con me nessun rapporto di affinità o parentela, sicché nessun ostacolo esiste al riconoscimento di tale mio figlio. Il presente atto di riconoscimento dovrà essere usato dallo stesso riconosciuto Benito Dalser, quando egli stesso crederà di farlo. Però in caso di mia morte, prima che mio figlio sia in età di poterne usare direttamente, il presente atto dovrà essere usato da sua madre o da chiunque altro ritenga che ciò possa tornare utile al bambino. Nel caso però di morte della madre prima che il riconosciuto abbia l’età di poter decidere quanto sopra, provvederò io stesso a fare scrivere questo mio riconoscimento negli atti di Stato civile ove la madre non avesse dichiarato di opporsi o non avesse altrimenti provveduto ai mezzi di sussistenza e di allevamento del bambino».

Il bersagliere, che doveva tornare al fronte, cercò un alberghetto per Ida dicendole di stare tranquilla perché i soldi per pagare il conto glieli avrebbe

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mandati lui. Non lo fece mai e la donna sarebbe rimasta senza alloggio se, con la solita tenacia, non fosse riuscita a farsi versare un sussidio dal comune presentandosi ancora una volta come moglie di Mussolini. «Il sindaco di Milano», si diceva nell’atto in base al quale percepiva il denaro, «attesta che la famiglia del militare Mussolini è composta dalla moglie Dalser Ida e di numero 1 figli ed ha diritto pel primo lunedì al soccorso complessivo di L. 7,70, e per ogni lunedì successivo di L. 2,45».

Quando Mussolini, congedato, riprese il suo posto alla scrivania del «Popolo d’Italia» si trovò nuovamente a competere con l’estetista Ida, più combattiva che mai. Ida aveva già ottenuto, con una sentenza del tribunale di Milano, che Benito le versasse una somma di duecento lire mensili, ed ora, avendo saputo delle nozze con Rachele, non pensava che a mettere in difficoltà il suo antico amante, tanto più che Benito mancava di versarle regolarmente il sussidio. Egli, nel tentativo di indurla a più miti consigli, le inviava garbati bigliettini: «Mia cara, ti prego di non aggiungere altre ragioni di turbamento a quelle che ora mi affliggono. Stasera alle 8 verrò da te e parleremo di tutto. E fin dal principio. Sta tranquilla e credimi con un abbraccio, tuo Benito».

Ai bigliettini non seguivano fatti degni di nota, e lei continuava a fargli scenate. Si presentava al giornale nelle ore di più intenso lavoro chiedendo di parlargli. Una sera si mise a gridare dal cortile come un’ossessa, a chiamarlo, a ingiuriarlo: «Benito, sei un vigliacco. Sei un porco, un assassino, un traditore! Perché non ti fai vedere?». Mussolini apparve scarruffato sul piccolo pianerottolo. Urlava anche lui: «É ora di finirla!», così dicendo agitava nell’aria una pistola. Qualche giorno dopo Ida irruppe nella sala della Casa del popolo dove Mussolini teneva un comizio. Mostrava il bimbo e gridava: «Compagni, questo è il figlio di Benito, che dopo avermi sedotta ha abbandonato me e lui. Che bel compagno!».

Mussolini aveva avuto un secondo figlio da Rachele. L’aveva messa incinta proprio nei giorni in cui si era visto costretto a dichiararsi padre di Benito Albino. Al figlio legittimo aveva imposto il nome di Vittorio, come auspicio per la vittoria nella grande guerra. Egli era ancora al fronte e non poté vederlo subito. Fu poi ferito, presso Doberdò, in più parti del corpo dall’esplosione di un lanciabombe da trincea cui era addetto e, al termine di una lunga degenza in ospedale, poté tornare a casa, nel 1917. Era in attesa d’un terzo figlio che venne al mondo nell’aprile dell’anno successivo. Nella scelta del nome ricordò le ispirazioni libertarie del padre che lo aveva chiamato Benito per celebrare il Juàrez messicano, e volle imitarlo imponendo al neonato il nome di Bruno, in onore di Giordano Bruno come simbolo della lotta all’intolleranza papale e vessillo del laicismo risorgimentale.

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VIII

In Mussolini, le vicende sentimentali, così travagliate e burrascose, facevano da contrappunto a un’attività politica non meno perigliosa, mentre il paese denunciava l’alleanza con l’Austria e decideva di entrare in guerra a fianco della Francia, abbracciando la sorella latina e respingendo l’imperialismo tedesco. Le file del partito dell’intervento si erano ingrossate a dismisura. Il più seducente dei poeti, Gabriele d’Annunzio, aveva acceso negli animi il fuoco della guerra. Le manifestazioni degli interventisti, le «radiose giornate di maggio», ben manovrate, influirono sulle masse degli incerti. Alcuni gruppi di interventisti riuscirono a forzare le difese e a penetrare nel palazzo di Montecitorio, nel pieno di una seduta. «Più che occuparlo questo palazzo», diceva Mussolini, «bisognerebbe raderlo al suolo». Alla Camera la maggioranza era neutralista, e Mussolini definì il Parlamento «un bubbone pestifero che avvelena il sangue della nazione». Attaccava violentemente la monarchia ripetendo in ogni dove lo slogan: «O la guerra o la repubblica». Al governo Salandra, aggirato l’ostacolo della maggioranza parlamentare neutralista, fu alfine possibile proclamare lo stato di guerra con l’Austria, il 24 maggio 1915. D’Annunzio poté gridare: «Questa guerra, che sembra opera di distruzione e di abominazione, è la più feconda matrice di bellezza e di virtù apparsa sulla terra». I futuristi e i «vociani» non gli erano da meno; con uno squillo, Marinetti rappresentava la guerra come «sola igiene del mondo e sola morale educatrice»; Prezzolini, più sommessamente, diceva che la guerra era l’«esame generale» cui la storia chiama ogni tanto i popoli. Chi vi si opponeva era bollato con l’ingiurioso epiteto di «disfattista» perché in molti pensavano che essa avrebbe dischiuso le porte a istituzioni più sicuramente democratiche e altri giuravano nella sua carica rivoluzionaria di rinnovamento sociale per il riscatto del proletariato.

Benito non indossò subito la divisa suscitando un grande scandalo tra i suoi avversari che non aspettavano occasione migliore per continuare a ricoprirlo di improperi e vulnerarne la figura morale. «Mussolini ha paura», scriveva «La Giustizia», e perfino da Bissolati, partito volontario a cinquantotto anni, gli arrivava una tirata d’orecchi. Mussolini si era riappacificato con lui, fattosi interventista, ma certo il vecchio socialista ricordava ancora i giorni in cui aveva subito per causa sua lo scorno

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dell’espulsione dal partito. Bissolati diceva: «Mussolini deve capire che oggi il dovere di un buon italiano è lasciare la penna e prendere il fucile». L’«Avanti!» era il più sferzante: «Mussolini vuol farsi riformare», scriveva Giovanni Zibordi, e il direttore del «Popolo d’Italia» rispondeva che Zibordi era «un verme viscido e schifoso», un verme «innocuo, ma repellente, degno della immondizia morale» in cui viveva. Si era subito arruolato anche d’Annunzio, a cinquantadue anni, e Marinetti, il poeta delle macchine, già faceva il soldato ciclista.

Insomma tra i grandi agitatori interventisti soltanto lui era rimasto a Milano. E ci restò per tre mesi fino a quando non venne richiamata la sua classe, i cui appartenenti, per ragioni burocratiche, non avevano potuto partire come volontari. Egli si era presentato in caserma per chiedere l’arruolamento, ma la domanda gli era stata respinta. Egualmente i suoi avversari gli rimproveravano di essersi adattato alla situazione e di non aver impetrato la rimozione degli impedimenti regolamentari che lo tenevano lontano dal fronte. Si dichiarava sì pronto a disertare e ad arruolarsi volontario nell’esercito francese, ma non lo faceva, sicché Serrati lo paragonava a quei personaggi melodrammatici, messi in burla da Lorenzo Stecchetti, che dicevano «Armiamoci e partite».

Era facile definirlo un eroe di carta, essendo noto il suo terrore per il dolore fisico. Temeva le iniezioni, e al solo pensiero prendeva a sudare. Soltanto una volta, durante una medicazione in un ospedale militare, porse intrepidamente il braccio a un’infermiera esclamando: «Sa perché mi faccio fare questa iniezione? Perché lei è figlia di bersagliere!». Ma, in strano contrasto con i suoi timori, non temeva di cadere infilzato nei duelli e quindi di incrociare le spade con i suoi detrattori. Si battè infatti coraggiosamente con l’anarchico Libero Merlino volendo «ricacciargli in gola» l’accusa di essere rimasto a casa per paura.

La sua classe fu richiamata alle armi, e anche lui partì per il fronte. Poteva finalmente rispondere a Bissolati: «Con animo lieto depongo la penna per imbracciare il fucile». Ma non la abbandonò mai del tutto. Partì infilando al dito mignolo, come portafortuna, un anello ricavato da un chiodo quadrangolare, di quelli che si usano per ferrare i cavalli. In condizioni particolarmente difficili erano costretti a vivere i soldati che, come lui, avevano fama di fanatici interventisti. Agli occhi dei commilitoni apparivano come i responsabili dell’immane tragedia della guerra, e quindi venivano sottoposti, anche dai capi, a ogni vessazione e impiegati nelle azioni più pericolose. Li odiavano davvero quegli interventisti, come si poteva capire dal modo con cui diedero a Mussolini la notizia della morte in combattimento di Corridoni che era accorso volontario in guerra pur minato dalla tubercolosi. Gli si avvicinò un milite dicendogli: «Ehi, bersagliere, sei tu Mussolini?». «Sì». «Benone, ho una buona notizia da darti: hanno

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ammazzato Corridoni. Gli sta bene, ci ho gusto. Crepino tutti questi interventisti».

Era in trincea quando ancora circolava la voce che lo voleva «imboscato» in un ufficio militare di Roma, ed egli contrattaccò definendo i suoi diffamatori «esilaranti cannibali neutralisti». Altri lo chiamavano «volontario delle retrovie». Un giornale si chiedeva: «Dov’è il caporal Fracassa?». In compenso aveva ricevuto da Filippo Corridoni, che il giorno dopo cadeva sotto la mitraglia del nemico, un messaggio in cui veniva celebrato come il «duce spirituale» nella lotta per il trionfo della civiltà latina contro la «tracotanza tedesca». Un duce che in guerra raggiunse appena il grado di sergente e che si vide rifiutare, perché sovversivo pericoloso, il corso di allievo ufficiale. Con sarcasmo lo nominavano ufficiale i suoi avversari che sul «Mattino» di Napoli gli diedero i gradi di sottotenente della Territoriale, un corpo esentato dalle fatiche di guerra.

Era invece sul Carso dove «si moriva o si diventava d’acciaio», dove «il cuore si inaridiva come quelle doline rocciose». Lo scriveva nel suo diario di guerra, nel raccontare un episodio che lo mostrava indurito e spietato: «Stamani, all’alba, ho dato il buongiorno ai tedeschi, con una bomba Excelsior tipo B, che è caduta in pieno nella loro trincea. Il puntino rosso di una sigaretta accesa si è spento e probabilmente anche il fumatore». Ancora più crudelmente, a suggello di queste righe, soggiungeva: «Stanotte conto di dormire a lungo». Il lancio di quella bomba, che come si seppe all’indomani aveva lasciato sul terreno austriaco quattro o cinque morti, amareggiò il suo capitano che gli fece osservare quanto il gesto fosse stato inutilmente disumano. Il capitano gli disse: «Perché hai fatto questo, figliolo? Erano in crocchio, fumavano, forse parlavano dell’amorosa». E, lui, niente affatto contrito, replicò: «Signor capitano, allora andiamo tutti a spasso in Galleria a Milano, che è meglio!».

Con la sensibilità del giornalista avvezzo all’uso delle parole, era attento al gergo soldatesco, sicché registrava con acribìa nel diario le voci e i modi di dire in voga nel reggimento. I fanti chiamavano «tiro di sfottimento» le cannonate che gli austriaci sparavano un po’ a caso; quando il caffè era meno schifoso del solito lo definivamo «fuori d’ordinanza». Di volta in volta elencava le espressioni che coglieva sulle labbra dei commilitoni: scalcinato = soldato debole; cartolina in franchigia = soldato buffo; baule = cretino; fifa = paura; fifhaus = rifugio sotterraneo; avanzare verso la cucina = retrocedere; portare a casa la ghirba = tornare sano e salvo. Si dava a spiegare che cosa fosse la «ghirba»: un recipiente di tela impermeabile che serviva a portare acqua, vino, caffè. Poi proseguiva: lampione = fiasco di vino; benzina = vino; svirgola = cannonata; omnibus = proiettile da 305; telegramma = scheggia di granata; sigaretta = cartuccia

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da fucile, modello 1891; chioccia = mitragliatrice; pizzicare = ferire; andare in riparazione = essere trasportato all’ospedale; signorina = sigaretta; pipa = rimprovero; spazzolino = attendente. Al termine di queste elencazioni non c’era che «neve, freddo, noia infinita; ordine, contrordine, disordine». La vita in trincea si faceva sempre più dura e insopportabile.

La guerra si prolungava al di là d’ogni più nera previsione; il governo Salandra dovette dimettersi; il nuovo ministero, che fu detto «nazionale», prese le armi anche contro Berlino. E si era nell’agosto del 1916. Alcune fortunate offensive dell’esercito russo contro gli austriaci, l’efficacia del blocco navale inglese che strozzava gli Imperi centrali, l’occulta azione antiturca condotta dall’Inghilterra con il sagace impiego di geniali agenti segreti come l’inimitabile Lawrence d’Arabia, servirono a migliorare la situazione dell’Intesa che un ulteriore apporto ricevette nel ‘ 17 dall’entrata in guerra degli Stati Uniti d’America, sicché il conflitto assumeva proporzioni mondiali. «Vinceremo», diceva prontamente e lapalissianamente Mussolini, «perché gli Stati Uniti non possono perdere». Provvidenziale fu l’intervento americano soprattutto perché la Russia, nonostante i successi iniziali, subiva rovesci sempre più irreparabili. Con l’esercito alle corde si rivelò in tutta evidenza l’arretratezza sociale del sistema zarista, per cui la crisi aprì a Pietrogrado le porte alla rivoluzione bolscevica e alla repubblica. L’esercito italiano - che pure aveva saputo rintuzzare la Straf-expedition, la «spedizione punitiva» che gli austriaci avevano sferrato tra i fiumi Adige e Brenta - mostrava preoccupanti segni di stanchezza. Gli alti comandi militari non sapevano far altro che reagire ordinando feroci decimazioni di soldati avviliti e sfiduciati.

La crisi economica del paese era profonda, il deficit del bilancio statale inarrestabile. Scarseggiavano sempre più i generi alimentari di prima necessità; a Torino esplose un’insurrezione popolare, repressa nel sangue; il partito socialista insisteva nella formula del «non aderire ne sabotare»; risorgevano vive le correnti pacifiste. Si arrivò inevitabilmente alla disfatta di Caporetto sull’Isonzo, nelle più terribili giornate di pioggia torrenziale e di nebbia fittissima che un soldato potesse temere. Il fronte cedette, si ripiegò prima sul Tagliamento, poi sul Piave, e l’Italia rischiò di essere invasa dalle truppe austriache e tedesche. Mussolini attribuiva la respon-sabilità della rotta ai socialisti ufficiali e al «clericalismo temporalista». Quella sconfitta ebbe su di lui un effetto traumatico. La sorella Edvige lo ricordava «prostrato, terreo in viso, pronto all’ira»; una volta le disse che «gli sarebbe piaciuto morire».

Un clima luttuoso gravava sul paese, i giornali non davano più gli annunci dei pubblici spettacoli che la gente disertava; Mussolini proponeva che la stampa imitasse «II Popolo d’Italia», evitando di parlare di un altro

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«spettacolo indecente», quello che si svolgeva nell’aula di Montecitorio: «Una volta la medaglietta parlamentare incuteva venerazione o terrore. Oggi essa è un bersaglio lucente che "chiama" gli sputi».

Al teatro Adriano si svolse nel febbraio del ‘18 una manifestazione organizzata dai mutilati per incoraggiare la nazione alla resistenza. «I tedeschi sono sul Piave, è tempo di vedere se i nostri cuori sono d’acciaio», disse Mussolini. «Fronte al nemico!», gridò in quel tragico frangente. Quasi avesse ancora nelle orecchie le parole del capitano che lo rimproverava di aver compiuto un gesto disumano uccidendo alcuni soldati austriaci in un momento di pausa dei combattimenti; e, come se quelle parole gli bruciassero ancora, non trovava di meglio che mostrarsi spietato: «Non è il tempo degli angeli in questa guerra demonica». Polemizzava con i neutralisti, con i disfattisti, come egli chiamava i pacifisti, «responsabili» della disfatta di Caporetto. «Pensate», diceva, «al povero soldato della trincea che si chiede: "Perché io devo soffrire e morire, se a Roma si discute ancora se la guerra si doveva o non si doveva fare, e che non sanno se si fa bene o male a combattere?"». Con asprezza concludeva: «Io chiedo uomini feroci. Chiedo un uomo feroce che abbia dell’energia, l’energia di spezzare, l’inflessibilità di punire, di colpire senza esitazione, e tanto meglio, quanto più il colpevole è in alto». Chiedeva insomma un dittatore.

A parte gli appelli di Mussolini, l’esercito italiano, mutando governo, metodi e capi militari, seppe riprendere l’iniziativa e tamponare lo sfondamento delle linee. A Caporetto avevano perso i generali, a Vittorio Veneto aveva vinto il popolo, anche con il contributo di leve giovanissime, come i generosi «ragazzi del ‘99» che d’Annunzio celebrò in un riconoscente messaggio. Dall’Italia, dal paese che era apparso come l’anello più debole dell’Intesa, gli austriaci dovevano ricevere il colpo di grazia che condusse pure alla sconfitta della Germania e pose fine a un conflitto che costò ai popoli dieci milioni di morti.

In pieno trambusto del dopoguerra, Benito trasferì la «domestica tribù» dalla periferia di via Castelmorrone in una zona centrale della città, borghese e pretenziosa. La famiglia, che con la nascita di Bruno contava cinque persone, aveva infatti bisogno d’una casa più spaziosa. Venne prescelto un ampio e confortevole appartamento al n. 38 di Foro Buonaparte che inorgogliva gli occupanti per il livello raggiunto nella scala sociale, dopo anni di stenti. La piccola Edda, chiamata la «figlia della miseria» essendo nata nei giorni bui, aveva già accolto col viso dell’arme l’arrivo di Vittorio, timorosa di perdere l’amore del padre; ora tornava ad angustiarsi per quel piccolo Bruno che tutti dicevano bellissimo ma che a lei appariva un mostricciattolo.

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Alla migliorata condizione economica non corrispondeva una vita più tranquilla ne in famiglia ne nell’arengo politico. Rachele, come era avvenuto qualche mese prima al marito, si ammalò di spagnola che il popolo chiamava con tragico sarcasmo la «direttissima» poiché mieteva vittime a decine di migliaia con spaventosa rapidità, e che alla fine fece più morti della guerra.

Una profonda modificazione si verificava in lui. Cadevano le ultime spoglie del socialismo, prendevano corpo i lineamenti d’una ideologia che faceva confusamente perno sul movimento reducista e che nella denominazione si ispirava a un preesistente, ma evanescente. Fascio rivoluzionario d’azione interventista. I mutilati, in genere i reduci, quelli che erano stati «trinceristi», costituivano una nuova realtà del paese, e a essi egli rivolse l’attenzione per interpretarne e sostenerne le esigenze di lavoro e di reinserimento nella società, mentre i socialisti ufficiali avevano preso a denigrarli e a osteggiarli. Abbagliati dalla rivoluzione d’Ottobre in cui aveva trionfato Lenin, i socialisti ufficiali si definivano bolscevichi, mentre lui si convertiva al capitalismo riconoscendogli la capacità di attuare le necessarie «trasformazioni che il marxismo non poteva nemmeno antivedere». Ecco che «il capitalista perdeva il suo carattere odioso di sfruttatore e si avviava ad altre funzioni: non accumula più, divide».

Si rivolgeva agli operai, ma per ridimensionarne drasticamente il ruolo: «Voi non siete tutto, come vi danno ad intendere, per lusingarvi, i vostri cattivi pastori; siete soltanto una parte, nelle società moderne. Voi rappresentate il lavoro, ma non tutto il lavoro e il vostro lavoro è soltanto un elemento nel gioco economico». E ruvidamente insisteva: «Voi siete il numero, ma il numero non basta a rendervi degni di governare le nazioni e il mondo. Il numero è "quantità". Bisogna trasformarlo in fattore "qualitativo". Voi arriverete, se lo meriterete. Finché gli uomini nasceranno diversamente "dotati", ci sarà sempre una gerarchia delle capacità. Si tratta di organizzare lo Stato per assicurare il maggior benessere individuale e sociale. Gli operai non hanno ancora ne muscoli ne cervello sufficiente per questa bisogna immane». Non meno bruscamente esemplificava le sue idee: «II manovale deve ubbidire all’architetto, l’ingegnere vale più dell’operaio».

Dunque, non guardava più esclusivamente al proletariato e si allontanava dal socialismo rivoluzionario di cui era stato uno dei principali esponenti. In piena palinodia proclamava di apprezzare il socialismo riformista che aveva duramente combattuto, quel socialismo edonistico di Camillo Prampolini lontano dal sangue delle rivoluzioni. Esaltava il socialismo consono a una zona in cui maturava un «lambrusco eccellente» e dove le «femmine procaci confezionano tagliatelle che incantano», dimentico di aver bollato i suoi

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avversari moderati come «socialisti delle tagliatelle». Si diceva lieto che, nella «pianura grassa» del reggiano, Camillo non bevesse «lo champagne cerebrale delle cantine di Proudhon e di Blanqui» ne «la vodka della dittatura asiatica».

Respingeva le «impazienze sublimi e talvolta grottesche dell’epoca blanquista», ripudiando quel che di blanquismo c’era stato in lui. Già il 1° agosto del ‘18 aveva tolto dalla testata del «Popolo d’Italia» il campeggiante sottotitolo «quotidiano socialista», per sostituirlo con uno nuovo - «quotidiano dei combattenti e dei produttori» - che rappresentava drasticamente la sua sterzata politica. Il suo nuovo idolo era il produttivismo corporativo, poiché, diceva rivolgendosi al proletariato, non si trattava di «impadronirsi» dei beni, ma di «produrne» altri. Nel proporsi come difensore degli interessi dei combattenti e dei produttori, disconosceva la lotta di classe e lanciava alto uno slogan: «L’essenziale è produrre!». Questo perché nel dopoguerra il problema principale era di riconvertire le industrie belliche e di evitare che l’economia del paese fosse travolta dalla disoccupazione.

Si era congratulato con gli operai metallurgici di Calmine il 20 marzo del ‘19 perché, sebbene in sciopero, non avevano interrotto il lavoro. Così facendo, diceva, si erano messi dalla parte della nazione. I sacrifici della guerra li avevano indotti «a cambiare binari»; il lavoro «aveva consacrato nelle trincee il diritto a non essere più fatica, miseria o disperazione per diventare gioia, orgoglio, creazione, conquista di uomini liberi nella patria libera e grande entro e oltre i confini». Era il lavoro che parlava in loro «non il dogma idiota o la chiesa intollerante, anche se rossa», di quel partito socialista ufficiale che «voleva tentare sulla loro pelle il suo esperimento scimmiesco non essendo che una contraffazione russa». Mussolini andava impastando insieme sentimenti nazionalistici e risentimenti antiborghesi. La guerra e la vittoria mutilata gli offrivano il materiale necessario alla formazione d’un nuovo movimento che apparisse populista nella forma e antiliberale nella sostanza. Mancavano tre giorni alla fondazione dei Fasci.

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Parte seconda

LA CAMICIA NERA

L’uomo della Provvidenza

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I

Poco più di cento persone di varia ispirazione si ritrovarono con Mussolini, la mattina del 23 marzo 1919 in un locale di piazza San Sepolcro a Milano, fra manganelli, pugnali, scudisci e drappi neri. Il nero era il colore del nuovo movimento cui si diede un nome già nell’aria, quello di «Fasci italiani di combattimento». Il nero, il colore della morte, era il nuovo simbolo di protesta e di rivolta mutuato dalle uniformi degli arditi. Il rosso, il colore della vita, che per anni aveva affascinato Mussolini, diventava ora l’emblema del nemico. I giornali quasi non si accorsero di quella riunione che si svolse in una sala un po’ démodé reperita all’ultimo momento e che non aveva nulla di solenne, a cominciare dalla denominazione del sodalizio che ospitava il gruppetto di infatuati, «Circolo per gli interessi industriali, commerciali e agricoli». I presenti ebbero tuttavia l’idea di supplire alla modestia del luogo autodefinendosi enfaticamente «Sansepolcristi». Chi c’era? Vecchi interventisti della sinistra rivoluzionaria, il cui più autorevole rappresentante era lo stesso Mussolini e che costituivano il nucleo più consistente della riunione; reduci dei «reparti d’assalto», gli arditi che portavano ancora sul braccio il badge della spada romana; intellettuali futuristi d’avanguardia, personalmente capeggiati da Marinetti; esponenti dell’Unione socialista italiana, come Roberto Farinacci, e infine alcuni repubblicani. Tutti riuniti, come d’ogni erba un fascio. I «Fasci» coagularono in gran parte la protesta anticlericale dei «trinceristi»; tuttavia sulla scena politica italiana era apparso all’inizio dell’anno il Partito popolare di ispirazione democratico-cristiana, ad opera di don Sturzo. Il movimento sturziano, postosi sul terreno del riformismo, riscosse vasti consensi nelle masse proletarie alla stessa stregua dei socialisti massimalisti che però si richiamavano alla rivoluzione bolscevica. Improbo si rivelò subito il compito dei fasci che si trovarono di fronte a queste due gigantesche forze popolari. Da un punto di vista generale la protesta dei reduci era indirizzata all’ottenimento di un lavoro e alla giusta ricompensa territoriale per il decisivo contributo italiano alla vittoria. Già si lamentava una «Vittoria mutilata», e d’Annunzio eccitava il risentimento nazionale sia contro gli alleati che non riconoscevano all’Italia i suoi diritti, sia contro l’imbelle governo liberale che non sapeva farsi valere. Si rivendicava alla

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nuova Italia, a quella uscita a testa alta dalla grande guerra il ruolo di nazione vittoriosa. I nazionalisti recriminavano che l’Italia, pur avendo vinto la guerra, avesse perso la pace. Bisognava reagire fermamente. Con questo obiettivo di rivalsa, fin dalle prime dichiarazioni votate nella seduta costitutiva dei fasci, si reclamò apertamente il confine delle Alpi, l’annessione di Fiume e della Dalmazia, terra che d’Annunzio aveva indicato come l’orlo di una toga romana.

I fascisti, nell’assemblea sansepolcrista, non saltarono però il fosso. Rimasero cioè su posizioni che si potevano ancora definire di sinistra, pur polemizzando con violenza contro il bolscevismo, «rovina della vita economica russa», e contro il socialismo «nemico delle realtà nazionali». Sommariamente enumerarono le loro richieste: proclamazione della repubblica, abolizione del Senato, adozione del suffragio universale esteso alle donne, azione anticlericale, introduzione della rappresentanza dei singoli interessi a sfondo corporativo, confisca delle ricchezze accumulate profittando della guerra, riconoscimento dei diritti di chi aveva combattuto, partecipazione degli operai alla conduzione tecnica delle industrie, assegnazione della terra ai contadini, abolizione dei titoli nobiliari, libertà di pensiero, di religione, di associazione e di stampa. Il tessuto connettivo di questo insieme di rivendicazioni era però la violenza.

Lo sviluppo e la diffusione dei fasci in altre città avvennero lentamente e in maniera confusa. Pochi erano gli iscritti delle singole sezioni, scarsa la loro attività se si esclude il gruppo milanese, il quale andava peraltro precisando gli obiettivi del movimento abbozzati in piazza San Sepolcro, quella mattina del 23 marzo. Mancava un effettivo collegamento tra le varie componenti, mentre gli arditi e i futuristi anarcheggianti tardavano ad amalgamarsi col resto della nuova formazione che si manteneva evanescente. Più che nei centri urbani, i fasci, con l’ausilio degli agrari, cominciarono a far proseliti nelle campagne di Cremona e di Ferrara, nelle vaste pianure della Lombardia e dell’Emilia, in cui, già muovendo le prime squadre di manganellatori, agivano i Balbo, i Grandi, i Farinacci.

In una situazione organizzativa resa fluida dalle indecisioni che via via emergevano nella definizione del programma politico, Mussolini non controllava per intero i fasci ne si attendeva molto dalla loro azione. Tutto ciò che egli proponeva veniva «discusso, avversato e talvolta bocciato», come le proposte degli altri capi. «Il Popolo d’Italia» non era l’organo della nuova formazione che alcuni mesi più tardi si diede un proprio settimanale chiamandolo esplicitamente il «Fascio». Lui ancora pensava alla possibilità di costituire un blocco delle sinistre interventiste, in previsione delle immi-nenti elezioni politiche che per la prima volta si sarebbero tenute con il sistema proporzionale. Alcuni punti del programma, a cominciare dal

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postulato repubblicano, creavano forti contrasti fra le varie componenti dei fasci, che via via si spostavano verso destra.

Nel paese i fascisti, gli arditi, i nazionalisti, si scontravano con i socialisti. A metà aprile Milano fu teatro di un episodio particolarmente grave, durante il quale due o trecento arditi, al comando di Ferruccio Vecchi, aggredirono con bastoni e pistole in pugno un comizio di socialisti. Li dispersero e li malmenarono, poi marciarono sull’«Avanti!» sbaragliando le deboli difese della polizia e dell’esercito, ferendo a morte un soldato. In seguito allo sban-damento della forza pubblica, gli aggressori poterono penetrare nei locali della tipografia e della redazione. Afferrarono mobili, smontarono macchinari e come invasati gettarono ogni cosa nelle acque del Naviglio. Al termine del cruento attacco, che ebbe qua e là per tutta la giornata strascichi e ritorni di fiamma, si contarono sul terreno quattro morti e trentanove feriti.

Le squadre degli aggressori erano sbucate dal «covo» di via Paolo da Cannobio, per cui i socialisti giudicarono Mussolini personalmente responsabile dei tragici scontri, e alcuni di essi pensarono di farlo cadere in un’imboscata per assassinarlo. Accusarono inoltre la forza pubblica di aver lasciato mano libera agli assalitori i quali volevano dare una lezione alle sinistre che «spadroneggiavano» su Milano. C’era chi attribuiva all’ondeggiante generale Caviglia compromettenti dichiarazioni di solidarietà con il capitano degli arditi Vecchi e con lo stesso Marinetti: «Bene. La vostra battaglia è stata decisiva». Ovviamente Mussolini addossava invece ogni responsabilità degli incidenti ai socialisti. In un’intervista al «Giornale d’Italia» parlava delle aggressioni come di un «movimento spontaneo di folla, di combattenti, di popolo, stufi del ricatto leninista perché Milano vuol lavorare».

Le opposizioni di sinistra erano per lui l’«orda leninista»; un’«orda» divisa e frazionata fino alla «follia»: «Fra Turati e Serrati c’è un abisso e ci sono degli ultra-estremisti per i quali il Serrati è già un codino». Osservò come in quelle condizioni «la corsa al più rosso fosse fatale» e pronosticò la nascita d’un partito comunista: «Probabilmente estremisti del partito socialista, sindacalisti e anarchici formeranno il partito "comunista" anche in Italia». Nella stessa intervista, confondendo le idee ai pochi seguaci della prima ora, prese le distanze dal programma politico dei sansepolcristi. Definiva i fasci «un anti-partito senza statuto e senza regolamento»; rifiutava qualsiasi pastoia: «Le pregiudiziali sono maglie di ferro o di stagnola. Non abbiamo la pregiudiziale repubblicana, non quella monarchica; non abbiamo la pregiudiziale cattolica o anticattolica, socialista o antisocialista. Siamo dei problemisti, degli attualisti, dei realizzatori che si raccolgono intorno ai postulati di un programma comune!». Qualche mese dopo arrivò a mettere in dubbio la vitalità stessa dei fasci: «II Fascismo è

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pragmatista. Non ha apriorismi. Non promette i soliti paradisi dell’ideale. Lascia queste ciarlatanerie alla tribù della tessera. Non presume di vivere sempre e molto. Vivrà fino a quando non avrà compiuto l’opera che si è prefissa».

La questione di Fiume si intrecciava intimamente con la generale situazione di marasma del paese. Mussolini cercava di creare in chiave patriottica nazionalista l’unità delle sinistre interventiste da contrapporre al socialismo bolscevico. Fiume poteva servire da punto di attrazione. Vittorio Emanuele Orlando, che guidava la delegazione italiana alla Conferenza parigina della pace, pensava di scuotere le coscienze dei connazionali abbandonando teatralmente il tavolo delle trattative. Di pari passo i nazionalisti si preparavano a impossessarsi di Fiume con un colpo di mano, andando oltre le intenzioni del loro governo.

Fiume per d’Annunzio diventava la «Città Olocausta». Ma c’era chi aveva visioni più chiare, anche se meno imaginifiche. Il direttore del «Corriere della Sera», Albertini, chiedeva a Orlando come potesse pensare di far trionfare i diritti italiani col «ricattino» della sedia vuota. Oltre tutto premevano ben altre questioni, altri interrogativi. Come arrestare la «macchia del bolscevismo» che si allargava con rapidità vertiginosa? I socialisti, per accentuare la loro pressione, parteciparono a un’agitazione intemazionale di protesta, cui diedero il nome di «scioperissimo», volta a ostacolare la partenza di truppe italiane, francesi e inglesi destinate a reprimere i movimenti rivoluzionari in Russia e in Ungheria.

I risultati dell’iniziativa furono tanto scarsi e deludenti che lo «scioperissimo», invece di offrire una decisiva prova di forza del socialismo, ne rianimò gli avversari, i quali cominciarono a pensare a una classe operaia non più invincibile. Mussolini chiamò gli scioperanti «razza bastarda» mettendo i suoi uomini al servizio del prefetto di Milano per contribuire, come «guardie bianche» controrivoluzionarie, al mantenimento dell’ordine pubblico. La mossa provocò un certo sconquasso tra gli arditi e i futuristi che la contrastarono vivacemente, confermandosi quanto mai indocili nei suoi confronti. Dai futuristi, oltre che dai repubblicani, soprag-giunse l’opposizione al fronte unico delle sinistre interventiste col quale egli intendeva presentarsi alle prime elezioni politiche del dopoguerra in contrapposizione al blocco dei socialisti e anche a quello dei cattolici che si erano costituiti in partito. Persino tra i fascisti si considerò quella idea unitaria come «una palla al piede». Il Fronte unico era criticamente visto come una sorta di «Blocco pacificatore» che sarebbe caduto «nel neutralismo e nel conservatorismo clericaloide». Era perciò preferibile «perdere una battaglia elettorale, onorevolmente combattuta da soli, che vincerla male accompagnati». La manovra mussoliniana fallì. Il duce contestato dovette ripiegare su una lista dei soli fasci e nella sola circoscrizione milanese. I princìpi repubblicani della nuova formazione politica erano ribaditi dalla presenza del simbolo elettorale adottato che

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consisteva nel tipico emblema della rivoluzione francese, un fascio di verghe con una scure che emergeva al centro di esse. Solo in seguito la scure cambiò posto e apparve sul bordo esterno dei fasci. Il fiasco elettorale cui la formazione andò incontro fu sonoro. La lista che, oltre Mussolini pur comprendeva personaggi di spicco come Toscanini e Marinetti, non raccolse nemmeno cinquemila voti e non portò nessun fascista alla Camera.

I socialisti, che avevano quarantotto deputati, conquistarono con le nuove elezioni ben centocinquantasei seggi. Il loro successo era clamoroso, mentre la sconfitta dei fascisti aveva le caratteristiche della disfatta irreparabile. Galvanizzati, i vincitori inscenarono nuove manifestazioni. A Milano sfilavano in corteo sotto le finestre di casa Mussolini recando sulle spalle una bara con la scritta: «Qui giace Mussolini». Al termine della sfilata get-tarono la cassa mortuaria nel Naviglio insieme alle effigie listate a lutto di d’Annunzio e di Marinetti. Poi scrissero sull’«Avanti!»: «Un cadavere in stato di avanzata putrefazione è stato ripescato stamane nelle acque del Naviglio. Pare si tratti di Benito Mussolini». Rachele correva a nascondere i figli in soffitta per metterli al riparo dalle temute invasioni dei manifestanti. La polizia fece irruzione nella sede del «Popolo d’Italia» e vi arrestò il direttore per aver trovato nei cassetti e negli armadi bombe a mano e pistole. Anche Rachele nascondeva armi in casa, tre bombe «Sipe», pronta a lanciarle in caso di pericolo.

Per Mussolini si poneva il problema di come uscire dall’isolamento, di come risalire la china. Il cammino si rivelò aspro poiché la sconfitta elettorale aveva innescato non soltanto una crisi del «Popolo d’Italia» ma dell’intero movimento fascista. Il duce mostrava il volto dell’uomo finito a chi riusciva a penetrare nel «covo» di via Paolo da Cannobio dove si era rinchiuso fra teschi, pugnali, bombe a mano, drappi neri e stendardi che apparivano come i segni mortuari d’una falsa epopea rapidamente tramontata.

Andò a trovarlo il futurista Mario Sironi che aveva fatto la guerra come volontario ciclista. Era il loro primo incontro, cui sarebbe seguita un’intensa collaborazione al «Popolo d’Italia» come disegnatore propagandista e critico d’arte. Fu sorpreso dallo spettacolo che gli si parò davanti, entrando nel «covo». Un uomo curvo sulla scrivania con cappello e cappotto dal bavero rialzato era intento a scrivere. Senza alzare la testa dal foglio quell’uomo, cioè Mussolini, gli disse bruscamente: «S’accomodi». La stanza era gelida, raccontava il pittore: «La finestra del balcone aperta lasciava penetrare nebbia e freddo. Mi strinsi nel cappotto aspettando meravigliato. Ci fu un improvviso frusciare d’ali: due o tre passeri con rapido volo entrando nella stanza dal balcone si posarono su di un grande armadio situato proprio alle spalle di Mussolini. Egli allora mi disse: "Non

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si meravigli del freddo, lascio la finestra aperta per dare possibilità agli uccellini di venire a nutrirsi, d’inverno non hanno molte risorse in questa città"». Raccontando l’episodio, Sironi si sentiva chiedere se la scena rive-lava un reale amore di Mussolini per gli animali o momenti di solitudine e disperazione. O non era un comportamento alla Monsieur Verdoux ante litteram, crudele con gli esseri umani e pietoso con i piccoli bruchi che evita di calpestare?

La ripresa fu lenta e contrastata. Mussolini intendeva appoggiare, a suo modo, la conquista dannunziana di Fiume, sperando di non perdere il contatto con le forze che avevano seguito il Vate, nazionalisti, arditi, futuristi. L’operazione non gli riuscì, non soltanto perché i nazionalisti di Fiume lo avversavano, ma anche perché esplose fra lui e il Comandante un contrasto di fondo sulla possibilità di attuare subito una marcia su Roma, alla luce del successo dell’impresa fiumana. Mussolini giudicava irrealizzabile l’impresa per l’obiettiva impreparazione delle forze, a cominciare dai fasci di così fresca istituzione, che avrebbero dovuto parteci-parvi. La rottura fra i due personaggi - l’uno celeberrimo e l’altro all’orizzonte - divenne più profonda quando il Comandante si spostò nettamente a sinistra con la Carta del Carnaro scritta in collaborazione col sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris, suo nuovo aiutante.

Le frizioni furono numerose e vivaci. D’Annunzio lo accusava di slealtà e pirateria, come nella vicenda in cui Mussolini si appropriò di buona parte delle somme raccolte con la sottoscrizione da lui stesso lanciata sul «Popolo d’Italia» per sostenere finanziariamente i legionari fiumani. Mentre il Vate insisteva nella preparazione d’un piano insurrezionale accentuando la polemica antigovernativa, Mussolini si avvicinava al nuovo presidente del Consiglio Giolitti che ricercava sulla questione di Fiume un accordo diretto fra Roma e la Jugoslavia, il nuovo Stato sorto dalle ceneri dell’impero austro-ungarico. Opponendosi al progetto insurrezionale tirava in ballo le caotiche condizioni dell’Italia in preda a tensioni sociali, scioperi, tumulti e occupazioni di terre. «L’inverno prossimo, scriveva, si annuncia con una formidabile crisi finanziaria che un colpo di Stato potrebbe aggravare». Ap-poggiò apertamente le risultanze delle trattative italo-jugoslave che, con il trattato di Rapallo, facevano di Fiume uno Stato libero. L’indipendenza dell’«Olocausta» era una buona soluzione per i legionari, ma d’Annunzio gridò al tradimento e assunse una posizione di tale intransigenza da costringere Giolitti a cannoneggiare la città.

Mussolini si era affiancato a Giolitti assicurandogli che «avrebbe abbandonato d’Annunzio al suo destino», e difatti rimase pressoché insensibile all’attacco cruento di Fiume che il poeta con slancio lirico chiamò «Natale di sangue».

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II

Più floride si erano fatte le condizioni economiche della famiglia Mussolini. Lui aveva acquistato la sua prima automobile, una «Bianchi Torpedo» detta «Bianchina», un po’ arrangiata con i sedili di un vecchio aereo. Presto la cambiò con un’«Alfa Romeo» sportiva rossa a quattro cilindri, una duemilanovecento più veloce e più sicura. Con la «Bianchina» aveva avuto un incidente alle porte di Dongo. In curva era uscito di strada e stava per precipitare con tutta l’auto nelle acque del lago di Como. Tornato in carreggiata e riavutosi dallo spavento disse al suo autista, con accenti di presagio: «Non dobbiamo mai più passare per questo paese. Porta jella!».

Aveva imparato a vestirsi meglio, portava abiti scuri attillati, camicie bianche dal colletto duro, cravatte a farfalla, ma le ghette bianche spiccavano sulle scarpe gialle. Aveva messo qualche chilo di troppo, il naso sembrava più pronunciato, lo sguardo più spiritato, il mento più sporgente, la mandibola più robusta, la fronte più convessa. Egli stesso e il fascismo mostravano il volto della violenza. Lo squadrismo spadroneggiava, con purghe e manganellate, nelle Venezie, in Emilia, in Toscana, nel Tavoliere delle Puglie dove si cantava: «Ohe per la madonna / noi siamo gli squadristi / di Peppino Caradonna». Il ras pugliese Caradonna era un capitano in congedo; lo erano numerosi altri animatori delle squa-dracce, come Achille Starace anch’egli pugliese, insieme ad altri meridionali, Aurelio Padovani e Nicola Sansanelli. Capitani erano pure il piemontese Cesare Maria De Vecchi, il lombardo Antonio Bruno e il ben noto fondatore della sezione milanese degli arditi Ferruccio Vecchi. Tutta gente manesca, temeraria, dominata dal disprezzo della vita propria e di quella altrui. L’appellattivo di ras gli si attagliava a pennello, anzi a manganello, la loro arma preferita. Era un appellativo coniato negli ambienti democratici che si richiamavano ai ras etiopici, ai capi dell’impero feudale africano, volendo evocare la prepotenza e la crudeltà dei caporioni fascisti. Erano pure detti ras i capi delle mattanze in cui si faceva strage di tonni, sicché l’immagine gettava sulle imprese degli squadristi una luce ancor più fosca.

I ras potevano usare la violenza e agire pressoché indisturbati grazie all’acquiescenza che gli veniva offerta da larghi strati della forza pubblica. Il governo, per quanto disposto a tollerare le imprese dei fascisti, doveva pur

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evitare una troppo scoperta collusione. Giolitti invitava i prefetti a intervenire contro i loro colpi di mano. Una Camera dei deputati che fosse eletta con metodi violenti, scriveva il vecchio statista, «mancherebbe di autorità morale». Chiedeva che i prefetti gli segnalassero gli ufficiali dei carabinieri e delle guardie regie che non facevano il proprio dovere, perché avrebbe provveduto a punirli e a trasferirli. Serpeggiava però tra le forze dell’ordine un pericoloso stato d’animo per cui ai loro occhi la violenza fascista costituiva una sorta di compensazione alle prevaricazioni, ai dileggi e agli insulti degli anarchici e degli estremisti socialisti.

Un sostegno aperto proveniva ai fascisti pugliesi dal comando del corpo d’armata di Bari, e presto anche il comando di stato maggiore cominciò a spalleggiare il movimento mussoliniano in varie regioni d’Italia, suscitando però seri contrasti al proprio interno. Giolitti personalmente dava spago ai fasci con l’idea di farsene un’arma ai danni dei socialisti e dei popolari, certo d’una loro intrinseca fragilità che li avrebbe portati o alla consunzione o all’assorbimento nel sistema democratico. Il suo piano si rivelò illusorio perché mentre da un lato il regime democratico si confermava sempre più debole, dall’altro il peso dei fasci cresceva, come crescevano gli iscritti e i simpatizzanti. I socialisti avevano portato gli operai di Torino a occupare le fabbriche volendo trasferire i mezzi di produzione dai capitalisti ai lavoratori. Ma la loro azione si concluse con un fallimento, anche perché Giolitti aveva evitato di impiegare la forza nella giusta previsione che la protesta si sarebbe avvitata su se stessa per la palese impossibilità di gestire le fabbriche con le sole «guardie rosse», senza l’apporto degli industriali. Cosicché la Torino operaia che doveva diventare la «Pietroburgo d’Italia», non resse alla prova del fatale braccio di ferro.

La sconfitta fu nefasta al movimento socialista. Ne svelò un’intima contraddizione che condusse di lì a poco a una scissione e, come Mussolini aveva pronosticato, alla nascita del Partito comunista italiano. L’iniziativa si ascriveva a gruppi rivoluzionari filo-sovietici e propugnatori della conquista violenta del potere, capeggiati da Granisci, Amadeo Bordiga, Bombacci. All’insorgente debolezza dei socialisti faceva riscontro una maggiore presa dei fascisti, pur attraverso incertezze e ambiguità che contrapponevano Mussolini, più prudente, ai suoi seguaci inclini alla ferocia dello squadrismo agrario. Egli cercava di lasciarsi alle spalle taluni princìpi che potevano dirsi di sinistra, per adottarne altri conservatori e borghesi. Nella città di Fiume, dove era forte il risentimento dei legionari nei suoi confronti, si colse la novità e si definì il suo fascismo «reazionario» e «bigotto».

Nella fase intermedia del traghettamento, in mezzo al guado, Mussolini diceva e disdiceva: «Io sono reazionario e rivoluzionario, a seconda delle circostanze. Se il carro precipita, credo di fare bene se cerco di fermarlo; se

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il popolo corre verso un abisso, non sono reazionario se lo fermo, anche colla violenza. Noi non siamo per la rissa, ma, a chi ci aggredisce, spareremo sempre sul grugno». E concludeva con una dichiarazione di patriottismo: «L’unico nostro ideale è la massima grandezza d’Italia».

Una storica esplosione di violenza, in cui si affrontarono fascisti e socialisti, si ebbe a Bologna con l’eccidio di palazzo d’Accursio, in una domenica del novembre 1920. La città emiliana costituiva il maggior punto di forza dei cosiddetti socialisti bolscevizzanti, per cui gli squadristi del luogo guidati da Leandro Arpinati, ferroviere romagnolo ed ex anarchico individualista, inscenarono nei loro confronti una subdola manifestazione intimidatoria. L’eccidio bolognese segnò in tutto il paese l’avvio di una massiccia reazione contro il «socialismo russificato». I socialisti avevano vinto nelle amministrative, una bandiera rossa sventolava sulla Torre degli Asinelli, e, all’atto dell’insediamento del nuovo consiglio comunale, i fasci invasero la piazza in cui si festeggiava il successo elettorale. Ci furono sparatorie e lanci di bombe, senza che si riuscisse a individuare chi avesse usato per primo le armi. Caddero uccisi dieci manifestanti, i feriti furono una cinquantina. Da quel momento i fascisti si sentirono alla controffensiva, avvertendo di godere di un diffuso sostegno dei borghesi, dei proprietari terrieri, degli industriali e dei conservatori in genere che avevano temuto di essere alla vigilia di un’espropriazione di marca bolscevica.

Perfino Luigi Albertini sul «Corriere della Sera» aveva addebitato ai socialisti la responsabilità dell’eccidio di Bologna: «Di chi è la colpa? Chi se non il partito socialista aspira in Italia alla guerra civile?». La battaglia che i socialisti vogliono, «trova necessariamente i suoi combattenti anche dall’altra parte e nessuno meno dei socialisti ha il diritto di lagnarsi se nella lotta scatenata non c’è soltanto un attivo di colpi dati; ma anche un passivo di colpi ricevuti». Si era insomma al cospetto di una «santa reazione», e la «santa violenza» dei fascisti si esercitava col «santo manganello» e con l’«olio di ricino benedetto».

Nella celebrazione delle «sacre funzioni», gli squadristi avevano adottato un loro addobbo. La scenografia l’avevano mutuata dai legionari fiumani e già era liturgia con gli Alalà dannunziani, i Me ne frego degli arditi, il saluto col braccio levato, i labari e i gagliardetti neri che recavano impressi bianchi teschi e tibie incrociate. Le camicie nere, che erano indossate dai braccianti agricoli della valle Padana, diventavano, insieme al pugnale, simboli sacrali del fascismo. La camicia nera, da tenuta per il lavoro nei campi si trasformava in «tenuta da combattimento», secondo un’espressione di Mussolini. I futuristi ripetevano un canto dell’aeropittore Depero il quale immaginava una camicia nera «a prova superchimica e superguerriera,

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elastica nella casa, rigida nella cerimonia; imperforabile nella mitraglia, cucita con i pugnali, abbottonata con i bulloni». E cantavano strofette guerresche: «Ce ne fregammo un dì della galera, / ce ne fregammo della brutta morte, / per preparare questa gente forte / che se ne frega adesso di morir. / II mondo sa che la Camicia Nera / s’indossa per combattere e patir». Mussolini esaltava il «superbo spettacolo di giovinezza» che aveva spazzato via «i vecchi cortei caotici e le processioni salmodianti». Diceva che negli atteggiamenti dei fascisti c’era «qualcosa di romano e di guerriero più che di militaresco»; era nato un «esercito civile» che marciava verso la «meta finale: Roma».

Alla strage bolognese fece eco poche settimane più tardi un altro sanguinoso scontro che ebbe per teatro Ferrara. I fascisti vollero anche qui sfidare i loro potenti avversari che prevalevano in tutti i comuni della zona e, davanti al Castello Estense, affrontarono un corteo di contadini e di operai inneggianti a Lenin. Ricevuti a colpi di moschetto dalle «guardie rosse» appostate tra i merli del Castello, lasciarono sul terreno tre morti e numerosi feriti. Nonostante le perdite, i capi fascisti ferraresi trassero incoraggiamento da quella sortita. Avevano dato prova a se stessi di temerità, avevano dimostrato agli altri di possedere una non trascurabile capacità organizzativa e di non essere soli, essendo riusciti a mobilitare nella zona più d’un migliaio di indemoniati pronti a tutto.

L’Italia viveva in un clima di guerriglia civile. Ai sommovimenti dei rossi si contrapponevano gli scoppi della violenza nera che si organizzava sempre meglio in squadre d’azione. «La Stampa» di Torino osservava lucidamente che i fascisti «amano la violenza per la violenza, non sappiano se più, ma certo non meno di alcuni tra i più violenti bolscevichi», e che «mai l’ordine pubblico è stato così turbato in Italia da quando i fascisti si sono assunti il compito di ristabilirlo». Spesso lo ristabilivano con l’ausilio diretto della forza pubblica che si accodava alle loro spedizioni e le proteggeva. Alle critiche del giornale torinese, Mussolini replicava sostenendo che per i fascisti la violenza «non era l’arte per l’arte, ma una necessità chirurgica, una dolorosa necessità». Giovani ex combattenti, fanatici nazionalisti, disoccupati in cerca di lavoro, frustrati d’ogni risma avevano trovato nella violenza un canale di sfogo all’insoddisfazione e alla rabbia. Al minimo cenno impugnavano un’arma qualsiasi e, uniti in fascio, devastavano, incendiavano, trucidavano, assaltavano Camere del lavoro, leghe operaie, cooperative seminando lutti e dolori. Sul significato della violenza fisica Mussolini faceva dell’umorismo nero. «È evidente» esclamava «che noi per imporre le nostre idee ai cervelli dobbiamo a suon di randello toccare i crani dei refrattari». Il paese subiva le bravate delle camicie nere, pativa le scorrerie degli squadristi che apparivano all’improvviso nelle piazze con i camion 18BL, che diventarono tristamente famosi e poi esaltati da Alessandro Blasetti in uno spettacolo di massa appunto intitolato «18BL».

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Anche in moto e in bicicletta raggiungevano il luogo degli agguati per randellare e ricinare. Andavano urlando a squarciagola: «All’armi siam Fascisti / Terror dei comunisti, / spavento dei pipisti. / "Me ne frego" è il nostro motto, / Me ne frego di morir, / Me ne frego di Bombacci / e del Sol dell’avvenir». E di Bombacci dicevano: «Con la barba di Bombacci / faremo spazzolini / per Benito Mussolini».

Oltre alla violenza fisica i fasci esercitavano una violenza verbale attraverso giornali e giornaletti sempre più numerosi, propagandando capillarmente il nuovo verbo. Un giovane avvocato ex combattente, Dino Grandi, fondò a Bologna un settimanale, l’«Assalto», riscuotendo successo. Grandi, che aveva mosso i primi passi negli ambienti di Romolo Murri, un sacerdote modernista sospeso a divinis e scomunicato, parlò con asprezza fin dal primo numero del suo giornale di cui riuscì a vendere subito qua-rantamila copie. «Ai conigli ed ai coccodrilli, come alle bagasce, noi sputiamo sul viso», scriveva attaccando un po’ tutti. Quindi si rivolgeva direttamente ai socialisti: «Lontano, canaglie. Non ci toccate. Voi predicaste ieri la guerra civile, la rivolta armata, la dittatura e la tirannia delle classi, l’instaurazione di un regime che voleva fare del nostro paese una grigia ed immiserita e funeraria landa. Ebbene, noi, Fascisti, abbiamo raccolto la sfida. Ed eccoci qui. Ma non ci toccate. Risparmiateci la fatica di sputarvi sul viso deforme!».

«Il Popolo d’Italia» si espandeva, cospicui diventavano i finanziamenti degli industriali. Mussolini lasciava il cubicolo di via Paolo da Cannobio per trasferirsi nei nuovi locali di via Lovanio senza tralasciare di caricare personalmente in una cassa l’armamentario scenografico del «covo», bombe a mano, pistole, manganelli e il drappo nero che recava al centro un teschio con un pugnale tra i denti. Proclamava «invincibili» i fascisti che «sboc-ciavano irrefrenabili in ogni angolo». In quei giorni si preoccupava di non perdere il contatto con il combattentismo e l’arditismo fiumani avendo quasi rotto con d’Annunzio, irrimediabilmente assediato nella città olocausta. Mussolini, legato a Giolitti, veniva accusato di essersi lasciato comprare con moneta contante dal «boia labbrone». Egli replicava dicendo che d’Annunzio era un pazzo. Lo definiva un «tiranno del Rinascimento col farsetto e il pugnale», un cinquecentesco Malatesta redivivo, mentre aveva l’ardire di rappresentare se stesso come «un italiano dello stampo del Colleoni».

Si diffondevano intanto le notizie di un progressivo isolamento del Vate fra i legionari e la popolazione fiumana, per cui Mussolini meno che mai pensava di insorgere contro il governo che aveva firmato il trattato di Rapallo. «L’insurrezione è impossibile» diceva «perché i fascisti non hanno le forze sufficienti a scatenarla». Oltre tutto «la rivoluzione non è una botte

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a surprise che scatta a piacere». Quindi toccava le corde della grandezza nazionale: «L’Italia è l’ala tricolore di Ferrarin, l’onda magnetica di Marconi, la bacchetta magica di Toscanini, il ritomo a Dante nel sesto centenario della sua dipartita»; ricordava Virgilio e trascurava di celebrare d’Annunzio.

Quando si seppe di un sabotaggio a un piccolo velivolo col quale il duce prendeva lezioni di pilotaggio sul campo di Arcore, presso Milano, non si escluse che il gesto fosse opera di qualche legionario dannunziano, una di quelle teste calde alla Guido Keller celebre per le spericolatezze aviatorie e per la naturale inclinazione alla violenza. L’aereo, un Aviatik con a bordo Mussolini e l’istruttore Redaelli, si era da poco levato in volo, ed ecco che all’improvviso vennero a mancare i battiti del motore. L’istruttore tolse rapidamente i comandi dalle mani dell’allievo, ma era già troppo tardi. L’apparecchio cadde in vite da una quarantina di metri d’altezza fracassandosi fuori del campo. «Il nostro Direttore», scriveva l’indomani «II Popolo d’Italia», «ha riportato nell’incidente diverse ferite alla faccia guaribili in una decina di giorni, salvo complicazioni, e varie contusioni alle gambe e alle braccia». Mussolini, come raccontava Margherita Sarfatti accorsa al suo capezzale, respingeva seccamente persino il sospetto di aver potuto sbagliare manovra. L’istruttore volle controllare l’apparecchio in ogni sua parte per rendersi conto delle ragioni dell’infortunio, e scoprì che era stato manomesso il sistema di raffreddamento.

Un nuovo attentato - di cui si seppe il nome dell’autore, Biagio Masi, per sua esplicita ammissione - ebbe come ispiratori gli anarchici di Piombino. Il Masi stazionava da più giorni sotto l’abitazione dei Mussolini e, scoperto da Rachele, le parlò di sé come di un orfano in cerca di lavoro. Le disse che si aggirava nei dintorni con la speranza di ottenere un’occupazione proprio dal marito. Rachele, prendendo per buone quelle parole, gli procurò un appuntamento con Benito al giornale. Il giovane, pallido in volto, giunto al cospetto dell’uomo che avrebbe dovuto sopprimere, estrasse una pistola dalla tasca e la posò sulla scrivania. Tremante, gli rivelò di aver ricevuto l’incarico di ucciderlo dietro un compenso in denaro, ma di aver cambiato idea: gli sarebbe bastata un’occupazione. Era il 23 marzo del 1921, secondo anniversario della fondazione dei fasci. In quello stesso giorno, un gruppo di anarchici individualisti perpetrò una strage al teatro Diana di Milano.

Con una bomba destinata al questore Gasti, gli anarchici intendevano inscenare una protesta contro l’arresto del loro leader Malatesta che già per suo conto aveva cominciato uno sciopero della fame. Per puro caso (?) il questore non si era recato in teatro e lo scoppio della bomba dilaniò innocenti spettatori che ignari assistevano alla rappresentazione d’un’operetta di Lehàr, la Mazurka blu. Diciassette furono i morti e sessanta

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i feriti. Mussolini urlò inviperito: «Bisogna vendicare! Un abominio di siffatta specie non rimarrà impunito». Seguirono numerose rappresaglie fasciste e arresti di anarchici. La redazione di «Umanità Nova» fu letteralmente distrutta. Qualche mese prima dell’attentato, un giovane animoso di Ferrara, l’ex combattente Italo Balbo, aveva lasciato il partito repubblicano per aderire al fascismo. Sentiva che era arrivata l’ora di menar le mani e di emergere capeggiando le squadre emiliane. Su un settimanale, l’«Alpino», aveva già espresso simpatia per Mussolini, per l’uomo che sapeva «prendere a calci i socialisti», ma egualmente pensava che d’Annunzio, meglio di lui, avrebbe potuto guidare le masse patriottiche alla conquista del potere.

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III

Una nuova donna attraeva Benito in quei giorni ribollenti di violenza. L’incontro avvenne al «Popolo d’Italia», in via Lovanio. La donna. Angela Curti, era giovane e bella, aveva ventun anni ed era sposata a un certo Cucciati. Accompagnava il padre, un vecchio socialista che aveva seguito Mussolini e che ora si recava da lui per chiedergli un aiuto, essendo disoccupato. Angela tornò più volte da sola in via Lovanio, per cui i redattori del giornale cominciarono a mormorare d’un nuovo amore del loro direttore. Trascorsi nove mesi dai primi incontri. Angela mise al mondo una bambina. Elena. Era figlia di Mussolini? Non lo era? Al giornale non avevano dubbi nell’attribuirgli la paternità della neonata, una convinzione che si faceva sempre più seria.

Riapriva la Camera dei deputati, con Mussolini fra gli eletti. Vi era entrato alla testa d’un nutrito drappello di trentacinque deputati neri. Aveva personalmente assommato centoventicinquemila voti nel collegio di Milano-Pavia e centosettantamila in Emilia-Romagna. Giolitti aveva mantenuto l’impegno di sostenerlo in quelle elezioni politiche del 1921, sicché i fascisti, accolti nelle liste del Blocco nazionale accanto ai liberali di destra, poterono sensibilmente affermarsi, grazie anche all’appoggio economico degli agrari. Nelle liste elettorali del Blocco nazionale, a simboleggiare la presenza delle camicie nere, era apparso il fascio littorio. Mussolini, proponendosi di raggiungere Roma in volo col suo istruttore Redaelli, chiese un aereo all’Ansaldo, ma non l’ottenne. Dovette prendere il treno che non amava, come non amava la promiscuità degli scompartimenti ferroviari. In viaggio, alcuni colleghi parlamentari si congratularono con lui per la sua elezione «trionfale». Egli rispondeva a monosillabi e fu particolarmente sgarbato con un esponente del partito popolare, il conte Stefano Jacini, che gli si era rivolto col tu pur non conoscendolo.

Sulle ali del successo elettorale, Mussolini, appena entrato a Montecitorio, prese le distanze dal Blocco nazionale che gli era servito da pista di lancio, deludendo Giolitti che aveva creduto di potersene servire. Disse che il fascismo non aveva pregiudiziali monarchiche o repubblicane, ma che tendenzialmente era repubblicano; il suo grido non era «Viva il re!», - non aveva mai scritto quella parola con la maiuscola - ma «Viva l’Italia».

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Comunque, mai avrebbe fatto da «attaccapanni» a qualcuno. Sul piano sociale si allontanava dalle posizioni ultra conservatrici e reazionarie della borghesia agraria che pure lo sosteneva. Il fascio avrebbe «tutelato la libertà dei contadini» nei confronti dei socialisti, ma non si sarebbe posto al cieco servizio dei «voleri padronali». Diceva di sapere che le grandi masse italiane, non esclusi gli ambienti borghesi cittadini, desideravano la pace sociale e la tranquillità economica; perciò, sgominati i bolscevichi, bisognava far seguire alla violenza un programma politico. A queste parole, molti tra gli stessi fascisti masticavano amaro e dicevano che il loro capo si era ammalato di parlamentarismo.

Il gruppo dei deputati neri alla Camera, composito com’era, si mostrava ondeggiante, ed egli, ondivago a sua volta, non lo dominava, come si vide quando chiese ai fascisti di disertare la seduta inaugurale di Montecitorio per non ascoltare in segno di polemica con la monarchia il discorso della Corona. Fu messo in minoranza perché nel gruppo predominavano i monarchici, ma lui mantenne il punto, e insieme a una quindicina di seguaci rimase fuori dell’aula per l’intera durata del discorso. Nell’emiciclo della Camera fin dal primo giorno occupò un banco all’estrema destra, da dove, nel discorso del debutto, parlò come un reazionario incallito, pur affermando di voler sostenere la lotta contro il carovita e le rivendicazioni degli statali che tenevano in agitazione il paese. Da un punto di vista più ampio, il suo primo discorso in Parlamento apparve però come un desiderio di collaborazione con popolari e socialisti. Egli riconobbe il grande ruolo del cattolicesimo che rappresentava in Italia «la tradizione imperiale e latina»; disse che «l’unica idea universale esistente a Roma era quella che si irradia-va dal Vaticano», ma non evitò di chiedere alla Chiesa di rinunciare al sogno del potere temporale. Ai socialisti ripeté quanto aveva sostenuto altre volte, distinguendo tra partito politico e organizzazione operaia sindacale alla quale assicurava il suo appoggio. In tema di violenza, sempre parlando ai socialisti, ribadì che per lui la maniera forte «non era un sistema, un estetismo, uno sport»; era una «dura necessità» cui era stato costretto dalle cose. Si dichiarò pronto «a disarmare» se i socialisti avessero anch’essi disarmato. Il disarmo non poteva essere che reciproco e si augurava che si arrivasse presto a realizzarlo perché, senza una qualche forma di collaborazione, il paese «sarebbe precipitato nell’abisso».

Insomma, Mussolini ancora si guardava intorno e cercava di orientarsi in tanta incertezza, con i fasci divisi e compositi. Mario Missiroli illustrava nei suoi scritti questa perigliosa condizione, esprimendo l’avviso che un raggruppamento siffatto non sarebbe sopravvissuto a lungo; nelle sue file convergevano «le eresie di tutti gli altri partiti», come dire che il fascismo «apparteneva un poco a tutti», tanto da esserne immobilizzato. Di qui scaturì

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l’idea mussoliniana di proporre un patto di pacificazione per uscire dal vicolo cieco; un’idea che ebbe avversari tenaci tra gli stessi fascisti, da Dino Grandi a Roberto Farinacci.

Tutto procedeva a balzelloni, fra spinte e controspinte. I fascisti non rinunciavano alla violenza in ogni luogo, come fu dimostrato da un episodio di intolleranza politica esploso nell’emiciclo di Montecitorio, ai danni del deputato comunista Francesco Misiano, sotto processo per diserzione. Mussolini cercava la via d’una certa normalizzazione; a dispetto di ciò, o per silurarne il piano, alcuni deputati fascisti capeggiati da Farinacci, si avventarono su Misiano. Lo sospinsero di peso fuori dell’aula percuotendolo e ingiuriandolo. Gli gridavano: «Schifoso disertore, sei indegno di sedere in Parlamento». Altre squadre fasciste, a Torino, lo rasarono a zero e, tra lazzi e sberleffi, lo trascinarono alla berlina lungo le vie della città.

Nuove esplosioni di violenza fascista si verificarono in tutto il paese, in provincia di Reggio Emilia (Novellara), di Grosseto (Roccastrada), di Bari (Conversano), a Torino, Treviso, Parma, Modena, Carrara, Livorno, Sarzana, Viterbo, con morti e feriti. I fascisti avevano le loro contraddizioni, e così i governanti. Ivanoe Bonomi, a differenza di Giolitti cui era succeduto, si mostrò deciso a fronteggiare la violenza nera, tanto che a Sarzana i carabinieri seppero contenere e disperdere una colonna di squadristi toscani scesa in piazza col proposito di scarcerare un ras locale, Renato Ricci, ed altri camerati con lui imprigionati perché responsabili di imprese teppistiche. Bonomi avrebbe voluto essere ancora più fermo, ma non poteva controllare a pieno gli agenti e i carabinieri i quali, per sue ammissioni ad Anna Kuliscioff, «fascistizzavano maledettamente», cosa che avveniva anche per i magistrati.

Mussolini continuava a pensare al patto di pacificazione, ma gli sfuggiva il controllo dei più accesi ras. Da leader contestato, non gli rimaneva che pronunciare pubbliche ramanzine. I «tragici avvenimenti» di Viterbo e di Sarzana, «funestavano» la vita del fascismo, mettevano in luce «una crisi di sviluppo e di disciplina» nella organizzazione del movimento. Nei fasci erano confluiti «migliaia di individui» dominati da «interessi personali», dediti «alla violenza per la violenza», mentre la violenza del fascismo «doveva essere cavalleresca, aristocratica, chirurgica, e quindi in un certo senso umana». Si confidava con Cesare Rossi; gli diceva che «un cerchio di odio andava stringendosi intorno ai fascisti», bisognava affrettarsi a spezzarlo: «Abbiamo eretto le nostre fortune sui catafalchi», perciò non doveva succedere la stessa cosa ai danni del fascismo: «Le piazze d’Italia non possono trasformarsi in pubblici scannatoi domenicali».

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A sinistra dello schieramento politico italiano sorse un nuovo nucleo di audaci a loro volta pronti a menar le mani. Si chiamarono «Arditi del popolo», erano d’ispirazione comunista, e raccoglievano più di cinquantamila animosi che anche nella denominazione si contrapponevano agli arditi confluiti nelle file fasciste. L’«Avanti!» scriveva: «Facciamo nostro il motto avversario, "Dente per dente, occhio per occhio". Alla prepotenza illegale dei figli di papà si oppone la violenza dei figli del popolo».

In questo clima, sembrava che un patto di pacificazione avesse ben poche possibilità di riuscita. Ma se ne discuteva, e si arrivò alla firma d’un protocollo d’intesa. Se ne occupava lo stesso Bonomi, mentre il presidente della Camera, De Nicola, assumeva il ruolo di mediatore tra fascisti, socialisti e rappresentanti della Confederazione del lavoro conducendoli alla firma di un accordo che si sperava potesse far tornare la vita italiana alla normalità. I comunisti, i popolari di Alcide De Gasperi, i repubblicani evitarono con varie motivazioni di partecipare alle trattative, la cui con-clusione segnava un successo per Mussolini, sebbene labile. Egli si illudeva di poter promuovere una coalizione tra fascisti, popolari e socialisti, le tre maggiori forze politiche del momento, per dar vita a un governo social-popolare-fascista. I fascisti avevano trentacinque deputati, i popolari centosette e i socialisti, pur avendo perso molti consensi rispetto alle precedenti elezioni, disponevano ancora del più consistente gruppo con i loro centoventidue seggi.

Nell’imminenza della firma del patto pacificatore, Mussolini giunse in volo a Roma con un Ansaldo 3 che aveva ai comandi un ottimo pilota come Silvio Scaroni. Scendendo a terra si produsse in alcune dichiarazioni metaforiche che avrebbero dovuto indurre i riluttanti a vincere le ultime perplessità e a schierarsi con lui: «Vista dall’alto l’Italia è adorabile. Di lassù tutto appare solenne e calmo. I fiumi, i borghi, la Maremma, le pinete, il mare. È tempo che anche vista dal basso, l’Italia offra lo stesso spettacolo».

La tregua, che Mussolini chiamava solennemente Trattato di Pace, piaceva a pochi. Primi fra tutti ne erano scontenti i più influenti capi fascisti che credevano ancora e soltanto nella forza del manganello, dell’olio di ricino, del pugnale. Protestarono i Balbo, i Grandi, i Farinacci. Messo alle strette, lui minacciò le dimissioni dicendo che «se il fascismo non lo seguiva, nessuno poteva obbligarlo a seguire il fascismo». I suoi oppositori interni non se ne diedero per intesi, e allora egli arrivò ad ironizzare sul-l’appellativo di «duce» che gli rivolgevano con sempre maggior frequenza: «Io sono un "duce" per modo di dire. Ho lasciato correre questa parola, perché se non piaceva a me che detesto le parole e le arie solenni, piaceva

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agli altri». Si soffermava su altre amare considerazioni: «Siamo in troppi e quando la famiglia aumenta, la secessione è fatale. Venga questa secessione, se deve venire, i socialisti se ne rallegrino!». Da Bologna, dove si erano riuniti gli oppositori della pacificazione, condannavano l’involuzione parlamentare del loro movimento e denunciavano il patto che praticamente più non esisteva. Facevano sapere a Mussolini che anche per lui poteva esserci il santo manganello, come per gli antifascisti. Non si fidavano più del loro duce perché «chi ha tradito una volta, tradirà ancora». E lui? Il duce, sdegnato, rassegnava davvero le dimissioni, ma, prudentemente, solo dalla Commissione esecutiva dei fasci, per non darla del tutto vinta ai ras delle province e alla ribellione del fascismo rurale. Chi tirava i fili della sedizione antimussoliniana nella provincia bolognese era Dino Grandi, il più autorevole squadrista emiliano, che gioiva per averlo messo in difficoltà. Mussolini, dialetticamente, dichiarava perdenti se stesso e il fascismo: «Chi è sconfitto deve andarsene. E io me ne vado dai primi posti». Tornava a usare il pedale dell’ironia: «II mio stile è quello di un galantuomo che rifugge dalle pose di "capo" quando i "capeggiati" si sbandano; che non ha la pretesa burlesca di continuare a fare il generale, quando il suo esercito gli rifiuta ogni obbedienza e disciplina». Diceva di volersene andare, ma in realtà si preparava a una rivincita.

Né i fascisti né i socialisti, sebbene firmatari del patto, avevano nel frattempo disarmato, tanto che esplosero nel paese nuovi episodi di violenza che ebbero per protagonisti, oltre i fascisti e i socialisti, anche i comunisti e gli Arditi del popolo. Cadde a Mola di Bari il deputato socialista Giuseppe Di Vagno, ucciso a rivolve-rate da studenti neri durante una dimostrazione di contadini. Caddero a Modena otto squadristi in uno scontro a fuoco con le guardie regie che avevano rifiutato di salutare i gagliardetti.

Molti si chiedevano in che cosa consistesse la rivincita che Mussolini andava preparando. Egli, gettandosi in un’impresa impegnativa, pensava di trasformare quell’informe movimento fascista in un partito squadrato, simile a un esercito, a un’organizzazione armata, per meglio tenere sotto controllo sia i nemici esterni, sia gli avversari interni. Ma volendo creare un partito, bisognava assegnargli un ruolo. Si aprì una interminabile diatriba fra chi intendeva farne un organismo costituzionale per riformare il sistema e chi, in maggioranza, voleva un partito-ariete per abbattere dalle fondamenta il traballante Stato liberale e instaurare una dittatura. Dino Grandi, pur concordando sull’esigenza di sostituirsi allo Stato liberale, si opponeva alla trasformazione dei fasci in partito. Altri intendevano ispirarsi alla dannunziana Carta del Carnaro, per fondare una repubblica.

«Il fascismo, pena la morte, o peggio il suicidio, deve darsi un "corpo" di dottrine», affermava Mussolini in tanto trambusto. Con questo obiettivo,

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oltre che per ragioni di proselitismo, fondava a Milano una scuola di propaganda fascista. Considerava necessaria l’istituzione di corsi per propagatori conoscendo l’importanza di simili strumenti per la diffusione capillare delle nuove idee, e parlava pomposamente di filosofia del fascismo, una filosofia da inventare perché il fascismo «era azione e non ancora verbo».

In vista d’un congresso nazionale dei fasci, reclamato dalle opposizioni interne, proponeva due nomi per il nuovo organismo: Partito nazionale del lavoro o Partito fascista del lavoro. In tema di contenuti, nel condannare le violenze delle squadre fasciste contro le organizzazioni cattoliche, insisteva nel riconoscere la funzione del cattolicesimo in Italia: «II fascismo», tuonava Mussolini, «non fa dell’anticlericalismo. Meno ancora il fascismo è antireligioso. I fascisti sono imbevuti di dottrine spiritualistiche, e devono perciò lasciare ai formiconi del razionalismo la fatica grottesca di combattere le manifestazioni religiose e di bandire Dio dall’universo».

Arrivò al congresso nazionale, che si svolse nel novembre a Roma, con la certezza di avere con sé, favorevoli alla trasformazione del movimento in partito, l’ottanta per cento dei fascisti. In tutta Italia i fasci si dispiegavano in oltre duemila sezioni con trecentoventimila iscritti. La capitale fu messa a soqquadro dalla calata dei quattromila congressisti che si stipavano nel teatro Augusteo e degli altri venticinquemila fascisti attratti dalla rilevanza dell’evento. In camicia nera, armati di manganelli e di pugnali, percorrevano la città in lungo e in largo al grido di Alalà, cantando Giovinezza, Giovinezza, innalzando labari e gagliardetti con teschi e tibie incrociate, mentre i romani li guardavano passare un po’ divertiti, un po’ indifferenti. C’era chi all’Alalà degli squadristi rispondeva con fare sornione «A-La-Làaa...rga». Ma di tanto in tanto esplodeva qualche tafferuglio. Con spavalderia e arroganza gli squadristi affrontavano i cittadini che indossavano cravatte rosse o che non si toglievano il cappello al passaggio delle loro funebri insegne. Il clima si fece rovente quando alla stazione di Portonaccio arrivò un treno carico di squadristi tosco-emiliani. Fascisti e ferrovieri si scontrarono aspramente con bastoni e spranghe di ferro lasciando sul terreno numerosi feriti e un morto per parte. Si spararono alcuni colpi di rivoltella. I ferrovieri proclamarono uno sciopero generale cui seguirono altri scontri nel quartiere popolare e antifascista di San Lorenzo. Durante la notte gli squadristi dovettero rinserrarsi nell’Augusteo che divenne un bivacco di scalmanati. Al mattino entrarono in azione i comunisti con gli Arditi del popolo e si susseguirono nuovi incidenti.

I fascisti, volendo dare alla popolazione una prova di forza, decisero di attraversare la città non più alla spicciolata ma tutti insieme e inquadrati, movendo da piazza di Siena, luogo del raduno, sostando in piazza del

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Popolo e raggiungendo infine piazza dell’Esedra. Alle camicie nere si affiancarono le «camicie azzurre», i «sempre pronti» dei nazionalisti romani. Mussolini era in testa all’interminabile corteo con De Vecchi e ventuno squadristi decorati di medaglia d’oro nella grande guerra. C’erano i fascisti della capitale con Bottai, quelli di Livorno con Costanzo Ciano, di Massa Carrara con Renato Ricci, di Ferrara con Balbo, di Bologna con Grandi, della Puglia con Caradonna. Una squadraccia toscana era intitolata a Mussolini. Molti sfilavano in divisa di ardito. I romani li lasciarono sfilare senza reagire granché, e non si verificarono che risse di poco conto. Alcuni squadristi trassero da quell’indifferenza la convinzione che Roma potesse cadere facilmente nelle loro mani. «Potremmo assalire il Viminale, catturare Bonomi e annunciare ai prefetti che la città eterna è nostra», dissero al loro duce, ma egli rispose secco: «Non è l’ora». Durante la rumorosa sfilata tutto andò liscio, ma al termine delle giornate congressuali, fra scontri aperti e imboscate, si contarono complessivamente cinque morti e centoventi feriti.

Ancor prima che avesse inizio il congresso, Mussolini, adattandosi alla situazione generale e agli umori dei maggiorenti fascisti, aveva rinunciato al patto di pacificazione coi socialisti. Prudentemente nel discorso all’Augusteo, non riprese quel tema così controverso, e si ebbe le congratulazioni e l’abbraccio di Grandi. Tornavano ad allearsi pur continuando a diffidare l’uno dell’altro. Mussolini presentiva la pericolosità insita nell’evento congressuale. Trentamila squadristi, insolenti e bellicosi, che si riversavano in massa su una città, avrebbero potuto provocare un immane disastro. Bisognava tenerli a freno. Fin dalle prime battute della sua concione disse che i romani non erano né fascisti né antifascisti: era gente che non voleva essere scocciata, ma, se scocciata, poteva diventare «pugnacissima»; perciò «non provochiamo, ma difendiamoci se attaccati», tenendo presente che se un romano «porta un fazzoletto rosso, non c’è motivo di fare una spedizione punitiva». La platea esplose in urla di proteste. «Noi siamo truppe d’assalto, non semplici congressisti», gridò Italo Balbo. «Sei un demagogo», gli rispose con veemenza Mussolini, e Balbo, di rimando: «Me ne frego!». Altre urla, dopo di che il contestato duce riprese a parlare sullo stesso tema della violenza: «Chi dice di essere pronto ad affrontare i fucili delle guardie regie, si ricordi di essere il primo a scattare». Una voce dal fondo della sala urlò: «Hai paura?», e lui replicò, irritato: «Non accetto lezioni di coraggio da nessuno».

I fascisti erano riuniti a congresso per trasformare il loro movimento in partito, secondo gli intendimenti di Mussolini. Avevano quindi bisogno d’un programma, ma lui si limitava a lanciare idee più che a imporre scelte: «Io non voglio essere un Mosè sbarbato che vi dice: "Ecco le tavole della legge, giurateci sopra!"». Con prudenza parlò di nazionalismo, di anticlassismo e

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di antisocialismo non necessariamente antiploretario; si disse agnostico tra repubblica e monarchia; riconobbe l’utilità della «concessione graziosa» del suffragio universale di cui però «il popolo s’infischiava»; difese il liberalismo economico opponendosi al collettivismo («Dopo l’esperimento russo, basta. Io restituirei le ferrovie e i telegrafi alle aziende private, perché l’attuale congegno è mostruoso»); respinse la Carta del Carnaro («D’Annunzio è un uomo di genio, è l’uomo delle ore eccezionali non della pratica quotidiana»); sostenne che la religione era un fatto di coscienza individuale e che i fascisti dovevano imporre il rispetto di ogni fede. Quindi disquisì sugli eroi e sulle masse, assumendo una posizione centrale fra chi vedeva la storia come opera degli eroi e chi la diceva fatta dalle masse. «La massa? Noi vogliamo servirla, educarla, ma quando sbaglia, fustigarla». Essendo egli in quell’assemblea un duce revocato in dubbio, pensò bene in chiusura di presentarsi nelle vesti più umili. «Nella nuova organizzazione di partito, io voglio sparire perché voi dovete guarire del mio male e camminare da soli».

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IV

Dalle turbinose assise dell’Adriano, Mussolini uscì rafforzato nonostante i pericoli corsi. La sua abilità manovriera, il tempismo, il realismo politico, uniti a un’oratoria di grande vigore, facevano di lui il duce di tutti i fascisti, anche di coloro che l’osteggiavano e non lo amavano. Ugo Ojetti, presente in teatro al banco della stampa, tracciò il primo ritratto di un Mussolini statuario che fece conoscere più da vicino agli italiani il capo del nuovo partito. «Mussolini ha due volti in uno: il volto di sopra, dal naso in su; quello di sotto, bocca, mento e mascelle. Non v’è, tra i due, nessun nesso logico: ogni tanto, serrando le mandibole, spingendo innanzi il mento, corrugando le ciglia, Mussolini riesce ad imporre quel nesso ai due suoi mezzi volti, a conciliarli con uno sforzo di volontà, per un attimo. Gli occhi tondi e vicini, la fronte nuda ed aperta, il naso breve e fremente, formano il suo volto mobile e romantico; l’altro, labbra diritte, mandibole prominenti, mento quadrato, è il suo volto fisso, volontario, diciamo classico. Quando alza le sopracciglia, queste arrivano a formargli sul naso un angolo acuto da maschera giapponese, sarcastica e tragica. Quando invece le aggrotta, esse si dispongono in una netta linea orizzontale, e gli occhi scompaiono sotto le due arcate buie, e tra quella mezza calvizie e quel mento appare una maschera cupa e ferma che si può proprio dire napoleonica».

Ojetti completava l’immagine del personaggio con altri sapienti tocchi. Lo definiva «oratore espertissimo», ne illustrava la mimica. «Spesso egli gestisce solo con la destra, tenendo la mano sinistra in tasca o il braccio sinistro al fianco. Talvolta si pone in tasca tutte e due le mani: è il momento statuario del riassunto, il finale. Nei rari momenti in cui questa raccolta figura d’oratore si apre e si libera, le due braccia roteano alte sulla testa: le dieci dita s’agitano come cercassero nell’aria corde da far vibrare; le parole precipitano a cateratta. Un istante: e Mussolini torna immobile, accigliato».

Il congresso scelse per il nuovo organismo politico una denominazione diversa da quelle suggerite da Mussolini, e lo chiamò Partito nazionale fascista (Pnf). Lui ne fu soddisfatto, sempre pensando di poter dominare meglio quel coacervo di forze e di ispirazioni mediante un’organizzazione di

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partito. Scrisse sul «Popolo d’Italia» che il Pnf era «un fatto compiuto», ma lasciò aperta una porta all’azione che intendeva svolgere per plasmarlo secondo i propri intendimenti: «Restano da fissare regolamenti e statuti, resta da dosare l’uso della violenza che non deve essere mai cieca e incosciente». La violenza e le squadre armate rimanevano un tutto unico, tale equazione era anche alla base del nuovo partito, per cui si procedette alla costituzione di un Ispettorato generale delle squadre di combattimento e alla esplicita dichiarazione che vi appartenevano «tutti i fascisti». Insomma il partito era «una milizia volontaria al servizio della nazione», sia per sostituirsi allo Stato, in caso di sua incapacità, sia per attaccarlo «qualora dovesse cadere nelle mani di chi minaccia e attenta alla vita del paese».

Fu nominata una Direzione, e vi entrarono, oltre il duce, Dino Grandi, Michelino Bianchi, il nazionalista Massimo Rocca, Nicola Sansanelli. Restarono fuori, per volontà di Mussolini, i grandi ras provinciali. Alla carica di Segretario generale del Consiglio nazionale fu chiamato Michelino Bianchi che ebbe come suoi vice Achille Starace, Attilio Teruzzi e Giuseppe Bastianini. Non ottenne nulla il più esagitato, Roberto Farinacci.

Come Mussolini cercava e postulava un suo fascismo, così faceva Grandi che alcuni avrebbero voluto alla carica di segretario. Nonostante il loro abbraccio teatrale, i due personaggi rimanevano su posizioni opposte. Nel discorso all’Augusteo il ras bolognese disse chiaramente che nel partito sussistevano purtroppo due mentalità contrastanti: «una ideologica, cioè rivoluzionaria; e una parlamentare». Postulò la fedeltà al fascismo rivoluzionario «legato indissolubilmente al fiumanesimo». Sicché d’Annunzio continuava ad essere una discriminante tra i fascisti mussoliniani, pronti ai compromessi, privi di fermi ideali, e gli altri. Grandi si riferì esplicitamente a Mussolini; lo accusò di voler risolvere il contrasto fra rivoluzione e conservazione proprio mediante la trasformazione del movimento in partito, e all’atto del voto disse «no» alla nascita del partito schierandosi tra i contrari insieme a Giovanni Giuriati che era stato a Fiume col Vate. Attaccò Giolitti che aveva cercato di assorbire il fascismo e che comunque era riuscito a infiacchirlo parlamentarizzandolo. Non approvava che i deputati fascisti si fossero seduti a destra nell’emiciclo di Montecitorio, e se egli li aveva seguiti, lo aveva fatto «soltanto per ragioni pugilistiche», al di là delle idee. Quali erano le sue idee? Si richiamava a Mazzini e al movimento rivoluzionario risorgimentale per propugnare il rinnovamento dello Stato, «facile preda delle anarchie demagogiche e dissolvitrici». Considerava il fascismo un «movimento di democrazia autoritaria e nazionale» da mantenere in posizione di equidistanza dal socialismo e dal liberalismo, due dottrine che stavano «chiudendo il cerchio della loro fatale decadenza». Affidava infine al fascismo il compito di far

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partecipare le masse alla vita politica e assegnava ai sindacati, al «sindacalismo nazionale», una funzione preminente nello Stato.

I fascisti discutevano dunque sul fascismo, sul futuro suo e della nazione. Mussolini scrisse un articolo in cui rinnegava gli ultimi residui di socialismo che fossero ancora presenti in lui e si apriva interamente alla dittatura. Partiva da alcune premesse. Non si poteva dare per scontato «lo sbocco del capitalismo nel socialismo», mentre era del tutto possibile vedere al più presto «la fine ingloriosa delle cosiddette conquiste democratiche»; prossimo era «il ritorno dal governo dei molti e di tutti - ideale estremo delle democrazie - al governo di pochi o di uno solo». Adduceva l’esempio russo che in altre occasioni condannava: «In Russia si è tornati ai dittatori di fabbrica!». Considerava imminente la fine del suffragio universale e degli «amminicoli» proporzionalistici, quindi concludeva ispirato: «Fra poco gli uomini avranno vaghezza di un dittatore». Anna Kuliscioff, allarmata, scriveva a Filippo Turati: «Mussolini annuncia la necessità di una dittatura, anzi di un dittatore, che è poi lui in persona, per salvare l’Italia».

I socialisti accusavano il governo Bonomi di colludere con le squadre armate fasciste. Presentarono alla Camera una mozione di sfiducia e fu proprio Mussolini con l’astensione dei suoi trentacinque deputati a salvare il ministero. Salvava il ministero per salvare se stesso perché era preferibile Bonomi a un eventuale governo sostenuto da una maggioranza antifascista. Ma egualmente il presidente del Consiglio non era al riparo dalle sue minacce. Bonomi cercava di attuare misure restrittive contro ogni forma di violenza, nera e rossa, contro le bande fasciste e contro i comunisti degli Arditi del popolo. Se Bonomi, diceva Mussolini, tenterà di reprimere i fascisti e i comunisti, potrebbe trovarsi davanti a un’alleanza delle due fazioni estreme le quali potranno poi «conflittuare» per «ripartirsi il bottino». Volendo rafforzare le sue minacce, sostenne che tra i fascisti e i comunisti, pur «non essendoci affinità politiche», correvano «affinità intellettuali». Si sbracciò in complimenti per Gramsci che definì un «potente cervello». Ci fu un’immediata reazione di Turati il quale disse di aver ascoltato un discorso «manicomiale» pronunciato «con tono da profeta epilettico».

Alle minacce in Parlamento, Mussolini fece seguire l’annuncio della fusione tra le sezioni del partito e le squadre di combattimento che si trovarono a formare «un insieme inscindibile», in quanto tutti gli iscritti al partito entravano automaticamente a far parte delle squadre. Era una sfida al governo poiché, se avessero voluto sciogliere le squadre, avrebbero dovuto dichiarare fuori legge l’intero partito. Bonomi, che non era in grado di adottare misure così drastiche, non ne fece nulla, attirandosi addosso i fulmini dell’«Avanti!» sulle cui pagine gli ricordavano di essere stato il

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«compagno di lista» del ras cremonese Farinacci. L’identificazione delle squadre armate fasciste col partito segnò un’ulteriore sconfitta di Bonomi il quale si era inteso con Mussolini nell’illusione che egli potesse imbrigliare le violenze dei ras provinciali.

Il governo appariva debole e traballante. Mussolini lo aveva temporaneamente sostenuto perché a sua volta era dominato dall’incertezza. Anna Kuliscioff definiva «terribile» quella situazione: di giorno in giorno «il paese si avvicina al precipizio; non so che cosa possa salvarlo: una rivoluzione, una guerra civile, nuove elezioni?». I socialisti massimalisti rimanevano intanto arroccati all’opposizione non volendosi confondere con lo Stato liberale, sordi alle esortazioni di Turati. I popolari soffrivano del contrasto tra l’ala conservatrice e il sinistrismo di Guido Miglioli il quale aveva organizzato nella zona del Soresinese, Cremona, alcune leghe contadine che, pur chiamandosi bianche, usavano contro gli agrari gli stessi metodi violenti delle leghe russe.

Il governo visse ancora per poco. L’occasione della caduta scaturì dal dissesto della Banca italiana di sconto nelle cui voragini fu inghiottito il denaro di duecentomila piccoli risparmiatori. Il 1922 si apriva con una crisi bancaria che incuteva paura nella difficile fase di passaggio da un’economia bellica a un’economia di pace. L’anno si apriva altresì con una fallimentare conferenza interalleata, quella di Cannes sulla tentata revisione del severo trattato di Versailles, e infine con la morte di un papa. Benedetto XV. La situazione portò alla caduta del governo Bonomi, e Mussolini se ne servì per mettere a punto la sua politica, per convogliare verso il partito nuove adesioni, non soltanto fra gli agrari e i piccolo-borghesi imbevuti di grandezze imperialistiche, ma anche fra i contadini e i proletari scontenti dello Stato parassita, del capitalismo egoista, dei socialisti inconcludenti.

Mentre i gruppi democratici e liberali accusavano Bonomi di essersi eccessivamente commosso per la morte del pontefice tanto da far esporre alle finestre degli edifici pubblici la bandiera a mezz’asta in segno di lutto, Mussolini riteneva opportuno avvicinarsi ulteriormente al Vaticano e quindi ai cattolici. Pur senza dimenticare che Benedetto XV aveva parlato della grande guerra come di una «inutile strage», disse che la scomparsa di un papa permetteva di constatare come «gli elementi religiosi della vita stessero risorgendo nell’anima umana». Aggiunse qualcosa di più preciso: «Il laicismo scientista e la sua logica degenerazione, rappresentata dall’anticlericalismo ciarlatano, stanno agonizzando. Gli uomini hanno ancora e sempre lo spasimo e la speranza dell’aldilà». Certo, non si poteva fare della Chiesa cattolica una «Chiesa nazionale a servizio della nazione», anche perché «la forza del cattolicesimo, lo diceva la parola stessa, è nel suo universalismo». Alla elezione del nuovo pontefice. Pio XI, Mussolini fece

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ulteriori dichiarazioni di ossequio per il mondo cattolico. Ricordò e lodò il grande spirito di comprensione che Achille Ratti, da arcivescovo di Milano, aveva dimostrato consentendo alle squadre fasciste e ai gagliardetti di entrare nel Duomo per celebrare il Milite ignoto. Con quel papa, disse, sarebbero certamente migliorate le relazioni fra l’Italia e il Vaticano.

La crisi del ministero Bonomi poneva ai fascisti la questione se partecipare o no al nuovo governo. Alcuni erano per rompere gli indugi e dire subito «sì», altri sostenevano che non bisognava avere fretta. L’essenziale era muoversi in maniera da impedire la formazione d’un gabinetto dominato dalla sinistra laica e democratica. Prevalse questa linea col sostegno di Mussolini. Per di più i fascisti decisero di non entrare nemmeno in governi di destra, al fine di evitare confusioni. In quel frangente, a lui importava far capire che si poteva sì governare senza i fascisti, ma non contro di loro. Esplicitamente disse: «Combinate o non combinate il ministero. Però sia chiaro, a evitare un pericoloso salto nel buio, che non si va contro il fascismo».

Nelle trattative per la formazione del governo cadde una candidatura del vecchio Giolitti a causa di un veto interposto da don Sturzo d’intesa col Vaticano, del tutto contrari alla nominatività dei titoli e alla formula delle «parallele che non s’incontrano mai» in tema di rapporti fra Stato e Chiesa. Si avvicinarono invece le parallele fascismo-Vaticano, mentre Mussolini non mancava di attaccare aspramente il prete siciliano.

Fallirono anche De Nicola, Orlando, ancora Giolitti e lo stesso Bonomi che era stato inutilmente rinviato alle Camere. La crisi governativa fu lunga ed estenuante, la più lunga che si fosse avuta dal 1870, anno della plebiscitaria annessione di Roma all’Italia, se non addirittura dal 1848. Riesplose la sfiducia nelle istituzioni; riapparvero le minacce d’un colpo di Stato militare guidato dal dannunziano e filofascista duca d’Aosta, Emanuele Filiberto, che durante la guerra aveva comandato la III armata. Mussolini, che soltanto qualche mese prima si era opposto rumorosamente all’eventualità d’una dittatura essendo questa una «carta grossa» da giocare una sola volta e che si riservava di giocare lui, si fece possibilista, anzi minaccioso. In alcune città italiane, e con maggior vigore a Bologna, si erano svolte manifestazioni di studenti fascisti al grido di «Abbasso il Parlamento, viva la dittatura militare». Può darsi, disse Mussolini, che quel grido «diventi domani il coro formidabile e irresistibile della nazione».

In quel clima di così profonda crisi ed essendo caduti tanti personaggi di primo piano, il re si risolse ad affidare l’incarico di formare il governo a un onesto routinier di scuola giolittiana che era stato più volte ministro. Luigi Facta di Pinerolo. E Facta riuscì nell’impresa, realizzando intorno al suo ministero un nuovo e vasto schieramento parlamentare. La sua maggioranza

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era costituita dai vari gruppi democratici, dai riformisti, dai popolari i quali, stimolati «per stanchezza» da De Gasperi, votarono nonostante il parere avverso di don Sturzo, e infine dai fascisti. Era nato un governo spostato a destra che rappresentava una sconfitta dei comunisti e dei socialisti abbandonati dalla pattuglia riformista.

Mussolini era soddisfatto, ma non lo diede a vedere. Tornando ad attaccare don Sturzo, disse che con il ministero Facta si era finalmente arrivati «al crepuscolo dello sturzismo». Presentò il leader popolare come un «piccolo, mediocre prete», ma capace di mettere in pericolo la religione e il cattolicesimo perché, se il partito popolare avesse continuato «a sturzeggiare», e don Sturzo «a imperversare», si sarebbe avuto in Italia un «travolgente scoppio di anticlericalismo». Con alcune noterelle per così dire estetiche, definì «mortificante» lo spettacolo di «un prete politicante e de-forme che non celebrava mai messa e andava in giro con la tonaca sudicia a fare della bassa politica invece di curare anime». A differenza di Mussolini, Italo Balbo preferiva prendere di mira Facta, e scriveva che i baffi del nuovo presidente «pescato non si sa come nel mazzo, erano tanto divertenti da mettere di buon umore il fascismo».

In quei giorni Mussolini - sulle pagine della sua nuova rivista, «Gerarchia», già al secondo numero con capo redattore Margherita Sarfatti - affrontò un ponderoso tema di futurologia politica. Si chiedeva da che parte andasse il mondo e si rispondeva dicendo che il mondo, l’Italia e perfino la Russia andavano a destra. I regimi di sinistra avevano «dato quel che potevano dare»; «il ruolo della democrazia, del numero, delle maggioranze, delle quantità era morto» travolto dalla guerra «tra fiumi di sangue». L’«orgia dell’indisciplina» era cessata. Infatti «chi dice gerarchia, dice scale di valori umani; chi dice scale di valori umani, dice scale di responsabilità e di doveri»; e chi dice ancora gerarchia, «dice disciplina».

A Fiume, Stato indipendente, dove era salito al potere l’autonomista Riccardo Zanella, era caduto assassinato un fascista. Poiché la responsabilità del fatto gravava sullo stesso Zanella, anzi sulla sua polizia, i fascisti attuarono nell’antica città Olocausta una spedizione punitiva agli ordini del ras triestino Giunta il quale, impossessatosi dannunzianamente di un Mas, bombardò il palazzo del Governo costringendo Zanella alla fuga. Arrivò Balbo di rinforzo. «Fiume è nostra. Intangibile», diceva. A Milano la direzione del partito fascista, come se già fosse investito di autorità governativa, chiedeva di nominare Giuriati alla carica di commissario straordinario di Fiume, e Anna Kuliscioff notava che il fascismo «era padrone non solo della politica intema, ma anche della politica estera».

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V

Mussolini aveva una particolare propensione per i problemi internazionali. Diceva che il fascismo doveva diventare la «vigilante coscienza» della politica estera italiana. Aveva seguito come giornalista i lavori della conferenza interalleata di Cannes, ed ora partiva alla volta della Germania per svolgervi un’inchiesta politico-giomalistica d’una decina di giorni. Intendeva rendersi conto de visu degli sviluppi della situazione centroeuropea dal privilegiato osservatorio tedesco. A Berlino il corrispondente del «Popolo d’Italia», Roberto Suster, esaltava il significato di quella visita e presentava il suo direttore come un semidio di «ottimo umore, fremente di curiosità e di giovinezza». Mussolini attraversava in automobile Berlino, e Suster lo sorprendeva in «atteggiamento energico ed eretto» disdegnando «la fatalità del gesto banale del viaggiatore stanco e felice che si abbandona e sprofonda nei cuscini della vettura». In albergo lo vedeva o nell’atto di osservare che «mancava un calamaio» o di chiedere «l’immediata comunicazione telefonica col giornale a Milano». Mentre lo ascoltava parlare al telefono, il corrispondente ebbe «per la prima volta la testimonianza precisa sulla sua tecnica di lavoro e sullo stile di comando», sicché si convinse che il suo «non era il modo di agire d’un semplice direttore di giornale e d’un solito capopartito, bensì quello di un condottiero».

Era un semidio che masticava un po’ di tedesco con accento romagnolo, come non poté non sottolineare lo stesso Suster. Un altro giornalista italiano. Paolo Monelli, lo vedeva «nervoso, agitato, con l’ansia della persona braccata». Quando il giornale dei comunisti berlinesi, «Rote Fahne», rivolse un appello agli operai della città perché scendessero in piazza a manifestare contro il «traditore del proletariato italiano che Berlino aveva il disonore di ospitare», Suster e Monelli presentarono due volti contrastanti del capo fascista. Il primo scriveva che Mussolini, alla lettura del proclama, gli disse con una frase tagliente come una sciabolata: «Lasciate che scrivano; conosco benissimo codesti signori e non mi curo di loro né delle loro minacce». Il secondo invece sosteneva che Mussolini «aveva avuto tanta paura» di quell’appello «da non volere più uscire», e che

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«per non farla sporca marcò visita; per due giorni stette in casa bevendo solo bicchieri di latte».

Tra un incontro e l’altro con gli esponenti più in vista del mondo politico tedesco, Mussolini sostò davanti a qualche monumento, fece piccoli acquisti riempendo la borsa di libri e oggettini vari, assistette alla rappresentazione d’una commediola di Niccodemi, Scampolo. Ma se ne dovette tornare in Italia prima del previsto e senza poter proseguire, come avrebbe voluto, per Varsavia, Praga e Vienna, a causa di una delle consuete rivolte che gli oppositori interni al partito gli gettavano tra i piedi. Se ne tornava peraltro convinto della necessità di tenere ben fissi gli occhi sulla Germania che prima o poi si sarebbe vendicata dell’iniquo trattato di Versailles.

Quella volta la ribellione appariva più grave, e si poteva parlare di complotto poiché si erano riuniti a Venezia personaggi di primo piano come Grandi, Balbo, Piero Marsich e il generale Capello. Durante l’incontro si era adombrata l’opportunità d’una scissione, e Capello, senza però riscuotere l’assenso di Grandi e Balbo, aveva sostenuto che si poteva fare benissimo a meno di Mussolini. Di rincalzo l’esponente veneziano antiparlamentarista Piero Marsich aveva definito «infausta» l’egemonia mussoliniana e aveva proposto di sostituire il romagnolo con d’Annunzio, «l’Unico Grande Italiano» che avrebbe potuto con onore porsi alla testa del fascismo. Già in precedenza Marsich aveva attaccato Mussolini per essersi affiancato a Giolitti il «boia labbrone», il «sabotatore della guerra», il «traditore di Rapallo». Il duce gli aveva risposto che «la paura del parlamentarismo e della relativa contaminazione era semplicemente ridicola: parlamentaristi erano i comunisti e, all’estrema destra, erano parlamentaristi i nazionalisti». Dal complotto di Venezia, che Mussolini riuscì a dominare, scaturì un duello tra lui e un personaggio minore, Cristoforo Baseggio. Dallo scontro, che si svolse all’ippodromo milanese di San Siro, uscirono entrambi feriti, ma riconciliati, sebbene il Baseggio avesse pesantemente accusato Mussolini di «tradire la causa».

Gli uomini alla Marsich credevano nell’ineluttabilità d’una «rivoluzione nazionale», e non volevano attardarsi in inconcludenti battaglie parlamentari di retroguardia. L’oppositore veneziano telegrafava all’«Unico Grande Italiano» nel suo esilio del Garda: «Noi passiamo, Comandante d’Annunzio, agli ordini Vostri». Sebbene confusamente, il Vate era un punto di riferimento a sinistra. Chiamava il fascismo espressione dello «schiavismo agrario», utilizzando un’immagine di Mario Missiroli, al quale era costata una ferita in un duello con Mussolini. Il poeta, benché chiuso in volontario isolamento, pur non disdegnava di accarezzare sogni di rivincita. Accettò di incontrarsi con gli esponenti della Confederazione del lavoro D’Aragona e Baldesi. Il riformista Turati giudicava quei colloqui come «un passo

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convincente a vantaggio dei lavoratori» per il rinnovamento sociale del paese; altri dicevano che d’Annunzio avrebbe potuto fungere da trait d’union fra i popolari, Nitti e i socialisti.

Durante il loro congresso di Roma i fascisti erano sfilati in trentamila fra i monumenti della capitale. Bisognava ripetere quella manifestazione di forza a Milano, città d’intonazione socialista, prendendo spunto dal terzo anniversario della fondazione dei fasci. Scesero in ventimila nelle vie milanesi offrendo un’ulteriore prova delle loro capacità di mobilitazione, e Mussolini disse che i lombardi avevano vissuto un giorno «carico di destino». Anna Kuliscioff ne rimase profondamente impressionata. Scriveva che quei giovani «gagliardi, agili, belli e inquadrati militarmente» avrebbero potuto fare «un effetto magnifico di bellezza e di forza» se non si fosse saputo a quali «turpi scopi» era rivolta la loro azione; egualmente la radunata era stata «un coefficiente di gloria per cingere la crapa pelata del "duce"», il quale «apriva il corteo in piena tenuta fascista, tronfio e gongolante di gioia di fungere da generalissimo di un esercito». Turati non approvò il pur cauto moto di ammirazione espresso dalla sua compagna per la gagliarda sfilata e le fece una dolente paternale.

Urgeva la questione sindacale. Mentre Mussolini si definiva «sindacalista senza demagogia», i fascisti costituivano la Confederazione delle corporazioni sindacali con l’idea primaria di allargare la propria base ai danni delle preesistenti organizzazioni dei socialisti e dei popolari. I fascisti dicevano che le lotte sindacali dovevano svolgersi nell’ambito di un superiore interesse, di qui la denominazione di «sindacalismo nazionale» indicata dal duce. Egli prese spunto dal 21 aprile di quel 1922 per dichiarare che i fascisti assumevano il Natale di Roma come festa dei lavoratori, i quali rinunciavano al Primo maggio, volendo richiamarsi, col 21 aprile, a una grandezza perduta, quella dell’antica Roma, mito supremo del fascismo. Mussolini osservava che Roma e l’Italia erano «due termini inscindibili»; Roma era «il punto di partenza e di riferimento, il simbolo del fascismo»; «noi sogniamo l’Italia romana, disciplinata e imperiale; molto di quello che fu lo spirito immortale di Roma risorge nel fascismo; romano è il littorio, romana è la nostra organizzazione di combattimento».

Sul merito dell’azione sindacale diceva che le masse «non andavano respinte», ma che «non bisognava nemmeno cercarle troppo e lusingarle», per cui nel sindacalismo fascista andavano conciliati «la nazione, la produzione, gli interessi delle categorie che lavorano». Una conciliazione enunciata a parole perché, col pretesto di condurre battaglie sindacali, si promuovevano violente e numerose manifestazioni di massa volte a scardinare lo Stato e a intimorire i pubblici funzionari. Se qualcuno osava

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resistere al prepotere fascista, sarebbe stato costretto, come predicava Balbo, «a rintanarsi nei loro buchi da sorci».

I ras provinciali avevano perfezionato gli iniziali metodi di aggregazione. Non si limitavano più a organizzare spedizioni punitive di breve momento, ma procedevano a vere e proprie occupazioni di città con marce di migliaia di fascisti inquadrati su base militare e con efficienti servizi logistici, automezzi, accampamenti e vettovagliamenti. Le loro scorribande preannunciavano ampie insurrezioni, mentre il governo Facta si mostrava più debole e indeciso dei ministeri cui era succeduto. Mussolini cercava di imbrigliare quelle scorrerie, non volendo effettivamente esagerare, e dovendo darsi un’aria di moderato per convenienza politica.

Ogni spedizione squadrista lasciava sul terreno morti e feriti. Tra la primavera e l’estate dell’infuocato ‘22, le squadre fasciste spadroneggiavano intensamente in tutta Italia, disperdendo i comizi dei socialisti e ostacolandone gli scioperi. Nel Settentrione agirono luttuosamente a Novara, Bologna, Ferrara, Ravenna, Rovigo, Cremona; nel Mezzogiorno condussero spietate repressioni a Brindisi e ad Andria. Italo Balbo a Ferrara proclamò uno «sciopero fascista» spalleggiato da quarantamila manifestanti. «Il Popolo d’Italia», nel celebrare l’evento, puntava i riflettori sui convenuti: «Colle loro mantelle a tracolla, coi loro cesti, i loro tascapani, i bei contadini ferraresi secondano marciando il coro delle canzoni fasciste, stretti in una fusione commovente d’animi e di cuori alle camicie nere che spiccano fra gli abiti di lavoro dei popolani. La popolazione si riversa nelle strade ed acclama alla fiumana di popolo che sfila marciando con maestosa compostezza». Balbo mise a soqquadro anche Bologna facendone un bivac-co di sessantamila squadristi per costringere il governo a trasferire il prefetto Mori che nelle assunzioni dei lavoratori non intendeva escludere i socialisti. E Mori fu spedito a Bari. A Rovigo i fascisti sfilarono in segno di protesta contro i socialisti e i popolari che chiedevano l’espulsione dal Parlamento dei «deputati minorenni», così chiamati essendo al di sotto dei trent’anni e che comprendevano Grandi, Bottai, Farinacci che gli squadristi definivano «i più valorosi cavalieri dell’ideale fascista». A Magenta la violenza non ebbe limiti, al punto che il prefetto di Milano, Lusignoli, la definì «barbarica». Mussolini riconosceva l’importanza della violenza come una insostituibile carta nel tragico gioco dei fascisti per la conquista del potere, ma proprio mirando all’obiettivo da raggiungere, cercava di contenerla perché non gli si ritorcesse contro. In seguito agli incidenti di Cremona, apparve difatti sul «Giornale d’Italia» un articolo di condanna. Vi si diceva che i fascisti meritavano «benemerenza» per aver salvato il paese dalla «catastrofe bolscevica», ma ora esageravano al punto che il socialista Modigliani avrebbe avuto ragione se, come facevano nel Mezzogiorno,

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avesse inviato «i caciocavalli all’onorevole Farinacci» a mo’ di ringraziamento. Ciò perché, mentre si stava cercando di impedire la formazione di un ministero di «reazione antifascista» e di «tenere in piedi il governo liberale di Facta», i fascisti cremonesi, con le loro sfrenatezze, portavano acqua al mulino delle sinistre. A Cremona, le squadre di Farinacci avevano assalito l’abitazione dell’onorevole Miglioli, e ne menavano vanto. «Il Popolo d’Italia» pubblicò un’orgogliosa cronaca di quell’irruzione: «La porta, che da nell’appartamento è ben chiusa; ma, all’urto di robuste spalle, la prima rocca cede e l’appartamento è invaso: dal di fuori si sente un fragore di mobili fracassati e di vetri infranti. Dalle finestre del balcone vengono lanciate in strada poltrone, mobili, libri, corrispondenza, e perfino le imposte. Poi si vede un denso fumo. I fascisti hanno incendiato quel poco che era rimasto della casa del deputato lasciando sul campo un mucchio di rovine».

Mussolini, prudente e calcolatore, voleva lasciarsi aperta la strada a un’azione politica a più sbocchi. Perciò trattava ora con Nitti per la formazione di un ministero d’unione nazionale, ora col vecchio Giolitti, ora con i popolari incontrando l’odiato Sturzo in un convento, ora direttamente con la Santa Sede interessata alla riconciliazione fra Stato e Chiesa. Infine, se doveva essere la violenza a portare i fascisti al potere, non intendeva lasciarsela strappare dai ras provinciali, ma esserne lui il gestore. «Una pausa si impone», scriveva. «Non dobbiamo estenuare le nostre superbe milizie»; se sarà necessario «verrò io tra voi» a capeggiare le agitazioni, ma allora esse avranno «ampiezza più vasta e più lontani obiettivi». Lo stesso Balbo considerava l’occupazione di Bologna come «una specie di grande manovra delle forze fasciste emiliane», come una «prova generale della rivoluzione».

Mussolini, in un articolo su «Gerarchia», pur non escludendo una insurrezione armata che avrebbe dovuto «restaurare l’autorità dello Stato», insisteva simultaneamente sulla necessità di selezionare gli elettori attraverso profonde revisioni delle leggi elettorali, poiché era al suffragio universale e alla proporzionale che si doveva il frenetico ballo di San Vito dei governi. Riprese il tema del mondo che va a destra, conferendo al fascismo un volto diverso da quello originario del ‘19. Disse che il fascismo «si era gradatamente spogliato della primitiva bardatura che avrebbe potuto rappresentarlo come un movimento di sinistra o quasi»; esso doveva perciò liberarsi della «paura folle e cretina» che avvelenava le menti di alcuni, i quali «temevano sempre di non avere idee abbastanza "avanzate"».

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VI

Mussolini sapeva che il fascismo appariva agli occhi di molti come prigioniero d’un incomprensibile «equivoco», che egli nobilitava chiamandolo «intimo tormento». Era caduto il governo Facta anche con i voti dei fascisti frammisti a quelli di buona parte dei popolari e delle sinistre. I fascisti avevano votato contro, spiegò il loro capo, perché non potevano appoggiarlo nell’aula di Montecitorio mentre lo combattevano nelle piazze. In verità, se lo avessero votato avrebbero conferito al voto di sfiducia un significato antisquadrista rafforzando la posizione di coloro che già si apprestavano a favorire la formazione di un governo di sinistra, di concentrazione antifascista. Questa era una possibilità reale poiché il fascismo in quel momento appariva quanto mai isolato. Mussolini, per ostentare forza e sicurezza, volle alzare la voce. Nel motivare il 19 luglio nell’aula di Montecitorio il voto contrario a Facta, fece un discorso minaccioso, ed era l’ultimo intervento che egli pronunciava dal banco di semplice deputato. Temendo il formarsi d’una maggioranza antifascista, annunciò che il suo partito avrebbe risposto a un governo nemico con l’insurrezione armata. Così il fascismo avrebbe sciolto la sua contraddizione, fra «partito legalitario», cioè di governo, e «partito insurrezionale»; uscendo dal suo intimo tormento «non avrebbe più fatto parte di nessuna maggioranza ministeriale, né avrebbe più avuto l’obbligo di sedere alla Camera». Avrebbe insomma saltato il Rubicone, sentenziò Gaetano Polverelli del fascio di Roma.

Il «no» che Mussolini aveva aggiunto agli oppositori del governo Facta irritò i liberali e i nazionalisti rendendo più difficile la posizione dei fascisti. Bisognava comunque formare un governo ed egli avviava trattative più o meno sotterranee per non essere escluso dal gioco e per evitare la nascita di un ministero che gli fosse avverso. C’era davvero il pericolo d’una guerra civile, e Giolitti consigliava di evitare una compagine antifascista, con la rinnovata speranza di domare gli squadristi per via parlamentare.

Ma i ras provinciali non rinunciavano alle manifestazioni di violenza, e un nuovo ministero avrebbe dovuto più che mai adoperarsi per ristabilire l’autorità dello Stato. Al tempo stesso Mussolini, proseguendo nella tattica del doppio binario, faceva capire di essere pronto a mandare i suoi uomini al

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governo, visto che i popolari non ponevano più i veti iniziali. Si facevano le più svariate ipotesi per il nuovo ministero: con i socialisti riformisti o senza di loro; con i fascisti o senza di loro; con i popolari e i socialisti; con i socialisti, i popolari e i fascisti; con tutti i democratici esclusi i socialisti e i fascisti. L’incarico rimbalzò da Orlando a Bonomi, a Filippo Meda del Partito popolare, a Giuseppe De Nava, a De Nicola con degli andirivieni da gioco dell’oca, con delle ripulse di Giolitti, fino a tornare alla casella di partenza, cioè a Facta, il quale ricopiò la sua precedente formazione con una lieve modifica rappresentata dalla nomina del senatore Paolino Taddei, considerato un uomo di polso, a ministro degli Interni. Ma non bastava un Taddei a rendere forte uno Stato debole e minato alla base.

Involontariamente erano state le sinistre, con la proclamazione d’uno sciopero generale di protesta, a favorire per contraccolpo una rapida conclusione della crisi con il reincarico a Facta. In realtà, con quello sciopero che Turati chiamò «legalitario», esse puntavano a un ben diverso risultato, e cioè alla formazione d’un ministero di sinistra. Tutto andava in fretta. Lo sciopero esplose alla mezzanotte del 31 luglio, e già il mattino successivo la nuova-vecchia compagine era pronta. Nella stessa serata del 31 luglio i capi fascisti, avendo appreso da un colloquio di Mussolini con il giovane esponente popolare Giovanni Gronchi che i cattolici non si sarebbero uniti ai socialisti e ai comunisti nella manifestazione di protesta, diedero l’ordine di una fulminea mobilitazione delle squadre.

Le federazioni dei fasci ricevettero dal segretario del partito, Michele Bianchi, una nota con l’intestazione di «Circolare riservata, leggere e distruggere», in cui si indicavano le modalità della rappresaglia, così elencate: «Se a quarantotto ore dalla proclamazione dello sciopero il Governo non sarà riuscito a stroncarlo i Fascisti provvederanno essi direttamente alla bisogna; i Fascisti debbono, trascorso il suaccennato periodo delle quarantotto ore, e sempre che lo sciopero perduri, puntare sui capoluoghi delle rispettive Provincie e occuparli; i Fascisti delle Zone del Carrarese, della Lomellina e della Provincia di Alessandria tengano una parte delle loro forze a disposizione dei Fascisti del Genovesato. I Fascisti del Bolognese e del Ferrarese tengano una parte delle loro forze a disposizione dei Fascisti della Romagna e dell’Anconetano; sorvegliare i nodi stradali». Laconicamente la circolare si chiudeva con i saluti, non ancora definiti fascisti.

Con un proclama diffuso al pubblico, i fasci ribadirono l’ultimatum delle quarantotto ore allo Stato perché desse «prova della sua autorità in confronto di tutti i suoi dipendenti e di coloro che attentavano all’esistenza della Nazione»; trascorso questo termine i fasci avrebbero rivendicato

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«piena libertà di azione» e si sarebbero sostituiti allo Stato che «ancora una volta si era dimostrato impotente».

I fascisti avevano definito una «sfida al fascismo e alla nazione» lo sciopero indetto dai «partiti antinazionali» «ibridamente» raccolti nell’Alleanza del lavoro. Furono tanto pronti a cogliere l’occasione che sembrava non aspettassero altro, e lo sciopero si rivelò un grave errore delle sinistre. Mussolini diceva che «l’odio, più che la lotta di classe, veniva da loro», come da loro provenivano «la vendetta e la morte». Sul «Corriere della Sera» si leggevano articoli preoccupanti: «Molta più gente penserà ora che il fascismo giova almeno a impedire che gli scioperi ridiventino, com’erano una volta, carnevali di vilipendi e di violenze, e negherà il suo consenso al lupo che si finge agnello davanti al lupo più forte, ma non sa che urlare e cercare di mordere». Il duce riprendeva a dire che quello sciopero era «bestiale, cretino, idiota, superlativamente idiota». Ridicolizzava i deputati che «si chiudevano a Montecitorio, bivaccavano lì, tifavano lì»; spronava i proletari a svegliarsi per «prendere a calci i falsi profeti» che erano contro di loro e «maledirli».

Durante l’agitazione, le squadre fasciste si sostituirono con azioni di crumiraggio politico agli scioperanti e consentirono il funzionamento, anche se parziale, dei più importanti servizi pubblici: i tram che i fascisti imbandieravano; la nettezza urbana imbracciando grandi scope; le poste tra il plauso della borghesia che tornava a guardare con simpatia a quegli afrorosi giovanotti in camicia nera capaci di debellare la «demagogia rossa». Lo sciopero ebbe ben presto termine, ma i fascisti continuarono nelle loro cruente rappresaglie a Milano, Genova, Savona, La Spezia, Livorno, Ancona. Gli squadristi di Balbo urtarono a Parma contro la resistenza della città vecchia, l’Oltretorrente, per la fermezza e le barricate del deputato socialista Guido Picelli e degli Arditi del popolo, ben armati e militarmente organizzati. A Milano in una torrida giornata d’agosto, le squadre occuparono palazzo Marino, sede del Comune, e riuscirono a trascinare sul balcone d’Annunzio che si trovava casualmente nella capitale lombarda per impegni editoriali.

Mussolini era a Roma affascinato da una nuova donna intensamente corteggiata e con la quale si era rifugiato in un borgo dei Castelli sconosciuto perfino al fratello Arnaldo che da Milano lo cercava disperatamente al telefono. Non seppe subito che i capi del fascio milanese avevano agganciato il corrucciato Vate. Fu però un aggancio breve. D’Annunzio era sì apparso al balcone di palazzo Marino, e vi aveva pronunciato qualche parola salutando la folla col braccio teso, ma il giorno stesso aveva telegrafato a Luisella Baccarà, l’amica violinista che lo attendeva nell’eremo di Gardone. Nel telegramma rivelava i suoi reali

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sentimenti: «Riunione molto calorosa, ma il contatto della folla mi parve atroce. Non vedo l’ora di ripartire». Dalle poche parole dette in pubblico a Milano i fascisti vollero trarre la speranza di aver con loro l’Imaginifico. «È la prima volta», aveva dichiarato il poeta secondo un testo da loro diffuso, «che io riparlo dalla ringhiera, dopo la gesta di Fiume. A questa ringhiera che per troppo tempo fu muta del tricolore, muta di quel divino colloquio che il segno d’Italia fa col cielo d’Italia. Io stasera vorrei spiegare la vasta bandiera del Timavo, quella che fu chiamata il labaro del fante».

Era un testo che d’Annunzio non aveva rivisto e forse ne svisava il pensiero. Gli squadristi premevano su di lui al punto che il segretario del fascio. Michele Bianchi, gli inviò da Roma un telegramma col proposito di conferire surrettiziamente al discorso di palazzo Marino il valore d’un’adesione al fascismo: «II Pnf raccoglie il vostro altissimo monito e ricambia il grido di Viva il Fascismo». Il Vate, che non aveva inneggiato al fascismo, s’irritò e rispose con durezza all’imprudente telegramma: «V’è un solo grido da scambiare oggi fra gli italiani: Viva l’Italia! È il mio. Io non ebbi, non ho, e non avrò, se non questo. Credo che debba essere anche il vostro. Credo che debba essere, oggi, e domani, il grido di tutti i devoti, in pace e in guerra».

Mussolini s’irritò a sua volta con i collaboratori che tanto maldestramente si erano mossi col poeta e che così facendo rischiavano di allontanarlo ulteriormente. Però fingeva di equivocare sul quel discorso, ne parlava come se d’Annunzio lo avesse pronunciato per aderire al fascismo e quindi per ritrattare l’intesa avviata con i riformisti Baldesi e D’Aragona. «Crediamo», scriveva sul suo giornale, «che il naso di Baldesi sia ora più lungo di quello di Girano e che la barba di D’Aragona fluisca fino ai ginocchi».

Molti squadristi ancora vedevano in d’Annunzio un Capo. Alle pareti delle sezioni fasciste c’era quasi sempre una immagine del Vate eroico ritratto accanto all’apparecchio che lo aveva portato su Vienna o a bordo del Mas di Bùccari. In quei giorni egli fu trascinato in un’altra operazione politica, un po’ più complessa, che abortì sul nascere per un incidente occorsogli al Vittoriale. La nuova operazione si presentava sfaccettata, anzi confusa perché vi apparivano come protagonisti personaggi non certo omogenei, lui stesso, Nitti e Mussolini. Nemmeno si capiva bene chi fosse il promotore d’un loro incontro che si sarebbe dovuto svolgere in una non precisata località della Toscana. Si dava tuttavia per certo che puntasse a una pacificazione nazionale e che accedesse alla proposta di Nitti volta a includere nell’intesa anche il duce, unica via per neutralizzare lo squadrismo e tentare nuovamente di incanalarlo nell’alveo parlamentare.

I fascisti davano una versione ben diversa della trattativa e dei suoi obiettivi. Ne aveva parlato un luogotenente di Mussolini, Aldo Pinzi, al

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nuovo direttore del «Corriere della Sera», Alberto Albertini, fratello di Luigi, preannunciandogli un colpo di Stato col quale, «revolver alla mano», si sarebbe imposto lo scioglimento della Camera, il rinvio delle elezioni per un anno o due, e il trapasso del potere a un direttorio presieduto da Gabriele d’Annunzio, comprendente Mussolini e altri autorevoli uomini politici. Come possibili ministri, Finzi fece i nomi di Giovanni Agnelli, Alberto Pirelli e persino - «incredibile a dirsi», osservava Albertini - di Nitti. Subito i fratelli Albertini, attoniti, si misero in contatto con d’Annunzio a Gardone e ne ricevettero una netta smentita. Ma egualmente sembrava che lui fosse in procinto di partire alla volta della Toscana per incontrarsi davvero con Mussolini e col suo vecchio avversario Nitti, quando la notizia d’una sua alquanto misteriosa caduta da una bassa finestra della villa di Cargnacco, mandò in fumo ogni cosa.

Salvo lo smacco subìto a Parma, le occupazioni delle città erano pienamente riuscite. Mussolini ne era soddisfatto e, sebbene continuasse a parlare dell’esigenza di nuove elezioni per equilibrare la rappresentanza parlamentare del fascismo alla sua reale forza nel paese, pensava sempre più seriamente alla conquista del potere mediante un colpo di mano. In ciò sospinto dagli estremisti del partito. Sottolineava il significato della sconfitta subita dalle sinistre con il fallimento dello sciopero legalitario e la raffrontava ai grandi rovesci storici irreversibili, alla sconfitta di Waterloo per Napoleone e a quella di Vittorio Veneto per l’impero asburgico.

L’«Avanti!» preannunciava il pericolo d’una marcia fascista su Roma, e lui giocava in proposito con le parole. In una intervista al «Mattino» di Napoli diceva che era sì in atto la marcia su Roma, ma che si trattava d’una marcia «in senso storico, non propriamente insurrettivo». Era cioè in formazione una «nuova classe politica» cui sarebbe spettato l’«arduo compito» di governare la nazione. Nell’intervista non difettavano però le minacce: la marcia delle camicie nere «formidabilmente inquadrate» era «strategicamente possibile» attraverso tre grandi direttrici: la costiera adriatica, quella tirrenica e la valle del Tevere, «totalmente in nostro assoluto potere».

I fascisti mettevano a punto la loro organizzazione militare definendo squadre, centurie, coorti, legioni, indicando ruoli e comandanti. Ora che Mussolini appariva deciso all’azione, riscuoteva il plauso di Balbo e anche l’ammirazione per le sue bravate di automobilista. Nel raccontare una gita «emozionante» in una macchina da corsa il ras diceva che Mussolini la guidava a velocità tanto forte da «rasentare paurosamente i trams». A quell’epoca si parlava molto di automobili. Mussolini esprimeva pieno entusiasmo per la rapida costruzione dell’autodromo di Monza cogliendo l’occasione per esaltare la sollecitudine dell’iniziativa privata cui si doveva

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l’imponente pista, e per attaccare la burocrazia statale che invece mostrava tutta la sua lungaggine nell’interminabile fabbrica della nuova stazione di Milano. Perciò non voleva più sentir parlare di Stato ferroviere, di Stato postino, di Stato assicuratore. Rafforzava in tal maniera i ponti con il mondo industriale e l’intero universo economico liberista, mentre le corse automobilistiche di Monza gli offrivano lo spunto per dire che il fascismo era un movimento sportivo volto «all’educazione fisica della razza e alla selezione dei migliori».

La maniera forte era il tema che il duce andava agitando nei suoi articoli. Cercava illustri precedenti e scriveva che la Divina Commedia era il poema della guerra civile. Individuava nella storia le epoche in cui si discuteva e quelle in cui si combatteva, «le epoche di Roma e quelle di Bisanzio». Ora si viveva in anni in cui bisognava usare la forza: «Cristo non fece una predica ai mercanti del tempio. Capiva che con certa gente, se voleva farsi intendere doveva adoperare il nerbo di bue».

Per dirsi pronto a un’azione di forza, Mussolini, a fine agosto, scelse una piccola località. Levante, dove si trovava in vacanza con la famiglia. Parlò per la prima volta esplicitamente di una imminente marcia su Roma, pur subordinandola ancora a scelte politiche parlamentari: «Se il governo sarà intelligente, ci darà il potere pacificamente; se non lo sarà, lo prenderemo con la forza. Dobbiamo marciare su Roma per toglierla di mano ai politicanti imbelli e inetti». Qualche settimana più tardi, a Udine, occupata dalle squadre fasciste, decise inoltre di abbandonare la pregiudiziale antimonarchica per assicurarsi, in caso di necessità, il sostegno dell’esercito e della stessa casa reale, o nella persona di Vittorio Emanuele o, in alternativa, in quella del duca d’Aosta. Non voleva spaventare troppo la gente che sapeva in maggioranza di convinzioni monarchiche: «Noi lasceremo in disparte, fuori del nostro gioco, l’istituto monarchico, anche perché pensiamo che gran parte dell’Italia vedrebbe con sospetto una trasformazione del regime che andasse fino a quel punto». Quindi illustrò il programma fascista, concludendo con una frase a effetto: «II nostro programma è semplice: vogliamo governare l’Italia». Il che significava: «Voglio comandare io», come aveva già detto ai suoi colleghi giornalisti, quando ancora dirigeva l’«Avanti!».

A Udine fu acclamato quanto non mai. Balbo fissò sulla carta alcune fasi dell’evento: «Mussolini passa sotto un arco di centinaia di gagliardetti. Squilli. Silenzio religioso. La sua voce sul principio è bassa, come in agguato. Poi la parola si fa tagliente, incisiva. Passa sul suo viso l’onda del pensiero fulmineo. Gesti a scatti. Qualche volta si raggomitola su se stesso come a scavare la parola dall’interno del cuore; poi il pugno la porta in alto sulla persona eretta e la lancia alla moltitudine. L’uditorio è avvinto,

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travolto, affascinato. Cadono parole solenni, impegni definitivi, programmi di guerra, frasi che hanno un’importanza storica».

Il duce non si dedicava soltanto ai discorsi, tanto più che l’Italia viveva ancora in clima di guerra civile, come risultava drammaticamente da un rapporto del ministro della Giustizia, Alessio: «Non passa giorno che i procuratori generali, specie quelli dei circondari più turbati dalle violenze fasciste, non mi denuncino almeno dieci reati. Dal 15 agosto al 22 settembre una statistica fatta eseguire dal ministro scrivente dava 369 reati esclusivamente per competizioni politiche: di questi 74 erano omicidi, 79 lesioni personali, 75 violenze private per bande, 72 per danneggiamenti, 37 per appiccati incendi. Certe regioni vivono sotto un regime di terrore per cui non si possono nemmeno tenere i processi penali in quanto le parti lese e i testimoni si guardano bene dal deporre per tema d’essere ammazzati o almeno bastonati».

Ai primi di ottobre un nuovo colpo decisivo all’autorità dello Stato fu inferto nella Venezia Tridentina da Starace, Alberto De Stefani e Farinacci che abbatterono il «governatore da operetta» Luigi Credaro. Così i fascisti «l’avevano fatta finita con la repubblichetta tedesca di Bolzano». Sui muri di quella città e di Trento apparvero scritte minacciose secondo le quali la «prima tappa della marcia su Roma» era compiuta. Mussolini, galvanizzato da un ulteriore successo, disse che in Italia c’erano ormai due Stati, quello liberale e quello fascista, e poiché i cittadini si chiedevano quali dei due sarebbe prevalso, egli non aveva dubbi a rispondere: lo Stato fascista, essendo il migliore.

Erano giorni in cui poteva succedere tutto e il contrario di tutto. Il 16 ottobre il duce chiamò a Milano, per un incontro che sarebbe dovuto rimanere segreto, Balbo, Michele Bianchi, De Bono, De Vecchi, ai quali affidò l’incarico di organizzare militarmente una marcia su Roma. Non si poneva però a questa marcia l’obiettivo della conquista violenta del potere, rovesciando le istituzioni in atto, ma solo quello di forzare la mano al re per indurlo a consegnare il governo del paese ai fascisti. Mussolini si sentiva stretto fra due fuochi. Sebbene lo definisse un «inconcludente» temeva d’Annunzio che avrebbe sempre potuto indire una grande adunata pacificatrice di combattenti a Roma, nella giornata del 4 novembre; temeva anche Giolitti di cui non si fidava minimamente. Non mancò infatti di mettere in guardia i suoi seguaci: «Se Giolitti torna al potere siamo fottuti. Ricordatevi che a Fiume fece cannoneggiare d’Annunzio». Lo diceva perché De Bono e De Vecchi si mostravano dubbiosi sui tempi troppo ravvicinati della marcia. Innervosito, ridicolizzava le loro perplessità: «Dicono che mancano i bottoni alle uose. Credono di dover partecipare a una parata

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d’onore. Dicono che non sono pronte le divise. Non capiscono che se passa questo momento favorevole, è finita per noi».

Luigi Facta era lo zimbello di Mussolini. Avendo Facta dichiarato a Pinerolo di «nutrire fiducia», pure in un caos che non riusciva a dominare, il duce ne definì il discorso un «funerale di prima classe» per il governo; disse che a vedere Facta gli veniva sempre voglia di «tirargli i baffi»; erano «baffi che davano un certo rilievo, tipico d’una faccia di furiere di alloggiamento, al nostro caro e simpatico e roseo e ottimista presidente».

Mussolini esaltava invece, modestia a parte, il proprio discorso di Udine; invitava gli italiani a confrontarlo con quello di Pinerolo: da un lato la forte voce del fascismo, dall’altro quella del «liberalismo declinante». Facta non sapeva rispondere che con parole di ammirazione per il soccorso prestato dagli squadristi della Lunigiana alle vittime dello scoppio d’una polveriera a Forte Falconara. Disse che il fascismo aveva compiuto in quell’occasione «cose mirabili» e che, con una «gioventù così generosa, l’Italia poteva chiamarsi il primo paese del mondo».

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VII

Si approfondiva la crisi dei socialisti che espellevano dal partito i riformisti disponibili a soluzioni ministeriali, e i fascisti preparavano per il 24 ottobre la convocazione a Napoli di una grande adunata, a mo’ di rassegna delle loro forze. «Siamo pronti a tutto osare», diceva Balbo a Mussolini che, alla vigilia dell’adunata, gli chiedeva se l’organizzazione militare delle squadre fosse pronta a «un’azione rivoluzionaria su Roma». Il governo ancora non capiva a pieno la gravità del momento, anche perché Mussolini non rivelava interamente i suoi propositi, né probabilmente egli stesso sapeva che cosa fare.

Luigi Facta continuava a illudersi che non si sarebbero avute crisi extraparlamentari. Lo diceva in un telegramma al re nell’imminenza dell’adunata partenopea di cui comunque sottovalutava la pericolosità: «Parmi che situazione si presenti meno preoccupante». Anche il generale Badoglio era ottimista: «Al primo fuoco», esclamava, «tutto il fascismo crollerà». Anzi si diceva che egli si fosse assunto il compito di «affogare nel sangue il fascismo». Mentre Mussolini gli dava sulla voce, il generale negava di aver pronunciato quelle parole e proclamava di non aver mai assunto il cruento incarico che gli si attribuiva. Facta, nutrendo fiducia, annunciava che la Camera veniva convocata per il 7 novembre, cosa che equivaleva a respingere la principale richiesta di nuove elezioni avanzata dai fascisti e che indusse Mussolini a bruciare le tappe dell’insurrezione. «Coglieremo l’attimo fuggente», disse faustianamente; ma per ragioni tattiche e per confondere le idee agli avversari, mostrava ancora di voler trattare.

Il governo faceva pur qualcosa nell’imminenza dell’adunata napoletana e in previsione di eventi che avrebbero potuto ripercuotersi sulla capitale. Marcelle Soleri, ministro della Guerra, aveva impartito alcune disposizioni volte a «impedire assolutamente l’ingresso dei fascisti in Roma»; al tempo stesso raccomandava «di evitare, in ogni modo, un conflitto tra fascisti ed Esercito, e la conseguente guerra civile che S. M. il Re non voleva». Il generale Pugliese, che aveva l’incarico di porre in atto gli ordini, aveva istituito fin da settembre una serie di sbarramenti, blocchi stradali e ferroviari, per frenare le minacciate incursioni fasciste. Militarmente, lo

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Stato avrebbe potuto controllare la situazione e prevalere sulle squadre fasciste male armate e peggio equipaggiate; il punto debole risiedeva nell’atteggiamento del re, il quale non intendeva assumersi la responsabilità d’un bagno di sangue, pena l’abdicazione.

I fascisti arrivarono a Napoli quando già i loro capi avevano da qualche giorno preparato il piano insurrezionale e suddiviso il territorio nazionale in uno scacchiere di dodici zone attribuendone il comando a loro uomini altamente rappresentativi. A quattro personaggi ancor più rilevanti - Balbo, De Bono, De Vecchi, Michele Bianchi, detti per l’occasione quadrumviri - venne affidato il comando supremo delle operazioni. Come sede del Quartier generale fu prescelta la città di Perugia, ma in seguito ad alcune obiezioni si capì che la scelta era sbagliata essendo il capoluogo umbro tagliato fuori dalle grandi linee di comunicazione. Si propose allora di spostare il Quartier generale ad Orte, importante nodo ferroviario, ma il trasferimento rimase inattuato per l’impossibilità di sapere in breve tempo che cosa ne pensasse Mussolini.

Il piano insurrezionale imponeva l’occupazione degli edifici pubblici nelle principali città; il concentramento delle camicie nere a Santa Marinella, Perugia, Tivoli, Monterotondo e sul Volturno; l’ultimatum al governo Facta per la cessione dei poteri; l’entrata in Roma e la presa di possesso «ad ogni costo» dei ministeri. Nel piano si prospettavano alcune ipotesi subordinate di ripiegamento e di contrattacco che non prendevano minimamente in considerazione l’eventualità d’una definitiva disfatta degli squadristi. Insomma, nel caso d’una sconfitta durante il tentativo di occupare la capitale, le milizie fasciste «avrebbero dovuto ripiegare verso l’Italia centrale, protette dalle riserve ammassate nell’Umbria». Quindi, dopo aver proceduto alla costituzione del governo fascista in una località del centro Italia, avrebbero dovuto riprendere 1’«azione su Roma fino alla vittoria e al possesso». La colonna comandata dal capitano Bottai (dislocata fra Tivoli e Valmontone) avrebbe dovuto accerchiare il quartiere romano di San Lorenzo entrando dalla Porta Tiburtina e da Porta Maggiore; la colonna agli ordini del tenente Ulisse Igliori, mutilato medaglia d’oro, affiancato dal generale Fara (Monterotondo) avrebbe dovuto premere su Porta Salaria e Porta Pia; e infine la colonna del marchese Dino Perrone Compagni (Santa Marinella) sarebbe dovuta penetrare in città da Trastevere.

Tutti questi particolari erano sconosciuti a Facta e ai suoi ministri, anche a Giolitti, i quali erano fermi nella convinzione che i fascisti si sarebbero riuniti a Napoli, non per mettere a punto i tempi della marcia su Roma, ma per decidere se, come e quando entrare in un governo democratico. Tra i ministri di Facta, soltanto Taddei e Giovanni Amendola sentivano puzzo di

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bruciato, ma non furono ascoltati quando chiesero che l’adunata partenopea non fosse autorizzata.

I fascisti, a decine di migliaia, giunsero a Napoli fin dalle prime ore del 24 ottobre, disponendo anche d’una cavalleria, organizzata in squadroni, quella di Giuseppe Caradonna che si era accampata all’Arenaccia. Appena una piccola parte dei convenuti poté prendere posto nel teatro San Carlo dove si sarebbe avuto l’incontro con Mussolini. La platea e i palchi apparivano inverosimilmente gremiti di gente e inondati di gagliardetti, di labari, di fiamme nere. Il nero era il colore predominante nell’immenso teatro in cui la sera si rappresentava Madama Butterfly con scenari rutilanti. Rivoltelle e pugnali erano malcelati sotto le giacche di tutta quella folla rumorosa e infervorata. La gran massa degli squadristi, più di trentamila camicie nere, bivaccava schiamazzante intorno al San Carlo, in piazza Plebiscito e sotto la Galleria tenendo in agitazione la città che tuttavia si sentiva protagonista di qualcosa di clamoroso.

Al San Carlo erano accorsi il sindaco di Napoli, l’intera giunta comunale, il prefetto ad ascoltare la parola di Mussolini. Numerosi erano i parlamentari, i professionisti, gli intellettuali. C’era anche Benedetto Croce, e non ultimi si aggiunsero all’uditorio i luminari dell’università. Croce, applaudendo, diceva a Luigi Russo seduto accanto a lui, che Mussolini era un ottimo commediante come ogni buon politico doveva essere. Le fanfare intonavano Giovinezza mentre dai palchi venivano lanciati migliaia di manifestini che inneggiavano al fascismo, al duce, ai quadrumviri. In quel finimondo, Facta inviava un sereno telegramma al re: «Informo Vostra Maestà che ritengo non avverrà nulla di importante riunione fascista Napoli, salvo sempre imprevedibili incidenti». Dal palcoscenico il capitano Sansanelli, ras napoletano, presentò il Gran Capo, accolto da frenetiche e irrefrenabili ovazioni. Lo vedevano come il soldato di Napoleone che fin dal primo bivacco portava nello zaino il bastone di maresciallo. Sul tavolo davanti a lui troneggiava una scultura in bronzo che raffigurava un leone nell’atto di schiacciare un’idra, che poi era l’idra sovversiva nelle intenzioni dei donatori. Mussolini aveva a tracolla sulla camicia nera una larga fascia di seta gialla e rossa, a simboleggiare i colori di Roma.

Alfine parlò. Rivolse un saluto alla città che li ospitava con tanto entusiasmo appellandola «grossa riserva di salvezza della nazione», «metropoli del Mezzogiorno», «regina del Mediterraneo». Lì a Napoli, città monarchica, confermava anzitutto il suo lealismo per la monarchia. Ricordò i suoi precedenti discorsi di Udine, di Cremona, di Milano, e con accenti gabrieldannunziani disse di aver «quasi vergogna» di parlare ancora. Ma doveva farlo perché lo richiedeva la storia. Ripeté il dilemma che torturava lui e i suoi seguaci: conquistare il potere per vie legali o per vie insur-

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rezionali? Di certo c’era la loro volontà di «diventare Stato» anche attraverso lo scioglimento della Camera, la riforma elettorale e nuove elezioni. Egli aveva chiesto l’assegnazione di cinque ministeri, e non la considerava una pretesa «eccessiva», ma il «deficiente governo» di Roma aveva risposto in maniera evasiva, anzi «ridicola», senza considerare che i fascisti non avevano nessuna intenzione di andare al potere attraverso la «porta di servizio». Ecco perché il problema diventava un «problema di forza», e i fascisti non potevano sottrarsi dall’affrontarlo in termini di forza se Roma insisteva nella sua sordità. Dunque, Mussolini ancora non rivelava in pubblico i suoi piani, anzi li camuffava per non allarmare Facta e impedirgli di apprestare ben più valide difese di quelle sommariamente prese, per lasciarlo nella convinzione già espressa al re, secondo la quale escludeva «la probabilità di un colpo sulla capitale».

Al termine del discorso di Mussolini fu inscenata nelle vie di Napoli una rumorosa sfilata delle camicie nere sulla base delle disposizioni assai minuziose emanate il giorno precedente e contenute nel «Foglio d’ordini n. 1» della milizia fascista. Tra gli orgogliosi manifestanti, e non solo tra i più sfegatati, serpeggiava molta amarezza perché avrebbero voluto marciare all’istante su Roma. Fin da quel primo Foglio d’ordini, Mussolini fu chiamato «Duce». Il grido di «Roma, Roma» si levava dalle squadre che si ammassavano intorno al palco in piazza del Plebiscito ansiose di ascoltare anch’esse la parola del loro Capo che aveva guidato la sfilata. Tutti gridavano «Andiamo a Roma», incoraggiati da Balbo che era sceso tra la folla, e Mussolini dovette frenare il loro entusiasmo, senza smorzarglielo del tutto e senza deluderli troppo. Ci volevano abili parole ben calibrate, ed egli le disse: «Questa dimostrazione è fine a se stessa, non può tramutarsi in una battaglia. Ma io vi dico con tutta la solennità che il momento impone: o ci daranno il governo o lo prenderemo, calando su Roma. Ormai si tratta di giorni e forse di ore».

Soltanto a una tattica astuta, all’esigenza di una sorta di captatio benevolentiae, avevano corrisposto i suoi accenni alla monarchia nell’intervento del mattino. E che fosse così venne a dimostrarlo un piccolo evento del pomeriggio quando in piazza del Plebiscito si inneggiava al re, e Mussolini non volle associarvisi, sebbene sollecitato dal quadrumviro De Vecchi che gli era accanto. Lo stesso De Vecchi raccontava l’episodio: «Mi rivolsi a Mussolini e presolo per un braccio gli dissi in tono di comando:

"Grida anche tu: Viva il Re!". Non rispose. Ripetei: "Grida, Viva il Re!". Non disse nulla. Insistetti per la terza volta e lui mi rispose secco: "No! Finiscila!". "Perché?" replicai. Alzò le spalle e si passò una mano sul viso nel suo gesto abituale. Guardò la folla e disse: "Basta che gridino loro. Basta e avanza!"».

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Le vere decisioni si presero la sera, in segreto, nella camera occupata da Mussolini all’Hotel du Vésuve sul lungomare. Erano in otto, compreso lui: i quadrumviri Balbo, De Bono, De Vecchi, Michele Bianchi, e i vicesegretari del partito Starace, Teruzzi, Bastianini. Qui il duce diede un ordine: «Scattare alla mezzanotte del 27 ottobre». E intanto Facta inviava al Re un nuovo telegramma rassicurante, del tutto fuori della realtà: «Credo ormai tramontato progetto marcia su Roma». La decisione di Mussolini sorprese un po’ tutti perché inopinatamente aveva anticipato i tempi della marcia. Il clamoroso successo della manifestazione napoletana, arricchita da un telegramma augurale del presidente della Camera, Enrico De Nicola, lo aveva convinto a rompere gli indugi. Inoltre doveva cogliere in contropiede il governo che si preparava alla manifestazione patriottica del 4 novembre chiamando a Roma d’Annunzio per un discorso pacificatore. E il Vate aveva risposto: «Ho sete dell’acqua di Trevi!».

In quella camera d’albergo si discusse su pochi aspetti secondari dell’ordine di Mussolini. Si decise che la «mobilitazione occulta» si sarebbe avuta venerdì 27 e che quindi la mattina del 28 bisognava «scattare sugli obiettivi parziali, prefetture, questure, stazioni ferroviarie, poste e telegrafi, stazioni radio, giornali e circoli antifascisti, camere del lavoro». Doveva seguire lo «scatto sincrono» su Roma delle tre colonne di Santa Marinella, Monterotondo e Tivoli «evitando di scontrarsi con i militari». Azioni particolari erano previste per Milano, Torino e Parma. Il tutto veniva diligentemente appuntato sul retro di alcuni moduli per telegramma da Balbo, che era il più giovane e che fungeva da segretario. Nel corso della riunione, Balbo annunciò di aver preparato per proprio conto squadre di arditi, una sorta di quinta colonna, che avrebbero raggiunto Roma al fine di «creare panico» qualora la città avesse resistito all’«invasione delle Camicie nere». Si fissarono infine gli «obiettivi del movimento» che non consi-stevano nel rovesciare ogni cosa e portare Mussolini alla testa di un governo rivoluzionario, ma che più modestamente puntavano alla formazione di un ministero con «almeno sei ministri fascisti nei posti più importanti». L’indomani, quando nella sala dei duchi di Maddaloni si riunì il Consiglio nazionale del partito, scarso era l’interesse per il dibattito che vi si svolgeva. Era soltanto necessario che la «commedia napoletana», come la chiamava Balbo, continuasse per ingannare a distanza con le chiacchiere il governo, mentre si metteva a punto il programma delle operazioni. Nel corso di quel finto dibattito si levò qualche voce contraria all’attuazione della marcia su Roma, come quella di Dino Grandi che si opponeva a ogni azione di forza. Ma la «commedia» era durata abbastanza e a un certo punto Michelino Bianchi, che presiedeva la seduta, per porle fine prese spunto dal tempo che

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si era imbronciato ed esclamò: «Insomma, fascisti, a Napoli ci piove; che ci state a fare?».

La città ancora risuonava di Alalà e di inni fascisti quando Mussolini ripartì alla volta di Milano. A Roma non fece che una sosta brevissima, ma di rilievo perché s’incontrò con il Venerabilissimo Gran maestro della massoneria di piazza del Gesù, Raul Palermi, il quale offriva a lui, antimassone, aiuti concreti e la benevolenza degli ambienti militari. In genere i capi fascisti non disdegnavano di essere «fratelli». Balbo, Bottai, Costanzo Ciano già appartenevano alla loggia di Palermi, mentre Farinacci, Storace, Sante Ceccherini erano affiliati alla massoneria di palazzo Giustiniani, capeggiata da Domizio Torrigiani che aveva sostenuto finanziariamente l’impresa di d’Annunzio a Fiume.

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VIII

Mussolini era a Milano, il re se ne stava nella residenza di San Rossore in provincia di Pisa; i quadrumviri tardavano a raggiungere il Quartier generale di Perugia. A Roma si svolgeva un intenso lavorio di incontri e di telefonate alla ricerca d’una qualche soluzione. Facta, Salandra, Orlando, Giolitti, ognuno aveva un piano da proporre. Avevano qualcosa da dire anche i fascisti Costanzo Ciano, Grandi, Federzoni, De Vecchi. Così le iniziative degli uni si incrociavano o si scontravano con quelle degli altri. Se ne stavano apparentemente defilati Mussolini e Vittorio Emanuele, i veri protagonisti del dramma, così diversi tra loro e pur così simili.

In sordina il duce si diceva disposto a trattare una soluzione incruenta basata sul conferimento ai fascisti di quattro ministeri -Esteri, Guerra, Marina, Lavoro oppure Tesoro, Marina, Agricoltura, Colonie - e quattro sottosegretariati in un governo Giolitti. In realtà Mussolini meno che mai voleva Giolitti e, arruffando sempre più le sue trame a proprio beneficio, faceva credere a Facta di essere lui il preferito dei fascisti per la presidenza. Facta cadeva nella trappola e telegrafava al re: «Mussolini mi fa sapere che sarebbe disposto entrare Ministero anche con qualche rinunzia portafogli chiesti purché Ministero stesso sia presieduto da me». Nella mattinata del 26, Facta, ancora suggestionato dalle avances di Mussolini, mostrava ai suoi di saperla lunga e sosteneva che le minacce dei fascisti erano «in parte un bluff». Quando cominciò a capire che Mussolini intendeva giocarlo, inviò un nuovo telegramma al re per dirgli questa volta che «informazioni improvvisamente giunte» indicavano «la possibilità di qualche tentativo fascista». Si decise perciò a riunire il governo perché si dessero le dimissioni, ma non si raggiunse un accordo che su una soluzione di ripiego secondo la quale i ministri rimettevano nelle sue mani gli incarichi in vista d’un eventuale rimpasto aperto ai fascisti. Ed era in sostanza la soluzione che Facta in cuor suo caldeggiava, sempre sperando di potersi accordare con Mussolini. Fortemente contrari alle dimissioni del governo erano il ministro degli Interni, Taddei, e quello della Giustizia, Alessio, che propugnavano l’arresto immediato dei capi fascisti. Taddei aveva già pronto l’ordine da impartire ai prefetti. In seno al governo c’era chi ridicolizzava l’idea di imporre le manette al fascismo. «Volete arrestare

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Mussolini - diceva il ministro degli Esteri, Schanzer - ma vi saranno altri dieci che prenderanno il suo posto».

Con quell’ultima sua speranza in cuore, Facta prendeva tempo e tardava perfino a informare Vittorio Emanuele, il quale, pur in una situazione esplosiva, la mattina del 27 s’inoltrò nei boschi di San Rossore per una partita di caccia. Nella serata dello stesso giorno fu però di ritorno a Roma, compiendo il percorso in treno. Già le squadre fasciste erano in movimento in alcune città del centro-nord anticipando gli ordini del quadrumvirato, mentre, al momento della stretta finale, si accentuavano le divergenze fra i massimi esponenti del partito. Dino Grandi ancora si opponeva a Mussolini, imprecava contro il «vento di follia» che soffiava sul fascismo. A Perugia arrivavano tre dei quadrumviri poiché De Vecchi si attardava nella capitale alla ricerca di un accomodamento «diplomatico».

Il re era tornato a Roma, Mussolini non si muoveva da Milano. Il governo impartiva precise disposizioni per bloccare il transito dei convogli ferroviari fascisti nelle stazioni di Orte, Civitavecchia, Avezzano, Segni, Viterbo e quindi per impedire che raggiungessero Roma. Il famoso motto garibaldino «Roma o Morte» veniva trasformato da Longanesi (o da Suckert e Maccari?) in una buffa invocazione, «Roma o Orte», per rappresentare sarcasticamente le difficoltà di entrare nella capitale. Il governo ordinava il passaggio della tutela dell’ordine pubblico dalle autorità civili alle autorità militari. Vittorio Emanuele a Roma s’incontrava con Facta; Mussolini a Milano ostentava indifferenza. Si recava - con la moglie, con Edda, e, a qualche poltrona di distanza con un’amante, Margherita Sarfatti - al teatro Manzoni in cui si rappresentava il Cigno di Molnar. Molti binocoli venivano puntati su di lui, quando nella sala si accendevano le luci. Appena si faceva buio, Mussolini lasciava il suo posto per parlottare nei corridoi, non visto, con alcune persone del seguito. All’inizio del secondo atto sussurrò all’orecchio della moglie: «Tutto è pronto», e di soppiatto lasciò il teatro. Si poteva osservare che similmente Giulio Cesare, prima di attraversare il Rubicone, aveva finto di interessarsi a un combattimento fra gladiatori nell’arena di Ravenna, per allontanare da sé ogni sospetto sulla preparazione del colpo di mano.

Facta riuniva nuovamente il governo e stavolta, per il precipitare degli eventi, la maggioranza dei ministri si disse favorevole alle dimissioni del gabinetto. Anche Vittorio Emanuele sembrava determinato a respingere il ricatto di Mussolini. Appena tornato nella capitale, il re ebbe due colloqui con Facta. In quello svoltosi nella saletta reale della stazione Termini, dichiarò «risolutamente» - come riferì il ministro della Guerra, Soleri - che Roma «doveva essere difesa a ogni costo» e che «i fascisti armati» non dovevano entrarvi poiché «la Corona doveva poter deliberare in piena

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libertà e non sotto la pressione dei moschetti fascisti». Ma gli attribuivano anche altre parole in dialetto piemontese: «Non faccio un ministero durante la violenza. Abbandono tutto. Vado con mia moglie e mio figlio in campagna». Non lo vedevano fermo e deciso, ma stanco e accigliato, contrariato dalle responsabilità che gli cadevano addosso. Alberto Bergamini forniva del colloquio una versione più articolata, secondo la quale Facta proponeva al re di proclamare «lo stato di assedio in massima deliberato dal ministero». Vittorio Emanuele gli rispondeva che la misura giudicata necessaria dal ministero «era ben grave e incresciosa», e che per queste ragioni «non l’aveva mai consentita dal giorno in cui era salito al trono, nemmeno nei momenti più turbinosi». Facta replicava: «Ma come si può tollerare che i fascisti occupino la capitale suscitando chi sa quale disordine e imponendo la loro volontà che è la conquista, illegale, del governo?». E il re: «Vero, purtroppo. Ma aspettiamo almeno fin che è possibile, fin che c’è la speranza di evitare un conflitto funesto. Voglia stasera, tardi, portarmi a villa Savoia gli ultimi telegrammi, le ultime notizie». Facta si arrendeva: «Sì, Maestà».

Estremamente sbrigativa era infine la variante di quel cruciale colloquio offerta da De Vecchi, il quale scriveva che il sovrano «guardò appena» Facta e non lo trattenne più di cinque minuti; poi fuggevolmente gli disse: «Mantenga l’ordine pubblico». Senza aggiungere altro se ne andò a villa Savoia. Qui avvenne il loro secondo abboccamento sul quale si facevano vaghe supposizioni. Qualcosa di più preciso su entrambi i colloqui rivelò il generale Cittadini, aiutante di campo del sovrano: «A Facta, il re disse, tanto alla stazione quanto a villa Savoia: "Mi proponga, con il consenso totale dei ministri, i provvedimenti che crede debbano essere messi in effetto; vedrò io poi, giacché non conosco i dettagli della gravissima situazione che lei mi descrive, cosa si deve fare"». Erano affermazioni attendibili, che poi furono implicitamente confermate dallo svolgimento dei fatti.

Facta comunicò a Vittorio Emanuele le dimissioni del governo, ma furono respinte, sicché, svegliato in piena notte a causa dei successi che gli squadristi ottenevano nel paese, riunì alcuni ministri coi quali diramò urgenti disposizioni di contenimento e preparò il testo d’un decreto di stato d’assedio. L’Italia era in subbuglio. Efrem Ferraris, dal suo osservatorio privilegiato di capo di gabinetto del ministro Taddei, annotava con nervosismo: «Al Viminale i telefoni che collegavano le prefetture al Ministero non avevano tregua e dopo la mezzanotte le notizie divennero allarmanti. Assistevo nella notte, nel silenzio delle grandi sale del Viminale, allo sfaldarsi dell’autorità e dei poteri dello Stato. Si infittivano, sui grandi fogli che tenevo dinnanzi a me, i nomi che andavo registrando delle prefetture occupate, le indicazioni degli uffici telegrafici invasi, di presìdi

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militari che avevano fraternizzato coi fascisti fornendoli di armi, dei treni che le milizie requisivano e che si avviavano carichi di armati verso la Capitale».

Non dovunque gli squadristi avevano la meglio. Verona rimaneva saldamente nelle mani dell’esercito; le camicie nere penetrate in alcuni edifici pubblici della città erano accerchiate dai soldati e si trovavano nell’impossibilità di muoversi. A Milano i fascisti furono immobilizzati da pattuglioni di carabinieri e di guardie regie che avevano sbarrato le arterie principali con autoblindo e con piazzamento di mitragliatrici. I fascisti, che non erano riusciti a occupare né la prefettura né la questura, ripiegarono sulla sede dell’«Avanti!» in via Settala, ma anche lì furono respinti da reparti dell’esercito. Il direttore Pietro Nenni commentò con amarezza che «il destino, sovente ironico, fece sì che l’ultimo atto di energia d’un regime agonizzante fosse per difendere il giornale del proletariato». Fu un ultimo e breve atto perché i fascisti, in seguito a un secondo e più robusto attacco, penetrarono nella redazione del giornale e ne fecero scempio. Mussolini, in un’altra redazione, quella del «Popolo d’Italia», metteva a punto il proclama dei quadrumviri. Quel giornale era diventato un fortilizio, come pure ben guardata da squadre di arditi era l’abitazione del duce, dove personalmente Rachele faceva affidamento sulle sue tre famose bombe «Sipe».

«Fascisti! Italiani! L’ora della battaglia decisiva è suonata», così cominciava il proclama dei quadrumviri. Con iattanza si dichiarava decaduto il governo e disciolta la Camera; si affermava che 1’«esercito delle camicie nere» riafferrava la «vittoria mutilata» per ricondurla alla «gloria del Campidoglio» puntando «disperatamente» su Roma. Si asseriva che il fascismo non era in marcia contro l’esercito, «ma contro una classe politica di imbelli e di deficienti»; che la borghesia produttiva, le genti del lavoro non avevano nulla da temere, anzi potevano giurare che i loro «giusti diritti» sarebbero stati lealmente tutelati perché il fascismo, «snudando la spada» e chiamando a testimone «Iddio sommo», tendeva «alla salvezza e alla grandezza della Patria».

A Roma, le alte sfere della monarchia e del governo erano all’erta. Per prima cosa il ministro Taddei autorizzò le forze armate a contrastare l’azione insurrezionale dei fascisti «con qualunque mezzo». Era sicuro del lealismo dell’esercito - nonostante le defezioni dei generali De Bono, Ceccherini, Gustavo Farà e di altri ufficiali come Igliori e Aurelio Padovani - e nonostante le non celate simpatie per il fascismo del duca d’Aosta, del generale Diaz, dell’ammiraglio Thaon di Revel. I suoi ordini furono disci-plinatamente rispettati, e si poteva esser certi che il presidio della capitale avrebbe saputo respingere e battere le squadre fasciste.

Fin dalle prime ore del 28 ottobre, il ministro Taddei aveva fatto affiggere sui muri di Roma il manifesto col quale si proclamava lo stato d’assedio. Ma Facta, quando si recò dal sovrano che secondo le aspettative avrebbe

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dovuto controfirmare il decreto, ebbe la sorpresa di non trovarlo consenziente. E lui non poté fare altro che riporre il foglio nella grande busta gialla che aveva ancora tra le mani. Che cosa aveva indotto Vittorio Emanuele a negare la controfirma a un provvedimento costituzionale votato dal governo e che testimoniava una prova di fermezza dello Stato? S’intrec-ciavano innumerevoli ipotesi nel cercare di rispondere a un così inquietante interrogativo. Si poteva anzitutto dire che per propria convinzione il re intendesse evitare al paese un bagno di sangue e che, nell’evenienza di una guerra civile, fosse pronto a rinunciare al trono. Né si poteva escludere che egli temesse un colpo di testa dell’odiato cugino Emanuele Filiberto d’Aosta, sempre in agguato con l’idea perversa di strappargli la corona. In quei giorni caldi il duca aveva lasciato Torino e si era recato in Umbria, a Bevagna, una località a una cinquantina di chilometri da Perugia, epicentro della progettata insurrezione. Il re si consultò nella notte con varie personalità, col generale Diaz, con l’ammiraglio Thaon di Revel che lo consigliarono di tentare ancora la via d’un accordo con Mussolini, magari cedendogli, insieme ad altri ministeri, anche il portafoglio degli Interni. Vide Federzoni, esponente dei nazionalisti i quali, pur chiamandosi «Sempre pronti», si dissociavano dalla violenza degli squadristi; mostrò interesse per le opinioni del quadrumviro De Vecchi che aveva lasciato Perugia ed era tornato a Roma dicendosi disposto ad abbandonare Mussolini e a schierarsi con lui qualora i fascisti avessero attaccato il Quirinale.

Altri lavoravano per la formazione di un governo Salandra-Mussolini e chiedevano che il duce tornasse a Roma, tanto più che il re aveva già affidato l’incarico allo statista pugliese. Mussolini obiettava, ma soltanto per prendere tempo, che una decisione su un’eventuale sospensione della marcia spettava ai quadrumviri. Intanto non si muoveva da Milano. Il re, che da villa Savoia si era recato al Quirinale, esprimeva a Facta tutta la sua sorpresa per la precipitazione con cui si erano imbrattati i muri della capitale con il proclama di stato d’assedio da lui non controfirmato. Mussolini tirava ancora la corda, avvertendo la debolezza del sovrano. Alzava il prezzo, non si accontentava più d’una manciata di ministeri, ma pretendeva un «governo di fascisti» esplicitamente da lui presieduto. Nella richiesta era sostenuto apertamente dalla Confederazione dell’industria, più fascista di molti fascisti perché difatti De Vecchi, Grandi, Costanzo Ciano si dicevano propensi a un governo Salandra con ministri fascisti. Anzi De Vecchi si fece apertamente portavoce del re, e, nella curiosa veste di quadrumviro e di realista, inviò a Mussolini un messaggio in cui, «avendo preso ordine da Sua Maestà», lo pregava «di venire immediatamente a Roma con ogni mezzo».

Mussolini anzitutto s’infuriò per il fatto che un quadrumviro avesse inopinatamente lasciato Perugia e si fosse recato a Roma mettendosi al servizio di casa Savoia, poi precisò che non si sarebbe mosso da Milano

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senza un esplicito invito del Quirinale a formare un governo. Di questo governo aveva già messo in circolazione una possibile lista che prevedeva al dicastero degli Interni il nome del prefetto di Milano, di quell’Alfredo Lusignoli che veniva in tal modo legato al carro fascista e costretto a non ostacolare l’insurrezione nella più importante città italiana dopo la capitale.

Irremovibile, Mussolini scrisse sul «Popolo d’Italia» del giorno successivo, 29 ottobre, un articolo in cui caparbiamente diceva che la «vittoria non poteva essere mutilata da combinazioni dell’ultima ora», e che, «per arrivare a una transazione Salandra non valeva la pena di mobilitare»; il nuovo governo doveva essere «nettamente fascista», per cui egli avrebbe respinto «ogni altra soluzione». Dino Grandi gli consigliava duttilità ma lui continuava a dire di no: «Non valeva la pena di fare una rivoluzione, avere dei morti, per assistere alla resurrezione di don Antonio Salandra e ottenere quattro portafogli. Non accetto». Il tentativo di Salandra moriva sul nascere, e a Mussolini si schiudeva la strada del potere.

«É la Casa reale che parla», diceva una voce al telefono. Lo cercavano, ma neppure Rachele, che rispondeva dall’apparecchio della sua abitazione, sapeva dove fosse. Lo cercavano tutti, i capi fascisti e quelli nazionalisti; lo cercava, a nome del re, il generale Cittadini, ma lui, sospettoso e dubbioso nell’attimo supremo, era introvabile. Finalmente riapparve sulla scena. Sapeva che il sovrano non pensava più a un governo Salandra ma che intendeva affidare a lui la formazione del ministero. Incoraggiato, fece comunicare al Quirinale che non gli sarebbe bastata una chiamata verbale. «Prima di muovermi desidero ricevere un telegramma di Cittadini», disse e di quel telegramma dettò il testo. Il suo era un comportamento napoleonico, commentava Albertini. La convocazione ufficiale e telegrafica, con la designazione a presidente del Consiglio, gli pervenne verso mezzogiorno, ed egli aveva già telefonato frettolosamente alla moglie per chiederle di preparare una valigia «con un po’ di roba e un vestito».

Si accingeva a partire per Roma, ma fino all’ultimo minuto non poteva non essere diffidente e perplesso. Stava vincendo, pur non avendo fatto altro che minacciare la marcia su Roma senza attuarla. Sapeva bene di affrontare l’esercito con una pistola scarica, perché indubbiamente soldati e carabinieri, se fossero entrati in azione, avrebbero sbaragliato quei quarantamila squadristi i quali, cosi male in arnese, solo a guardarli in quei giorni piovosi d’ottobre, davano più l’impressione d’una ritirata che non d’un’avanzata, come diceva Emilio Radius. Dove l’esercito interveniva, le squadre rientravano nei ranghi. Naturalmente, alla notizia dell’avvenuta sospensione dello stato d’assedio, esse sciamarono in baldoria e confusione, menando le mani dovunque, ma senza ancora muovere sulla capitale.

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IX

«Voglio partire in perfetto orario. D’ora in poi ogni cosa deve camminare alla perfezione», disse Mussolini al capostazione di Milano, mentre in sleeping-car marciava su Roma con un fascio di fiori tra le braccia, dono d’una ammiratrice. Erano le 20,30 del 29 ottobre, e alle 10,50 del giorno successivo, un lunedì, scese dal direttissimo alla stazione Termini, con un’ora e quaranta minuti di ritardo sul previsto. I fascisti accorsero in massa a festeggiarlo. Anche durante il viaggio lo avevano applaudito sotto una fitta pioggia nelle stazioni di passaggio causando il ritardo che lo aveva via via sempre più innervosito. Con lui entrarono in Roma gli squadristi che si erano accampati nei dintorni, in attesa del fatidico segnale. Il primo dei loro sferraglianti autocarri penetrò in città da piazza del Popolo, e la marcia su Roma si compiva praticamente con l’assenso di Vittorio Emanuele, senza che l’esercito la contrastasse e quando il duce del fascismo era già in pectore capo del governo, con la lista dei ministri in tasca.

Alle 11,10 il vincitore era al Quirinale. Non si era nemmeno cambiato di camicia, una camicia nera che reggeva lo sporco, con la quale aveva lasciato Milano. Aveva in testa un fez da cui pendeva un grosso fiocco. Il colloquio col re, che gli confermò l’incarico, si protrasse per un’ora. I cronisti gli attribuirono un’altisonante frase di saluto: «Porto a Vostra Maestà l’Italia di Vittorio Veneto, riconsacrata dalla vittoria, e sono il fedele servo di Vostra Maestà». Ma più probabilmente gli parlò del suo abbigliamento non protocollare: «Chiedo perdono a Vostra Maestà se sono costretto a presentarmi ancora in camicia nera, reduce dalla battaglia, fortunatamente incruenta, che si è dovuta impegnare». Anche lui riconosceva implicitamente che una vera e propria marcia degli squadristi su Roma non c’era stata. Aveva conquistato il potere con ben orchestrate e abili manovre politiche, con azioni preparatorie sempre più massicce, quelle sì cruente, e grazie all’estrema debolezza dello Stato liberale.

L’ascesa dei fasci era stata rapida e bruciante. Dal giorno della loro pressoché clandestina fondazione all’atto della clamorosa conquista del potere, non erano trascorsi quattro anni. Mussolini diventava presidente del Consiglio appena trentanovenne. Mai nessuno in Italia prima di lui, aveva raggiunto quel traguardo in età così giovane. Cavour era andato al potere a

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quarantadue anni, e già si gridava al miracolo; Gioberti a quarantasette, D’Azeglio e Bonomi a quarantotto, Nitti a cinquantuno, Orlando a cinquantasette, Facta a sessantuno. Mussolini aveva preso alloggio all’Hotel Savoia, e per prima cosa trasse dalla valigetta di fibra a soffietto, che gli aveva preparato Rachele, un vecchio oggetto di metallo arrugginito, deponendolo sul tavolo. Era un ferro di cavallo raccolto alcuni anni prima, una notte d’inverno, in piazzale Loreto a Milano. «Mi porterà fortuna» aveva detto, superstizioso com’era, quella notte lontana. Oh, piazzale Loreto!

In serata portò al sovrano la lista dei ministri e il governo nacque il giorno successivo. Intanto le squadre non stavano ferme. A Napoli alcuni fascisti penetrarono a notte fonda nella redazione del «Mattino», e il loro comandante, nelle stanze deserte, si avvicinò con irruenza all’unica persona presente, uno squattrinato correttore di bozze, Francesco Mayer, gridando: «Sono il capo della Disperata di Firenze». «E io sono don Liccio Mayer, disperato di Napoli», rispose senza scomporsi il povero correttore.

Dalla lista originaria preparata da Mussolini erano scomparsi i nomi di Luigi Einaudi, non amato dagli industriali e dall’alta finanza perché troppo severo, e del prefetto Lusignoli. Fu depennato anche il nome del socialista riformista Baldesi, per la ferma opposizione della destra padronale industriale e agraria, frustrando i lievi propositi mussoliniani per un nuovo tentativo pacificatore tra fascisti e riformisti. Tuttavia la Confederazione del lavoro, che aveva Baldesi tra gli esponenti, evitò egualmente di proclamare uno sciopero generale contro la presa del potere da parte degli squadristi, forse temendo un nuovo smacco pari a quello subìto con il cosiddetto sciopero legalitario. Nelle trattative di governo con i sindacalisti, Mussolini aveva offerto un ministero anche a un altro confederale. Bruno Buozzi.

Divennero suoi ministri il duca della Vittoria, Diaz, e il duca del Mare, Thaon di ReveL, che gli assicuravano il sostegno dei militari. Per i nazionalisti entrò nel governo Federzoni; per i popolari, nonostante l’opposizione di don Sturzo, accettarono l’incarico Tangorra e Cavazzoni, mentre Giovanni Gronchi ebbe un sottosegretariato; il tutto con il tollerante collaborazionismo di De Gasperi che sperava in una possibile costituzionalizzazione del fascismo. Per i demo-sociali fu fatto largo a Colonna di Cesarò; ebbe un ministero la destra salandrina, con De Capitani; ne ebbero due i giolittiani, con Carnazza e Teofìlo Rossi; un filosofo cosid-detto indipendente, Giovanni Gentile, fu destinato alla Pubblica istruzione. Ai fascisti oltre ai due portafogli che Mussolini attribuì a se stesso, furono assegnati tre ministeri nelle persone di De Stefani, di Aldo Oviglio e dell’ex dannunziano Giuriati; ebbero anche nove sottosegretariati, su diciotto, che andarono tra gli altri a Giacomo Acerbo, a Pinzi, a De Vecchi e a Costanzo

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Ciano. Lui, presidente del Consiglio, assunse personalmente gli Interni e l’interim degli Esteri. La formazione fu chiamata «ministero nazionale», una denominazione che di per se stessa svelava la fitta rete di connivenze e favoreggiamenti che aveva facilitato l’ascesa dei fascisti al potere. Non ottenne incarichi Dino Grandi che aveva irritato il Capo. Molti furono gli scontenti, o perché lasciati fuori dalla compagine o perché, a loro avviso, non adeguatamente premiati. Si lanciavano accuse reciproche. Ciano parlava di Thaon di ReveL come di un povero vecchio cadente. Michele Bianchi minacciava le dimissioni da ogni carica perché De Bono non aveva ottenuto il ministero della Guerra. Con De Bono, il duce ebbe uno scontro telefonico. «Ascolta», gli disse Mussolini urlando nella cornetta, «tu vuoi subito il bastone di maresciallo. Ebbene, adesso non tè lo dò. Hai capito? Non te lo dò. Accontentati d’una cannuccia. Addio». Il prefetto Lusignoli, rimasto senza gli Interni, si schierò in Senato fra gli oppositori.

Quando Mussolini presentò al sovrano la lista dei ministri si era finalmente cambiato d’abito e di camicia. La nuova camicia, ch’era bianca, abbisognava dei gemelli ai polsini, a differenza della camicia nera cui bastavano i bottoni. Rachele non glieli aveva messi in valigia ed egli già si doleva di doversi recare al Quirinale con i polsini slacciati. Nessuno dei seguaci che lo attorniavano nella camera dell’Hotel Savoia, dove aveva preso alloggio, era in grado di trarlo d’impaccio essendo tutti in camicia nera e quindi a loro volta privi di quegli aggeggi. Finalmente apparve sulla porta della camera il direttore dell’agenzia giornalistica «Stefani», Gustavo Nesti, ed egli lo apostrofò bruscamente: «Avete dei gemelli?». «No, eccellenza, ho solo una figlia». «Perdio, dei gemelli ai polsini!». «Sì, eccellenza». «Datemeli». E Mussolini poté recarsi al Quirinale dove giunse in ritardo.

Nell’aula di Montecitorio, presentando il suo governo ai deputati, fece un discorso spavaldo e oltraggioso che tuttavia, nella sua ambiguità, fu interpretato come una rinuncia a rovesciare per intero il sistema liberaldemocratico. «Mi sono rifiutato di stravincere», disse, «e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Con trecentomila giovani armati di tutto punto, quasi misticamente pronti a un mio ordine, io potevo castigare tutti». S’interruppe per un attimo, come per richiamare l’attenzione dell’uditorio; poi riprese a dire, alzando il tono della voce: «Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il Parlamento e costituire un governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto».

De Nicola, presidente della Camera, lasciò correre l’ingiuria del «bivacco» sebbene Mussolini ne avesse oratoriamente sottolineato la rilevanza. Né si mostrò allarmato sulle prospettive dell’istituto parlamentare

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quando il duce, a conclusione del primo discorso da presidente del Consiglio disse, in tono annoiato: «Cinquantadue iscritti a parlare sulle mie comunicazioni sono troppi». Michele Bianchi pose l’accento proprio sull’insensibilità di ampi settori della Camera, così plasticamente rappresentata dal silenzio del suo presidente De Nicola: «Svillaneggiata dal Duce, come una sgualdrina, questa Camera gli sarà più sottomessa che non una Camera nuova, fabbricata su misura».

Al discorso del «bivacco» netta fu l’opposizione dei socialisti. «Quest’olio di ricino, noi non lo beviamo», esclamò Turati nell’aula di Montecitorio, e per tutta risposta fu chiamato dagli avversari «vecchia baldracca», mentre Mussolini al Senato veniva magnificato come il «redentore». Nel voto di fiducia alla Camera il nuovo governo ebbe trecentosei sì e centosedici no. Il duce aveva concluso il discorso con una invocazione: «Iddio mi assista nel condurre a termine vittorioso la mia ardua fatica», lui che in gioventù aveva inteso dimostrare l’inesistenza di Dio con una sfida a orologeria. E ancor prima di concludere il suo intervento programmatico aveva esplicitamente riconosciuto il ruolo preminente della religione cattolica affermando che «tutte le fedi religiose» sarebbero state rispettate, ma che un «particolare riguardo» si sarebbe avuto per quella «dominante», il cattolicesimo. Era un modo concreto per tendere la mano ai cattolici e alla Chiesa, per mettere in difficoltà il partito popolare e tagliargli l’erba sotto i piedi.

Il nuovo capo del governo non ottenne la collaborazione di tre autorevolissimi personaggi che egli avrebbe voluto trascinare dalla sua parte: Luigi Albertini rifiutò la nomina di ambasciatore a Washington; Carlo Sforza abbandonò l’ambasciata di Parigi affermando che la politica estera del fascismo gli appariva come un «semplice sommario di sentimenti e di risentimenti» e definendo i colleghi che rimanevano ai loro posti «o degli impiegati o dei mantenuti»; Alfredo Frassati, il proprietario della «Stampa» di Torino, lasciò l’ambasciata di Berlino. In compenso ricevette numerose approvazioni, più o meno condizionate, da altri grandi personaggi, Giolitti, Giovanni Amendola, Nitti, Vilfredo Pareto, Cadorna e perfino Anna Kuliscioff. Il vecchio Giolitti diceva che soltanto quel ministero poteva ristabilire la pace sociale; ne era tanto convinto da inviare all’amico Olindo Malagodi una lettera in cui approvava la nascita di un «governo forte» e sosteneva che la vita politica italiana aveva bisogno di «sangue nuovo». Per Amendola l’Italia non poteva «subire altre scosse»; pur isolandosi dal «gregge servile» che plaudiva «tumultuando per le vie e sulle colonne dei giornali», egli avvertiva il «dovere per tutti di secondare l’opera del nuovo ministero in quanto sia risolta a restaurare l’ordine, la disciplina, la finanza, l’economia»; augurava a Mussolini «tutto quel successo che significherebbe

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per il nostro Paese la fine di un’era di tribolazione e la ripresa della sua necessaria, immancabile ascesa».

Con maggior cautela formale, Nitti ripeteva gli stessi concetti di Amendola; non bisognava né aderire né opporsi, ma lasciare che l’«esperimento fascista» si compisse: «Se riuscirà, si tornerà alla normalità e alla Costituzione». Era la sola cosa che egli desiderava, con la speranza che i fascisti fossero in grado di rendere alla nazione «un gran servigio». L’economista Pareto diceva che la marcia su Roma era venuta al «tempo giusto»; il generale Cadorna l’approvava «incondizionatamente». Il «consenso» di Anna Kuliscioff appariva più articolato: era necessario tenere alta la bandiera del socialismo ed opporre idee a idee, programmi a programmi, per non aprire una nuova spirale di violenza e di guerriglia civile. Solo Mussolini poteva conseguire la pacificazione, bisognava perciò lasciarlo al potere, anche per «un paio d’anni, senza molestarlo con punzecchiature inutili»; l’obiettivo era costituito dal «ritorno graduale alla vita normale», dall’«assorbimento del fascismo nella normalità della convivenza sociale».

Un assenso pieno proveniva dalla Confederazione generale dell’industria che diffuse un manifesto in cui si ribadiva l’esigenza di un governo capace di «assicurare una volontà e un’azione»; ora quel governo «era stato promesso dall’uomo chiamato a formarlo dalla fiducia del re». C’erano poi i singolari giudizi di Salvemini il quale, in odio a Turati e a Colonna di Cesare, diceva: «Se Mussolini arriverà a spazzar via queste vecchie mummie e canaglie, avrà fatto opera utile al paese. Dopo che lui abbia compiuto questo lavoro di spazzatura, verranno avanti uomini nuovi, che spazzeranno lui. Se Mussolini venisse a morire, e avessimo un ministero Turati, ritorneremmo pari pari all’antico. Motivo per cui bisogna augurarsi che Mussolini goda di una salute di ferro, fino a quando non muoiano tutti i Turati, e non si faccia avanti una nuova generazione liberatasi dalle superstizioni antiche». Qual era infine il pensiero di Einaudi? Era di consenso alle privatizzazioni che Mussolini annunciava e le considerava espressioni del «liberalismo classico» in quanto, per cominciare, toglieva allo Stato la gestione dei servizi telefonici e l’affidava all’industria privata.

Tutto ciò avveniva nella pressoché totale approvazione dei grandi giornali, non escluso il «Corriere della Sera». Gli encomi non erano rivolti esclusivamente al geniale uomo politico, al duce Mussolini, ma anche al partito fascista il quale, nelle argomentazioni della stampa, aveva neutralizzato il pericolo bolscevico e stroncato la violenza dei rossi; non importava che a sua volta avesse usato metodi violenti, poiché il fine d’un paese ordinato e tranquillo, che potesse risorgere economicamente, giustifi-cava i mezzi adottati.

Ma proprio sui giornali, fossero all’opposizione o no, subito si esercitarono repressioni e violenze di singole squadre o del nuovo governo.

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Fu assalita la redazione romana dell’«Avanti!»; fu devastata la sede del quotidiano «L’Epoca»; «II Paese» fu addirittura costretto a sospendere le pubblicazioni. Nella redazione del «Comunista» si rovistarono armadi e scrittoi, si perquisì uno dei suoi redattori presenti, Palmiro Togliatti. al quale furono sottratte alcune carte che aveva in una borsa e sequestrati, per oltraggio personale, il portafogli e l’orologio. Le repressioni non risparmia-rono il «Corriere della Sera», costretto a saltare un numero. Alla protesta di Salvatore Barzilai, presidente dei giornalisti, Mussolini rispose con un telegramma carico di neri presagi e che già preannunciava la fine del libero giornalismo: «Superate le condizioni dell’eccezionale momento, intendo salvaguardare la libertà di stampa, purché la stampa sia degna della libertà. La libertà non è soltanto un diritto: è anche un dovere».

A caro prezzo in termini di libertà individuali e collettive, la turbolenza sociale cominciava ad attutirsi. Cresceva a dismisura il potere della polizia. I prefetti e i questori ricevettero l’ordine di compilare elenchi con i nomi di chiunque tramasse o potesse tramare, bastava un sospetto, «ai danni della Patria, dello Stato, del Governo». I prefetti erano autorizzati a disporre il fermo temporaneo per assicurare la tranquillità e il mantenimento del-l’ordine pubblico. Lo Stato, che stava per perdere il berretto di postino, prendeva in cambio il manganello del fascista. In un clima di Stato poliziotto, gli scioperi diminuivano, la situazione dell’ordine pubblico migliorava, ma non migliorava l’economia del paese.

Lenta, interminabile era la smobilitazione psicologica delle squadre e dei fasci più estremisti che scalpitavano disapprovando la svolta parlamentare e savoiarda di Mussolini. Per accelerarne lo scioglimento, le squadre vennero incorporate in una sorta di esercito parallelo, la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale nelle cui file il duce ricopriva il grado di «caporale d’onore» per evidenziare l’importanza che egli annetteva alla schiera dei suoi pretoriani. La milizia fascista aveva ufficialmente il compito di «proteggere la Rivoluzione delle camicie nere», ma in realtà essa doveva tenere a freno gli squadristi che non intendevano dividere il loro potere con le cariatidi di un muffito parlamentarismo. Un parlamentarismo che Mussolini non aveva voluto abbattere completamente e che si limitava a minacciare. Il suo stesso discorso alla Camera sul voto di fiducia era considerato dannosamente par-lamentaristico dai più estremisti.

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X

«È tempo di miti», disse Mussolini a un generale che gli proponeva fin da quei primi giorni di governo la pubblicazione di alcuni libri di storia sulla guerra mondiale. Continuò osservando che in Italia non era tempo di storia e che soltanto il mito poteva dare «forza ed energia» a un popolo che stava per «martellare» il proprio destino. Il duce, che sapeva di essere entrato egli stesso nel mito, parlando così lo alimentava. Intendeva mostrarsi capace di risolvere con grande sollecitudine anche i più gravi problemi, e il «Corriere della Sera» già riconosceva che con lui al governo si camminava finalmente «più in fretta». Era già sufficientemente nota la sua figura di lavoratore infaticabile, ma ora voleva che questa immagine diventasse universale. Arrivava in ufficio per primo, volendo imporre il mito della sua onnipresenza. Ci riuscì subito tanto bene che una mattina, salendo lo scalone del Viminale e trovandosi a chiedere a un commesso, che non lo conosceva personalmente, chi fosse già arrivato al ministero, si sentì rispondere: «Ci sarà Mussolini. Quello lì è sempre in ufficio alle otto».

Nella costruzione del mito, si rese conto di dover migliorare il suo aspetto esteriore. Non era più soltanto l’aspro agitatore politico, era ormai un capo di governo che, balzato rapidamente in alto, doveva altrettanto rapidamente adattarsi alle esigenze del nuovo ruolo. I primi consigli di eleganza gli furono impartiti da un giovane diplomatico, Mario Pansa, che lo distolse persino dall’uso delle ghette. Fino a quel momento, Mussolini si era ostinato a portarle in ogni occasione e con ogni abbigliamento, pure sugli stivali. Di lui Hemingway, incontrandolo in una conferenza internazionale, aveva detto: «C’è qualcosa che non va, anche sul piano dell’istrionismo, in un uomo che porta le ghette bianche con una camicia nera». Difatti, se la camicia nera era il simbolo della sua rivoluzione, le ghette potevano rivelarne l’animo borghese.

Mario Pansa gli era maestro di belle maniere e di comportamenti protocollari nei grandi incontri e nei pranzi internazionali. Sotto la sua guida, fin dai primi ricevimenti diplomatici, indossò stiffelius, colletti bianchi coi risvolti inamidati e cappello a cilindro, ma ciò non lo metteva al riparo da spropositi di stile. Un giorno l’ambasciatore d’Inghilterra a Roma aveva indetto un simposio in suo onore, e il giovane Pansa consigliò il duce, perché a tavola si comportasse secondo l’etichetta, di seguire e di imitare i movimenti del marchese Theodoli, personaggio inappuntabile e raffinato.

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Quando Theodoli, che era stato avvertito del consiglio, si avvide che Mussolini mangiava il pesce con il coltello, per richiamarne l’attenzione prese il proprio coltello, lo alzò un po’ in aria, e poi con gesto vistoso lo rimise sulla tavola. Immediatamente Mussolini ne copiò la mossa, stampando sulla candita tovaglia una vistosa macchia gialla di maionese.

Per le udienze al Quirinale era d’obbligo indossare abito nero e bombetta. Lui sbuffava dicendo: «Siamo rimasti in tre al mondo a portare questo strano cappello, io, Stanilo e Ollio». Il suo commesso. Quinto Navarra, lo vedeva impacciato nei primi «tight striminziti» che ne accentuavano la naturale grossolanità contadina. Non poteva nascondere le sue origini, e allora se ne vantava, come fece a Milano visitando uno stabilimento side-rurgico. «Non scendo», disse, «da antenati aristocratici e illustri; i miei antenati erano contadini che lavoravano la terra, e mio padre era un fabbro. Io ho fatto il manovale e il muratore». Per lui il cruccio maggiore era la barba nerissima, ispida e fitta che gli ricresceva in poche ore. Ma per questa non trovava rimedi.

L’educazione comportamentale del nuovo premier italiano comprendeva anche l’equitazione, la scherma, il tennis. Già conosceva alcuni rudimenti nel combattimento alle armi bianche, per aver sostenuto alcuni duelli, ma non era mai salito su un cavallo né mai aveva preso in mano una racchetta. Suo maestro d’equitazione fu quel Ridolfi che già gli aveva dato lezioni di spada e di sciabola. Il suo primo cavallo, montato nel galoppatoio di villa Borghese, si chiamava «Ululato» a subito lo sbalzò di sella.

Margherita Sarfatti gli si complimentava per la rapidità della metamorfosi. Mussolini continuava a vedere la sua amante, ma cercava di mantener segreti gli incontri. Dall’albergo Savoia era passato al Grand Hotel più vicino al Continentale dove alloggiava la donna. Accadeva così che in piena notte egli lasciasse la sua camera, badando a non farsi sorprendere da occhi indiscreti, e raggiungesse l’amica. I suoi collaboratori si preoccupavano dei rischi, che queste scappatelle notturne potevano comportare per la sua incolumità; se ne impensieriva anche Giolitti il quale gli consigliava di non aggirarsi a piedi e senza scorta per le vie di Roma, soprattutto in quei giorni, essendo presenti nella capitale due temibili rivoluzionari spagnoli. Amava, anche se a suo modo, la Sarfatti, e ne era geloso. Ne sapeva qualcosa un giovane pittore futurista, Emilio Notte, bellissimo, occhi azzurri, barba e baffi, aspetto romantico. Margherita se ne era invaghita e ne lodava le opere fin sulle pagine del «Popolo d’Italia». Mussolini venne a conoscenza dell’avventura sessual-artistica fra i due, e perentoriamente ordinò alla donna di allontanare da sé il pittore e di non occuparsene più nelle sue critiche.

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Il nuovo capo del governo esercitava un grande fascino particolarmente sui giornalisti e sugli uomini politici stranieri. Gli inglesi lo chiamavano «l’uomo del mistero». Parlavano di lui come di una «figura solitaria e terribile», lo rappresentavano con gli «occhi ardenti, suggestivi e scintillanti», le «mascelle potenti e volitive», la figura «imponente», pur paragonandolo al tenore Enrico Caruso. Il mito del duce si affermava in ogni forma di iconografia. Il volto e il profilo di Mussolini apparivano dovunque, in bronzo, in marmo, sulle medaglie, sulle tele. Il celebre scultore Leonardo Bistolfì, che aveva eseguito monumenti a Garibaldi e a Carducci, lo ritrasse su una medaglia che la provincia di Forlì volle dedicargli per gloriarsi di avergli dato i natali.

Un aspetto del mito andava oltre la sua persona e investiva l’intero fascismo già considerato il partito che aveva salvato l’Italia. Lui stesso veniva beffardamente chiamato «Salvatore» dagli oppositori. Il fascismo era davvero il risolutore dei problemi italiani? Una risposta proveniva dalla «Stampa» di Torino che rilevava come il mito dei successi fascisti fosse fallace e bugiardo. Apparteneva a quella mitologia, osservava Salvatorelli, far credere che la marcia su Roma avesse salvato l’Italia dal bolscevismo: «II periodo massimalista del socialismo era terminato alla fine del 1920, e da allora era svanito qualsiasi timore di una rivoluzione bolscevica. Precedentemente, il fascismo non aveva svolto in pratica nessuna azione contro il pericolo bolscevico: in taluni episodi aveva anzi concluso di fatto con esso accordi di benevola neutralità. Il fascismo era apparso quale vero fattore politico solo a pericolo passato, e la sua azione si era svolta non contro il bolscevismo in sfacelo, ma contro il social-riformismo e il laburismo, contro la democrazia e lo Stato liberale, facendo succedere al disordine bolscevico quello fascista, più esteso e profondo del primo, e unico persistente e dilagante alla vigilia della marcia su Roma».

Sempre a Torino era nato un nuovo giornale. Lo avevano affidato a un napoletano, Onorino Fragola, il quale, in piena costruzione del mito mussoliniano, rivolse ai lettori una domanda: «Chi è Benito Mussolini?». Il referendum attecchì straordinariamente e tutti si diedero a dire la loro sul duce del fascismo e nuovo capo del governo. Fragola pubblicava imperterrito le risposte, positive o negative che fossero, fino a quando Mussolini non gli impose uno stop con un telegramma al prefetto della città: «Voglia chiamare il direttore di quel giornale e lo preghi di chiudere il referendum con questa autodefinizione: Poiché l’onorevole Mussolini dichiara di non sapere esattamente ciò che egli è, assai difficilmente lo possono sapere gli altri. Fatta questa dichiarazione, e pubblicatasi, sospenda il referendum, che potrà essere ripreso, caso mai, fra cinquant’anni». Il mito sarebbe andato oltre il paradosso. Avvenne che, a un’improvvisa eruzione dell’Etna, il duce dovesse partire per la Sicilia, e raggiungere il luogo in cui

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un torrente di lava infuocata stava per investire e sommergere la frazione di Linguaglossa. Mentre lui arrivava nei pressi dell’Etna, la lava interrompeva la sua corsa, e un giornale scrisse: «II fiume di lava fluente del vulcano ha dovuto arrestarsi davanti al fuoco più ardente degli occhi del Duce».

La sua «ardua fatica» era appena agli inizi. Formato il governo, ora si trattava di porre mano all’ambizioso programma di costruire lo Stato fascista, mentre tra le file della destra liberale ancora si credeva che fosse cominciato il processo di normalizzazione dello squadrismo. Il suo era un governo di coalizione, non di soli fascisti. La cosa però non gli impediva di gettare le basi d’un suo prepotere personale, d’una dittatura mussoliniana. Non rifiutava di «caricare sulla barca del governo» chiunque fosse disposto a far parte della sua «bellissima ciurma», ma il timone, e lo disse con chiarezza, doveva rimanere nelle sue mani. Su questa linea, fin dall’inizio il Consiglio dei ministri lo autorizzò ad agire coi mezzi che avrebbe ritenuto più opportuni, «contro chiunque, di qualsiasi partito, fazione o setta» avesse cercato di portare «il turbamento e il disordine nella nazione» la quale aveva «assoluto bisogno di disciplina e di calma». A tali avvisaglie di dittatura personale non reagivano soltanto i suoi avversari, bensì anche gli estremisti del suo partito, i ras provinciali che perdevano potere e che polemicamente gli chiedevano se la rivoluzione era stata fatta per tutti i fascisti o soltanto per lui. E lui ribatteva che l’Italia poteva sopportare un solo Mussolini, non tanti ducetti sparsi lungo la penisola.

Come il governo aveva concesso a lui una delega in bianco sul piano operativo, così la Camera concesse al governo i pieni poteri per un anno. Mussolini diceva di dover sgobbare molto soltanto per sbrigare il «lavoro arretrato». Bisognava liberare i cittadini «dal peso di leggi che erano il frutto d’una politica di insulsa demagogia» e liberare lo Stato «dalle superstrutture che lo soffocavano, dalle funzioni economiche per le quali non era adatto».

Per prima cosa avviò una riforma della legge elettorale che sostituisse la rappresentanza proporzionale dei partiti alla Camera con un sistema maggioritario, allo scopo di assicurare al governo una larga base parlamentare che gli permettesse di agire indisturbato. Con insistenza proclamava che alle origini della crisi del paese si trovava il sistema proporzionale che favoriva il frazionamento dei partiti e rendeva estremamente deboli i governi. I rapporti tra popolari e fascisti si fecero più tesi ed egli, con abile regia, seppe approfittare della nuova situazione per arrivare difilato alla riforma elettorale cui i popolari si opponevano essendo rimasti fedeli alla proporzionale. Il più accanito oppositore della riforma era don Sturzo, e fu proprio lui a perdere la battaglia tanto da dover lasciare, su esortazione vaticana, la segreteria del suo partito per «non creare impicci». A questo abbandono seguì più tardi l’esilio per espresso desiderio del cardinale Gasparri. Nell’aula di Montecitorio, alcuni settori dei popolari

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votarono la riforma e altri si astennero, ma ciò non evitò il sacrificio d’un prete di Argenta, Giovanni Minzoni. Proprio nel feudo di Balbo, il sacerdote, che ardiva ancora opporsi ai fascisti, pagò il suo coraggio con la vita, cadendo vittima di un’aggressione maturata nell’ambiente del quadrumviro. Balbo, anche se probabilmente non aveva ordinato l’imboscata, si assunse la responsabilità di non rivelare mai ciò che di essa sapeva.

La riforma maggioritaria, chiamata legge Acerbo dal nome del suo coordinatore, equivalse al suicidio dei partiti democratici. Incapaci di reagire e di cogliere l’ambiguità degli atteggiamenti in apparenza concilianti di Mussolini, furono loro a consegnargli una nuova e più grande fetta di potere. Se avessero resistito, qualcosa avrebbero ottenuto sebbene lui, abile giocoliere, tornasse a minacciare lo scioglimento della Camera qualora la legge non fosse passata. Forse si sarebbe potuto raggiungere l’accordo su un quorum più elevato, quel quaranta per cento proposto da De Gasperi, non il venticinque per cento imposto da lui perché scattasse il premio di maggioranza.

Ma il duce riversò sull’emiciclo di Montecitorio un tale profluvio di tranquillizzanti parole da indebolire la resistenza degli oppositori. Addusse un esempio. È incredibile, disse, come cambiano i capi delle squadre fasciste quando diventano assessori o sindaci: «Assumono un’altra aria», capiscono che non si può andare all’assalto dei bilanci, ma che bisogna studiarli, e così, nei comuni conquistati dai fascisti, si assisteva alla «tra-sformazione del fascismo in un organo di amministrazione». Dalle rassicurazioni passò alle offerte di collaborazione dicendo di voler allargare ulteriormente la base governativa con l’immissione di uomini della Confederazione del lavoro: «Vorrei avere con me i rappresentanti diretti delle masse operaie organizzate». Gli credettero negli stessi giorni in cui sgomentava i giornali dell’opposizione con l’annuncio di un decreto legge che avrebbe limitato e controllato la libertà di stampa ponendola alla mercé dei prefetti e perciò del potere esecutivo. Ma poi decise di soprassedere per il momento a quelle norme. Una di esse risultava gradita agli ambienti clericali prevedendo il reato di vilipendio alla «religione dello Stato». Aveva cominciato una démarche per avvicinarsi alle gerarchie vaticane, e per renderla più spedita volle cancellare la sua immagine di mangiapreti. Non c’era di meglio da fare che immettere i figli nel regno della Chiesa. Li fece perciò battezzare tutti e tre, contemporaneamente, Edda, Vittorio e Bruno, nella sua casa milanese da don Colombo Bondanini, cognato di Arnaldo. Il duce, che in quelle, settimane si era incontrato piuttosto segretamente col segretario di Stato della Santa Sede, commentava: «II cardinal Gasparri sarà contento!».

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XI

Nel marzo del 1923, Mussolini scrisse per la prima volta su un registro, tra le firme dei soci d’un’associazione musicale milanese, le parole che segnarono l’inizio dell’epoca fascista: «Anno primo della nuova era». Cominciavano allora anche le metamorfosi mussoliniane. In aprile si produsse nelle vesti di muratore. Agitando nell’aria una cazzuola, pose la prima pietra d’una costruenda Casa del fascio a Crescenzago, un paesino nei pressi della capitale lombarda cui andò l’onore di assistere alla prima performance di un Mussolini che via via sarà minatore, trebbiatore, aviatore, cavallerizzo, tennista, yachtsman, uomo di mondo, con la versatilità teatrale di un gran generico capace di mille reincarnazioni alla Zacconi, secondo un giudizio che di lui dava Bottai.

Fu perfino spaccapietre, il giorno in cui nei pressi di Predappio strappò il mazzuolo dalle mani di un suo vecchio amico d’infanzia intento a sminuzzar sassi. «Fatti in là, Pipòn», gli disse, e si mise lui a picchiare su una pietra senza riuscire a frantumarla. «È un lavoro troppo duro per voi. Eccellenza», gli disse Pipòn. E il duce di rimando: «Ho spaccato pietre ben più dure. Questo mestiere è come la politica, tutto sta nel saper trovare la vena». Detto questo, la pietra sulla quale picchiava saltò in pezzi. Lui, soddisfatto, restituendo il mazzuolo all’amico d’una volta, gli disse a mo’ di saluto: «Beato te, beato te!». Suoi amici erano anche gli scalpellini, quelli che lavoravano nelle cave nei pressi del Furio, sulla Flaminia. Egli usava fermarsi in una trattoria del luogo, durante le sue corse in auto tra Roma e villa Carpena. Un giorno gli scalpellini, durante una sua sosta, lo pregarono di far aprire una stradina di accesso alle cave. Li accontentò e i tagliapietre gli si mostrarono riconoscenti abbozzando il suo profilo sulla vetta del monte Pietralata.

Doveva presentarsi anche come uomo di cultura, in ciò influenzato dalla Sarfatti promotrice d’una corrente artistica, il «Novecento», che si ispirava al classicismo e avversava l’impressionismo in voga. Frequentava teatri e mostre d’arte; paragonando se stesso agli artisti diceva che, come un artista, lavorava una certa materia e perseguiva certi ideali. Per completare il suo nuovo volto gli mancava ancora una infarinatura di nobiltà e fu il principe Prospero Colonna ad aprirgli le porte del romano Circolo della caccia proclamandolo socio fondatore fra duchi e marchesi, principi e principesse

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in quel palazzo Borghese, il Cembalo, ch’era stato teatro delle prodezze amatorie di Paolina Bonaparte. Cambiava lui e cambiava qualcosa della sua politica, avendo scacciato dal

governo i rappresentanti del partito popolare. Cambiava anche casa. Dal Grand Hotel passava in un appartamento all’ultimo piano di palazzo Tittoni, in via Rasella, ma la famiglia restava a Milano, ed egli sempre più raramente si recava nella capitale lombarda dalla moglie. A Roma lo assisteva, con funzioni di cameriera, di cuoca e di governante una donna umbra, Cesira Carrocci, che d’Annunzio, appresa la di lei fedeltà, imaginificamente chiamava Suor Salutevole. In cambio Mussolini aveva in-viato a Gardone una sorta di controllore, il commissario di polizia Giovanni Rizzo, perché seguisse da vicino le mosse del Vate, il quale, sebbene in sdegnosa solitudine, continuava a «infastidirlo» con i suoi mugugni a distanza. D’Annunzio s’era attorniato di levrieri, oltre che di belle donne e Mussolini volle avere accanto alcuni animali feroci nella sua casa di via Rasella. Ebbe un puma e poi una leonessa, in realtà abbastanza mansueti, che teneva legati alla gamba del pianoforte. Accarezzava spesso la leonessa e, portandosi le dita al naso, diceva con soddisfazione: «Odoro di leone!». Nel cambiamento aveva preso gusto agli abbigliamenti vistosi da cerimonia. Il gibus più non lo impressionava e sapeva portare la feluca, come dimostrò in occasione del ricevimento in Campidoglio offerto al re d’Inghilterra, Giorgio V, ospite di Roma. Il suo addetto stampa. Cesare Rossi, ne dava un ritrattino stuzzicante: «In piedi, leggermente inchinato verso Vittorio Emanuele, che quasi spariva in una ricca poltrona, nell’uniforme da ministro dai cento ricami d’oro con lo spadino pendente, la feluca piumata fra le mani, stava Mussolini, nell’atteggiamento perfetto di un cancelliere imperiale». Cambiava lui e cambiavano anche gli altri, dalle persone umili alle altolocate. Tutti si dicevano fascisti, anche coloro che negli anni andati lo avevano bastonato. Un maresciallo dei carabinieri, che lo aveva arrestato a Forlì, ora se ne dichiarava pentito e gli regalava la mazza con la quale lo aveva pestato quando era sovversivo. Si presentarono, in tre o quattrocento, gli infermieri ex combattenti che dicevano di averlo assistito durante la grande guerra, di averlo raccolto ferito e trasportato all’ospedale da campo in barella, e in realtà i portantini che lo avevano soccorso non erano stati più di sei o sette. Riapparvero naturalmente anche le infermiere. Durante il trattenimento per le nozze di Jolanda di Savoia con il conte Calvi di Bergolo, gli si presentò una elegante signora: «Noi ci siamo conosciuti», gli disse. «Dove?». «A letto», rispose la gentildonna, aggiungendo: «Ero infermiera nel suo ospedale militare».

Mussolini pretendeva che all’estero guardassero a lui e agli italiani in maniera diversa che in passato. Disse: «L’Italia vuole ora essere trattata

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dalle grandi nazioni del mondo come una sorella, non più come una cameriera». Prometteva una politica estera di pace, «ma non di suicidio». All’Italia mancavano le risorse, a lui difettava una preparazione diplomatica atta a conseguire importanti risultati nell’arengo europeo. Suppliva a tutto ciò con una rumorosa politica estera di prestigio personale e anche spettacolare comportandosi spesso come un emulo di d’Annunzio. La sua più scenografica apparizione fu quella dell’ottobre ‘25 quando a Locarno arrivò in motoscafo per partecipare alla conferenza internazionale sulle frontiere franco-tedesche che tenevano in agitazione l’Europa. Puntava sull’immediato successo cosmopolita, sui colpi di scena che, nei suoi calcoli, si sarebbero riverberati all’interno del paese a beneficio della sua statura di statista esaltata mediante una sfrontata orchestrazione della stampa nazionale. Già in occasione della conferenza internazionale di Losanna aveva cercato di corrispondere alle regole del coup de théàtre. Di proposito non aveva raggiunto subito Losanna, ma si era fermato a Territet da dove, per dare una dimostrazione di autorevolezza, aveva fatto sapere al rappresentante francese Poincaré e a quello inglese Lord Curzon di volerli incontrare anticipatamente e in segreto, lì a Territet dove li attendeva. Un po’ sorpresi, e anche un po’ seccati, i due diplomatici accettarono sì la richiesta ma poi nell’incontro respinsero le proposte del baldanzoso quanto mal ferrato italiano. A lui però già bastava di aver dato di sé sui giornali italiani l’immagine di un governante che trattava da pari a pari con le più grandi potenze europee.

L’Europa era in subbuglio per la questione della Ruhr, la zona della Germania che la Francia intendeva occupare, come temporaneamente fece, poiché i tedeschi non volevano più pagare i danni di guerra sanciti alla conferenza di Versailles. L’Inghilterra era nettamente contraria all’impiego della forza che, nei piani di Poincaré avrebbe consentito ai francesi di rifarsi dei mancati pagamenti con lo sfruttamento economico dell’importante bacino carbonifero. Mussolini non sapeva che fare, combattuto tra Francia, Inghilterra e Germania, ma si giustificava dicendo che il suo unico pensiero era la doverosa difesa degli interessi italiani.

A parte le rodomontate verbali e i comportamenti scenografici, si mostrava in politica estera sostanzialmente misurato. Venne però imprevedibilmente meno alla linea di prudenza quando, alla notizia dell’assassinio del generale italiano Enrico Tellini perpetrato in territorio greco, decise di occupare per rappresaglia l’isola di Corfù dopo aver posto la Grecia di fronte a un inaccettabile ultimatum. Mussolini, che aveva ottenuto l’arcipelago del Dodecaneso in base ai trattati di pace e di Losanna, ora voleva di più, riguardando il Mediterraneo come un mare d’espansione italiana. Aveva cominciato a convincersi che per acquistare maggior peso dovesse andare oltre le altisonanti dichiarazioni verbali. I suoi collaboratori,

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per primo il segretario generale di palazzo Chigi, Contarini, erano riusciti a tenerlo a freno e a impedirgli che la cessione del Dodecaneso all’Italia fosse clamorosamente celebrata con l’invio d’una squadra navale. Ma ora gli si presentava una nuova occasione, quella dell’assassinio di Tellini, il generale intento alla delimitazione dei confini greco-albanesi. Contarini era assente da Roma e ciò lo indusse a compiere una sconsiderata azione di forza contro l’isola di Corfù. C’era chi, come il conte Sforza, pensava che il sanguinoso agguato a Tellini fosse stato architettato da persone dell’entourage di Mussolini volendo offrirgli un pretesto per il colpo di mano. Lui comunque mosse una squadra navale con l’ordine di occupare l’isola. Quando le navi furono in prossimità della costa presero a cannoneggiarla furiosamente, sebbene da Roma nessuno avesse comandato un’operazione così cruenta che fece numerose vittime fra i civili, poveri profughi dall’Asia minore ammassati in un vecchio castello.

L’Italia, ottenuto poi un indennizzo finanziario, dovette lasciare la preda, pur avendo sperato di mantenerne il possesso come dimostrava l’emissione di francobolli italiani con la sovrascritta «Corfù». La questione si chiuse in passivo per la diplomazia mussoliniana, in particolare a causa dei danni inferti alle relazioni con l’Inghilterra. Ne uscì vulnerata anche l’autorevolezza della Società delle nazioni, ignorata e per giunta svillaneggiata dai fascisti.

La crisi di Corfù ebbe ripercussioni negative per l’Italia, e rese più vigili i paesi del Mediterraneo che intuirono le mire di Mussolini in questo mare. Come prima reazione l’Italia fu esclusa dall’amministrazione internazionale di Tangeri, che venne affidata a inglesi, francesi e spagnoli. Si fecero più difficili anche i rapporti italo-jugoslavi in merito al problema fiumano, tanto da rasentare un conflitto armato. Ma alla fine si giunse a un’intesa che sancì l’annessione di Fiume all’Italia nel gennaio del ‘24 e alla firma d’un patto d’amicizia fra i due paesi confinanti. Mussolini seppe sfruttare propagandisticamente questi risultati, mentre gli italiani esultavano. Il re, che mostrava intera la propria soddisfazione, gli conferiva il collare dell’ordine supremo dell’Annunziata, un onore che rendeva il duce suo cugino. Il conferimento avvenne fra due eventi di grande importanza, lo scioglimento delle Camere e le conseguenti elezioni politiche, sicché la fiducia che Vittorio Emanuele riponeva così apertamente in quell’uomo non poteva non avere per i fascisti riflessi positivi sull’esito della consultazione popolare. Nello stesso tempo il duce, fornendo ancora una volta di sé l’immagine del governante spregiudicato e realista, riconobbe la Russia sovietica, la quale, con non minore spregiudicatezza, se ne mostrò felice. Si procedette allo scambio degli ambasciatori e alla firma d’un trattato di com-mercio e di navigazione, con l’intesa che nessuno dei due paesi avrebbe interferito nei rispettivi affari interni.

«Salve, cervello di Cavour e pugno di Crispi», fu il grido lanciato all’indirizzo di Mussolini durante una sua visita al circuito automobilistico

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di Monza da uno degli innumerevoli spettatori al colmo dell’entusiasmo. In quel clima di popolarità e di fascino crescenti si preparavano le elezioni politiche. Ormai Mussolini era chiamato «sacro». L’appellativo apparve a tutte lettere sul giornale di Mario Carli, «L’Impero». Lui stesso, dichiarandosene «atterrito», impose all’autore dell’articolo di «non toccare più quel tasto» e di lasciargli intera la sua «profanità». Ma l’ondata di gloria era irresistibile. Perfino le cose che egli sfiorava diventavano sacre e oggetto di culto. Un giorno passando per Tredozio, in quel di Faenza, volle rivedere un vecchio compagno d’emigrazione in Svizzera, un certo Poggiolini, che aveva aperto un’osteria. Si salutarono con effusione. Per festeggiare l’incontro, il Poggiolini gli offrì un bicchiere di vino, ma il duce non accettò che un po’ d’acqua. Partito l’illustre ospite, l’oste si affrettò a esporre il bicchiere in una teca con una scritta: «In questo bicchiere ha bevuto il Duce d’Italia». Se non accettava di essere «sacro» poteva almeno diventare principe, duca o marchese. Ma rifiutò anche il blasone. S’era sparsa la voce che il re stesse per conferirgli il titolo di duca, ma netto fu il suo diniego con un biglietto rapidamente concepito: «Maestà! Credo che notizia non corrisponda verità, comunque La prego ardentemente di non premiarmi in alcun modo poiché non merita premio alcuno chi compie il suo preciso dovere».

Da New York gli aveva scritto Luigi Barzini: «In venticinque anni di vita giornalistica trascorsa all’estero, mai mi sentii figlio di una patria così rispettata e apprezzata come ora. Che Dio Vi benedica e Vi protegga». Il generale Primo de Rivera, che con un colpo di Stato aveva assunto in Spagna il potere assoluto, lo considerava suo maestro. In visita a Roma disse che il mussolinismo era diventato «un credo, una dottrina di redenzione», e rivolgendosi al duce in un ricevimento a palazzo Venezia esclamò: «La vostra figura non è più soltanto italiana. È mondiale».

Il fanatismo si era ampiamente diffuso. Un giornale parigino, pur criticando il Pnf e definendolo un movimento screditato, scrisse che la popolarità del suo Capo era fuori discussione; iperbolicamente espresse il parere che la fine di Mussolini avrebbe avuto in Italia «la stessa conseguenza che, nel mondo greco, ebbe la fine di Alessandro Magno». Intanto il duce riceveva in dono da un gruppo di mutilati di guerra una spada romana. Egli commentava che la violenza poteva essere necessaria, ma doveva essere «cavalieresca». Si considerava uno statista che sapeva bene come «per navigare nella tempesta occorresse una forte disciplina»; rivolgeva perciò un monito a tutti, anche ai ras locali che continuavano a fare di testa propria, primi fra tutti Farinacci e Gaetano Polverelli il quale con denigrazione chiamava «giardino d’Annida» l’aula di Montecitorio dove «anche gli eroi diventavano imbelli».

I rapporti con d’Annunzio peggioravano. Il patto marinaro propugnato dal poeta non si realizzava, e un giorno un manipolo di estremisti genovesi

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devastò la sede della Federazione del mare di capitan Giulietti. Il Vate, da Gardone, protestò con energia minacciando di lasciare l’Italia e di scegliersi nuovamente un esilio all’estero. Fra i primi a prendere la via dell’espatrio, verso la Francia, fu Francesco Nitti che ebbe la casa saccheggiata. Alle devastazioni si univano le aggressioni agli oppositori. Si susseguirono sanguinose imboscate contro il dissidente fascista Alfredo Misuri brutalmente randellato nei pressi di Montecitorio dopo un suo discorso di critica; contro il deputato repubblicano Ulderico Mazzolani cui fu imposto di bere un bicchierone d’olio di ricino; contro Giovanni Amendola, che dirigeva «II Mondo», barbaramente bastonato da una squadra capeggiata da Albino Volpi. In stretto contatto con gli uffici del Viminale, si dedicava ad azioni punitive un gruppo di squadristi toscani e lombardi che aveva preso il nome di Ceka stranamente ispirandosi alla polizia sovietica. Se, come si diceva, in Russia la Ceka era «la spada nuda del proletariato», in Italia era «il sacro manganello degli squadristi» che agiva in un regime di complicità occulta e di impunità.

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XII

Sebbene fosse trascorso poco più di un anno dall’ascesa al governo, Mussolini si sentiva fortissimo. Concionando le masse in ascolto e imitando d’Annunzio che a Fiume parlava dalla ringhiera, chiese con irruenza: «Pensate voi che il nostro potere durerà dodici anni moltiplicati per cinque?». Tonante fu l’urlo di risposta della folla: «Sì, sì». Lo abbacinava lo «spettacolo superbo» che gli offrivano gli stabilimenti della Fiat a Torino, e ne traeva incoraggiamento per la sua opera di trasformazione. La folla e il Capo s’influenzavano a vicenda. Il personaggio appariva eccezionale, e Benedetto Croce ravvisava in lui «una straordinaria, quasi misteriosa potenza di intuizione politica che si connetteva alla singolare capacità di dominio sugli uomini».

Sciolta la Camera, convocò il popolo romano in piazza Venezia, ed era quello il suo primo discorso oceanico dal balcone del palazzo quattrocentesco che egli rese celebre. Lo aveva scelto perché rude e massiccio, un po’ palazzo, un po’ castello coi suoi merli e la torre. I capi fascisti non andavano volentieri alle elezioni, non volevano ricadere nell’antico gioco dell’elettoralismo, causa di tutti i mali. Ai loro occhi le elezioni non erano che inutili «ludi cartacei» di cui diffidare. La legge elettorale maggioritaria, che pure li favoriva in partenza, non li rendeva tranquilli. Erano sì applauditi e osannati, ma troppi erano ancora gli oppositori palesi e occulti. Ai loro danni i fasci continuavano a usare la maniera brutale delle devastazioni, delle bastonature, delle purghe. Inten-devano intimorirli e rendere chiaro che avrebbero comunque mantenuto il potere con la forza della milizia, anche di fronte a un eventuale insuccesso elettorale.

«Chi tocca la Milizia avrà del piombo», esclamava il duce. «Chi tocca la Patria e il Fascismo muore; in loro difesa siamo pronti a uccidere e a morire», incalzava. Equiparando patria e fascismo si sentiva autorizzato a tutto osare. Con orgoglio raffigurava il fascismo come la negazione dell’ideologia «societaria-democratoide-socialistoide», come una dottrina di «potenziamento nazionale». Definiva «mortificante» la campagna elettorale che creava contrasti fra gli stessi fascisti, fra i «diciannovisti», quelli della prima ora, e gli altri. C’era chi contrapponeva il mussolinismo al fascismo e

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chi parlava di lui come del «buon dittatore circondato da cattivi consiglieri». Tutto ciò era «idiota», diceva parlando di sé come di «un individuo assolutamente refrattario a pressioni esterne». Con tono ispirato aggiungeva: «Le mie decisioni maturano spesso di notte, nella solitudine del mio spirito e nella solitudine della mia vita scarsissimamente socievole». Longanesi consiglierà agli italiani di tenersi Mussolini, di «essere devoti» a «questo tiranno di casa che Iddio ci ha dato».

Lentamente si preparava la lista dei candidati del regime che comprendeva fascisti e filofascisti. Egli mostrava insofferenza per quelle «antiquate» pratiche. «Niente è più ridicolo», diceva, «che immaginarsi un Mussolini che stia faticosamente compilando le liste elettorali». Nella lista governativa non si accettavano uomini in rappresentanza di organizzazioni politiche, come il partito democratico-sociale che desiderava entrarvi, ma soltanto personalità pronte a offrire una «disinteressata collaborazione al di fuori, al di sopra e contro i vecchi partiti». Ciò per umiliarli, per svuotarli e costringere i loro leaders a cospargersi il capo di cenere per aver creduto nella democrazia.

Molte furono le adesioni. Nacque così il «listone» cui si contrapponevano le liste dei popolari, dei liberali suddivisi in vari tronconi, dei socialisti massimalisti, dei socialisti riformisti, dei repubblicani, dei comunisti e di altre formazioni minori, compresi i dissidenti fascisti. Accanto al «listone», che aveva ancora per emblema il fascio littorio repubblicano e perciò sormontato da una scure, i fascisti presentarono in alcune circoscrizioni una seconda lista contraddistinta da un’aquila che artigliava un fascio. Facevano parte del «listone» governativo duecento candidati fascisti con tessera e centocinquantaquattro fiancheggiatori e collaborazionisti, tra ex popolari, liberali, demo-sociali e intellettuali vari. Furono tutti eletti ed entrarono quindi, a rimorchio di Mussolini, anche gli Orlando e i Salandra. Antonio Salandra, forse per autodifesa, definì Mussolini «il giovane alfiere della bandiera liberale». Rimase fuori Bonomi che si era inutilmente presentato con una propria lista, mentre Nitti aveva rifiutato la lotta politica preferendo l’esilio. Il «listone» e la seconda lista governativa raccolsero insieme più di quattro milioni e mezzo di suffragi, pari al sessantasei per cento dei voti complessivi. Superarono così il venticinque per cento richiesto dalla legge e si presero trecentosettantaquattro seggi, pari ai due terzi della Camera. Di questi trecentosettantaquattro deputati, duecentosettantacinque erano iscritti ai fasci. Alle opposizioni non rimaneva che dividersi il residuo terzo dei seggi.

Tornò a Montecitorio anche Giolitti con una lista liberale piemontese. Il vecchio statista, pur proclamando di voler tenere alta la dignità del partito di Cavour, disse che non si presentava in antitesi a Mussolini. In forza della

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legge maggioritaria, le elezioni del ‘24 equivalsero a una sorta di plebiscito in favore dei governativi. Un significato particolare di quelle consultazioni fu colto da Piero Gobetti, il quale su «Rivoluzione Liberale», con sarcasmo mise in luce la debolezza dei grandi capi liberali al cospetto dell’abilità manovriera e trasformista di Mussolini: «Che De Nicola, Orlando, Salandra debbano la rielezione al manganello, che con tutti i loro discorsi di costituzionalità e di democrazia rimangano complici della pressione fascista, ecco il capolavoro del mussolinismo».

L’affluenza alle urne era stata sensibile, agitata era stata la campagna elettorale. I sette milioni e mezzo di elettori superarono del cinque e mezzo per cento la quota delle precedenti elezioni, svoltesi nel ‘21. Sia prima, sia dopo le elezioni dell’aprile ‘24, sia con l’assenso di Mussolini, sia per iniziativa degli estremisti, la vita politica italiana fu segnata da continui episodi di violenza che non avevano per oggetto soltanto gli oppositori ormai tradizionali ma anche i dissidenti fascisti. Accadde che Cesare Forni, ras della Lomellina, fosse selvaggiamente aggredito per ordine di Balbo che voleva impartirgli una «esemplare lezione». Il Vaticano, sebbene si mostrasse formalmente estraneo alla lotta politica, non poteva non condannare il ricorso alla violenza, mentre Mussolini, continuando nella sua marcia di avvicinamento alla Santa Sede, varava alla vigilia delle elezioni un provvedimento economico a favore del clero. Ma c’era il rovescio della medaglia. Difatti avvenne che, a urne chiuse, furono soprattutto i preti e le organizzazioni cattoliche a subire bastonature e devastazioni.

Sembrava che i fascisti, con quel successo elettorale, non sarebbero potuti andare oltre. Le opposizioni si rivolgevano dunque un interrogativo: come risalire la china, considerato che il fascismo, nonostante i tentativi compiuti con ogni mezzo, non era riuscito a cancellare la loro presenza nel paese. Avrebbero dovuto anzitutto superare le loro divisioni interne, ma non era facile farlo a causa degli odi personali e delle lotte ideologiche che si frapponevano alle azioni unitarie. A migliorare la situazione non potevano bastare alcuni successi come quello ottenuto dagli operai antifascisti alla Fiat di Torino; non potevano bastare sebbene indicassero una tenuta delle sinistre, cui non corrispondeva una capacità di presa del sindacalismo fascista che faceva acqua da tutte le parti. Bisognava che le sinistre facessero qualcosa di più per riprendere l’iniziativa. Giacinto Menotti Serrati si agitava. Ancora gli scottava l’umiliazione che gli avevano inflitto gli squadristi tagliandogli pubblicamente la folta barba in una via di Milano. Sull’«Avanti!» scriveva che le «masse aspiravano alla vendetta» e che quando avrebbero rialzato il capo sarebbero state «terribili». Ma a Mus-solini le più serie preoccupazioni provenivano dai revisionisti alla Massimo Rocca che si battevano contro Farinacci per la costituzionalizzazione del fascismo, e dalle frange più estremiste e violente del partito.

La riapertura della Camera era stata procrastinata al 24 maggio perché nell’opinione pubblica l’idea della vittoria nella grande guerra si fondesse

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con quella dei fascisti nelle elezioni, per presentare il fascismo come unico interprete dei sentimenti nazionali del paese. Al centro della propaganda nazionale e nazionalistica del regime non poteva non esserci Roma. Nella celebrazione del Natale di Roma, Mussolini si presentò quell’anno come cittadino romano. Civis romanus sum, esclamò dal Campidoglio, da quel colle che, a suo dire, «dopo il Golgota era certamente da secoli il più sacro alle genti del mondo civile». Parlò a lungo della «città eterna», tra il commosso e l’ispirato: «Sin dai giorni della mia lontana giovinezza. Roma era immensa nel mio spirito che si affacciava alla vita. Dell’amore di Roma ho sognato e sofferto, e di Roma ho sentito tutta la nostalgia. Roma! e la semplice parola aveva un rimbombo di tuono nella mia anima. Più tardi, quando potei peregrinare fra le viventi reliquie del Foro e lungo la via Appia e presso i grandi templi, sovente mi accadde di meditare sul mistero della continuità di Roma». Poi disse che la città, con le opere urbanistiche del fascismo, sarebbe diventata più grande e più bella: «Già la visione di questa Roma futura sorride al mio spirito. Salve dea Roma! Salve a te, per quelli che furono, sono e saranno i tuoi figli pronti a soffrire e a morire per la tua potenza e per la tua gloria!». Nell’esaltazione della città eterna si poteva cogliere l’eco di versi dannunziani, come quelli delle Elegie romane che facevano al caso suo: «Nulla è più grande e sacro. Ha in sé la luce d’un astro. / Non i suoi cieli irraggia soli ma il mondo Roma». In una successiva occasione enunciò alcune linee del suo programma

urbanistico: «Tra cinque anni Roma dovrà apparire meravigliosa a tutte le genti del mondo; vasta, ordinata, potente, come fu ai tempi del primo impero d’Augusto. Apriremo dei varchi intorno al Teatro Marcello, al Campidoglio, al Pantheon; tutto ciò che vi crebbe attorno nei secoli della decadenza dovrà scomparire. Entro cinque anni da piazza Colonna, per un grande varco, dovrà essere visibile la mole del Pantheon. Libereremo anche dalle costruzioni parassitarie e profane i templi maestosi della Roma cristiana. Quindi la terza Roma si dilaterà sopra altri colli, lungo le rive del fiume sacro, sino alle spiagge del Tirreno».

Questa propaganda di grandezza doveva servire a impressionare le folle, mentre il regime si dibatteva fra gravi difficoltà nel gettare le basi di un suo reale e duraturo potere e nel configurare uno Stato fascista. Nell’azione di governo, immensi erano gli ostacoli da superare in ogni campo. Al di là della retorica, Mussolini vedeva in realtà davanti ai suoi occhi una macchina statale arrugginita, un’economia in sfacelo, un popolo di individualisti. Si sforzava di capire la gente, ma poi, sfiduciato, esclamava: «Gli uomini sono un cinematografo!». Oscillava fra la maniera forte e la ricerca del consenso, appoggiandosi, nel partito, ora agli uni ora agli altri propugnatori dei due metodi. A Bologna stavano per conferirgli una laurea honoris causa in giurisprudenza. L’iniziativa era del rettore dell’università, ma poi non se ne

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fece nulla per l’avversione di autorevoli esponenti del corpo accademico. Egli aveva scritto per l’occasione una sorta di saggio politico. Preludio al Machiavelli, in cui ricordava un motto del segretario fiorentino: «Cum parole non si mantengono li Stati».

Il motto era inciso su una spada donatagli dai camerati di Imola, e ne aveva tratto il tema per la dissertazione. La rivista «Rivoluzione liberale» definì superficiale e dilettantistico il componimento mussoliniano che era giocato sui toni del più nero pessimismo nella natura degli uomini. Non si poteva sfuggire, scriveva Mussolini, alla forza e alla dittatura volendo ottenere qualcosa di buono dalla popolazione, e sosteneva che questo era il pensiero di Machiavelli. Quindi proseguiva: «Di tempo ne è passato, ma se mi fosse lecito giudicare i miei simili e contemporanei, io non potrei in alcun modo attenuare il giudizio di Machiavelli. Dovrei, forse, aggravarlo. Mentre gli individui tendono, sospinti dai loro egoismi all’atomismo sociale, lo Stato rappresenta una organizzazione e una limitazione. L’individuo tende ad evadere continuamente. Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a non fare la guerra». Anche lui propendeva per la maniera forte e scriveva che «regimi esclusivamente consensuali non sono mai esistiti, non esistono e non esisteranno probabilmente mai»; dava perciò ra-gione al segretario fiorentino quando affermava che i profeti armati vincono e quelli disarmati «ruinano».

Non essendo la coerenza il suo forte cadeva in contraddizioni con se stesso, per cui sottolineava con spavalderia ogni occasione di consenso. Così fece al termine d’una sua visita alla solfatara di Campobello in Sicilia. «Se qualcuno dei pallidi politicanti di Roma», disse, «che non si muovono dai loro salotti dove fanno le piccole, insulse cospirazioni di dettaglio, avesse il coraggio di scendere in mezzo al popolo, constaterebbe che mai vi fu governo in Italia che raccogliesse più vasta massa di consensi di quanti non ne raccolga il governo fascista».

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XIII

L’avvio della nuova legislatura coincise nell’aula di Montecitorio con una forte ripresa polemica delle opposizioni, mentre ancora tra le file dei fascisti c’era chi non nascondeva una viva contrarietà alla svolta parlamentare del regime. Ai suoi critici interni Mussolini diceva che quella era una Camera diversa essendo formata da giovani non corrotti dal parlamentarismo. Dai banchi socialisti Turati scriveva alla Kuliscioff chiamandolo «il capoban-da». Era uno strano capobanda che, nel discorso di riapertura della Camera, sempre secondo Turati, si era esercitato in «giocherelli tattici» con un intervento «bonario, leggero, passeresco, un chiacchiericcio da caffè»; il duce «aveva infilato la giubba di Arlecchino, sorridendo un po’ a tutti», rivolgendo «parole aspre» soltanto ai popolari. Acutamente il leader riformista lo definiva «abile e diabolicamente pericoloso» proprio perché in troppi all’opposizione si erano stancati di stare continuamente coi «pugni tesi» e si mostravano disposti a forme di pacifica collaborazione. Questa poteva essere un’allusione ai tentativi che si attribuivano a Mussolini ancora intenzionato a portare al governo qualche socialista riformista o qualche confederale, magari con una ulteriore intermediazione di d’Annunzio, il quale, su questo terreno, aveva dovuto subire le rampogne di Farinacci: «Poeta [dispregiativo], parlate chiaro. O con noi o contro di noi».

Non tutti, a sinistra, erano pronti a disarmare, e lo mostrò Giacomo Matteotti con un intervento pronunciato con grande vigore dal banco di deputato alla Camera. Matteotti, alacre agitatore, di due anni più giovane di Mussolini, era alla testa dei socialisti unitari, i riformisti di Turati. Il «Corriere della Sera» lo aveva chiamato già nel ‘21 «il Marat del Polesine». Già nel ‘21, a pochi mesi dalle prime esplosioni di violenza delle squadre d’azione, Matteotti aveva chiesto al governo che quelle squadre fossero sciolte e dichiarate associazioni a delinquere, ma Giolitti e i più vari organismi dello Stato pensavano alla costituzionalizzazione del fascismo. Matteotti propugnava l’esigenza di reagire duramente alla dittatura; con sdegno combatteva gli arbitrii e i soprusi del fascismo, connaturati al regime e non esclusivamente connessi al momento elettorale. Al tempo stesso si levava contro le oblique tendenze collaborazioniste che serpeggiavano tra i suoi compagni. Aveva chiesto in particolare l’annullamento in blocco delle

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elezioni inficiate dal clima di violenza, di intimidazione e di corruzione in cui si erano svolte e dai brogli commessi sia all’interno dei seggi elettorali, sia nelle operazioni notarili per la presentazione dei candidati. La custodia delle cabine era affidata ai militi fascisti in uniforme; in alcune regioni i seggi elettorali erano composti esclusivamente da tesserati del fascio; c’era stata un’incetta manovrata di certificati elettorali per cui alcune persone poterono votare una decina di volte, e fra queste ci furono perfino dei ragazzi, dei balilla in divisa. Durante il martellante discorso del deputato socialista, Mussolini mostrava tutta la sua inquietudine agitandosi in continuazione, scuotendo la testa, muovendo le mani, roteando gli occhi.

Matteotti, che confermava la tempra di irriducibile oppositore, aveva parlato il 30 maggio tra le ingiurie e le minacce dei deputati fascisti, tanto che al termine del suo discorso aveva detto ai compagni che gli si erano fatti intorno per complimentarsi: «E adesso preparate la mia orazione funebre!». Appena pochi giorni dopo, il 10 giugno, le intimidazioni ebbero realmente un esito tragico col suo rapimento, e con la sua morte, eventi maturati in un clima sempre più acceso di terrorismo poliziesco contro ogni forma di avversione al regime. Già il 1° giugno sul «Popolo d’Italia», Mussolini aveva bollato come «mostruosamente provocatorio» l’intervento del capo socialista, e aveva ordinato un giro di vite contro ogni antifascista. Indicativo era stato in proposito il telegramma al prefetto di Torino al quale aveva chiesto informazioni sui movimenti di Piero Gobetti, imponendogli altresì di «vigilare per rendere nuovamente difficile vita questo insulso oppositore governo e fascismo». Invece nell’aula di Montecitorio offriva ancora collaborazione. Ma alle sue condizioni. Agli oppositori diceva che non potevano rimanere estranei indefinitamente alla vita del regime se non volevano essere condannati all’«esilio perpetuo dalla storia», così come avveniva agli «stiliti sulle colonne in attesa d’un miracolo».

In quella stessa aula usava un tono duro Farinacci che chiedeva per gli antifascisti il domicilio coatto, mentre altre accuse venivano rivolte a Matteotti, dentro e fuori Montecitorio, e difatti «II Popolo d’Italia» parlava di lui come di un «agente provocatore di professione». Il clima di intolleranza era via via punteggiato da nuovi episodi di violenza di cui furono vittime numerosi parlamentari. Nei pressi della Camera furono aggrediti Amendola, Arturo Labriola, Mole, Zaniboni e il popolare Colonna di Cesarò che pure era stato ministro di Mussolini fino a pochi mesi prima.

La cattura di Matteotti avvenne nel pomeriggio del 10 giugno a Roma, un afoso martedì, sul Lungotevere Arnaldo da Brescia a opera di tre individui che brutalmente si gettarono sul leader socialista cercando di immobilizzarlo e di trascinarlo in un’automobile, una grossa Lancia, che era ferma accanto al marciapiedi, a motore acceso, già pronta a partire. Ci

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fu una breve colluttazione e Matteotti riuscì a sfuggire dalle mani degli aggressori. Li distanziò di qualche metro precipitandosi giù per una scaletta sulla riva sabbiosa del fiume. Raggiunto, fu nuovamente percosso con rabbiosa violenza e quindi colpito con qualche oggetto alla nuca. Perse i sensi. Gli assalitori lo portarono di peso nella loro automobile e prontamente si diressero verso ponte Milvio. Matteotti riacquistava conoscenza e, sebbene perdesse sangue dalla bocca, ingaggiò all’interno dell’auto un nuovo corpo a corpo con i sequestratori. Uno di essi, armato di pugnale, prima lo minacciò e poi lo colpì all’inguine e al torace uccidendolo. Quando gli aggressori si avvidero di avere nell’auto un cadavere si misero a correre alla disperata verso la via Flaminia, senza sapere che fare. Al calar della sera s’inoltrarono in una strada secondaria di campagna e quindi decisero di occultare la vittima in una fossa preci-pitosamente e malamente scavata a poco più d’una ventina di chilometri a nord della capitale, in una boscaglia della Quartarella, presso Riano Flaminio.

Gli assalitori, se non avevano agito eseguendo un ordine preciso del duce, sapevano benissimo di fargli cosa gradita. E a questo scopo avevano divisato di rapire il capo dei socialisti unitari, il più fermo oppositore del regime. Lo avevano atteso nei pressi della sua abitazione, conoscendo l’ora in cui egli ne sarebbe uscito per recarsi a Montecitorio. Essi erano personaggi molto noti negli ambienti del Viminale e di palazzo Chigi come manganellatori e pregiudicati per bancarotta fraudolenta, furti e assassini!. Rispondevano ai nomi di Amerigo Dumini, di Albino Volpi, che già aveva assalito a bastonate Amendola, di Amleto Poveromo, Giuseppe Viola, Augusto Malacria. Alla realizzazione dell’impresa criminosa avevano collaborato anche Aldo Putato e un informatore segreto. Otto Thierschwald. Il capo della squadra era Dumini, un po’ anarchico, un po’ massone; valoroso in guerra, ma disadattato nella vita civile. Si atteggiava a intellettuale, voleva fare il giornalista e frequentava i salotti culturali della Sarfatti e di Ada Negri. Tutti loro dipendevano dal segretario amministrativo dei fasci, Giovanni Marinelli, ideatore della Ceka fascista. L’automobile utilizzata nell’agguato apparteneva a Filippo Filippelli, direttore del «Corriere Italiano», il giornale portavoce del Viminale, ispirato dal sottosegretario agli Interni, Aldo Pinzi. Sia Marinelli sia Pinzi erano conterranei di Matteotti, ed erano animati nei suoi confronti da un odio personale. I giornali diedero la notizia della scomparsa due giorni dopo, ma la notte

stessa del delitto il duce era stato informato da Dumini d’ogni cosa e quindi anche della tragica conclusione dell’agguato. Pubblicamente in quei due giorni Mussolini aveva finto di nulla. Aveva imposto ai suoi di tacere e di

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non perdere la calma perché il passaggio era estremamente pericoloso. La famiglia dello scomparso si era subito allarmata, ma negli ambienti politici si cominciò a temere qualcosa d’irreparabile l’indomani, quando l’assenza di Matteotti da Montecitorio si prolungava senza che nessuno sapesse darne una spiegazione. Il governo non fiatava in attesa degli sviluppi che cominciarono a profilarsi nella mattinata del giorno 12, appunto con la notizia giornalistica della scomparsa. I giornali ebbero un’impennata nelle vendite, dedicavano pagine intere all’evento, mentre si diffondeva nel paese un’ondata di commozione. I sospetti si addensarono immediatamente sulle squadre fasciste, ed essendo Matteotti l’incarnazione della più intrepida e tenace opposizione al regime, si velò di colpo il fascino personale di Mussolini che tanta presa aveva nei più vari strati della popolazione. Molti tolsero dall’occhiello della giacca la «cimice», il distintivo fascista di cui erano andati orgogliosi, mentre tornavano a indossare le camicie bianche.

Mussolini, costretto a rompere il suo silenzio, riconobbe nell’aula di Montecitorio che le circostanze in cui era avvenuta la scomparsa di Matteotti, sebbene non ancora precisate, potevano far pensare a un delitto. Diede quindi l’annuncio che la polizia nulla avrebbe trascurato per «arrestare i colpevoli ed assicurarli alla giustizia». Essendo incerto sulla linea di condotta cui attenersi, cercò di accreditare la voce d’una possibile fuga di Matteotti all’estero, tanto da impartire «ordini tassativi» per «le ricerche ai passi di frontiera». Il primo a ipotizzare una possibile fuga era stato proprio lui, invitando i suoi collaboratori a diffonderla per prendere tempo, e ora la rilanciava cinicamente alla Camera.

Si riunì il Gran consiglio del fascismo, ma il comunicato finale fu redatto in termini estremamente generici; vi si diceva soltanto che la seduta era stata «completamente assorbita dalla relazione di S.E. Mussolini sopra la situazione generale politica». Il giorno successivo egli parlò nuovamente a Montecitorio. Avendo valutato tutti gli aspetti della questione e maturato un comportamento che gli appariva il più appropriato, definì il crimine come un’infernale macchinazione ai suoi danni: «Solo un mio nemico, che da lunghe notti avesse pensato a qualche cosa di diabolico, poteva effettuare questo delitto che oggi ci percuote di orrore e ci strappa grida di indignazione». Abilmente motivò questa sua tesi ricordando di avere più volte offerto, al di là delle banali «nominologie di maggioranza e di minoranza», la collaborazione, la concordia e la pacificazione. Ma evidentemente c’era chi, non volendo tutto ciò, aveva pensato di gettargli tra i piedi il cadavere di Matteotti, come lui stesso si esprimeva scrivendo a d’Annunzio. Parlò per allontanare da sé sospetti e responsabilità, essendo ormai voce comune che il delitto fosse stato perpetrato da uomini a lui molto vicini, dagli squadristi della Ceka allocati negli uffici del Viminale.

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Disse: «Io potevo affermare, senza false modestie, di essere giunto quasi al termine della mia fatica, al compimento della mia opera pacificatrice, ed ecco che il destino, la bestialità, il delitto, turbano, non credo in maniera irreparabile, questo processo di ricostruzione morale». Disse perfino che si era commesso un «delitto di antifascismo» che egli deprecava: «Se c’è qual-cuno in quest’aula che abbia diritto più di tutti di essere addolorato e, aggiungerei, esasperato, sono io».

La seduta fu quanto mai turbolenta. Gli oppositori volevano che il Capo del governo rivelasse all’assemblea tutte le notizie in suo possesso. Ma lui, pallido e a braccia conserte, scuoteva il capo. Non avrebbe aggiunto una parola, e allora il repubblicano Eugenio Chiesa, sorgendo in piedi, gli rivolse un’accusa cocente: «Lei è complice!». Esplose un parapiglia indescrivibile, mentre Bottai tentava di scagliarsi su Chiesa il quale però in una successiva dichiarazione cercò di alleggerire la gravità della sua interruzione. In segno di protesta e animati dallo sdegno per la sorte di Matteotti, abbandonarono l’aula i socialisti riformisti e quelli massimalisti, gli amendoliani, i democratico-sociali, i sardisti, i repubblicani, i popolari e i comunisti.

In mancanza di prove, era arduo accusare Mussolini di aver ordinato il crimine, ma era altresì impossibile non ritenerlo il responsabile morale per aver creato, come dirà Cesarino Rossi, un clima di intolleranza e di violenza. Ciò bastava a rendere estremamente difficile la posizione sua e del partito. Sempre Rossi, sebbene attribuisse a Giovanni Mannelli l’idea dell’aggressione, ricordava alcune «istigazioni» mussoliniane. In quei giorni il duce sobillava lui e Mannelli: «Cosa fa questa "Ceka"? Cosa fa Dumini? Quell’uomo [Matteotti] dopo quel discorso non dovrebbe più circolare». Mannelli, soggiungeva Rossi, lo prese in parola. Ed eseguì. Accanto alle ragioni politiche di fondo, potevano essercene altre particolari, ma egualmente tanto forti da indurre gli uomini della Ceka a eliminare il leader socialista che aveva minacciato precise rivelazioni. Pietro Nenni dirà a sua volta che le rivelazioni potevano riguardare tra l’altro le «troppo rapide fortune maturate all’ombra di palazzo Chigi e del Viminale». Insomma si poteva anche rintracciare un movente affaristico nella vicenda e attribuire il crimine a chi non voleva essere scoperto con le mani nel sacco.

Per qualche giorno Mussolini fu indeciso e oscillante, rinchiuso nel salone delle Vittorie a palazzo Chigi. Ebbe paura del vuoto che il «fattaccio» gli creava intorno, mentre da Gardone d’Annunzio parlava della situazione scaturita dal delitto Matteotti come d’una «fetida ruma». Lui riconosceva di provare «un senso d’isolamento perché le sale di palazzo Chigi, sempre così popolose, erano deserte come se vi fosse passata una raffica, una bufera». Il suo usciere Navarra scriveva che in quel palazzo «si respirava un’aria di tomba». Fra le pochissime persone che si azzardarono a fargli visita ci fu Matilde Serao. La giornalista raccontava che il duce «le aveva pianto fra le braccia». Certa che soltanto un prodigio avrebbe potuto salvare quel

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«puvariello», donna Matilde gli portò qualche giorno dopo un corno di corallo.

Da Bologna scese a Roma il ras emiliano Leandro Arpinati, che a sua volta ebbe un’idea disastrosa del Capo. Lo trovò, come racconta Monelli, con la barba di tre giorni, gli occhi febbricitanti, con l’espressione «di un commerciante che stava per dichiarare fallimento». E ancora Navarra ne tracciava un disperato ritratto, sorprendendolo una mattina di quel giugno funesto: «Mussolini occupava una poltrona a spalliera molto alta, sorretta ai due lati da due pioli di legno dorato. Nel momento preciso in cui io avevo aperto la porta, egli, con gli occhi sbarrati, batteva la testa a destra e a sinistra sui pioli, sbuffando e ansando». Era smarrito perché lo abbandonavano anche le camicie nere della milizia, la cui mobilitazione fece registrare in varie città la «fuga» dell’ottanta per cento degli iscritti, con punte ancora più alte a Roma.

Le strade che il duce aveva davanti a sé in quel frangente erano molteplici. Egli valutava di momento in momento varie soluzioni. Sciogliere il partito e fondarne uno nuovo più aperto alla collaborazione con le opposizioni; liberarsi di tutti i suoi collaboratori implicati più o meno direttamente nel delitto per dimostrare la sua estraneità; ritirarsi (momentaneamente?) dalla scena politica e fare spazio a un governo capeggiato da Filippo Turati; reagire con un’azione di forza, con una «seconda ondata». Aveva paura. Era davvero possibile un suo deferimento all’Alta corte di giustizia come mandante del delitto? Erano fondate le voci di una imminente scorreria di antifascisti a palazzo Chigi per trucidarlo? Vittorio Emanuele, che si trovava in quei giorni all’estero, gli avrebbe tolto la fiducia? Ben presto però gli pervennero dal paese segnali tranquillizzanti. La nazione era sì profondamente turbata al cospetto d’un crimine dalla chiara connotazione di delitto politico, ma in concreto non si mosse; gli operai fecero qualche breve sciopero dimostrativo; la Borsa subì flessioni sensibili, alti e bassi, ma poi tornò al suo normale andamento. Questo gli bastò per riprendere fiato, e per insistere sulla tesi del delitto, più che antifascista, «antimussoliniano».

L’auto del sequestro, mediante una testimonianza del tutto imprevista, era stata scoperta in un’officina romana dove era stata portata per riparazioni da uno sgherro di Filippelli. Aveva i sedili insanguinati e da essa si poté risalire agli esecutori materiali del crimine. Mussolini diede alla Camera la notizia dei primi arresti, quello di Dumini compiuto nottetempo alla stazione di Roma, e quello di Aldo Putato che già aveva raggiunto Milano. Mentre i giornali pubblicavano notizie sempre più drammatiche ma incontrollate sulla sorte di Matteotti parlando di decapitazione ed evirazione del cadavere, cadevano anche molte teste di personaggi cui il duce aveva affidato alte responsabilità politiche. Per primi furono costretti a dimettersi Pinzi da

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sottosegretario agli Interni - una decisione che poteva collegarsi agli intrecci affaristici del caso - e Cesare Rossi da capo dell’ufficio stampa del presidente del Consiglio. Non passarono due giorni che Mussolini stesso ritenne opportuno di lasciare la carica di ministro degli Interni, e l’affidò a Federzoni il quale si vedeva alfine adeguatamente valorizzato. Impose poi al generale De Bono le dimissioni da capo della polizia, cui seguirono quelle del questore di Roma.

Ci furono quindi gli arresti di Marinelli; di Filippelli raggiunto a Genova mentre stava per filarsela in motoscafo; di Albino Volpi, sul quale si addensavano i maggiori sospetti come pugnalatore; di Pippo Naldi implicato negli affari finanziari del fascismo. Cesarino Rossi, che aveva tentato di rendersi latitante, decise di costituirsi. Proprio Rossi, il più stretto collaboratore del duce, era il maggiore indiziato, a torto o a ragione. Ma Rossi, accusando Mussolini di volerlo sacrificare come capro espiatorio, per allontanare da sé ogni responsabilità, rifiutava vivacemente il ruolo che il «cinismo» del Capo gli imponeva di svolgere. Scriveva a Mussolini una lettera in cui si dichiarava «esecutore di azioni illegali» da lui ordinategli, e lo minacciava, qualora non lo avesse sottratto alla condizione di capro espiatorio, di rivelare tutto quanto sapeva sulle aggressioni ad Amendola, a Misuri, a Forni, sulla irruzione in casa Nitti e sui denari forniti a Dumini da Finzi.

Non si sapeva ancora nulla della salma di Matteotti poiché i responsabili del delitto non rivelavano il luogo dell’occultamento, e ciò rendeva più vibrante la commozione popolare. La Camera era chiusa. Mussolini ne aveva ottenuto dal nuovo presidente Alfredo Rocco l’aggiornamento sine die, cogliendo l’occasione dell’assenza delle opposizioni che avevano lasciato l’aula in segno di protesta contro il crimine. Nell’ultima seduta la maggioranza aveva approvato l’esercizio provvisorio dello Stato al 31 dicembre, e quindi si poteva supporre che la Camera non avrebbe riaperto i battenti per molto tempo. Ciò significava che le opposizioni si erano fatte cogliere in contropiede, come scriveva Turati alla Kuliscioff: «II ministero, più furbo di noi, ha approfittato subito della nostra assenza e si è liberato della Camera per sette mesi». Egualmente, pochi si avvedevano dell’errore di non avere una tribuna da cui far sentire le ragioni dei «no». Anzi si pensava che, al momento della riapertura, non fosse il caso di ripresentarsi in aula per esprimere indignazione e protesta.

Tutta l’opposizione, dai comunisti, ai popolari, ad Amendola, votò infatti un documento nel quale si proclamava l’astensione dai lavori parlamentari fino al giorno in cui non si fosse ristabilito «l’ordine politico e giuridico» abbattuto dai fascisti.

Quella linea, chiamata dell’Aventino, non fu seguita da uomini come Giolitti che la considerava pericolosa potendo offrire a Mussolini il pretesto

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per stracciare definitivamente la Carta costituzionale. «Tornate alla Camera», disse Giolitti a Turati, a Treves, a Modigliani. «Per fare a revolverate?», lo interruppe polemicamente Modigliani. «Può darsi!», rispose il vecchio statista, e rientrò nell’aula sia per opporsi al governo sia per dimostrare di non essersi a sua volta «appollaiato sull’Aventino». Alcuni mesi più tardi rientrarono anche i comunisti che ormai consideravano sterile una protesta esercitata esclusivamente sul piano morale.

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XIV

II re non prendeva decisioni, e appariva chiaro come egli fosse propenso a ritenere Mussolini personalmente estraneo al delitto e ad attribuirne la responsabilità agli ambienti dell’estremismo fascista. Verso la fine di giugno il Senato si mostrò della stessa opinione, come del resto aveva già fatto la Camera confermando la fiducia al regime. Appena tre senatori parlarono contro il governo, Luigi Albertini, Carlo Sforza e il meno noto Mario Abbiate che era stato ministro di Nitti. Il conte Sforza fu particolarmente aspro. Rivolgendosi a Mussolini disse: «Potete scegliere: o colpevole, come mai niun fu, o incompetente, come mai niun fu». Incom-petente perché alle sue spalle, se si accettava la tesi della sua estraneità personale, una squadraccia di facinorosi aveva organizzato nei suoi stessi uffici un così grave delitto politico. Al momento del voto Mussolini si salvò, ed ebbe ben duecentoventicinque sì; soltanto ventuno furono i no e sei le astensioni. Egli aveva assicurato nell’aula del Senato il rispetto della legge e la punizione degli assassini, aveva ripetuto le offerte di pacificazione nazionale dichiarandosi disposto a «depurare» il partito e a modificare la compagine governativa; era già entrato in contatto con Benedetto Croce per affidargli il ministero della Pubblica istruzione, ricevendone però un rifiuto. Ripeté la deplorazione per il delitto Matteotti richiamandosi a quanto aveva detto Talleyrand sul rapimento e l’uccisione del duca d’Enghien, di cui si era reso responsabile Napoleone: «Non è soltanto un delitto, è anche un errore». Fra i padri coscritti che avevano votato la fiducia a Mussolini c’era anche Croce, e la cosa fece scalpore fra le opposizioni. Il filosofo, in un’intervista, cercò di giustificare il suo comportamento. Disse che «non si poteva aspettare e neppure desiderare» un’improvvisa caduta del fascismo. «Esso non è stato un infatuamento o un giochetto. Ha risposto a seri bisogni e ha fatto molto di buono, come ogni animo equo riconosce. Si avanzò col consenso e tra gli applausi della nazione. Sicché, per una parte, c’è, ora, nello spirito pubblico, il desiderio di non lasciar disperdere i benefìci del fascismo, e di non tornare alla fiacchezza e all’inconcludenza che lo avevano preceduto; e dall’altra, c’è il sentimento che gl’interessi creati dal fascismo, anche quelli non lodevoli e non benefici, sono pur una realtà di fatto, e non si può dissiparla soffiandovi sopra. Bisogna, dunque, dare tempo allo svolgersi del processo di trasformazione». Era questo, a suo parere, «il

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significato del prudente e patriottico voto del Senato». C’era chi, volendo cercare altre ragioni di un così docile atteggiamento, ricordava come alcuni anni prima si fossero scontrati alla Camera il filosofo e il deputato socialista. Croce era allora, 1920, ministro della Pubblica istruzione e in tale veste parlava dei problemi della scuola. Matteotti, che non era soddisfatto dell’esposizione, lo apostrofò dicendogli: «Voi vivete nelle nuvole, voi state filosofando!».

Con il voto del Senato Mussolini riacquistò tranquillità e baldanza, tanto che poco dopo, tra la fine di luglio e i primi di agosto, tornò a parlare in ben altro tono, attenendosi al suo costume di adattarsi alle situazioni, di alzare o abbassare la voce secondo le circostanze. La situazione non era certo chiarita, né poteva dirsi che la crisi provocata dal delitto Matteotti fosse definitivamente superata. Il duce si trovava sempre al centro di spinte contrapposte. Da una parte gli estremisti, che lo accusavano di essere «de-bole e inetto» e che gridavano «Abbasso Mussolini, Evviva Farinacci»; dall’altra i moderati che premevano per un’epurazione profonda e decisa delle file fasciste. I più forti nel partito erano gli estremisti, e a loro Mussolini, in quella fase, pensò di appoggiarsi, ma con misura. Intanto imponeva nuove limitazioni alla libertà di stampa, accusando ironicamente e per sovrapprezzo le opposizioni di essere buone solo a scrivere articoli di giornale. Ecco perché, per tenerle a bada, bastavano i decreti restrittivi sulla stampa: «Non era necessario mobilitare un esercito per sfondare pochi fogli di carta». Ribadiva la condanna della massoneria, senza distinguere fra palazzo Giustiniani e piazza del Gesù; assegnava alla milizia un ruolo costituzionale; e a chi voleva intentare un «processo al regime» rispondeva che «il fascismo non si faceva processare se non dalla storia».

Doveva assolutamente uscire dal nero tunnel in cui la aveva cacciato il delitto Matteotti, e riprendere il controllo del partito. A questo scopo convocò il Consiglio nazionale fascista che non si riuniva da tre anni. Aprendone la sessione si mostrò sicuro di sé e della vitalità del fascismo, al punto che si poteva «riporre in soffitta il manganello», ma non per questo si dovevano indossare «le pantofole e la papalina». Sempre all’erta, dunque; anzi sempre pronti ad affrontare ogni tempesta: «È facile navigare in un mare di bonaccia. Il bello, l’eroico è navigare quando la bufera imperversa». Ed esclamò: «Vivere pericolosamente». Ricordando che quelle erano le parole d’un filosofo tedesco da lui tenuto in grande considerazione, aggiunse: «Io vorrei farne il motto del giovane, passionale fascismo italiano».

Nel successivo discorso di chiusura, al termine dell’ampio dibattito che per più giorni aveva animato le sedute del Consiglio nazionale, si confermò astuto mediatore tra i Bottai e i Farinacci. Non poteva pensare che Bottai, uomo d’intelletto, volesse davvero arenarsi in un «pantano neoliberale» e

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che Farinacci, uomo di temperamento, credesse di poter risolvere tutti i problemi con una «seconda ondata» di violenze. Vasto era lo strepito intorno a un auspicato rigurgito di furore. Farinacci aveva intitolato alla «Seconda ondata» un suo articolo per reclamarne l’attuazione. Ne predicavano l’esigenza anche taluni intellettuali alla Curzio Suckert - che pubblicava all’indomani del delitto Matteotti il primo numero d’una sua rivista, la «Conquista dello Stato», col sottotitolo «Battagliero fascista» - e alla Maccari che faceva seguire la pubblicazione del «Selvaggio» con i motti «Marciare, non marcire» e «Né speranza né paura».

Mussolini cercava di tenere buoni sia i revisionisti sia gli estremisti. Non si doveva ogni giorno parlare di «plotoni d’esecuzione» in un «continuo stillicidio»: bisognava fare e basta, se la cosa era necessaria; non allarmare la gente, ma «cloroformizzarla». Tutti i fascisti dovevano contribuire a salvare il fascismo o tutti sarebbero precipitati con esso. Il fascismo dimostrava di non essere soltanto azione, ma anche pensiero, e bastava fare i nomi, disse, di Marconi e delle sue «onde a fascio», di Giovanni Gentile e di tanti professori d’università. Avendo gli oppositori accusato il regime d’affarismo, urgeva colpire i responsabili, ma bisognava anche riconoscere di aver «peccato di vanità». Si erano troppo «ingingillati» e imborghesiti. Ormai c’erano «troppi commendatori, troppi cavalieri» tra i fascisti, mentre si doveva riscoprire l’orgoglio di arrivare «nudi alla meta».

L’effetto della sagace mediazione mussoliniana fu però di breve durata. A provocare nel paese una nuova tensione drammatica fu il ritrovamento delle spoglie di Matteotti, a più di due mesi dal delitto. Era il 16 agosto. Le spoglie del martire furono rinvenute nella boscaglia della Quartarella, a poco più d’una ventina di chilometri a nord di Roma, presso la Flaminia. Alle opposizioni appariva strano che mai nessuno avesse potuto individuare in tutto quel tempo il luogo della frettolosa tumulazione avvenuta a fior di terra. Si pensava che il carabiniere autore del ritrovamento fosse stato guidato dall’alto essendo giunto il momento psicologicamente più adatto per portare alla luce la salma. Si riaccese vivissima la commozione popolare. I funerali di Matteotti richiamarono a Fratta Polesine una folla immensa, mentre in molte località si verificavano incidenti tra fascisti e antifascisti. Si risvegliarono i «selvaggi» delle province, una colonna di autocarri con centinaia di fascisti in camicia nera calò da Bologna a Roma per manifestare contro il legalismo del ministro Federzoni. Risorsero violentissime le squadre; se ne costituirono di nuove che si produssero in aggressioni e saccheggi. A Napoli ci furono morti e feriti; a Torino fu bastonato Piero Gobetti; a Roma invece un sindacalista un po’ squilibrato uccise su un tram a colpi di pistola un deputato fascista, Armando Casalina, volendo vendicare il leader riformista. E sempre a Roma i fascisti si vendicarono di Casalina, trucidando un cameriere a colpi di baionetta. Le opposizioni nel frattempo

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avevano costituito a Firenze, sotto l’egida di Carlo Rosselli ed Ernesto Rossi, un’associazione antifascista clandestina col nome di «Italia Libera».

Soprattutto la Toscana fu teatro di efferate violenze, e il duce corse in quella regione forse con l’idea di compiere opera moderatrice, ma poi si lasciò trascinare nel vortice d’una incontenibile furia verbale. Fu violentissimo nel discorso del Monte Amiata. Rivolgendosi ai lavoratori della miniera di cinabro e riferendosi alle accuse degli antifascisti disse: «Vi assicuro che il clamore degli altri è molesto, ma perfettamente innocuo. Le opposizioni, tutte insieme, non dirò, come disse Bismarck, che non valgono le ossa di un granatiere della Pomerania, ma vi assicuro che sono per-fettamente impotenti. Il giorno in cui uscissero dalla vociferazione molesta, per andare alle cose concrete, quel giorno noi di costoro faremmo lo strame per gli accampamenti delle camicie nere».

Ci fu la reazione d’un paio di ministri liberali, i quali, irritati, rassegnarono le dimissioni dalla carica. Il loro sdegno si dissolse però rapidamente e decisero di rimanere al governo. Mussolini aveva poi ripreso a parlare il linguaggio della temperanza che in realtà serviva a nascondere la sua strategia cloroformizzatrice. Cercava di farlo capire a Farinacci cui telegraficamente consigliava, «malgrado ambiente fiorentino», di fare un discorso tale «da sorprendere tutta Italia per sua moderazione». «Possiamo tenere linguaggio moderato», affermava il duce, «perché siamo sicuri nostra forza nostro avvenire».

Ma le pistolettate a Casalini ridiedero vigore all’estremismo farinacciano, sicché il ras di Cremona poté scrivere sul suo giornale un articolo particolarmente minaccioso: «Prima che i fascisti si vedano costretti a reagire contro coloro che sono i responsabili morali del delitto - Amendola, Albertini, Don Sturzo, Vettori, Turati, Gonzales, Cianca e delinquenti minori - si provveda dai poteri dello Stato al loro arresto e si provveda inoltre non al semplice sequestro dei giornali avversari, ma alla loro soppressione e sia finita la farsa sull’Aventino; se non è sufficiente la scopa, si adopri la mitragliatrice». Gli faceva eco «L’Impero», il giornale di Carli e Settimelli, con una vignetta in cui apparivano alcuni fascisti coi polsi incatenati. La didascalia diceva: «Duce, scioglieteci le mani!». In maniera un po’ enigmatica lui rispondeva: «Voi non avete le mani legate, non c’è bisogno di slegarvele. Le mani legate le ho io, e basta!». Ma Farinacci insisteva e, a chiusura di quel torbido ‘24, proclamava: «La parola di Capodanno: mettere il manganello a portata di mano».

Sempre sotto l’effetto del caso Matteotti, negli ultimi mesi del ‘24 il fascismo dovette registrare gravi smacchi forieri di pericoli. La Confederazione degli industriali chiese una sollecita normalizzazione della situazione politica con il conseguente ripristino delle libertà di stampa e di

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riunione. I liberali, riuniti a congresso, fecero una sorta di autocritica, anche se incompleta, per aver creduto nella possibilità di democratizzare Mussolini. La celebrazione del secondo anniversario della marcia su Roma fu disertata da combattenti e mutilati, sicché il 4 novembre, nella commemorazione della vittoria, molti si unirono ai movimenti antifascisti non escluso il gruppo di «Italia Libera». Serio appariva l’isolamento del regime e non potevano bastare da contrappeso le adesioni di Giacomo Puccini e di Luigi Pirandello pure avvenute in mesi così turbolenti. Allo scrittore siciliano, il duce inviava un telegramma di «fervide felicitazioni di italiano e di fascista» per il successo ottenuto con la commedia Così è se vi pare. Tanto meno poteva bastare l’arrendevolezza di Facta il quale accettava la nomina a senatore che gli veniva offerta da Mussolini. Con quella nomina il duce voleva far credere ai più distratti di non serbare rancore per gli antichi avversari, ma in realtà intendeva legare più strettamente al suo carro i liberali della destra conservatrice, in odio alla maggioranza del partito liberale in polemica col fascismo.

Alla riapertura della Camera, che era rimasta sbarrata per cinque mesi, il regime mostrava profonde crepe. Mussolini perdeva l’appoggio di Vittorio Emanuele Orlando, di Alberto Giovannini segretario del partito liberale, di Paratore, di Porzio, mentre Giolitti era alla testa dell’opposizione costituzionale prolungandosi la secessione dei deputati aventiniani. Anche al Senato il regime incontrava nuovi ostacoli in seguito alle critiche formulate da Ettore Conti, che interpretava i timori degli industriali, e da alcuni generali, tra i quali Caviglia e Giardino che attaccarono la milizia fascista. Mussolini, nel tentativo di tamponare le falle, tornava a parlare in toni moderati e costituzionali. Diceva: «Se, al termine di questa seduta, S.M. il re mi chiamasse e mi dicesse che bisogna andarsene, mi metterei sull’attenti, farei il saluto e obbedirei». Avendo Luigi Albertini pronunciato in quella stessa aula un forte discorso antifascista, il duce soggiunse: «Dico S.M. il re Vittorio Emanuele III di Savoia, ma quando si tratta di S.M. il "Corriere della Sera", allora no!». Nella sua (voluta?) contraddittorietà Mussolini, mentre da un lato si presentava nelle vesti di un moderato, dall’altro offriva una ben diversa immagine del regime confermando tutta la sua avversione allo scioglimento della milizia da più parti richiesto come prova concreta di normalizzazione. Diceva che la milizia era indispensabile al regime come deterrente contro i suoi nemici. Fece un convincente esempio: «Nel giugno scorso, lo sciopero che si tentava a Roma - e i muratori avevano abbandonati i cantieri - gelò non appena sfilò per il Corso, la Legione "Francesco Ferrucci" di Firenze. Tutti capirono che non c’era da scherzare».

Alla crescente opposizione che si affermava nelle aule parlamentari, si affiancavano nel paese nuove formazioni democratiche e antifasciste. Per

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iniziativa di Amendola nasceva 1’«Unione nazionale delle forze liberali e democratiche», il cui manifesto istitutivo recava le firme di personalità della politica e della cultura come Corrado Alvaro, Bonomi, Roberto Bracco, Calamandrei, Felice Casorati, Alberto Cianca, Francesco Cocco-Ortu, Guido De Ruggiero, Mario Ferrara, Guglielmo Ferrerò, Giorgio Levi Della Vida, Enrico Mole, Nello Rosselli, Meuccio Ruini, Luigi Salvatorelli, Sforza, Silvio Trentin, Sinibaldo Tino, Mario Vinciguerra. Si chiudeva così il ‘24, e Amendola si augurava che presto in Italia venisse bandita la «triste formula» di «libero delitto in non libero Stato». Ma già Mussolini si spingeva oltre e preparava una riforma elettorale basata sul sistema uninominale a danno delle opposizioni, mentre gli estremisti erano sempre più scontenti e delusi del loro oscillante duce che non si decideva a sferrare la seconda ondata di violenze. Trentatré consoli della milizia gli chiesero udienza e gli parlarono a muso duro. «Siamo stanchi di segnare il passo», gli dicevano Enzo Galbiati e Aldo Tarabella a nome del gruppo. «O tutti in prigione, compreso Voi, Duce, o tutti fuori». Il che significava che Mussolini, pena la sconfessione, doveva decidersi «ad assumersi la responsabilità della rivoluzione» e quindi a riprendere il manganello, invece di traccheggiare con il parlamentarismo. Curzio Suckert, non ancora Malaparte, gli si ribellava. Sul suo settimanale, la «Conquista dello Stato», scrisse un articolo dal titolo Il fascismo contro Mussolini?: «Tanto l’on. Mussolini, quanto il più umile fascista, sono ugualmente figli e servi della stessa rivoluzione. Di qui il dovere assoluto dell’on. Mussolini di attuare la volontà rivoluzionaria del popolo. I fascisti delle province non ammettono deviazioni a questo assoluto dovere: o l’on. Mussolini attua la loro volontà rivoluzionaria, o rassegna, sia pure momentaneamente, il mandato rivoluzionario affidatogli. Si è forse dimenticato che tutte le rivoluzioni hanno la fame di Saturno?». Farinacci su «Cremona Nuova», accusando a sua volta personalmente il duce, scriveva a tutte lettere che «il fascismo non approvava la politica rinunciataria degli ultimi due anni».

Forti colpi di coda antimussoliniani pervennero da altri fronti e furono la denuncia presentata dal direttore del «Popolo», Giuseppe Donati, contro De Bono per l’assassinio di Matteotti, e la pubblicazione del memoriale di Cesare Rossi avvenuta sulle pagine del «Mondo» mentre il suo autore era ancora in carcere. Nel memoriale, definito da Missiroli una «chiamata di correo», si affermava che ogni delitto si era sempre verifìcato «per la volontà diretta o per l’approvazione o per la complicità del Duce». Sui muri di Roma apparve nottetempo un manifesto con il faccione di Mussolini lordato di sangue.

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Ancora una volta in Toscana, detta la «fascistopoli d’Italia», si registravano ondate di violenza a opera di estremisti che chiedevano al governo un’«azione decisiva e dittatoriale». Diecimila squadristi si erano radunati a Firenze. Le squadre della «Disperata» e della «Cesare Battisti» incendiarono le redazioni del «Nuovo Giornale» e del giornale dei combattenti, le sedi di entrambe le massonerie e del Circolo di cultura cui aderivano Calamandrei, Piero Jahier, Carlo Rosselli, Emesto Rossi. Altre devastazioni si ebbero ad Arezzo, a Pisa, a Siena e anche in Emilia, a Bologna. Le violenze si ripercossero poi a Roma - con scorrerie nelle abitazioni di esponenti antifascisti, con falò dei giornali dell’opposizione peraltro sequestrati - e a Milano dove si tentò l’assalto al «Corriere della Sera». Proprio il caso Matteotti, ora che la paura era passata, offriva lo spunto ai più rozzi canti degli squadristi: «Con la carne di Matteotti, / ci faremo i salsicciotti!». E, sul motivo d’una canzonetta in voga. Mimosa, cantavano: «Matteotti, Matteotti, quanta malinconia nel tuo sorriso. / Avevi un posticino in Parlamento: / te l’ha levato, il Fascio, in un momento». Mussolini lasciava correre, preparando qualcosa di grosso come aveva fatto capire ai trentatre consoli della milizia scesi sul piede di guerra contro di lui. «Stiamo attraversando difficoltà», aveva detto, «che esigono comprensione da tutti. Il 3 gennaio prossimo, quando avrò fatto un mio discorso alla Camera, le opposizioni taceranno una volta per tutte. E se voi obbedite, bene; se no, peggio per tutti e anche per voi».

«Viviamo giorni di passione», scriveva Turati alla Kuliscioff. Si parlava di dimissioni dei ministri liberali; di un possibile intervento del re il quale riteneva però di non avere appigli costituzionali per agire, della ferma intenzione di Mussolini di non abbandonare il potere anche perché, privo del governo, non si sarebbe potuto sottrarre a un procedimento penale per i delitti che l’opposizione gli addebitava. Anzi, il duce chiedeva al re un decreto in bianco di scioglimento della Camera e otteneva da lui una risposta dilatoria atta a incoraggiarlo sulla strada delle maniere forti. Tutto mutava di ora in ora, «come in un film cinematografico», diceva Turati. Fra una sorpresa e l’altra, fra aspettative e delusioni si arrivò al 3 gennaio del 1925 che fu chiamato il «diciotto brumaio» di Mussolini.

Nel pomeriggio di quel giorno, era un sabato, l’aula di Montecitorio appariva percorsa da viva agitazione. Tutti erano in attesa delle parole del duce. «Forse questo non sarà un discorso parlamentare», esclamò Mussolini preannunciando di non volere a conclusione un voto politico. Dopo aver lungamente dondolato la testa disse, con implicito riferimento al delitto Matteotti, qualcosa che nessuno si attendeva che egli dicesse. Ne era

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all’oscuro anche il re: «L’articolo 47 dello Statuto dice: "La Camera dei deputati ha il diritto di accusare i ministri del re e di tradurli dinanzi all’Alta corte di giustizia". Domando formalmente se in questa Camera, o fuori di questa Camera, c’è qualcuno che si voglia valere dell’articolo 47». Incrociò le braccia, poi le portò ai fianchi, e quindi proseguì: «Sono io, o signori, che levo in quest’aula l’accusa contro me stesso. Si è detto che io avrei fondato una "Ceka". Dove? Quando? In qual modo? Nessuno potrebbe dirlo! C’è stata una "Ceka" che ha esercitato il terrore in Russia, che proclamava di essere la spada della rivoluzione. Ma la "Ceka" italiana non è mai esistita». Disse poi di aver svolto un’azione pacificatrice tanto che a Montecitorio si era potuta respirare «un’idilliaca atmosfera da salotto». Come si rispondeva ai suoi sforzi? Si rispondeva con l’Aventino che era una «secessione anticostituzionale, nettamente rivoluzionaria», e con un «accesso di necrofilia» [alla ricerca del cadavere di Matteotti] in quanto i giornali avevano pubblicato le più «macabre menzogne», facendo «inquisizioni anche su quel che succedeva sotto terra». Si rispondeva affermando che il fascismo era «un’orda di barbari accampati nella nazione, un movimento di banditi e di predoni», inscenando la «questione morale», sebbene si conoscesse la «triste storia» delle questioni morali in Italia. «Ma, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l’arco di Tito?».

Rivolto all’assemblea questo interrogativo, venne con protervia al nocciolo della questione pronunciando le parole sillaba per sillaba: «Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l’ho creato con una propaganda che va dall’intervento ad oggi».

Aveva accuratamente evitato di fare in maniera esplicita il nome di Matteotti, limitandosi a due allusioni. Nella prima aveva sfrontatamente detto: «Come potevo pensare, senza essere colpito da morbosa follia, non dico solo di far commettere un delitto, ma nemmeno il più tenue, il più ridicolo sfregio a quell’avversario che io stimavo perché aveva una certa crànerie, un certo coraggio, che rassomigliavano qualche volta al mio coraggio e alla mia ostinatezza nel sostenere le tesi?». Nella seconda aveva parlato di lui semplicemente come dell’«ucciso» che «qualcuno dei nostri nemici aveva voluto vendicare sparando su uno dei nostri uomini migliori»,

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cioè il deputato Casalini. Aveva poi elencato tutti i delitti compiuti dai sovversivi, ricordando come a un fascista avessero «spiaccicato la testa fino a ridurla a un’ostia sanguinosa». E in tono minaccioso aveva concluso: «È arrivata l’ora di dire ‘Basta"». Perché? «Perché quando due elementi sono in lotta e sono irriducibili, la soluzione è la forza. Non c’è mai stata altra soluzione nella storia e non ce ne sarà mai. Signori! Vi siete fatte delle illusioni! Voi avete creduto che il Fascismo fosse finito perché io lo comprimevo, che fosse morto perché io lo castigavo. Voi state certi che nelle quarantott’ore successive a questo mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l’area. Tutti sappiamo che ciò che ho in animo non è capriccio di persona, non è libidine di governo, non è passione ignobile, ma è soltanto amore sconfinato e possente per la Patria».

Rivelando che cosa avesse in animo di fare, fece anzitutto aggiornare la Camera a domicilio, per quanto fosse ancora priva degli aventiniani e non gli desse fastidi, come si era anche visto con quell’ultimo discorso molto applaudito dalla maggioranza e forse sottovalutato dalle opposizioni superstiti che in aula non avevano mosso un dito. Poi mobilitò la milizia e diede ordine ai prefetti - mediante il ministro Federzoni, che pure era moderato e per questo non riscuoteva le simpatie degli estremisti - di impedire rigorosamente ogni manifestazione di antifascisti, di sciogliere le loro organizzazioni «turbolente» e i gruppi di «Italia Libera», di applicare con rigore i decreti sulla stampa, sicché venivano soppressi o sequestrati tutti i giornali dell’opposizione.

Mussolini avrebbe voluto tenere a freno i più facinorosi che creavano problemi a lui stesso. Da un punto di vista formale non si poteva negare che egli esigesse dagli estremisti di tenere le «mani in tasca», tanto che uomini adusi al ribellismo, come Curzio Suckert, si sentivano in dovere di chiedersi quali fossero le sue reali intenzioni. Anche Suckert parlava di «maschera», ma a suo modo: «Sorge spontanea la domanda: il discorso del 3 gennaio è stato un atto sincero di fede rivoluzionaria, o non piuttosto una mossa dell’abilissima tattica mussoliniana, una maschera rivoluzionaria gettata, per ingannare gli amici e gli avversari, sul viso della normalizzazione? Poiché a noi sembra che l’onorevole Mussolini si sia trovato a dover risolvere d’urgenza questo problema: iniziare una nuova politica di vera ed effettiva normalizzazione, mascherandola però, per sgomentare le opposizioni e tenere in freno i fascisti, con parole e con gesti rivoluzionari. Né avrebbe potuto agire altrimenti, poiché senza la maschera di Robespierre anche questo supremo tentativo normalizzatore sarebbe apparso debolezza e resipiscenza tanto ai fascisti quanto agli antifascisti». Lo stesso Turati pensava che probabilmente il discorso del 3 gennaio era «uno dei soliti bluff per disorientare e spaventare le passere». Un bluff che però condusse di lì a poco allo scioglimento dei partiti politici, all’aperta instaurazione della dittatura fascista. Quella era infatti, come scrisse con amara perspicacia

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«Rinascita Liberale», la «Caporetto del vecchio liberalismo parlamentare». Di conseguenza i ministri liberali Casati e Sarrocchi rassegnarono le dimissioni. Il duce non se ne mostrò preoccupato, li sostituì con personaggi più sicuri, decidendo altresì di defenestrare il ministro Oviglio il quale, sebbene fascista, non era più di suo gusto. Ovviamente la nuova riforma elettorale ebbe l’approvazione di entrambi i rami del parlamento che altresì votarono senza battere ciglio in un sol blocco la conversione in legge di duemila decreti. Tra gli oppositori figuravano Giolitti, Orlando e Salandra che il duce beffardamente definiva i «tre secoli della vecchia Italia». L’indubbia sterzata mussoliniana in senso estremistico portò Farinacci, il più intransigente dei fascisti che il duce non amava e che Starace chiamava «l’uomo del tormento e della battaglia», alla carica di segretario del partito. Il ras di Cremona tenne l’incarico per un anno appena, a causa dei continui contrasti che lo opponevano al Capo.

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XV

Era chiaro a tutti che il fascismo, dopo la marcia su Roma cui era seguito il suo consolidamento, aveva cominciato la marcia verso la formazione d’uno Stato totalitario. Non aveva più ostacoli sul suo cammino. Debole era l’opposizione costituzionale alla Camera, più debole ancora si era rivelata l’azione degli aventiniani. I comunisti, che però non erano molti e che erano tornati nell’aula di Montecitorio, si battevano ovunque con vigore e veniva-no particolarmente presi di mira dalla polizia, dalla milizia, dagli squadristi. I giornali d’opposizione subivano continui sequestri sicché alle forze antifasciste non rimaneva che dar vita alla stampa clandestina. Per primo nacque a Firenze il «Non mollare» a opera dei fratelli Rosselli e di Emesto Rossi.

Mussolini in quei difficili mesi non godeva di ottima salute. Era tormentato da un’ulcera duodenale che talvolta lo costringeva a rimanersene dolorante in casa. Un attacco d’ulcera fu particolarmente doloroso e si pensava di sottoporre l’ammalato a un intervento chirurgico, ma poi l’idea fu abbandonata. C’era chi sperava che quell’ulcera potesse liberare per via naturale il paese dal fascismo con la morte del duce, e ottenere il risultato che le forze d’opposizione avevano mancato. Superata la fase acuta del male, riprese a strapazzare il violino con la Barcarola di Ranzato, già famo-so per il Paese dei campanelli, e la Follia di Gorelli. Di tanto in tanto si recava a villa Borghese. Faceva brevi passeggiate allo zoo dove visitava la giovane leonessa che per qualche tempo aveva tenuto nel suo appartamento. L’aveva chiamata «Italia». Entrava nella sua gabbia e l’accarezzava. Una mattina, a un gruppetto di persone che lo attorniava durante la visitina al felino, disse con furbesca aria allusiva: «"Italia" ha già diciotto mesi e, come vedete, l’ho addomesticata alla perfezione».

L’ulcera tomo a infastidirlo seriamente, e quella volta si era talmente diffusa la voce d’una sua imminente dipartita, che egli avvertì l’esigenza di smentirla di persona con un discorsetto dal balcone di palazzo Chigi. Gli si presentava l’occasione del sesto anniversario della fondazione dei fasci, e disse: «Non so resistere al desiderio di farvi sentire la mia voce. Non solo perché ciò vi fa piacere, ma anche per dimostrare che l’infermità non mi ha tolto la parola». Era mezzogiorno e la folla che si accalcava nella piazza lo applaudiva ardentemente. Con divertita iattanza proseguiva: «La mia presenza a questo balcone disperde d’un tratto un castello di carte a base di ridicoli "si dice", di miserabili "corre voce". Voglio invece dirvi, io,

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che siamo a primavera ed ora viene il bello. Il bello, per me e per voi, è la ripresa totale, integrale dell’azione Fascista, sempre e dovunque, contro chiunque». Tacque per un attimo, poi chiese: «Lo volete voi?». La risposta fu un solo, frenetico, prolungato «Sìii!», Prima di ritirarsi, lanciò un fiore tra la gente, provocando un oceanico parapiglia, fino a quando quel fiore non riapparve, un po’ strapazzato, nelle mani di un avanguardista.

Abitava ancora in via Rasella, sempre assistito dalla governante umbra, Cesira, di cui Rachele era gelosa, anche perché le aveva strappato il ruolo di solerte padrona di casa. Rachele rimase ancora per poco a Milano dove il marito si recava sempre più di rado e love la sua donna non era più lei, ma la Sarfatti, e poi decise di ritirarsi con tristezza nella sua piccola tenuta di Villa Carpena, presso Forlì. Edda fu mandata a Firenze, nel collegio della S.S. Annunziata, prescelto «per la sua risonanza di serietà», mentre Bruno e Vittorio studiacchiavano a Forlì e cominciavano a prendere lezioni di violoncello suggestionati dal padre. L’unico contatto reale di Rachele con Benito era un consistente assegno mensile di seimila lire che lei riceveva attraverso l’amministrazione lei «Popolo d’Italia», oltre le spese per l’automobile e il salario per lo chauffeur personale.

Il duce era sempre più fascista e sempre meno mussoliniano. Egli stesso si permetteva di ironizzare sui normalizzatori osservando che la crisi seguita al caso Matteotti poteva ritenersi superata. «Ma non è finita», aggiungeva. «Se mi fosse lecito impiegare termini di guerra, senza far rizzare le orecchie lunghe ai sedicenti normalizzatori, io direi che abbiamo vinto una battaglia, una grande battaglia, ma non ancora la guerra». Attaccava però anche gli estremisti quando a suo avviso andavano oltre ogni misura. Se ne lamentava per lettera con Farinacci. Gli segnalava un articolo apparso sull’«Impero» in cui si sosteneva che la rivoluzione fascista aveva fatto «completo fallimento», ed implicitamente ne attribuiva a lui, Mussolini, la responsabilità. Bisognava «punirne» l’autore, diceva, come si faceva con «i disfattisti» durante la guerra. «Ti assicuro che io sradicherò tutti i "salici piangenti" anche se fossero numerosi come una foresta».

Uno dei «salici piangenti» era l’onnipresente Curzio Suckert, il quale aveva scritto: «Staremo a vedere se il cannone ch’egli ha sparato col suo discorso del 3 gennaio era caricato a polvere o caricato a palla». Gli estremisti, dunque, non premevano meno dei normalizzatori interni e di quelli esterni rappresentati dai moderati e dai conservatori, cioè dai fiancheggiatori del fascismo. Se gli estremisti erano forti all’interno del partito, i fiancheggiatori rappresentavano l’essenza politica, culturale e sociale del paese, e non erano meno temibili degli altri. Gli aventiniani preoccupavano molto meno il duce, sebbene continuassero a incalzare Vittorio Emanuele e a sperare in un suo gesto restauratore. «Sorga fiera-mente il re», esortava Amendola. Ma il re non sorgeva e si diceva ognora

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privo dei necessari appigli costituzionali per poter mandare a casa Mussolini.

Sulla scena politica c’erano infine gli intellettuali antifascisti. Con vigore essi risposero a un manifesto di Giovanni Gentile che, impregnato di filosofia tedesco-castelvetranese, segnò l’atto di nascita della cultura fascista. Il manifesto non piacque però a Mussolini che lo giudicò generico e fumoso. Tra i fondatori della cultura fascista, insieme con Gentile, figuravano Nicola Pende, Gioacchino Volpe, Giorgio Del Vecchio, Ernesto Codignola, Amedeo Maiuri, Giuseppe Ungaretti, Ardengo Soffici, Ugo Ojetti, IIdebrando Pizzetti, Alfredo Panzini, Luigi Pirandello, Luigi Barzini. Tra i firmatari del manifesto antifascista si annoveravano invece scrittori, professori, giornalisti che ancora avevano il coraggio delle loro idee, ed erano idee di libertà e di giustizia, matrici del Risorgimento. Si posero al fianco di Benedetto Croce, impressionalo dalla piega degli avvenimenti, e di Giovanni Amendola che capeggiava la protesta dell’Aventino. Si ersero sulla sponda dell’opposizione Luigi Einaudi, Luigi Albertini, Giovanni Ansaldo, Roberto Bracco, Sem Benelli, Emilio Cecchi, Guido De Ruggero, Carlo Arturo Jemolo, Ugo Guido Mondolfo, Luigi Salvatorelli, Giuseppe Rensi, Manara Valgimigli, Corrado Alvaro, Virgilio Brocchi, Piero Calamandrei, Arturo Labriola, Gaetano Salvemini, Adriano Tilgher, Mario Vinciguerra, Antonino Anile. Contro questo gruppo d’una quarantina di intellettuali dichiaratisi apertamente antifascisti si scatenò ogni forma di rappresaglia, e col tempo alcuni di loro mutarono fronte, come Emilio Cecchi cui fu assegnato il «Premio Mussolini». Le persecuzioni colpirono anche i popolari che a loro volta avevano assunto una posizione di netta intransigenza nei confronti del regime, tra l’altro espellendo dal partito i deputati clerico-fascisti che a Montecitorio avevano votato a favore della riforma elettorale mussoliniana.

Il ras di Cremona, salito al potere di segretario del partito, usava logicamente il pugno di ferro contro gli oppositori. «Il fascismo», diceva Farinacci, «deve infischiarsi di tutti i consensi. Il fascismo cremonese si è infischiato di democrazia, di liberalismo, di combattenti e compagnia bella. È la politica forte che attira il consenso. Quale sarà la mia azione di segretario? Cercherò di adottare in tutte le altre province i metodi del fascismo cremonese. Noi non rinunciamo ai diritti della rivoluzione». Il primo oppositore a provare i diritti della rivoluzione, alla maniera farinacciana, fu Giovanni Amendola, aggredito, malmenato e ferito da una squadra di fascisti nei pressi di Pistola, dopo essere stato scacciato da Montecatini dove era in cura. Le ferite, dalle quali Amendola non poté

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riprendersi, lo condussero alla tomba pochi mesi più tardi, nell’esilio di Cannes. Fu quasi un secondo delitto Matteotti, che tuttavia, per le modalità dell’evento, non ebbe sul regime le stesse negative conseguenze del primo. Fino a poche ore dalla morte, Amendola aveva sperato in un gesto antifascista della monarchia, quando già non si aspettavano alcunché dal sovrano né Turati né gli aventiniani che lo scrivevano sui giornali clandestini. Turati commentava: «Quanto al fantoccio [Vittorio Emanuele] non c’è proprio da sperare nulla». Più duramente incalzavano gli uomini di «Non mollare» i quali osservavano: «Dal 3 gennaio la situazione è mutata. Ogni speranza di soluzione legale è caduta. La monarchia è legata a filo doppio con Mussolini. Il compito dell’Aventino è ormai uno solo: dire alto e forte al popolo italiano che la legalità è morta».

Da una parvenza di «legalità» gli italiani non ottennero nemmeno la condanna di De Bono che il Senato, riunito in Alta corte, assolse dalle accuse di complicità o di favoreggiamento nel delitto Matteotti e nelle aggressioni ad Amendola e a Misuri. L’accusatore, il popolare Donati, fu invece costretto a espatriare. Così apparve chiaro come fosse necessario provare altre forme di protesta e di lotta, prima fra tutte quella dell’attentato contro Mussolini. Fu l’ex deputato socialista Tito Zaniboni a richiamarsi per primo all’antica regola del dente per dente, ma i preparativi dell’attentato che egli si accingeva a compiere furono scoperti in tempo dalla polizia messa sull’avviso da un confidente doppiogiochista. Zaniboni venne arrestato nella camera dell’albergo Dragoni dalla cui finestra, attraverso le persiane, avrebbe dovuto sparare, con un fucile austriaco di precisione, a Mussolini mentre si affacciava al balcone d’angolo di palazzo Chigi per celebrare, il 4 novembre, il settimo anniversario della vittoria. Mussolini parlò l’indomani, da quel balcone, e ringraziò dal «profondo del cuore» i romani che lo festeggiavano: «Tu senti, popolo di Roma, che se io fossi stato colpito a questa ringhiera, sarebbe stato colpito non un tiranno, ma il servitore del popolo italiano».

Il gesto di Zaniboni fu impudentemente definito dalla stampa fascista un «tentato parricidio». Un giornale di Parma esigeva perciò la «fucilazione immediata» di tutti i responsabili dell’attentato, mentre questo o quell’esponente del partito si offriva «come boja per decapitare gli arrestati», vale a dire Zaniboni e il generale Luigi Capello, suo complice massone.

La reazione di Mussolini, che frenava gli estremisti sulla strada della rappresaglia violenta e individuale, fu di natura politica, ma non per questo meno pesante. Tuttavia egli ordinò gravi misure liberticide contro gli antifascisti, come l’immediato scioglimento del partito socialista riformista dal quale l’ex deputato proveniva; la sospensione del giornale la

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«Giustizia»; l’occupazione delle logge massoniche, sospettate di aver partecipato all’organizzazione dell’attentato. Col giro di vite che si attuava «in difesa dello Stato» si ottenne in qualche settimana che i fratelli Crespi, com-proprietari del «Corriere della Sera», si liberassero del direttore scomodo Albertini. Con Albertini uscirono dal giornale Einaudi, Sforza, Parri. Il «Times» di Londra commentava: «La fine del "Corriere" indipendente è una grave perdita per la civiltà europea».

Il fallito attentato di Zaniboni e gli altri tre che gli fecero eco furono il miglior pretesto che il regime potesse aspettarsi per accelerare al massimo il cammino verso una completa instaurazione della dittatura, la dittatura personale di Mussolini. Il duce aboliva la carica di presidente del Consiglio per assumere quella di capo del Governo, più aderente alla nuova situazione in cui egli si poneva al di sopra degli altri ministri e del Parlamento volendo esercitare direttamente ed esclusivamente il potere esecutivo a nome del re. Si instaurava una diarchia tra lui e il sovrano, ma il duce non si accontentava di essere il capo indiscusso dell’esecutivo. Volle anche assumere la responsabilità del ministero degli Esteri, di cui già aveva l’interim, e di altri tre dicasteri. Guerra, Marina e Aeronautica. Nell’aula del Senato c’erano generali, come Caviglia, che al suo cospetto si mettevano sull’attenti e che anche per questo motivo meritarono il grado di marescialli d’Italia. Nel quadro delle riforme istituzionali e amministrative, i podestà sostituirono i sindaci, mentre a Roma si creò un governatorato in luogo del tradizionale comune.

Ricorreva il terzo anniversario della marcia su Roma, e lui si dichiarava soddisfatto di tutte le misure restrittive adottate con imperio dall’alto. «Se avessimo dovuto sottoporre», disse parlando alla Scala di Milano, «ognuno di questi provvedimenti alla discussione ed all’approvazione di un’assemblea parlamentare composta di cinquecentotrentacinque rispettabili persone, ci troveremmo oggi a non aver concluso nulla». Argomentando sulla fine delle idee-forza del liberalismo e del socialismo, esclamò: «Signori! L’Italia di oggi non può indossare il costumino che andava bene per il piccolo Piemonte del 1848». Metteva perciò il potere esecutivo in prima linea fra i poteri dello Stato: «Oggi il potere esecutivo è il potere onnipresente e onnioperante nella vita di tutti i giorni della nazione». Diceva che ogni italiano doveva «sentirsi un soldato», anche quando non portava il grigioverde, in funzione del «destino di potenza della nostra giovane nazione». Dunque, «in marcia, e non fermiamoci fino a quando le ultime mete non si siano raggiunte». Soppressi tutti i giornali d’opposizione, vennero sciolti i partiti non fascisti poiché bastava «un solo partito come organo del regime»; si abolirono le amministrazioni locali elettive sostituendole con personaggi consolari di nomina governativa; si

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asservirono i sindacati; si vietò la libera iniziativa degli imprenditori e dei lavoratori. Inoltre si ritirarono i passaporti, si istituirono la polizia segreta e il Tribunale speciale, si ristabilì la pena di morte. Agli antifascisti che si erano rifugiati all’estero si tolse la cittadinanza e si confiscarono i beni. I primi fuorusciti a subire così gravi provvedimenti furono Alceste De Ambris, «sovversivo di professione»; Giuseppe Donati, «implicato nell’attentato Zaniboni»; Gaetano Salvemini, «calunniatore» e gli ex fascisti Massimo Rocca e Cesare Rossi. «Il Popolo d’Italia» parlò di loro come delle «più losche figure» della terra. La polizia segreta, che eufemisticamente era chiamata Ispettorato speciale, entrò in azione arrestando i comunisti Gramsci, Togliatti, Scoccimarro, Di Vittorio, Grieco, Roveda, e denunciandoli al Tribunale speciale. Si abusò enormemente del confino di polizia al quale erano inviati antifascisti militanti e cittadini che si limitavano a sporadiche mormorazioni. Ponza, Ventotene, le isole Tremiti accolsero persone che magari su un tram avevano esclamato all’indirizzo di Mussolini: «Li mortacci sua, sto puzzone!».

Senza falsa modestia, il duce scrisse su «Gerarchia» che il 1926 era l’«anno napoleonico» della rivoluzione fascista, e di rimando il «New York Herald Tribune» rappresentava lui come il «Napoleone del 1926». Mussolini si vantava di aver sepolto «con un funerale di terza classe» il vecchio Stato democratico liberale, «agnostico e paralitico», e di aver creato in sua vece lo Stato «sin-dacale-corporativo». A sostegno di questa creazione istituì il Ministero delle Corporazioni, affidandone a se stesso il portafoglio, mentre fondava l’Opera nazionale dopolavoro, l’Opera nazionale Balilla e l’Opera maternità e infanzia alla quale destinò il gettito d’una nuova imposta, quella sui celibi, su tutti coloro che rimanevano scapoli ed erano compresi tra i venticinque e i sessant’anni di età.

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XVI

II fascismo si faceva Stato, perfino a detrimento del partito che veniva a sua volta sottoposto ai poteri statali, e ciò perché meglio potesse affermarsi la dittatura personale di Mussolini. Difatti il fascio littorio veniva dichiarato per decreto emblema dello Stato; il titolo di duce entrava negli atti ufficiali per cui Mussolini era «Capo del Governo e Duce del Fascismo»; la data dell’era fascista appariva ufficialmente accanto a quella del calendario; alle insegne della milizia e dei fasci venivano resi gli onori militari. E Leo Longanesi scriveva sul terzo numero del suo settimanale l’italiano»: «Mussolini ha sempre ragione». Sul primo numero di quel giornale, cui aveva imposto il sottotitolo di «Rivista della gente fascista», lo stesso Longanesi si era però scagliato contro la normalizzazione mussoliniana. Nell’articolo La morte del Nodoso aveva scritto, da buon estremista seguace del ras di Bologna, Arpinati, e del ras di Cremona, Farinacci: «Un anno fa, fra le assidue cure dei parenti e degli amici, moriva di sedentarismo acuto il noto sig. Randello Nodoso. Al suo capezzale con le lacrime agli occhi, Mino Maccari, Leandro Arpinati, C. Suckert e io facevamo ogni sorta di scongiuri perché l’illustre infermo non ci abbandonasse».

Il regime si chiedeva che fare dei prefetti, i quali tutto sommato potevano ancora sentirsi legati a un passato democratico. «Ce ne dobbiamo fregare» diceva Farinacci incitando ad agire di testa propria i segretari federali che il partito aveva nominato come propri rappresentanti in ogni provincia. Bisognava decidere chi dovesse avere il sopravvento, se i federali o i prefetti. I ras pretendevano che il potere fosse detenuto dai federali, cioè da loro stessi per continuare a spadroneggiare senza controlli. Questa soluzione non piaceva a Mussolini che l’osteggiava per affermare la sua idea dello Stato fascista e della dittatura personale e per tagliare le unghie ai ras locali, soprattutto a Farinacci che aveva subdolamente favorito qua e là una rinascita dello squadrismo.

Alcuni squadristi avevano preso il nome di «corsari neri». Era, quello, uno squadrismo che Mussolini chiamava «residuo» e «anacronistico». Doveva sparire, e se ne dovevano occupare i prefetti perché lui potesse imporre il proprio ordine al paese e al partito: «Bisogna ben mettersi in mente che qualunque cosa accada o mi accada, l’epoca delle rappresaglie, delle

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devastazioni è finita, e soprattutto qualunque cosa accada o mi accada i prefetti dovranno impedire con ogni mezzo, dico con ogni mezzo, anche il semplice delinearsi di manifestazioni di violenza». Toccando la sostanza della questione diceva che il regime fascista era «tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato» e che i prefetti dovevano essere «la più alta autorità dello Stato nella provincia». Secondo i dettami mussoliniani, i prefetti dovevano anche servire a identificare i fascisti da allontanare, «i profittatori, gli esibizionisti, i venditori di fumo, i pusillanimi, gli infetti di lue politicantista, i vanesi, i seminatori di pettegolezzi e di discordie». Fra costoro non mancavano esponenti del partito che il duce intendeva neutralizzare e che erano quindi raggiunti dall’accusa di indegnità. Non si poté contenere interamente la pressione della periferia più violenta, e si decise di nominare qualche fascista al grado di prefetto. Si crearono così i prefetti politici scegliendoli fra personaggi di sicura fede come era il toscano Dino Perrone Compagni, uno dei più fanatici squadristi. Si ebbero naturalmente anche i diplomatici politici, e uno di essi fu Attilio Tamaro, nominato al grado di console generale.

Il clima era quanto mai adatto a nuove illegalità e a nuove esplosioni di violenza ai danni degli oppositori. Vennero prese di mira le sedi di alcune istituzioni cattoliche, mentre nei corridoi e nell’aula di Montecitorio furono schiaffeggiati i deputati del partito popolare i quali, abbandonando l’Aventino, erano tornati sommessamente in aula per prendere parte alla commemorazione della regina madre Margherita scomparsa in quei giorni. «Non si entra in aula passando alla chetichella», disse Mussolini, «sotto la bara di una grande morta che amò intensamente il fascismo; bisogna riconoscere solennemente il fatto compiuto della Rivoluzione fascista». Il duce mostrava la massima reverenza per la regina madre e di lei portava al collo una medaglietta avuta in regalo dal re. Né i popolari né i comunisti né i gruppi aventiniani diedero il riconoscimento richiesto, e quindi si abbatté su di loro la mannaia della decadenza del mandato parlamentare. Così come voleva Farinacci, furono espulsi dalla Camera centoventiquattro deputati dell’opposizione, con l’accusa di svolgere un’opera di sovversione antistatale. Era una palese violazione di ogni norma costituzionale, ma proprio i rappresentanti della cosiddetta opposizione costituzionale, capeggiati da Giolitti, non si mossero contro l’espulsione che decretava la morte del Parlamento elettivo.

In campo giudiziario si ebbe la condanna a sei anni di reclusione comminata dalla Corte d’assise di Chieti a tre degli imputati nel processo Matteotti, ma Dumini, Albino Volpi e Poveromo poterono fruire d’un condono di quattro anni di pena grazie a un provvidenziale decreto di amnistia. Altri imputati erano stati scarcerati, Marinelli, Filippelli, Putato e

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Pippo Naldi. Cesare Rossi aveva preso la via dell’esilio. Altri due furono assolti, Malacria e Giuseppe Viola. Il difensore di Dumini fu Farinacci che svolse il suo ruolo con l’intento dichiarato di fare il processo alle opposi-zioni e non al regime; per questo motivo disse di indossare la «toga d’onore» offertagli dalle donne fasciste teatine non soltanto come avvocato, ma soprattutto come segretario del partito. L’«anno napoleonico» del fascismo fu punteggiato da tre attentati, senza

esito, contro Mussolini, frutto di iniziative disperatamente isolate via via compiute da un’anziana aristocratica anglo-irlandese, un po’ visionaria, Violet Albina Gibson, sul Campidoglio; da un giovane anarchico individualista di Carrara, Gino Lucetti, nel piazzale di Porta Pia a Roma; e da un ragazzo di Bologna, Anteo Zamboni, nelle vie della città emiliana. La Gibson ferì Mussolini di striscio al naso con un colpo di pistola sparato a pochi centimetri di distanza, mentre la folla interrompeva allarmata il canto di Giovinezza. II duce era intervenuto nel palazzo dei Conservatori a un congresso internazionale di chirurghi, leggendo un discorso scrittogli dalla Sarfatti. All’uscita era ancora attorniato dai chirurghi che egli aveva esaltato come grandi «lavoratori della mano ma anche dell’intelletto», ed essi gli prestarono i primi soccorsi quando videro il suo naso sanguinare. La ferita alle pinne nasali era trascurabile benché il cerotto rosa che gli applicarono fosse estremamente vistoso. Invece di salvarlo, quei dottori quasi lo ammazzavano, disse Mussolini a Rachele, parlandole al telefono: «Mi sono venuti tutti addosso e stavano per soffocarmi». Come immediata rappresaglia al gesto della Gibson, gli squadristi romani assalirono la tipografìa del «Mondo» devastandola.

A ogni attentato seguivano manifestazioni di cordoglio che i giornali dilatavano. Da più parti si rendeva grazie al cielo per avergli salvato la vita. Si unirono al coro l’arcivescovo di Napoli, Ascalesi, con un telegramma al duce - Iddio, salvando la vita a lui, aveva salvato l’Italia - e lo stesso pontefice il quale parlò di Mussolini come dell’uomo che governava «le sorti del paese con tanta energia da far ritenere periclitare il paese ogniqualvolta periclita la sua persona». «Il Popolo d’Italia» tradusse per il volgo l’allocuzione papale con questo titolo: Il paese è in pericolo quando è in pericolo la persona di Mussolini. Nel messaggio inviategli da Pio XI si esprimeva «profonda esecrazione» per i «nefandi» attentati e «gioia immensa per saperLa salva ed incolume interamente per ispeciale protezione di Gesù Cristo». Che poi i fascisti, non certo all’insaputa di Mussolini per il quale si impetrava 1’«ispeciale protezione», malmenassero i sacerdoti oppositori e devastassero i luoghi di culto, erano particolari trascurabili. In verità, l’attenzione di papa Ratti per il duce era suggerita

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dall’esistenza di una trattativa segreta fra la Chiesa e lo Stato diretta a disciplinarne i rapporti e a superarne gli annosi conflitti. Il Vaticano era dunque dalla parte di Mussolini, come lo erano le alte sfere dell’esercito. Difatti Badoglio, rivolgendosi agli ufficiali dello Stato maggiore la sera dell’attentato della Gibson, disse: «Ringraziamo Dio che ha conservato Mussolini all’Italia!». E, in cambio, più tardi chiese al duce di proporre al re la sua nomina a marchese del Sabotino.

Tra le persone che gioirono per lo scampato pericolo c’era una ragazzina quattordicenne, Clara Petacci, infatuata di lui. Non lo aveva ancora mai incontrato, e dovevano passare molti anni prima che le loro vite s’incrociassero. La piccola gli inviò una lettera appassionata, piena di sdegno per il «vigliacco» attentato e cosparsa di disperate esclamazioni: «Quale ignominia, quale viltà, quale obbrobrio! Ma l’attentatrice è straniera e tanto basta!».

Smaniava per non essere riuscita a far nulla in suo aiuto: «Perché non ho potuto strangolare quella donna assassina, che ha ferito Te, divino essere? Quando ho appreso la triste notizia, ho creduto di morire perché Ti amo profondamente come una piccola Fascista della prima ora». Con scrittura infantile aggiungeva una frase che avrebbe assunto il sapore di un’anticipazione: «O, Duce, perché non vi ero!», e, in chiusura, apponeva il suo «motto preferito», non meno carico di antiveggenza: «Duce, la mia vita è per Te!».

La sera stessa dell’attentato il duce diede la notizia che l’indomani sarebbe egualmente partito a bordo della corazzata Cavour per la Libia così come aveva precedentemente deciso. Aveva già preparato l’uniforme di caporale d’onore della milizia, col fez nero sormontato da un civettuolo e al tempo stesso maestoso aspri bianco. Non rinunciava al viaggio sebbene i medici gli consigliassero prudenza dopo la ferita al naso. Parlava ai massimi gerarchi del partito riuniti in palazzo Vidoni e ripeteva la massima niccia-na: «Vivere pericolosamente». Mostrava di non dare importanza al gesto della Gibson, ma parimenti se ne serviva in chiave propagandistica esclamando: «A voi dico come il vecchio combattitore: "Se avanzo, seguitemi; se indietreggio, uccidetemi; se muoio, vendicatemi"». Trovò anche il modo di fare dello spirito sul suo viaggio in Africa e sulla ferita al naso. «Vedete», disse ad Asvero Gravelli, «ho già pronto il foro per farmi mettere l’anello al naso, come nelle nobili tribù negre». Di ritorno dal viaggio in Libia, che dichiaratamente compì per affermare la forza dell’Italia e il suo destino nel Mediterraneo, ancora parlava dell’attentato dell’angloirlandese. Diceva: «Le pallottole passano, Mussolini resta». E d’Annunzio non si lasciava sfuggire l’occasione di chiamarlo il «Fortebraccio di Predappio».

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I fascisti d’ogni qualità erano un po’ tutti preoccupati del motto nicciano che Mussolini mostrava di applicare quotidianamente, sia trascurando i pericoli degli attentati, sia guidando personalmente a velocità forsennata automobili sportive. Ne era impensierito Farinacci che gli scriveva per richiamarlo a una maggiore prudenza: «Con sincerità assoluta bisogna dirVi che Voi siete di carne ed ossa e che, assieme alle Vostre grandi virtù, avete anche i Vostri difetti. Voi dimenticate talvolta le gravi responsabilità che gravano su di Voi, e ve ne andate in aeroplano, in automobile a grande velocità, ed ora Vi siete lasciato prendere anche dalla mania della motocicletta».

L’attentato di Gino Lucetti, compiuto nel piazzale di Porta Pia a Roma con una bomba «Sipe» scagliata contro l’automobile di Mussolini, non ferì che dei poveri passanti. Il duce, illeso, ordinò all’autista di accelerare, mentre gli diceva con indifferenza: «Anche se la bomba fosse entrata nell’automobile, avrei fatto in tempo a rilanciarla fuori, da vecchio bersagliere». «Ma se lei legge continuamente in auto, come avrebbe potuto accorgersi della bomba?», ribatté l’autista. E lui: «Non è vero. Comunque ora non leggevo». Poco dopo vide a palazzo Chigi il vecchio quadrumviro De Bono cui diede la notizia in tono drammatico: «A Porta Pia mi hanno tirato addosso una bomba». E De Bono: «Vado subito sul posto a impiccare personalmente l’attentatore».

Nell’attentato di Bologna, perpetrato dal sedicenne Zamboni, il duce, che era in piedi su un’automobile, fu appena sfiorato negli abiti. Un proiettile bruciacchiò la fascia verde dell’ordine mauriziano che portava a tracolla sull’uniforme e poi forò la manica della giacca del sindaco della città che gli era accanto. L’attentatore fu spietatamente linciato sul posto dalla folla inferocita che nessuno tratteneva. Gli infersero quattordici pugnalate.

Una nuova esplosione di saccheggi si abbatteva sulle abitazioni di numerosi oppositori, a cominciare da quelle di Croce, di Arturo Labriola, di Emilio Lussu. Ma anche dopo l’attentato del giovane Zamboni, il duce ostentava personalmente una grande indifferenza. La sera dell’evento, nella tranquillità di Villa Carpena, mostrò la fascia sforacchiata al fìglioletto Bruno che se ne cinse la vita. Il bambino aveva appena otto anni, inconsapevole della situazione girellò per tutta la casa come un soldatino in marcia, mentre il padre ne ritmava il passo al suono del violino.

Intorno all’attentato di Bologna fiorirono le ipotesi più ardite e contraddittorie. Si sospettò che gli ispiratori si nascondessero tra gli stessi fascisti. Si facevano i nomi di Arpinati - che era in rapporti di amicizia con la famiglia del tipografo Mammolo Zamboni, padre di Anteo - e di Farinacci, attribuendo loro il proposito di eliminare Mussolini dalla scena per prenderne il posto. Si mormorava che Farinacci volesse altresì vendicarsi per essere stato defenestrato dalla segreteria del partito. Molte critiche si appuntarono sul ministro degli Interni, Federzoni, il quale si sentì in dovere di rassegnare le dimissioni, sicché il duce avocò a sé anche quel

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dicastero, insieme a tutti gli altri che già deteneva. Oltre ad essere capo del Governo, egli era adesso ministro degli Interni, degli Esteri, della Guerra, della Marina, dell’Aeronautica (con Balbo sottosegretario), delle Corporazioni (con Bottai sottosegretario), delle Colonie e infine comandante generale della milizia col grado di caporale d’onore.

Ma la sua indifferenza era apparente e ostentata come dimostravano le leggi eccezionali che decise di adottare «per la difesa dello Stato» all’indomani dell’ultimo attentato. Prendeva nuovamente le mosse da una situazione di fatto, gli attentati appunto, per emanare provvedimenti fortemente restrittivi, così come aveva fatto con la svolta del 3 gennaio, quando aveva avuto per occasione la protesta dell’Aventino. Si mostrava con animo imperturbabile, immarcescibile anche in Parlamento. «Debbo ripetere», diceva, «che gli attentati mi lasciano perfettamente indifferente». Con sarcasmo aggiungeva: «Se coloro i quali mi fanno oggetto delle loro tenaci attenzioni balistiche credono di esercitare su me una qualsiasi intimidazione si illudono». Ma allora perché varava leggi eccezionali? «Perché le vuole il popolo», esclamava, e così argomentava il suo assunto: «Però, se questi episodi [gli attentati] lasciano indifferente me, non lasciano indifferente il popolo italiano. Dopo ognuno di questi episodi vi sono giornate di fiero turbamento nella vita della nazione e di profondo disagio spirituale; ed il popolo ha chiesto, attraverso manifestazioni precise, che si adottino provvedimenti straordinari».

Le leggi eccezionali passarono in Parlamento senza colpo ferire, anche perché in molti credettero alla loro provvisorietà. Del resto vigeva un clima di intimidazione e di paura. Giacinto Menotti Serrati aveva appena raccolto l’opinione di quanti dicevano che in quella situazione non si poteva fare altro che «inchinarsi». Il re non si scompose e Caviglia, che pure nell’aula del Senato si metteva sull’attenti davanti a Mussolini, espresse sul Savoia un severo giudizio. «La dinastia reale con Vittorio Emanuele», scrisse il generale nel suo diario, «ha permesso la violazione della Costituzione, ha lasciato manomettere la libertà accordata ai cittadini dallo Statuto, ha proscritto molti cittadini per ragioni extra-statutarie che hanno carattere di persecuzione. Il re si è comportato come un burocrate e, in alcuni momenti decisivi, non ha saputo guidare il timone della barca dello Stato con mano sicura. Troppo costituzionale quando i tempi chiedevano mezzi eccezionali, tradì la costituzione quando essa poteva e doveva funzionare integralmente».

L’iniziale diarchia fra Mussolini e Vittorio Emanuele si sbilanciava a svantaggio del re. Il sovrano era sempre più succube del duce e la monarchia sempre più sottoposta al regime. Considerato che il potere dei Savoia era ormai poco più che fittizio, gli estremisti fascisti pensarono a un complotto per eliminare Vittorio Emanuele anche fisicamente e tornare alle origini repubblicane del fascismo. Si vociferava che la congiura fosse capeggiata da Balbo, e il re si risolse a chiedere spiegazioni a Mussolini, ma questi lo

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tranquillizzò. Gli disse che si trattava di «un’invenzione balorda di alcuni generali con la prostata in disordine».

Ben presto Mussolini ritenne di non avere più bisogno di Farinacci, testa calda, alla guida del partito, e lo sostituì con un personaggio di secondo piano, all’apparenza più obbediente. Il nuovo segretario fu Augusto Turati, giornalista, agitatore sindacale e ras bresciano. Il duce voleva ripulire il partito dai ras che maggiormente lo infastidivano. Già si era liberato di Cesare Maria De Vecchi nominandolo governatore della Somalia, così come aveva espulso dalle file fasciste Aurelio Padovani, il gerarca «più indisciplinato». Ora chiedeva al «grigio» Turati di proseguire in quell’opera, con metodo e fermezza. Mentre Farinacci aveva fatto largo ai più rissosi, il nuovo segretario, nel vagliare le domande di iscrizione, portava avanti i più tranquilli. Sicché Farinacci diceva sdegnato che il partito stava diventando un club di bocciofili. Si sospettò di lui come fautore di ribellioni interne, specie fra lo squadrismo ligure. Mussolini se ne adontò e non volle nemmeno riceverlo, quando Farinacci chiese di vederlo per dichiarargli per-sonalmente la propria estraneità a ogni complotto. L’ex segretario dovette inviargli un biglietto: «Se ragioni di Stato volessero da me l’estremo sacrificio, sono anche disposto a presentarti domanda, non per il confino, ma per l’esilio. Come vedi, più disciplinati di così si muore».

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XVII

La famiglia Mussolini lasciava Villa Carpena per tornare a Milano e prendere alloggio in un confortevole appartamento di via Mario Pagano. Nella nuova casa il duce, essendo diventato il capo del partito dell’ordine in linea con i valori tradizionali della nazione, si unì in matrimonio religioso con Rachele, a dieci anni dal rito civile. La cerimonia si svolse in forma privata alla presenza dei soli testimoni, il fratello Arnaldo e Paolucci di Calboli. In quei giorni Mussolini, proprio per le insistenze di Arnaldo, aveva anche congedato l’amante fissa Margherita Sarfatti, con qualche nostalgia per la «bella ebrea dagli occhi azzurri». Presto però la famiglia del duce si sarebbe stabilita definitivamente nella capitale, se non altro perché Roma era uno dei punti fermi della propaganda nazionalistica del fascismo e Mussolini doveva dare il buon esempio presentando al paese il volto di una famiglia unita e innamorata della «città etema».

Riparlava di una Roma che in pochi anni doveva apparire «meravigliosa a tutte le genti del mondo: vasta, ordinata, potente come fu ai tempi del primo impero di Augusto». Bisognerà «liberare il tronco della grande quercia da tutto ciò che ancora l’aduggia, e fare largo attorno all’Augusteo, al teatro Marcello, al Campidoglio, al Pantheon, affinché tutto quanto vi crebbe attorno nei secoli della decadenza scompaia». Diceva che queste non erano soltanto idee, ma suoi «ordini precisi». Stabiliva tempi e programmi: «Entro cinque anni da piazza Colonna, per un grande varco, deve essere visibile la mole del Pantheon. Saranno anche liberati dalle costruzioni parassitarie e profane i templi maestosi della Roma cristiana. Quindi la terza Roma si dilaterà sopra altri colli, lungo le rive del fiume sacro, sino alle spiagge del Tirreno». Questo valeva per l’aspetto urbanistico della capitale, ma di essa Mussolini intendeva esaltare anche il nuovo aspetto politico, e si affrettò a parlare di un messaggio che la città lanciava al mondo: «II fascismo è fulcro di un movimento universale che da Roma prende nome ed esempio». Ugo Ojetti, giunto alla direzione del «Corriere della Sera», scrisse che il duce, quando parlava di Roma «vibrava tutto, a petto gonfio, a testa alta, felice».

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Lo definì un «innamorato» di questa città, un «romaniolo» che «adora la madre e la rivuole regina senza confronti».

Grave era la crisi economica e finanziaria che il fascismo si trovava a fronteggiare. Apparvero così le prime avvisaglie d’una politica di autosufficienza nazionale adottata perché lo Stato potesse bastare il più possibile a se stesso. Si ridussero le importazioni, a cominciare dal grano e dalle materie prime industriali. Si diminuì il numero delle pagine dei giornali per risparmiare la cellulosa, si vietò la costruzione di edifici di lusso e di nuovi esercizi pubblici, si autorizzò l’aumento del lavoro giornaliero da otto a nove ore, si soppressero numerose sottoprefetture, ma non si riuscì a ridurre la massa dei dipendenti statali. Alle minori importazioni di frumento doveva corrispondere un aumento di produzione sul territorio nazionale, per cui Mussolini lanciò la «battaglia del grano» che condusse con piglio militaresco. «Ho già preparato lo stato maggiore», disse, «che dovrà muovere l’esercito degli agricoltori», ma non mancò di imporre seduta stante un tipo di pane unico. Nella sua tenuta in Romagna volle dimostrare di essere egli stesso un soldato dell’esercito di agricoltori, e difatti ne trasse nuove qualità di frumento, sotto la guida dell’agronomo Mario Ferraguti, «Mario de’ Frutti», come lo chiamava d’Annunzio. A Villa Carpena, indossava gli abiti di contadino del regime, guidava una lampante motoaratrice «Fiat 700», falciava il grano e lo trebbiava.

In campo monetario col discorso di Pesare, arrivò ad adottare un provvedimento cui diede il nome di «Quota novanta» che consisteva nella rivalutazione della lira italiana rispetto alle monete estere con relativa quotazione della sterlina sulle ottantotto-ottantanove lire. Sul palazzo delle Poste della città marchigiana apparve uno stralcio del suo discorso: «Difenderò la lira fino all’ultimo sangue, fino all’ultimo respiro. Non infliggerò mai al popolo italiano l’onta morale e la catastrofe economica del fallimento della lira». Si arrestò l’inflazione, che toccava i centocinquanta punti rispetto alla sterlina, ma si strozzò lo sviluppo dell’economia na-zionale. Si aprì un pericoloso processo di deflazione e di restrizione del credito, precipitarono i prezzi in agricoltura, cadde la produzione industriale. La stabilizzazione della moneta, sebbene necessaria dopo un periodo di estreme fluttuazioni della lira, diventava un feticcio intoccabile, secondo le formali esigenze d’una politica di prestigio. D’Annunzio, sempre sensibile ai problemi finanziari, gli inviò un biglietto, forse un po’ caustico: «Hai bisogno di buoni cooperatori non soltanto per la battaglia della lira (perché la lira vinca, son disposto a spezzare la mia "di sette corde"), ma per fondare severamente la difesa nazionale: aviazione, marina, esercito».

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Nella costruzione dello Stato fascista, il duce rivolse le sue attenzioni alla scuola, una istituzione tanto complessa e variegata da rivelarsi, se non impermeabile al nuovo verbo, certamente di ardua conquista. C’erano i veliti del grano, e lui voleva anche i veliti della scuola perché marciassero in testa a tutti e abbattessero le prime resistenze d’una classe legata alle antiche concezioni dello Stato liberal-democratico. Si presentava ai professori da collega a colleghi di cui conosceva «sogni e bisogni». Sebbene l’obiettivo d’una scuola fascistizzata fosse lontano, Mussolini già sosteneva che la scuola era diventata fascista. Ma sentiva egualmente l’esigenza di richiamare molta gente della scuola al dovere perché evidentemente ben sapeva che non tutto era come diceva che fosse. «Bisogna che tutti si arrendano al fatto compiuto e siano portati a considerare che quello che è avvenuto nell’ottobre del 1922 non è un semplice cambiamento di ministero, ma è una profonda rivoluzione politica, morale, sociale. Così stando le cose, il Governo esige che la scuola si ispiri alle idealità del fasci-smo, esige che la scuola non sia, non dico ostile, ma nemmeno estranea al fascismo o agnostica di fronte al fascismo, esige che tutta la scuola, in tutti i suoi gradi e in tutti i suoi insegnamenti, educhi la gioventù italiana a comprendere il fascismo, a rinnovarsi nel fascismo e a vivere nel clima storico creato dalla rivoluzione fascista». Chiamava i professori «apostoli e sacerdoti» destinati ad assolvere «responsabilità tremende e ineffabili: quelle di lavorare sul cervello, sulla coscienza, sull’anima». Il suo sguardo era rivolto soprattutto ai maestri delle elementari cui affidava il compito di «consolidare il regime» e di far sì che gli alunni «indossino la camicia nera anche spiritualmente». Camicia nera pure per gli studenti universitari e difatti istituì alcune facoltà di studi fasci-sti, oltre a una facoltà fascista di scienze politiche, in Perugia, e cattedre di mistica fascista. Diede infine vita a una rivista di problemi scolastici che intitolò la «Scuola Fascista».

Chiuso l’«anno napoleonico» che sanciva le conquiste politiche del fascismo, aprì l’anno della «Carta del lavoro» che avviò le più lente e mai complete affermazioni in campo economico. La Carta era il caposaldo dell’ordinamento sindacale-corporativo da lui voluto in funzione d’una sempre più rigida organizzazione totalitaria della società. I principali coordinatori della Carta, diretta a subordinare gli interessi degli individui e delle classi alla superiore volontà dello Stato e quindi del fascismo, furono Bottai e Alfredo Rocco. Essi svolsero il loro compito fra innumerevoli dif-ficoltà e contraddizioni riuscendo a formulare una sorta di manifesto programmatico che solo nel tempo ebbe un’attuazione legislativa. Sul complesso di quelle enunciazioni, che taluno chiamava aforismi, Mussolini

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offrì una sua sintesi da tutti definita lapidaria: «Lo Stato è corporativo in quanto è fascista ed è fascista in quanto è corporativo».

In realtà c’erano molti corporativismi, quello cattolico di Toniolo, quello nazionalista di Corradini e quello di De Ambris trasfuso nella Carta dannunziana del Carnaro. Ce n’erano tra gli stessi fascisti e i fiancheggiatori che intendevano lasciare maggiore o minore libertà di azione alle forze sociali ed economiche. Forte fu la polemica sul terreno sindacale, volendo Mussolini assorbire nel suo sistema la stessa Confederazione dei sindacati fascisti rappresentata da Edmondo Rossoni, il quale resisteva e contro il quale, per indebolirlo, si fecero circolare voci diffamatorie. Lo si diceva fuggitivo all’estero con la cassa del sindacato.

Dal Gran consiglio del gennaio ‘27 uscì il primo annuncio della Carta fascista. Mussolini parlò sul tema per tre ore, e Dino Alfieri dettò al «Corriere della Sera» una cronaca delle lunghe e notturne riunioni consiliari in cui ovviamente dominava la figura del duce: «Col suo passo caratteristico, rapido e marcato, il busto eretto e la testa un poco all’indietro, il Duce entra nell’ampia sala del Gran consiglio. Risponde con la mano levata al saluto dei convenuti, siede al centro dell’ampio tavolo a ferro di cavallo e, dopo un breve attimo di silenzio e di raccoglimento, annuncia: "La seduta è aperta". Di solito egli espone succintamente il programma dei lavori, capovolgendo spesso l’ordine del giorno. Ascolta tutti infa-ticabilmente. Non rivela mai momenti di stanchezza. Nella sua sedia di cuoio, appoggiato con la testa e le spalle a uno dei lati dello schienale, in una posa che è divenuta caratteristica, egli resta sempre il dominatore e il regolatore della discussione, nella quale interviene rapido, pronto, deciso».

Il suo era uno stile di Capo assoluto, come disse George Bernard Shaw che a Londra, di ritorno da un suo viaggio a Roma, parlò di lui come di un «efficace e adorato tiranno». Ormai Malaparte, non più Suckert, lo chiamava «Arcimussolini» dedicandogli versi eccitanti: «Dacci pane pei nostri denti / fantasie e cazzottature / ogni sorta d’ardimenti / di mattane e d’avventure. / Spunta il sole e canta il gallo / o Mussolini monta a cavallo».

La macchina della propaganda funzionava a dovere. Buon macchinista si rivelava Augusto Turati, il quale diligentemente alimentava il mito del duce e dell’Italia fascista che giganteggiavano nella storia. Queste cose le diceva lo stesso Mussolini, il miglior propagandista di se stesso: «La grande campana della storia ha suonato. Questo è il secolo della nostra potenza. Potenza in tutti i campi, da quello della materia a quello dello spirito. Ma quale è la chiave magica che apre la porta alla potenza? La volontà discipli-nata! L’Italia oggi realizza il prodigio di vedere il popolo italiano che entra sulla scena della storia».

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Augusto Turati aveva già pronta una nuova magnificazione: «Ogni giorno, su ogni piazza, i mille cuori del fascista urlano le stesse parole, amore, devozione, disciplina, fedeltà fino al sacrificio. Io non reco al Duce il plauso dei fascisti, ma reco la promessa che essi sapranno servire tacendo e obbedire in umiltà». Perché gli italiani sapessero sempre meglio che cosa dovessero fare si era promossa una speciale pubblicazione denominata «Foglio di disposizioni» del Pnf che quotidianamente veniva indirizzata a tutti gli organismi periferici con le istruzioni e gli orientamenti della direzione centrale.

Mussolini non si presentava soltanto come minatore o trebbiatore, ma anche come storico, pur premettendo, in un suo discorso a Perugia, di non aver inventato nulla a proposito di «Roma antica sul mare», il tema del suo dire, ma di essersi abbeverato a un’ampia bibliografia. Con le digressioni storiche, egli intendeva affermarsi come uomo di cultura e difatti, al termine della divagazione che si era prolungata per un’ora, un grande studioso, Ettore Pais, da lui più volte citato, gli disse, salutandolo romanamente: «Trenta e lode, Eccellenza!».

La sua fama travalicava i confini e molte nazioni avrebbero voluto alla testa dei loro governi un uomo come lui, dagli «occhi profondi», dal «volto di granito», dall’«energia infinita». Churchill, in visita a Roma nelle vesti di cancelliere dello scacchiere inglese, confessò di aver subito il «fascino» personale del duce. E ne apprezzava la politica. «Se fossi italiano», disse, «riprendendo il motivo del pericolo bolscevico, sono sicuro che sarei stato interamente con voi dal principio alla fine nella vostra lotta vittoriosa contro i bestiali appetiti del leninismo. Il vostro movimento ha reso un servizio al mondo intero. È assurdo sostenere che l’attuale governo italiano non poggi su una base popolare o che non sia sorretto dal consenso attivo delle grandi masse».

Era il momento di tirare le somme, a chiusura del primo quinquennio di potere. Le opposizioni erano ridotte al silenzio, la dittatura di Mussolini si era grandemente rafforzata nei confronti del partito e della monarchia. Il re appariva sempre più una figura di secondo piano che si adattava a tutte le vulnerazioni all’istituto monarchico e alla costituzione, come dimostrava ampiamente la legalizzazione del Gran consiglio del fascismo cui il duce attribuiva esorbitanti poteri allo scopo specifico di indebolire quelli del re. Questo organismo non era chiamato soltanto a formulare la lista dei candidati alla Camera, ma aveva il diritto sia di indicare al sovrano i nominativi per la scelta del capo del governo sia di intervenire nientemeno nelle questioni riguardanti la successione al trono. In tal maniera Mussolini violava pesantemente a suo vantaggio le due fondamentali prerogative che lo Statuto concedeva esclusivamente al monarca. Il nazionalista Federzoni si

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opponeva alla legge sul Gran consiglio, e perciò perse il posto di ministro delle Colonie. Nel suo diario segreto definiva la legge un «triste aborto», la diceva zeppa di «strampalerie» e di «peregrine incongruenze» perché «usurpava perniciosamente» le funzioni della Corona. Il re taceva, Federzoni accettava l’anno dopo la carica di presidente del Senato. L’indubbio dissidio fra il sovrano e il duce era tenuto sotto controllo. Tutti ne parlavano, ma ben pochi avevano in proposito notizie precise, proprio perché i rapporti tra i due erano in apparenza cordiali.

Per i giornali italiani questo argomento, non solo questo!, era tabù. All’estero invece la stampa ne discuteva ampiamente. Un giornale di Praga scriveva che Mussolini era il «vero dominatore» d’Italia: «II Dittatore viaggia con una pompa che corrisponde a quella degli Imperatori romani, mentre al Re si nega ogni importanza: egli può solo inaugurare acquedotti, edifici scolastici e ospedali. Mussolini giunse a Tripoli con tutta la flotta di guerra, il Re sbarcò in Sardegna come un semplice privato. I fascisti inneg-giano nei loro discorsi alla persona del dominatore, mentre beffeggiano il Re "fotografabile e dotto". A Bologna, Parma, Modena, le strade risuonano di acclamazioni al Duce».

Le ferite allo Statuto non preoccupavano Mussolini. Quando si venne a parlare della nuova legge elettorale che avrebbe fatto della Camera un organismo corporativo con rappresentanza degli interessi, il duce chiese con sarcasmo iconoclasta se si discuteva di archeologia o di politica. Disse ai senatori nell’aula di palazzo Madama: «Ma, onorevoli signori, questo Statuto è stato forse fatto da un’accolta di profeti? Niente affatto! Lo Statuto è stato fatto da alcuni signori che si sono raccolti intorno ad un tavolo. Se-condo la dottrina costituzionale si ammetteva che lo Statuto fosse rivedibile. È quindi fatica superflua, e tuttavia commovente, fare la guardia al Santo Sepolcro. Il Santo Sepolcro è vuoto. Lo Statuto non c’è più, non perché sia stato rinnegato, ma perché l’Italia d’oggi è profondamente diversa dall’Italia del 1848».

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XVIII

Mentre si preparava il quinto anniversario della marcia su Roma, nasceva in casa Mussolini, nella tenuta di Carpena, un quarto figlio cui si imponeva il nome di Romano in ossequio alla romanità divenuta un dato fondamentale della mitologia fascista. La nascita di Romano provocò uno scandalo strapaesano. Sui muri di Forlì apparvero alcuni manifestini anonimi, affissi da mano ignota, con la scritta: «È nato Romano Varoli. Auguri al padre putativo». Varoli, Corrado Varoli, era stato un faccendiere dei Mussolini, un bel giovane, e si vociferava di un amore segreto fra lui e Rachele. Ma gli autori del manifesto furono troppo frettolosi nella loro accusa, perché solo se avessero atteso qualche settimana si sarebbero accorti che Romano non solo non somigliava al bel Corrado, ma aveva addirittura staccato la testa al padre con quegli occhioni da africano.

Il neonato, a differenza di quanto era successo con gli altri fratelli, fu battezzato subito, non soltanto perché il padre era diventato un uomo d’ordine, ma soprattutto perché erano in pieno svolgimento, sebbene fossero tenute segrete, le trattative per la conciliazione fra lo Stato e la Chiesa. Durante le celebrazioni dell’anno francescano ad Assisi, il cardinale Merry del Val, personalità di Curia che sapeva come stavano le cose, elogiò il duce poiché «con chiara visione della realtà ha voluto e vuole che la religione sia rispettata, onorata, praticata». Per di più il cardinale, esprimendo un giudizio politico, disse: «Visibilmente protetto da Dio, il Capo del governo ha sapientemente rialzato le sorti della Nazione, accrescendone il prestigio in tutto il mondo».

Mussolini osservava che il prestigio del regime andava sorretto e alimentato attraverso un nuovo modo di vita. Il fascismo non doveva essere soltanto un partito, una milizia, una corporazione, uno Stato: doveva diventare un sistema di vita con l’obiettivo di creare l’italiano nuovo, l’italiano fascista, come c’erano stati l’italiano della rinascenza e della latinità. Il duce riconosceva che il traguardo non era facile da raggiungere, perché le stratificazioni secolari non si cancellavano con un colpo di spugna. L’italiano fascista doveva rivelarsi nella voce, nello sguardo, nei gesti, e il modello del nuovo comportamento era Mussolini stesso con i suoi atteggiamenti maschi, la mascella squadrata, gli occhi d’acciaio. Nell’universo mussoliniano il corpo umano acquistava un’importanza fondamentale, e non doveva essere la camicia nera, la «tenuta da combattimento», a indicare il fascista, ma il tipo fisico di uomo, elastico e

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scattante. Lui praticava 1’«eloquenza corporale» e tutti cercavano di imitarlo, camminando per linee rette, sempre in tensione, con gli occhi fissi in avanti.

L’uomo fascista doveva avere una famiglia numerosa. Il numero era forza e Mussolini, ripetendo a suo modo un’espressione hegeliana, diceva che «non era uomo chi non era padre». Per l’intanto gli ammogliati con prole erano favoriti nell’assunzione ai posti di lavoro e nell’assegnazione delle case popolari, così come si varavano provvidenze per le donne durante la gravidanza e il puerperio. Si inscenavano manifestazioni pubbliche in cui le madri prolifiche, a una a una presentate a Mussolini, orgogliosamente esclamavano: «Duce! Cinque figli!», «Duce! Sette figli!», «Duce! Dieci figli!». Lo scrittore Lucio d’Ambra esaltava in loro onore «l’ordine del nastro bianco». «Col nastro rosso, sui campi di battaglia. Napoleone fregiava il petto eroico dei suoi soldati. Ma c’è un’altra legion d’onore, in casa nostra. Col nastro bianco delle culle, Mussolini fregia il seno fecondo delle donne italiane che, benedette da Dio nella gloria della maternità, preparano - primavera di fanciulli - l’Italia di domani».

Con l’inizio del 1929 entrarono nella fase decisiva le trattative per la Conciliazione. Mussolini, da quando era deceduto un suo rappresentante, aveva preso a condurle personalmente, incontrandosi con il delegato della Santa Sede, l’avvocato Francesco Pacelli. I punti più controversi dei pourparlers riguardavano l’estensione del territorio da riservare alla sovranità della Chiesa e che si sarebbe chiamato Stato della Città del Vaticano, gli effetti civili del matrimonio religioso che comportavano vulnerazioni per lo Stato italiano, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole e in genere l’educazione da impartire ai giovani. Già con l’istituzione dell’Opera nazionale balilla, che aveva comportato la soppressione degli Esploratori cattolici e la messa al bando di qualsiasi altra formazione giovanile, si era aperto un conflitto con la Chiesa la quale non intendeva rinunciare all’educazione fisica e morale della gioventù.

Gli incontri con il duce, come scriveva nei suoi appunti l’avvocato Pacelli, avvenivano in via Rasella; avevano inizio alle nove di sera e si protraevano fino all’una di notte. «Io guardavo con infinita ammirazione», precisava il diarista, «l’uomo che mi stava di fronte, e per il quale né il giorno né la notte portavano mai riposo, ma solo un continuo appassionato lavoro al servizio della nazione. Io potevo ogni mattina riferire al Santo Padre i miei colloqui della sera precedente». Fin da queste righe capiva come negli ambienti vaticani si fosse estremamente soddisfatti dell’andamento delle trattative. Ne era

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soddisfatto anche Vittorio Emanuele il quale nelle lettere che in proposito scriveva al duce lo ringraziava «ben cordialmente» e si firmava «affezionatissimo cugino», in forza del collare dell’Annunziata.

Nonostante la soddisfazione di fondo, vivaci discussioni fra le due parti erano provocate dalla difficoltà di trovare un’intesa sul regime matrimoniale. Il duce ne informava il re ammettendo che lo Stato si accingeva a sottoscrivere pesanti rinunce: «Non nascondo alla Maestà Vostra che l’ostacolo più grave da superare nel Concordato è la clausola concernente il matrimonio. Qui lo Stato retrocede di molto e quasi vien fatto estraneo a un dato fondamentale com’è la costituzione e le vicende della famiglia. D’altra parte, sembra che la Santa Sede ne faccia una questione pregiudiziale e assorbente, dal cui esito dipende tutto il resto».

Quando si era ormai vicini alla firma dei documenti ufficiali che sancivano la Conciliazione fra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, il cardinale Gasparri ne diede un circospetto preannuncio ai diplomatici stranieri accreditati presso il Vaticano, ancora all’oscuro di ogni cosa: «Sua Santità è persuasa, che i governi che vollero essere rappresentati presso il Sommo Pontefice quando questi era in un palazzo lasciategli in semplice uso, più volentieri vorranno esserlo quando il Romano Pontefice sarà nel suo piccolo Stato sovrano, libero e indipendente». Incuriositi i diplomatici chiesero spiegazioni su quell’annuncio, e il vecchio cardinale rispose senza rispondere: «Interpretatelo come volete. Non ho altro da dire».

La firma avvenne alle ore 12 dell’ 11 febbraio, giorno in cui si festeggiava l’apparizione della Madonna di Lourdes, nella sala papale del palazzo Apostolico Lateranense, e dal luogo della cerimonia presero nome i patti che chiudevano formalmente la questione romana, cioè quel settantennio di contrasti che avevano avvelenato i rapporti fra lo Stato e la Chiesa. La Conciliazione fu sottoscritta dal cardinal Pietro Gasparri e dal cavalier Benito Mussolini nelle loro rispettive vesti di plenipotenziari del pontefice Pio XI e del re Vittorio Emanuele III. Durante la cerimonia il duce appariva accigliato; il cardinale invece, nel donargli la penna stilografica d’oro con la quale avevano firmato i protocolli, non potè trattenere le lacrime. A dispetto della giornata invernale e della fitta pioggia, nella grande piazza antistante il palazzo Apostolico si era radunata una folla di cittadini e di fedeli incuriosita dall’eccezionaiità dell’avvenimento.

I Patti lateranensi si articolavano in tre specifici documenti, un trattato politico, un’annessa convenzione finanziaria e un concordato ecclesiastico. La questione romana in sé e per sé era regolata dal trattato, per cui la Santa Sede riconosceva il regno d’Italia sotto la dinastia di casa Savoia con Roma capitale dello Stato italiano, e l’Italia riconosceva lo Stato della Città del Vaticano sotto la sovranità del Sommo Pontefice. L’Italia riconosceva la

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religione cattolica come la sola religione dello Stato e ammetteva altresì l’esecutorietà in territorio nazionale delle sentenze e dei provvedimenti ecclesiastici che avessero colpito le persone sottoposte alla disciplina cano-nica. Con il concordato si sanciva l’impegno del governo italiano a rispettare e a far rispettare il «carattere sacro della città eterna»; inoltre il governo «volendo ridonare all’istituto del matrimonio, base della famiglia, dignità conforme alle tradizioni del popolo», riconosceva al «sacramento del matrimonio» gli effetti civili e lasciava ai tribunali ecclesiastici la competenza per le cause di nullità. Nel concordato si prevedeva infine l’introduzione dell’istruzione religiosa anche nelle scuole medie, mentre si vietava all’Azione cattolica di svolgere attività politica, per cui il regime otteneva la neutralizzazione di ogni forma organizzata di opposizione cattolica. Prestigiosi esponenti del mondo liberale, come Benedetto Croce e Luigi Albertini, votarono in Senato contro il complesso delle norme concordatarie considerandole lesive dello spirito risorgimentale, in quanto aprivano la porta a una effettiva confessionalizzazione dello Stato italiano. La polizia fascista riprese a tenere sotto controllo l’attività pubblica e privata del filosofo napoletano. C’era stata una sospensione della vigilanza, ma quel voto al Senato riaccese i sospetti di Mussolini. Se ne intercettava la corrispondenza; se ne schedavano gli amici, «tutti sovversivi antifascisti»; se ne arrestavano alcuni.

Il pontefice era logicamente oltremodo lieto dei patti sottoscritti. Disse che per il compimento di un’opera così alta che aveva ridato Dio all’Italia e l’Italia a Dio «forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare». E Mussolini divenne, più semplicemente, «l’uomo della Provvidenza», una denominazione che costò al papa, accanto ai consensi, un profluvio di prolungate critiche, e al duce un nuovo elemento di motteggio tra gli antifascisti in Italia e all’estero. Gli esponenti liberali lamentavano l’offesa allo spirito risorgimentale, e per la ragione opposta papa Ratti ripeteva la soddisfazione di aver incontrato l’uomo della Provvidenza, un «uomo che non aveva le preoccupazioni della scuola liberale».

La mattina del 24 marzo, Mussolini partecipò alle votazioni del plebiscito da lui indetto per rinnovare la Camera dei deputati e formarla a immagine e somiglianza del fascismo. Entrò fra gli applausi della folla nella sezione elettorale di via Poli, a qualche centinaio di metri da palazzo Chigi, e depose la scheda nell’urna con aria compunta. Quasi il novanta per cento degli italiani prese parte alle votazioni, inviando in Parlamento i candidati scelti da Mussolini ed elencati in un’unica lista di quattrocento nomi. Otto milioni

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e mezzo di elettori scrissero il loro «sì» sulla scheda, mentre i «no» non superarono le centotrentaseimila unità. Era trascorso un decennio dalla fondazione dei fasci, e il regime deteneva il potere da sette anni. Una così alta affluenza di votanti fu favorita dal timore che l’astensione potesse essere valutata come un’opposizione al fascismo e aprisse una nuova spirale di violenza. Nel clima dispotico e poliziesco in cui l’Italia viveva era umano che ogni cittadino volesse evitare a se stesso il pericolo di rappresaglie non certo ipotetiche come si poteva se non altro capire dall’occhiuto tampinamento esercitato sugli elettori. Mancava inoltre nel paese una qualsiasi forma di dibattito o di circolazione di idee, con la stampa imbavagliata e i partiti soppressi. A tutto ciò faceva riscontro una massiccia opera propagandistica che portava alle stelle anche il più modesto fra i successi di Mussolini il cui mito e la cui dittatura personale erano in continua ascesa. Rimaneva però il fatto, anche se come logico risultato di questo stato di cose, che gli italiani nel segreto dell’urna avevano votato plebiscitariamente per il regime. La lista dei quattrocento era stata formalmente compilata dal Gran consiglio, e le elezioni si erano svolte in base alla nuova legge elettorale voluta dal governo e votata dal Parlamento senza difficoltà.

La raggiunta pace tra lo Stato italiano e la Santa Sede giocò indubbiamente a favore di Mussolini nelle elezioni. I cattolici ne erano soddisfatti e furono incoraggiati a dire «sì» dal clero nelle chiese e dalle gerarchie dell’Azione cattolica. La conciliazione era stata al centro del lungo rapporto svolto da Mussolini al teatro dell’Opera di Roma alla vigilia delle elezioni plebiscitarie, conscio del peso che l’evento pacificatore aveva presso l’opinione pubblica. Il duce parlava a una manifestazione da lui chiamata «prima assemblea quinquennale del regime». In platea e nei palchi del teatro sedevano i massimi dirigenti dello Stato e del partito, insieme ai marescialli Badoglio, Caviglia, Giardino, agli ammiragli, ai magistrati, ai podestà, «tutti protagonisti della storia che si andava facendo». Definiva «equi e precisi» i Patti lateranensi che creavano fra l’Italia e il Vaticano «una situazione, non d’ipocrisia, ma di differenziazioni e di lealtà». Esprimeva la convinzione che soltanto con un concordato si poteva realizzare, come si era fatto, «la logica, normale, benefica separazione tra Chiesa e Stato». Era perciò «puerile» parlare di vinti e di vincitori, come facevano alcuni; ma per fortuna l’«anima del popolo» aveva sentito come la soluzione della questione romana fosse «un titolo d’orgoglio e una documentazione della forza e della solidità del regime fascista». Poiché si era alla vigilia del rinnovo della Camera parlò anche di elezioni, esaltando il fatto che, grazie al «carattere totalitario della lista e del regime», si potevano evitare gli antichi «ludi cartacei». Si sarebbe votato, disse, «per un’idea e un

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regime, non per gli uomini», ma il suo nome appariva al primo posto della lista.

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XIX

II clima di pacificazione si guastò nell’imminenza della ratifica dei Patti lateranensi, avendo il duce e il papa nuovamente incrociato le armi della polemica. La prima mossa fu di Mussolini il quale in un discorso di tre ore pronunciato nell’aula di Montecitorio volle ridimensionare l’impressione che con quei patti lo Stato italiano, anzi lo Stato fascista, si fosse confessionalizzato. Cominciava perciò col negare la coesistenza delle sovranità dello Stato e della Chiesa. Era urgente chiarirsi le idee: «Un conto è la città del Vaticano, un conto è il Regno d’Italia. Bisogna persuadersi che tra lo Stato e la città del Vaticano c’è una distanza che si può valutare a migliaia di chilometri, anche se per avventura bastano cinque minuti per andare a vedere questo Stato e dieci per percorrerne i confini». Se nel Vaticano il pontefice è sovrano, «nello Stato italiano la Chiesa non è sovrana e nemmeno libera». Dunque lo Stato fascista rivendicava in pieno il suo carattere di eticità: «Esso è cattolico, ma è fascista, anzi soprattutto esclusivamente, essenzialmente fascista». Si trattava di opporsi ai tentativi di una riscossa clericale, e a questo scopo il duce proclamò che il monumento dell’eretico Giordano Bruno, di cui gli ambienti cattolici pretendevano la rimozione, sarebbe rimasto al suo posto in Campo de’ Fiori, e aggiunse che alla stessa stregua avrebbe difeso il monumento di Garibaldi sul Gianicolo, anzi già pensava di erigervi nei pressi un monumento ad Anita. Quel ritorno di fiamma «laico» piacque ai liberali. Fra loro Missiroli, con la sua «allucinata furberia da animale notturno», come diceva Bottai, esaltò il discorso che aveva personalmente ascoltato nell’aula di Montecitorio. Cercando di consolidare una propria conciliazione col fascismo, scriveva: «Pareva quasi che Egli traesse l’ispirazione e la forza dalla storia d’Italia dell’ultimo secolo e che sentisse l’enorme responsabilità di parlare non solo in suo nome, non solo in nome del fascismo, ma nel nome di tutti i martiri, di tutti gli eroi che hanno creato la Patria. A volte si ebbe la sensazione che il Duce obliasse il momento, il luogo e l’ora e comunicasse direttamente coi precursori, coi geni tutelari della Nazione. Rare volte la maschera del Duce,

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la voce, il gesto, avevano assunto atteggiamenti così energici ed espressioni così imperiose. Egli pareva quasi rinchiudersi in sé e fare appello a tutta la forza del suo spirito per respingere un’ipotetica, assurda minaccia alla sovranità dello Stato e l’energia, con la quale dissipava questi timori e rivendicava la maestà inviolabile dello Stato, aveva qualcosa di pauroso e di tragico».

Non erano passate ventiquattro ore dal discorso di Mussolini che il papa fece sentire la sua protesta. Proprio perché parlava a un gruppo di giovani, agli alunni del collegio di Mondragone retto dai gesuiti, si soffermò su un solo punto della diatriba, l’educazione della gioventù, dichiarando che la missione educativa «spetta innanzi tutto alla Chiesa e alla famiglia, alla Chiesa e ai padri e alle madri; spetta a loro per diritto naturale e divino e perciò in modo inderogabile, ineluttabile, insurrogabile; lo Stato certamente non può, non deve disinteressarsi dell’educazione dei cittadini, ma soltanto per porgere aiuto in tutto quello che l’individuo e la famiglia non potrebbero dare da sé; lo Stato non è fatto per assorbire, per inghiottire, per annichilire l’individuo e la famiglia». Il duce aveva sostenuto la necessità di imprimere nei giovani «il senso della virilità, della potenza, della conquista», e il papa gli rispose con un interrogativo inquietante: «Quello che si fa in uno Stato si potrebbe fare anche in tutto il mondo. E se tutti gli Stati allevassero alla conquista, che accadrebbe?».

Qualche giorno dopo Mussolini tornò sul tema dell’educazione giovanile coniando uno slogan di successo. Parlava agli studenti universitari, ai quali, a conclusione del suo discorso, lanciò la parola d’ordine del fascista perfetto che si compendiava nel binomio «Libro e moschetto», educazione culturale e guerriera. A un congresso di filosofi affermò che il fascismo era sì totalitario e intransigente, ma non per questo lo si poteva accusare di essere nemico della cultura. Si sviluppò un ulteriore contrasto fra il duce e il papa sulla connessione fra trattato e concordato. Mentre Pio XI considerava i due atti strettamente collegati e inscindibili, simul stabunt aut simul cadent, Mussolini li voleva disgiunti e indipendenti l’uno dall’altro.

Alfine risolta alla meglio la questione si poté procedere alla ratifica dei patti cui seguì un evento che diede un visibile segno della pace raggiunta con la riapparizione d’un pontefice cattolico, apostolico, romano sulla piazza di San Pietro dove non s’era mai più visto dal 1870, dal giorno della breccia di Porta Pia, essendosi considerato per tutto quel tempo prigioniero dello Stato italiano. Vittorio Emanuele ed Elena, dopo alcuni mesi dall’uscita di Pio XI, si recarono in Vaticano per una loro visita ufficiale. Il colloquio col pontefice fu assai breve. Non durò che una ventina di minuti,

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eppure non si erano mai parlati prima. Un mese più tardi il papa, nell’allocuzione di Natale, ancora protestava per la persecuzione cui era sottoposta l’Azione cattolica e si mostrava addolorato per l’annunciata costruzione del monumento ad Anita Garibaldi in contrasto, diceva, con il carattere sacro della città eterna sancito dal concordato. Ma il duce si serviva ampiamente di quelle lamentele pontificie per dimostrare di non aver sottomesso lo Stato alla Chiesa, come invece sostenevano i difensori dello Statuto albertino.

Nel settembre di quel movimentato ‘29 nacque ai coniugi Mussolini, ancora nella tenuta di Carpena, una bambina cui il padre impose il nome della nonna materna, Anna Maria. Due mesi dopo la famiglia si trasferì nella capitale, e Rachele poté dichiarare conclusa la sua personale marcia su Roma. Il duce già abitava da qualche tempo in un sontuoso e massiccio edificio di stile neoclassico immerso in un parco della via Nomentana, oltre Porta Pia, appartenente al principe Giovanni Torlonia, il quale glielo aveva ceduto in fitto a tempo indeterminato per un canone simbolico di pochi spiccioli. Sebbene riuniti sotto lo stesso tetto dopo una separazione di anni, i coniugi Mussolini continuarono a vivere in due diversi appartamenti anche nella nuova abitazione.

Giunta a Roma, per prima cosa Rachele pretese dal marito il licenziamento di Suor Salutevole, la governante Cesira di cui era gelosa. Il duce non perse l’antica abitudine di pranzare da solo, favorito dal fatto di non rincasare mai prima delle due o le tre del pomeriggio. I suoi pranzi erano rapidi e sobri da quando aveva cominciato a soffrire d’ulcera allo stomaco. Mangiava raramente la carne per cui la sua alimentazione quotidiana consisteva per il pranzo in un paio di forchettate di pastasciutta, un po’ di pesce, un piatto di verdura, molta frutta, pane romagnolo, e per la cena in una minestrina e ancora verdura e frutta. Non beveva vino né fumava. Si privava anche del caffè adattandosi a sorseggiare infusi di tiglio. Considerava utile l’uso moderato del vino e dannosi i liquori. Le abbuffate pantagrueliche della gioventù non erano che un ricordo soffocato dall’insorgere dell’ulcera. Da tempo aveva detto addio alle tagliatelle al sugo, a quei tortini al tartufo che all’osteria del Furio sulla Flaminia cucinavano splendidamente. La dieta era una sua ossessione e la volse in chiave di propaganda politica. «Sono io», aveva detto a un giornale londinese, «che curo la dieta morale e fisica del popolo italiano e sorveglio attentamente che nulla di dannoso al sistema del mio paese possa arrivare al suo stomaco e provocare malattie e disturbi».

Dormiva dalle sette alle otto ore, preferibilmente dalle undici della sera alle sette del mattino. Anche Rachele continuò nella sua vita e ravvisò nel

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parco di villa Torlonia una villa Carpena più verde e accogliente. Per rendere più campagnola la troppo nobile villa Torlonia, fece subito costruire in un angolo appartato del giardino un forno per cuocervi il pane. Al forno seguirono un orto per l’insalata e i pomodori, un pollaio con numerose galline e un recinto in cui teneva un paio di maiali all’ingrasso.

Il duce apportò a sua volta qualche turbamento all’antica quiete della villa. Al piano terra di una dépendance verso via Spallanzani fece installare una saletta cinematografica e fece altresì attrezzare, sempre all’interno dell’ampio parco, un maneggio per risparmiarsi il disturbo di recarsi a villa Borghese dove era solito cavalcare sotto il vigile sguardo del suo istruttore di equitazione (nonché di scherma) Camillo Ridolfi. Nella saletta privata assisteva di preferenza a film comici che avevano per protagonisti la coppia Stan Laurel - Oliver Hardy o Charlie Chaplin o Ridolini. Prestava la massima attenzione ai «Giornali Luce» che parlavano di lui e delle opere del regime. Interveniva a voce alta durante la proiezione con osservazioni e ordini perentori: «Tagliate quella scena!» gridava. Era sempre scontento di ciò che gli mostravano; scuotendo la testa, di tanto in tanto esclamava: «Dovrei fare pure il regista!». Gli spettacoli cinematografici in villa lo allontanarono dal teatro, e se si recava all’Opera lo faceva per unirsi ai figli che vedeva raramente.

Indossava il frac e sedeva nel suo palco preferito, il n. 11. A un giornalista straniero disse di amare la musica e, per quanto potesse sembrare impossibile, di gustare il jazz, quella roba da negri. «Come ballabile», gli diceva, «lo trovo divertente». Amava soprattutto «la musica lirica e gioiosa, il lirismo guerriero e passionale di Verdi e di Wagner, la giocondità di Rossini». Ma la stanchezza d’un’intensa giornata di lavoro aveva il sopravvento sullo spettacolo oltre che sulla compagnia dei figli, e il duce reclinava la testa in preda a un sonno irresistibile.

Lo stile di vita dei Mussolini non era mutato di molto, nonostante fosse enormemente cambiata la loro posizione sociale. In quei giorni il duce volle parlare del suo stile di governo a un «gran rapporto» di fascisti radunati in piazza Venezia. Pose se stesso al centro di ogni cosa, come unico e solitario motore del regime. Le sue parole seguivano i fatti, disse, e non traevano origini che da lui, senza la consultazione o il consiglio di chicchessia. «Le decisioni le maturo da solo», esclamò per far capire all’uditorio quanto fosse assoluta e personale la sua dittatura, una dittatura che si concretava «nella necessità del comando unico; nella forza politica, morale e intellettuale» dell’uomo che la esercitava. Era arrivato al potere non attraverso la «decomposizione alchimistica» dei gruppi parlamentari, ma grazie a una rivoluzione. E questo aveva forgiato il suo stile; egli non era alla guida di un semplice ministero, ma di un ministero; non era uno di quei presidenti del Consiglio che parlano soltanto dopo i banchetti «per affaticare ancor più la già affaticata digestione» dei commensali, no, egli era il Capo, il creatore

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della rivoluzione fascista. Tempo addietro aveva già detto che la bandiera della rivoluzione fascista era affidata alle sue mani e che egli era disposto a difenderla contro chiunque, anche a prezzo del suo sangue. Ritenne propizio il momento per liberarsi di tutti quei ministeri che gravavano sulle sue spalle. Adesso era lui l’indiscusso pilota e poteva prendere una così delicata decisione. Conservò il solo dicastero degli Interni, lasciando gli altri sette ai maggiori esponenti del partito. Dino Grandi ebbe gli Esteri, Bottai le Corporazioni, Balbo l’Aeronautica, De Bono le Colonie, Michele Bianchi i Lavori pubblici e così via. I rimaneggiamenti ai vertici ministeriali non celavano «alcun scivolamento demoliberale», come invece «andavano vaneggiando certi rimbambiti nostalgici», e perciò confermava la dottrina dello Stato fascista «accentrato e autoritario»; precisava che, pur rinunciando ai ministeri militari, aveva egualmente ai suoi ordini le forze armate. Per di più dipendevano da lui la milizia, il consiglio di Stato, la Corte dei conti, l’Avvocatura erariale e anche la polizia essendo questa un organo «troppo importante e geloso» per poterla affidare ad altri. Annunciava di aver trasformato il Ministero della Pubblica istruzione in Ministero dell’Educazione nazionale, cui assegnava l’Opera nazionale Balilla in quanto lo Stato aveva il diritto e il dovere non soltanto d’istruire ma anche di educare la grande massa del popolo. I cronisti del regime scrivevano che il duce, al termine del suo «poderoso discorso», era stato salutato da una «delirante ovazione» protrattasi per alcuni minuti.

Tanto forte era la sua dittatura personale che si parlava d’una possibile soppressione del partito. Raccogliendo questa voce, egli la definì «insensata». Coloro che l’avevano inventata, disse, o erano «degli incoscienti o dei traditori o dei vendicativi». Difatti «se il Partito non ci fosse, io lo inventerei e lo inventerei così come è il Partito Nazionale Fascista, numeroso, disciplinato, ardente, a struttura rigidamente gerarchica». Insisteva però sulla subordinazione del partito allo Stato, tanto da annunciare un’innovazione secondo cui la nomina del segretario del Pnf sarebbe avvenuta con decreto reale, su sua proposta. Il partito costituiva parimenti 1 ‘«organizzazione capillare del Regime», poiché più che esercita-re «un’autorità», esercitava «un apostolato». «È il Partito con la massa dei suoi gregari che da all’autorità dello Stato il consenso volontario o l’apporto incalcolabile di una fede». Questa era un’ammissione della massima rilevanza, anzi «un’imprudenza», come si osservava nei superstiti ambienti antifascisti. Essa faceva intravedere la verità che si trovava al fondo della dittatura, e la verità consisteva nel fatto che il consenso di cui Mussolini si gloriava «era forzato o almeno del tutto passivo». Il partito veniva ulteriormente sottoposto allo Stato con l’approvazione d’un nuovo

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ordinamento che faceva del Pnf «una milizia civile al servizio dello Stato», ma essendo tutto accentrato nelle sue mani, i gerarchi potevano ricevere solo da lui l’investitura.

Per dare alle masse un segno visibile e convincente dell’assolutismo e del prestigio del Capo trasferì il suo ufficio personale nell’immensa sala del Mappamondo in palazzo Venezia lasciando i più modesti uffici di palazzo Chigi e del Viminale. Nella diarchia al vertice dello Stato, la figura del re si rimpiccioliva, mentre quella del duce era sempre più campeggiante. Quel palazzo merlato di piazza Venezia era una rappresentazione evidente dell’ascesa mussoliniana, e si poteva dire che il duce avesse voluto contrap-porre al Quirinale della monarchia il Quirinale del fascismo. La nuova sede del Gran Capo sorgeva presso il Vittoriano, il Campidoglio, il Foro romano, il palazzo Bonaparte, luoghi e monumenti che lo esaltavano romanamente. «Questa piazza», diceva, «è il cuore di Roma e quindi il cuore d’Italia». E andava oltre: «Noi abbiamo decapitato tutte le piccole capitali d’Italia per fare di Roma la grande Roma imperiale, l’anima immensa del mondo latino». Ma per una spaventosa avvisaglia del destino, davanti ai suoi occhi, affacciandosi al famoso balcone, si apriva, in un angolo della piazza, uno slargo intitolato a Santa Maria di Loreto. Presagio di piazzale Loreto. Una stessa premonizione aveva gravato su Bonaparte da quando negli anni giovanili di guarnigione aveva scritto su un foglio bianco «Sant’Elena, piccola isola», divisando di dedicarle un saggio.

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XX

Mussolini aveva mai il presentimento d’una tragica fine? Fra il ‘29 e il ‘32 collaborò con il commediografo Giovacchino Forzano alla stesura di tre drammi storici che avevano per protagonisti tre grandi personaggi - Giulio Cesare, Napoleone, Cavour - còlti, è un’osservazione di Renzo De Felice, «nel momento decisivo della loro vita e della loro sconfitta sotto i colpi dell’incomprensione e del tradimento». I tre drammi, intitolati Cesare, Campo di Maggio e Villafranca, potevano essere intesi «come sintomi di una inconscia convinzione mussoliniana di dover essere tradito dai suoi fedeli e di dover soccombere politicamente ad opera della monarchia», ma potevano anche far «trasparire abbastanza chiaramente la tendenza del duce a proiettare la propria figura e la propria azione in una prospettiva "storica", quella dell’uomo "solo", consapevole di perseguire una grande meta, e di doverla perseguire tra l’incomprensione e l’inadeguatezza morale di chi lo circondava e avrebbe dovuto coadiuvarlo e, per di più, consapevole di dover agire sfruttando e forzando tutte le occasioni». Si potrebbe aggiungere che Mussolini era attratto da un altro grande personaggio dal destino tragico, Gioacchino Murat, di cui ammirava il coraggio, e di cui diceva: «I soldati non potevano non seguire ciecamente un capo come Murat che si lanciava alla carica in alta uniforme».

Ma Giulio Cesare, al di sopra di tutti, era il suo modello. Lo scrisse sul «Popolo d’Italia» nell’inaugurare la statua dell’antico dittatore in via dell’Impero. Volle inaugurarne un’altra a Rimini, la città dalla quale, varcato il Rubicone, Cesare «spiccò la sua marcia su Roma». Facendo leva sulla forza evocatrice di certe parole, Mussolini aggiunse che quella marcia era stata la «prima marcia della storia», come se anche la marcia di Cesare fosse stata fascista o come se fosse stata cesariana la sua. Si sentiva un emulo del dittatore romano: «Questa, anche questa, è un’epoca che può dirsi cesarea, dominata com’è dalle personalità eccezionali che riassumono in sé i poteri dello Stato, per il bene del popolo, contro i parlamenti, così come Cesare marciò contro l’oligarchia senatoriale di Roma, senza cadere negli eccessi della demagogia di Mario. Così egli ci appare come il realizzatore dell’equilibrio fra le opposte tendenze di Mario e di Siila che sconvolsero per mezzo secolo la vita dell’Urbe».

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Emil Ludwig, il suo più celebre intervistatore, ravvisava invece più concrete assonanze, ma con pari esagerazioni, tra lui e Napoleone. Eppure, proprio parlando col giornalista tedesco, Mussolini diceva di amare Cesare poiché l’antico romano «riuniva in sé la volontà del guerriero con l’ingegno del saggio, dimostrandosi un filosofo». Al contrario non aveva mai pensato di prendere Napoleone a suo esemplare: «Non sono affatto da paragonare a lui. Egli ha concluso una rivoluzione, io ne ho cominciato una. La sua vita mi ha indicati gli errori ai quali difficilmente si sfugge, cioè: nepotismo, lotta col papa, mancanza del senso della finanza e dell’economia. E poi ho imparato qualche cosa di grande da lui. Egli mi ha preventivamente distrutte tutte le illusioni che mi sarei potuto fare sopra la fedeltà degli uomini. Su questo punto io sono a prova di bomba».

In quanto a dittatori, durante gli incontri giornalistici che aveva avuto con Stalin, Ludwig maturò l’idea di pubblicare in volume una serie di conversazioni con il duce. Così nacquero i Colloqui che però lasciarono alquanto insoddisfatto l’intervistato perché il giornalista vi aveva travasato alcuni giudizi compromettenti, in particolare sulla Chiesa, che il duce aveva sì formulato nella foga del discorso tète-à-tète, ma che non avrebbe voluto vedere riprodotti in pubblico.

Erano trascorsi sette anni dalla presa del potere, e Mussolini, dal balcone del cupo maniero che proprio in quei giorni aveva scelto come sua nuova sede, volle pronunciare uno dei suoi più torvi discorsi. Temeva ancora gli antifascisti, nonostante il dispotismo del regime. Si disse perciò pentito di «non aver cacciato al muro davanti ai plotoni di esecuzione, nell’ottobre del ‘22», i suoi nemici. Ma era ancora in tempo a farlo, riprendendo in mano un vecchio strumento: «È un arnese che vi era molto simpatico, e forse avete già compreso che cosa io voglio dire». La folla diede in un urlo e fece un nome: «II manganello! Il manganello!». «Ebbene sì. Un po’ di polvere c’è sopra, basterà spolverarlo». Avevano anche i fucili, e avrebbero potuto reagire «piantando il piombo della rivoluzione fascista nella schiena dei traditori della patria». Queste minacciose parole erano dirette a intimorire non soltanto i vecchi nemici del fascismo che pur vivevano nell’ombra, ma soprattutto chiunque si fosse già stancato della dittatura, e osasse mostrarlo apertamente. Era il modo migliore per ottenere un forzato consenso dai cittadini impauriti, peraltro tenuti sotto controllo dalla fitta rete spionistica del partito, Ovra compresa, dalla vigile sorveglianza della milizia e della strapotente polizia. Non ultimo, il Tribunale speciale era lì a intimorire ogni «malintenzionato» con le sue «esemplari» condanne.

Tutto era nelle mani di un capo assoluto; ai cittadini era negata una reale attività politica e di conseguenza essi si rifugiavano in forme sempre più profonde di abulia e di disinteresse per la gestione della cosa pubblica.

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Mussolini si occupava di ogni cosa dando l’impressione che lo interessassero più le minuzie che non i grandi problemi. Attraverso la vetrata della Sala del Mappamondo teneva d’occhio i metropolitani addetti al traffico nella piazza. Si alzava spesso dal suo tavolo per controllarne personalmente i movimenti. «Chiacchierano invece di regolare la circolazione!», urlò una mattina. Un altro giorno si accorse che i vigili non erano più al loro posto. Mandò immantinente a chiamare il questore di Roma, il quale, tremante, gli disse che la gente si era abituata a camminare sulle strisce e che non c’era più bisogno di metropolitani. «Non è vero», rispose Mussolini infuriato. Trascinò il questore nel vano della finestra, gridando: «Guardate voi stesso. Vedete che non sanno camminare! Mi vanno sotto le automobili!».

Inviava innumerevoli appunti ai prefetti e ai direttori dei giornali, ed erano appunti zeppi di ordini e di rimbrotti che avevano quasi sempre per oggetto questioni secondarie. Con il prefetto di Terni si lamentava che gli stemmi fascisti sulle case popolari fossero tanto piccoli da sembrare «due francobolli da un centesimo». Tirava le orecchie al prefetto di Milano per non aver sequestrato l’«Ambrosiano» che in un titolo aveva parlato di camorra commettendo un’«imbecillità». Definiva infatti la parola camorra un «luogo comune di scherno e di diffamazione degli italiani»; usarlo era un «errore, e un nocumento al prestigio morale della Nazione». Ai prefetti di Pisa, Lucca e Massa imponeva di eliminare dalle strade delle loro città lo spettacolo dei ragazzi questuanti: «Testimoni oculari e serissimi mi informano che vi è una ripresa intensissima dell’accattonaggio specialmente infantile. Le automobili anche straniere ferme ai passaggi a livello vengono assediate da torme di bambini. I commenti sono facilmente intuibili. Esigo che questo accattonaggio sia represso». Al direttore della «Gazzetta del Popolo», Ermanno Amicucci, rimproverava la «quotidiana insulsaggine» del suo giornale, e per di più parlando di lui lo scherniva dicendo: «É troppo basso, è ridicolo». Mussolini, da «primo giornalista del mondo» - era proprio Amicucci a chiamarlo così - dedicava alla stampa un’attenzione ossessiva. Leggeva ogni foglio e li segnava con forti tratti di matita rossa o blu, per rimproverare, strapazzare, richiamare gli erranti all’osservanza dei canoni del fascismo. All’esaltazione propagandistica di quei canoni prepose una «Scuola di giornalismo» che prevedeva al termine del biennio di studi, l’iscrizione all’albo dei giornalisti professionisti, ma i giovani frequentatori, cui si imbottiva il cervello di nozioni teoriche sulla dottrina del fascismo, non venivano portati nemmeno per sbaglio a vedere come si svolgesse il lavoro a un bancone di tipografia.

I rabbuffi potevano dare il senso di come egli si sentisse davvero «solo», secondo un’osservazione di De Felice, nel perseguimento della «grande

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meta» che intendeva raggiungere, quella di fondare, attraverso il fascismo, una nazione che suggerisse a tutti i popoli civili della terra «una parola e una dottrina di salvezza e di vita». Ciò sarebbe stato possibile perché considerava il fascismo come «l’unica cosa nuova che i primi trent’anni del secolo avessero visto nel campo sociale e politico». In questa prospettiva si richiamava alla dottrina del «superuomo» e proclamava che la politica del fascismo era lì a insegnare come «per divenire grandi secondo la massima della filosofia del superuomo "bisognava avere la gioia di obbedire a lungo e in una stessa direzione"». Così dicendo dimostrava però di non avere in particolare considerazione il popolo italiano, forse inadeguato ad affrontare grandi battaglie. Avrebbe voluto farne «una umana massa compatta, unita, concorde», ma temeva di non riuscirci. Avrebbe nondimeno tentato: «Voglio correggere gli italiani da qualcuno dei loro difetti tradizionali. E li correggerò. Voglio correggerli dal troppo facile ottimismo, dalla negligenza che segue talvolta una troppo rapida ed eccessiva diligenza, da questo lasciarsi ingannare dopo la prima prova, da questo credere che tutto sia compiuto mentre molto non è ancora incominciato».

Ai suoi occhi la massa non era che «un gregge di pecore finché non veniva organizzata». Negava che le moltitudini potessero governarsi da sé. Ecco perché il popolo aveva bisogno d’un uomo forte, di una guida sicura, cui affidarsi a occhi chiusi. Insisteva pesantemente su questi concetti abnormi e teorizzava l’esigenza che uno solo, cioè lui, pensasse per tutti: «La gente ha oggi meno tempo di pensare» per cui «la disposizione dell’uomo moderno a credere è incredibile». Certo, non si poteva pretendere dalle masse «la vita incomoda», ma tutto andava riformato negli italiani, «il modo di mangiare, di vestire, di lavorare, di dormire». Li giudicava troppo sensibili alla musica e alle donne, e diceva che per governarli erano assolutamente necessarie due cose: «i poliziotti e le musiche in piazza». Aveva però fiducia nelle nuove generazioni. «Bisogna fare largo ai giovani», ai giovani da lui forgiati: «A volte mi sorride l’idea delle generazioni di laboratorio, di creare cioè la classe dei guerrieri, che è sempre pronta a morire; la classe degli inventori, che persegue il segreto del mistero; la classe dei giudici; la classe dei grandi capitani di industria, dei grandi esploratori, dei grandi governatori. Ed è attraverso questa selezione metodica che si creano le grandi categorie, le quali a loro volta creano gli imperi».

I giovani per iscriversi al partito dovevano pagare un pedaggio e rendere un solenne giuramento di fedeltà, di ubbidienza e di sacrificio: «Giuro di eseguire senza discutere gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e, se è necessario, col mio sangue, la causa della Rivoluzione Fascista». Il richiamo al sangue era un elemento ricorrente nella liturgia del

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regime: non ci si poteva dichiarare fascisti, dall’ultimo dei militanti al duce supremo, senza sentirsi pronti all’immolazione. Ma poi in una realtà più concreta, gli italiani prendevano Per Necessità Familiare la tessera del PNF, secondo il significato che la gente attribuiva con amarezza mista a ironia alla fatidica sigla.

Quel giuramento imposto ai giovani irritò sommamente Pio XI e fu motivo d’un nuovo dissidio fra la Santa Sede e il regime, a breve distanza dalla tanto decantata conciliazione. Lo sdegno pontificio scaturiva anche dal fatto che Mussolini aveva emesso un decreto di scioglimento di tutte le organizzazioni giovanili non fasciste, compresi gli esploratori cattolici, i famosi boy-scouts che la gente chiamava comicamente «biscotti». Il papa definiva il decreto una violazione del Concordato e lamentava che quei gio-vani fossero considerati alla stessa stregua di aderenti ad «associazioni a delinquere» e quindi angariati con «durezze e violenze fino alle percosse e al sangue».

La Chiesa non poteva consentire di essere esclusa dall’educazione della gioventù, per cui papa Ratti fece sentire la sua protesta con un’enciclica, Non abbiamo bisogno. Nel documento prendeva posizione contro il giuramento richiesto ai giovani e contro ogni tentativo di «monopolizzare interamente la gioventù a tutto esclusivo vantaggio di un partito, di un regime». Realisticamente proponeva però un compromesso. Ribadiva che «un tale giuramento, così come stava, non era lecito», e suggeriva di modificarne la formula in base a serie considerazioni di fatto. Poiché ben si sapeva che senza la tessera del partito e il richiesto giuramento, si sarebbero negati agli italiani i più elementari mezzi di sostentamento, il pontefice consigliava di aggiungere al testo del giuramento fascista le parole «salve le leggi di Dio e della Chiesa». Con esplicito linguaggio, così formulava nell’enciclica la sua proposta: «Conoscendo le difficoltà molteplici dell’ora presente e sapendo come tessera e giuramento sono per moltissimi condizio-ne per la carriera, per il pane, per la vita, abbiamo cercato mezzo che ridoni tranquillità alle coscienze riducendo al minimo possibile le difficoltà esteriori. E Ci sembra potrebbe essere tal mezzo per i già tesserati fare essi davanti a Dio ed alla propria coscienza la riserva: "salve le leggi di Dio e della Chiesa", oppure: "salvi i doveri di buon cristiano"».

Mussolini, che già aveva avuto sentore del documento papale, volle mostrare il viso dell’arme: «Io sono un macigno. Non mi commuovono né i petardi, né le encicliche, né i discorsi». Il fratello Arnaldo gli si congratulava. «L’immagine del macigno che resiste ai fulmini delle encicliche è molto piaciuta». Il regime ostacolò la diffusione del messaggio papale vietandone la pubblicazione sui giornali, e il Vaticano, per divulgarla nel mondo cattolico, dovette inviarla via aerea all’estero.

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La situazione era estremamente tesa. Si erano verificate nuove aggressioni contro i circoli dell’Azione cattolica; c’erano state, come scriveva il direttore dell’«0sservatore Romano», conte Dalla Torre, «sopraffazioni, spesso sanguinose, devastazioni e sacrileghe profanazioni di crocifissi». Gruppi di fascisti avevano invaso la redazione della «Civiltà Cattolica» al grido di «Abbasso il papa» ed erano penetrati nel palazzo della Cancelleria benché protetto dal privilegio dell’extraterritorialità. Cortei di giovani in camicia nera inscenavano nelle strade «empie parodie di cantici sacri e di sacri cortei». Le «veline» del Minculpop erano di là da venire, ma già si impartivano ordini alla stampa cui si imponeva di «ignorare il papa» o impartivano una disposizione così concepita: «Poco papa». Insomma, agli inizi degli anni trenta, il paese si trovava di fronte a un rigurgito di vecchio squadrismo, e fu arduo raggiungere fra Chiesa e regime un punto di compromesso cui l’una e l’altro si attestarono dal 1931 al 1943 come se avessero sottoscritto una nuova Conciliazione rimasta segreta.

Da quella contesa il Vaticano uscì sostanzialmente sconfitto. All’Azione cattolica si restituiva sì il diritto di cittadinanza, ma con l’obbligo di operare esclusivamente nell’ambito diocesano, al di fuori di ogni attività politica o sindacale; inoltre il giuramento fascista restava fermo nella sua originaria formulazione. A pacificazione ottenuta si ebbe una cerimonia in cui il duce ricevette dal papa l’ordine dello «Speron d’oro», unitamente alla barocca uniforme, in cui il nobile metallo abbondava. La tenuta consisteva in casacca di panno rosso a due petti con colletto e paramani neri bordati d’oro, spalline d’oro, cinturone d’oro con spadino dall’elsa dorata, calzoni neri con bande d’oro, feluca nera con trine. Mussolini ringraziò sentitamente facendo erigere in Predappio una nuova chiesa parrocchiale dedicata a Sant’Antonio.

Su proposta del nume culturale del fascismo, Giovanni Gentile, l’obbligo del giuramento veniva rapidamente esteso ai professori universitari e ai membri delle più alte istituzioni culturali compresa la somma accademia dei Lincei. Furono pochi a non sottostare al giogo. Fra i lincei rifiutarono di giurare in una decina (tra i quali Croce, Gaetano De Sanctis, De Viti de Marco, Vittorio Emanuele Orlando, Vito Volterra, Bresciani-Turroni); tredici professori universitari, su milleduecento, dissero «no» all’imposizione. Figuravano nuovamente tra questi i lincei Gaetano De Sanctis, De Viti de Marco e Vito Volterra. Si aggiunsero, tra gli altri pochissimi, Emesto Buonaiuti, Levi della Vida, Bartolo Nigrisoli, Lionello Venturi, Giuseppe Antonio Borgese. Questa volta la Chiesa non prese posizione contro il giuramento, non scatenò una polemica come aveva fatto con il giuramento richiesto dal regime ai giovani.

Con tracotanza Mussolini aveva detto, paragonandosi a un macigno, che non lo avrebbero smosso né le encicliche né i petardi. Con dileggio

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chiamava petardi le bombe che di tanto in tanto i dinamitardi nemici del regime facevano esplodere in varie città, a Torino, a Genova, a Bologna. Fra quei dinamitardi, ne erano caduti tre nella rete della polizia; tutti giovani: il sardo Michele Schirru, il bellunese Angelo Sbardellotto e il genovese Domenico Bovone. I primi due erano anarchici e intendevano attentare alla vita di Mussolini, il terzo era un imprenditore che andava preparando delle manifestazioni terroristiche a base di esplosivi. Furono tutti condannati alla pena di morte mediante fucilazione, e giustiziati, in applicazione delle leggi speciali.

Tanto avrebbe battuto e ribattuto, diceva Mussolini, che sarebbe riuscito a fare gli italiani come li invocava d’Azeglio. Doveva servire allo scopo anche l’Accademia d’Italia, da lui voluta nel simbolo del Littorio, in antitesi con ogni altro consimile organismo culturale. Inaugurata in Campidoglio nell’ottobre del ‘29 in coincidenza con l’inizio dell’ottavo anno di regime, entrarono a farvi parte, fra i nomi più celebri, Enrico Fermi, Pirandello, Mascagni, Umberto Giordano, Piacentini, Giulio Aristide Sartorio, Panzini, Ettore Romagnoli, Pietro Canonica, Marinetti, mentre Benedetto Croce e Roberto Bracco vollero rimanerne fuori. Il primo a presiederla fu Tommaso Tittoni cui seguirono Marconi, d’Annunzio, Federzoni, Giovanni Gentile. Gli accademici del Littorio percepivano uno stipendio mensile di tremila lire, che non erano poche. Il fine politico della istituzione, osservava Salvatorelli, «fu chiaro fin dal principio: più ancora che di ricompensa a benemeriti del regime, essa servì a neutralizzare inimicizie o superare indifferenze di personalità le quali, una volta incasellate alla Farnesina, non avrebbero potuto (anche se ne avessero avuto voglia) fare dell’antifascismo, o semplicemente ignorarlo. In taluni casi il mutamento di contegno in seguito alla nomina fu tale che il valore eventuale dell’accademico non poteva impedire di parlare dell’Accademia come di uno strumento di corruzione».

Alla «bonifica» degli italiani doveva unirsi la bonifica delle plaghe paludose, a cominciare dall’Agro pontino, malarico e selvaggio, da secoli nel più completo abbandono. Qualche raro cartello segnalava gravi pericoli: «Chi entra nella melma affonda e muore». Era quella l’immensa palude pontina che, affacciandosi sul Tirreno e con gli Appennini alle spalle, si stendeva dalla Selva di Cisterna alla Selva di Terracina tra vipere e zanzare, densa di miasmi, fomite di malaria.

La fondazione di Littoria avvenne il 30 giugno del 1932. Sei mesi dopo il duce apparve al balcone del nuovo municipio, un bianco palazzotto in travertino munito di torre, per festeggiare solennemente la nascita della città. Innalzava una bottiglia di spumante italiano che mandò in frantumi sul davanzale in segno di buon augurio e felicità. Ai rurali che entusiasti

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affollavano la piazza tra i gagliardetti del partito disse con orgoglio: «Oggi è una giornata fausta per la rivoluzione delle camicie nere. Ciò che non fu tentato durante il passato di venticinque secoli, oggi noi traduciamo in una realtà vivente». Lasciando gli alti cieli della storia millenaria, passò ad argomenti più terreni: «Sono sicuro che i coloni qui giunti saranno lieti di mettersi al lavoro, anche perché hanno in vista, fra quindici o venti anni, il possesso definitivo del loro podere».

Nel 1930 il duce e il re furono accomunati da due eventi matrimoniali che allietarono le loro famiglie. Umberto di Savoia convolò a nozze con la principessa Maria José del Belgio, mentre Edda sposò un bel giovane con pretese di letterato alle prime esperienze in diplomazia, Galeazzo Ciano, figlio di Costanzo, conte di Cortellazzo per meriti bellici e ministro delle Corporazioni per meriti fascisti. Che Edda - la «cavallina matta» come la chiamavano in casa, la ragazza dal temperamento «bizzarro, indocile e capace di tutto» come hanno scritto i suoi biografi ufficiali - si fosse accasata, era motivo di soddisfazione e tranquillità per sua madre. Il padre invece ne era quasi contrariato poiché le nozze venivano a interrompere una corrente di soffusa morbosità che indistintamente li univa. Già durante il breve fidanzamento tra Edda e Galeazzo, il duce si era mostrato gelosissimo della figlia. Il giovane conte aveva condotto la ragazza in un locale notturno di Roma, e l’indomani mattina ebbe la sorpresa di essere chiamato a rapporto dal futuro suocero, il quale lo accusò aspramente di aver attentato con quella uscita alla onorabilità di Edda. «Il vostro gesto», gli disse, «è deplorevole e inqualificabile! Cercate di non ripeterlo più!».

Il matrimonio sembrava chiudere per Edda, diciannovenne, e per Galeazzo, di sette anni più grande di lei, la fase spensierata delle avventure e dei capricci sentimentali. Il duce scrisse a matita sul rovescio d’una vecchia partecipazione l’annuncio delle cerimonie nuziali: il ricevimento pubblico era fissato per il pomeriggio del 23 aprile nei giardini di villa Torlonia; gli sponsali erano stabiliti per il mattino seguente nella vicina chiesa di San Giuseppe sulla via Nomentana.

Tutto si svolse più o meno secondo le linee protocollari d’un troppo fastoso matrimonio, tipico di gente arrivata di fresco. Gli sposi, all’uscita dalla chiesa, passarono sotto un arco di sinistri pugnali che i moschettieri del duce, in alta uniforme nera, avevano sguainato in loro onore. Il commiato con gli ospiti più intimi fu breve. Edda, dal colonnato di villa Torlonia, li salutò, romanamente, alzando il braccio. Mutò l’abito bianco con un abbigliamento sportivo, ripreso dai figurini di Jardin des modes, e raggiunse Galeazzo che l’attendeva in un’Alfa Romeo bianca. Al momento della partenza vide il padre impallidire. Edda, senza indugio, si pose alla guida dell’automobile, accese il motore e si allontanò d’un balzo. Dopo un attimo

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d’esitazione, anche il duce saltò su una macchina nella quale aveva spinto Rachele confusa, e si pose all’inseguimento dell’Alfa. Fu Edda a interrompere la corsa, arrestando dopo alcuni chilometri la sua macchina e rampognando l’inseguitore: «Fin dove vuoi arrivare, papà? Sei ridicolo e mangi solo polvere!». «Stavo già per tornare indietro», fu l’impacciata risposta di lui.

Il clima di festa dei celebri matrimoni contrastava con le condizioni economiche del paese. Le critiche di Augusto Turati alla politica corporativa mussoliniana si andavano rivelando fondate. Turati aveva definito dannosa, perché troppo costosa, la politica di puro prestigio in difesa della lira, «quota novanta», e ne chiedeva la rinuncia. L’Italia appariva bell’e pronta ad accogliere e a ingigantire gli effetti della grande crisi mondiale del 1929 sopraggiunta dagli Stati Uniti. Si cercò di correre ai ripari. Una delle «dighe» allora innalzate prese il nome di Iri, Istituto per la ricostruzione industriale, costituito nel gennaio del ‘33. Era il segno del primo intervento statale nei settori delle banche e delle industrie. Al disastro economico provocato dalla grande guerra, alla formazione disordinata d’un’industria siderurgica nazionale, alla tensione dei rapporti sociali, bisognava in qualche modo porre rimedio.

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XXI

In coincidenza col nono anniversario della marcia su Roma, saliva al rango di segretario del partito Achille Starace che, fra le innumerevoli benemerenze di fedeltà, aveva dimostrato di sapere eseguire a puntino gli ordini del duce, specie nell’epurazione del fascismo milanese dominato da un ras imperioso, Mario Giampaoli, il quale dava sui nervi a Mussolini perché troppo potente nel suo feudo. Starace aveva condotto un’inchiesta che aveva messo in luce la profonda immoralità del personaggio in fatto di donne e di denaro. Alla rimozione di Giampaoli seguì una vasta purga che ripulì la federazione milanese di tutti i suoi seguaci. In un viaggio a Milano, il duce lodò pubblicamente Starace dicendo che «il suo bisturi aveva operato con mano ferma e sicura».

Con Starace segretario del Pnf, s’intensificò l’azione di propaganda. Si diede ordine a tutte le sedi fasciste di restare aperte per l’intera giornata, dalle 11 del mattino alle 11 di sera. La crisi economica era sempre grave e si voleva che il partito fosse continuamente in stato di mobilitazione per rispondere con una forte azione reclamistica volta ad illustrare quanto si era fatto con opere pubbliche e assistenza. Mussolini insisteva nel mettere in luce quanto la crisi fosse non soltanto italiana, ma universale: i popoli uscivano da uno degli inverni più tormentati che la storia ricordasse, «appena paragonabile all’ultimo inverno di guerra nelle trincee». A titolo di consolazione faceva gioco anche il richiamo alla secolare genialità italiana, e si mise in cantiere la pubblicazione d’un’opera in più volumi tendente ad esaltare la presenza dell’Italia all’estero. Mussolini disse che con quella iniziativa il governo fascista voleva risalire «nei secoli a trovare le tracce inconfondibili del genio italiano».

La nomina di Starace a segretario del partito non piacque ai più. Il sottosegretario agli Interni, Leandro Arpinati, collaboratore diretto di Mussolini al Viminale, fece in proposito le più vive rimostranze; disse al duce: «Starace è un cretino», e si sentì rispondere: «Lo so, ma è un cretino obbediente». Il nuovo segretario sognava di tare dell’Italia una caserma dominata da un ottuso automatismo buro-militaristico. A cinque giorni dal suo arrivo in palazzo Vidoni, inventò la massima espressione del suo pensiero, il «Saluto al Duce». Attilio Tamaro raccontava come si era

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verificato il parto: «Starace si fece immediatamente conoscere per quel che era e per quel che valeva. Convocati, il 12 dicembre, i maggiori gerarchi in una sala di palazzo Venezia per insediare il nuovo direttorio e per ascoltare alcune comunicazioni di Mussolini, quando tutti furono adunati e si attendeva il Capo del governo, Starace, chiesto silenzio, disse che si sarebbe fatta una prova generale perché l’accoglienza al Duce riuscisse veramente bella».

Si diffuse nella sala un profondo stupore. Tutti si chiedevano se si era a un’adunata politica o a una rappresentazione scenica. «Ma Starace insistette e i gerarchi incominciarono a divertirsi. Il Segretario del partito (cioè lui), disse Starace, come il Duce sarà entrato, farà quattro passi per andargli incontro, si fermerà quindi sull’attenti e, tenendo il braccio ben teso, dirà forte "Saluto al Duce": i presenti risponderanno "A noi", curando di essere bene all’unisono, come un grido solo. Dopodiché la fanfara, ce n’era una in sala, eseguirà otto battute di Giovinezza. Boncompagni, governatore di Roma, esterrefatto, disse sottovoce: "Ma questo Segretario non resisterà tre mesi a quel posto". Al che Giuriati: "Sbagliate, egli vi starà per dieci anni"». E quasi ci indovinò.

Il rito del «Saluto al Duce» si affermava e diventava obbligatorio; in più Starace imponeva di scrivere sempre in lettere maiuscole la parola DUCE in ogni occasione, nella corrispondenza degli uffici pubblici e naturalmente sui giornali. Mussolini era al centro dell’universo fascista. «È il DUCE», si leggeva sul «Popolo d’Italia», «che in ogni cosa, in ogni nostra manifestazione ed espressione che la riguardi, appare più grande, più luminoso, più distanziato da noi dal suo passo, dal suo genio, dal suo cuore, dalla sua passione, che sempre più ingigantiscono, sì che tutta la nostra pur incommensurabile fede e tutta la nostra inesauribile passione, non ci consentono di raggiungerlo, ma anzi ogni giorno più ci danno la sensazione di quanto poca cosa noi siamo di fronte a lui, che è tutto per noi, è tutto per quarantadue milioni di italiani».

La ricorrenza del Decennale fu celebrata con l’inaugurazione di una grande arteria, che tagliò in due il cuore antico di Roma, ma che doveva essere il simbolo più solenne di come Mussolini voleva la sua capitale. L’arteria, che ebbe il nome di via dell’Impero, consentiva di scorgere il Colosseo da piazza Venezia. La collina della Velia, con le antiche costruzioni, che si addossava alla basilica di Massenzio, era stata rasa al suolo, avendo Mussolini detto che tutto il «pittoresco sudicio» era affidato «a S.M. il piccone» in nome della decenza e dell’igiene. Si polverizzavano secoli di testimonianze urbanistiche, dalla protostoria al Rinascimento, e si deportavano i quattromila abitanti della zona in squallide bicocche di periferia. Ma il duce, usando di persona il piccone, diceva che finalmente

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Roma aveva una strada adatta alle sue «grandi parate militari» che fino a quel momento si erano dovute tenere in periferia o in campagna. «Via dell’Impero», gli faceva eco Vincenzo Cardarelli, «potrebbe anche chiamarsi via del Consenso». Ugo Ojetti scrisse sull’evento qualcosa di più articolato, ma di non meno retorico, esaltando sia i lavori di costruzione della strada sia l’insonne vigilanza del Capo: «Dal foro Traiano al Colosseo lo scavo metodico e inesorabile che trecento operai conducono per aprire prima del 28 ottobre lungo il fianco orientale del Campidoglio, del foro romano, della basilica di Costantino, il varco a via dell’Impero è, credo, l’opera più vasta e audace mai compiuta d’un solo impeto a Roma per liberare alla vista monumenti antichi celebri nell’intero mondo. È in atto la volontà di Benito Mussolini. Archeologi, architetti, soprastanti, manovali lavorano, si può dire, per lui, aspettano la visita sua, le domande sue, il consenso suo, quel sorriso che comincia in un lampo degli occhi e talvolta si ferma lì. Sanno che sera per sera, ora per ora egli è informato d’ogni ritrovamento e d’ogni nuovo problema; che anzi dalle sue finestre a palazzo Venezia s’affaccia spesso a osservare le squadre che lavorano al foro Traiano, nella basilica e nell’aula della biblioteca da poco riscoperta e, se gli sembra che siano più rade e più lente, dopo un attimo un suo messo piomba lì a svegliare i dormienti».

La costruzione d’una sua Roma non lo distrasse dalla politica estera cui si dedicava con sempre maggiore impegno. «Respirava nel mondo», diceva di lui un ambasciatore, Roberto Cantalupo, ed era «un mondo nel quale Mussolini cercava di ingrandire l’Italia e se stesso». Il duce aveva già sottratto il Ministero degli Esteri a Grandi e, parlando con Cantalupo, dava dell’ex ministro un giudizio totalmente negativo: «Grandi aveva sbagliato tutto in tre anni, tutto: aveva praticato una politica pacifista, aveva fatto l’ultrademocratico e il super-ginevrino». Mentre Mussolini gli diceva queste cose, Cantalupo vedeva in lui un uomo «giovanile e di buon umore, aitante e sicuro di sé» che sprigionava dal fisico «un aspro e forte fascino». Tutti lo trovavano in piena forma come non mai. Aveva ripreso a fare un po’ di sport; partecipava a qualche battuta di caccia in Romagna camminando più speditamente dei suoi agenti di scorta, oltre che dei suoi camerati cacciatori; andava spesso a Ostia in motocicletta per abbronzarsi, dicendo che quelle erano le sue corse preferite e che avrebbe voluto trascorrere intere giornate al mare.

Anche ai governanti inglesi, il premier laburista MacDonaId e il ministro degli Esteri Sir John Simon, il duce apparve in ottima forma. Essi erano a Ginevra dove la Conferenza del disarmo non faceva alcun progresso e decisero di recarsi a Roma, accettando un invito di Mussolini, per discutere preliminarmente con lui un suo progetto di patto a quattro, tra la Germania

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di Hitler, la Francia, la Gran Bretagna e l’Italia. Il patto, come sembrava, era diretto alla realizzazione d’una politica che garantisse il mantenimento della pace fra tutti i popoli, anche infrenando le smodate ambizioni naziste. I due statisti raggiunsero Genova e di lì, ospiti di Balbo, proseguirono il viaggio a bordo di un idrovolante che ammarò ad Ostia. Mussolini all’estero non godeva di un grande credito come diplomatico. Sulla scena internazionale gli avevano affibbiato l’appellativo di Cèsar de carnaval, né bastava il sostegno dei conservatori inglesi, e anche francesi, che gli riconoscevano il merito di aver bloccato l’espansione del bolscevismo, per farsi una fama di abile negoziatore.

Eppure, a parte la piazzata di Corfù, qualche risultato l’aveva conseguito, più che altro grazie alla saggia azione del segretario generale agli Esteri, Contarini. Con il nuovo Stato jugoslavo aveva risolto la questione di Fiume, per cui la città era passata all’Italia; e con Belgrado aveva anche concluso un trattato di commercio e navigazione. Aveva sottoscritto altri accordi e trattati con l’Inghilterra per l’Oltregiuba e l’Abissinia; con la Germania in tema di commercio; con l’Egitto per l’oasi di Giarabub, ceduta all’Italia, e la baia di El-Sollum, assegnata all’Egitto. L’Italia aveva riconosciuto l’Urss e aderito al patto di Locarno sulla definizione della frontiera renana franco-tedesca. Mussolini andava abbandonando però la sua condotta alterna, fatta di moderazione e di aggressività per alzare sempre più la voce e atteggiarsi a capo di una grande potenza. Sicché Contarini giudicò impossibile conti-nuare a stargli vicino e si decise a rassegnare le dimissioni. Il duce premeva per un nuovo assetto europeo in cui l’Italia potesse accrescere il suo prestigio ed estendere la sua influenza territoriale. Una involuzione parallela a quella italiana si verificava in Germania con la caduta della repubblica democratica di Weimar e la conquista del potere da parte di Hitler che considerava Mussolini suo maestro in dittatura e «capo spirituale» del suo stesso nazismo.

Un momento di particolare tensione si ebbe con l’espansione del nazionalsocialismo in Austria. Il cancelliere austriaco Dollfuss faceva assegnamento su Mussolini. Il piccolo Dollfuss, propugnatore d’un regime autoritario, ma che egualmente si ergeva in difesa dell’indipendenza austriaca, si incontrò con lui a Riccione e a Roma. Lo scopo era di bloccare l’espansionismo hitleriano che, travolta l’indipendenza dell’Austria con l’annessione alla Germania, avrebbe rappresentato un serio pericolo anche per l’Italia. I tedeschi al Brennero, con una Germania che si riarmava e si estendeva, costituivano una minaccia non soltanto per l’Italia, ma per tutta l’Europa. L’Italia, la Francia e la Gran Bretagna presero posizione contro gli appetiti territoriali di Hitler, volti in quella prima fase espansionistica del nazismo a riunire tutti i tedeschi in un solo, grande Reich.

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Mussolini riparlò in difesa dell’indipendenza austriaca in occasione della seconda assemblea quinquennale del regime, pur sostenendo l’esigenza per la Germania di un parziale riarmo. Non meno della Germania, aveva il dovere di essere militarmente forte anche l’Italia cui assegnava due obiettivi storici da raggiungere:

l’Asia e l’Africa. Erano obiettivi non di conquiste territoriali, disse, ma di «espansione naturale» in piena «collaborazione» con quelle due grandi aree. La precisazione non fu sufficiente a tranquillizzare i governi europei che si scambiarono note diplomatiche vivamente allarmate.

Hitler era sì grato a Mussolini per il sostegno che gli offriva in tema di riarmo, ma non poteva gradire l’atteggiamento pro-Dollfuss. Era forse bene parlare della cosa in un colloquio a quattr’occhi, così il Führer venne in Italia e s’incontrò con il duce a Venezia. Era il 14 giugno del 1934. Si trovarono nientemeno di fronte un uomo della Provvidenza e un «nuovo Redentore». Hitler era invaso da un vero e proprio delirio messianico, si sentiva guidato da una voce inferiore come un Cristo trionfante. Pubbli-camente si paragonava nell’esaltazione oratoria al Messia che avrebbe salvato la Germania. A Monaco i suoi «apostoli», qualche anno prima avevano fatto precedere un suo discorso durante le feste di Natale da una rappresentazione teatrale intitolata Er-lösung, «Redenzione», e il «Völkischer Beobachter» aveva scritto che «il sipario, alzandosi, aveva rivelato il nuovo Redentore, cioè colui che è destinato a salvare il popolo tedesco dall’onta e dalla miseria: il nostro Führer, Adolf Hitler».

I due personaggi non si erano mai visti prima. Mussolini, in uniforme, con stivaloni, fez a frangia, accolse il cancelliere tedesco all’aeroporto di Venezia. Hitler, che indossava abiti borghesi e uno striminzito impermeabile giallastro, non fece buona impressione al padrone di casa. Entrambi si guardavano con sospetto e freddamente. Il Führer, scriveva un testimone oculare, «era bianco come un lenzuolo», aveva un abito che «lo faceva sembrare un operaio vestito a festa per una gita domenicale». Giunti nella villa Pisani di Stra, i due capi di governo si scambiarono alcune infor-mazioni durante la colazione, ma il vero e proprio incontro politico si svolse nel pomeriggio e si protrasse per un paio d’ore. Al termine del colloquio, svoltosi senza interpreti, apparvero più frastornati che mai. Hitler aveva naturalmente parlato in tedesco; Mussolini non conosceva di quella lingua che i rudimenti, e inoltre, poiché l’ospite gli aveva parlato velocissimamente come in preda a un raptus isterico, gli era stato ancor più difficile capirlo. Per colma di sventura l’«ininterrotto fiotto di parole» che il Führer gli aveva rovesciato addosso, «aveva reso impossibile ogni discussione» e qualsiasi suo intervento degno di questo nome. Ben poco avevano capito l’uno dell’altro, ma appariva sufficientemente chiaro che Hitler insisteva nel

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proposito di annettersi l’Austria e che Mussolini si riaffermava contrario. Il giorno successivo, sempre senza interpreti, proseguirono i colloqui al Lido degli Alberoni perché scacciati dalle zanzare del Brenta «grosse come quaglie» che infestavano la pur splendida villa reale di Stra.

Il comunicato emesso al termine degli incontri era sommario e non riferiva che di un cordiale spirito di collaborazione. Ufficiosamente si seppe, come tutti già immaginavano, che si era discusso sull’indipendenza dell’Austria. A sua volta Mussolini parlando in piazza San Marco, non fece rivelazioni. Si limitò a dire che lui e Hitler si erano riuniti «per tentare di disperdere le nuvole che offuscavano l’orizzonte della vita europea». Ma aggiungeva una minaccia: «O si ritrova un minimo di collaborazione, o il destino dell’Europa è irrevocabilmente segnato».

Riaccompagnò il Führer al campo d’aviazione di San Nicolo di Lido dove lo aveva accolto, salutandolo con un malcelato senso di liberazione. Subito si sfogò con Suvich, il sottosegretario agli Esteri: «Questo Hitler, che pulcinella!». Qualche giorno dopo, di ritorno in Romagna, disse ad alcuni fascisti forlivesi: «Invece di parlarmi dei problemi attuali, Hitler a Venezia mi ha ridetto a memoria il suo Mein Kampf, quel mattone che non sono mai riuscito a leggere». Gli faceva eco Suvich il quale raccontava come il duce avesse invitato l’ospite a una gita in motoscafo e come per tutto il tragitto Hitler non avesse fatto altro che decantare la superiorità della razza nordica, sentenziando che tutti i popoli del Mediterraneo, e gli italiani più degli altri, hanno sangue negro nelle vene. Insomma il Führer non riuscì simpatico a nessuno, e per di più Mussolini diceva di non fidarsi né di lui né del suo popolo, come riferiva il giornalista Michele Campana. «Dovrei essere contento», osservava il duce, «che Hitler ha fatto una rivoluzione sulla nostra falsariga. Ma sono tedeschi, e finiranno col rovinare la nostra idea. Sono sempre i barbari di Tacito e della Riforma, in perpetua lotta con Roma. Io non me ne fido». E difatti, a poco più di un mese dagli incontri di Venezia, avvenne che i nazisti tentassero un colpo di Stato in Austria e che assassinassero Dollfuss, il protetto di Mussolini, proprio quando il piccolo cancelliere si accingeva a raggiungere la moglie a Riccione dove era ospite di donna Rachele. In Italia si scatenò una violenta campagna antinazista. Mentre il duce inviava quattro divisioni ai confini del Brennero e della Carinzia, apparivano sui muri delle città italiane numerose scritte di «Abbasso Hitler», e gli studenti manifestavano nelle strade a favore dell’indipendenza austriaca.

Ormai Mussolini fomentava in prima persona la campagna antihitleriana e antitedesca. Il Führer negò ogni responsabilità nel putsch viennese e nell’assassinio di Dollfuss, ma il duce insisteva nelle accuse. Non credeva assolutamente a un’esclusiva responsabilità dei nazisti austriaci e diceva che

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tutto era stato voluto da Hitler che egli definiva apertamente un «orribile degenerato sessuale», un «pazzo pericoloso». Mussolini in quei giorni vedeva il nazismo come «una rivoluzione delle vecchie tribù germaniche della foresta primitiva contro la civiltà latina di Roma». Del resto, lo stesso titolo di Führer che Hitler aveva scelto per sé, gli appariva come un richiamo al condottiero, al princeps degli antichi germani di cui parlava Tacito. Non ravvisava più molta somiglianza fra le sue idee e quelle di Hitler, poiché «il fascismo riconosceva i diritti dell’individuo, la religione e la famiglia; mentre il nazional-socialismo era barbaro e selvaggio: assassinio, strage, saccheggio e ricatto, questo è tutto quello di cui è capace».

Batté sullo stesso tasto a Bari inaugurando la quinta Fiera del Levante in «un’ardente e solare giornata» che per questo semplice fatto egli definì «una giornata fascista», e Leo Longanesi non poté non prorompere in un’esclamazione carica d’ironia: «Ora anche il sole è fascista». Il duce, nel polemizzare col nazismo, tornò a contrapporgli la civiltà latina: «Trenta secoli di storia ci permettono di guardare con sovrana pietà talune dottrine d’oltr’Alpe, sostenute dalla progenie di gente che ignorava la scrittura con la quale tramandare i documenti della propria vita, nel tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio e Augusto». Il contrasto fra i due regimi si era fatto aspro. Vicendevolmente italiani e tedeschi si accusavano di fellonia. Mussolini diceva: «Se vi è un tema che i germanici dovrebbero lasciar cadere nell’oblio più profondo è esattamente quello del tradimento. Poiché se vi è un popolo che abbia nella sua storia esempi clamorosi e sanguinosi di infedeltà ai patti giurati, di tradimento agli amici, di cinismo nel giustificare dottrinalmente questi eventi, è precisamente il popolo tedesco da Arminio a Federico di Prussia».

Nel frattempo la forza di Hitler si era accresciuta poiché, morto Hindenburg presidente del Reich, ne aveva occupato il posto, riassumendo in sé le cariche di cancelliere e di capo dello Stato. Ma già da un paio d’anni aveva aperto i primi campi di concentramento. Al riarmo tedesco, ora considerato pericoloso, Mussolini opponeva un progetto di intensa militarizzazione in Italia. Nel giorno del discorso di Bari pubblicò un corsivo anonimo sul suo giornale. L’Italia, scrisse, doveva diventare una nazione militarista, e non bisognava aver timore di dirlo apertamente. Propugnare un’Italia militarista era come «propinare un poderoso bicchiere d’olio di ricino a molti stomachi deboli, di democratoidi, smarritisi, non si sa come, nello stesso Partito Fascista». Perciò «ripetiamo, gridiamo che l’Italia fascista dev’essere "militarista", unico mezzo perché sia effettivamente militare e, quando necessario, vittoriosamente guerriera. I deboli di stomaco, quelli che non amano il passo di parata militare, perché

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preferiscono con nostalgia il "canoro" pittoresco disordine del gregge, sono invitati a scegliere fra il Fascio e il seminario». E sono invitati a farlo «sollecitamente» perché «non vogliamo zavorra vile nei ranghi». L’Italia era pronta ad «adornare le canne dei fucili col ramoscello d’ulivo», ma i suoi nemici dovevano ritenerla capace, se necessario, di «ornare la punta delle baionette col lauro e la quercia della vittoria».

Appariva sempre più imbronciato e distante. Una sera alla «Fenice» di Venezia ascoltò la musica di Mozart immobile come una statua, chiuso nel suo palco. Sembrò rianimarsi la mattina successiva quando si tuffò in mare per una breve ma gagliarda nuotata. Anche durante una visita a Sabaudia, mentre distribuiva scarni premi ai bonificatori, si mostrò accigliato. C’era chi attribuiva una così durevole mutria alla tensione con Hitler e chi a un inasprimento dell’antica ulcera. Alfine il velo che oscurava il suo volto scomparve, e fu quando, tra i quindicimila atleti convenuti a Roma in occasione del dodicesimo anno dell’era fascista per inaugurare la nuova via del Circo Massimo, si levò un urlo: «Duce, regalaci un sorriso!». Allora Mussolini, come scrisse un diplomatico presente alla scena, «alzò le braccia dalla sorpresa e dalla gioia, con un’espressione indimenticabile».

La tensione con Hitler lo ricondusse verso la Francia e la Gran Bretagna. Insieme al nuovo premier francese Pierre Lavai, in visita a Roma, sottoscrisse un accordo di consultazione con l’occhio rivolto al mantenimento dell’indipendenza austriaca. Un secondo accordo riguardava manifestamente consistenti sistemazioni territoriali e societarie in Etiopia, mentre in una ben più rilevante intesa, che rimase segreta, la Francia dichiarava di lasciar mano libera all’Italia qualora decidesse di compiere una qualche azione in Abissinia. Al momento dei brindisi, Lavai salutò il duce come l’uomo che aveva scritto la «più bella pagina» nella storia dell’Italia moderna. Nello stesso giorno il generale De Bono, ch’era ministro delle Colonie, partì alla volta dell’Eritrea con l’incarico di prepararsi a eventuali operazioni militari. Durante il viaggio verso Massaua, venne nominato alto commissario per l’Africa orientale e perdeva il ministero delle Colonie che tornava nelle mani di Mussolini.

Il duce tentò di tessere con Londra, sulla scorta dell’intesa con la Francia, un’analoga rete antitedesca, sebbene i governanti inglesi si mostrassero allarmati per i preparativi ormai palesi d’un attacco italiano all’Etiopia. Difatti settantamila camicie nere avevano chiesto di essere arruolate volontariamente nei reparti che sarebbero partiti per l’Africa orientale, mentre veniva richiamata alle armi la classe del 1911. La questione del riarmo tedesco si era fatta più minacciosa avendo Hitler deciso di fondare l’arma dell’aviazione e di ripristinare il servizio militare obbligatorio allo scopo dichiarato di dar vita a una dozzina di corpi d’armata.

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Era rispuntata la necessità del legame tra Francia, Gran Bretagna e Italia, per cui Mussolini favorì la convocazione di una conferenza fra i rappresentanti delle tre nazioni. I colloqui si svolsero a Stresa, o meglio all’Isola Bella sul Lago Maggiore nella villa Borromeo che aveva accolto Napoleone nel ‘97. Volendo dare agli ospiti un maschio spettacolo di sé, il duce planò sulle acque del lago a bordo di un idrovolante che egli stesso pilotava con l’assistenza d’un esperto aviatore. L’incontro si rivelò inutile, e Mussolini non ne trasse che il titolo di «pavone», come mormoravano i diplomatici stranieri suggestionati dallo spettacolo di vanità offerto da alcuni pavoni dalle piume iridescenti che maestosamente si aggiravano facendo la ruota tra i viali della stupenda villa.

Un colpo mortale alla reputazione della Società delle nazioni pervenne proprio da Mussolini con la guerra d’Etiopia che doveva aprire all’Italia una gracile prospettiva di potenza coloniale. Avveniva infatti che uno Stato membro di quel consesso internazionale ne aggredisse un altro dotato di pari diritti di indipendenza e di sovranità. Ma l’Italia e la Germania, e non meno di loro il Giappone che si era annessa la Manciuria, avevano ormai ampiamente dimostrato di considerare men che zero la Società ginevrina, la quale dal canto suo non faceva gran che per dare almeno segni di vita se non di fermezza. La Lega si riduceva a semplice «feticcio», come osservava Dino Grandi, ambasciatore a Londra. Né si poté dire che le sanzioni economiche poi decretate contro l’Italia fossero efficaci e venissero applicate da tutti i soci di quell’organismo.

La conquista di nuove colonie, oltre i possedimenti della Libia, dell’Eritrea e della Somalia, era sempre stato il sogno non troppo segreto di Mussolini il quale, giunto al potere, aveva ben presto cominciato a magnificare le tradizioni imperiali di Roma caput mundi cui bisognava fare onore preparandosi spiritualmente e militarmente alle immancabili espansioni territoriali dell’Italia fascista. Il regime si era assegnato una vocazione imperiale per ragioni di prestigio e per alleviare il peso della disoccupazione in aumento con la progressiva riduzione delle possibilità di trovar lavoro all’estero. I fascisti avevano preso a commemorare di anno in anno le Idi di marzo inondando di corone le statue del «fondatore dell’impero romano», di Cesare caduto sotto i pugnali della conservazione più ottusa. Se c’era chi, come gli inglesi, osava protestare contro le aspirazioni imperiali dell’Italia, si sarebbe accorto, diceva Mussolini, che il popolo fascista era pronto «a scattare come un solo uomo», essendo in gioco «la potenza e la gloria della patria». In uno sprezzante discorso alle camicie nere di Cagliari e ai primi abitanti di un vicino borgo cui aveva dato il nome di Mussolinia, aveva soggiunto: «Non terremo nessun conto di quello che si possa dire oltre frontiera, perché giudici dei nostri interessi, garanti del

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nostro avvenire, siamo noi, soltanto noi, esclusivamente noi e nessun altro. Imiteremo alla lettera coloro i quali ci fanno la lezione. Essi hanno dimostrato che, quando si trattava di creare un impero o di difenderlo, non tennero mai in alcun conto l’opinione del mondo».

Sprezzante era stato anche con Eden, il ministro inglese presso la società delle nazioni, arrivato a Roma per tentare di indurlo a più miti consigli. Al ricevimento ufficiale indetto al Grand Hotel, Mussolini si presentò in un leggero abito estivo non certamente protocollare, e per tutta la durata del pranzo non rivolse all’ospite né uno sguardo né una parola. Poco diversamente si comportò durante i colloqui a palazzo Venezia. Eden sosteneva che si poteva evitare la guerra soltanto attraverso un sistema di sicurezza collettiva, e prometteva i suoi buoni uffici perché l’Etiopia cedesse all’Italia l’Ogaden. Era quella un’arida plaga, e il duce ebbe buon gioco nel rispondere che per lui sarebbe stato grottesco, «passare alla storia come collezionista di simili prodotti della natura», cioè di pittoreschi deserti. Sprezzantemente disse che vi erano due ipotesi sul tappeto, una pacifica e l’altra bellica: «Una soluzione pacifica significherebbe la cessione all’Italia di tutti i territori non amarici conquistati da Menelik, e per di più il controllo sul nucleo amarico centrale. Una soluzione bellica significherebbe eventualmente l’eliminazione dell’Etiopia dalla carta geografica».

L’Italia era pronta. A Mussolini sarebbe bastato dare un ordine. «Se premo il tasto numero uno», disse all’ospite, «mobilito le divisioni dell’esercito; se premo il tasto numero due, scattano le legioni delle mie camicie nere». Eden ascoltava, un po’ allibito, un po’ divertito, sotto il pallore del gentleman inglese, del signore affinato da snobismo ed effeminatezza. Con mansueta insolenza replicò alla rozzezza del duce: «Premete il tasto numero diciotto, e ordinatemi una birra ghiacciata, please». Tornato a Londra disse al premier conservatore Baldwin che tanto ammirava il duce:

«Quel Mussolini, è intrattabile, è un plebeo». Precauzionalmente l’Inghilterra inviò alcune unità dell’Home Fleet nel

Mediterraneo, e Mussolini, senza abbandonare il tono altezzoso che ormai aveva adottato con i rappresentanti delle grandi potenze, disse all’ambasciatore inglese Drummond: «Signor ambasciatore, so che la flotta della Gran Bretagna è entrata nel Mediterraneo. So anche che dipenderà da me se potrà uscirne». E il poeta Cardarelli, ben bene intabarrato, scriveva in versi: «Va, Inghilterra, torna / coi tuoi naviganti castelli / di là dalle porte fatali».

Grande importanza assumeva anche la preparazione degli animi a una guerra coloniale imminente. In questa prospettiva il sottosegretariato alla Stampa e Propaganda fu innalzato a Ministero della Cultura popolare,

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decisione che comportò la promozione di Galeazzo Ciano - il quale già godeva di tutti i privilegi di essere il «genero del regime» - da sottosegretario a ministro responsabile del nuovo dicastero. Il segretario del partito, Starace, si ingelosiva per la rilevanza dell’incarico che Mussolini aveva conferito a Galeazzo. Per tenergli testa su un diverso terreno propagandistico, quello di preparare alle armi i borghesi, decise di intensificare fino allo spasimo le esercitazioni premilitari per rendere i giovani «forti, aggressivi, audaci, amanti dei cimenti e sprezzanti dei peri-coli, sicuri di sé fino alla presunzione». Riteneva che quello non fosse un compito difficile in quanto «nei nostri giovani gli istinti guerrieri erano latenti e innati per millenaria eredità, e soltanto era d’uopo ridestarli».

Le esercitazioni si svolgevano di sabato, nel pomeriggio. Per facilitarne l’adempimento si decise di istituire formalmente, con un regio decreto-legge, il «sabato fascista». Si stabiliva di conseguenza che la settimana lavorativa fosse di quaranta ore e che la riduzione dell’orario d’ufficio o di lavoro non comportasse alcuna diminuzione di stipendi o di salari. Il decreto, approvato dal Consiglio dei ministri in una lunga riunione a metà giugno, indicava in ogni sua parte il significato dell’innovazione. Il «sabato fascista» tendeva ad assicurare al cittadino il riposo settimanale della domenica, e si inquadrava «nel complesso delle provvidenze apprestate dal regime per la preparazione politica, culturale, sportiva e, principalmente, militare, cioè fascista del popolo». Il pomeriggio del sabato veniva «assegnato alle rispettive organizzazioni, per dar modo di riunire i propri iscritti ai fini d’una proficua attività d’ordine addestrativo». Il personale lasciato libero nelle ore pomeridiane del sabato doveva quindi mettersi a disposizione delle organizzazioni del regime per lo svolgimento delle attività paramilitari che sarebbero state via via indicate dai federali.

Starace portò al Gran Capo ventiquattro legioni di avanguardisti che agli inizi di settembre sfilarono in via dell’Impero, a chiusura di una serie di esercitazioni compiute in un campo Dux. Mussolini parlò loro brevemente dal balcone di palazzo Venezia. «Ecco le tre parole», disse, «che voi attendete in questa ardente giornata: Noi tireremo diritto!».

Non si era limitato a parlare in tutto quel tempo. Con particolare aggressività aveva svolto un’opera di riconquista della Tripolitania, impiegando un paio d’anni per «pacificarla». Poi ordinò di occupare la Sirtica strappandola al Senusso, e quindi passò a «pacificare» ancor più brutalmente la Cirenaica, per mano del generale Graziani. In Somalia aveva infine proceduto all’annessione dell’Oltregiuba insieme ai sultanati di Obbia e dei Migiurtini. Fu proprio la Somalia a diventare la piattaforma logistica per l’aggressione all’Etiopia che lui cominciò a preparare all’indomani dell’incidente di frontiera esploso ai pozzi di Ual-Ual nel dicembre del 1934

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fra i dubat, i «turbanti bianchi» che costituivano la milizia indigena confinaria al servizio dell’Italia, e alcuni reparti di abissini che li avevano assaliti.

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Parte terza

IL CASCO COLONIALE

L’impero di retroguardia Le truppe italiane penetrarono in Etiopia, senza preavviso, il 3 ottobre

dell’anno XIII dell’era fascista, così come aveva disposto il duce in un dispaccio a De Bono: «Nessuna dichiarazione di guerra. Ti ordino di iniziare l’avanzata nelle prime ore del 3, dico 3 ottobre». Mussolini preannunciò l’inizio della guerra la sera precedente dal balcone di palazzo Venezia, mentre la piazza sottostante e ogni altra piazza in tutto il paese erano gremite di folla fino all’inverosimile. Le disposizioni per le adunate oceaniche le aveva comunicate Starace dai microfoni dell’Eiar. «Riceverete l’ordine di accorrere ad ascoltare la parola del Duce», aveva detto, «col suono a stormo delle campane delle torri dei Fasci e delle civiche torri, con l’urlo delle sirene e col rullo dei tamburi, ai quadrivi delle città e delle campagne». Al segnale di adunata tutti gli iscritti alle organizzazioni che inquadravano le forze del regime erano obbligati a indossare l’uniforme per rendere più che mai solenne la manifestazione di adesione popolare alla guerra.

Mussolini apparve al balcone quando già imbruniva. Starace, al suo fianco, gridò l’atteso «Saluto al Duce!», e la folla rispose d’impeto, come sempre: «A noi!». In un silenzio profondissimo si levò la voce squillante del Capo che parlò per poco più di dieci minuti, con lunghe pause e molta enfasi: «Camicie nere della rivoluzione! Uomini e donne di tutta Italia! Italiani sparsi nel mondo, oltre i monti e oltre i mari! Ascoltate!». Tutti ascoltavano quella voce martellante diffusa per radio in ogni angolo del paese. Egli calcolò che venti milioni di persone occupavano in quel momento le piazze d’Italia, e con orgoglio citò l’imponente cifra cui corrispondeva un popolo intero di quarantaquattro milioni di anime. Un popolo che dimostrava al mondo come «Italia e fascismo» costituissero «una identità, perfetta, assoluta, inalterabile». Potevano «credere il contrario», disse, «soltanto i cervelli avvolti nella più crassa ignoranza su uomini e cose d’Italia, di questa Italia 1935». Contro una così grande nazione si tentava di consumare «la più nera delle ingiustizie: toglierci un po’ di posto al sole». Spesso il grido della folla non gli consentiva di proseguire. Parlò dell’«ora solenne» che stava «per scoccare nella storia

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della patria», quindi disse, scandendo le sillabe di ogni parola: «Con l’Etiopia abbiamo pazientato quaranta anni! Ora basta!».

Attaccò la Società delle nazioni in cui, invece di «riconoscere i nostri diritti», parlavano di sanzioni. Non poteva credere che il «generoso popolo francese» volesse aderire a sanzioni contro l’Italia, né che l’«autentico popolo» inglese fosse disposto a gettare l’Europa sulla via della catastrofe per difendere un paese africano «senza ombra di civiltà». Proclamò che alle sanzioni economiche gli italiani avrebbero opposto la massima disciplina, alle sanzioni militari avrebbero risposto «con misure militari» e agli atti di guerra «con atti di guerra». È «contro questo popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di navigatori, di trasmigratori, che si osa parlare di sanzioni», così concluse Mussolini la sua arringa che fu chiamata il «discorso della mobilitazione». Egli ingigantiva la minaccia e la portata delle sanzioni per demonizzare il nemico e per giustificare la gravità dei sacrifici che la guerra avrebbe imposto alle popolazioni italiane. Ma la gente si consolava pensando che la guerra sarebbe durata pochi giorni, grazie al genio di Marconi che, come si vociferava, aveva inventato il «raggio della morte», capace di carbonizzare il nemico.

All’incirca venti milioni di persone, come aveva calcolato Mussolini, avevano effettivamente quella sera invaso le piazze d’Italia, ma quanto liberamente e quanto consciamente? Ignazio Silone rappresentava la situazione della Marsica. Gli autocarri trasportavano nei centri di raccolta i cafoni, ormai ribattezzati rurali. Sugli autocarri c’erano anche i carabinieri perché la gente capisse che doveva recarsi «spontaneamente» ad ascoltare il discorso del duce. «Da tutte le parti arrivavano motociclette, automobili, autocarri carichi di poliziotti, di carabinieri, di militi, di funzionari del partito. Due bande musicali compivano per le vie del borgo volteggi, suonando e risuonando lo stesso inno fino alla noia, all’ossessione. Di fronte alla bottega d’un barbiere era stato esposto un cartellone che rappresentava alcune donne abissine con lunghe mammelle, pendenti fin quasi sulle ginocchia. Un folto gruppo di giovanotti si era fermato davanti al cartellone, ridevano e guardavano con occhi avidi». C’era una maestrina che spiegava come comportarsi, quando gridare e quando cantare. Mussolini cominciò a parlare. «Un grido altissimo si levò dai gruppi dei notabili e dei militi, un grido ritmico, un’invocazione appassionata al capo: "CE-DU, CE-DU, CE-DU, CE-DU". L’invocazione si propagò lentamente, fu ripresa dalle donne, dai ragazzi, accolta e ripetuta da tutta la massa, in un ritmo accorato e religioso. Dai pressi della radio si faceva cenno alla folla di tacere perché si potesse ascoltare il discorso, ma la folla continuava a scandire l’invocazione salvatrice, continuava a chiamare il capo, il mago, lo stregone, che disponeva del sangue e dell’avvenire comune. Il grido della folla, confuso al

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persistente scampanio, rese incomprensibile ai più il discorso della radio. Le due stesse sillabe dell’invocazione finirono col perdere ogni significato, erano scandite come una formula di esorcismo. A un certo momento i più vicini alla radio fecero segno che la trasmissione era terminata».

L’idea d’una imminente conquista coloniale aveva esaltato gli animi. Pirandello disse: «Questa è una grande opera e Mussolini è il vero uomo di teatro, l’eroe provvidenziale che Dio, al momento giusto, ha voluto concedere all’Italia; egli agisce, autore e protagonista, nel Teatro dei Secoli!». Il vecchio Vittorio Emanuele Orlando si mise agli ordini del duce inviandogli una lettera la sera stessa del discorso: «Eccellenza, nel momento attuale ogni Italiano deve essere presente per servire. Se l’opera mia, nella pura forma del servizio, potesse essere utile, voglia l’Eccellenza Vostra disporne». Orlando offriva al regime un non trascurabile sostegno morale, ma molti altri volevano davvero partire per l’Africa, gente del popolo e personaggi celebri come Marconi che diceva: «Eccellenza, voglio rendermi utile!».

Partirono gerarchi e altezze reali, deputati e senatori; partirono gli accademici d’Italia, fra i quali Marinetti, sostituendo alla feluca il casco coloniale e cantando Faccetta nera. Partì volontario Sem Benelli. Perché la propaganda bellica risultasse quanto mai convincente, dovette partire anche il ministro che vi era preposto, Galeazzo Ciano. Indossata la divisa di capitano di complemento, il «genero del regime» fu assegnato a un gruppo di bombardieri che egli appellò La Disperata per celebrare le azioni che si vantava di aver compiuto ancora giovincello nell’omonima formazione squadrista toscana, sebbene Perrone Compagni, che ne era stato l’organizzatore, giurasse di non averlo mai visto tra le sue file. Non potevano mancare i figli di Mussolini, Bruno, non ancora diciassettenne, e Vittorio, che entrarono a far parte d’una squadriglia aviatoria cui diedero il nome Quia sunt leo. Starace e Farinacci furono invece fra gli ultimi a raggiungere l’Etiopia.

Erano esaltate le azioni belliche di Ciano e di Bottai. I legionari cantavano in onore di Galeazzo: «Vieni con noi Toselli / vieni con noi Galliano / il nostro comandante è Galeazzo Ciano», e in onore di Bottai: «II Battaglion va avanti, / Bottai l’è il condottier. / Avanti nona, avanti decima, / avanti undecima ad attaccar». Per Starace scese nell’agone afro-poetico Marinetti che decantò la marcia su Gondar da lui guidata: «Atroce crudeltà del ter- / reno Semien spaccato / d’abissi tortuosi sali- / scendi infiniti / imperialmente marciare / tling tlang tlung di zoc- / coli muli fucili gavette / e villaggi che piangono iiiiii».

Era indubbio l’entusiasmo degli italiani per l’impresa etiopica, ma ad alcuni non sfuggiva il fatto che si ingaggiava una guerra di conquista

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coloniale, che si fondava un impero di retroguardia; mentre l’ideologia e la pratica colonialiste erano avviate al tramonto, più utile sarebbe stato impiegare le risorse del paese a favore delle aree depresse nazionali, in Calabria, in Lucania, in Sardegna. Grandi manifestazioni popolari salutavano i soldati che lasciavano i porti italiani per l’Africa orientale, ma c’era anche chi in sordina canticchiava pungenti strofette: «Imbarcatesi sul Biancamnano / mentre attorno la folla plaudisce / tutti restano, ei solo partisce / legionario, cornuto e soldà».

Le truppe di Mussolini penetrarono rapidamente in territorio etiopico. Ad appena due giorni dall’inizio delle operazioni occuparono Adigrat e subito dopo Adua, per cui De Bono poté proclamare che si era lavata un’antica onta. Graziani occupava Dolo in Somalia, e qualche settimana più tardi riceveva dal duce l’autorizzazione a «impiegare i gas come ultima ratio» per sopraffare la resistenza nemica che contrastava l’avanzata italiana sul fronte Sud. Erano già cadute Macallé e la città sacra di Axum, ma il duce voleva dare altre rapide prove della potenza fascista, magari per trattare un accomodamento che gli garantisse un effettivo controllo economico e politico sull’Etiopia di cui avrebbe militarmente detenuto soltanto una parte senza detronizzare nel rimanente territorio il negus Hailé Selassié.

Con sollecitudine l’assemblea della Società delle nazioni decretò le sanzioni economiche contro l’Italia, paese aggressore. Votarono a favore cinquantadue Stati; diedero voto contrario l’Austria, l’Ungheria e l’Albania. La Germania era già uscita da quel consesso, né vi facevano parte Stati Uniti, Brasile e Giappone. Alla prontezza della condanna non seguì una reale applicazione delle sanzioni che d’altra parte non comprendevano il carbone, l’acciaio e il petrolio. All’Italia non mancò mai il petrolio che le era in consistenti quantità fornito dall’Unione Sovietica, e Mussolini in proposito riconosceva che se la Lega avesse esteso le sanzioni al petrolio, avrebbe dovuto lasciare l’Abissinia entro otto giorni.

A Roma il duce inaugurava la città universitaria progettata da Marcello Piacentini e imperniata su una monumentalità priva di archi e di colonne, simboli classici della Roma imperiale, che ora gli architetti fascisti rifiutavano come un «marchio infamante» in onore dell’angolo retto. Si era accesa in proposito una polemica tra Ugo Ojetti, Bontempelli e lo stesso Piacentini sul quale ricadeva appunto l’accusa di aver tradito non soltanto il volto di Roma, ma anche quello dell’Italia. «Il Fascismo», si chiedeva Ojetti, «accetterebbe proprio in Roma questa rinuncia a Roma?». E gli tornavano alla mente i versi leopardiani: «O patria mia, vedo le mura e gli archi / E le colonne..».. Bontempelli si schierava dalla parte di Piacentini e del cemento armato che veniva sì chiamato «liquida melma», ma che imponeva le sue regole alla nuova architettura. Bastava monumentalizzarla!

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Lo Studium Urbis, come venne battezzato il complesso degli edifici universitari, doveva dimostrare, con l’Italia in guerra, quanto fosse saldo il binomio «libro e moschetto». Nel suo discorso d’inaugurazione Mussolini disse: «Camerati goliardi, farete di questa università, e delle altre, una fortezza dello spirito e delle armi, che, quando siano associati, assicurano la vittoria».

Per ottenere la vittoria ci volevano buoni generali, e in Etiopia arrivò Badoglio. Le operazioni militari in quelle lontane plaghe subivano un rallentamento, per cui il duce aveva chiesto a De Bono di riprendere con vigore la marcia di conquista che egli chiamava il «secondo ciclo» della guerra coloniale. Ma De Bono traccheggiava, tanto che Mussolini fu costretto a privare il vecchio quadrumviro del comando, pur conferendogli il grado altissimo di maresciallo. De Bono non gradì la sostituzione. Giunto a Roma si sfogò col maresciallo Caviglia il quale ne scrisse nel suo diario. «Badoglio deve aver sentito che il successo contro gli abissini era facile, e allora maneggiò per sostituire De Bono. Badoglio si era opposto in tutti i modi alla spedizione etiopica; ora gli faceva gola il posto, remunerativo, di facile gloria. Continuò il suo metodo che gli aveva fruttato bene nella grande guerra».

Dovettero passare un paio di mesi prima che Badoglio potesse sbloccare la situazione e accontentare Mussolini avanzando nel Tembien e occupando prima l’Amba Aradam, con la sconfitta e morte di ras Mulughietà, e poi il bastione dell’Amba Alagi con la conseguente rotta di ras Cassa, di ras Sejum e dello stesso ras Immirù.

Hailé Selassié fu costretto ad abbandonare Dessiè e ad asserragliarsi nella residenza imperiale di Addis Abeba, estrema sua difesa. Mussolini già scriveva a Badoglio: «Vorrei essere presente quando il tricolore sarà issato sul ghebì del negus». D’Annunzio invece avrebbe voluto trovarsi al fianco del duce, e glielo faceva sapere, un po’ addolcito con lui adesso che era a portata di mano un impero: «Ammiro la tua tranquilla potenza e la tua infallibile sapienza nel condurre gli eventi e gli uomini, nel forzarli e nel secondarli. Tieni duro. Come vorrei esserti vicino!». Nel poeta riaffiorava la vena imperialistica. Alla riconquista di Adua, nelle pagine di Teneo te Africa, si lasciava andare ad espressioni impietose contro gli abissini - «Ogni cartuccia italiana valga oggi un uomo ucciso» — e contro il negus che chiamava «villoso fantoccio».

Ai successi di Badoglio si aggiungevano quelli di Graziani al quale Mussolini così telegrafava: «Conquistata Harrar, V.E. vi troverà il bastone di maresciallo d’Italia». Badoglio non doveva fare altro ormai che marciare su Addis Abeba, e mosse guidando ventimila soldati, di cui diecimila italiani e diecimila indigeni. Un’autocolonna avanzò rapidamente senza

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incontrare ostacoli di rilievo, mentre il negus il 1° maggio lasciava la capitale e fuggiva in esilio.

Quattro giorni dopo Badoglio era in vista degli eucalipti di Addis Abeba, e, a cavallo, entrò da trionfatore nella città. Ma ancor prima di conquistarla aveva dato per compiuto l’evento in un succinto dispaccio a Mussolini: «Oggi 5 maggio, alle ore 16, alla testa delle truppe vittoriose, sono entrato in Addis Abeba». Gli si trovava accanto il sottosegretario alle Colonie, Lessona, e, appena tracciato il breve testo di quel comunicato su un foglio di carta a quadretti, glielo mostrò esclamando: «Ormai ad Addis Abeba ci siamo. Non credo che all’ingresso in città accadrà nulla di grave. Anticipare di un paio d’ore l’annuncio a Roma significa togliere dall’ansia il nostro governo e le capitali estere, che trepidano per i loro sudditi». Era con loro anche Bottai il quale nel suo diario scrisse: «Cinque di maggio: vorremmo fissarlo nella nostra carne, questo giorno, fatto di storia, di spazio, d’in-finito». La guerra finiva, ma cominciava una irrefrenabile guerriglia che tenne sempre in allarme i conquistatori. Intorno al lago Tana, imboscate e colpi di mano furono organizzati da un gruppetto di comunisti italiani al seguito di Ilio Barontini.

Il duce tenne tre impetuosi discorsi dal balcone di palazzo Venezia per celebrare la vittoria. Alle dieci di sera del 5 maggio affluirono nella piazza duecentomila persone che a tutta voce urlavano «Du-ce, Du-ce». Quella moltitudine osannante non era mai stata così felice, orgogliosa e superba, come in quel momento di gloria. Sul balcone drappeggiato di rosso apparve Mussolini nell’uniforme di comandante generale della milizia. La folla, dopo nuove e interminabili ovazioni, tacque a un suo segno. Egli cominciò a parlare martellando le sillabe: «Annuncio al popolo italiano e al mondo che la pace è ristabilita. Non è senza emozione e senza fierezza che, dopo sette mesi di aspre ostilità, pronuncio questa grande parola». Detto questo, fece una precisazione: «Ma è strettamente necessario che io aggiunga che si tratta della nostra pace, della pace romana, che si esprime in questa semplice, irrevocabile, definitiva proposizione: l’Etiopia è italiana! Italiana di fatto, perché occupata dalle nostre armate vittoriose; italiana di diritto, perché col gladio di Roma è la civiltà che trionfa sulla barbarie, la giustizia che trionfa sull’arbitrio crudele, la redenzione dei miseri che trionfa sulla schiavitù millenaria».

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II

In quei mesi, per quanto densi di preoccupazioni, Mussolini si guardava bene dal trascorrere allo scrittoio le ore della notte. Aveva altre cose cui dedicarsi, incapricciatosi di una giornalista francese, Magda de Fontanges, nom de guerre di Magda de la Ferrière, che aveva voluto incontrarlo col fermo proposito di diventarne l’amante, allettata dal suo «fascino magnetico». La giornalista collaborava al «Matin» di Parigi e su quel giornale pubblicò un’intervista col duce. L’intervista non era che un pretesto e non fu la sola che Mussolini le concesse. Tutte le altre però non apparvero sui giornali essendo troppo private; dovevano rimanere segrete e tali rimasero per un certo tempo. Magda aveva ventotto anni, era bionda e attraente anche se non propriamente bella. Navarra, l’usciere di Mussolini, scriveva di lei: «Ricordo bene quando la Fontanges capitò una mattina a palazzo Venezia con una commissione di giornalisti. Appena la commissione uscì, il duce mi chiamò per dirmi di prendere nota che madame Fontanges sarebbe tornata nel pomeriggio». Così cominciarono i suoi incontri col duce il quale non solo la riceveva a palazzo per questioni intime, ma se la trascinava appresso in alcune cerimonie ufficiali nell’Agro pontino, come quando al volante di una motoaratrice tracciò il solco sul luogo di fondazione di Aprilia. La giornalista così scriveva di lui: «I suoi occhi hanno uno splendore incomparabile, affascinante, e io sfido chiunque ad affrontarlo per la prima volta senza restarne profondamente turbato». Lei ne era molto innamorata, ed era anche lusingata delle attenzioni che un così importante personaggio le tributava.

Per Mussolini invece anche quella relazione era un frullo dei suoi sentimenti, una piccola e insignificante storia come tante altre. Le donne che entravano nella sua vita privata sensuale appartenevano più alla categoria delle «visitatrici fasciste» che non a quella delle amanti. La definizione era del suo cameriere-commesso Navarra, se non di Montanelli che ne trascrisse le memorie. Navarra precisava che il duce riceveva una donna al giorno, di pomeriggio, nella sala del Mappamondo a palazzo Venezia, con regolarità burocratica.

Magda non apparteneva alla categoria delle amanti privilegiate. Anzi Mussolini si stancò presto di lei. Credeva di essersene sbarazzato avendola

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rispedita a Parigi con quindicimila lire in contanti a mo’ di ben servito. Ma un giorno si trovò di fronte alla notizia di un tentato suicidio della ragazza mediante avvelenamento. Successivamente Magda gli fece un altro tiro mancino pubblicando il diario assai particolareggiato delle loro «interviste» amorose che erano state intermezzate da suonatine che il duce - dopo -eseguiva ai suoi piedi impugnando il violino come un manganello. Quelle confidenze furono ospitate dalla rivista americana «Liberty» col titolo My love affair with Mussolini. «Ho dovuto rinunziare con dolore», scriveva Magda nel suo diario, «all’Uomo che è stato il più grande amore della mia vita». La ragazza, che era caduta nella più assoluta disperazione, cercò la morte ingerendo una manciata di nembutal. Ma fu salvata da una tempestiva lavanda gastrica. Ritenne che la causa dei suoi mali fosse l’ambasciatore francese a Roma, il conte di Chambrun, il quale aveva parlato di lei a Mussolini come di un pericoloso agente segreto, e difatti si era scoperto che faceva la spia al soldo del famoso Deuxième Bureau e che aveva avuto una parte nel famoso affaire Stavisky, uno scandalo che aveva profondamente turbato la Francia per le sue connessioni fra politica e finanza. Una sera del marzo 1937, Magda, armata di pistola, si appostò in un angolo buio della stazione del Quai d’Orsay a Parigi ed esplose un colpo di pistola contro l’ambasciatore. L’episodio venne scrupolosamente registrato da Ciano nel suo diario: «Chambrun è liquidato dalle sue chiacchiere, e dalla palla che la Fontanges gli ha regalato nelle parti basse». La polizia invase l’appartamento della ragazza in Rue du Colisée e trovò nella sua camera da letto più di trecento foto di Mussolini. Su una di esse il duce aveva scritto: «Per un’ora con tè darei tutta l’Etiopia. Benito». Ciò poteva bastare a far capire quanto egli fosse bugiardo con le donne. E non soltanto con loro.

La sua amante meno fugace, anzi la più duratura, era sempre Angela Curti, quella bella donna milanese, bruna, alta e robusta, conosciuta a Milano nel ‘21, figlia d’un tipografo socialista. Quando Mussolini, capo del governo, si trasferì a Roma, Angela rimase per qualche anno a Milano, senza che ciò segnasse l’interruzione dei loro rapporti amorosi. Il duce aveva frequenti ritorni di fiamma e le chiedeva di raggiungerlo a Roma. Così di tanto in tanto, in tutta segretezza, la signora Cucciati faceva un breve viaggio nella capitale. Si incontravano in un piccolo albergo e lei era sempre tranquilla e discreta. Non si metteva mai in mostra. Era, quello, l’amore più sereno di Mussolini che, prendendo nelle sue le mani della donna, le diceva: «Tu sei il mio riposo». Anche quando il duce traslocò nelle stanze di palazzo Venezia, le riservò un trattamento di favore rispetto alle altre intime frequentatrici della sua residenza. Difatti la incontrava nella «sala dello Zodiaco» e si intratteneva con lei più a lungo che con qualsiasi altra donna.

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Questo trattamento così esclusivo si protrasse fino a quando lui non s’invaghì d’una donna più giovane e più fresca di Angela, più appariscente di lei, ma indubbiamente meno bella, Claretta Petacci. Da quel momento la «sala dello Zodiaco» di palazzo Venezia era a intermittenza frequentata da Angela e dalla nuova amante, sicché si poteva parlare di amori paralleli. Il nome di Claretta si imponeva nell’entourage di Mussolini, mentre quello di Angela, per l’innata discrezione della donna, rimaneva immerso nell’ombra. A poco a poco l’amante di Mussolini, l’amante con la «A» maiuscola, era diventata Claretta, ma non era facile dire se egli fosse più avvinto dall’amore tranquillo di Angela o dalla passione struggente di Claretta. Sarà il tragico epilogo della sua esistenza a proiettare Claretta nella leggenda, mentre Angela rimarrà ognora un’amica più casalinga. Una sola volta si era fatto vedere in pubblico con la Cucciati, e fu quando l’aveva accolta a bordo di un motoscafo dal nome gabrieldannunziano, 1’«Alcione», che egli guidava follemente nel mare di Castel Porziano allontanandosi a dismisura dalla riva e gettando gli astanti nel panico.

Per quanto Mussolini fosse incapace di nutrire amori profondi ed esclusivi, attratto com’era dal gioco pesante del potere politico, la relazione con Claretta, quella con Angela Cucciati, e perché no, anche quella con Rachele, ebbero un peso particolare nella sua vita. Claretta aveva appena ventiquattro anni quando, a metà del 1936, entrò nelle grazie del duce, già ultracinquantenne. Da tempo Claretta lo ammirava, gli inviava poesie appassionate, e lui, mentre nelle epistolari risposte burocratiche la chiamava «piccola fascista», in privato la definiva «piccola pazza». La ragazza che intanto si sposava con un ufficiale d’aviazione e rapidamente se ne separava, ebbe la ventura d’entrare in diretto contatto con Mussolini il quale però ancora per tre o quattro anni la considerò semplicemente come una conoscente, un’amica più cara di altre. Poi scoccò la fatale scintilla, ma il loro amore non divenne subito di pubblico dominio.

A poco a poco egli si legava sempre più a Claretta che era insieme una sognatrice romantica e un’amante intensamente sensuale. Mussolini incoraggiava il suo istinto di poetessa e di pittrice, e cominciò a incontrarla tutti i giorni. Lei arrivava a palazzo verso le tre del pomeriggio, saliva nell’appartamento Cybo, si stendeva sul sommier «dello Zodiaco» in attesa che Ben, così lo chiamava, bussasse alla sua porta. Claretta trasse ispirazione e vigore per la sua pittura da quegli incontri amorosi, e pochi mesi dopo il loro primo tète-à-tète mise in mostra le sue opere nelle Sale dei cultori d’arte, in piazza del Collegio Romano, a due passi da palazzo Venezia. Il suo presentatore fu il critico Piero Scarpa il quale vedeva molte cose in quei quadri, lirismo e crudo verismo, sentimentalità e bagliori di luce senza veli. La pittrice ritraeva scene di «romanità», frammenti di laghi,

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vigneti al sole, stati d’animo come «solitudine», «nostalgia», «vanità». Da vociferazioni di maliziosi ben informati trapelava però un’indiscrezione, peraltro mai confermata: quelle tele non erano opere di Claretta, ma d’un pittore - neppure tanto eccelso, forse per risparmiare sul prezzo - che aveva ricevuto dai Petacci l’incarico di dipingere in nome della «Signora» e fame una creatura di viva sensibilità artistica, soprattutto agli occhi del dittatore. Del resto Mussolini era il primo a non sapere nulla di quello stratagemma, tanto da credere che Claretta si fosse ritirata in una villa di Grottaferrata per preparare la mostra.

Dopo essersi separata dal marito, Claretta era tornata a vivere coi genitori in un appartamento di via Spallanzani, con le finestre che si aprivano sul parco di villa Torlonia. Quella vicinanza turbava la ragazza, ma poi i Petacci si fecero costruire una sontuosa villa a Monte Mario, alla Camilluccia, così chiamata dal nome dello sfortunato consorte di Paolina Bonaparte, il principe Camillo Borghese, che vi aveva aperto la prima strada. Si vociferò che la villa fosse un dono regale del duce alla sua giovane amante, ma si dimenticava, o si fingeva di dimenticare, quanto egli fosse sparagnino, soprattutto con le donne. Raramente regalava a Claretta un biglietto da cinquecento lire, dicendole: «Fatti un vestitino». Si diede però molto da fare sollecitando il ministro dei Lavori pubblici, Cobolli Gigli, perché affrettasse il varo del piano particolareggiato della zona della Camilluccia. Bottai annotava: «Chiacchiere intorno alla Petacci, una cui villa si sta costruendo sulla Camilluccia». Lo stesso diarista si abbandonava a pettegolezzi e scriveva di Claretta come dell’«amante ormai riconosciuta, con guardia di carabinieri alla porta di casa, onore e sorveglianza a un tempo». I familiari di lei, il padre Francesco Saverio che era medico e il fratello Marcello, avevano capito che da quella morganatica parentela potevano trarre cospicui vantaggi. Claretta era da loro considerata come la gallina dalle uova d’oro, sia nei grandi affari, sia nelle piccole cose d’ogni giorno. Francesco Saverio pubblicava un libro. La vita e i suoi nemici, e Mussolini ne faceva acquistare duecento copie; voleva scrivere sui giornali, e Mussolini gli apriva le pagine del «Messaggero», ma gli articoli erano tanto lunghi e noiosi da far disperare il direttore, Francesco Malgeri, che ardiva lamentarsene con la segreteria del duce.

Mussolini era spesso dominato da una sorta di delirio psicomotorio alla Charlot. Non stava fermo un attimo. Nella stessa giornata si spostava continuamente da una parte all’altra della penisola, e «II Popolo d’Italia» ne registrava con minuzia il carosello. Particolarmente intensa era stata la giornata del 24 luglio ‘37, la cui cronaca occupava più colonne del giornale, e non era che un riassunto di ciò che aveva fatto. Mussolini è partito alle 7,30 del mattino dall’aeroporto romano del Littorio, alla guida di un appa-

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recchio trimotore. Dirigendo la rotta verso Firenze, ha ispezionato i lavori in corso negli aeroporti di Viterbo, Orvieto, Siena ed è atterrato alle 8,50 a Peretola. Preso posto su un’auto, si è rapidamente diretto verso l’Accademia aeronautica, alle Cascine, per poi recarsi alla Colonia dell’impero della federazione fiorentina dei fasci: «Non appena Mussolini è entrato nella Colonia, il primo bimbo che l’ha scorto ha gridato il suo nome, che, ripetuto dai bimbi vicini, si è immediatamente propagato in tutta la Colonia. Da tutte le parti allora i bimbi, incuranti degli ordini delle loro insegnanti, che invano cercavano di inquadrarli, si sono precipitati incontro al Duce, chiamandolo a voce altissima e affollandoglisi intorno, agitando i berretti in un delirio di entusiasmo. I più coraggiosi gli hanno baciato le mani. Il Duce sorrise a lungo, ha accarezzato i più vicini, e infine ne ha baciato uno per tutti, tra nuove, vibrantissime acclamazioni dei piccoli».

Ha assistito ad alcune esercitazioni nel maneggio dei carabinieri, prima di tornare all’aeroporto di Peretola da dove è partito per Pisa. Vi è giunto, alle 10,15, sempre alla guida del suo trimotore, e seguito da un aereo di scorta. Ha ispezionato i lavori di ampliamento del campo ed ha presenziato al collaudo di un nuovo apparecchio da bombardamento. Risalito in auto ha raggiunto Marina di Pisa. «La voce dell’arrivo del Capo», scriveva il gior-nale del regime, «si diffondeva prodigiosamente per ogni dove. E tutte le strade si sono popolate di gente che lo hanno interminabilmente acclamato. Ma dove il Duce ha ricevuto le manifestazioni, vorremmo dire, più elettrizzanti, è stato all’importante Stabilimento di costruzioni meccaniche di Marina di Pisa, in cui egli è arrivato improvvisamente. Il Duce, che vestiva un chiaro abito estivo, è disceso agilmente dall’automobile e s’è inoltrato nello Stabilimento. Le macchine ronzavano e gli operai erano curvi, attenti all’opera loro. Il Duce, silenziosamente, s’è soffermato a guardare uno di essi, che, assorto, lavorava. È stato un attimo. Quello ha alzato lo sguardo e il Duce gli ha sorriso. Poi un grido che ha dilagato in tutto il reparto gli è uscito improvviso dalla bocca: "Duce!"».

Quindi passava da uno stabilimento industriale a un podere agricolo. Sulla strada del ritorno, avendo scorto alcuni coloni intenti a trebbiare su un’aia, fece fermare l’automobile: «Toltasi la giacca, s’è messo a trebbiare con loro. Intanto la gente dei dintorni si è avvicinata al podere. "Il Duce trebbia il grano," dicevano i coloni. E ciascuno voleva vedere il Capo, di schiatta contadina, che lavorava così, semplicemente, con la gente della terra».

Terminata la dimostrazione, ha imboccato il ponte dell’Impero e si è recato a Viareggio, dove arrivava poco dopo mezzogiorno. Volle immediatamente raggiungere la spiaggia, e indossato un «occasionale» costume da bagno, si spinse al largo delle acque su di un pattino: «Con vigorosa nuotata si è portato a circa cinquecento metri dalla costa, mentre un

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vero sciame di imbarcazioni stracariche di bagnanti e di nuotatori e nuotatrici gli si stringevano attorno. Il Duce, come sempre buono, paziente e affabile, si è trattenuto in acqua nuotando vigorosamente per oltre un chilometro, circa per quaranta minuti, confondendosi con la folla anonima dei bagnanti. Numerosi erano anche gli stranieri che si erano spinti a mezzo di imbarcazioni o a nuoto intorno al Duce e che lo invocavano e lo acclamavano. Il Duce, dopo le 13, faceva ritorno verso la spiaggia, sempre scortato da una teoria di "pattini" e dalla folla dei nuotatori, e sulla riva, dove frattanto si era radunata una folla incalcolabile (accorsa da ogni punto più lontano della spiaggia e della intera città, ove la voce della presenza del Duce si era rapidamente diffusa), è stato accolto da una dimostrazione indimenticabile. Sua Eccellenza il Capo del Governo, protetto da alcune autorità e personalità e da pochi agenti e carabinieri, che erano subito accorsi sul posto, è passato così, fuso e confuso, in mezzo a due siepi umane di gente acclamante».

Consumata una «rapida colazione» in albergo, alle 13,30 andò a visitare la figlia Edda, lì in villeggiatura. Si trattenne con lei per un paio d’ore, per poi recarsi a Tirrenia incontrandosi negli stabilimenti cinematografici con Giovacchino Forzano e assistendo alla proiezione d’un film a colori. Alle 18 ripartiva da Pisa a bordo d’un S.81 di cui egli riprendeva i comandi. Alle 19 era all’aeroporto del Littorio, e alle 21,30 già si trovava alla Basilica di Massenzio per assistervi a un concerto. Pagava il biglietto e prendeva posto fra il pubblico, «invece di approfittare delle poltrone riservate», mentre i presenti gridavano «Duce!, Duce!» e nell’aria si levavano le note della Marcia reale, di Giovinezza e della Cavalcata delle Walchirie. Così aveva termine la giornata del 24 luglio ‘37, esempio massimo del ciclonismo mussoliniano.

Dopo quattordici anni di regime, con la conquista dell’Etiopia e con all’orizzonte la concreta possibilità di un’intesa con la Germania nazista, la statura di Mussolini in Italia e in Europa cresceva. Gli antifascisti si ponevano il problema di mutare i metodi di lotta, alla luce delle considerazioni di uno dei loro più autorevoli esponenti, Carlo Rosselli, il quale esortava a riconoscere «con virile franchezza» che il fascismo si era rafforzato. I comunisti cercavano nuovi legami con le popolazioni italiane tendendo la mano anche ai «fascisti, nostri fratelli di lavoro e di sofferenze», per «combattere insieme la buona e santa battaglia del pane, del lavoro e della pace». Il loro appello era pressante quanto stupefacente: «Fascisti, ex combattenti d’Africa, conquistate al popolo il diritto di parlare in tutte le organizzazioni». Cercavano l’unità:

«Uniamoci in un solo cuore e in una sola volontà. Lottiamo uniti perché l’Italia sia strappata ai suoi nemici, restituita agli italiani e salvata dalla

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catastrofe». Dicevano perfino di essere disposti a combattere tutti insieme, anche con i «fratelli in camicia nera» per «la realizzazione del programma fascista del 1919», per la «riconciliazione del popolo italiano» al fine di liberarlo da quel «pugno di parassiti che dissanguava e opprimeva la Nazione» e da «quei gerarchi che li servivano». I socialisti, irritati, li accusavano di fare in tal maniera del «diciannovismo ritardatario».

Tra i più alti gerarchi fascisti, ora che l’Italia aveva un impero, si discuteva sull’eventualità dì liberalizzare il regime, di accordare ai cittadini alcune libertà civili. In effetti Mussolini fece qualche graziosa concessione, ma assai limitata e riguardante singoli casi e singole persone. Autorizzò Missiroli a firmare i suoi articoli e l’ex deputato comunista Nicola Bombacci a pubblicare una rivistina mensile la cui testata non molto stranamente consisteva nella traduzione italiana della «Pravda» moscovita, «La verità». Il dibattito sulla liberalizzazione faceva perno sul ruolo del partito. Alcuni erano convinti che avendo il paese offerto una grande prova di unità nella vittoriosa guerra d’Etiopia, non ci fosse più bisogno di un cane da guardia - Mussolini stesso era chiamato «cane grosso» - cioè di un rigido controllo esercitato dal partito. Si proponevano radicali riforme, non esclusa l’introduzione di cariche elettive per porle al riparo dei «cambi della guardia» che piovevano dall’alto; ma all’improvviso apparve su «Gerarchia» un articolo che bloccava di botto la discussione. Nello scritto di lampante ispirazione mussoliniana si dichiarava a tutte lettere come fosse «inutile coltivare assurde speranze in una trasformazione del PNF» non essendo emerse ragioni per «alterare il suo programma o smobilitare le armi della sua organizzazione guerriera».

Il dibattito sulla liberalizzazione aveva investito soprattutto le alte sfere del regime, mentre nel paese, accanto agli osanna dei giornali, serpeggiavano vive preoccupazioni, sia fra i ceti operai, sia fra gli intellettuali. C’era inquietudine perché al conflitto etiopico erano seguite la partecipazione alla guerra civile spagnola e una maggiore cordialità di rapporti con la Germania nazista. Questi eventi conducevano a un’ulteriore rottura con la Francia e la Gran Bretagna, per cui tra i paesi retti a regime democratico la condanna del fascismo si faceva più aspra. Ma, come sottilmente nota De Felice, anche a coloro che biasimavano Mussolini, acca-deva talvolta di farne un uomo eccezionale, pur in senso demoniaco. Tipico fu il caso del decano di Winchester il quale, durante una funzione religiosa alla presenza del negus, disse che il popolo italiano «era stato invaso da uno spirito maligno di natura sovrumana»; colui che governava l’Italia «credeva di essere un Cesare, ma era il vero tipo dell’imperatore assiro Antioco, chia-mato "l’Illustre" e soprannominato "il Pazzo"».

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III

L’esplosione della guerra civile in Spagna offrì a Mussolini e a Hitler l’occasione di sperimentare in concreto una comune militanza antibolscevica. A Madrid nel 1931 i repubblicani e i socialisti avevano ottenuto una vittoria elettorale che comportò l’esilio per il re Alfonso XIII e la nascita della repubblica. La Chiesa rimase fedele alla monarchia in nome di un’alleanza fra trono e altare. Nelle elezioni successive e con i conseguenti rimpasti del ‘33 si affermarono le forze di centro e quelle cat-toliche di destra. Le sinistre e gli anarchici reagirono scatenando l’insurrezione, e quindi, con la vittoria del Fronte popular nelle elezioni del febbraio ‘36, riconquistarono il potere. Il paese, immerso in un bagno di sangue, si trovò diviso in due. Il popolo rispondeva alla violenza con violenze contro i grandi proprietari terrieri, i funzionari dello Stato e non ultimi i religiosi; si occupavano fabbriche, si devastavano chiese. Il movi-mento della Falange, di netta ispirazione filo-fascista, catalizzava le forze militari della nazione e a sua volta formava squadre armate dedite al terrorismo più spietato. A metà luglio cadeva assassinato un ufficiale repubblicano, il tenente Castillo; per tutta risposta veniva trucidato il capo dell’estrema destra, Calvo Sotelo. Subito i militari organizzarono nel Marocco spagnolo il pronunciamiento, una rivolta capitanata dal generale Francisco Franco che, sbarcato in territorio spagnolo, si diresse su Madrid, mentre i repubblicani costituivano delle milizie popolari in sostituzione dell’esercito rivoltoso.

La marcia delle truppe franchiste su Madrid fu all’inizio rapida. Poterono usufruire di consistenti quantitativi di mezzi di trasporto ottenuti da Mussolini e da Hitler. In verità il duce non aveva acceduto subito alle richieste di aiuto che gli rivolgeva Franco movendo dal Marocco all’attacco della Spagna repubblicana. Il generale aveva sollecitato l’invio di una dozzina d’aerei, ma lui aveva scritto «No» sul testo del telegramma. A una seconda sollecitazione, aveva scritto, un po’ burocraticamente, «Atti», espressione che indicava un nuovo rifiuto. Avendo poi saputo che la Francia di Leon Blum aveva inviato aiuti, scarsi, ai repubblicani e che Franco aveva chiesto il sostegno di Hitler, il duce si decise a far partire i dodici aerei S.81 richiesti e pagati con un milione di sterline. Tre di quegli apparecchi, che

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diedero un rilevante contributo alle operazioni di sbarco dei rivoltosi franchisti, erano precipitati durante il viaggio, e intanto erano arrivati gli aerei tedeschi. Leon Blum, con l’illusorio obiettivo di evitare che Italia e Germania si affiancassero a Franco, propose che tutti si impegnassero a non intervenire nella fratricida guerra di Spagna.

Mussolini e Hitler si affrettarono ufficialmente ad aderire alla politica del «non intervento», ma sottobanco rifornivano i rivoltosi franchisti di armi, automezzi, aerei e di uomini che naturalmente partivano sotto le mentite spoglie di volontari e approdavano nei porti ribelli. Ciò poteva avvenire perché non si era ben chiarita la questione dell’arruolamento di legionari che partecipavano al conflitto senza implicare direttamente la responsabilità dei governi. Era una mascheratura, una questione speciosa inventata da Mussolini. Intanto si incrociavano le accuse di violazione del patto di non intervento fra i paesi che avevano in realtà deciso, su fronti opposti, di partecipare al conflitto. Il governo repubblicano spagnolo e i sovietici accusavano l’Italia, la Germania e il Portogallo salazariano; Mussolini e Hitler ritorcevano le accuse contro i sovietici e la Francia. Ma partivano tutti.

Partì tra i primissimi anche Bruno, il figlio di Mussolini, a capo di una squadriglia di aerei che compì numerosi bombardamenti. I giornali italiani facevano credere che egli fosse andato in Spagna quasi clandestinamente e all’insaputa del padre. In realtà il duce appoggiò tanto concretamente i rivoltosi da inviare in Spagna uno dei cervelli militari del regime, il generale Roatta, capo dei servizi segreti. Complessivamente l’Italia appoggiò il franchismo con ottantamila volontari di cui trentamila erano camicie nere, con ottocento aerei, duemila cannoni, tremilacinquecento mitragliatrici, un gran numero di autocarri e novanta unità navali compresi sommergibili e cacciatorpediniere. Fatte le somme, l’Italia inviò quarantamila tonnellate di materiale bellico. Ciano, che era un convinto fautore dell’intervento al fianco dei rivoltosi franchisti, assunse un’iniziativa eccentrica e istituì presso il suo ministero un ufficio militare per guidare taluni momenti della presenza delle truppe italiane in Spagna.

La fascistizzazione dell’Italia si faceva sempre più massiccia, con spruzzatine di stile nazista, dal passo dell’oca alle uniformi. Si gettò alle ortiche il vecchio fez con nappa ciondolante per adottare un berretto a visiera d’ispirazione tedesca. Ma numerosi erano i nostalgici delle divise della prima ora, e giudicavano una pagliacciata l’adozione dei nuovi berretti con fregi a volontà e l’aquila che chiamavano «il piccione». Calamandrei scrisse su quei berretti una pagina dolorosamente ironica, prendendo spunto dalla vetrina di un cappellaio di lusso, sul corso Umberto a Roma, quasi di fronte al caffè Aragno: «Era una vetrina tutta addobbata in nero come una

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cappella mortuaria che esibiva, infilzati in cima a altrettanti pioli verniciati di nero, una ventina e più di cappelli di parata, di quelli di tipo nazista, ma colla visiera ancor più calata e bieca e la cresta ancor più aggressiva e protuberante. Alcuni grigi, ma i più neri: e su quel nero spiccavano, come su coltri funeree, argenti e ori di galloni e distintivi. Alla base di ogni piolo un cartellino bianco indicava il grado del gerarca al quale era destinato il copricapo fornito di quello speciale distintivo: "segretario federale", "consigliere nazionale", "ministro", "segretario del partito"; col salire della gerarchia crescevano i luccichii delle lasagne. Al centro una specie di gigantesco tegame, fabbricato su misura per un augusto cranio macrocefalo, dominava fra i tegamini satelliti: tutto nero, senza neanche un filo di gal-lone, ma con in cima alla cresta un fierissimo uccellone d’oro. E il suo cartello spiegava: DUCE. I passanti, fermi davanti alla vetrina, guardavano dentro in silenzio: e non osavano guardarsi tra loro».

La fascistizzazione, oltre alle aspersioni di stile nazista, si colorava talvolta anche di giallo nipponico, e difatti in onore del triangolo Roma-Berlino-Tokio c’era chi imponeva ai neonati il nome di Roberto che conteneva la prima sillaba delle tre capitali, Ro-ber-to. Dal 1937 il regime abolì la cerimonia di Capodanno che si svolgeva al Quirinale per gli auguri del Corpo diplomatico ai sovrani d’Italia. Si sarebbe dovuto arrivare anche prima a quella soppressione perché il Capodanno non aveva più senso da quando l’anno fascista cominciava dal giorno della marcia su Roma. Alla stessa stregua non si doveva più parlare nemmeno del 31 dicembre come ultimo giorno dell’anno, ma siccome c’era chi resisteva alle innovazioni, ecco che Starace era costretto a redarguirlo sul «Foglio di disposizioni»: «Chissà perché ci si attarda ancora a considerare la fine dell’anno al metro del 31 dicembre piuttosto che a quello del 28 ottobre. Il 31 dicembre esercita tuttora una particolare attrazione sugli specialisti nei convenevoli augurali che non sanno ancora rendersi conto della necessità di non disturbare più il vecchio calendario e di ammettere l’esistenza dell’anno fascista. Ciò è l’indice di una mentalità conservatrice, tipicamente borghese, e quindi non fascista». Giulio Cesare aveva cambiato il calendario, così faceva Mussolini che tornava a paragonarsi a un antico romano pur definendolo «inimitabile», «irraggiungibile a chicchessia, fra il cielo e la terra».

Al processo di fascistizzazione del paese si aggiungeva a ritmo accentuato la militarizzazione. Tutto doveva diventare più rigido e severo. Si mettevano in divisa, con l’attribuzione di gradi come sotto le armi, i dipendenti statali; si aboliva la stretta di mano e si imponeva il saluto a braccio teso; si sopprimeva il «lei» e si ingiungeva di usare il «voi»; si istituiva il «passo romano»; il tutto per rendere sempre più completa la formazione degli italiani di Mussolini, i quali però vestivano alla Starace, con camicia nera,

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stivaloni, e giacca d’orbace. Era Starace a ideare i vestimenti da indossare, poiché, oltre ad essere il regista del regime, ne era anche lo stilista. La rivoluzione fascista, diceva Mussolini nel quindicesimo anniversario della marcia su Roma, doveva incidere profondamente sul modo di vivere, sul costume del popolo. Osservava che l’innovazione del «passo romano» si era rivelata d’importanza eccezionale come testimoniava l’eco che la cosa aveva avuto nel mondo. Anche l’abolizione del «lei» - «servile e straniero, detestato dai grandi italiani, da Leopardi a Cavour» - era stata della massima rilevanza. A Leopardi e a Cavour si unirono ben presto, come apparve dal fascicolo Antilei di Asvero Gravelli, altri italiani eminenti, letterati, critici e storici, Antonio Baldini, Walter Binni, Tommaso Landolfì, ET. Marinetti, Bruno Migliorini, Elsa Morante, Ada Negri, Vasco Pratolini, Salvatore Quasimodo, Alberto Savinio, Annie Vivanti, Gioacchino Volpe.

Mussolini tornava spesso a parlare del «lei» e del «voi». Si richiamava sempre ai grandi nomi del passato, Vittorio Alfieri, Giuseppe Giusti, Silvio Pellico e ancora a Leopardi, come pezze d’appoggio alla sua tesi: anche quegli uomini di valore avevano notato come il «lei» si riferisse alle donne; lo spagnolismo aveva «infettato» la lingua italiana creando «problemi complicatissimi» di sintassi. Rilevava che fino al Cinquecento gli italiani non avevano conosciuto che il «tu» e il «voi»; poi solo il «tu», ognora trascurando il «lei». Raccontava un fatto che gli era accaduto di recente: «Un contadino ha parlato con me, e non mi ha detto: "Senta Eccellenza", ma mi ha detto: "Senti, Duce, noi non abbiamo l’acqua"». La borghesia invece era aggrappata al «lei», e fra i piccolo-borghesi criticoni circolava una battuta: «Allora vuoi dire che invece di Galilei diremo Galivoi». Lui nel ripeterla, esclamava: «Questo è cretinismo spappolato. La barzelletta vorrebbe essere spiritosa, invece è semplicemente cretina».

Tutto quel cancan sul voi-lei era scaturito da un elzeviro di Bruno Cicognani che sulle pagine del «Corriere della Sera» aveva chiamato direttamente in causa la borghesia. «Il "lei" in Italia servì, e fino ad oggi è servito, al ceto borghese per mantenere le distanze», sentenziò lo scrittore fiorentino. Un arguto giornalista. Mino Caudana, commentò: «Imposto dal regime, il "voi" piace soprattutto alle cameriere: esse lo sbattono in faccia alle "signore" come un manrovescio sociale».

Il duce non demordeva sull’adozione dell’uniforme da parte degli impiegati dello Stato. Diceva a Ciano: «La divisa agli impiegati è la riforma della burocrazia. Ricordatevelo: l’abito fa il monaco». Meno che mai mollava sul «passo romano» che pur sollevava malumori e polemiche. Lo definiva un «poderoso cazzotto» nello stomaco della borghesia per sconfiggerne lo spirito pacifista. Sempre al genero diceva che gran parte dell’avversione degli ambienti militari per il nuovo passo di parata derivava

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dall’ostilità del re. «Non ho colpa io, se il Re è fisicamente una mezza cartuccia. È naturale che lui non potrà fare il passo di parata senza essere ridicolo. Lo odierà per la stessa ragione per cui ha sempre odiato il cavallo, dato che deve salirvi con la scaletta. Ma la deficienza fisica di un sovrano non è una buona ragione per minimalizzare, come ha fatto, l’esercito di un grande Paese».

Sulle ragioni più profonde di questo contrasto. Bottai notava come fosse «difficilissima» la posizione di un re costituzionale in un paese non più retto da una costituzione, «ma da un "regime personale" incentrato nel Primo Ministro». Mussolini definiva quella diarchia come una «stanza matrimoniale con letti separati», e, compiacendosi della definizione, diceva di essere talvolta un «terribile umorista senza saperlo». Nonostante il sordo dissidio che divideva il duce e il re, entrambi riuscivano a mantenere buoni rapporti formali. La cosa riusciva più facilmente al sovrano, freddo e compassato per natura, che non al sanguigno romagnolo. Il re spinse la sua cortesia esteriore fino a recarsi in quei giorni a rendere visita a Rachele, alla Rocca delle Caminate, e a presentarlesi con dei fiori in mano. «Quando vedemmo il corteo delle macchine reali snodarsi in salita su per la tortuosa strada», raccontava Rachele, «scendemmo, io e mio marito, incontro all’ospite per dargli il benvenuto. Il sovrano scese dalla macchina reggendo un gran fascio di rose, che mi porse, mentre esprimeva con insistenza il suo dispiacere perché durante il viaggio si erano alquanto sciupate. Mi disse che erano rose speciali dei giardini reali». Quelle rose erano davvero molto belle, dal gambo lunghissimo, e quasi più alte del re, mezza cartuccia.

Le polemiche sul passo romano non si placavano, per cui il duce doveva intervenire con nuove strigliate. «È un passo che i sedentari, i panciuti, i deficienti, le cosiddette mezze cartucce non potranno mai fare. Per questo ci piace». Era andato tanto oltre con quella pubblica espressione offensiva che l’indomani il re, ricevendolo al Quirinale, gli disse bruscamente: «Dunque, il passo romano non è per me?». «Maestà, perché?», chiese imbarazzato il duce, e il sovrano impercettibilmente mormorò: «Mezza cartuccia!».

Il passo romano, inizialmente adottato dalla milizia e dalle altre organizzazioni fasciste più o meno paramilitari, fu alla fine imposto anche ai reparti dell’esercito. Tutti i soldati dovettero marciare a gambe tese, nonostante l’ostilità di Vittorio Emanuele e dei vecchi generali tradizionalisti. Sebbene quel passo cadenzato di matrice tedesca andasse affermandosi e cominciasse a piacere, veniva ancora chiamato con intonazione ironica «passo dell’oca», che poi era il suo vero nome da quando era stato inventato per la fanteria di Federico il Grande. Queste origini erano negate da Mussolini il quale diceva che se anche fosse stato così bisognava egualmente ricordare un fatto curioso: il popolo italiano,

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grazie alle oche dell’antico Campidoglio, era forse il solo che avesse l’oca nella sua storia. «Ma volete sapere perché non si era mai fatto prima del fascismo il passo di parata?», chiedeva provocatoriamente Mussolini alle persone dell’entourage, non senza preavvertire che stava per dire cose «gravi e decise». Dopo una pausa dava di getto l’attesa risposta: «Perché si riteneva che noi fossimo incapaci di farlo. Infatti si diceva: "È un passo da giganti e non può essere il passo di un popolo dove tutti sono piccoli, storpi". C’era quasi un riconoscimento della nostra inferiorità fisica per rinunciare a manifestazioni di questa nostra forza».

Si proponeva di andare avanti nella riforma dei costumi specificamente per «travolgere i residuali scetticismi dei deficienti nostrani e stranieri che preferirebbero l’Italia facilona, disordinata, divertente, mandolinistica del tempo antico e non quella inquadrata, solida, silenziosa e potente dell’era fascista». Diceva che in passato gli «stranieri ci compativano; ora invece ci odiano e di questo odio, ampiamente ricambiato, siamo fìerissimi». L’obiettivo era di creare un’atmosfera nella quale la vita degli italiani avesse uno spiccato carattere militare; il popolo doveva avere l’orgoglio di sapersi «mobilitato permanentemente per le opere di pace e per quelle di guerra».

All’esaltazione dei modelli militareschi corrispondeva stranamente un suo imborghesimento morfologico. Via via che egli parlava di passo romano, di cannoni e di baionette il suo fisico si faceva meno elastico e scattante. Roberto Cantalupo ne dava un’immagine triste: «II profilo della sua persona era diventato grosso e rotondo nelle spalle, gonfio nel viso e nel collo, gli occhi lustri e dilatati». Eppure proprio in quei giorni si vantava di aver fatto del suo organismo «un motore costantemente sorvegliato e controllato» che marciava con «assoluta regolarità». Volle dare un’implicita dimostrazione di quanto quel motore non perdesse un colpo partendo per un lungo e faticoso viaggio in Libia. Raggiunse la quarta sponda a bordo dell’incrociatore Fola, la percorse in aereo, da lui stesso pilotato, o in auto per nove giorni facendo discorsi, rilasciando interviste, incontrando coloni, visitando zone archeologiche, assistendo a rappresentazioni teatrali, inaugurando scuole, fabbriche, zone di bonifica, case del fascio e caserme militari, passando in rassegna battaglioni libici, assistendo ad azioni tattiche, camminando su di-stese di tappeti arabi, entrando su un cavallo bianco nella città di Tripoli alla testa di una colonna di duemilaseicento cavalieri, ricevendo dai capi arabi la «spada dell’Islam».

Il momento più solenne della peregrinatio fu proprio quello della consegna della fiammeggiante spada, una spada con l’elsa in oro massiccio intarsiato. Alle porte di Tripoli il duce, apparso a cavallo sulla sommità di una duna, fu accolto dal triplice grido di guerra delle popolazioni musulmane: Uled! Egli rispose ergendosi sulle staffe, snudando la spada,

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alzandola al cielo e gridando: Uled! mentre si proclamava «protettore dell’Islam» e intorno echeggiavano le salve di cannone. Italo Balbo, il governatore, ordinò il «Saluto al Duce!» e i cavalieri ripeterono il grido di Uled! L’indomani «II Popolo d’Italia» scrisse: «Sta la salda figura del Duce, con il forte volto imbrunito dal sole, alta sulla duna e si staglia maestosamente nella serenità splendente del cielo. La cerimonia è compiuta. Il Duce lascia la duna e si avvia verso Tripoli, seguito dai duemila cavalieri galoppanti, fra turbini di polvere, in una visione guerresca fra le schiere delle palme». Erano al seguito del duce gli accademici d’Italia Massimo Bontempelli, Marinetti e Ugo Ojetti il quale notava che agli scrosci di applausi della folla si aggiungeva il nitrito dei cavalli. Alla presenza degli illustri corifei Mussolini, parafrasando d’Azeglio, disse: «Abbiamo fatto l’impero, ora bisogna fare gli imperialisti».

A Roma Longanesi esclamava «Sbagliando s’impera», a Tripoli i corifei non si chiedevano come potessero i musulmani consentire che un «infedele», cioè un cristiano, si dichiarasse protettore dell’Islam. La cosa in sé era assurda, e i musulmani rigorosi se ne sentirono offesi. Tanto più che un gruppo di arabi in pellegrinaggio alla Mecca aveva invocato Allah in favore di lui, cristiano, compiendo un sacrilegio davanti al divino edificio della Kaaba. Un simile evento non aveva precedenti, ma se ne ebbe la spiegazione quando si venne a sapere che gli arabi autori del sacrilegio provenivano dal Marocco spagnolo - era ancora in corso la guerra tra i franchisti e i repubblicani - e che avevano avuto intensi contatti con alcuni esponenti mussoliniani. L’exploit arabo del duce non ottenne migliore accoglienza dal Vaticano che definì l’episodio «una pagliacciata».

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IV

II 1938 fu un anno chiave, foriero di tempesta per l’Europa, caratterizzato dalla violenza aggressiva di Hitler, dall’acquiescenza di Mussolini agli appetiti del collega dittatore, dalla pavidità e insipienza dei governanti inglesi e francesi. Hitler aveva già ottenuto per la Germania, che si era riarmata, il riconoscimento della parità di diritti nel concerto europeo, e ora mirava a estendere i suoi confini, al di là dei trattati di Versailles, unificando nel Reich tutte le popolazioni europee di lingua tedesca, sia quelle della cosiddetta regione dei Sudeti incorporata nella repubblica della Cecoslovacchia sorta nel 1918, sia quelle austriache con l’annessione pura e semplice della repubblica d’Austria, cioè con il tanto temuto Anschiuss.

E l’AnschIuss arrivò. L’esercito tedesco, di cui Hitler aveva assunto personalmente il comando supremo, invase l’Austria all’alba del 12 marzo. Si cancellava d’un sol colpo dalla carta d’Europa una nazione, e il Führer portava i confini della più grande Germania al Brennero, mostrando un supremo disprezzo per ogni trattato internazionale.

Mussolini, dimentico delle assicurazioni offerte agli austriaci in difesa della loro indipendenza nazionale, dimentico altresì di aver inviato alcune divisioni alla frontiera del Brennero in coincidenza del putsch nazista di Vienna, si schierò nettamente dalla parte del Terzo Reich pangermanico. Eppure Hitler con insolenzà non l’aveva informato che qualche ora prima dell’annessione. Alla notizia del sostegno italiano, il Führer modificò atteggiamento e inviò al duce un telegramma per esprimergli gratitudine: «Non lo dimenticherò mai!». Mussolini rispose affermando che il suo sostegno era il risultato «dell’amicizia fra i nostri due paesi consacrata dall’Asse». Nell’aula di Montecitorio disse che con l’Anschluss si era compiuta nel mondo tedesco una «rivoluzione nazionale» per molti versi simile all’intervento delle truppe piemontesi che si annettevano territori italiani e non venivano considerate invaditrici. «Io vi esorto alla storia», esclamò, «o Signori. Noi non abbiamo fatto nulla di diverso fra il 1859 e il 1861».

Pochi giorni dopo, in quel clima di tensione intemazionale, volle dare un’immagine d’un’Italia militarmente pronta a ogni evenienza. Parlò in Senato, dove non toccava i problemi militari da tredici anni. In questo

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discorso molto applaudito, diede un annuncio di primaria importanza. Disse che nell’Italia fascista il problema del comando unico era definitivamente risolto: in un’eventuale guerra futura, come era avvenuto per il conflitto etiopico, le forze armate «saranno guidate, agli ordini del re, da uno solo: da chi vi parla». Il duce andava oltre, e in quella stessa seduta si pose al medesimo livello militare del sovrano. Ad entrambi, e soltanto a loro, veniva conferito un grado nuovo di zecca, quello di Primo maresciallo dell’Impero che si evidenziava con due greche sulle maniche della giacca e sul berretto. La vicenda ebbe l’andamento di un colpo di mano del regime consumato ai danni della Corona che perdeva la supremazia.

Con la visita di Hitler a Roma, che si svolse dal 3 all’8 maggio, si placarono per un po’ le tensioni confinarie tra l’Italia e la Germania. Nel golfo di Napoli la «flotta imperiale» italiana fu passata in rassegna dal re imperatore, dal Führer e dal duce, i quali tornati nella capitale assistettero il giorno successivo a una «marziale parata» di trentamila uomini lungo via dei Trionfi. Roma mostrava abbellimenti e scenari di cartone verniciato a mo’ di bronzo, sicché Trilussa, ispirato profeta, commentò in versi la caduca trasformazione: «Roma de travertino, / rifatta de cartone, / saluta l’imbianchino, / suo prossimo padrone».

Due mesi dopo la visita di Hitler, la marcia antiebraica, il 14 luglio del 1938, cominciò con il «Manifesto del razzismo italiano». I primi a sorprendersi di quella pubblicazione furono proprio i fascisti i quali non sapevano di nutrire sentimenti antisemiti né immaginavano che li nutrisse Mussolini. In quei giorni egli si mostrava ai loro occhi come l’infaticabile trebbiatore. Nell’Agro pontino trebbiava il grano da lui stesso seminato nel-l’inverno precedente, e i giornali pubblicavano in prima pagina una sua foto che, a torso nudo, si accingeva all’opera dal sommo di una trebbiatrice nell’aia di un podere di Aprilia. La didascalia informava che il Capo del fascismo aveva trebbiato per oltre tre quarti d’ora senza mai dare un segno di stanchezza. Su quell’aia disse poche parole ai rurali, ai gerarchi, ai gior-nalisti in sahariana bianca e ai poliziotti che si atteggiavano a coloni veneti; quindi lanciò un ordine perentorio: «Camerata macchinista. Accendi il motore!». Poi fece seguire un altro grido: «Camerati contadini. La trebbiatura incomincia!».

C’era stata qualche avvisaglia antiebraica, orchestrata sulla stampa dallo stesso Mussolini per preparare il paese a una legislazione razziale, ma alla gente, se non ai più avveduti, era sfuggito il reale significato dell’operazione. Sicché con stupore si vide il duce passare da un tradizionale per quanto generico antirazzismo, con qualche puntata polemica antiebraica e antisionista, a un razzismo deciso e combattivo che apparve subito in linea con la dottrina imperante in Germania. La recente visita di Hitler a Roma

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aveva suggellato l’alleanza tra fascismo e nazionalsocialismo e aveva accelerato il processo che doveva condurre anche in Italia, così come era avvenuto nel Reich, alla istituzione di un razzismo di Stato con un apparato di leggi e di comportamenti. In Italia serpeggiavano sì talune forme di antisemitismo individuali o di gruppo, ma non se ne era mai fatto un vessillo ideologico nazionale e una pratica persecutoria governativa.

A lungo Mussolini si era mantenuto nei confronti dell’ebraismo in una posizione incerta, senza idee ben radicate, per cui, secondo le circostanze, poteva essere ritenuto ora razzista ora antirazzista, ora sionista ora antisionista. Quando voleva attaccare il pangermanesimo dilagante si diceva nemico delle dottrine razziste tedesche; diventava invece antisemita quando ravvisava nel bolscevismo la matrice ebraica. Sulla situazione italiana osservava che l’Italia non conosceva l’antisemitismo e si diceva certo che mai lo avrebbe conosciuto. Si confermava difensore degli ebrei in occasione del dibattito del 1929 alla Camera sull’approvazione dei trattati con la Santa Sede. «È ridicolo pensare», proclamava anche se con una punta d’ironia, «che si debbano chiudere le Sinagoghe. Gli ebrei si trovano a Roma dai tempi dei Re; forse fornirono gli abiti dopo il ratto delle Sabine. Erano 50 mila ai tempi di Augusto e chiesero di piangere sulla salma di Giulio Cesare. Assicuro che rimarranno indisturbati».

Tre anni più tardi, quando si era ancora nel 1932, intervistato da Emil Ludwig che gli chiedeva se credesse all’esistenza di razze pure in Europa e se ritenesse che l’unità della razza servisse a rinsaldare le forze nazionali, diede una risposta antirazzista. Ma all’inizio della campagna persecutoria antisemita in Italia si cercò di snaturare quelle sue compromettenti dichiara-zioni, e contemporaneamente il ministro della Cultura popolare, Alfieri, rivolse un «invito categorico» ad Arnoldo Mondadori, che aveva pubblicato i Colloqui con Mussolini, a «non effettuarne alcuna ristampa». Ma il duce era stato chiaro con Ludwig. «Naturalmente non esiste più una razza pura», aveva detto, «nemmeno quella ebrea. Appunto da felici mescolanze deriva spesso forza e bellezza a una nazione. Razza: questo è un sentimento, non una realtà, il 95% è sentimento. Io non crederò che si possa provare biologicamente che una razza sia più o meno pura. Quelli che proclamano nobile la razza germanica sono per combinazione tutti non germanici. Gobineau francese, Chamberlain inglese, Woltmann israelita, Lapouge nuovamente francese: Chamberlain è arrivato perfino a chiamare Roma la capitale del Caos. Una cosa simile da noi non succederà mai. L’orgoglio nazionale non ha affatto bisogno dei deliri di razza». Così dicendo ruminava le idee di un suo lontano saggio sul pangermanesimo e rilanciava quegli stessi nomi di razzisti che erano già stati oggetto d’ironia.

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Con i protocolli Ciano-Ribbentrop dell’ottobre ‘36 era cominciato a disegnarsi una svolta razzista in seno al Pnf e al governo italiano. Bisognava preparare il terreno a una legislazione antisemita e far credere che l’esigenza di difendere la purità della razza salisse impetuosa dal popolo. La «Vita Italiana» di Giovanni Preziosi, il «Regime Fascista» di Roberto Farinacci, il «Tevere» e «Quadrivio» di Telesio Interlandi furono i primi giornali a propagandarne l’antisemitismo, agli ordini delle gerarchie. Il più sollecito e il più caparbio di tutti i giornalisti protesi ad affermare il «mito del sangue» era Interlandi cui venne affidata per desiderio di Starace anche la direzione d’una rivista specifica, grigia e funerea a cadenza quindicinale, «La difesa della razza».

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V

Al «Manifesto del razzismo italiano» del luglio ‘38 si aggiunse, e non erano trascorsi tre mesi, la «Carta della razza» che, promulgata dal Gran consiglio, pose le basi legislative della lotta antiebraica. Nella movimentata seduta consiliare Mussolini disse che la «Carta della razza» era ben più importante della «Carta del lavoro» che pure era in cima ai suoi pensieri, ma non ebbe il sostegno di autorevoli personaggi come Balbo, De Bono, Federzoni i quali parlarono contro i provvedimenti e quindi a favore degli ebrei. Sorprendente fu invece la particolare asprezza con cui Bottai attaccò il mondo giudaico, una durezza non inferiore a quella di Starace. Il duce replicò con irritazione a Balbo, indicandolo come il responsabile della penetrazione degli ebrei nel tessuto politico-amministrativo di Ferrara. Quindi addossò loro la colpa di aver promosso le più ostili manifestazioni a Hitler durante la sua visita in Italia. «Il residuo antifascismo», diceva, «è di marca ebraica».

Mentre Mussolini tendeva a «prussianizzare» l’Italia, e la legislazione razziale gli serviva allo scopo, l’Europa era sull’orlo della guerra. L’Inghilterra non sosteneva la Francia che, in forza d’un trattato d’alleanza con la Cecoslovacchia, avrebbe dovuto impedire l’occupazione nazista dei Sudeti. Ciò facilitava i piani espansionistici del Terzo Reich, tanto più che non si muoveva nemmeno l’Unione Sovietica in aiuto dei cechi. Il duce invece fiancheggiava apertamente il Führer. Appoggiava le sue speciose richieste di autodecisione, ed esse non si limitavano allo «Stato-finzione mostruoso» della Cecoslovacchia, ma si estendevano a tutte le nazionalità che ne avessero fatto richiesta. Si spingeva tanto avanti da rischiare di mettere in pericolo i confini del Brennero a ridosso dei quali viveva un gruppo etnico di lingua tedesca. Proclamava che l’Italia si sarebbe schierata contro Praga, essendo la Cecoslovacchia qualcosa di ibrido, «ceco-tedesco-polacco-magiaro-ruteno-rumeno-slovacco». Si gloriava di sapere quel che diceva; sapeva cioè che «mai nessuno aveva potuto fermarci e che mai nessuno ci fermerà»; preferiva esser temuto né gli importava nulla dell’odio altrui che egli ricambiava. Pensava davvero, si chiedeva Ciano, che la sua fermezza e quella tedesca sarebbero bastate a intimorire Francia e Gran

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Bretagna fino a costringerle a cedere su tutta la linea pur di evitare sempre e comunque una guerra?

Quando le democrazie occidentali andarono a vedere da vicino che cosa volesse Hitler, capirono che egli non si sarebbe fermato all’annessione dei Sudeti che sofisticamente reclamava in nome dell’autodecisione dei gruppi etnici, ma che sarebbe andato oltre. Sicché la Gran Bretagna, la quale aveva addirittura fatto pressione sul premier cecoslovacco Beneg perché accedesse alle richieste hitleriane al fine di conservare la pace, e finalmente anche la Francia ebbero un barlume di coscienza sulla gravità della sciagura che stava per abbattersi su di loro e su tutta l’Europa. Ma commisero un nuovo errore il giorno in cui si rivolsero a Mussolini perché inducesse il Führer a non scatenare la guerra. Fu Chamberlain a indirizzare un appello al duce e a investirlo del ruolo ufficiale di mediatore. Il duce aveva appena concluso un lungo giro propagandistico nelle regioni italiane nord-orientali per far credere alle folle di essere in perfette condizioni militari, cosa che, come diceva il maresciallo Caviglia, non rispondeva minimamente alla realtà.

Quando Mussolini ricevette l’invito a svolgere l’intervento pacificatore su Hitler, già riteneva inevitabile lo scontro armato; e Ciano scriveva: «È la guerra. Dio protegga l’Italia e il Duce». Tuttavia accettò l’arduo incarico. Per prima cosa telefonò all’ambasciatore italiano a Berlino perché proponesse a Hitler di ritardare di ventiquattro ore l’inizio delle preannunciate ostilità contro la Cecoslovacchia. Nel frattempo Chamberlain avanzava una proposta più precisa, quella di svolgere una conferenza a quattro - Hitler, Mussolini, il premier francese Daladier e lui stesso - con l’impegno di arrivare entro una settimana a una soluzione concordata del problema dei Sudeti. Il Führer non poteva certo rifiutarsi, come osservava Ciano, a meno che non avesse voluto attirarsi l’odio del mondo e assumersi per intero la responsabilità del conflitto. Difatti non si sottrasse alla conferenza che ebbe inizio l’indomani, 29 settembre, a Monaco, in Baviera.

Bottai scrisse nel suo diario alcuni appunti che si riferivano alla partenza da Roma di Mussolini, e che stavano a dimostrare quanto poco si amassero tra loro i capi del fascismo e quale clima li circondasse. Sotto la pensilina della stazione, Bottai vedeva Starace come «un domatore» attorniato da ministri, gerarchi e giornalisti. Gli si avvicinò a sua volta e il segretario del partito fece «un gesto volgare di allusione alla "fortuna" di Mussolini», volendo intendere «la fortuna di aver minacciato la guerra senza l’intima convinzione di volerla e doverla fare, anzi un poco paventandola; e d’essere, ora, chiamato a salvare la pace». Il diarista proseguiva: «Arriva Mussolini con Galeazzo. L’aria è grigia, spenta; neppure il nostro monotono e meccanico grido: "du-ce! du-ce!", cui si unisce la gente intorno, la solleva. Gli animi, forse, si sollevano un poco. Questi animi compressi

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dall’organizzazione. Mussolini è in borghese, Galeazzo in divisa di generale della Milizia. Un uomo e un vestito: un uomo assorto, scuro in volto, semplice, finalmente, nell’intima ansia dell’ora; un vestito, con dentro un ragazzone vano e astuto. Alfieri e Starace sono di malumore, perché non possono, anche loro, arrampicarsi sul treno dietro il Capo. Per questa volta, il quartetto; Ciano-Alfieri-Starace-Sebastiani non funziona. Mussolini fila dritto sul treno. La dimostrazione sembra irritarlo. Montato sul suo vagone, si affaccia e si ritrae nervosamente dal finestrino, affrettando la partenza, con imperiosi segni di mano».

Nella Führerhaus di Monaco erano riuniti i massimi rappresentanti della Germania, dell’Italia, della Gran Bretagna, della Francia: Hitler, Mussolini, Chamberlain, Daladier. Mancavano le vittime di quella conferenza, i cecoslovacchi. Daladier appariva smarrito; Chamberlain, fin troppo tranquillo, chiedeva chissà perché a Mussolini: «Do you like fishing?». Vi piace pescare? L’ambasciatore francese a Berlino descriveva il duce «tozzo, stretto nella sua uniforme, la maschera cesariana, con aria di protezione, fiancheggiato da Ciano, grosso giovanotto vigoroso, sempre attorno al suo padrone, ufficiale d’ordinanza piuttosto che ministro degli Esteri». Notava quanto fossero mobili i lineamenti di Mussolini: «Non rimangono un istante in riposo; la bocca si apre in un largo sorriso e si contrae in una smorfia; le sopracciglia si alzano per lo stupore e si aggrottano per la minaccia, gli occhi hanno una espressione divertita e incuriosita, e, improvvisamente, lanciano lampi».

E il Führer? «Hitler cova con lo sguardo Mussolini; ne subisce l’attrazione, è come affascinato, ipnotizzato; quando il "Duce" ride, egli ride; se il "Duce" si acciglia, egli si acciglia; è un vero spettacolo di mimetismo che doveva lasciarmi una impressione duratura e farmi credere, d’altronde a torto, che Mussolini esercitasse sul Führer un ascendente ben stabilito». Certamente a torto, se non altro perché la proposta d’accordo, che prevedeva lo smembramento della Cecoslovacchia, non era sua, ma di Hitler che gliel’aveva precedentemente comunicata. Mussolini la presentava come farina del suo sacco, sebbene il Führer già la considerasse superata e intendesse alzare il prezzo. Hitler lasciò però che il duce fungesse da suo megafono e assumesse il ruolo di protagonista, in quanto la pesante soluzione verso la quale si marciava poteva essere giudicata come una proposta di mediazione sulle labbra di Mussolini, mentre su quelle sue sarebbe apparsa per ciò che realmente era, un inaccettabile Diktat.

Monaco si rivelò una disonorevole Canossa. Con l’illusione di evitare la guerra, o meglio non volendo scendere in guerra contro l’Asse, avveniva che l’Inghilterra e la Francia sacrificassero pavidamente la Cecoslovacchia alla Germania, per cui Hitler fu autorizzato a realizzare il suo antico

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progetto di occupare i Sudeti. Altri territori furono strappati ai cecoslovacchi dalla Polonia e dall’Ungheria. In Gran Bretagna si capì solo in parte quanto Chamberlain, così ottuso, così arrendevole nei confronti degli appetiti hit-leriani, avesse sbagliato. Gli parlò contro Churchill che pure aveva visto nel fascismo una diga al bolscevismo. Diceva che i paesi democratici avevano subìto una «disfatta totale», prevedeva con amarezza che tutte le nazioni dell’Europa centrale e del bacino danubiano sarebbero state «assorbite» l’una dopo l’altra nel sistema nazista: «Non pensate che questa sia la fine. È soltanto l’inizio».

Mussolini fu salutato in Italia come l’ispirato salvatore della pace. Il popolo plaudente faceva ala al suo passaggio lungo la linea ferroviaria e nelle stazioni, dal Brennero a Roma. Ovunque le campane suonavano a stormo. Quelle manifestazioni lo contrariavano perché gli confermavano quanto fossero pacifici e pacifisti gli italiani, nonostante l’esercito di camicie nere che egli credeva di aver preparato al combattimento. Alle «Camicie nere» aveva anche intitolato un caccia della Marina. Filippo Anfuso, che apparteneva ali’entourage di Ciano, raccontava di aver visto, fra Verona e Bologna, «i contadini letteralmente in ginocchio» al transitare del treno. Era gente, osservava, che «si prosternava non davanti al Duce fondatore dell’Impero ma all’angelo della pace», che preferiva «i rami di olivo a quelli d’alloro, e la colomba all’aquila». Vittorio Emanuele dalla tenuta di San Rossore raggiunse la stazione di Firenze per non fargli mancare il proprio omaggio regale, ma il sovrano pensava di salutare l’aquila o la colomba?

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VI

Pace o guerra? Questo il grande interrogativo insito nel discorso alla «vecchia guardia» del 26 marzo 1939. Mussolini vi diede una risposta che, per quanto contraddittoria, rivelava il suo proposito di prendere le armi. Considerava la «pace perpetua» una «catastrofe» per la civiltà; si augurava sì un «lungo periodo di pace», ma l’Italia avrebbe operato in tal senso solo dopo il riconoscimento dei suoi «sacrosanti diritti». Gli obiettivi primari erano il Mediterraneo e, con implicito riferimento all’Albania, «quel golfo» che si chiama Adriatico; erano mari che costituivano per l’Italia uno «spazio vitale» geograficamente, storicamente, politicamente, militarmente. Di qui la necessità di essere pronti: «Più cannoni, più navi, più aeroplani, a qualunque costo, anche se si dovesse fare tabula rasa di tutto ciò che si chiama vita civile». Rivolse pressanti interrogativi alla folla delle camicie nere, ottenendone frenetiche risposte: «Desiderate degli onori?». «Nooo!». «Delle ricompense?». «Nooo!». «La vita comoda?». «Nooo!». «Esiste per voi l’impossibile?». «Nooo!». «Quali sono le tre parole che formano il vostro dogma?». «Credere! Obbedire! Combattere! Du-ce, du-ce, du-ce!».

Vittorio Emanuele contrastava i piani d’invasione dell’Albania dove gli italiani non avrebbero trovato che «quattro sassi», per cui il gioco non valeva la candela. Il sovrano, che diventava sempre più antitedesco, chiese una mattina a Mussolini se sapeva che dal giorno della conferenza di Monaco era universalmente considerato il Gauleiter di Hitler in Italia. Il duce ne rimase profondamente colpito e si sfogava dicendo che «se Hitler avesse avuto tra i piedi un Re non avrebbe mai potuto prendere l’Austria e la Cecoslovacchia».

Mentre cadeva Madrid, e Franco usciva vittorioso dalla lunga guerra, Mussolini, indicando al genero l’atlante geografico, esclamò: «L’ho tenuto aperto alla pagina della Spagna per quasi tre anni. Ora so che devo aprirlo a un’altra pagina». Quella dell’Albania. Nell’allestimento dell’attacco i comandi militari italiani si accorgevano che in tutto l’esercito non si riusciva a trovare un battaglione di motociclisti che fosse allenato per piombare di sorpresa su Tirana. Queste erano difficoltà minori, ma rivelatrici di una più generale impreparazione. Ciano aveva divisato di inviare in avanscoperta un ardimentoso squadrista, Ettore Muti, il Gim dannunziano, perché creasse

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scompiglio e incidenti a Tirana alla testa d’una piccola compagine di uomini «a sua immagine e somiglianza». Anche Gim dovette rinunciare alla sua impresa nell’apprendere che l’aeroporto della capitale albanese era sorvegliatissimo. Tutto sembrava volgere al peggio. Mussolini diceva che l’esercito era «invecchiato» e intanto si diffondeva la sfiducia fra i soldati al punto che un battaglione di bersaglieri, mobilitato per l’Albania, aveva gridato lungo le vie di Bologna «Vogliamo la pace, non la guerra».

Le truppe italiane sbarcarono a Durazzo all’alba del 7 aprile. Era di venerdì. Due giorni prima Geraldina, la consorte di re Zog, aveva dato alla luce un bambino. Ciano sorvolava Durazzo in aereo alle prime ore di quel venerdì lasciandosi commuovere dalla venustà del paesaggio guerresco: «Lo spettacolo è bellissimo. Nella rada, ferme e solenni, sono le navi da guerra, mentre i motoscafi, le maone, i rimorchiatori solcano il porto trasportando le forze da sbarco. Il mare è uno specchio. La campagna è verde e le monta-gne, alte e massicce, sono coronate di neve. In Durazzo non si vede che poca gente. Ma un po’ di resistenza deve esservi, poiché vedo squadre di bersaglieri restare appiattate dietro cumuli di carbone, in difesa del porto; e ne vedo altre salire rapidamente in fila indiana il colle, per accerchiare la città. Da qualche finestra si sparacchia».

I soldati italiani avanzavano, re Zog fuggiva. Ciano attraversava le vie di Tirana accolto dalla popolazione in festa, ma non mancava di accorgersi che fra la gente c’era «qualche zona di freddo, soprattutto fra gli scolari»; vedeva che quei ragazzi «stentavano ad alzare il braccio nel saluto romano; alcuni si rifiutavano apertamente di farlo quando i loro compagni li invitavano». Tornava a Roma dopo aver trattato l’incoronazione di Vittorio Emanuele a re d’Albania, e, a palazzo Venezia, trovò il suocero che sul tetto assisteva agli esperimenti antiaerei. Era già notte quando Mussolini si affacciò al balcone per annunciare al popolo, il 13 aprile, che il re d’Italia e imperatore d’Etiopia era anche re d’Albania. Pronunciò qualche frase minacciosa con voce e volto metallici, roteando gli occhi: «II mondo è pregato di lasciarci tranquilli, intenti alla nostra grande e quotidiana fatica. Il mondo deve sapere che noi domani, come ieri, come sempre, tireremo diritto».

Il mondo non reagì. L’Inghilterra aveva fatto sapere di non avere interessi in Albania, anzi Chamberlain aveva avvisato il duce che sarebbe stato costretto a esprimersi «un po’ duramente» alla Camera dei comuni, ma soltanto per ragioni di politica interna. Poco prima del discorso in piazza, Mussolini al Gran consiglio era tornato a parlare dell’Adriatico chiamandolo un «lago italiano». Bottai - il quale spesso nelle sue annotazioni era più esauriente dello stesso Ciano anche in argomenti di politica estera - scrisse che il duce aveva rilanciato l’esigenza di proiettare l’Italia oltre le colonne

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d’Ercole: «Com’io dissi, quando parlai della marcia all’Oceano, noi abbiamo allargato le sbarre del carcere mediterraneo. A occidente, la Spagna amica; a oriente, l’Albania nostra». E non annunciava che un’«operazione preliminare» perché l’oceano faceva ormai parte del suo panorama politico.

Il 15 marzo le truppe tedesche erano entrate in Praga, il 7 aprile l’Italia aveva risposto con l’occupazione dell’Albania. Ora, drammaticamente, si temeva una nuova mossa dalla Germania.

Alle ore 5,25 del mattino del 1° settembre ‘39, l’esercito hitleriano penetrava in Polonia. Chamberlain, ancora incerto, tardava due giorni prima di dichiarare guerra alla Germania, e lo fece soltanto sotto la minaccia d’un voto di sfiducia della Camera dei comuni. La Francia si accodò. L’aggressione alla Polonia doveva segnare l’inizio effettivo del secondo conflitto mondiale, mentre l’occupazione di Praga dell’anno precedente ne era stato un prologo carico di neri presagi. La notizia dell’invasione tedesca aveva tanto profondamente abbattuto Ciano che il suo collega di governo, Bottai, ne provò pietà. Eppure non lo stimava, attorniato com’era «di veri e falsi aristocratici, di diplomatici snob, di squadristi bisognosi». Andò a trovarlo nell’ufficio di palazzo Chigi: «II suo volto», scriveva Bottai, «era stirato da un’interna angoscia. Occhi che non anno dormito; e, forse, anno lacrimato. E un corpo, curioso, un corpo, che, ad un tratto, di pieno e altero che era, si piega, si raccoglie, con un che di infantile e di femmineo: abban-donato, smarrito. Mi prende, Galeazzo, per la vita, mi trascina verso il muro, tra le due finestre chiuse, mi fa sedere sur una panca; e lui stesso mi cade accanto, di peso».

Mussolini diede agli italiani l’annuncio della neutralità attraverso un comunicato del Consiglio dei ministri che si riunì nel pomeriggio di quel 1° settembre. Si presentò alla seduta consiliare in un abito bianco attillato, pallido in volto. Non parlò a lungo. Disse di aver illustrato al Führer l’impossibilità per l’Italia di impegnarsi in una guerra prima del 1942. E siccome non voleva passare per un «fedifrago» gli aveva chiesto che fosse lui a dire di non aver bisogno attualmente dell’aiuto militare italiano. Dino Grandi interloquì: «Ora dobbiamo prepararci all’accusa di tradimento. Ebbene, cominciamo col convincere noi stessi che noi siamo dei "traditi", non dei "traditori"».

Mussolini, depresso, si sentiva costretto alla neutralità dal desiderio di pace che si levava nel paese oltre che dalla impreparazione delle forze armate. Il generale Guzzoni aveva detto a Ciano che l’Italia disponeva d’una decina di divisioni efficienti, mentre le altre trentacinque erano «rabberciate alla meglio». Anche per l’aviazione, pupilla degli occhi di Mussolini, il qua-dro non era meno fosco, sebbene il sottosegretario Valle non si mostrasse tanto catastrofico. La cosa insospettì Ciano il quale, pensando che il

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sottosegretario fornisse al duce cifre false e assurdamente ottimistiche, consigliò di affidare ai prefetti un’inchiesta di estrema semplicità che consisteva nel contare gli aerei negli hangar e farne la somma. «Non dev’essere un’impresa impossibile», commentava, «eppure non riusciamo a sapere la verità».

Mussolini andava alla ricerca delle origini dei sentimenti pacifici che animavano la nazione, volendo dimostrare come non vi fossero implicate che frange marginali. Rivolse perciò grandi complimenti al popolo italiano come mai aveva fatto prima, ma ora intendeva isolare nella coscienza popolare i panciafichisti. Disse che gli italiani appartenevano a uno dei popoli «più intelligenti della terra» e che quindi per sconfiggere i disfattisti bastava «ripulire gli angolini».

Tutto era in subbuglio. In quel trambusto si tornava a parlare d’una recrudescenza del male che affliggeva Mussolini. Il capo della polizia, Bocchini, aveva informazioni di prima mano e diceva che i suoi scatti d’ira erano una conseguenza del suo cattivo stato di salute. Pregava Ciano perché consigliasse il suocero di sottoporsi a «un’intensa cura antiluetica», ma il duce non parlava che di dolori allo stomaco causati da una «nuova ulcera». Bottai lo vedeva ora «scoppiante di vitalità», ora col fiato grosso quando, per mostrarsi giovane, saliva gli scalini due per volta. Lo vide anche in ben più gravi condizioni, mentre si rotolava sul pavimento, ripiegato su se stesso, con i pugni in bocca per soffocare i lamenti che il dolore gli strappava. Altri lo sorpresero che mordeva i tappeti. I suoi più vicini collaboratori non escludevano che egli si facesse iniettare della morfina per attenuare gli spasimi. In quel periodo Mussolini scriveva meno, vedeva meno gente e si limitava a parlare a piccoli gruppi di persone quasi che volesse sfuggire le grandi folle. Trascorreva sempre più volentieri qualche ora del pomeriggio con Claretta o con Angela Curti nella «sala dello Zodiaco» a palazzo Venezia, oppure si faceva raggiungere dall’una o dall’altra, in segreto, nelle sue rapide corse sui campi nevosi del Terminillo.

Nel novembre e nel dicembre del ‘39, Ciano accentuava il suo antigermanesimo, e il suocero lo lasciava fare. Galeazzo ne dava una spiegazione conversando con Bottai che gli chiedeva notizie sui rapporti con i tedeschi: «Sempre più divergenti», rispondeva il conte. Bottai voleva sapere dell’altro: «E il Duce?». «Resiste, nei discorsi, sulle posizioni dell’Asse. Ma nei fatti, ne diverge». Mussolini era indignato con Ribbentrop il quale andava dicendo che l’Inghilterra era entrata in guerra avendo saputo della neutralità italiana. Quella neutralità era sì imposta dalle disastrose con-dizioni dell’esercito, testimoniate dal nuovo sottosegretario alla Guerra, Soddu, e da Badoglio, ma era anche suggerita dalla convinzione di una

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«inevitabile sconfitta» della Germania. Badoglio arrivava a dire che avrebbe preferito battersi contro i tedeschi piuttosto che al loro fianco.

Prima al Gran consiglio, che non si sarebbe più riunito fino alla seduta fatale del 24-25 luglio ‘43, poi alla Camera, il ministro degli Esteri parlò in maniera «insidiosissima» contro la Germania, sperando di «liquidare o almeno di minare in forma definitiva le relazioni fra Roma e Berlino». In cambio cercava di migliorare i rapporti con Parigi e Londra, ma non poteva non irritarsi con gli inglesi che gli rompevano le uova nel paniere bloccando «scioccamente» le navi che trasportavano in Italia il carbone tedesco. Ciano infuse nel discorso, come egli stesso si esprimeva nelle annotazioni diaristiche, «un sottile veleno antitedesco». Alla prima impressione quel suo intervento poteva sembrare «unicamente antibolscevico», mentre in realtà esso tendeva «sostanzialmente» a colpire la Germania. Privatamente Galeazzo si mostrò deluso della scarsa accoglienza che i francesi riservarono al discorso, e considerò «molto più fini» gli inglesi che invece lo avevano apprezzato. Ma i «più intelligenti» di tutti erano stati gli italiani: «Hanno capito appieno il mio latino e considerano il discorso il vero funerale dell’Asse». I tedeschi «ingoiavano amaro».

Lasciandosi alle spalle complotti e manovre, Mussolini il 18 marzo si vedeva con Hitler al Brennero, nella regione dove era più vivo l’attrito fra italiani e tedeschi. L’incontro avveniva nei giorni in cui l’inviato americano Sumner Welles non era ancora ripartito da Roma e vi si attardava a visitare distrattamente i cantieri dell’E.42. Al Brennero nevicava. Anzi il treno presidenziale italiano sul quale si svolse il colloquio tra il Führer e il duce era letteralmente avvolto da una bufera di neve e di vento. Poteva essere un fosco presagio. Mussolini era superstizioso; per di più credeva ai presentimenti oltre che al significato recondito dei sogni. In attesa dell’arrivo di Hitler, raccontò al genero di aver avuto nella notte una visione onirica che «gli aveva squarciato il velame» del futuro. Ne era lieto, ma non rivelò il contenuto del sogno preferendo parlare d’un altro evento notturno, di quando cioè, avendo sognato di guadare un fiume, capì che la vexata quaestio si sarebbe avviata a felice soluzione.

L’incontro, cordialissimo, si protrasse per due ore e mezza. Hitler parlò, in tedesco, per due ore e dieci minuti, lasciando la parola a Mussolini per soli venti minuti. Il duce annuiva e faceva cenno all’interprete di capire tutto ciò che il suo interlocutore gli diceva, anche quando si addentrava in tortuosi ragionamenti alzando istericamente la voce o abbassandola fino a un sussurro. Il Flihrer, nell’esaltare la potenza bellica del Reich, gli annunciò la decisione di attaccare i franco-inglesi, nella certezza d’una rapida vittoria che si sarebbe festeggiata entro l’estate di quel 1940. Ma non precisò la data d’inizio delle ostilità. Il duce, in una breve e deferente risposta, disse che

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l’Italia non sarebbe rimasta neutrale per molto, desiderosa di marciare accanto alla Germania. E a sua volta si riservò la scelta del momento più opportuno per scendere in guerra. «L’albero di Bertoldo», commentava salacemente Ciano. Si poteva dire che l’intervento italiano si sarebbe verificato sia in rapporto alla deficiente preparazione delle forze armate del Littorio, sia in considerazione dell’andamento della guerra condotta dalla Germania, nel senso che l’Italia si riservava di dare al nemico il colpo di grazia, non potendo impegnarsi in un prolungato sforzo guerresco.

A colloquio concluso, non avendo Hitler indicato la data della sua nuova mossa bellica, nelle capitali europee si era ripreso a sperare nella possibilità di evitare una grande e generale conflagrazione. Anche nelle masse popolari si era diffusa una sensazione ottimistica, e a Roma si faceva festa. Ma il duce tornava a palazzo Venezia scarsamente soddisfatto dell’incontro. Era risentito che Hitler non lo avesse lasciato parlare. «Si era proposto di dirgli tante cose», rimarcava il genero, «e invece aveva dovuto quasi sempre tacere. Il che non era nelle sue abitudini di dittatore, anzi di decano dei dittatori».

Si faceva in compenso più bellicoso ottenendo il consenso di molti gerarchi, da Muti a Thaon di Revel, da Ricci a Riccardi, mentre perdeva l’appoggio di Balbo, di Grandi, di Bottai. Cominciava a nutrire forti dubbi sull’utilità di scendere in guerra perfino Starace, il quale aveva pur detto che per lui andare al fronte era «come mangiare un piatto di maccheroni». Mussolini invece presentava un «memoriale panoramico» al re che il re, come si vantava lo stesso Mussolini, aveva definito di una logica «geome-trica». Vi sosteneva l’impossibilità di un voltafaccia italiano e l’esigenza di affiancare la Germania, poiché l’Italia «non poteva rimanere neutrale per tutta, la durata della guerra, senza dimissionare dal suo ruolo, senza squalificarsi, senza ridursi al livello di una Svizzera moltiplicata per dieci». Si diceva altrettanto certo che l’Italia «non poteva fare una guerra lunga; non poteva cioè spendere centinaia di miliardi»; bisognava ritardare l’intervento il più possibile in considerazione del fatto che la guerra sarebbe costata al governo italiano un miliardo al giorno.

Incoraggiava, anzi istigava tutti a prendere le armi. Con Bottai sostenne l’ineluttabilità dell’intervento, rilevando che se una nazione si sottraeva alla prova suprema della sua storia meritava l’accusa di essere un popolo di «suini». Si soffermava con voluttà su particolari tecnici che riguardavano cannoni, bombe, lanciafiamme. Bottai coglieva in quelle parole «l’informazione fresca, afferrata con l’abilità del giornalista» un po’ appiccicata e ne rilevava il contrasto con precedenti giudizi meno fiduciosi nella preparazione bellica italiana.

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Si intuiva che l’Italia sarebbe entrata in guerra accanto alla Germania, ma anche nelle alte sfere del regime c’erano incertezze sulla data dell’evento. Mussolini pensava alla primavera del ‘41, ma i termini erano fatalmente destinati ad accorciarsi. Vittorio Emanuele svolgeva un’azione frenante, sebbene ciò non autorizzasse a far pensare, osservava il ministro degli Esteri, che il sovrano «non intendesse far tuonare i cannoni, pochi, di Badoglio invece dei cannoni di carta» di Virgilio Gayda, direttore del «Giornale d’Italia». Ciano era il più attivo tra i frenatori. A Berlino non capivano come mai il duce non gli avesse ancora tolto l’incarico. Il ministro si buscò un’influenza che lo tenne per più giorni a letto, e si parlò in quell’occasione d’una malattia diplomatica che preludeva a sue imminenti dimissioni. Guarito, riprese il suo posto a palazzo Chigi dovendo perfino prodigarsi, riluttante, per far concedere da Vittorio Emanuele il collare dell’Annunziata a Goering che friggeva poiché Ribbentrop l’aveva già da tempo ottenuto.

In quelle settimane tutti scrivevano a Mussolini, con opposti intendimenti e obiettivi. Gli scriveva frequenti lettere il Führer il quale aveva scoperto che quello era il verso giusto per tenerlo legato a sé in una fase così delicata. Gli inviava struggenti messaggi Pio XII dandogli del tu, ma con scarso successo, tanto che il duce accentuava la polemica contro la Chiesa attribuendole la responsabilità di aver «rammollito, disarmato, svirilizzato» il popolo italiano. Gli scriveva addirittura Nitti dall’esilio parigino e non lo aveva mai fatto prima: ora lo faceva «per scrupolo di coscienza, per sentimento di patria»; con estrema franchezza gli diceva che «nessun sistema politico che si regga su una persona sola è durevole»; lo metteva sull’avviso che la «vittoria della Germania sarebbe per secoli la rovina completa dell’Italia»; gli ricordava che la Germania aveva mancato ai suoi patti e che quindi l’Italia era «libera delle sue decisioni». In nome della vecchia amicizia gli rivolgeva caldi appelli Churchill, diventato primo ministro. Il nuovo premier francese Reynaud lo invitava a un incontro. Non si stancava di scrivergli Roosevelt scongiurandolo non senza durezze di rimanere neutrale, facendogli balenare compensi coloniali e minacciando un intervento americano.

A quel punto, per l’Italia prendere le armi non era che una questione di calendario, anche se molti ancora si illudevano che si potesse conservare la non belligeranza, come si accingeva a fare la Spagna. Il duce si diceva pronto alla guerra, ma continuava a segnare il passo. Ciò suscitava perplessità in Germania, tanto che a un certo punto il Führer sarà costretto a chiedergli esplicitamente di intervenire. Per ora Mussolini diceva ai suoi: «Avete mai osservato il gatto, quando studia la preda e d’un balzo le è sopra? Osservatelo. Io mi propongo d’agire allo stesso modo». Hitler, lui sì

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come un felino, balzava su tre paesi neutrali, l’Olanda, il Belgio, il Lussemburgo, naturalmente senza dichiarazioni di guerra e senza dire nulla a Mussolini. Quando lo avvertì, lo fece a suo modo. Difatti gli inviò nella residenza privata di villa Torlonia, alle ore 5 del mattino del 10 maggio, l’ambasciatore von Mackensen, il quale lo informava frettolosamente delle nuove azioni militari appena trentacinque minuti prima che le truppe tedesche si mettessero in marcia. Il duce riuscì ad essere gentile e sorridente con l’ambasciatore, mentre Ciano a quattr’occhi gli disse che Hitler trattava Mussolini come facevano i romani con l’africano Massinissa.

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Parte quarta

IL CAPPOTTO TEDESCO

Infauste sponde

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I

Il duce era deciso a fissare la data dell’intervento italiano in guerra, volendo evitare gli effetti negativi di una prolungata neutralità. Dall’«esagitato Hitler» non temeva che sciagure, poiché quell’uomo spietato e terrificante avrebbe potuto rivolgere i suoi appetiti anche contro l’Italia, ben oltre l’Alto Adige. Non si poteva neppure escludere per rappresaglia una vera e propria invasione nazista dell’Italia. Questi stessi timori agitavano l’animo di Vittorio Emanuele che finiva con l’accettare controvoglia l’entrata in guerra. Mussolini diceva: «Non possiamo tirarci indietro. Dopo la Francia, un giorno potrebbe venire la nostra volta: e sarebbe il colmo aver firmato un patto che si chiama d’acciaio, per essere invasi dalla Germania; trovarsi, cioè, dalla parte dell’incudine».

In tale frangente la sua attenzione era assorbita dall’andamento delle operazioni tedesche in Francia. Per lui, osserva De Felice, il «vero problema» era quello della scelta del momento giusto per intervenire; «non prima che la sconfitta francese fosse sicura, non dopo che questa fosse già platealmente scontata e tale da rendere il suo intervento evidentemente inutile e moralmente troppo squalificante; ormai il problema della impreparazione militare era tanto secondario da apparire al limite quasi irrilevante». Il duce considerava la situazione militare «non ideale ma soddisfacente»; per di più diceva che se dovesse aspettare di aver l’esercito pronto, chi sa quando potrebbe entrare in guerra: «Io invece devo farlo subito». Non valsero a dissuaderlo i nuovi passi compiuti dai francesi che gli promettevano compensi territoriali in Tunisia, in Algeria, nella Somalia francese, non però sulla Corsica essendo parte integrante del patrio territorio.

Il 28 maggio l’esercito belga si era arreso ai tedeschi, e in quello stesso giorno il duce aveva alfine indicato riservatamente una data d’avvio - dal 5 giugno in poi «tutti i giorni sono buoni» - per entrare in guerra, al fianco della Germania. Da nove mesi - una vera gestazione - si proponeva e riproponeva il problema: se, come e quando imbracciare le armi. Non voleva più stare con le mani alla cintola e aveva perciò riunito a palazzo Venezia, nella sala del Mappamondo, i responsabili delle forze armate, i marescialli Badoglio e Oraziani, l’ammiraglio Cavagnari e il generale

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Pricolo. Disse che «l’ora X» era prossima. Fece un quadro della situazione esprimendosi con grande fiducia sullo sviluppo degli eventi. L’Olanda era sconfitta, il Belgio si era arreso, la Francia non aveva più speranze, l’America non sarebbe mai potuta intervenire; i tedeschi avevano occupato i «punti delicati della costa francese» e avevano reso «problematiche» le operazioni di sbarco di chiunque. Nessuno ebbe nulla da ridire, e tacque lo stesso Badoglio il quale avanzò tenuamente per iscritto la richiesta di «procrastinare» l’intervento alla fine di giugno per prepararvisi un po’ meglio. Del resto Badoglio era stato da lui zittito qualche giorno prima, sempre in quella sala del Mappamondo, quando aveva osato dirgli che non c’erano carri armati e aerei sufficienti, né camicie per i soldati. Il duce lo aveva aspramente rimbeccato: «Lei invece non ha la calma sufficiente per un’esatta valutazione della situazione. Le affermo che in settembre tutto sarà finito e che io ho bisogno solo di alcune migliala di morti per sedere al tavo-lo della pace come belligerante».

Sul fatto specifico della data non si discusse al Gran consiglio. Non se ne parlò neppure al Consiglio dei ministri che il 4 giugno, giorno in cui i tedeschi conquistavano Dunkerque, si riunì semplicemente per votare una serie di provvedimenti di carattere amministrativo. In apertura di seduta, egli si era limitato a proclamare: «Questo è l’ultimo Consiglio dei ministri del tempo di pace», e così dicendo era passato allo svolgimento dell’ordine del giorno.

La data del 5 giugno fu invece sottoposta all’approvazione di Hitler cui piuttosto umilmente scrisse: «Se Voi riterrete, Führer, che per una migliore sincronia coi Vostri piani io debba ritardare ancora qualche giorno, me lo direte; ma ormai il popolo italiano è impaziente di schierarsi al fianco del popolo germanico nella lotta contro i nemici comuni». Hitler chiese un breve differimento, senza evitare un accenno all’indole superstiziosa dei popoli: «Vorrei pregarvi. Duce, di considerare se Vi sembri possibile un rinvio della Vostra entrata in guerra verso la fine della prossima settimana, cioè verso il 6 o 1’8 giugno. Il 7 andrebbe egualmente, ma è un venerdì, giorno che forse da molti (nel popolo tedesco vi è tale credenza) non è ritenuto adatto per un inizio fortunato». Poi ci ripensò, e gli chiese di anticipare le operazioni, ma ormai il duce, avendo scelto la data dell’ 11 giugno, non la mutò. Il numero 11 gli aveva portato sempre bene. Quel numero piacque anche al re che era nato il giorno 11 di novembre, undicesimo mese dell’anno, e che da recluta aveva avuto 1’11 per matricola. Ottenuto infine da Hitler il nihil obstat, decise di dare al popolo l’annuncio della guerra nel pomeriggio del 10 giugno. La sera precedente aveva fatto oscurare Roma, come per un silenzioso preavviso.

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Alle ore 18 del 10 giugno, era un lunedì, piazza Venezia nereggiava di folla, in attesa del discorso di Mussolini. La stessa scena si ripeteva in tutte le piazze d’Italia in cui le sue parole giungevano via radio, mentre calava la sera d’un’afosa giornata. Nella piazza c’erano gagliardetti e striscioni. Il duce apparve al balcone, pesantemente vestito da caporale d’onore della milizia. Tutti sapevano che cosa egli avrebbe detto, difatti Ciano annotava come la notizia della guerra non sorprendesse nessuno né destasse eccessivi entusiasmi. Bottai presentava la folla «ora silenziosa ora tumultuante». L’alto gerarca intuiva «la fatica dei pochi nuclei volitivi a indirizzare gridi e acclamazioni», mentre Mussolini parlava «preciso, senza gesti, ridicendo a memoria un discorso meditato», attorniato da officianti con «un’aria confusa di circostanza».

Ciano, in divisa di ufficiale d’aviazione, aveva poco prima ricevuto gli ambasciatori di Francia e di Gran Bretagna per consegnargli la dichiarazione di guerra. Francois-Poncet gli aveva detto con amarezza: «È un colpo di pugnale inferto a un uomo in terra». Il ministro era arrossito, e subito dopo l’ambasciatore aveva soggiunto, pur senza acredine: «I tedeschi sono padroni duri».

Mussolini non parlò a lungo quel pomeriggio dal fatidico balcone. La sua voce apparve quanto mai metallica, dura e decisa. «Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra Patria...», disse, e fin da quelle prime parole si levarono dalla piazza vive le acclamazioni, «...l’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata... ["Guerra! Guerra!", gridò la folla interrompendolo]... agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. Scendiamo in campo contro le democrazie plutocrati-che e reazionarie dell’Occidente, che in ogni tempo hanno ostacolato la marcia e spesso insidiato l’esistenza medesima del popolo italiano. Con voi il mondo intero è testimone che l’Italia del Littorio ha fatto quanto era umanamente possibile per evitare la tormenta che sconvolge l’Europa». Si arrestò un attimo, come se cercasse nella memoria le parole che aveva scritto a mano sui sette foglietti del discorso. Poi prosegui: «Noi impugniamo le armi per risolvere, dopo il problema risolto delle nostre frontiere continentali, il problema delle nostre frontiere marittime; noi vogliamo spezzare le catene di ordine territoriale e militare che ci soffocano nel nostro mare, poiché un popolo di quarantacinque milioni di anime non è veramente libero se non ha libero l’accesso all’Oceano». Era una «lotta gigantesca», così la definì, e non era che una fase dello «sviluppo logico» della «rivoluzione» fascista. Volendo dare alla guerra un significato di guerra proletaria, disse che la lotta ingaggiata dall’Italia era «la lotta dei popoli poveri e numerosi di braccia contro gli affamatori che detengono ferocemente il monopolio di tutte le ricchezze e di tutto l’oro della terra; la

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lotta dei popoli fecondi e giovani contro i popoli isteriliti e volgenti al tramonto, la lotta tra due secoli e due idee».

Con un accenno cesariano disse: «Ora che i dadi sono gettati e la nostra volontà ha bruciato alle nostre spalle i vascelli, io dichiaro solennemente che l’Italia non intende trascinare altri popoli nel conflitto con essa confinanti per mare o per terra. Svizzera, Jugoslavia, Grecia, Turchia, Egitto prendano atto di queste mie parole e dipende da loro, soltanto da loro, se esse saranno o no rigorosamente confermate». Un gran silenzio era sceso sulla piazza. Mussolini alzò il tono della voce: «Italiani! In una memorabile adunata, quella di Berlino, io dissi che, secondo le leggi della morale fascista, quando si ha un amico si marcia con lui sino in fondo. ["Du-ce! Du-ce! Du-ce!"]. Questo abbiamo fatto e faremo con la Germania, col suo popolo, con le sue meravigliose Forze Armate». Quindi sollecitò la folla a salutare alla voce il Führer, «il capo della grande Germania alleata», e il popolo eseguì il comando.

Si avviava alla conclusione con parole che insistevano sul significato di guerra di popolo: «L’Italia, proletaria e fascista, è per la terza volta in piedi, forte, fiera e compatta come non mai». La moltitudine gridava: «Sìii, Sìii!». L’eco di quel lungo «sì» non si era ancora spenta, quando egli esclamò: «La parola d’ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all’Oceano Indiano: Vincere!... [ancora una volta la folla lo interruppe prorompendo in acclamazioni]... e vinceremo...!». Infine disse, con voce altissima, con veemenza: «Popolo italiano! Corri alle armi, e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore!».

Concluso il discorso, disperso il rimbombo di quelle scatenanti parole, la folla provò quasi l’impressione di uscire da un incantesimo, e defluì dalla piazza senza clamori. Era sconfinata la differenza fra i tripudi di giubilo che Roma e l’Italia gli avevano rivolto all’indomani di Monaco, quando impazziti di gioia lo salutavano come il salvatore della pace, e la manifestazione di quel pomeriggio che appariva foriero di lutti e di lacrime. «Lo sfollamento fu rapido, nessuna donna aveva applaudito», annotava nella sua «informativa» un agente della polizia politica. Un intellettuale laico, Piero Calamandrei, scriveva nel suo diario, alla fatale data del 10 giugno: «Da oggi, qualunque cosa accada, il fascismo è finito». Uno scrittore cattolico, Georges Bernanos, proclamava: «Penso a Hitler come a un defunto». Il popolo italiano correva davvero alle armi come chiedeva Mussolini? L’alto numero dei volontari faceva credere di sì, ma da alcune annotazioni di uno studente universitario, Guglielmo Zucconi, la realtà appariva diversa. Il giovane, convocato dal segretario dei Guf, si sentì dire: «È arrivato un foglio d’ordine del partito: tutti gli universitari fascisti della

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tua classe devono fare la domanda di volontari per il fronte. È obbligatorio. Firma, qui». Zucconi firmò, ma non dovette aspettare molto per poter commentare: «II bello delle dittature è che uccidono completamente il senso del ridicolo: non mi passò nemmeno per il capo che essere obbligato a fare il volontario era un nonsenso».

Nell’elenco dei paesi che il duce aveva «solennemente» tranquillizzato col suo discorso del 10 giugno, figuravano la Jugoslavia e la Grecia. Accantonati per il momento, vista l’opposizione dei tedeschi, i propositi di aggredire la Jugoslavia, egli attaccò la Grecia nell’ottobre. Nel frattempo aveva inferto un flebile e disonorevole colpo alla Francia del maresciallo Pétain che si era già arreso ai tedeschi. Il duce subiva sempre più l’influenza del Führer. Ciano diceva a Bottai: «Come di Goethe si poteva dire che la sua più grande disgrazia fu la nascita di Napoleone, che ne offuscò la gloria, così di Mussolini si può dire che la sua più grande disgrazia è stata la nascita di Hitler». Osservava ancora che il duce viveva quella guerra in uno stato di «esaltazione metafisica», come se il suo obiettivo fosse quello di «indurire, con la fatica e il sacrificio, gli italiani».

Come non mai Ciano era attratto e respinto dal suocero, e contraddittori erano i suoi umori anche nei confronti del Führer. Ne elogiava la genialità e perfino l’umanità. Raccontava a Bottai come Hitler trovasse il tempo di recarsi a visitare un figlio di Goebbels, ammalato, e gli opponeva la villania di Mussolini, la sua «impenetrabilità affettiva», il suo «fastidio per ogni intimità». Sbottava: «Con Mussolini devi sempre stare in piedi davanti al suo tavolo. Ti ha mai detto di accomodarti?». Un vero «monumento di maleducazione!». Si era riavvicinato alla Germania, felice di essere entrato nella manica dei tedeschi; più felice, si diceva ironicamente, di quanto non lo fossero i tedeschi di essere entrati nella Manica degli inglesi.

Mussolini - come si era mostrato insensibile alla notizia della morte di Balbo nel cielo di Tobruk, senza pronunciare per lui in Consiglio dei ministri una parola di compianto - così, pur nel sincero dolore di padre, non si tolse i panni del Capo d’una nazione in guerra e del propagandista politico quando perse Bruno. Il figlio, capitano pilota, era morto in un incidente aereo presso il campo di Pisa nell’agosto del 1941. Durante un volo di prova il suo quadrimotore, perdendo improvvisamente quota, era precipitato e si era sfracellato al suolo. Tra le ferraglie fumanti, i soccorritori rinvennero Bruno con le carni orribilmente straziate, ma ancora vivo. L’illusione di poterlo salvare non durò che qualche minuto. Il duce raggiunse immediatamente Pisa, in aereo, col volto scavato dal dolore. Ma quando, a qualche settimana di distanza dal luttuoso evento, si accinse a dedicarvi un centinaio di pagine commemorative che intitolò Parlo con Bruno, si sentiva che si rivolgeva allo scomparso più come Capo d’un esercito in guerra che

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come padre. Scriveva non soltanto per celebrare un figlio morto, ma anche per ricordare un caduto ed esaltarne le gesta. Scriveva per far sapere che «nelle molte generazioni dei Mussolini, vi era un giovane capitano che veramente, fascisticamente sdegnava la "vita comoda", che aveva servito in pace e in guerra l’Italia e che era morto nell’adempimento del suo dovere di soldato». Il popolo lo aveva capito, diceva Mussolini, come avevano dimostrato le moltitudini che si erano allineate lungo la strada dell’ultimo viaggio di Bruno, da Pisa a Predappio: «Molti occhi erano pieni di lacrime e dominava, nel grande sole di agosto, un silenzio come mai si ascoltò. Migliala di braccia si levarono per salutarti. Non sarà facile per me dimenticare i singhiozzi che ti accolsero quando il tuo feretro fu innalzato sul carro a Forlì, né le piccole contadine che si inginocchiavano al tuo passaggio». Nel prendere congedo dal figlio, si rivolgeva un interrogativo, per dare ai lettori più che a se stesso, una risposta dolorosamente pro-pagandistica: «Quanto tempo dovrà trascorrere prima che io discenda nella cripta di San Cassiano per dormire accanto a tè il sonno senza fine? È cosa che non mi turba. Ma prima, vincere».

Durante la tumulazione del figlio nel piccolo cimitero romagnolo, Mussolini si era mostrato pallido, ma impenetrabile. Bottai aveva sussurrato all’orecchio d’un gerarca che gli era vicino: «Speriamo che questo colpo del destino non l’inasprisca e non lo isoli sempre più». Da tempo Bottai era oltremodo critico con lui, e ora lo chiamava con lo stesso epiteto che aveva usato Filippo Turati dopo il delitto Matteotti, quello di «capobanda». Un capobanda «furbo, piccolo, meschino, con le minime gelosie e invidie degli uomini comuni, pronto alla bugia, all’inganno, alla frode, dispensatore di promesse da non mantenere, sleale, infido, vile, senza parola, senza affetti, incapace di fedeltà e d’amore, capacissimo di sbarazzarsi calcolatamente dei suoi seguaci più fidi».

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II

Nelle riunioni del Consiglio dei ministri raramente si parlava della guerra, e ciò induceva i gerarchi ad amare considerazioni. Bottai diceva che in seno al governo, dove non si faceva che burocrazia, tutte le responsabilità politiche e tecniche si elidevano: «Si potrebbe pensare che vi si sostituisse la responsabilità personale d’un Capo. Ma neppure questo è vero, che il Capo è costretto dalla moltitudine dei provvedimenti ad avallarli senza assumerli in proprio. Se le cose vanno bene, il merito è suo; se vanno male, la colpa è degli altri. Così, praticamente, si attua la formula: "Mussolini a sempre ragione"».

I ministri non sapevano nulla, collegialmente, dei piani bellici del duce, essendo ognuno di essi al corrente solo di spezzoni della realtà. Tutti però conoscevano bene un’unica cosa: la posizione subordinata dell’Italia alla Germania. Tutti sapevano anche degli sfoghi del duce al cospetto dei rovesci sul fronte francese e in Libia. La colpa dei tracolli era ovviamente del popolo italiano, contro il quale lui aveva ripreso a ringhiare. E non a caso lo chiamavano il «cane grosso». Diceva: «È la materia prima che mi manca. Anche Michelangelo aveva bisogno del marmo per fare le sue statue. Se avesse avuto soltanto dell’argilla, non sarebbe stato che un ceramista». La subordinazione dell’Italia ai tedeschi era ulteriormente confermata dal «no» opposto da Hitler alla partecipazione di un corpo di spedizione italiano nell’attacco che i nazisti si preparavano a sferrare contro l’Inghilterra. Lo stesso Hitler però, in seguito alla formidabile resistenza degli inglesi animati da Churchill, si vide costretto a rinunciare al piano d’invasione, e da allora, quella che doveva essere una «guerra lampo». Blitzkrieg, divenne una lunga guerra di logoramento.

Quando ancora sembrava possibile un’invasione tedesca della Gran Bretagna, Mussolini, per timore di un accordo anglo-germanico e per strappare qualcosa al nemico e all’alleato, fece attaccare dalle sue truppe gli inglesi in Africa. Nei suoi piani, le operazioni militari degli italiani in Grecia e in terra africana dovevano consentirgli di combattere una guerra «parallela» a quella tedesca, sia per dimostrare la validità del suo sforzo

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bellico, sia per pretendere un più consistente bottino. In questa prospettiva rifiutava il sostegno delle truppe naziste, ma il sogno della «guerra paralle-la» s’infranse infelicemente, e con quel fallimento l’Italia del Littorio rivelò tutta intera l’intima sua debolezza a se stessa e al mondo. Il duce fu costretto a ricorrere all’aiuto necessario e determinante dell’alleato, per cui, mentre Hitler assumeva la supremazia militare e politica, lui perdeva ogni prestigio.

L’Italia perdeva l’impero sotto i colpi degli inglesi che conquistavano Addis Abeba e la restituivano al negus Hailé Selassié, il quale ripeteva di aver avuto ragione nel dire che si era dovuto allontanare brevemente dalla sua capitale avendo i muratori in casa. Grazie all’impegno delle truppe naziste, le sorti dell’Asse si risollevarono, ma non definitivamente, in Grecia e in Africa orientale dove i rovesci italiani non avevano confronti.

Inizialmente le truppe italiane non avevano mancato di ottenere ragguardevoli successi in Africa settentrionale, oltre la frontiera libico-egiziana con l’occupazione di Sidi-el-Barrani, e Mussolini già sperava in un’avanzata napoleonica su Alessandria d’Egitto. Ma poi seguirono irreparabili sconfitte in quelle plaghe desertiche tormentate dall’assoluta mancanza d’acqua. Dove c’erano i pozzi, gli inglesi gettavano nell’acqua sacchi di sale. Le truppe nemiche ripresero il sopravvento e riguadagnarono il terreno perduto. Ciano, che pure aveva il suo da fare con lo smacco in Grecia, si chiedeva che cosa non andasse «nel nostro esercito in Africa se cinque divisioni si erano fatte polverizzare dagli inglesi in due giorni». Il maresciallo Graziani, che aveva sostituito Balbo nella carica di governatore della Libia e che comandava le truppe italiane in Africa settentrionale, aveva messo tutti sull’avviso prospettando le enormi difficoltà di un’operazione così affrettata. Ma il duce non gli aveva dato retta, anzi, al cospetto dei ritardi nelle avanzate e delle sconfitte, lo aveva brutalmente minacciato di rimuoverlo dall’incarico. Si erano avuti nuovi incontri tra Mussolini e Hitler, tra Ciano e Ribbentrop. Il ministro degli Esteri tedesco era arrivato a Roma nell’imminenza della firma del patto tripartito fra Germania, Italia e Giappone. Aveva ricevuto una buona accoglienza perché la «squadra degli applausi» era stata ben manovrata dal questore della capitale. Il 28 ottobre l’Italia aveva attaccato la Grecia, e Mussolini si giustificava con i colla-boratori dicendo che in tal maniera rispondeva all’occupazione tedesca della Romania: «Hitler mi mette sempre di fronte al fatto compiuto. Questa volta lo pago della stessa moneta: saprà dai giornali che ho occupato la Grecia». Badoglio, minacciando le dimissioni, aveva cercato di evitare quell’impresa. Il duce si era enormemente irritato, e gli aveva detto urlando: «Andrò di persona in Grecia per assistere all’incredibile onta degli italiani che hanno paura dei greci». Non si preoccupava che la stagione scelta per le operazioni fosse la meno propizia. La regione era percossa da piogge prolungate e

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insistenti; le strade erano impraticabili, o fangose o gelate, e richiedevano un equipaggiamento invernale di cui l’esercito italiano difettava.

Il 1° novembre era tuttavia una giornata di sole, e Ciano scriveva tranquillamente nel suo diario: «Ne approfitto per fare su Salonicco un bombardamento coi fiocchi». Si comportava con la souplesse un po’ snobistica di chi sapeva di avere a che fare con una guerra da tutti chiamata la «guerra di Ciano». Gli inglesi rispondevano attaccando la flotta italiana che era sempre alla fonda nel porto di Taranto perché nessuno aveva ascoltato Badoglio che consigliava di trasferirla altrove, ora che l’Italia aveva aggredito la Grecia. Sotto le bombe sganciate dagli aerei della marina inglese, il Cavour colò a picco, mentre il Littorio e il Duilio furono seriamente danneggiati.

Badoglio veniva sostituito dal generale Cavaliere nella carica di capo di stato maggiore generale. Era così che se ne premiavano i consigli, ed avendo egli addossato la responsabilità dei rovesci all’imperizia strategica del duce fu accusato dal duce stesso di essere uno «sporco traditore». Non meno di lui, anche Graziani attraversava un brutto periodo che aveva avuto inizio dal giorno in cui aveva dovuto precipitosamente lasciare Sidi-el-Barrani agli inglesi. Ciano quasi gioiva che le cose non andassero male soltanto in Grecia, la guerra che egli aveva voluto forse più del suocero sebbene fosse stata di Mussolini la tracotante esclamazione: «Noi spezzeremo le reni alla Grecia». Sul fronte greco-albanese la situazione era precipitata con lo sconfinamento delle truppe greche in territorio dell’Albania italiana.

Ma Ciano insisteva sulle sventure di Graziani. Diceva che il maresciallo non si era ripreso interamente dal momento dell’attentato subìto ad Addis Abeba. Graziani, allora viceré d’Etiopia, ebbe il corpo straziato dalle schegge d’una bomba, e da allora viveva sotto l’incubo degli attentati e dei bombardamenti. In Libia, a Cirene, si era fatto costruire un rifugio in una tomba romana alla profondità d’una ventina di metri; in Italia, intorno alla sua villa sugli altipiani di Arcinazzo, teneva schierato un cospicuo drappello di carabinieri a salvaguardia della sua incolumità personale. A sua volta egli attribuiva ogni responsabilità dei rovesci alla conduzione mussoliniana della guerra, e il duce reagiva esclamando: «Ecco un altro uomo col quale non posso nemmeno arrabbiarmi tanto lo disprezzo». Graziani faceva testamento, scrivendo alla moglie: «Con le unghie non si possono spezzare le corazze». Si paragonava a una pulce costretta ad affrontare un elefante qual era l’esercito inglese, ma quando il comando passò nelle mani del maresciallo tedesco Rommel si risalì la china nell’Africa del Nord.

Ciano continuava a chiamare eufemisticamente «flessioni» le ritirate dell’esercito italiano in Grecia. Gli alpini della «Julia» cantavano con disperazione su quei monti nefasti: «Sul ponte di Perati / bandiera nera! / È

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il lutto della "Julia" / che va alla guerra! / La meglio gioventù / l’è sotto terra! / Quelli che han combattuto / non son tornati! / Sui monti della Grecia / sono restati! / Sui monti della Grecia / c’è la Voiussa / e l’acqua che vi scorre / s’è fatta rossa!». Mussolini telegrafava a Cavaliere ordinando alle truppe di morire anziché retrocedere: «Più che l’ordine mio è l’ordine della Patria». I generali litigavano fra loro, pronti ad addossarsi l’un l’altro la colpa delle sconfitte, mentre i greci premevano su Valona. Anche Graziani accusava Badoglio di tradimento; diceva che si sarebbe già suicidato se avesse perso la speranza di portarlo un giorno sul banco degli imputati per un’esemplare condanna. Il duce accusava tutti, generali e soldati: «Devo riconoscere che gli italiani del 1914 erano migliori di quelli di oggi. Non è un bel risultato per il Regime, ma è così».

Nevicava sul fronte greco-albanese, dove l’esercito italiano non aveva neppure le scarpe adatte al clima. Nevicava anche a Roma. Una mattina Mussolini, che era a una finestra della sala del Mappamondo, esclamò: «Questa neve e questo freddo vanno benissimo, così muoiono le mezze cartucce e si migliora questa mediocre razza italiana. Una delle principali ragioni per cui ho voluto il rimboschimento dell’Appennino è stata per rendere più fredda e nevosa l’Italia». Si dovevano temprare anche i ministri e ogni altro gerarca, sicché egli li spedì in massa a combattere, come volontari controvoglia, sul fronte albanese. Dino Grandi ne fu il più sorpreso e contrariato. Aveva quarantacinque anni e non gli piaceva minimamente «tornare a pestare la neve con i suoi vecchi scarponi da alpino». Partì anche Ciano, insieme con Pavolini; partirono il mutilato Farinacci, Ricci, Cianetti, Bottai. Erano tutti scontenti perché ritenevano inutile una così ridicola messa in scena. A meno che, diceva Bottai, «ruminando amara saliva», quell’arruolamento in massa non celasse un «colpo di Stato del Duce per liberarsi del fascismo e appoggiarsi ad altre correnti». Ma non ne parlò con Mussolini, anzi gli si mostrò estremamente arrendevole, come annotava in una pagina efficace quanto triste del suo diario: «17 Gennaio 1941 - Al mio ufficio. Alle 8 e 5 mi chiama il Duce al telefono. Una voce metallica, dura, impersonale. "Quando devi partire per la Germania?". "Lunedì", rispondo. "Puoi telefonare al tuo collega, che il tuo viaggio è rimandato a dopo la guerra". "Va bene, Duce". "In quanto a tè, sei richiamato come Ricci". "Va bene, Duce". Abbasso il manubrio, meccanicamente. Fisso nel vuoto, dinnanzi a me. La quarta guerra mi giunge così, disumanata dal mio Capo. Una solitudine paurosa. Qualche cosa, che da più di vent’anni mi batteva nel cuore s’arresta di colpo: un Amore, una fedeltà, una dedizione. Ora, sono solo, senza il mio Capo».

Il nuovo segretario del partito, Adelchi Serena, chiedeva sommessamente al duce come avrebbe fatto a governare senza ministri, e in realtà se lo

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chiedevano anche gli italiani, i quali con preoccupazione vedevano peraltro catapultati ad alti incarichi militari dei personaggi che da decenni non avevano più toccato un moschetto, che avevano i capelli tinti e una gran pancia. Lui rispondeva, alzando il mento: «Farò vedere agli italiani come si governi un Paese coi soli direttori generali».

Sul fronte greco-albanese, nonostante l’arrivo dei volontari d’alta classe, non c’era altro da fare che attendere l’intervento tedesco. Hitler ne diede assicurazioni a Mussolini incontrandolo a Berchtesgaden, ma precisò che l’evento non si sarebbe potuto verificare prima di marzo. E si era soltanto al 19 gennaio, con l’esercito italiano in piena crisi. Nel lasso di tempo che lo divideva dall’arrivo dei tedeschi su quel fronte, Mussolini intendeva ricon-quistare qualcuna delle posizioni perdute, se non altro per risollevare il morale del popolo italiano. Un popolo, annotava drammaticamente Bottai in zona d’operazioni, che faceva «da capro espiatorio di una classe dirigente militare e politica inetta, dotata di una fede d’occasione, sprovvista d’ogni senso di vera responsabilità».

Nel tentativo di galvanizzare le truppe con la sua presenza e nella speranza d’un preludio di ripresa, il duce raggiunse in marzo l’Albania, e vi si trattenne del tutto inutilmente per tre settimane. Ma al suo ritorno disse alla Camera di aver trovato l’esercito riorganizzato e fortificato, mentre Bottai contemporaneamente testimoniava il contrario scrivendo nel diario che al suo battaglione mancavano per prima cosa i muli; avrebbero dovuto averne centottanta e non ne avevano che cinquanta, e «senza muli un batta-glione alpini non poteva muoversi efficientemente». Mussolini elogiava la ripresa dell’iniziativa bellica italiana in Grecia sostenendo che i soldati del Littorio avevano finalmente ridotto all’impotenza l’esercito nemico; ma la sua era una forzatura, anzi un’invenzione. E difatti, per non allontanarsi troppo dalla verità, riconobbe l’importanza risolutiva dell’intervento tedesco su quel fronte annunciando che, in base agli accordi presi col Comando ger-manico, sarebbero state le truppe italiane a occupare la Grecia. Ai comandi stranieri e anche a molti italiani, non sfuggiva il significato di quel compromesso cui Hitler aveva acceduto per salvare in extremis l’onore del regime.

Sulla riconquista della Cirenaica fu più esplicito ammettendo che l’azione era stata condotta dalle forze corazzate germaniche insieme con quelle italiane. Ma non poteva nascondere la perdita dell’Etiopia. Non poteva farlo e cercò quindi di sminuirne speciosamente il significato. «Ai fini della guerra», disse, «anche la conquista totale dell’impero da parte degli inglesi, non ha alcun valore decisivo: si tratta di una vendetta inglese di carattere strettamente personale». A queste parole nell’aula si rise, però in segno di approvazione, ed egli soggiunse: «Io non posso oggi dire quando e come,

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ma affermo nella maniera più categorica che noi torneremo [voci diffuse: "Sì! Sì!"] in quelle terre bagnate dal nostro sangue [grida ripetute di "Du-ce! Du-ce!"]; terre che in pochi anni avevamo trasformato costruendo ospedali, scuole, case, acquedotti, fabbriche e quelle grandi strade, meraviglia dell’intero continente africano, sulle quali hanno potuto celermente marciare le forze meccanizzate nemiche». A queste parole non seguirono né applausi né interruzioni. Nell’aula di Montecitorio i deputati, che ormai si chiamavano consiglieri, si interrogavano con lo sguardo come per dirsi: «Va bene che gli inglesi potevano correre sulle nostre strade, ma noi non li abbiamo fermati».

Le leve delle operazioni militari tedesche e italiane erano saldamente nelle mani di Hitler, con l’esplicito consenso di Mussolini. Fra i due personaggi, su richiesta del Führer, era intervenuto un accordo che rimase segreto agli occhi di tutti perché il duce non sfigurasse. Mussolini il 6 aprile aveva risposto affermativamente a una lettera pervenutagli il giorno prima in cui Hitler gli diceva che via via gli avrebbe indicato i punti di vista generali da tener presenti nelle operazioni». Il duce, ricevute queste indicazioni, avrebbe provveduto a impartire al suo esercito le conseguenti disposizioni; in tal maniera, precisava il Führer, si poteva evitare di stabilire «esteriormente un Comando superiore, e tuttavia ottenere una condotta unitaria delle operazioni». Questa proposta, aggiungeva, «significa soltanto un accordo fra noi due e non comparirà dinanzi al mondo»; essa «ha esclusivamente lo scopo di vincere in comune e presto». Mussolini non fece obiezioni: «Concordo pienamente con Voi per quanto conceme la condotta unitaria delle operazioni secondo la formula da Voi proposta». Accettava dunque di ricevere gli ordini da Hitler e di applicarli come fossero propri. In tal maniera legava definitivamente l’Italia al carro tedesco.

A Mussolini non sfuggiva una così grave condizione d’inferiorità, e ne soffriva. Cominciava ad ascoltare con attenzione le pessimistiche considerazioni del genero sul futuro della guerra. Galeazzo gli prospettava i vantaggi per l’Italia d’una pace di compromesso, come la chiamava, ed egli sembrava concordarvi, anche perché era irritato dai contrasti che si verificavano in Grecia con il comando tedesco e dallo spadroneggiare di Hitler in Jugoslavia. «Ci lascino tranquilli i tedeschi», diceva, «e si ricordino che noi, per loro, abbiamo perso un Impero. Ho una spina nel cuore per il fatto che la Francia battuta ha il suo Impero intatto e noi lo ab-biamo perduto». Il Führer voleva vederlo a breve termine, al Brennero, e Mussolini scalpitava. «Sono stufo di essere chiamato col campanello», diceva, ma prese subito il treno per raggiungere il luogo dell’incontro.

Durante il colloquio col Führer, si era nuovamente caricato in senso filogermanico, ma poi a Roma riprese a sbuffare: «Personalmente ho piene

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le tasche di Hitler e del suo modo di fare». Tornò a dire che quei colloqui preceduti da una «chiamata col campanello» non gli piacevano e che «col campanello si chiamano i camerieri». Non gli andavano più bene nemmeno gli abboccamenti: «Che razza di colloqui sono? Debbo per cinque ore assistere ad un monologo, abbastanza noioso ed inutile. L’ultima volta ha parlato per ore ed ore di Hess, della Bismarck, di cose più o meno afferenti alla guerra, ma senza un ordine del giorno, senza sviscerare un problema, senza prendere una decisione».

Doveva celebrare, con un discorso alla Camera, il primo anno dell’ingresso italiano in guerra, ma non se la sentiva, non ne aveva alcuna voglia, avvilito com’era dalla sua condizione subordinata rispetto all’antico discepolo in dittatura. «Dovrei fare», diceva, «l’apologia della collaborazione con la Germania e ciò adesso ripugna al mio spirito». Rincarando la dose della sua polemica antihitleriana, aggiungeva: «I tedeschi, sulla carta, riconoscono i nostri diritti in Croazia, ma poi in pratica si prendono tutto e a noi lasciano un mucchietto di ossa. Sono canaglie in mala fede, e vi dico che così non potrà durare a lungo». Sopraggiunto il 10 giugno del ‘41, non potè evitare di celebrare l’anniversario, ma prima di metter piede nell’aula di Montecitorio disse ai più intimi che avrebbe sì fatto una «sviolinata alla Germania», ma che il suo cuore era «pieno di amaro». Quel discorso gli procurò un severo giudizio di Churchill che lo chiamò un «povero lacchè sbrindellato».

Pur essendo pesantemente impegnato nei Balcani e in Africa settentrionale, il duce decise di inviare in Russia un suo corpo di spedizione. Diceva di voler dare man forte all’attacco che Hitler in barba al tanto decantato patto Ribbentrop-Molotov aveva sferrato in giugno contro l’Unione Sovietica, ma in realtà s’ingolfava in quella nuova avventura per non essere escluso dalla spartizione di ulteriori bottini in terra orientale. Per di più era tornato a credere in una rapida e vittoriosa conclusione della guerra. Il suo ottimismo non era generalmente condiviso, e fra i gerarchi si paventava che la penetrazione in Russia sortisse lo stesso infelice effetto della campagna napoleonica. La diretta partecipazione italiana alla campagna contro l’Urss ebbe, come primo risultato negativo, l’interruzione imposta da Mosca ai negoziati in corso con Roma per la fornitura all’Italia di grandi quantità di nafta. La mancanza di quel carburante creò serie difficoltà a Mussolini, in un quadro già di per sé fosco, con i soldati male in arnese che partivano per il fronte russo senza adeguati vestiari e privi di moderni armamenti: se leggere erano le calzature, ancor più leggere erano le autoblindo. Le rampogne di Mussolini avevano per oggetto singole persone più che la deficienza organizzativa del sistema militare fascista; così si accaniva contro questo o quell’ufficiale e anche contro aspetti minori della

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loro condotta. Ciano raccontava che il duce era talvolta tentato di scendere dall’automobile «per frustare gli ufficiali che andavano al Ministero della Guerra, tanto li considerava indegni di vestire l’uniforme».

In quei giorni gli americani facevano un gran rumore sul caso di Rudolf Hess, il delfino di Hitler che era clamorosamente fuggito in aereo dalla Germania e si era paracadutato sulla Scozia, volendo così mostrare, come si vociferava, la sua opposizione alla guerra contro la Russia. Mussolini si scagliava impietosamente contro Roosevelt. Diceva che nella storia non c’era mai stato un popolo «retto da un paralitico»; si erano avuti «re calvi, re grossi, re belli e magari stupidi», ma non si era mai visto un re che «per andare al gabinetto avesse bisogno di essere sorretto da altre persone».

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III

La situazione politica e militare era talmente tesa che Vittorio Emanuele aveva ripreso ad accarezzare l’idea di mutamenti al vertice del governo. Era il ministro della Real Casa, Acquarone, a diffondere tenui indiscrezioni sui timorosi disegni del sovrano. Ventilava la possibilità di nominare Mussolini alla carica di Cancelliere e Ciano a quella di presidente del Consiglio, ma non era quello il momento più propizio per agire, ora che si era aperto anche il fronte russo e che Hitler dava per certa una vittoriosa conclusione delle operazioni entro un paio di mesi. Le prime notizie dall’Urss erano buone per i tedeschi che già avanzavano. Mussolini era a Riccione, e ogni mattina si bagnava nelle acque dell’Adriatico. Di ritorno a Roma, mentre preparava la partenza dei primi contingenti italiani per il fronte russo, ancora si lamen-tava del fatto che Hitler, more solito, lo avesse tardivamente avvertito, in piena notte, dell’attacco a Stalin: «Nelle ore notturne io non oso disturbare nemmeno i servitori, e i tedeschi mi fanno saltare dal letto senza il minimo riguardo». Anche ai suoi occhi questo era un ulteriore segno che confermava come il Führer avesse aggregato l’Italia alle nazioni vassallo della Germania. Si vendicava chiamando i tedeschi «infidi e pericolosi», e diceva che lo diventerebbero ancor di più qualora vincessero la guerra. Di qui la necessità di piazzare «migliaia di cannoni lungo i fiumi del Veneto»; da quella parte essi avrebbero lanciato «l’invasione in Italia e non attraverso le forre dell’Alto Adige ove sarebbero facilmente maciullati».

Non meno esplicito era stato quando aveva commentato con Ciano una recrudescenza in Alto Adige dell’irredentismo tedesco capeggiato da Franz Hofer, il Gauleiter del Tirolo. «Segna nel tuo diario», aveva detto al genero, «ch’io prevedo come inevitabile una crisi tra Italia e Germania. Ormai è evidente che si preparano a chiederci di portare il confine a Salorno, e forse anche a Verona. Il che produrrà una formidabile crisi in Italia, anche per il Regime. La supererò, ma sarà la più dura di tutte. Sento ciò nel mio istinto da animale e mi pongo seriamente il quesito se, per il nostro futuro, non è più auspicabile una vittoria inglese che una vittoria tedesca». Ripeteva queste considerazioni per dirsi lieto che gli inglesi volassero sulla Germania anche di giorno. Ciò doveva contribuire a non creare il mito dell’invincibilità tedesca, anche perché presto «dovremo batterci contro la

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Germania». Ma, esprimendo una rinnovata sfiducia nella «nostra razza», temeva che gli italiani non avrebbero saputo battersi adeguatamente: «Al primo bombardamento che distruggesse un campanile famoso o un quadro di Giotto, essi si faranno prendere da una crisi di sentimentalismo artistico ed alzeranno le braccia».

Aveva nuove ragioni per imprecare contro i tedeschi. Gliele offriva il rapporto di un addetto all’ambasciata d’Italia a Berlino dal quale apprendeva i maltrattamenti cui erano sottoposti gli italiani che in trecentosessantamila si erano recati a lavorare in Germania, anche su sollecitazione di Roma. Per punirli di pur lievi colpe, i sorveglianti tedeschi aizzavano contro gli emigranti «grossi cani da pastore che li azzannavano alle gambe». Era profondamente irritato; tuttavia, se acconsentì all’invio d’una protesta italiana, lo fece soltanto dopo essersi assicurato che dalla lettura della nota si traesse l’impressione che egli fosse all’oscuro di quei tragici fatti.

Il Führer non avrebbe voluto che le truppe italiane partecipassero alla campagna di Russia, ma dovette accettarle perché talvolta l’ostinatezza dell’alleato, nonostante il Comando unico e la subordinazione alla Germania, si rivelava insormontabile. Hitler aveva a che fare con un uomo ora remissivo e docile, ora caparbio e cocciuto. Il timore di Mussolini era di apparire sulla scena pubblica alle dipendenze del Führer, e le tentava tutte per evitare che ciò avvenisse. Un giorno si irritò con Giovanni Ansaldo che in un articolo aveva scritto, per inciso, questa frase: «...la guerra di Russia, sotto la guida di Hitler...». Ma lui, lettore attento e pignolo, considerava pericoloso persino quel semplice passaggio; espressioni del genere, diceva, «abituano il popolo italiano a pensare che sia veramente Hitler a dirigere la guerra».

Il duce aveva la «matematica convinzione» della vittoria contro Mosca, con il contributo dell’Italia che a suo avviso avrebbe potuto inviare in Urss truppe «superiori in mezzi e uomini a quelle tedesche». Al comando del generale Messe, raggiungevano il fronte i primi contingenti raggruppati nel Corpo di spedizione italiano in Russia, Csir, che poi, ampliato, prese il nome di Armata italiana in Russia, Armir. A questa trasformazione si era opposto lo stesso generale Messe, ma lui lo aveva zittito dicendogli che al tavolo della pace avrebbero pesato più i duecentomila soldati dell’Armir che i sessantamila del Csir. In questi giudizi aveva il sopravvento il calcolo politico, e quindi, che le truppe italiane non fossero adeguatamente equipaggiate e armate specie nei reparti motorizzati, era un fatto tecnico di secondaria importanza. Sembrava non preoccuparsi eccessivamente di queste deficienze poiché considerava degli imbelli i soldati bolscevichi; diceva che il loro esercito era malamente guidato, troppo politicizzato e raz-zialmente eterogeneo. Lo scriveva a Hitler insistendo sulla «brutale stupidità

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di quelle genti» e concordando di compiere insieme una visita nel lontano fronte.

Hitler lo attendeva nella stazione di Rastenburg che per ragioni strategiche inalberava un nome falso, Görlitz, una città che non si trovava nella Prussia orientale, ma altrove. S’inoltrarono in automobile in una cupa foresta di abeti e di betulle, fra barriere e reticolati per raggiungere il Quartier generale del Führer, la famosa «Tana del lupo». Il viaggio durò quattro giorni pieni, dal 25 al 28 agosto. Mussolini indossava l’uniforme da campagna di primo maresciallo dell’impero, un impero che non aveva più, e Hitler portava una semplice divisa grigioverde. S’incontravano «sulle barricate europee contro il comunismo», diceva alla radio Mario Appelius. Il ministro Ciano non partecipava al viaggio, in preda a una tonsillite che richiese un intervento chirurgico e che quindi, una volta tanto, non nascondeva una malattia diplomatica. Mussolini si era invece fatto accompagnare dal figlio Vittorio per motivi sentimentali di famiglia. Difatti, appena qualche giorno prima aveva perso il figlio Bruno in un incidente aereo, e voleva avere accanto a sé Vittorio quasi a reciproco conforto.

A Uman, in Ucraina, Mussolini e Hitler visitarono i reparti italiani i cui autocarri ancora mostravano sotto una mano frettolosa di vernice i nomi delle ditte alle quali erano stati requisiti, «Birra Peroni», «Fratelli Gondrand», come testimoniavano Anfuso e l’addetto stampa Cristano Ridomi.

Il patto segreto fra lui e Hitler, in base al quale il Führer deteneva il Comando unico italo-tedesco, era sempre sul punto di saltare per la riluttanza del duce a subirlo supinamente come il più forte alleato pretendeva. Ma la sua era una riluttanza velleitaria e formale; difatti accettava che i comandi passassero nelle mani di Rommel e di Kesseiring, ai quali si erano assegnati due rilevanti obiettivi: neutralizzare la base navale di Malta, con la conquista o con i bombardamenti aerei, essendo una costante minaccia per i convogli dell’Asse; riprendere l’iniziativa in Africa settentrionale. Il duce faceva buon viso a cattivo gioco, e scrisse una lettera a Hitler. Gli esprimeva la propria «gratitudine per avere inviato in Italia il valoroso maresciallo Kesselring»; aveva avuto «il piacere di conoscerlo», così come «molti dei nostri aviatori lo conoscevano non solo di fama, ma anche di persona».

La riscossa guidata da Rommel, la «volpe del deserto», ebbe momenti epici nel ‘42, con l’indubbio contributo delle forze italiane. Tobruk fu la città più martoriata, la città-chiave di tutte le operazioni belliche. Presa e lasciata più volte dagli eserciti contrapposti, cadde nuovamente nelle mani di Rommel che invase l’intera Cirenaica provocando una grave crisi di nervi in Churchill. Mussolini, piombato in Africa, si accingeva a entrare in

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Alessandria d’Egitto su un bianco palafreno. Guido Botta descriveva come «gigantesco e imperiale» quel cavallo che caracollava con «defatigata maestà» lungo la via principale di Bardia in attesa di portare il duce in trionfo. Ma il terreno guadagnato fu presto perduto, e, nella battaglia di El-Alamein, gli italo-tedeschi furono definitivamente sconfitti dai soldati del generale Montgomery, mentre gli americani preparavano il loro sbarco in Algeria e in Marocco agli ordini di Eisenhower. Inizialmente, sulla sfortunata presenza del duce in Africa non si erano avute conferme ufficiali. «Nessuno dovrebbe sapere e tutti sanno», annotava Bottai, «che Mussolini è in Libia o in Egitto». Lo stesso Mussolini era stato a lungo indeciso se partire o no, e comunque aveva preso tempo per non subire uno scacco simile a quello albanese quando per tre settimane aveva inutilmente atteso il giorno della riscossa. Ora condizionava la sua partenza alla riconquista di Tobruk, e difatti, a riconquista avvenuta, partì per la Libia, con negli occhi l’immagine napoleonica delle Piramidi.

Era amareggiato perché la vittoria andava a tutto beneficio di Rommel il quale per l’occasione veniva nominato da Hitler al grado di feldmaresciallo, ma era anche pieno di entusiasmo per i nuovi successi che avevano portato le truppe italo-tedesche a Marsa Matruk, già in vista del Nilo. Durante l’avanzata i tedeschi fecero man bassa del bottino. Gli italiani non furono da meno. Cavaliere si rifornì d’ogni ben di Dio spedendo in patria la roba sgraffignata. Ciano commentava: «Non c’è che dire, Cavaliere non sarà un grande stratega, ma quando si tratta di grattare, frega anche i tedeschi». L’impeto di Rommel si arrestò improvvisamente. Mussolini dovette rinunciare all’ingresso trionfale in Alessandria e tornarsene a Roma, dopo essersi attardato in Libia dal 30 giugno al 20 luglio. In tutti quei giorni il feldmaresciallo tedesco - il «mistico del carro armato» come lo definiva Gian Gaspare Napolitano - non si era mai recato insolentemente a fargli visita. Ora Mussolini si accaniva contro Rommel, il quale «aveva osato» accusare alcuni ufficiali italiani di aver svelato i suoi piani agli inglesi.

I giapponesi furono con lui più cortesi di quanto non lo fosse mai stato Hitler, infatti lo avvertirono che stavano per attaccare gli Stati Uniti. Come lo avrebbero fatto, non si sapeva. E quando attaccarono lo fecero in maniera da stupire il mondo, bombardando proditoriamente in una tranquilla mattina di domenica la base americana di Pearl Harbor, nelle Hawai. L’atto di cortesia orientale compiuto nei confronti dell’Italia, e ripetuto per Hitler, era ovviamente suggerito da ragioni politiche, era cioè dettato dal fatto che i giapponesi condizionavano la loro iniziativa bellica all’assicurazione che Italia e Germania dichiarassero subito guerra all’America. Ciò avveniva nel dicembre del ‘41, e la guerra, europea, che aveva avuto inizio nel settembre

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di due anni prima, diventava una guerra mondiale con le fiamme che divampavano nel Pacifico.

Con un breve discorso dal balcone di palazzo Venezia, il duce annunciò che Italia e Germania si univano al Giappone nell’immane conflitto contro gli Stati Uniti. Apparve alla folla alle 3 del pomeriggio dell’ 11 dicembre, a quattro giorni da Pearl Harbor. Il discorso fu diversamente giudicato da Ciano e da Bottai. Il ministro degli Esteri lo definì «tagliente», mentre al ministro dell’Educazione nazionale era apparso «scialbo». La piazza non aveva mostrato soverchio entusiasmo e ciò era colpa, diceva Galeazzo, dell’ora tarda, «la gente aveva fame». Bottai offriva motivazioni più complesse ponendo l’accento sul fatto che «un uomo si trovava di fronte a una folla comandata di impiegati e di scolari» e che parlava a una gran massa di persone mobilitate con le cartoline rosa, una sorta di cartoline-precetto per civili emesse dai comitati rionali dei fasci. Quell’uomo decideva ogni cosa da solo: «Consiglio dei Ministri, Gran Consiglio, Camera dei Fasci e delle Corporazioni, Direttorio del Partito, tutto è scavalcato, annullato».

Quell’uomo ancora parlava dal balcone. Diceva, cercando di animare la folla, che le «potenze del Patto d’acciaio, l’Italia fascista e la Germania nazionalsocialista, sempre più strettamente unite» scendevano a lato «dell’eroico Giappone contro gli Stati Uniti d’America». Il Tripartito diventava un’alleanza militare che «schierava intorno alle sue bandiere duecentocinquanta milioni di uomini, risoluti a tutto pur di vincere». Ogni responsabilità del conflitto che si estendeva a tal punto era soltanto di Roosevelt, il quale, «attraverso una serie infinita di provocazioni, ingannando con una frode suprema le stesse popolazioni del suo paese», aveva voluto la guerra e l’aveva preparata «giorno per giorno con diabolica pertinacia».

Ma già nella primavera-estate dell’anno successivo si era esaurita la spinta giapponese, mentre l’America metteva a segno decisive affermazioni nel mar dei Coralli e alle isole Midway, dovendo combattere anche con i bollettini di guerra nipponici che si attribuivano le vittorie navali. Mussolini conduceva una sua schermaglia con l’ambasciatore del Giappone Shiratori il quale osava affermare che il dominio del mondo spettava ai giapponesi; il Mikado, imperatore e capo scintoista, il Venerabile, era l’unico Dio in terra: a Mussolini e a Hitler non rimaneva che fare atto di sottomissione.

Si era ai primi mesi del ‘43. Le condizioni fisiche di Mussolini peggioravano a vista d’occhio. Poteva essere l’ulcera o il tormento di essere un uomo finito. Impotente era anche un grande medico come Frugoni. Fosse o no ammalato seriamente, gli alti gerarchi riponevano in lui minor fiducia. Dicevano: «Tutto nel Duce è infondato, persino il cancro». Bottai lo

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sogguardava e a sera scriveva di lui: «Una faccia grigia, devastata, scavata». Di tanto in tanto il duce tornava a sperare in un cannone speciale, in un’arma segreta dei tedeschi. Oppure credeva che i bollettini di guerra hit-leriani fossero artatamente pessimisti, per rendere più sorprendenti ed entusiasmanti i successi.

Mentre lui preparava un regalo per i cinquant’anni di Goering, una spada d’oro incisa dallo scultore Messina, negli ambienti di Corte tornava a circolare la voce d’una sua possibile sostituzione. Si faceva il nome di Grandi, ma sostituirlo significava anche prendere le distanze da Hitler, un’operazione piena di rischi. Eppure non c’era chi non considerasse fatale l’alleanza con la Germania, e in proposito correva una ben triste battuta: «Se i tedeschi perdono, noi siamo perdenti; se vincono, noi siamo perduti». Comunque, il duce mostrava di non volersi sganciare dai tedeschi; ripeteva che avrebbe marciato con la Germania fino alla fine. Poteva almeno farsi da parte temporaneamente, come si augurava Federzoni, perché così, d’intesa con i tedeschi, l’Italia stremata avrebbe potuto avviare trattative di pace. Ma il duce, e i suoi seguaci lo sapevano, non avrebbe mai rinunciato volontariamente al potere, anche per finta. Un’ipotesi del genere l’aveva già decisamente respinta quando Federzoni gliel’aveva prospettata durante la crisi Matteotti. «Lasciare il potere? Mai!», aveva esclamato allora Mussolini, e avrebbe ripetuto ora le stesse parole se qualcuno avesse avuto l’ardire di prospettargli un’analoga soluzione.

Rooseveit e Churchill, con una conferenza indetta a Casablanca cui partecipò anche De Gaulle, decisero di non porre fine alla guerra se non dopo aver costretto le potenze dell’Asse a una resa incondizionata, unconditional surrender. Decisero altresì di aprire un secondo fronte, per costringere i tedeschi ad attenuare la pressione sull’esercito sovietico; così colpirono direttamente l’Italia, l’anello più debole del sistema, con uno sbarco in Sicilia. La conferenza di Casablanca era in pieno svolgimento quando i più alti gerarchi del regime, insieme a industriali e a generali, si posero in maniera impellente l’esigenza che l’Italia chiedesse la pace separata. Grandi, Bottai, Thaon di Revel premevano su Ciano che non aveva bisogno di essere convinto. Il conte, dopo aver avuto un incontro decisivo con il generale Ambrosio, che di lì a qualche giorno avrebbe sostituito l’infido Cavaliere nella carica di capo di stato maggiore generale, prospettò con coraggio a Mussolini la pace separata come unica soluzione possibile per salvare il salvabile, essendo convinto che la guerra era perduta. Ancora una volta il duce appariva incerto: ora, pessimisticamente, conveniva sulla necessità di prendere «qualche contatto diretto» con gli angloamericani; ora, ottimisticamente, mostrava di credere nelle possibilità di recupero dei tedeschi.

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Ma soltanto pochi giorni più tardi diede la grande e improvvisa stoccata, licenziando il genero da ministro degli Esteri. Immensi furono il rumore e l’emozione per quel disarcionamento, sebbene tutti se lo aspettassero, meravigliandosi anzi come mai il duce conservasse a Galeazzo la rilevante carica pur conoscendo di lui piani e intenzioni. Mussolini aveva ritardato il più possibile quella decisione, non solo per i legami di parentela, ma anche per la sostanziale fedeltà del genero nei suoi confronti. Del resto l’obiettivo di Ciano non era tanto il duce quanto Hitler. Galeazzo sperava sempre di indurre il suocero a denunciare quella ferale alleanza con il tedesco. Ma ora aveva perso la partita. E si vide ridotto al ruolo di ambasciatore presso la Santa Sede, cioè di «sacrestano», secondo la visione del duce che si riprendeva gli Esteri.

Mussolini non potè cambiare i titolari di altri dicasteri perché li deteneva quasi tutti lui. Infine mise il prefetto Chierici a capo della polizia perché non si fidava più nemmeno di Senise. Con quel carosello, o «girarrosto» mussoliniano, come lo chiamava il defenestrato Bottai, intendeva attorniarsi di collaboratori più fedeli, vista la gravità della situazione. Con un’altra sostituzione, quella di Buffarini Guidi, scacciato da sottosegretario agli Interni - in pratica da vice duce, essendo Mussolini il titolare del ministero -intendeva dare un segnale, certo tardivo, di moralizzazione che colpisse direttamente la famiglia di Claretta. Il clan dei Petacci, approfittando della relazione di Claretta con il duce, si era enormemente arricchito. I Petacci, e soprattutto Marcelle, fratello della favorita, avevano messo le mani dovunque; trafficavano in oro e in valuta, ottenevano colossali forniture, influivano sulle carriere politiche e militari dei loro amici stroncando quelle degli avversari. Guido Leto, dirigente dell’Ovra, in un suo rapporto aveva scritto: «II Dottor Petacci fa più male al Duce di quindici battaglie perdute». Buffarini Guidi dava man forte alla «banda Petacci», e fu Edda, in odio a Claretta, ad aprire gli occhi al padre sui loro loschi affari, tra i quali rientrava un contrabbando d’oro dalla Spagna. Tutti dicevano che il «ministero più potente» era quello della Camilluccia, dove Claretta aveva la villa. Un giorno suo fratello, alla notizia d’una sconfìtta delle truppe italiane in Africa settentrionale, aveva con sicumera esclamato: «Tutto va male, ma sul fronte della Camilluccia tutto va bene!».

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IV

Si cominciava a temere seriamente un eventuale sbarco degli anglo-americani in Sicilia. Farinacci aveva chiesto udienza al duce il quale, sulle voci di un simile attacco, gli aveva detto che gli italiani avrebbero rinnovato su quelle sponde le gesta del Piave. Ma non ci credeva nessuno, tanto che sollevò una certa sorpresa un discorso pronunciato in Campidoglio da Giovanni Gentile a favore della guerra a oltranza. Facendo eco all’invettiva del commentatore radiofonico Mario Appelius - «Dio stramaledica gli inglesi» - il vecchio filosofo siciliano esortò la popolazione italiana «a sbarrare il passo alla prepotenza britannica», con la ferma idea che «solo nel combattimento era la salvezza». Anche Mussolini fece in quella stessa giornata un’ottimistica arringa parlando al Direttorio nazionale del partito. Tutto gli crollava addosso, ed egli si dilungava a trattare problemi grandi e piccoli, mischiandoli insieme. Si gloriava che la massa dei tesserati fosse «sempre imponente», ma si attardava a rovistare in una vecchia polemica sul ruolo del Pnf. Diceva che il popolo italiano meritava «rispetto e amore» per il suo comportamento. «Tira la cintura, sta impavido sotto i bombar-damenti». Che dire, si chiedeva, di «una città sconosciuta agli stessi connazionali e al mondo» che la vedeva sotto una luce falsa? Si riferiva a Napoli e ai settantatré bombardamenti subìti in santa pazienza. Parlava anche di moda: «È ora di finirla col considerare in proposito l’Italia una provincia francese». Lodava, con qualche riserva, la burocrazia dichiarandosene il capo; si autodefiniva «uno degli impiegati più diligenti» dello Stato: «Pensate che in ventun anni non ho mai smarrito una qualsiasi, anche insignificante pratica, dico mai, e alla sera il mio tavolo è sgombro».

Faceva sapere agli astanti che egli usava molto il telefono perché era più rapido delle poste ed evitava di «carteggiare» troppo.

Si presentava come un accanito lettore dei giornali di provincia. Proprio da uno di quei giornali aveva appreso che a Rapallo alcune signore colà sfollate avevano organizzato una partita di golf con ventidue buche. «Ciò è di un interesse enorme. Pensate: ventidue buche! Ora, le signore che si dilettano dei golf con ventidue buche, meriterebbero di essere mandate e saranno mandate a lavorare nelle fabbriche o nei campi». Insisteva sulla necessità di «fare largo ai giovani» non senza però osservare che «se un

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uomo a diciotto anni è uno stupido, la sua situazione è aggravata dal fatto che ha diciotto anni e che rimarrà stupido per altri cinquanta». Incitava a vincere la guerra non essendoci alternative: «Chi crede o fìnge di credere alle suggestioni del nemico, è un criminale, un traditore, un bastardo». La pace equivaleva alla capitolazione, il nemico «ci disarmerebbe fino ai fucili da caccia; ci lascerebbe solo gli occhi per piangere».

Venne al dunque, al pericolo imminente, e disse: «Bisogna distinguere tra "sbarco", che è possibile, "penetrazione", e, finalmente, "invasione". È del tutto chiaro che se questo tentativo fallirà, come è mia convinzione, il nemico non avrà più altre carte da giocare per battere il Tripartito. Bisogna che non appena il nemico tenterà di sbarcare, sia congelato su quella linea che i marinai chiamano del "bagnasciuga", la linea della sabbia, dove l’acqua finisce e comincia la terra. Se per avventura dovessero penetrare, bisogna che le forze di riserva, che ci sono, si precipitino sugli sbarcati, annientandoli sino all’ultimo uomo. Di modo che si possa dire che essi hanno occupato un lembo della nostra patria, ma l’hanno occupato rimanendo per sempre in una posizione orizzontale, non verticale».

Questo fu dunque il discorso del «bagnasciuga» e fu pronunciato il 24 giugno del ‘43. Il 10 luglio successivo gli anglo-americani presero la Sicilia in una tenaglia, e vi sbarcarono, quando già da un mese avevano occupato l’isola di Pantelleria. Le popolazioni li accolsero come liberatori e quello era il primo e più clamoroso sintomo di quanto il fascismo non facesse più presa sugli italiani. Al capo dello stato maggiore della milizia, Galbiati, Mussolini diceva: «La situazione politica dipende da quella militare. Scacciamo i nemici dal patrio suolo e vedrete che tutta l’Italia ridiverrà fascista».

Il discorso del «bagnasciuga» apparve ridicolo a lui stesso, come si poteva capire dall’intercettazione di una sua telefonata a Claretta, a opera del Servizio speciale riservato dell’Ovra, «SSR», cui da qualche mese aveva dato l’ordine di intercettare e registrare tutte le telefonate dei gerarchi, comprese le proprie. In piena notte del 15 luglio, il duce aveva chiamato al telefono la sua amica:

Lui: Mi sento la testa vuota... mi sfuggono le idee, le parole... non ti sei accorta che, nel mio ultimo discorso, ho commesso delle gqffes... ho detto delle frasi fuori luogo.

Lei (interrompendolo): Quello del «bagnasciuga»? Lui: Ecco! (con veemenza). Anche tu, come tutti gli altri, ad ironizzare!

Sono diventato la favola, lo zimbello di tutti con quella maledetta parola! Passerò alla storia non come il duce del fascismo e il fondatore dell’impero, ma più semplicemente come il «bagnasciuga»!

Lei: Non esageriamo, Ben mio.

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Lui: Non mi faccio illusioni: la frase è diventata di uso comune e viene raccontata sotto forma di barzelletta, proprio da quelle persone che venivano ad applaudirmi a piazza Venezia.

In quel discorso, Mussolini non cadeva in errore solo con un termine marinaro, ma anche con una reminiscenza di storia della filosofia. Ciò che chiamava «bagnasciuga» non era la zona estrema della riva dove il mare perennemente batte, e che in realtà ha nome «battigia» ma piuttosto la linea di galleggiamento delle navi. Così come non era Anassagora, ma Protagora il filosofo greco cui a un certo punto si riferì per ricordare l’antica massima dell’«uomo misura di tutte le cose». Egli fece erroneamente il nome di Anassagora, e, sussurrando per inciso «Scusate la mia erudizione», aggravò la situazione.

Mentre tutto precipitava, il segretario del partito. Scorza, ordinava ai più alti gerarchi di fare un giro propagandistico e di prendere la parola in vari raduni regionali per l’incuorare la gente. Li aveva convocati a palazzo Littorio, e non si erano presentati all’appello Ciano, ammalato, Federzoni e Grandi che già gli aveva detto che non si sarebbe mosso. Tra i presenti alla riunione facevano spicco Bottai, De Bono, Farinacci, Giuriati, Bastianini che intendevano chiedere udienza al duce per prospettargli la gravità dell’ora. Dalla Sicilia si avevano altre notizie gravissime. La base di Augusta era stata abbandonata, e al nemico era aperta la via di Catania dove però si resisteva e dove si erano nascosti gruppi di marinai fuggitivi. Si diceva che a Roma fossero nottetempo arrivati dall’isola alcuni aviatori in mutande.

Con il consenso e la partecipazione di Scorza, gli alti gerarchi andarono a palazzo Venezia per conferire con Mussolini. Un po’ tutti toccarono il tema concordato in precedenza con Bottai, quello di restituire collegialità alle decisioni del regime. Ma non scossero minimamente il duce che via via demoliva le loro argomentazioni. Bottai scrutava la scena per fissarla bene nella memoria, fin dalle prime battute, e affidava le sue osservazioni alle pagine del diario: «Entriamo nell’immensa stanza, tante volte percorsa, dalla soglia al famoso tavolo, caotico e ordinato, dove da anni e anni giacciono nell’identico disordine dieci e dieci piccoli oggetti inutili: gingillini, distintivi, medaglie, un’aquiletta di ceramica, una biglia d’acciaio cromato tra le graffette reggicarte; e intorno, per uno spazio circolare che investe l’enorme finestra sulla piazza e il camino spropositato e gremito di termosifoni, lo stesso disordine fisso, immobile, metodico. Quello strano quadro raffigurante un gatto soriano dagli occhi verdi, appoggiato a uno degli alari del camino, e statuette di vittorie con le alucce stente da artigianato deteriore, e cumuli di libri, e mazzi di spighe con nastri tricolori».

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Sembrava, quello di Bottai, un inventario, come per una resa dei conti. Con tristezza e delusione il gerarca riprendeva le sue annotazioni: «Insomma un disordine che è diventato ordine. Mi sorprendo, mentre "marciamo" verso il tavolo, a guardare tutto ciò; questo "mondo" in cui l’uomo da vent’anni vive e in cui le sue mani hanno impresso una fisionomia, che non può essere senza rapporti col suo mondo interiore, è un piccolo mondo ottocentesco, da rigattiere o da salotto borghese, da gente risalita, tutto intenzioni e allusioni rettoriche. In fondo, mi vien fatto di pensare, si tratta di rimuovere un disordine simile a questo nelle idee, nelle istituzioni, un disordine che è diventato sistema e ha, ormai questo è il punto, la sua logica».

Mussolini, con un atteggiamento da «uccellaccio da preda», si mostrò alquanto interessato alle parole di Bottai, il quale sostenne apertamente l’esigenza di convocare il Gran consiglio. Dialetticamente Bottai disse che non si erano presentati a lui per chiedergli una «diminuzione del suo potere», ma per «condividere» la sua responsabilità, per dare al paese «un comando non meramente personale ma collettivo»; ciò «prevede che tu sia il "primo", ma non il solo dei ministri». Questo doveva valere anche per il Gran consiglio, da richiamare subito «in vita e in azione», così come dovevano essere «ravvivate» le due Camere. In chiusura parlò Mussolini per dire sbrigativamente: «Ebbene, convocherò il Gran consiglio. Diranno che s’è riunito per discutere la capitolazione». Dopo averli congedati investì Scorza chiedendogli con quale autorità quei personaggi gli si erano presentati e rimproverandolo di avergli procurato un pronunciamiento in appena due mesi di segreteria. Reclamava un incontro col genero, ma questi, febbricitante, non potè uscire da casa o non volle farlo.

Col cruccio di dover adunare il Gran consiglio, Mussolini incontrò controvoglia Hitler il 19 luglio a San Fermo. Andava a Feltre, nel Bellunese, che significativamente si trova nei pressi del Piave, come per augurarsi una riscossa. In quello stesso giorno Roma subiva per ventidue minuti il primo bombardamento aereo. Era un caldo lunedì, e proprio il 19 luglio, nel 64 d.C., Nerone aveva dato l’Urbe alle fiamme. Le bombe e i mitragliamenti provocarono gravissimi danni, con morti e feriti, soprattutto nel quartiere popolare di San Lorenzo, dove venne distrutta l’antica basilica. Già a sera, nugoli di romani abbandonavano su camionette o a piedi la città, lungo la Tiburtina, la Tuscolana, la Casilina, l’Appia. I treni non viaggiavano essendo saltati i binari ferroviari. Gli sfollati si dirigevano verso la Sabina, le Marche, il Molise carichi di fagotti che poi abbandonavano lungo il cammino, guadando i fiumi dove i ponti erano stati bombardati, trascorrendo le notti nelle grotte umide. Ancora procedendo a piedi o su

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carri agricoli fuggivano dalle bombe e dalla fame, andavano incontro ad altri tragici eventi militari e ad altre privazioni.

A Roma il papa (la sua veste bianca si macchiò di sangue), il re e la regina, il principe Umberto e Maria José si recarono trepidanti sui luoghi del bombardamento tra le macerie ancora avvolte dal fumo e dalla polvere. Mancava il duce che, appunto, era a colloquio col Führer. L’incontro era stato inutile per entrambi i personaggi e imbarazzante per Mussolini a causa delle critiche che Hitler gli rivolgeva con malacreanza sulle deficienze tecniche e organizzative dell’esercito italiano. Ancora una volta il Führer si era prodotto nei suoi lunghi «sproloqui» che provocavano nel duce un effetto irritante. Hitler aveva tenuto banco per tre ore, e Mussolini raramente era riuscito a inserirsi in quel profluvio di parole, come del resto quasi sempre avveniva in simili colloqui che si svolgevano in tedesco e senza interpreti, secondo l’ostinato volere del Capo italiano. Mussolini tacque anche quanto Hitler gli annunciò che una potentissima «arma segreta» era pronta a entrare in azione, ma poco dopo ne interruppe l’estenuante monologo per dare a sua volta un annuncio che non aveva nulla di rassicu-rante: da Roma gli avevano comunicato che la città era sotto un bombardamento. Accorciò i tempi dell’incontro, e sebbene il generale Ambrosio lo sollecitasse a prospettare all’alleato le difficoltà italiane tali da consigliare uno sganciamento, egli salutò l’ospite dicendogli: «La causa è comune, Führer!».

Tornato a Roma, Mussolini si vide con Vittorio Emanuele per illustrargli i risultati, deludenti, dei colloqui unidirezionali avuti con Hitler. A margine di quell’udienza correvano più voci. Si diceva che il duce gli avesse preannunciato il proposito di operare lo sganciamento per il 15 settembre; che il sovrano gli avesse confermata la piena fiducia con queste parole: «Sono brutti tempi per lei, ma sappia che lei ha un amico in me. E se, per assurda ipotesi, tutti dovessero abbandonarla, io sarei l’ultimo a farlo. So quanto l’Italia e la dinastia le debbono». Questa era la versione di Mussolini, ma il Quirinale ne offriva un’altra secondo la quale il re aveva detto all’aiutante di campo generale Puntoni di essere stato chiaro col duce e di avergli fatto capire che l’unico ostacolo per uscire dal vicolo cieco era lui.

In Italia, con gli anglo-americani in Sicilia, nessuno più credeva nella possibilità d’una ripresa, e si pensava perciò a come liberarsi dai tedeschi. I movimenti clandestini antifascisti, col sostegno dei fuorusciti, intensificarono la loro azione, sia per scuotere le popolazioni, sia per indurre il re a liquidare Mussolini. Forte tuttavia era lo scetticismo nei confronti del sovrano, e non soltanto per ragioni istituzionali da parte di chi cominciava a pensare all’instaurazione d’una repubblica e quindi all’abbattimento della stessa monarchia. Non si poteva sperare in Vittorio Emanuele, e difatti

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circolava una battuta di spirito, in tanta tragedia: «II re soldato? Sì, da più di vent’anni obbedisce a un caporale». Eppure il re rimaneva l’unica ancora di salvezza. Già a metà maggio, quando la Sicilia non era stata ancora invasa, aveva scritto a Mussolini: «Bisognerebbe pensare molto seriamente alla possibile necessità di sganciare le sorti dell’Italia da quelle della Germania». In seno allo stato maggiore generale si preparava la manovra di disimpegno, mentre il re entrava in contatto con il vecchio Bonomi e con Badoglio. Il generale Ambrosio prospettava personalmente al sovrano, senza ottenerne l’adesione, l’opportunità di proclamare una dittatura militare da affidare o al generale Enrico Caviglia o a Badoglio. Poi preparò un piano ancora più ardito che consisteva nel privare il fascismo della direzione della guerra e quindi aprire trattative con gli anglo-americani.

Mussolini dichiarava la penisola in stato di guerra, per cui si vietavano gli esoneri nelle chiamate alle armi e si ordinava lo sgombero delle popolazioni civili dalle zone costiere direttamente minacciate da attacchi e sbarchi nemici. Il generale Ambrosio metteva a punto i piani di sganciamento, compresa un’operazione che prevedeva la cattura di Mussolini. Ed erano trascorsi quattro giorni dallo sbarco in Sicilia. Il re, dopo gli ultimi tentennamenti tra scelta di un ministero politico o militare, si mostrò deciso ad agire, tanto più che il 22 luglio le truppe corazzate americane del generale Patton erano entrate a Palermo.

Il giorno innanzi Farinacci aveva detto a Mussolini che Dino Grandi capeggiava una congiura per deporlo sperando nel sostegno del sovrano, ma che il re, conducendo una sua propria azione, lo avrebbe giocato. Infatti Grandi non era nelle grazie di Vittorio Emanuele il quale, se avesse dovuto scegliere tra i fascisti il successore del duce, avrebbe preferito Ciano.

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V

La convocazione del Gran consiglio era imminente e già circolava il testo dell’ordine del giorno che Grandi intendeva presentare a quell’assise. Scorza ne diede una copia a Mussolini che lo bollò come «vile e inaccettabile». Gli disse di aver intercettato una conversazione telefonica fra Badoglio e Acquarone i quali parlavano di «impacchettare il duce a villa Savoia, al termine di un’udienza col re». Mussolini gli rispose freddamente di non aver mai amato i libri gialli, poi convocò Grandi per discutere preliminarmente con lui sull’ordine del giorno. Nel corso del colloquio, come per trattenere l’oppositore dal compiere gesti insani, gli diede la notizia che aveva appena avuto da Hitler sull’imminente impiego di una risolutiva arma segreta. Dell’ordine del giorno si sarebbe potuto perciò riparlare nella seduta del Gran consiglio.

Da tre anni quel supremo consesso di alti gerarchi non si era più riunito, e la straordinaria convocazione metteva tutti in agitazione, nel partito, nello stato maggiore generale, al Quirinale, a villa Torlonia. Qui donna Rachele, che aveva avuto notizie allarmanti attraverso i canali d’una sua personale polizia parallela, richiamava il duce alla massima severità. Gridava: «Falli arrestare tutti, Benito, falli arrestare prima che la riunione cominci. Non fidarti di Grandi e dei suoi compari. Guardati soprattutto da Galeazzo». Grandi ebbe numerosi colloqui con Bottai e con Ciano che si mostrava scettico sulle possibilità di sommuovere il Consiglio, ma Grandi si diceva certo di ottenere la maggioranza sul suo documento che nel frattempo veniva continuamente modificato. Tra gli altri autorevoli gerarchi, oltre Bottai e Ciano, gli avevano assicurato il sostegno, per una rivolta in piena regola, Federzoni, De Bono. De Vecchi, De Stefani, De Marsico, Bastianini, Alfieri. Si arrivò dunque al momento supremo, alle ore 17 di sabato 24 luglio.

Mussolini entrò nella sala di palazzo Venezia in divisa della milizia poiché la sahariana bianca che portava in quei giorni non gli appariva adatta alla circostanza. Lo accompagnavano il suo segretario De Cesare e Scorza ai quali disse sottovoce: «Andiamo nella trappola!». La tensione era altissima. I congiurati, di alcuni si facevano già i nomi, si scrutavano vicendevolmente e apparivano decisi a tutto. Da quella sala non si doveva uscire senza aver

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aperto un capitolo nuovo nella storia della nazione. Bottai aveva con sé una bomba a mano, Grandi ne aveva due celate nelle tasche della sahariana nera. Per sua esplicita ammissione, Grandi non avrebbe esitato a fare una strage in quella stessa sala per offrire comunque al re il destro di agire. Due bombe le aveva anche Ciano, e le aveva mostrate «con aria alquanto spaccona» a Federzoni, meravigliandosi che non si fosse anche lui «similmente pre-munito». Eppure Federzoni gli diceva di non essere sicuro che i congiurati sarebbero usciti vivi da palazzo Venezia.

Alle 17,15 il duce, apparentemente tranquillo e sicuro di sé, dichiarò aperta la seduta. Avviò i lavori con una relazione particolareggiata ma snervata e stanca che si protrasse per un’ora. Interrotti spesso dalle sue osservazioni, seguirono alcuni interventi che l’un l’altro contrastavano nelle opinioni e nei giudizi. De Bono parlò in difesa dell’esercito attribuendo a Mussolini la scelta sbagliata dei capi militari, mentre Farinacci li trattò sbrigativamente da traditori. Interloquì Bottai sostenendo che alla diatriba sulle responsabilità dei militari avrebbe potuto offrire un ausilio prezioso il generale Ambrosio; non era comunque difficile rendersi conto di quanto fosse ormai impossibile difendersi dall’invasione anglo-americana e come fosse altrettanto impossibile in un consesso con competenza politica evitare un giudizio politico.

Alfine Grandi diede lettura del suo ordine del giorno. Con quel documento si riteneva «necessario l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali» attribuendole agli organi ad esse preposti, a cominciare dalla Corona. Ciò significava procedere all’abolizione della dittatura personale esercitata nel ventennio da Mussolini per tornare, con l’immediata soppressione della Camera dei fasci e delle corporazioni, alla Costituzione e al riconoscimento dei diritti parlamentari. Con il comma successivo si condannava implici-tamente l’operato politico e militare del duce e si rivolgeva a lui stesso l’invito a «pregare» la Maestà del re perché «assuma, con l’effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e dell’aria, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a lui attribuiscono», ciò «per l’onore e la salvezza della patria».

L’ordine del giorno era insomma un abile ben servito a Mussolini, e non tutti gli alti gerarchi ne colsero sulle prime la carica esplosiva. Ma che l’obiettivo fosse senza dubbio il duce, apparve con maggior chiarezza dall’intervento di Grandi che gli si rivolse dicendo: «Che cosa hai fatto nei diciassette anni in cui hai tenuto i tre ministeri militari?». Era Mussolini il responsabile di ogni disastro, non l’esercito: «II popolo italiano fu da te tradito il giorno in cui l’Italia ha cominciato a germanizzare. Ci hai condotto sulla scia di Hitler; hai abbandonato la via di una leale e sincera colla-borazione con l’Inghilterra, e ci hai abbandonato ingolfati in una guerra che

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è contro l’onore, gli interessi e i sentimenti del popolo italiano». Con maggior vigore aggiunse: «Credi ancora di avere la devozione del popolo italiano? La perdesti il giorno che consegnasti l’Italia alla Germania. Ti credi un soldato: lasciaci dire che l’Italia fu rovinata il giorno in cui ti mettesti i galloni di maresciallo. Ci sono già centinaia di migliala di madri che dicono: Mussolini ha assassinato mio figlio!».

Dopo di lui parlò Ciano, e l’iniziale attenzione mostrata da Mussolini per le sue parole si mutò rapidamente in un atteggiamento di rabbia. «Gli occhi del Duce», annotava Federzoni, «lampeggiavano d’ira appena contenuta, e le mascelle fattesi scarne masticavano visibilmente tacite imprecazioni e sinistre promesse contro il genero infedele». Eppure Ciano non faceva altro, ma ora lo faceva in pieno Gran consiglio, che ripetere la sua tesi del tra-dimento tedesco, già ben nota al suocero e anche a Hitler. Il Führer, riaffermava Ciano, aveva scatenato la guerra senza consultare né preavvertire l’alleato. Gli italiani avevano sconsigliato uno scoppio delle ostilità prima del 1943-44, ma i tedeschi, fin dal 1939, «vollero dar fuoco alle polveri anzi tempo, contro ogni patto con noi, sicché le accuse di tradimento che essi ci rivolgono sono false; noi non siamo dei traditori, ma dei traditi».

Farinacci attaccò Ciano, ma poi De Marsico e Federzoni, con i loro interventi di adesione al documento di Grandi, diedero immediatamente al duce la sensazione che per lui il gioco dei dadi più non tornava. Bisognava correre ai ripari o a qualche stratagemma. Ma non propose altro che un rinvio della seduta all’indomani. Grandi saltò su inviperito: «I nostri soldati stanno morendo mentre noi parliamo. Dobbiamo decidere questa notte, e votare». Non ci fu che una sospensione di mezz’ora che servi a Mussolini per raccogliere le idee e a Grandi le firme all’ordine del giorno. Galeazzo gli si avvicinò con la penna in mano. Grandi cercò di fargli capire quanto fosse pericoloso per lui apporre la firma al documento, intorno al quale del resto si era già formata una maggioranza, ma non riuscì a dissuaderlo. Si poteva dire che in quell’attimo Ciano firmasse la propria condanna a morte.

Alla ripresa del dibattito i giochi erano fatti, ma la seduta si protraeva in un continuo discutere che sembrava non aver più fine. C’era chi sosteneva ancora Mussolini, e ci fu anzi Biggini, successore di Bottai al ministero dell’Educazione nazionale, che si mise a stigmatizzare il fatto che nell’ordine del giorno di Grandi non comparisse mai la parola «Duce». Di tanto in tanto la tensione saliva, quando si diffondeva il timore che Mussolini potesse chiamare la milizia e farli imprigionare. Difatti a un certo punto egli stesso aveva esclamato: «Vi lascio parlare liberamente questa notte, e potrei farvi arrestare». Poi aveva soggiunto: «Vedo tra voi gente che mi tradisce», come un Cesare che competesse con Bruto, con Cassio, con

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Casca. Ma non mollava, anzi lanciava minacce: «La frattura tra fascismo e paese poteva essere il risultato di troppo facili fortune economiche di molti gerarchi». E ancora: «Cosa capiterà domani a coloro che si oppongono a me stanotte?». Quindi tornava ad argomentare portando la questione sul piano della propria «dignità personale». Bisognava vedere se il re gli chiedeva la restituzione della delega dei poteri militari; bisognava vedere se egli accettava di «essere decapitato». Ma osservava con soddisfazione che il re gli aveva detto, appena qualche giorno prima, di poter sempre contare sulla sua amicizia e sul suo sostegno. Infine dava una stoccata misteriosa: «E poi, io ho in mano una chiave per risolvere la situazione bellica, ma non vi dirò quale!».

Si era arrivati alle 2 del mattino del 25 luglio, e la discussione si protraeva da nove ore quando fu proprio lui a dire che si doveva votare. Aveva assunto l’espressione di un vecchio bonzo, inerte e irresoluto. Scorza mise ai voti l’ordine del giorno di Grandi che ottenne diciannove «sì»: quello di Grandi, e poi quelli di Ciano, Federzoni, Bottai, De Bono, De Vecchi, De Marsico, Acerbo, Pareschi, Balella, Gottardi, Bignardi, De Stefani, Rossoni, Marinelli. Alfieri, Albini, Bastianini, Cianetti. Lungo il dibattito i ribelli avevano perso il preannunciato voto di Suardo, presidente del Senato, che, astenendosi, si era fermato a metà stada. Si erano schierati con Mussolini, votando contro Grandi, soltanto in sette: Scorza, Polverelli, Biggini, Tringali-Casanova, Frattari, Buffarini Guidi, Galbiati. Appena un voto ebbe l’ordine del giorno di Farinacci, quello del suo presentatore che volle mantenerlo nonostante l’invito di Mussolini a non insistervi, vista la grande maggioranza ottenuta da Grandi. Ma Farinacci puntava ad assumere una posizione autonoma anche in previsione di possibili sviluppi a lui favorevoli soprattutto presso i tedeschi. Scorza invece aveva ritirato il proprio. Il duce, anzi Mussolini, tolse la seduta esclamando: «Avete provocato la crisi del regime!». E Ciano, di rimando, disse a un gerarca a lui vicino, vedendo uscire il suocero con il volto segnato dalla sconfitta: «È un cinghiale ferito».

Il conte Grandi corse all’alba del 25 luglio da Acquarone per informarlo del rivoluzionario voto espresso dal Gran consiglio e per consegnargli il testo dell’ordine del giorno da trasmettere a Vittorio Emanuele. Il sovrano, che aveva finalmente a disposizione quell’appiglio costituzionale, senza il quale diceva di non poter operare alcun cambio di governo, diede il via all’operazione defenestramento: il generale Ambrosio fu avvertito di tenersi pronto a far scattare il piano militare che prevedeva l’arresto di Mussolini; il duca Acquarone informava Badoglio che di lì a poco il re lo avrebbe nominato nuovo capo del governo. Stranamente, a Mussolini sfuggiva l’irreparabilità della situazione. Si gingillava a chiedere pareri sul valore del voto espresso dal Gran consiglio, se era deliberante o solo consultivo.

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Credeva di doversi adattare a cedere al re il comando delle forze armate e di poter restare alla guida del governo. «La cosa più importante», diceva, «è di avere rinforzi dalla Germania». Parlava di un nuovo cambio della guardia che stava lì lì per attuare e che prevedeva la nomina di Bottai alla presidenza della Camera.

Nel primo pomeriggio volle compiere una visita in auto al quartiere bombardato di San Lorenzo, facendosi accompagnare dal capo di stato maggiore della milizia, Galbiati. Era affranto, ma ancora sicuro di sé, incapace di prefigurarsi una soluzione senza appello. Di lui, Longanesi, qualche giorno prima, aveva detto agli amici: «Mussolini regola tutto in rapporto alle sue ambizioni personali: meschine e sconfinate». Se lo era immaginato tra le macerie: «Ci scommetterei che sarebbe felice di un bel bombardamento su Roma. Per potersi ficcare l’elmo in testa e farsi fotografare mentre conforta i feriti, bacia i bambini, ascolta i derelitti, salta agile e audace sulle rovine. Ma sì, è così, ve lo assicuro. Io l’ho in pratica quel genere di persone. Ce ne sono mille come lui in Romagna». Galbiati, che gli sedeva accanto, lo incitava ad arrestare tutti coloro che gli avevano votato contro. «Sono dei pusillanimi», diceva Mussolini. «Se non ci sarà più colui che li ha issati sulle spalle, si sentiranno ben miserabili fra la polvere di tutti i mortali».

Il re gli aveva già fissato l’udienza per le 17 a villa Savoia; aveva firmato il decreto di nomina di Badoglio a capo del governo, e lui, ignaro e già privo di ogni potere, ancora pensava che bastasse rinunciare ai suoi tre portafogli militari. Mussolini era a villa Torlonia, in attesa di recarsi dal re. Donna Rachele gli consigliava di fare qualcosa, di non accettare supinamente il colloquio con Vittorio Emanuele. «È un momento triste come Caporetto», lui rispondeva, «ma possiamo riprenderci. Se il re vuole gli consegno il comando, purché mi dia i poteri di far arrestare i traditori». Andò a trovarlo Scorza per proporgli la nomina di Graziani a capo di stato maggiore generale, e lui gli disse che ne avrebbero riparlato a palazzo Venezia dopo l’udienza reale. Raggiunse quindi in auto villa Savoia. Indossava un comune abito blu, secondo una richiesta del re che invece lo ricevette in un’inappuntabile divisa di primo maresciallo dell’impero. «Caro duce», gli disse il sovrano, «le cose non vanno più. L’Italia è in tocchi! I soldati non vogliono più battersi. Gli alpini cantano una canzone nella quale dicono che non vogliono più fare la guerra per conto di Mussolini». Definì «tremendo» il voto del Gran consiglio; con freddezza gli disse che lui era ormai «l’uomo più odiato d’Italia». E aggiunse: «Voi non potete contare più su un solo amico. Uno solo vi è rimasto, io». Gli garantiva l’incolumità personale e gli annunciava che «l’uomo del momento» era Badoglio. «Poi fra sei mesi vedremo». Mussolini gli rispose brevemente: «Voi prendete una decisione

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di estrema gravità. Se i soldati, alpini o no, non vogliono più fare la guerra per me, non ha importanza, purché siano disposti a farla per voi. Questa crisi sarà considerata un trionfo del binomio Churchill-Stalin». Il colloquio durò una ventina di minuti. Il re «era livido e sembrava ancora più piccolo, quasi rattrappito», come raccontava lo stesso Mussolini. Accompagnò in silenzio il suo ex primo ministro sulla soglia della villa.

All’uscita si avvicinò a Mussolini il capitano dei carabinieri Vigneri il quale sull’«attenti» gli disse: «Duce, abbiamo saputo che ci sono dei malintenzionati. Ho l’ordine di scortarvi». «Non occorre, ho la mia scorta». «No, Duce, è necessario che vi scorti io». «Beh, se proprio è necessario, venite allora nella mia macchina». «No, Duce, siete voi che dovete venire con me, per maggior sicurezza, nell’autoambulanza». «Ma no, è una esagerazione, non lo farò mai». «È un ordine. Duce». E così dicendo il capitano lo sospinse lestamente per i gomiti verso l’autoambulanza che aveva lo sportello aperto, ed egli, arrendendosi, vi salì, senza sospettare che quella era già la sua prigione. Il colpo di Stato del re era compiuto.

Poco prima di mezzanotte di quel 25 luglio la radio aveva dato la notizia della caduta del fascismo. Aveva annunciato le dimissioni del cavalier Benito Mussolini, accettate dal re, e la nomina del cavalier Pietro Badoglio a nuovo capo del governo. «La guerra continua», si proclamava nei messaggi del sovrano e del maresciallo, secondo la formula dettata da Vittorio Emanuele Orlando, ma che la guerra continuasse sembrava un fatto secon-dario rispetto alla fine della dittatura. Era domenica e Roma si scosse all’improvviso. Si risvegliarono anche le altre città, con le popolazioni che si riversavano nelle strade come fiumi impetuosi, al grido di «Libertà!». Niente più oscuramenti, niente più restrizioni e tessere del pane. Una giovane madre, nelle strade della capitale, aveva in braccio un bambino in fasce, e innalzandolo gridava: «Voglio che respiri quest’aria anche lui». Alcuni giovani invasero la sala stampa di palazzo Marignoli, in piazza San Silvestro, dove risiedevano gli uffici di corrispondenza dei giornali. Era considerata la fucina delle notizie false del regime, e fu messa a soqquadro. Si fracassarono macchine da scrivere, telefoni e scrivanie.

Dovunque si stracciavano i gagliardetti del regime, si abbattevano le aquile del ventennio e i busti del duce. Ma molti piangevano, soprattutto i giovani che erano venuti su col regime. La notizia della caduta di Mussolini, scriveva Giorgio Soavi rispecchiando i sentimenti di buona parte della sua generazione, «mi fece paura e mi dispiacque». «Mi venne da piangere perché sentii un terremoto dentro di me. Noi non sapevamo altro e ci sembrava che tutto il paese fosse con lui».

Si continuava a ignorare, compresa donna Rachele, la sorte di Mussolini. Era morto? Era vivo? E se era vivo, dove lo nascondevano? Lo avevano

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tenuto prigioniero prima nella caserma di via Quintino Sella, poi in quella di via Legnano, senza nemmeno uno spazzolino da denti. Badoglio gli aveva fatto pervenire una lettera per comunicargli che, «con i dovuti riguardi», lo avrebbero condotto in una località da lui stesso indicata. Mussolini disse che avrebbe preferito la Rocca delle Caminate. Da sempre amava rifugiarsi in quel luogo, come così Hitler si ritirava a Berchtesgaden. Ma i carcerieri fecero di testa propria, e diedero inizio alla sua odissea in ceppi, trasportandolo a Ponza sotto la sorveglianza del questore Polito. Avevano perfino pensato di toglierselo di torno facendolo precipitare in mare. «Se le capita», aveva detto Badoglio a Polito, «una spintarella potrebbe risolvere tutto». Durante il trasbordo dalla corvetta Persefone, apparve per la prima volta in pubblico da prigioniero suscitando una vivissima curiosità nella gente. Proprio su quell’isola egli aveva fatto esiliare il ras abissino Immirù, il suo attentatore Zaniboni e Pietro Nenni. Ora il capo socialista lo scrutava con un cannocchiale, e poi prese alcuni appunti sulla singolare coincidenza. «Scherzi del destino», scrisse. «Trent’anni fa eravamo in carcere assieme, legati da un’amicizia che pareva dover sfidare il tempo e le tempeste della vita, basata come era sul comune disprezzo della società borghese e della monarchia. Oggi eccoci entrambi confinati nella stessa isola: io per decisione sua, egli per decisione del re e delle camarille di Corte, militari e finanziarie che si sono servite di lui contro di noi e contro il popolo e che oggi di lui si disfano nella speranza di sopravvivere al crollo del fascismo».

A Ponza, Mussolini il 29 luglio «festeggiò» con due pesche il suo sessantesimo compleanno. Fu assalito da fortissimi dolori duodenali, tanto che si temette per la sua vita. Leggeva la Vita di Cristo del canonico Ricciotti e ne sottolineò una riga: «Gesù uscì solo, non gli era d’appresso neppure un amico». Trascorsi dieci giorni fu trasferito, a bordo di un cacciatorpediniere, sull’isola sarda della Maddalena. L’ammiraglio Maugeri gli dava qualche notizia fresca, gli parlava della fuga di Farinacci in Germania. Mussolini voleva sapere qualcosa di più sugli ultimi avvenimenti, sullo scioglimento del Pnf e della Camera dei fasci, sulla chiusura delle Confederazioni sindacali, l’incameramento della milizia nell’esercito, la nomina d’una commissione per colpire gli illeciti arricchimenti dei grandi gerarchi. Anche l’ammiraglio voleva togliersi qualche curiosità. Gli chiedeva come mai il popolo non avesse minimamente reagito al colpo di Stato del re. E lui rispondeva secco: «Gli italiani non hanno carattere!». Parlando dell’ultima seduta del Gran consiglio definiva «ambiguo» il comportamento di Scorza e «ignobile» quello del genero.

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VI

A Roma, dal 26 luglio, governava Badoglio. Il re aveva preferito lui scartando Caviglia che gli era stato suggerito da Grandi. Il maresciallo Badoglio aveva settantadue anni e si era ritirato sotto la tenda, in realtà tardivamente, cioè dalla fine del ‘40, in coincidenza con le sconfìtte sul fronte greco. Il re gli aveva ora affidato il compito di avviare il distacco dalla Germania e di stabilire contatti con gli anglo-americani per uscire il più onorevolmente possibile dalla guerra. L’impresa era ardua, e peraltro Badoglio la condusse con qualche incertezza. Mentre dai confini settentrio-nali penetravano facilmente in Italia nuove divisioni tedesche, agguerrite d’armi e d’odio, gli anglo-americani si mostravano irremovibili col nuovo governo italiano, dal quale reclamavano una resa incondizionata, né più né meno in linea con quanto avevano deciso Roosevelt e Churchill nella loro conferenza di Casablanca. Si arrivò così all’armistizio dell’8 settembre nelle peggiori condizioni. Il governo Badoglio, il re e l’intera famiglia reale poterono sventare il pericolo di essere catturati dai tedeschi fuggendo da Roma. La loro fuga verso il sud consentì di conservare una linea di legittima continuità allo Stato italiano, ma lasciò Roma e le regioni del centro-nord nella più assoluta anarchia e nelle mani delle forze naziste, mentre si estendeva il dissolvimento dell’esercito italiano. In pratica, l’Italia si trovava spezzata in due, invasa da due eserciti nemici: quello anglo-americano al sud, quello tedesco al centro-nord.

Mussolini continuava la sua odissea in ceppi e veniva trasportato dall’isola della Maddalena dove era stato trattenuto per tre settimane, in un rifugio di Campo Imperatore sul Gran Sasso. A Roma, nei quarantacinque giorni badogliani, i cittadini apprendevano i particolari piccanti della sua avventura amorosa con Claretta Petacci. Di quella vicenda gli italiani non avevano avuto che un vago sentore; molti non ci credevano, ma ora «II Popolo di Roma», la cui direzione era stata assunta da Corrado Alvaro, rovesciava su di loro una caterva di lettere. Erano i biglietti che per anni si erano scritti il duce e la favorita. Agli occhi della gente apparve un volto nuovo di Mussolini, l’uomo forte del regime che invece faceva il languoroso con Claretta e che siglava le sue lettere d’amore con un diminutivo da collegiale dell’Ottocento, Ben.

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Non avevano invece saputo proprio nulla d’un altro dei suoi grandi e resistenti amori, quello con Angela Curti Cucciati, la milanese che in tutti quegli anni era riuscita a mantenere viva la loro relazione. Mussolini mostrava affetto anche per la giovane Elena, nata nel 1923, e che, essendo Angela ancora in rapporti col marito, poteva e non poteva essere il frutto della loro passione clandestina, sebbene certe somiglianze fisiche con il duce facessero propendere per il sì. Per molti anni Angela era rimasta a Milano, ma poi, nel 1942, essendo la città lombarda sotto i bombardamenti aerei, il duce la volle a Roma. La fece sistemare provvisoriamente in un appartamento di via Nicolo Porpora, nei pressi dei Parioli, e poi le acquistò un paio di stanze in via Alessandro Kircker, nei dintorni. Angela, come Claretta, aveva il privilegio di essere ospitata in palazzo Venezia nell’esclusiva sala dello Zodiaco, e lui, come andava a far visita a Claretta nella villa della Camilluccia, così si recava di tanto in tanto in casa di Angela. Era lieto di non essere riconosciuto dal portiere, o almeno lo credeva, entrando di soppiatto nel portone col bavero rialzato e il cappello calato sugli occhi. Nei giorni bui del complotto che portò al voto del 25 luglio, anche Angela metteva in guardia il duce, consigliandolo di liquidare i Grandi, i Ciano, i Bottai. Un giorno gli inviò un biglietto anonimo: «Voi avete accanto due o tre gerarchi che tramano qualcosa di losco. Dalla tribuna-stampa di Montecitorio ho seguito la seduta di ieri e ho osservato l’atteggiamento impenetrabile del presidente Grandi. I suoi applausi erano di convenienza. È stato troppo tempo a Londra: diffidatene». Il duce aveva stima per Angela, tanto che, nel pomeriggio del 24 luglio, prima di recarsi alla seduta del Gran consiglio, si intrattenne con lei al telefono per alcuni minuti, volendo conoscere le sue idee sui possibili sviluppi della situazione.

Mussolini si trovava ora imprigionato a oltre duemila metri di quota. Da alcuni giorni i guardiani gli facilitavano l’esistenza, gli davano qualche giornale, gli facevano sentire la radio, gli passavano un vitto migliore. Questo trattamento lo induceva a temere il peggio, poiché sapeva che con i condannati a morte i carcerieri si mostrano più indulgenti. Poi si tranquilliz-zò sulla sua sorte avendo appreso dalla radio che una clausola dell’armistizio prevedeva la sua consegna, vivo, agli angloamericani. Non immaginava però quanto nella Roma badogliana fossero incerti su cosa fare di lui, e si chiedevano se non fosse il caso di sopprimerlo per non lasciarlo cadere nelle mani dei tedeschi che cercavano in ogni modo di liberarlo con un colpo a sorpresa. Un capitano delle SS, Skorzeny, per incarico personale di Hitler, aveva già fatto qualche tentativo alla Maddalena, ma l’impresa non gli era riuscita. Ora ritentava sul Gran Sasso con alcuni alianti, e nel pomeriggio del 14 settembre riuscì a prelevare con una «cicogna» il prigioniero sorpreso da tanto ardire quanto apparivano smarriti i carabinieri

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di guardia. Mussolini era libero da Badoglio, ma già volava verso un carceriere più severo. L’apparentemente impavida azione di Skorzeny non aveva incontrato sul Gran Sasso alcuna resistenza armata poiché i carabinieri avevano ricevuto l’ordine di lasciar fare, un ordine emesso dal generale Roatta. Tant’è che, al momento della cattura avvenuta senza sparare un colpo di fucile, un ufficiale italiano, porgendo un bicchiere di vino rosso a Skorzeny, brindò in suo onore dicendo: «Al vincitore!».

Sulla «cicogna» Skorzeny guardava il duce, e poi annotò le sue impressioni. «Mi sembrava affetto da una grave malattia». La sensazione era rafforzata dal fatto che «egli portava una barba non rasata da tre giorni», ma gli occhi, «neri e ardenti, erano sempre quelli del dittatore». Arrivarono a Pratica di Mare e di lì, a bordo di un Heinkel, raggiunsero Vienna. Hitler lo attendeva al Quartier generale di Rastenburg. Aveva già fatto emanare un comunicato di vittoria: «Reparti di paracadutisti e di truppe di sicurezza, unitamente ad elementi delle SS, hanno oggi condotto a termine un’operazione per liberare il Duce che era tenuto prigioniero dalla cricca dei traditori. L’impresa è riuscita. Il Duce si trova in libertà. In tal modo è stata sventata la consegna agli anglo-americani progettata dal governo Badoglio».

Il Führer era eccitato, raggiante; sul volto gli si leggeva una immensa soddisfazione. Aveva accanto a sé Vittorio Mussolini, che era già arrivato a Rastenburg. Stringendogli la mano con calore gli disse: «Oggi è un grande giorno per il popolo tedesco e per gli italiani d’onore». Vittorio fissò sulla carta il momento dell’incontro: «Scese mio padre dall’aereo accennando un sorriso, salutando romanamente. Sul capo un cappello nero a cencio. Il volto pallido e l’aspetto malato. Era magro e stanco. Provai un profondo sentimento di pena e anche d’ira. Quarantacinque giorni di doloroso calvario».

In Baviera era riunita la famiglia Mussolini. C’era anche Galeazzo che, insieme a Edda, era caduto in un tranello dei tedeschi. A Roma avevano fatto credere ai coniugi Ciano che li avrebbero condotti in volo in Spagna, dove intendevano rifugiarsi, e invece li avevano trascinati in Germania, come era naturale attendersi. Donna Rachele e i figli, internati dai badogliani alla Rocca delle Caminate, erano stati liberati da reparti armati tedeschi e quindi a loro volta portati a Monaco di Baviera. I Mussolini e i Ciano erano ospitati in uno stupendo edificio neoclassico, in cui risultava per contrasto la loro condizione di sfollati, ospiti di un padrone di cui non conoscevano le reali intenzioni, ma dal quale c’era tutto da temere.

Si incontravano in silenzio in una grande sala, fra stucchi stupendi e mobili antichi, alte finestre, lampadari immensi al soffitto, foschi quadri fiamminghi alle pareti. Vittorio guardava il padre, seduto a capotavola, e la sera prendeva appunti: «Papà vestiva un abito borghese scuro, il nodo della

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sua cravatta era stato fatto in fretta e senza riguardi. Aveva una finestra alle spalle; il giuoco della luce velava i suoi lineamenti che tuttavia apparivano alterati dalla fatica e dal dolore. Era dimagrito, sofferente; soltanto i suoi occhi, profondi e imperiosi, avevano conservato un po’ della loro forza». Erano alla minestra. «Papà ne prese appena qualche cucchiaio, senza voglia. Alla sua destra, mio cognato Galeazzo conservava il suo abituale contegno superiore e distaccato che indispettiva mia madre».

Ciano manteneva intatto il suo aplomb; il suo abito grigio non faceva una grinza, un candido fazzoletto di seta si affacciava al taschino della giacca. Mussolini invece, sebbene il suo abito fosse nuovo, aveva un’aria dimessa di piccolo maestro rurale. Era arrivato in Baviera in condizioni pietose, e subito Rachele gli aveva fatto fare un bagno. Vedendo i buchi delle calze e il sudiciume delle mutande sormontate da un bottone che sarebbe andato grande a un cappotto, gli gridò: «Ma dove le hai trovate?», ed egli debolmente rispose: «Me le ha date un marinaio mentre mi portavano a Ponza».

I tedeschi trovavano strano che suocero e genero, nonostante gli eventi traumatici del 25 luglio, potessero ancora convivere l’uno accanto all’altro. Si aspettavano ben poco da gente simile, e perciò in un primo tempo avevano pensato di affidare a Farinacci l’incarico di ricostituire al nord d’Italia uno Stato fascista. A ragion veduta Farinacci era rapidamente corso in Germania dopo il voto del 25 luglio, ponendosi a disposizione del Führer, forte di essersi differenziato da tutti gli altri gerarchi con un proprio ordine del giorno. Ma Hitler volle ancora una volta puntare su Mussolini di cui si fidava più d’ogni altro capo fascista.

All’indomani dell’armistizio. Roma, dopo un’accanita resistenza dell’esercito e del popolo contro preponderanti forze tedesche, aveva dovuto aprirsi al nuovo nemico. I tedeschi furono ovunque e immediatamente spietati nelle repressioni e nelle rappresaglie. A Marzabotto sterminarono più di milleottocento civili rastrellati nei dintorni. A Fornelli, nei pressi di Isernia, impiccarono il sindaco e altri cinque cittadini che si erano rifiutati di fornire uomini, carri e cavalli alle esauste truppe tedesche. A Cefalonia trucidarono i cinquemila militari superstiti della divisione Acqui che aveva strenuamente resistito ai loro attacchi. Adriano Vitali ne condensava il ricordo in alcuni versi: «Cefalonia / lago di sangue / il sangue degli eroi non va perduto / montagna di vergogna / la vergogna nessuno la cancella».

Si era formato a Roma un comitato di antifascisti che emise il giorno stesso un proclama: «Nel momento in cui il nazismo tenta di restaurare in Roma e in Italia il suo alleato fascista, i partiti antifascisti si costituiscono in Comitato di Liberazione Nazionale, per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza e per riconquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso

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delle libere nazioni». Era questo una sorta di governo autonomo popolare che, a distanza, si opponeva a quello badogliano di Brindisi. Vi facevano parte esponenti della destra e della sinistra, come De Gasperi per i democristiani, Nenni per i socialisti, Scoccimarro per i comunisti. La Malfa per il Partito d’Azione, Alessandro Casati per i liberali, Ruini per la Democrazia del lavoro. Gli antifascisti che dagli esilii o dalle prigionie erano tornati nella capitale e che erano dovuti passare alla clandestinità, venivano ospitati in parrocchie e in conventi. Nelle stanze di San Giovanni in Laterano si riunivano Nenni, Saragat, De Gasperi, Bonomi, Ruini, Antonio Segni, a preparar piani, a discutere sul futuro del paese.

Il giorno 18 di quel catastrofico settembre, Mussolini potè nuovamente parlare al pubblico, ma lo faceva dal microfono di radio Monaco, un’emittente installata in un vagone ferroviario di Rastenburg, direttamente controllata dal Quartier generale hitleriano. Si erano già alternati allo stesso microfono le voci di Vittorio Mussolini, di Farinacci, di Pavolini, di Preziosi, scagliandosi contro i «traditori del fascismo». Pavolini paragonava l’armistizio a un harakiri; Farinacci, con la speranza di capeggiarla, preannunciava la costituzione di una repubblica fascista che sarebbe rimasta al fianco della Germania per proseguire la guerra fino alla riscossa.

Similmente nel regno del sud, a Bari, si era organizzata una campagna radiofonica, ma di (un’altro tenore. Si ritrovarono in molti a lavorare per una nuova Italia, Antonio Piccone Stella, Mario Soldati, Leo Longanesi, Alba De Cèspedes, Agostino Degli Espinosa, Giorgio Spini, Vittore Fiore, Oronzo Valentini. Poi si cominciò a trasmettere il nuovo verbo da Napoli, con lo stesso Piccone Stella e quindi con Antonio Ghirelli, Giuseppe Patroni Griffi, Maurizio Barendson, Luigi Compagnone, Giorgio Napolitano.

«Dopo un lungo silenzio, ecco che nuovamente vi giunge la mia voce e sono sicuro che voi la riconoscete», diceva Mussolini in quel suo primo discorso dal Reich. «Comincio dal 25 luglio», aggiunse, «giorno in cui si verificò la più incredibile di tutte le avventure della mia vita avventurosa». Ahi, quel colloquio col re a villa Savoia! «È un fatto unico nella storia che un uomo che per venti anni ha servito un re con lealtà assoluta, dico assoluta, sia fatto arrestare sulla soglia della casa privata di un re, sia stato costretto a salire su un’autoambulanza della Croce Rossa sotto il pretesto di salvarlo da una congiura e sia stato condotto a una velocità vertiginosa da una caserma di carabinieri all’altra». Attribuì ogni responsabilità del colpo di Stato a casa Savoia con la complicità di «generali imbelli e imboscati» e di «invigliacchiti» elementi del fascismo. Si richiamava ai princìpi repubblicani, nel nome di Giuseppe Mazzini, e incoraggiava gli italiani a riprendere le armi al fianco della Germania, a preparare la riorganizzazione delle forze armate attorno alla milizia, a eliminare i traditori, ad annientare

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le plutocrazie parassitarle. E concludeva: «Contadini, operai e piccoli impiegati! Lo Stato che uscirà da questo immane travaglio sarà il vostro. Viva l’Italia! Viva il Partito Fascista Repubblicano!».

Era già nata, se non ancora formalmente, la repubblica sociale, e il progetto era stato al centro degli incontri fra lui e Hitler. Come prima tappa in patria, il duce scelse la Rocca delle Caminate dove giunse il 23 settembre attorniato da un nugolo di soldati nazisti e controllato dal generale delle SS, Wolff, in veste di comandante supremo della polizia tedesca nell’Italia della repubblica sociale che divenne subito l’Italia repubblichina per merito di Umberto Calosso che aveva tratto il termine «repubblichini» dalle opere del suo conterraneo Vittorio Alfieri di cui era un attento studioso. Mussolini tenne lì la prima seduta del suo nuovo Consiglio dei ministri. Poco più di un mese dopo il Consiglio si riunì per la seconda volta, e il governo si era già trasferito in una cittadina sul Garda, a Gargnano. Mussolini sarebbe voluto tornare a Roma, ma i tedeschi bocciarono fermamente la sua richiesta, e gli imposero di risiedere al nord sulle rive di quel lago, per averlo più a portata di mano. In un primo tempo a Gargnano aveva stabilito in uno splendido edificio ottocentesco un po’ periferico, che apparteneva ai Feltrinelli, sia la sua abitazione privata sia gli uffici del suo minuscolo Quartier generale. Poi trasferì gli uffici nella villa delle Orsoline, al centro dell’abitato, sicché villa Feltrinelli fu ironicamente chiamata villa Torlonia, mentre alla villa delle Orsoline spettava la denominazione di palazzo Venezia. I ministeri furono disseminati in vari luoghi della zona lacustre, fra gli ulivi dannunziani, mentre Salò, finta capitale, diede il nome all’effimera repubblichetta del tra-monto fascista, ospitando il ministero degli Esteri e il Minculpop di Mezzasoma il quale, già nel nome, portava il segno della diminuzione che colpiva tutti.

I fascisti repubblichini si riunirono per la prima volta a congresso nel novembre, a Verona, ed emanarono un documento programmatico cui diedero il nome di «Manifesto di Verona». Non vollero chiamare congresso quell’assemblea, e prescelsero una denominazione più militaresca, quella di rapporto nazionale che si trasformò in alta corte di giustizia per la violenza con cui i convenuti reclamavano l’immediata fucilazione di Ciano. Il «Manifesto» era stato accuratamente redatto da Mussolini sul Garda, con l’ausilio di Pavolini e di un antico adoratore di Lenin, Bombacci. Il vecchio Bombacci, seguendo Mussolini a Salò, gli aveva detto: «Duce! ora possiamo costituire i soviet in Italia». Con i diciotto punti di quel documento si cercava infatti di tornare alle radici sansepolcriste del fascismo che si riteneva affondassero nel socialismo o almeno in una politica sociale sensibile alle esigenze delle masse popolari.

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Le truppe inglesi delI’VIII armata avevano attraversato il 3 settembre lo stretto di Messina, invadendo Reggio Calabria. Di lì a qualche giorno i soldati della V armata americana sbarcarono a Salerno, e in breve le due forze si ricongiunsero. Al termine di durissimi combattimenti gli alleati entrarono in Napoli la cui popolazione si era orgogliosamente ribellata al dominio nazista. Poi la loro avanzata verso Roma fu bloccata sulla linea «Gustav», a Cassino, in un inverno piovoso, per sei mesi, fino al maggio successivo, quando gli alleati, che nel frattempo erano sbarcati ad Anzio, riuscirono a snidare dalla zona i tedeschi e a inseguirli oltre Roma. Nel dicembre gli italiani, che avevano potuto costituire un piccolo Corpo volontario nazionale, si erano impegnati nella loro prima azione contro i tedeschi combattendo tra le file della V armata nella battaglia di Monte Lungo, presso Mignano, mentre su una balza del terreno era apparsa la figura del principe Umberto.

Il feldmaresciallo Kesseiring pretendeva una difesa della valle del Liri «spinta fino al fanatismo» per dissanguare il nemico, ma tutto fu inutile sotto la valanga di sempre nuove forze anglo-americane. I tedeschi in rotta, affamati e stracciati, si ritiravano lentamente, ma inesorabilmente sebbene dicessero sempre di andare «Avanti! Avanti!» come per illudere se stessi. Si ritiravano e distruggevano, facendo saltare ponti e linee ferroviarie; con una motrice elettrica, paurosamente fornita d’un gancio, e che procedeva all’indietro come un immenso gambero metallico, strappavano a una a una le traversine dei binari per renderli inservibili all’esercito americano che sopravveniva inarrestabile. Erano costretti a rubare il pane ai contadini, a depredarli di tutto, portavano via pecore e galline, frugavano ovunque in cerca di cibo.

Ai primi di giugno, da Berlino, il Führer ordinava al feldmaresciallo di abbandonare Roma senza combattervi, mentre Mussolini avrebbe voluto che la città fosse difesa strada per strada: «Perché mai i romani dovrebbero essere trattati meglio degli abitanti di Cassino?». La sera del 3 giugno al teatro dell’Opera si rappresentava Un ballo in maschera, con Beniamino Gigli tenore, mentre i romani, diceva il colonnello delle SS, Dollmann, già si preparavano «a gettarsi allegramente ai piedi dei loro liberatori». Ventiquattro ore più tardi i carri armati americani penetravano nella capitale e si addossavano al Colosseo che i tedeschi avevano utilizzato come magazzino di raccolta per il materiale dei loro paracadutisti.

Al mattino del 5 giugno il generale Clark, avendo per battistrada un «ragazzino» in bicicletta, raggiunse in piedi su una jeep il Campidoglio suscitando l’entusiasmo della folla in quella stessa piazza Venezia che era stata l’epicentro del mito mussoliniano. Si cantò, si ballò nelle strade tutto il giorno e tutta la notte. In un lampo s’impose a un popolo intero un frenetico

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ritmo musicale che divenne il simbolo della libertà riconquistata, il boogie-woogie. Con quella musica giovane, i soldati americani non sconfiggevano soltanto Hitler e Mussolini, ma anche Verdi, il cui Ballo, sebbene libertario, apparve d’un tratto come l’immagine pietrificata del vecchio mondo.

Le vicende sulla costa bresciana del lago di Garda oscillavano fra la tragedia, la farsa e il vaudeville. Tutto si svolgeva come in un melodramma, ricco di sfaccettature. Mussolini era arrivato a Gargnano 1’8 ottobre, e su incarico di Hitler aveva assunto le vesti di capo di Stato. Il suo territorio era circoscritto all’Italia centro-settentrionale, ma su di esso gravava il pericolo che i tedeschi si annettessero da un momento all’altro il Trentino-Alto Adige, la Venezia Giulia, il Veneto. Goebbels guardava al Veneto con tanta ingordigia da dire: «Non vorrei perdere il boccone migliore». Il suo era un timore eccessivo perché già di per se stessa la massiccia presenza di truppe tedesche in Italia costituiva possesso oltre che occupazione militare.

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VII

A Salò si chiedevano chi fosse la «prima donna» della repubblichetta gardesana, Claretta o Rachele? La Petacci, trentunenne, era arrivata sul lago prima della moglie legittima, alloggiando nella principesca villa Fiordaliso a Gardone. Anche Edda era sul posto, e stringeva d’assedio il padre nel tentativo di salvare la vita a Galeazzo, già rinchiuso a Verona nel carcere degli Scalzi e in attesa di essere processato per tradimento. A ogni contatto fra questi personaggi scoppiava una tempesta. «Galeazzo merita solo sputi in faccia», gridava Rachele alla figlia e al marito. Non meno doloroso per Rachele era di sapere che Benito anche su quel lago, e in giorni così tristi, aveva accanto a sé la giovane Claretta. Ne era furiosa. E una mattina volle affrontare la rivale, per urlarle in faccia il suo disprezzo. La moglie difendeva i propri diritti; ma anche l’amante ne aveva: «Lo amo e sono riamata», gridava Claretta. Disperata Rachele aveva divisato di ingerire un veleno, ma poi aveva rinunciato al progetto suicida, soltanto per non dar tre-gua all’avversaria.

Entrambe avevano però in comune un’altra pericolosa concorrente, quella Elena Curti, figlia della più duratura amica del duce. Elena era un’attraente ventenne dai capelli rossi. Sia Rachele sia Claretta sospettavano che la ragazza fosse la nuova amante di lui, e come Rachele, gonfia di gelosia, aveva affrontato Claretta, così Claretta, non meno rabbiosa, si accapigliò con Elena. Se i loro sospetti fossero stati fondati, si doveva parlare d’un amore incestuoso. La rossa era a Gargnano, effettivamente attratta dal fascino del duce, di cui sapeva di essere assai probabilmente figlia. Aveva trovato un impiego presso il nuovo segretario del partito, Pavolini, ma ogni giorno nelle prime ore del pomeriggio si recava nella villa delle Orsoline, dove l’attendeva Mussolini. In un angolo della stanza di lavoro, il duce, sprofondato in una poltrona, ascoltava nel dormiveglia la lettura dei giornali che la ragazza gli faceva con attenzione e intelligenza. La lettura era inframmezzata dal racconto degli ultimi pettegolezzi di Palazzo, e spesso Mussolini prestava più orecchio alla narrazione degli intrighi lacustri che alla cronaca degli eventi della politica e della guerra. La piacevole consuetudine fu un giorno bruscamente interrotta, ed Elena non potè più

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incontrarsi con lui, in seguito a una proibizione di Claretta che, ingelosita, gli aveva imposto di tenere lontana la giovane e pericolosa lettrice.

A Salò più che far politica si intrigava. Mussolini aveva ben pochi margini di manovra, e, a sentir Edda, egli avrebbe voluto ritirarsi. Si era però visto costretto ad accettare quell’ultima avventura sotto le minacce dei tedeschi che non avrebbero esitato a vendicarsi brutalmente, anche con l’impiego dei gas asfissianti, contro i traditori italiani. Si era fatta più forte l’influenza di Rachele che dominava la scena con una sua polizia segreta personale. Vittorio si era considerevolmente avvicinato al padre, e gli faceva quasi da attendente. Essi parlavano a lungo tra loro, cosa che non avevano mai fatto prima. Mussolini era in vena di confidenze, e un giorno il figlio gli chiese: «Ma la dicesti davvero quella frase al re: "Maestà, vi porto l’Italia di Vittorio Veneto"?». «Devo dirti la verità, no, mai. È un’invenzione storica a posteriori».

Era chiaro come Mussolini vivesse e governasse in condizioni di semilibertà. Tutti ne approfittavano in una sarabanda di macchinazioni. Il duce non poteva riporre fiducia in nessuno, a cominciare da coloro, ministri e gerarchi, che gli erano più vicini per dovere di funzioni. Come faceva a fidarsi di Graziani, nominato ministro della Difesa e capo di stato maggiore generale? Quella nomina per Bottai, dal suo rifugio romano di palazzo Sciarra, appariva come un capolavoro della «perfidia» mussoliniana: «L’uomo gettato ad bestias, proclamato in Consiglio dei ministri responsabile dei disastri africani, accusato di viltà personale, messo sotto inchiesta, minacciato di fucilazione, può oggi fare l’ufficio dell’antibadoglio». E gli altri? Roberto Farinacci e Giovanni Preziosi erano in combutta con le SS. Che dire infine di quel mistificatore di Buffarini Guidi, sleale, grasso e bolso? Era tanto infido, con l’intreccio delle sue relazioni che comprendevano simultaneamente Rachele e Claretta, e così servo dei tedeschi, che Mussolini decise poi di licenziarlo da suo ministro degli Interni. Preziosi, sempre più antisemita, inviava a Goebbels memoriali su Mussolini e sul suo entourage. Il ministro della propaganda nazista definiva quei memoriali «molto scoraggianti» e aggiungeva che «a dispetto dei disastri subiti, il Duce non ha appreso nulla; si circonda ancora di traditori, antichi massoni o filogiudei, che lo consigliano in modo assolutamente errato». Eppure Mussolini era strettamente sorvegliato dai tedeschi i quali gli avevano messo alle calcagna due ufficiali del loro stato maggiore, il colonnello Jandl e il capitano Hoppe. I collegamenti telefonici tra villa delle Orsoline, villa Feltrinelli e il mondo esterno erano tenuti sotto controllo da una centralina delle SS.

Mussolini, sconfortato, inviò Vittorio come suo emissario a Berlino per protestare con Ribbentrop. Una situazione di così umiliante sudditanza gli

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era insostenibile. I tedeschi non avevano soltanto l’alta direzione politica e militare di quanto avveniva lassù, ma si arrogavano il diritto di intervenire anche in questioni in cui era indiscussa la discrezionalità degli organismi repubblicani di Salò. Nominavano o rimuovevano le autorità civili; impone-vano la loro volontà sulla stampa; alle riunioni dei direttori dei giornali del Nord convocati dal ministro Mezzasoma, partecipavano gli ufficiali della «Propaganda Staffel», l’organismo militare germanico di censura; tenevano sotto controllo l’intera organizzazione giornalistica di Salò, assetti editoriali, fornitura della carta, tirature, aree di diffusione; e incredibile a dirsi, la «Propaganda Staffel» esercitava un’insolente censura fin sugli articoli del duce. Insomma come Pierre Lavai a Vichy, Mussolini a Salò era ridotto a organo esecutivo del Reich, a strumento nelle mani di Hitler.

Vittorio, sempre per incarico del padre, «amareggiato e depresso», s’incontrava a Berlino con Anfuso ch’era l’ambasciatore in Germania della Repubblica sociale. Recava lettere di Mussolini, che Anfuso avrebbe dovuto consegnare a Hitler, nelle quali si denunziavano «gli arbitri dei Commissari Supremi tedeschi, gli ostacoli opposti alle amministrazioni italiane; l’adozione di diciture in italiano e tedesco, e in Alto Adige delle sole diciture tedesche; la sostituzione di funzionari italiani con funzionari tedeschi; l’indiscriminata occupazione da parte della Wehrmacht; le requisizioni esose, le violenze, le rappresaglie». Ma Anfuso non poteva consegnare direttamente le lettere perché fra lui e il Führer c’era Ribbentrop, e allora a Mussolini non rimase da fare altro che muoversi di persona e partire per Klessheim. Neppure lui ebbe fortuna. Hitler lo accolse con cortesia e solennità nelle sale sfarzose del Castello, luogo dell’incontro, ma sulle questioni che stavano a cuore all’ospite, come le vessazioni cui erano sottoposte le truppe italiane deportate in Germania, pronunciò poche e vaghe parole. Di ritorno da quel viaggio infelice, Mussolini si fermò in Baviera, al campo di Grafenröhr, per assistere alle esercitazioni della San Marco. Sfogò il suo malumore arringando con violenza le truppe e istigandole all’odio contro il nemico: «L’onta del tradimento non si cancella se non tornando a combattere. Oltre il Garigliano non bivacca soltanto il crudele cinico britanno, ma l’americano, il francese, il polacco, l’indiano, il sudafricano, il canadese, l’australiano, il neozelandese, il marocchino, il senegalese, il negro e il bolscevico. Voi avrete la gioia di far fuoco su questo miscuglio di razze bastarde e mercenarie che nell’Italia da loro invasa non rispettano niente e nessuno».

Fece ancora una visita al Führer in Germania, e fu l’ultima. La scena era dominata da una ridda di voci su un’arma segreta tedesca di grande potenza distruttrice, e il duce fremeva poiché l’alleato lo lasciava all’oscuro di così rilevanti novità. Anche l’Italia avrebbe potuto avere già da tempo una

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terribile arma segreta, il «raggio della morte», se non fosse venuto a mancare Marconi che lo aveva inventato e sperimentato, come diceva Mussolini che aveva riposto una grande fiducia in quella scoperta. Sulla strada di Ostia, lo scienziato aveva fermato i motori delle automobili, e aveva mandato in fiamme nel cielo di Orbetello due aerei radiocomandati.

Quando Mussolini, il 20 luglio del ‘44, arrivò a Rastenburg nella «Tana del lupo», era appena esplosa una bomba sotto il tavolo di Hitler, e quindi quell’incontro, invero caotico, fu dominato da ben altri problemi. Il Führer gli andò incontro porgendogli la mano sinistra, poiché l’altra era stata ferita da una scheggia. Riuscì ancora a fare dello spirito: «L’esplosione mi ha stracciato gli abiti e ne sono uscito seminudo, fortuna che non c’erano signore». Il colloquio fu deludente per Mussolini, come osservava Dollmann: «II Duce, con l’istinto latino mai perduto per i disturbi atmosferici, si agitava sempre più nervoso, riduceva in briciole le leccornie nel piatto senza mangiarle, e contrariamente alle sue abitudini finì coll’accostare alle labbra un bicchiere di cognac. Tre tentativi da lui compiuti per indurre il padrone di casa a porre termine alla riunione rimasero vani».

La punta più umiliante e dolorosa dell’impotenza, Mussolini la toccò nella vicenda del genero, una vicenda di vita o di morte. Egli non era soltanto nelle mani di Hitler, ma anche in quelle degli estremisti del partito fascista repubblicano. A Salò gli incontri fra lui e Edda si facevano sempre più angosciosi. Inizialmente essi avevano unitamente sperato di poter scongiurare ciò che tuttavia alla loro stessa ragione appariva inevitabile. Ma poi il quadro era a poco a poco mutato, e il duce si appalesava via via più insensibile alle preghiere e alle minacce della figlia, tanto che lei si sentiva sempre più Edda Ciano che non Edda Mussolini. Fra i loro colloqui di Gargnano e i primi approcci, pur sempre tempestosi, di Baviera, c’era un abisso. A Rastenburg, Mussolini appariva incline a considerare il genero «meno responsabile di altri» e vittima dei «veri traditori». Grandi e Bottai. Ora sul Garda le confessava con amarezza di «non poter fare nulla per Galeazzo». Hitler voleva la vendetta, e la volevano non meno i fascisti riuniti a congresso in Castelvecchio a Verona.

Ma Edda ancora si batteva. Non mancava che qualche giorno alla preannunciata esecuzione di Galeazzo quando volle avere ancora un colloquio con il padre. Fu l’ultimo, doloroso e terrificante. Mussolini, smarrendosi in un groviglio di cavilli giuridici, le diceva che la giustizia doveva seguire il suo cammino regolare e che egli non poteva interferire nell’istruttoria. La reazione della figlia fu terribile, come lei stessa testimoniava: «Scandendo ogni parola, battendo i pugni sul tavolo per sottolineare le mie frasi, gli gettai in viso tutto quello che pensavo di lui, del

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suo atteggiamento, dei suoi alleati tedeschi, che consideravo traditori e nemici, dopo essere stata la loro alleata più fedele e leale; e, senza tener conto di ciò che mio padre doveva provare in quel momento, se davvero era stato costretto a piegarsi alle richieste degli estremisti fascisti, gli dissi tutto il mio disprezzo e il mio disgusto». Prima di uscire dalla sua stanza sbattendo la porta, gli gridò ancora: «Siete tutti pazzi. La guerra è perduta, è inutile che vi facciate illusioni! I tedeschi resisteranno qualche mese, non di più. Tu lo sai, vero, quanto io abbia desiderato la loro vittoria, ma adesso non c’è più niente da fare. Te ne rendi conto? E tu, e voi uccidete Galeazzo in queste condizioni?». Tutto inutile. L’11 gennaio Galeazzo, insieme ad altri quattro congiurati, cadde sotto il piombo del plotone d’esecuzione, nello spiazzo nevoso del poligono veronese del tiro a segno.

Edda si rifugiava in Svizzera, attraversando i confini travestita da contadina per sfuggire ai controlli. Oltre confine aveva già posto in salvo i compromettenti diari antitedeschi del marito sui quali le SS avevano disperatamente cercato di mettere le mani per eliminare dalla circolazione un grave atto d’accusa contro la politica guerrafondaia di Hitler. Edda aveva rotto i rapporti col padre, il quale però, straziato, non mancava di farle avere amorevoli messaggi mediante un sacerdote amico. Lei si mostrava irriducibile e non gli rispondeva direttamente. In uno degli ultimi biglietti al prete intermediario scrisse: «Gli dica che la sua situazione mi fa pena; gli dica che due sole soluzioni potranno riabilitarlo ai miei occhi: fuggire o uccidersi».

A poco a poco proprio a cominciare con il battesimo del fuoco nella difficile battaglia di Monte Lungo, l’esercito italiano tentava di riscattarsi dai trascorsi fascisti e di acquistare un volto nuovo, mentre al nord si costituivano le prime formazioni partigiane. L’Italia badogliana aveva dichiarato formalmente guerra alla Germania e aveva ottenuto il riconoscimento di potenza cobelligerante, senza che ciò, paradossalmente, cancellasse la sua condizione di Stato nemico non essendo ancora abrogato il regime d’armistizio. Insomma l’Italia già combatteva da alcuni mesi al fianco dei liberatori, ma non ne era un’alleata. A Bari, dominato da un effi-cace discorso di Benedetto Croce, si svolse il congresso dei partiti democratici aderenti al Comitato di liberazione nazionale. Pur accantonando la questione istituzionale - monarchia o repubblica? - in quell’assise si chiese l’abdicazione di Vittorio Emanuele, responsabile non meno di Mussolini della tragedia in cui era precipitata la nazione. Si rivendicava il diritto dell’Italia a un secondo risorgimento, in nome della democrazia e della libertà. Il premier britannico Churchill, un po’ superficialmente, condannò con asprezza i risultati del congresso, gettando discredito sui nuovi partiti italiani. Li definì privi di autorità in quanto si era firmato un

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armistizio con il Savoia e con Badoglio. Ne avrebbero comunque riparlato al momento dell’arrivo degli alleati a Roma. Fu Togliatti a sciogliere il nodo; col sostegno di Croce, e ancor prima che le truppe anglo-americane entrassero nella capitale italiana, si potè dar vita a un governo con la partecipazione dei sei partiti che rappresentavano la nuova Italia. Il re si dichiarava disposto a ritirarsi e a nominare luogotenente generale il principe Umberto, cosa che avvenne il 5 giugno del ‘44, il giorno successivo alla liberazione di Roma.

Mussolini faceva discorsi sempre più rabbiosi. In un proclama di quello stesso 5 giugno si rivolse agli abitanti di Roma per incitarli «a non cedere moralmente all’invasore» che riportava nelle mura della capitale «gli uomini della resa a discrezione e un governo dominato da un agente di Mosca», Togliatti. Poi lanciava un «monito supremo» agli italiani delle province della sua repubblica: «La caduta di Roma non fiacchi le nostre energie e ancora meno la nostra volontà tesa a realizzare le condizioni della riscossa. Soldati alle armi! Operai e contadini, al lavoro! La Repubblica è minacciata dalla plutocrazia e dai suoi mercenari di ogni razza. Difendetela!». Scriveva articoli, dicendo di se stesso: «Sono ancora il bue nazionale». Continuava a lavorare per molte ore del giorno e della notte. In uno dei suoi articoli scrisse: «II pensiero che tra il Colosseo e piazza del Popolo bivacchino truppe di colore assilla il nostro spirito e ci da una sofferenza che si fa di ora in ora più acuta. I negri sono passati sotto gli archi e sulle strade che furono costruiti ad esaltazione delle glorie antiche e nuove di Roma. Gli italiani che non hanno smarrito il senso dell’onore, gli italiani che non intendono restare sommersi sotto il peso della vergogna, gli italiani che non si rassegnano e vogliono invece ribellarsi all’avversa fortuna sapranno essere finalmente compatti nell’odio e nella vendetta contro il nemico, nell’amore verso Roma e verso l’Italia. Il grido di Garibaldi: "Roma o morte" diventa oggi la parola d’ordine, il comandamento supremo dei veri italiani».

A Roma prendeva vita un nuovo governo, e ne divenne presidente, su designazione dei partiti antifascisti, il vecchio Ivanoe Bonomi. Vi entrarono Croce, De Gasperi, Saragat, Togliatti, Sforza, Gronchi, Guido De Ruggiero. La diffidenza degli alleati non accennava a diminuire, e il ministero non ne ottenne subito il benestare. Anzi in un primo tempo il governo dovette stabilire la propria sede a Salerno essendogli Roma severamente vietata. Il destino dell’Italia era sempre nelle mani degli alleati che allentavano lentamente la loro morsa di «occupatori» cedendo al nuovo governo i territori via via strappati alle truppe nemiche. I tedeschi si ritiravano lasciando lutti e rovine alle loro spalle; facevano saltare ponti e linee ferroviarie; distruggevano centrali elettriche; razziavano uomini, cavalli e

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materiali. Dove ancora infuriava la guerra di posizione, i piccoli paesi erano conquistati e persi ripetutamente ora dai tedeschi, ora dagli anglo-americani.

Nei mesi che precedettero l’ingresso della V armata nella capitale, la popolazione sotto il tallone nazista viveva in condizioni pietose, sempre in stato di allarme. Il coprifuoco cominciava alle 5 del pomeriggio. Scarseggiavano i generi alimentari di prima necessità; il pane era un impasto di farina di segale e di ceci: cento grammi al giorno. Non c’era più carbone. Chi poteva si serviva al mercato nero, ed era tornato in auge il baratto fra gli oggetti e il cibo. L’occupazione tedesca e le persecuzioni nazi-fasciste rag-giunsero inumane punte di durezza e di barbarie. Ci furono rastrellamenti di cittadini nelle strade in pieno giorno e incursioni nelle chiese, come a San Paolo, dove i fascisti cercavano i partigiani che vi si erano rifugiati. A tutto questo si aggiungevano i bombardamenti aerei degli alleati.

I nazisti avevano le loro prigioni in cui torturavano ebrei e partigiani in via Tasso, nei pressi di San Giovanni, mentre gli aguzzini fascisti svolgevano la stessa infamante e feroce attività in via Romagna, nel quartiere di via Veneto, e anche in palazzo Braschi e nella pensione Jaccarino. Giorno per giorno, lungo nove mesi, la «Roma nazista» dava di sé uno spettacolo orripilante. Alle efferatezze dei nazisti e dei fascisti si contrapponeva un comportamento dei romani, eroico per lo spirito di sopportazione e nobile per l’apatico disprezzo con cui riguardavano occupanti e reggicode. Furono due, fra una miriade di violenze e prepotenze, gli episodi più tragicamente dolorosi: la rabbiosa razzia d’un migliaio di ebrei e loro deportazione in Germania perpetrate dalle SS il 16 ottobre ‘43, e la malvagia rappresaglia delle Fosse Ardeatine scaturita dall’attentato di via Rasella, dove i partigiani «gappisti» avevano fatto esplodere nel pomeriggio del 23 marzo ‘44 una bomba. I tedeschi, agli ordini del boia ufficiale Kappler, risposero con la soppressione di trecentotrentacinque tra detenuti politici, ebrei e altri innocenti rastrellati nelle vie, sia per vendicare la morte dei trentatre uomini della polizia militare tedesca colpiti nell’attentato, sia per scoraggiare col terrore altre similari azioni partigiane.

Aver conquistato e oltrepassato la capitale non significò la disfatta totale delle truppe di Kesselring che riuscirono a riorganizzarsi e ad attestarsi in Toscana, lungo un nuovo fronte difensivo cui si diede il nome di linea «gotica». La ferocia quotidiana dei nazisti contro le popolazioni inermi non aveva sosta. Arrigo Benedetti, tornato a Roma dalla sua Lucchesia, raccontava a Paolo Monelli di un soldato tedesco che «dopo di aver fatto man bassa sul pane che una contadina aveva appena sfornato gettò nel forno ancora ardente i due fìglioletti della donna».

Si dovettero consumare nuove sanguinose battaglie prima di poter sfondare il muro della «gotica», e, mentre gli alleati sbarcavano in

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Normandia, i tedeschi lanciavano la prima V-l sul territorio inglese. «V» stava per vergeltung, rappresaglia. Ma anche quella ritorsione doveva rivelarsi inefficace, sebbene Mussolini attribuisse grande importanza all’arma segreta finalmente svelata e in azione.

Si ingrossavano le schiere dei partigiani nell’Italia del nord; ad esse il duce volle contrapporre la trasformazione del partito repubblicano da organismo politico in organismo «esclusivamente militare». Dispose che tutti gli iscritti al partito, di età tra i diciotto e i sessant’anni e non appartenenti alle forze armate della repubblica, costituissero il Corpo ausiliario delle camicie nere composto dalle squadre d’azione: «È in atto la trasformazione dell’attuale direzione del partito in uffici di stato maggiore del Corpo. Il Corpo sarà sottoposto a disciplina militare e al codice militare del tempo di guerra. Il Corpo sarà impiegato agli ordini dei capi delle province, i quali sono responsabili dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini, contro i sicari e gruppi di complici del nemico».

A conclusione di quel 1944, Mussolini decise di recarsi a Milano, dove non tornava dal ‘36, per pronunciarvi un discorso davanti a un vasto uditorio, cosa che evitava da più di un anno. Ma ora voleva tentare di far nuovamente presa sulla folla col suo fascino personale. C’era stato un bombardamento su Fasano, e si chiedeva dove trasferire il governo della repubblica qualora gli anglo-americani avessero invaso la valle padana. Poteva andar bene proprio Milano. Non gli sarebbe stato possibile procrastinare oltre la visita, visto che la città stava per diventare il nuovo cuore amministrativo della repubblica. Pensava di doversi rivolgere ai milanesi con parole toccanti, difatti cominciò e concluse il suo discorso con un appello affettuoso: «Camerati, cari camerati milanesi!». Parlava al teatro Lirico, poiché la Scala era stata danneggiata dai bombardamenti aerei, e, nonostante tutto, parlava con sicurezza d’un futuro vittorioso. Sosteneva che negli «ultimissimi tempi» la situazione era «migliorata»; gli «attendisti, coloro cioè che aspettavano gli anglo-americani, sono in diminuzione; ciò che accade nell’Italia di Bonomi li ha delusi, tutto ciò che gli anglo-americani promisero si è rivelato un miserabile espediente propagandistico».

Batteva e ribatteva su una sua tesi di fondo, quella che le sciagure del presente erano soltanto il frutto di tradimenti. Perciò, se si sapeva resistere, si poteva tornare a vincere. Si diceva convinto d’una cosa: le popolazioni padane «non solo non desiderano, ma deprecano l’arrivo degli anglosassoni, e non vogliono saperne di un governo, che pur avendo alla vicepresidenza un Togliatti, riporterebbe a nord le forze reazionarie, plutocratiche e dinastiche, queste ultime ormai palesemente protette dall’Inghilterra». L’Inghilterra! «Politicamente Albione è già sconfitta. Gli eserciti russi sono sulla Vistola e sul Danubio, cioè a metà dell’Europa. I partiti comunisti, cioè

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i partiti che agiscono al soldo e secondo gli ordini del maresciallo Stalin, sono parzialmente al potere nei paesi dell’occidente».

Avendo gli anglo-americani alle porte, parlava e parlava per risvegliare, con belle ed entusiastiche espressioni, tutte le speranze perdute. Disse: «Noi vogliamo difendere, con le unghie e coi denti, la valle del Po; noi vogliamo che la valle del Po resti repubblicana in attesa che tutta l’Italia sia repubblicana». E aggiunse che il giorno in cui questa valle fosse «contaminata» dal nemico, il destino dell’intera nazione sarebbe compromesso. «Ma io sento, io vedo, che domani sorgerebbe una forma di organizzazione irresistibile ed armata, che renderebbe praticamente la vita impossibile agli invasori. Faremmo una sola Atene di tutta la valle del Po». Dopo di che sostenne che la coalizione nemica non solo non aveva vinto, ma che non avrebbe mai vinto: «La mostruosa alleanza fra plutocrazia e bolscevismo ha potuto perpetrare la sua guerra barbarica come la esecuzione di un enorme delitto, che ha colpito folle di innocenti e distrutto ciò che la civiltà europea aveva creato in venti secoli. Ma non riuscirà ad annientare con la sua tenebra lo spirito eterno che tali monumenti innalzò». Disse che la «fede assoluta nella vittoria» non poggiava su motivi di carattere «soggettivo o sentimentale, ma su elementi positivi e determinanti». Dimentico delle sfide a orologeria che lanciava all’Onnipotente per dimostrarne l’inesistenza, gridò: «Se dubitassimo della nostra vittoria, dovremmo dubitare dell’esistenza di Colui che regola, secondo giustizia, le sorti degli uomini».

Doveva offrire qualcosa all’uditorio e parlò del programma sociale della sua repubblica, come appariva dal «Manifesto di Verona». Sostenne l’esigenza d’una Costituente, da convocare dopo la guerra; difese sì il principio del partito unico, ma vi apportò un’innovazione destinata a lasciare spazio ad altri raggruppamenti con diritto di controllo. E concluse ancora con espressioni di incoraggiamento: «Già si notano i segni annun-ciatori della ripresa, qui, soprattutto in questa Milano antesignana e condottiera, che il nemico ha selvaggiamente colpito con i bombardamenti, ma non ha minimamente piegato. È Milano che deve dare e darà gli uomini, le armi, la volontà e il segnale della riscossa!». Il teatro era in delirio. Gli applausi e le acclamazioni della folla lo costrinsero a salire più volte sul podio. Ed egli ne era felice. Aveva l’impressione di aver riconquistato il suo popolo, di essersi confermato charmeur di masse. Ma non era che un’impressione fallace e fugace. Non bastava un teatro a dargli la vittoria.

L’apertura, da lui prospettata, alla collaborazione con gruppi non propriamente fascisti trovò l’immediata opposizione dei più intransigenti, Farinacci, Pavolini, Mezzasoma. Ma il duce non rinunciò al suo proposito. Con la mediazione del figlio Vittorio entrò in contatto con un giovane

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filosofastro, Edmondo Cione, che tempo addietro si era messo nella scia di Benedetto Croce divenendone un mansueto vitellino. E per questo a Napoli lo chiamavano «o vaccariello». Già per suo conto Cione, che si trovava sul Garda, andava maturando la formazione d’un movimento di non fascisti «in nome d’una riconciliazione nazionale». Mussolini lo incoraggiò a proseguire su quella strada, e nacque il «Raggruppamento nazionale repubblicano socialista». Il nuovo movimento si riallacciava del resto a un trinomio da lui sbandierato al Lirico: «Italia, Repubblica, Socializzazione», volendo testimoniare un ritorno alle posizioni originarie del fascismo.

Il popolo lo aveva acclamato a queste parole. Il trionfo non impedì al federale di Milano di proporgli, ancora fra gli applausi, la scelta della Valtellina come il luogo più adatto all’ultima resistenza. Tutti, uomini e donne, gli si stringevano intorno, ma, mentre saliva sull’automobile per tornare a Gargnano, lui stesso mormorò: «Che cosa è mai la vita? Polvere e altari, altari e polvere».

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VIII

Con l’acqua alla gola, fascisti e nazisti, sia con l’assenso di Mussolini e di Hitler, sia alle loro spalle facendo il doppio gioco, cercavano di concordare con gli anglo-americani una resa nei territori della repubblica di Salò, anche mediante contatti segreti con il capo dei servizi d’informazione americani in Svizzera, Allen Dulles. Agli inizi del ‘45 Mussolini stesso pensava seria-mente a una resa separata. Aveva inviato Vittorio a Milano per cercare un accordo con il cardinale Schuster, ma le trattative si erano arenate per l’opposizione degli anglo-americani che insistevano nella resa senza condizioni. Si poteva tentare un’altra strada, quella di un contatto con i capi della resistenza italiana, soprattutto con i socialisti. Del resto la repubblica sociale aveva mostrato di volersi volgere a sinistra con il suo nuovo programma politico. Mussolini si mise al lavoro per rendere concreta questa ipotesi, e proprio il licenziamento di Buffarini Guidi, così legato ai tedeschi, insieme a una presa di distanza dalle autorità naziste, dovevano dare il segnale dei suoi buoni propositi. Anche l’iniziativa di Cione che si era fatto promotore di quel «Raggruppamento nazionale repubblicano socialista», da lui apertamente sostenuta, poteva servire a facilitare i contatti con gli uomini della resistenza.

Mussolini non voleva stabilire un rapporto con i gruppi conservatori o monarchici del Comitato di liberazione. Preferiva i socialisti, illudendosi di poterli avere dalla sua parte dopo averli così lungamente perseguitati. Autorizzò Carlo Silvestri a inviar loro una lettera in cui si diceva con chiarezza che, essendo aperta la «successione» nell’Italia del nord, in conseguenza dell’invasione anglo-americana, egli desiderava «consegnare la Repubblica Sociale ai repubblicani e non ai monarchici, la socializzazione e tutto il resto ai socialisti e non ai borghesi». Nel proporre questa trasmissione di poteri, Mussolini si rivolgeva al partito socialista, ma sarebbe stato lieto «se l’offerta fosse considerata ed accettata anche dal Partito d’Azione nel quale del resto prevalevano le correnti socialiste». Non estendeva però l’offerta al partito comunista. I socialisti si opposero a tutto ciò anche per un fermo intervento di Sandro Pertini, il quale scriveva: «Quando fui avvertito dal compagno Basso che Mussolini aveva fatto per-venire una lettera diretta al Partito socialista, in cui offriva la resa sua e dei

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suoi ponendo condizioni, feci rispondere immediatamente e senza esitare che quella lettera non doveva essere presa in considerazione alcuna».

Si facevano molte congetture sui «contatti con i socialisti» e se ne allarmavano i tedeschi a Berlino. All’ambasciatore Rahn e al comandante Wolff, che erano gli effettivi padroni dell’Italia settentrionale, non sfuggivano i tentativi di Mussolini volti a prendere le distanze da loro. Ma lui si nascondeva dietro cortine fumogene. Convocò Rahn, e alla presenza di Anfuso, nuovo sottosegretario agli Esteri, si protestò addolorato e offeso per le insinuazioni di Ribbentrop sul suo conto. Disse che Ribbentrop era caduto nel tranello delle informazioni inventate dal Comitato di liberazione. Erano informazioni «stupide, insulse, grossolane», che lo «insultavano personalmente».

Diede quindi la sua versione sul raggruppamento di Cione: «Per ingannare i nostri avversari ho lasciato, non appena ho pensato che il nuovo fascismo in Italia fosse abbastanza forte, che alcune controcorrenti dicessero la loro, tra l’altro ho permesso che si formasse un gruppo di opposizione sotto la guida del professor Cione. Il professor Cione non ha una gran testa, e non avrà successo. Ma la gente che ora sta cercando di crearsi un alibi si raccoglierà intorno a lui e quindi sarà perduta per il Comitato di liberazione che è molto più pericoloso». Ammise di aver autorizzato Cione a pubblicare un suo foglio, 1’«Italia del Popolo», una sorta di anagramma del «Popolo d’Italia», ma si disse disposto a sopprimerlo se a Berlino appariva pericoloso. Il giornale fu infatti tolto all’istante dalla circolazione. Si disse anche disposto a mantenere la sede del suo governo a Gargnano e a non trasferirla a Milano, se ciò faceva piacere a Berlino. Ma in tal caso «dovrò fare il piccione viaggiatore, stando pochi giorni a Milano, o recandomi di tempo in tempo in altre grandi città dell’Italia del nord perché è diventato tecnicamente impossibile mantenere in altro modo i contatti personali, assolutamente indispensabili, con i prefetti, i podestà, i commissari provinciali, i rappresentanti sindacali, le delegazioni operaie e simili».

Rahn, alla luce del colloquio con Mussolini, inviò a Berlino un rapporto in cui confermava i severi giudizi che la situazione della repubblica gli suggeriva: «L’intera condotta della guerra è messa in pericolo da segni di mancanza di unità interna e da tendenze a crearsi alibi con voltafaccia sleali. Il numero dei ribelli e l’atteggiamento antifascista della popolazione, frutto della sua esperienza bellica, rende necessario, poiché mancano poteri esecutivi tedeschi, adottare una tattica elastica, giocando su tutti gli elementi caratteristici dell’indole italiana (sentimento religioso, sentimento familiare, desiderio di dominio, superstizione, vanità, paura della fame e del pericolo fisico, ecc.). D’altra parte ho sempre spinto i miei colleghi, dato il carattere

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volubile degli italiani, a tenere quotidianamente conto della possibilità di un nuovo, presumibilmente deliberato, sleale voltafaccia».

Mussolini si rendeva conto che doveva muoversi personalmente per tentare un’autonoma soluzione politica della guerra, indipendentemente da ciò che volevano fare i tedeschi, i quali non si sarebbero peritati di abbandonare la repubblica di Salò al suo destino. Quindi partì nuovamente alla volta di Milano, a metà aprile, con l’idea di ricercare un compromesso con i capi antifascisti, mediante un contatto con la Chiesa, direttamente con il cardinale Schuster. Nel frattempo Pavolini doveva egualmente preparare l’ultima resistenza sui monti della Valtellina, sgombrando la zona e radunandovi cinquemila soldati, perché se il fascismo doveva cadere, «doveva cadere eroicamente». Al momento di mettersi in viaggio per Milano, Benito disse a Rachele: «Non c’è più nulla da fare. È finita!». Era la sera del 18 aprile. La moglie rimaneva a Gargnano, e non lo avrebbe mai più rivisto. L’amante invece lo seguì a distanza di qualche ora. Mentre lui lasciava Gargnano, un addetto alla sua segreteria aveva fatto caricare una cassa di documenti su un motoscafo e, raggiunto il centro del lago, aveva dato l’ordine di gettarla in acqua.

A Milano, Mussolini non entrò immediatamente in contatto col cardinale. Aveva preso possesso del palazzo prefettizio in corso Monforte, e di lì governò nei suoi ultimi giorni. Il frettoloso trasloco nella capitale lombarda era avvenuto senza il consenso dei tedeschi, ma anche a Milano era da loro attorniato, anzi accerchiato. Formalmente gli rendevano gli onori. Quando entrava nel palazzo della prefettura un plotone di SS, agli ordini di un sergente, inscenava un’ardente manifestazione di ossequio militare. Giorgio Soavi, testimone oculare, raccontava: «I visi regolari, lucidi e duri di quei soldati li avemmo tutti davanti agli occhi, anche perché tutti, sorpresi da quei comandi, non ebbero altro centro di attenzione. E come il grido del sottufficiale risuonava con una energia militare che nessuno di noi più teneva in corpo, subito lo seguivano i passi ferrati delle SS che scricchiolavano sull’acciottolato, poi un battere secco di talloni, poi movimenti: erano come fucilate che partivano dalle loro braccia fortissime coi fucili a piedarm, a spallarm e poi altre grida ed evoluzioni che nessuno più capiva perché tutti tenevano il fiato sospeso per l’interminabilità e il furore di quella manovra».

Rhan lo rincorse volendo ricondurlo a Gargnano dove era possibile tenerlo sotto più stretto controllo. Lui gli disse che non sarebbe tornato indietro. Era calmo e sereno. Sul suo tavolo, sgombro di carte, aveva un libro aperto, e Rahn, allungando il collo, potè vedere che si trattava d’una edizione tedesca delle poesie di Mörike. «È tutto ciò che ci rimane», disse Mussolini nell’incrociare lo sguardo dell’ambasciatore. Nessuno può sapere se il duce

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leggesse quelle liriche inseguendo a sua volta, come il malinconico poeta, una «terra di sogno».

Erano a un punto critico anche i rapporti personali tra Mussolini e Hitler, il quale già tracciava un quadro di aspra condanna nei confronti degli italiani. Scriveva che la sua «incrollabile amicizia per l’Italia e per il Duce» si era rivelata un «errore», e a tutti appariva chiaro come l’alleanza con l’Italia fosse stata «più utile ai nemici» che ai tedeschi. «L’intervento italiano ci ha apportato vantaggi estremamente modesti in confronto con le numerose difficoltà da esso determinate. Se, nonostante tutti i nostri sforzi, non dovessimo riuscire a vincere questa guerra, l’alleanza con l’Italia avrà contribuito alla nostra sconfìtta!». Pertanto, il «più grande servigio che l’Italia avrebbe potuto renderci sarebbe consistito nel rimanere estranea al conflitto». Definiva l’attacco italiano alla Francia come «il calcio dell’asino all’esercito francese che già si stava disfacendo». Proseguiva affermando che l’alleanza italiana era stata per i tedeschi «causa di imbarazzo, ovunque».

Aveva altre pesanti recriminazioni da fare ai danni degli italiani: persino «nel momento stesso in cui si stavano dimostrando incapaci di mantenere le loro posizioni in Abissinia e in Cirenaica, gli italiani ebbero la faccia tosta di lanciarsi, senza chiedere il nostro parere e senza neppure avvertirci in precedenza delle loro intenzioni, in una inutile campagna in Grecia; le ver-gognose sconfitte da loro subite fecero sì che certi Stati balcanici guardassero a noi con scherno e disprezzo». Ed ecco la stilettata finale: «In ciò, e non in altre ragioni, vanno individuate le cause dell’irrigidimento della Jugoslavia e del suo voltafaccia nella primavera del 1941. Questo ci costrinse, contrariamente a tutti i nostri piani, a intervenire nei Balcani, e portò a sua volta a un ritardo catastrofico nell’inizio dell’attacco alla Russia. Se la guerra fosse stata condotta dalla sola Germania e non dall’Asse, saremmo stati in grado di attaccare la Russia entro il 15 maggio del 1941. Doppiamente rafforzati dal fatto che le nostre forze avevano riportato soltanto vittorie decisive e inconfutabili, avremmo potuto concludere la campagna prima dell’inizio dell’inverno».

Le trattative per una soluzione politica del conflitto si intrecciavano con varie ipotesi difensive militari da ultima spiaggia. Grande era la confusione e tutti si muovevano come in un labirinto. Mussolini, ora pensava alla resistenza nel ridotto alpino valtellinese, ora voleva fare di Milano la «Stalingrado d’Italia», l’«Alcazar del fascismo», asserragliandosi in una ristretta area intorno alla prefettura che chiamava il «quadrilatero di Monforte».

Dava ancora interviste ai giornalisti. Lo avvicinò il direttore del «Popolo di Alessandria», Gian Gaetano Gabella, che lo incuriosiva per la sua

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estrosità e per aver portato il suo foglio a una tiratura che talvolta toccava le trecentomila copie. Gabella ironizzava sulla monarchia sabauda, chiamava «Stellazza» il principe Umberto, «Bazzotta» il re e «Paullo» il maresciallo Badoglio. Nell’intervista con Gabella, toccò i più svariati argomenti. Parlò anche di giornalismo, dicendo che «si nasce giornalisti come si nasce compositori», e che «creare un giornale era come conoscere la gioia della maternità». Sui temi politici notò le contraddizioni dei suoi critici. «Dicono che non dovevo fare questo, che non dovevo fare quello. Oggi è facile profetizzare il passato. A fine maggio e ai primi di giugno del 1940, se critiche mi venivano fatte era per gridare allo scandalo di una neutralità definita ridicola, impolitica, sorprendente. La Germania aveva vinto. E cosa fa Mussolini? Quello si è rammollito. Un’occasione d’oro così non si sarebbe mai più presentata. Così dicevano tutti e specialmente coloro che adesso gridano che si doveva rimanere neutrali e che solo la mia megalomania e la mia libidine di potere, e la mia debolezza di fronte a Hitler aveva portato alla guerra».

Che cosa dire delle folle oceaniche? «Ho sopravalutato l’intelligenza delle masse. Nei dialoghi che tante volte ho avuto con le moltitudini, avevo la convinzione che le grida che seguivano le mie domande fossero segno di coscienza, di comprensione, di evoluzione. Invece, era isterismo collettivo». Difendeva implicitamente i metodi staraciani protesi a mettere un popolo in divisa e a fare d’una nazione una caserma: «Mi hanno tanto rinfacciata la forma tirannica di disciplina che imponevo agli italiani. Come la rimpiangeranno. E dovrà tornare se gli italiani vorranno essere ancora un popolo e non un agglomerato di schiavi».

Il cerchio si stringeva inesorabilmente intorno al duce e al Führer. Hitler a Berlino nel bunker della Cancelleria era lo spettro di se stesso. Si trascinava con sommi sforzi dovendosi appoggiare a un mobile o a una parete. Non aveva più il senso dell’equilibrio, né poteva leggere se non con l’ausilio di una grossa lente. Le mani gli tremavano; agli angoli della bocca gli si racco-glievano grumi di saliva; sedeva, assente, su un divano tenendo sulle ginocchia un cucciolo di nome Wolf(Lupo). Si vedeva attorniato da traditori e da spie, anche il giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, quando gli uomini a lui più vicini vollero festeggiare l’evento. Gli era accanto Eva Braun, la donna che lo amava. L’irresistibile, grande offensiva sovietica premeva alle porte di Berlino e le artiglierie, le katjusce nemiche colpivano il centro della città. Era il 21 aprile.

Nello stesso giorno, sul fronte italiano, gli anglo-americani occupavano Bologna. Cadde Ferrara. Il grande Po era raggiunto e oltrepassato. Gli anglo-americani invadevano Brescia, Verona, Padova, Venezia. I partigiani si impossessavano di Genova, e l’insurrezione si estendeva a macchia

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d’olio, tanto che il 25 aprile Milano era già in subbuglio con le prime avvisaglie di rivolta antifascista. Mussolini era come paralizzato, e non gli rimaneva da fare altro che sollecitare nella stessa sera un incontro all’arci-vescovado con Schuster e i capi della resistenza. Fino al giorno prima ancora credeva seriamente nella possibilità di venirne fuori. Lo aveva confidato a un suo fedele collaboratore, Sandro Giuliani, a lungo caporedattore al «Popolo d’Italia». Al termine del colloquio che si era protratto in prefettura per oltre un’ora, Giorgina, la moglie del giornalista, aveva chiesto d’impeto: «E allora, Sandro?». «Ha detto che se riesce ad arrivare al tavolo della pace, può ancora trattare e salvarsi. Al tavolo della pace con gli americani, non soltanto con Schuster».

Ma ora aveva l’appuntamento col cardinale. Scortato da una pattuglia di uomini armati, giunse per primo all’arcivescovado. In attesa che arrivassero anche i rappresentanti dei partigiani, Schuster lo intrattenne nel suo studio. In tanta tragedia Mussolini, forse per ostentare flemma e impassibilità, si baloccava col cardinale a paragonare la sua repubblica ai cento giorni di Na-poleone. Sollecitato dal prelato disse che si sarebbe ritirato in Valtellina con qualche migliaio di camicie nere, mentre avrebbe disciolto sia l’esercito sia la milizia repubblicana. Non aveva però intenzione, aggiunse, di continuare la guerra sulle montagne, ma solo di apprestare una certa resistenza per poi arrendersi. Il colloquio con Schuster andò avanti per circa un’ora, fino al momento dell’arrivo dei ritardatari, il generale Raffaele Cadorna, Riccardo Lombardi e Achille Marazza, mentre ancora non sopraggiungevano gli esponenti socialisti e comunisti.

Ammessi tutti nello studio privato del cardinale, l’incontro, fra bicchierini di rosolio e biscotti, oltre che tra sguardi colmi d’odio, non prometteva nulla di buono fin dalle prime battute, in quanto i rappresentanti dei partigiani reclamarono subito la resa incondizionata entro due ore. Saltò su Graziani a diffondere una notizia appresa un attimo prima in anticamera: i reparti tedeschi operanti in Milano avevano già deciso di arrendersi. Nulla aveva-no fatto sapere ai fascisti, come del resto questi non li avevano informati della loro trattativa col cardinale. Mussolini apparve stupito e sdegnato all’annuncio che riceveva così improvvisamente dal suo ministro. S’alzò di scatto, gonfio di collera, ma ebbe ancora la presenza di spirito di esclamare: «Vi darò una risposta entro un’ora». Quindi lasciò frettolosamente l’arcivescovado, guardandosi bene dal farsi rivedere, certo che gli avrebbero teso un tranello.

Tornò in prefettura. Portava con sé una copia della Storia di San Benedetto, un libro che il cardinale aveva da poco pubblicato e che gli aveva donato in attesa degli uomini della resistenza. «Potrà esserLe di conforto», gli aveva detto il prelato, ma lui ora pensava ad altro. Ai gerarchi italiani

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gridava: «Questo è un altro 25 luglio! E volevano arrestarmi un’altra volta». All’ufficiale tedesco di scorta disse con irritazione: «II vostro generale Wolff ha trattato la resa alle nostre spalle. Ci ha traditi. Ecco l’onore dei tedeschi!». L’ufficiale medico, Georg Zachariae, ebbe paura del suo aspetto: «Aveva il volto contratto e pallido come quello di un morto».

Imbruniva quando una colonna di automobili lasciava la prefettura e usciva da Milano, la città in cui ormai tutti gli tendevano una trappola, i partigiani, i tedeschi, gli alleati. Doveva fuggirne per evitare il peggio. Difatti il partigiano Ferrini che lo aveva incrociato lungo il buio scalone dell’arcivescovado, senza riconoscerlo, disse poco dopo che se lo avesse ravvisato lo avrebbe ucciso sul posto con un colpo di pistola, senza pensarci due volte. Mussolini era rintanato in una delle auto del convoglio. A Bombacci che gli sedeva accanto disse: «Sono stato tradito dagli italiani e dai tedeschi!». Nelle altre automobili lo seguivano alcuni ministri della repubblica, tra i quali Graziani, e altri personaggi, le loro mogli, i figli, le amanti. Si era unita alla colonna anche Claretta, a bordo dell’Alfa di suo fratello Marcello che aveva con sé la compagna Zita Ritossa e i loro due bambini. Non mancava nemmeno una cameriera di Mussolini, Maria Righini.

Già quella sera, a tarda ora, si apprese che le auto fuggitive avevano raggiunto Como, e che portavano nei bagagli grandi quantità di oro e di denaro prelevato nelle ultime ore dalle banche della città. Chi lo seguiva lo faceva a suo rischio e pericolo perché lui non aveva ordini da dare. Non era più il Capo, non era più niente. Bisognava ormai cercare la salvezza personale. Il giorno innanzi erano arrivati a Como anche Rachele e i figli più giovani, Romano e Anna Maria. Lui non cercò di rivederli o non riuscì a incontrarli. Allora scrisse una lettera alla moglie, come affermava Rachele: «Eccomi giunto all’ultima tappa della mia vita, all’ultima pagina del mio libro. Forse non ci rivedremo mai più, perciò ti scrivo per chiederti perdono di tutto il male che involontariamente ti ho fatto. Ma tu sai che sei stata per me l’unica donna che ho veramente amato nella mia vita. Tè lo giuro innanzi a Dio e al nostro Bruno, in questo supremo momento. Sto cercando di raggiungere la Valtellina. Ma tu cerca di passare la frontiera svizzera con i ragazzi. Là vi potrete fare una nuova vita. Credo che non ti rifiuteranno il passaggio, perché io ho sempre aiutato gli svizzeri in ogni circostanza, e poi perché voi non avete niente a che fare con la politica. Se questo non è possibile, presentatevi agli alleati: forse loro saranno più generosi degli italiani. Ti raccomando l’Anna e Romano, soprattutto l’Anna che è tanto giovane e bisognosa di cure ed affetto. Sai quanto bene le voglio. Bruno, di lassù vi aiuterà. Abbraccio te e i ragazzi, tuo Benito. Como, 26 aprile 1945; XXII E. F.».

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Non appena ricevuto il biglietto, Rachele cercò affannosamente di parlare col marito al telefono e, quando riuscì a mettersi in contatto con lui, non poterono dirsi che poche parole smozzicate, mentre il ricevitore passava continuamente dalle mani di Rachele a quelle di Romano e di Anna Maria che invocavano con disperazione il padre, così vicino, in città, ma già così lontano e perduto per sempre. «Tutto è finito, Rachele, non c’è più nessuno. Sono solo», disse al telefono. Ma questa non era che una lamentazione, poiché a Como era in realtà arrivata con lui Claretta, con la sconquassata colonna di automobili, e a Como sopraggiunsero non meno di quattromila militari. «Arrivarono», scrive Franco Bandini, «intere Brigate Nere, formazioni speciali, nuclei isolati, forze di polizia, con armi e munizioni. Arrivarono tutti i capi; non meno di una dozzina di prefetti, una ventina di generali, centinaia di ufficiali, tutti i ministri, meno quello della Giustizia, rimasto a Milano. I capi di stato maggiore delle varie armi, e poi giornalisti, questori, uomini di pensiero e di cultura, federali, segretari del fascio di sperdute province». Forse troppa gente, ingombrante per lui che cercava di fuggire, per lui che non dava più ordini.

Rachele, seguendo il consiglio del marito, si presentò durante la notte con i figli alla barriera di Ponte Chiasso, dove le guardie elvetiche non le consentirono di passare il confine. Essi non avevano responsabilità politiche, ma costituivano pur sempre la famiglia del dittatore sconfìtto, e non si poteva fingere di niente. Le autorità svizzere si dissero disposte ad accogliere soltanto la piccola Anna Maria per ricoverarla in una clinica, in ragione delle sue condizioni di salute. Rachele rifiutò, e tutti insieme tornarono a Como.

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X

A Como, Mussolini doveva decidere come giocare l’ultima carta. Rifugiarsi in Svizzera, fuggendo, o raggiungere davvero la Valtellina per disporsi ad affrontare l’ultima battaglia dall’esito già scontato? Gettarsi sulla sponda occidentale del lago, a due passi dal confine svizzero, o inoltrarsi rischiosamente sulla sponda orientale brulicante di partigiani con la probabilità di non riuscire nemmeno a raggiungere Sondrio? Decise di prendere la strada che portava a Menaggio, sulla sponda occidentale, il che rivelava la volontà di tenersi il più vicino possibile al confine con la Svizzera, per poi attraversarlo nel momento più opportuno, magari sfuggendo alla sorveglianza della piccola scorta tedesca che già a Como aveva sventato, armi in pugno, un suo individuale tentativo di fuga.

Addio, eroico ridotto alpino! Non attese nemmeno l’arrivo d’una colonna già in marcia, capeggiata da Pavolini, e allo spuntare d’un’alba gelida riprese il tragico cammino. Quando Pavolini arrivò a Como, apprese con disappunto e orrore che Mussolini era già a Menaggio. Buffarini Guidi, che aveva tentato di raggiungere la frontiera per rendersi conto delle eventuali difficoltà nello sconfinamento, fu arrestato da finanzieri italiani. Intanto Pavolini raggiungeva a sua volta Menaggio su un’autoblindo, senza che la colonna potesse seguirlo, essendo Como già occupata dai partigiani. Per avvicinarsi ulteriormente al confine, Mussolini aveva piegato su Grandola, in prossimità d’un passaggio ben noto ai contrabbandieri che transitano clandestinamente tra la Svizzera e l’Italia. Attraverso quel varco la notte precedente era sgusciata Doris Duranti, maliarda del cinema e amante di Pavolini. Prima di muoversi, Mussolini aveva scritto un bigliettino a Claretta scongiurandola di non seguirlo oltre, ma «la signora» non gli aveva dato ascolto. Sicché fu costretto a compiere con lei anche il nuovo tentativo di fuga. Anzi ora Claretta gli sedeva accanto su un’Alfa Romeo, indossava una tuta azzurra da aviatore e un casco da motociclista.

Arrivarono a Grandola sfiniti non avendo chiuso occhio per due notti consecutive in quelle corse affannose. Pur nella tormenta di eventi così disperati, Claretta diede in escandescenze, divorata dalla gelosia per la bella e giovane Elena Curti salita sin lassù. «La signora» affrontò come una vipera Benito, gridandogli: «Quella è la tua nuova amante!». Si trovavano in

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una camera dell’albergo Miravalle, e i suoi strepiti erano tanto alti che lui corse a chiudere la finestra per soffocarli. Nell’agitazione inciampò in un tappetino, cadde prono battendo il viso sul pavimento e provocandosi un’escoriazione a uno zigomo. Quando più tardi furono visti nel salone dell’albergo, i loro volti erano pallidi, ma apparentemente rasserenati. Lui come sempre, per salvare le forme, la chiamava «Signora» e lei gli si rivolgeva col titolo di «Eccellenza».

La vigilanza degli uomini di scorta tedeschi, decisi a non lasciarselo sfuggire, era così continua e severa che Mussolini fu costretto ancora una volta a modificare i suoi piani. Di punto in bianco ordinò di fare dietro front e di tornare a Menaggio, dicendo di voler proseguire alla volta di Merano. Era l’alba del 27 aprile. Superata la cittadina di Menaggio, il loro convoglio fu raggiunto da un distaccamento motorizzato di soldati tedeschi appartenenti a un’unità contraerea. Erano duecento uomini pronti a tutto, pronti a forzare ogni ostacolo pur di guadagnare il Tirolo e di rientrare in Germania. Mussolini decise di accodarsi al distaccamento con l’idea che così protetto gli sarebbe stato meno rischioso arrivare a Merano. Cercò anche un automezzo più sicuro, e scese dalla sua Alfa per salire sulla grossa autoblindo di Pavolini, in compagnia di Claretta e di Elena Curti, costrette a stare l’una accanto all’altra.

Dopo alcuni chilometri, un piccolo gruppo di partigiani intimò l’alt alla colonna che dovette fermarsi per alcune ore, alla periferia di Musso, prima di ottenere l’autorizzazione a proseguire la marcia. 1 partigiani avevano però posto la condizione che nessun italiano vi facesse parte e che si sarebbe attuato a Dongo un minuzioso controllo dei presenti. Mussolini, che non era stato riconosciuto da quei primi partigiani in realtà piuttosto distratti, fu allora consigliato dal tenente delle SS, Fritz Birzer, di indossare un cappotto della Luftwaffe da aviere semplice e di calarsi fin sulla fronte un elmetto. Egli resisteva al travestimento, ma Claretta ed Elena lo imploravano, dicendogli che non c’era altro modo di salvare la vita. E in verità non dovettero implorarlo a lungo. Imitava Napoleone che, volendo sfuggire alla furia dei provenzali nel viaggio verso l’esilio dell’Elba, indossò un’uniforme da generale austriaco, un berretto da colonnello prussiano e un mantello russo. Per meglio mimetizzarsi, Mussolini andò a sedere sul fondo di un autocarro tedesco. Il tenente delle SD, Otto Kisnatt, gli diede un paio di occhiali neri; Fallmeyer, il comandante della colonna, gli consegnò un mitra perché la scena fosse completa in ogni particolare. Fino a Menaggio qualcuno l’aveva ancora applaudito, scorgendo l’antico trascinatore di folle che ora soltanto nel luccichio delle pupille conservava qualcosa del suo misterioso fascino. Ma non aveva davvero più seguaci. Pioveva. Così camuffato era pronto per l’ultima recita. L’immenso teatro di piazza

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Venezia non era che un ricordo, ora che gli si paravano davanti prosceni sempre più angusti dove non raccoglieva applausi. Sui muri di alcune case, ancora risaltavano i suoi motti gloriosi d’un tempo, coi loro caratteri in vernice nera, più funerei che mai: «Credere, obbedire, combattere»; «Noi tireremo diritto». Remota era la sua Romagna dove campeggiavano le scritte tracciate dalle mani degli umili suoi seguaci conterranei: «Viva il Fassio»; «Viva il Fassismo».

Claretta era stata costretta con la forza, fra pianti e grida, a fermarsi a Musso. Poco dopo, la colonna era già nella piazza di Dongo. Un luogo infausto per Mussolini, legato a un suo antico presentimento. Non vi era più tornato nel ricordo di un incidente di molti anni addietro, quando, a una curva della strada, aveva rischiato di precipitare con la sua auto nelle acque del lago. Ma ora si trovava nuovamente su quelle sponde, contro la sua volontà, poiché il destino doveva compiersi. A Dongo i camion della colonna vennero ispezionati a uno a uno. Al quinto autocarro, uno dei partigiani, un ex maresciallo, Giuseppe Negri, ebbe un sussulto. Gli parve di riconoscere, in un aviere apparentemente addormentato, proprio lui; ma un soldato tedesco lo allontanò dicendogli di lasciare in pace il camerata ubriaco. Negri allora comunicò il suo sospetto a Bill, Urbano Lazzaro, il vicecommissario politico che comandava l’operazione di rastrellamento degli eventuali fuggiaschi italiani. «Gh’è chì el Crapun» («C’è qui il Testone»), gli disse. Bill fu d’un balzo sul camion e riconobbe nel milite accucciato Benito Mussolini. Lo apostrofo dicendo: «Siete italiano?». «Sì, sono italiano», rispose lui alzandosi. Si sentirono delle alte grida: «Mussolini! Abbiamo preso Mussolini!».

Il prigioniero fu subito condotto nella sede del comune di Dongo, e «trattenuto sotto custodia», come comunicava al Comitato di liberazione Alta Italia il partigiano Pier Bellini delle Stelle, conte fiorentino e comandante della cinquantaduesima brigata «Garibaldi», noto alla macchia col nome di Pedro. Bill era impressionato dallo sguardo assente di quell’uomo, dal volto cereo divorato da «un’interna sofferenza»; la barba «gli anneriva il mento e gli appesantiva sulle guance il pallore». Bill gli leggeva negli occhi, «nella cornea giallastra, un’estrema stanchezza»; ma non c’era paura nel prigioniero; l’uomo «spiritualmente morto, non aveva più nulla da fare tra i viventi».

Mussolini aveva con sé due borse di cuoio gonfie di documenti. Si era tolto il cappotto tedesco e aveva messo sulla testa la bustina della sua disadorna uniforme, senza fregi e senza gradi. A Dongo era arrivata Claretta che amorosamente e con pervicacia lo rincorreva. Fu riconosciuta dai partigiani e quindi rinchiusa in una stanza del municipio, non lontana da quella in cui era detenuto il suo Benito.

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A Milano, gli alleati reclamavano dal Comitato di liberazione la consegna di Mussolini, ma i partigiani lombardi, pur fra scontri polemici, incertezze e contraddizioni, avevano già deciso di fucilarlo. Non rinunciarono alla loro azione di forza, respinsero la richiesta degli anglo-americani, mentre un tribunale popolare rivoluzionario pronunciava sommariamente una condanna di morte. La situazione era caotica, e Pedro a sua volta era frastornato dall’incalzare degli avvenimenti, che si svolgevano in piena casualità e che nessuno poteva controllare o prevedere. Pedro non sapeva ancora che cosa fare dei prigionieri, non avendo ricevuto ordini dai suoi superiori, irraggiungibili a causa delle difficoltà delle comunicazioni. Per il momento la sua principale preoccupazione era di non lasciarseli sfuggire, e così trasferiva Mussolini, inerme e arrendevole, dai locali del municipio di Dongo in una vicina caserma di Germasino, sui monti.

Si era messo al riparo da eventuali colpi di mano, che poteva aspettarsi anche da altri gruppi di partigiani, ma poi non seppe resistere alle disperate invocazioni di Claretta che gli chiedeva di essere ricongiunta a Benito. «Riunitemi a lui. Sono sua da tredici anni. E se deve morire, voglio morire con lui». Il capo partigiano, quel nobile ragazzo venticinquenne, ebbe il coraggio di arrendersi, e si assunse la responsabilità di consentire ai due amanti di trascorrere segretamente insieme in una cascina di campagna quelle che sarebbero state le loro ultime ore. Ciò avvenne soltanto quando, dopo ulteriori spostamenti, i due prigionieri erano stati condotti, nuovamente verso Como, nei pressi d’una località chiamata Giulino di Mezzegra. E fu l’unica notte che Claretta e Benito trascorsero interamente insieme nella stessa camera, non nello stesso letto perché le brande erano separate.

Erano già le 3 del mattino del 28 aprile quando i due prigionieri vennero introdotti nel cascinale dei De Maria, contadini in contrada Bonzanigo. Furono fatti salire in una desolata stanzetta senza che i De Maria li riconoscessero avvolti com’erano in coperte militari zuppe di pioggia. Nella stanza erano nel pieno del sonno i due figli dei contadini, che vennero svegliati e costretti a lasciare i loro letti. La madre cambiò le lenzuola, e finalmente Claretta e Benito poterono rimanere soli, ma pur sempre sorve-gliati, sul ballatoio, da due partigiani armati di mitra, Lino e Sandrino. Si svegliarono alle 11 del mattino. La contadina, sentendo dei rumori nella stanza, portò un po’ di polenta e di latte, pane e salame. Mentre mangiavano, Benito parlava a Claretta del lago corrucciato che si scorgeva dalla finestra e accennava ai monti che trasparivano fra le nubi.

Con una scorta di dodici partigiani in divisa cachi e armati di mitragliatori, era arrivato nella notte a Como il colonnello Valerio, nome di battaglia del ragionier Walter Audisio, uno dei partigiani comunisti più

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forsennati. Aveva ricevuto l’incarico di eseguire la sentenza di morte, ed era stato un incarico contrastato, una missione che due capi partigiani dell’Oltrepò, Italo Pietra e il conte Luchino Dal Verme, si erano l’un l’altro palleggiata quando, nel corso d’un’animatissima riunione, Sandro Pertini, appresa la notizia della cattura di Mussolini, aveva dato l’ordine di andarlo a prelevare immediatamente: «Bisogna portarlo a Milano, se no ci scappa». E si era rivolto a Pietra, dicendogli: «Vuoi incaricartene tu?». Quelle parole «andare a prelevarlo», potevano significare qualcosa di più. Pietra, forse intuendone il recondito senso, si schermì con giustificazioni tecniche: «II mio è un reparto militare, e l’operazione che mi si chiede di compiere è un’operazione di polizia. Non spetta a me». Pertini rivolse bruscamente la stessa domanda, mentre Luigi Longo annuiva, al conte Dal Verme, dal quale però si ebbe una risposta simile a quella di Pietra.

Partecipava alla riunione anche il colonnello Valerio, e Pertini, assai spazientito, gli intimò: «Vai tu. Sei, tu, o non sei della polizia militare?». Anche Valerio, nonostante il suo carattere ardimentoso, cercava di sottrarsi alla grave e rischiosa incombenza: «Non sappiamo bene nemmeno dove si trovi. Ci vogliono uomini, documenti, lasciapassare», diceva il colonnello, e Pertini incalzava: «Non preoccupartene. La scorta tè la darà Pietra. Avrai tutti i documenti necessari. L’importante è che tu abbia ben capito che cosa devi andare a fare». Valerio partì. Era con lui, oltre la scorta, il partigiano Guido, Aldo Lampredi, un fiduciario di Longo. Dopo le difficili tappe a Como e a Dongo, ebbe inizio la parte conclusiva, ma non meno rischiosa e incerta della missione. Non gli fu facile, ripercorrendo all’indietro la sponda occidentale del lago, raggiungere il luogo a mezza costa, Bonzanigo, dove Pedro aveva nascosto Benito e Claretta.

Alle 4 del pomeriggio, il colonnello bussava alla porta dei due prigionieri e irrompeva nella loro camera. Claretta si era nuovamente assopita e fu svegliata di soprassalto. «Andiamo! Sbrigarsi!», disse Valerio, con freddezza, ma senza l’arroganza del giustiziere. Non si mostrava col volto di un nemico: «Sono venuto a liberarvi», disse ancora. Mussolini osservò: «Ma come? Come hai fatto a trovarci?». «Mi sono travestito da partigiano, ho documenti falsi». Lui credette, forse per un attimo a quelle parole, ed esclamò: «Lo sapevo che non mi avrebbero abbandonato. Bravo. Ti darò un impero!». Claretta era in sottoveste e si attardava a ricercare fra le lenzuola le mutandine. «Sbrigarsi!», ripetè Valerio. Ma ora usava un tono scortese, e difatti aggiunse, dando a Claretta del tu: «Puoi farne senza, tanto non sei mai stata completamente vestita».

I prigionieri vennero condotti all’aperto, sotto un cielo plumbeo. Era ricominciato a piovere. Furono sospinti in un’auto, sul sedile posteriore, Mussolini alla destra di Claretta. La macchina era una «1100» nera, targata

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Roma, che Valerio aveva requisito all’ultimo istante a Dongo, compreso l’autista, un civile risucchiato suo malgrado nel vortice della più risolutiva delle azioni partigiane. Davanti, accanto all’ignaro guidatore, sedeva l’emissario di Longo, mentre Valerio si acconciò in bilico sul parafango anteriore destro per non perdere di vista i due prigionieri ammutoliti e attoniti. Contro di loro teneva puntato il mitra. Sul predellino laterale di sinistra era saltato, rimanendo in piedi, Pietro, cioè Michele Moretti, il commissario politico comunista che aveva fatto da guida a Valerio alla ricerca del cascinale dei De Maria.

«Ecco! Qui!», disse il colonnello all’autista battendo col calcio del mitra sul parabrezza dell’auto che si fermò presso il muretto di cinta d’una villa, sempre in località Giulino di Mezzegra. Mussolini, avvolto in un pastrano grigio, fu condotto nella breve rientranza del cancello dell’edificio. Claretta, stretta in una corta pelliccia di visone, non gli era più lontana d’un metro, e, mentre il colonnello alzava il mitra, gridò in preda al terrore, coprendo Benito col suo corpo: «No, lui non deve morire!». Molti anni addietro, quando non era che una bambina e già si sentiva attratta da quell’uomo, aveva scritto alcuni versi per augurargli lunga vita: «Gesù conservalo cent’anni ancora / al nostro amore forte e sicuro». Un’implorazione inascoltata. Gridando, Claretta si aggrappava con le mani alla canna del mitra per allontanarla dal bersaglio. «Levati, se no ammazzo anche te», le ordinò Valerio. Poi, impersonalmente, aggiunse: «In nome del popolo italiano...». Premette più volte il grilletto dell’arma che fece cilecca. Nel momento supremo, il mitra si era inceppato. La tensione era altissima, sbarrati erano gli occhi di tutti, giustizieri e vittime. Valerio, che grondava sudore, si volse imperiosamente a Pietro dicendogli: «Dammi la tua arma». Poi ripetè la formula, con affanno: «In nome del popolo italiano...», e sparò con crudeltà su entrambi, prima su Claretta, che ancora si avvinghiava al suo uomo, poi su Mussolini.

Il giorno successivo i corpi inanimi e tumefatti di Benito e Claretta, riconoscibili soltanto dalle targhette di identificazione, pendevano a testa in giù, appesi con ganci da macellaio alla tettoia di un distributore di benzina, in piazzale Loreto a Milano. Erano affiancati da altre vittime, grandi gerarchi del regime, fedelissimi personaggi della repubblica fantasma passati anch’essi per le armi dai capi partigiani nell’esaltazione della vittoria. Lo spettacolo orrendo di sette cadaveri insanguinati e straziati pendenti da una putrella e di numerosi altri ammonticchiati disordinatamente sul terreno, era applaudito dalla folla che accorreva nel piazzale, mentre la radio proclamava: «Giustizia è fatta! Il tiranno è morto!». Una sensibile donna amante della vita, Sibilla Aleramo, scriveva nel suo diario segreto di poetessa: «II popolo ha voluto fare giustizia da sé.

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Forse il castigo sarebbe stato più adeguato se si fosse proceduti per vie legali? Chi può dire?». Lui, atrocemente, aveva pagato il conto, ma la sua vicenda, fra avversari e nostalgici, non finiva lì, passava male alla storia. Un altro Mussolini? No, grazie! Il racconto della sua vita è un antidoto alla ripetizione di eventi troppo luttuosi di cui non è lecito disperdere il ricordo.