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Schede sull’enciclica Caritas in veritate a cura della PASTORALE SOCIALE E DEL LAVORO DIOCESI DI VICENZA DIOCESI DI VICENZA IN IN IN VERITA VERITA VERITA TE TE TE

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Schede sull’enciclica Caritas in veritate

a cura della PASTORALE SOCIALE E DEL LAVORO

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Carissimo amico/amica,

hai tra le mani un piccolo fascicolo modesto. L’idea ci è ve-nuta in occasione della pubblicazione dell’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI (giugno 2009), indirizzata non solo ai credenti ma a tutti gli uomini di buona volontà. Sappiamo bene che leggere un do-cumento papale non è semplice. A volte ci accontentiamo di poche righe ritagliate sui giornali, che non sempre ci presentano la sostan-za. La verità dunque, tema molto caro al nostro papa, è anzitutto da mettere in conto nel leggere veramente questa enciclica piena di provocazioni.

La pastorale sociale è uno degli ambiti che la Chiesa si as-sume in fedeltà al mandato di Gesù Cristo che affida ai suoi discepoli una “giustizia maggiore” di quella degli scribi e dei farisei (Mt 5,20). Che non è moltiplicazione di processi, o asprezza di sanzioni (anche se di giustizia limpida e imparziale c’è bisogno più che mai), la “giustizia maggiore” di cui parla Gesù è quella che ognuno di noi concepisce dentro di sé, nel cuore, nell’intelligenza, nei giudizi che dà (o che non vuole dare), nelle misure che pretende e che concede. La giustizia parte dall’ospitalità che ognuno di noi dà ad ogni fratello e sorella di questo mondo, dal rispetto e salvaguardia di quello che non è nostro ed è di tutti, come la vita, l’ambiente, alcuni beni come la salute, la cultura, ecc. Pur trattando della carità nella verità l’enci-clica sociale di Benedetto XVI entra proprio in queste questioni gran-di e importanti, da riprendere urgentemente in un tempo in cui i nostri pensieri e le nostre occupazioni sono catturate dalla crisi. Ma questa crisi sta fuori di noi, o sta dentro di noi?

La nostra diocesi ha pensato di offrire un contributo che aiu-tasse i Consigli pastorali delle parrocchie, i vari gruppi e associazioni e fare proprie le riflessioni della Caritas in veritate nell’anno pastorale 2009-2010 che ha scelto come percorso “Chiesa scuola di comunio-ne”.

Non abbiamo timore di contagiare il vangelo con la vita, e ancor meno di contagiare la vita con il vangelo. L’enciclica del papa e queste semplici schede di accompagnamento possano incammi-narci sul sentiero di una fede che si incarna sempre di più in uno stile personale, che diventa comunitario, provocando interrogativi ma an-che proposte sulla “verità che è la carità”. È anche questa un scuola irrinunciabile di comunione.

+ Cesare Nosiglia

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È un testo profondo e denso. La scrupolosità con cui so-no trattati i temi è proporzionale al lavoro che l’enciclica ha ri-chiesto (quasi due anni).

Il motivo dell’enciclica è un fatto interno al magistero papale stesso, che nella questione sociale (lavoro, economia, giustizia …) dal 1891 (Rerum novarum) riprende con una certa regolarità gli scritti precedenti, celebrandone l’anniversario ma mostrando anche un’attenzione alla storia del mondo, alle vicende che si modificano, alla necessità di applicare le parole immutabili del vangelo alle situazioni sempre nuove che il progresso (o il declino) segnala.

Nel 2007 ricorreva il 40° anniversario dell’enciclica di Paolo VI Populorum progressio (1967), di cui il papa Benedet-to (creato cardinale proprio da Paolo VI) intendeva celebrare la memoria con un testo che sembrava pronto a metà del 2008, ma non poteva essere trascurato il fenomeno che iniziava ad imporsi in quel periodo, la ben conosciuta crisi economico-finanziaria mondiale.

Celebrare un anniversario, e attenzione al presente … progresso (tema centrale dell’enciclica di Paolo VI) e crisi (2008). Il papa ha il coraggio di uscire da letture semplicistiche della crisi attuale, non la considera solo una recessione molto severa, ma una rottura strutturale, che richiede azioni in-novative e un rinnovato discernimento, per cogliere molti motivi di inquietudine nell’ora presente dell’umanità ma anche una via di autentico cammino in avanti. Dando un’oc-

Nota introduttiva

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chiata generale all’enciclica – vista questa breve premessa – si può avere chiaro l’ordine delle questioni trattate dal papa (vedi il titolo dei sei capitoli nella pagina iniziale).

È forse la parte più ‘teologica’ dell’enciclica, che introduce:

1) la ragione stessa del LEGAME TRA FEDE E VITA SOCIA-LE (ECONOMICA): la fede non è solamente un affare pri-vato, solitario, intimo …

2) il rapporto tra VERITÀ e CARITÀ: il papa si ispira al ver-setto della lettera agli Efesini 4,15, che richiamiamo, perché utile a capire questo rapporto verità-carità, come indice della “maturità cristiana”. Scrive Paolo: «non saremo più fan-ciulli in balìa delle onde, trasportati qua e là da qual-siasi vento di dottrina, ingannati dagli uomini con quella astuzia che trascina all’errore. Al contrario, agendo secondo verità nella carità, cerchiamo di cre-scere in ogni cosa tendendo a lui, che è il capo, Cri-sto» (4,14-15). Il papa, però, rovescia l’ordine; non dunque «la verità nella carità» bensì la «carità nella verità». Di qui viene il titolo dell’enciclica.

3) Il motivo per il quale «fare la carità nella verità» è la via ma-estra della dottrina sociale della chiesa è così spiegato da Benedetto XVI: «La carità dà vera sostanza alla rela-zione personale con Dio e con il prossimo … è il do-no più grande che Dio abbia dato agli uomini, è sua

Suggeriamo di leggere l’introduzione

(nn. 1-9)

CONTENUTI

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promessa e nostra speranza» (n. 2). Dunque non è a ri-schio semplicemente la VERITÀ ma la CARITÀ stessa, cioè la possibilità «di fraintenderla, di estrometterla dal vissuto eti-co, di impedirne la corretta valorizzazione» (n. 2), rischio so-prattutto dell’ambito sociale, giuridico, culturale, politico ed economico, nei quali la carità viene dichiarata IRRILEVAN-TE. Questa enciclica rivendica in maniera forte il valore poli-tico ed economico della carità, ed è grazie al bene comune che la carità assume una dimensione sociale (vedi n. 7).

La carità è «forza di sviluppo» della quale la Chiesa si fa te-stimone come umile serva della verità (una bella definizione di Chiesa, ed una limpida motivazione dei suoi interventi su molti ambiti …). La missione della Chiesa è ‘servizio umile’ della verità: «la ricerca, l’annunzia instancabilmente e la ri-conosce ovunque si palesi» (n. 9). Fa parte della missione di annuncio del Vangelo anche «la testimonianza della carità di Cristo attraverso opere di giustizia, pace e sviluppo» (n. 15).

L’ATTENZIONE – CURA – IMMEDESIMAZIONE con il prossimo e i suoi problemi, dovrebbero essere connaturali alla vita cristiana, ma tutto rischia di immiserirsi, di essere irrilevante se … la RELAZIONE non torna ad essere testi-moniata nella verità dell’annuncio (cfr. n. 15). VERA UR-GENZA – che va “capita fino in fondo” e deve “mobilitare il cuore” (dice il n. 20) – è la FRATERNITÀ. Il papa che scri-ve queste cose, sembra voler dire che nemmeno il cristianesi-mo ha capito fino in fondo la fraternità (che del resto è un tema che la Parola di Dio pone dall’inizio sotto i nostri occhi: il primo omicidio nella Bibbia è una fratricidio … ).

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Sarà nostro dovere assumere di nuovo, e con più forza e mediazioni, la “novità” dell’esse-re cristiani rispetto a quella che fu chiamata la “ovvietà” del nostro cristianesimo vissuto come elemento di tradi-zione e di costume scarsamente incisivi nella vita di tutti […] Il primo degli inviti è quello di intendere la ca-rità come vera e propria santità a cui siamo chia-mati. Giudico pericoloso dissociare i due concetti, quasi fosse possibile nella prassi cristiana “fare” della carità senza “essere” intrinsecamente caritatevoli, ossia fatti vivere dallo Spirito di santità che è agape. È questo il progetto completo dell’esistenza umana pensata da Dio (cf. Ef 1,4), progetto non riservato ad alcuni, ma affidato a un popolo che lo espanda nella vita di tutti, affinché tutti diventino popolo […] Il secondo degli inviti sgorga direttamente dal primo: chiamati alla santità che la carità produce ed esprime, dove e come vivremo tale santità caritatevole? La domanda pare accademica, ma non lo è: infatti non di rado si pensa e si agisce da cristiani come se la carità di Gesù Cristo, più che anima d’una storia rinnovata, dovesse assumer-si soltanto il compito di pietosa infermiera d’una storia che non si potrà mai rinnovare […] Prontis-simi dunque, se è il caso di ripeterlo, a chinarsi sulle pia-ghe della società italiana, con il gesto del samaritano; ma non meno disposti ad animare questa società stessa con l’amore, in modo tale che quelle piaghe possano non for-marsi, grazie a una educazione e ad istituzioni veramen-te piene di cura per l’uomo. Domandiamoci tuttavia ini-ziando il nostro convegno se tale certezza è in noi, o se un sottile pessimismo non serpeggi talora nei nostri pensieri e nei nostri progetti, quasi appunto che la carità fosse soltanto adatta alla patologia e non alla fisiologia della nostra vita sociale.

… per fare memoria

card. Saldarini al III Convegno CEI (Palermo) 1995

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È amore ricevuto e donato, non è iniziativa ma risposta ac-cogliente e poi “restituita”. È grazia … termine quasi scom-parso e sepolto dalla logica mercantile. È il mercato che ha distrutto la parola gratis, la più vera e solida realtà della nostra vita che è l’amore sorgivo del Padre per il Figlio nel-lo Spirito Santo, amore che discende gratuitamente.

È amore creatore per cui siamo creati, amore redentore per cui siamo ricreati. Ne siamo destinatari (siamo come alla fine di una catena e non al suo inizio) e ne diventiamo sog-getti, cioè strumenti della grazia (n. 5).

La teologia qui riassunta in poche righe è la sostanza della nostra fede, la sintesi dei due misteri principali: l’unità-trinità di Dio (sorgente di tutta la realtà) e l’incarnazione-passione-morte-risurrezione di Cristo (la via e la meta di tutta la realtà). Tutta la ‘dottrina’ (che è in qualche modo la lettura del mistero) si annoda a questa “dinamica di carità ricevuta e donata”, anche quando si tratta della dottrina “sociale”.

Ecco il binomio sul quale insiste tanto Benedetto XVI, il binomio carità e verità: il dono, la relazione, il legame’ diventano il logos (la verità, la ragione del nostro vivere). E l’agire, come ogni progetto che nasce dal pensare, si appog-gia solidamente su un legame di fiducia (destinatario e sog-getto dell’amore).

CARITÀ È:

«Senza verità, senza fiducia e amore per il vero, non c’è coscienza e responsabilità sociale, e l’agire sociale cade in balia di privati interessi e di logiche di potere, con effetti disgregatori sulla società, tanto più in una società in via di globalizzazione, in momenti difficili come quelli attuali» (Caritas in veritate, 5)

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Senza la fiducia e senza l’amore per il vero c’è solo interesse, potere e disgrega-zione. È qui, forse, uno dei punti più alti dell’enciclica: quando manca la verità-carità (senza …) ciò che cresce non è lo sviluppo ma un suo terribile surrogato che è la forza di uno sugli altri (potere), è la fragilità-liquidità di ogni legame (disgregazione), è la pretesa di vantaggi in ogni relazione (interesse).

Per ogni capitolo dell’enciclica segnaliamo alcuni testi della Parola di Dio che possono aiutarci a meditare le tematiche che il papa suggerisce.

La Parola è fonte inesauribile di ricchezza, essa vale più dell’oro e dell’argento (Sal 19,10-11), è sincera nel rappresentarci come uomini e donne invitati ad un’al-leanza che non è solo con il Dio altissimo ma anche con ogni fratello e sorella, vicini o stranieri. Il concilio Vaticano II dice che non basta la luce dell’esperienza umana per analizzare i problemi della vita sociale e umana, grande aiuto ci viene dalla luce del Vangelo (cfr. GS 46).

«“Padre Abramo, ti prego di mandare Lazzaro (il po-vero) a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’-essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro ... Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi nean-che se uno risorgesse dai morti”» (Lc 16,27-31)

LA PAROLA

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La comunità cristiana è invitata ad essere sale della terra luce del mondo (Mt 5,13-14), cioè gusto per tut-to ciò che si intraprende e aiuto a chiarire la verità di ciò che viviamo.

Il profeta Zaccaria in uno dei suoi oracoli sul ritorno a Gerusalemme annuncia che «popoli numerosi e nazioni potenti verranno a Gerusalemme a cercare il Signore de-gli eserciti e a supplicare il Signore ... In quei giorni, dieci uomini di tutte le lingue delle nazioni afferreranno un Giudeo per il lembo del mantello e gli diranno: “Vogliamo venire con voi, perché abbiamo udito che Dio è con voi” » (8,20-23).

Non ci può essere nessuna presunzione, eppure è lo stile della comunità che attira e interroga ancora gli uomini e le donne di oggi, i popoli … L’indifferenza è forse anche frutto di una comunità cristiana incoerente (cfr. Rm 2,24), che dissocia sempre più la fede professata e la vita quotidiana.

Il discernimento è il frutto dello Spirito che si incarna nella verifica delle nostre priorità pastorali, nello sguardo un poco più profondo sul motivo e sulla direzione di ini-ziative pastorali che mettiamo in atto. E il discernimento molto spesso è provocato anche dalla collaborazione con tutti gli uomini di buona volontà, dalla loro onestà e coe-renza ...

Per questo in ogni scheda suggeriremo un piccola griglia di domande che possono dare inizio anche ad uno stile di discernimento su ambiti della pastorale che non conside-riamo abbastanza ...

… per il confronto

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Abbiamo bisogno del tuo Soffio, Signore per resistere al desiderio di abbandonare tutto quando si ride di noi, quando si grida che non c’è niente che serva a qualcosa e che bisogna essere pazzi per credere in te! Abbiamo bisogno del tuo Soffio per opporci alla tentazione continua di cercare rifugio nel passato e per inventare alla tua Chiesa un bel volto luminoso di tenerezza e accoglienza. Abbiamo bisogno del tuo Soffio per attizzare la nostra speranza, quando essere crocifissi è una realtà quotidiana, quando la fedeltà è sottoposta a usura, quando la stupidità è vincente e il mondo sembra incrinato. Abbiamo bisogno del tuo Soffio per annunciare il Vangelo non con le parole già logore ma con la nostra presenza di carne e di sangue su ogni regione di gioia e di dolore in cui l’umanità è sul punto di germogliare. Vieni, Signore, a vivere con noi e a creare, ad amare ed a lottare, abbiamo bisogno del tuo Soffio nello spirito e nel cuore!

per la preghiera

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La lettura dei capitoli 1 e 2 insieme, è suggerita dall’enci-clica stessa. La Populorum progressio (Paolo VI - 1967) fu il primo testo papale che parlò dello sviluppo (in latino progres-sio) dei popoli, facendone un’idea chiave dell’impegno di promo-zione umana. Il concilio era terminato da due anni (1965) e Pao-lo VI si sentiva impegnato a far risuonare il messaggio di una Chiesa che guarda con grande attenzione alle sorti del mondo, soprattutto dei poveri. La nuova enciclica di Benedetto XVI a sua volta fa risuonare dopo più di quarant’anni proprio quell’encicli-ca del “papa delle tempeste che non ha mai dubitato”. Paolo VI aveva lanciato il segnale: “per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo” (PP 14). Il capitolo primo della Caritas in veritate ci accompagna nuovamente a quella sorgente.

1967: iniziava l’ubriacatura del progresso, il consumismo, si affacciava sulla scena dell’Occidente un fortissimo scontro del-le ideologie, il “’68”, la comunità cristiana era in disagio e con qualche delusione nel post-concilio. Tutto questo soffocò l’enci-clica preziosa, accorata, forte e lucida di Paolo VI. Essa rimase nel cassetto e papa Paolo fu profeta inascoltato. Dopo 40 anni (come fece per il ventennale anche Giovanni Paolo II con la Sol-licitudo rei socialis) Benedetto XVI riprende il tema spinosissi-mo dello sviluppo, ritrovandone ancora una volta il cuore del messaggio morale cristiano (cfr. CiV, 13) … lo sviluppo umana-mente e cristianamente inteso è via per una civiltà animata dal-l’amore (Paolo VI, 1975 alla chiusura dell’Anno santo). Benedet-to ribadisce che lo sviluppo è “vocazione” è risposta ad un “disegno di Dio”.

Il messaggio della Populorum progressio

Lo sviluppo umano nel nostro tempo

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Nel capitolo 1° della Caritas in veritate sono molti gli spunti che possiamo fare nostri: ricorda il concilio dentro alla tradizione “fedele e dinamica” della Chiesa (che significa “discernere le nuove esigenze dell’evangelizzazione”); suggerisce che “le istituzioni da sole non bastano”; afferma che l’uomo di oggi è come strappato tra due eccessi, da una parte “assolutizzare ideologicamente il progresso” (guai fermarsi, tutto va sacrificato alla crescita, all’aumento in quantità … all’avere di più), dall’altra l’uomo è trascinato verso “l’utopia di un’umanità tornata all’originario stato di natura” (tornare indietro, demo-nizzare ogni avanzamento, puntare tutto sulla ‘guerra allo svi-luppo’). Tutto questo fa dimenticare che l’uomo deve risponde-re di ciò che fa (verificare gli effetti e calcolare per quanto può le conseguenze) e di ciò che non fa (non lasciare che tutto va-da come va … rifugiandosi nella protesta o nella compiacenza della catastrofe). L’uomo deve rispondere e rispondersi, porre a se stesso domande etiche (è buono … è bene, ciò che faccio o ciò che ometto di fare?). La “verità” dello sviluppo — afferma il papa al n. 18 — consiste nella sua “integralità”. Che è lo sguardo gran-de, verso dimensioni troppo trascurate (l’apertura a Dio), sguar-do che vede anche l’uomo in difficoltà, il povero … che vede l’in-giustizia, intuisce le premesse di risultati disumani in opere che oggi ci appaiono “di sviluppo”. Per immergersi in questo capitolo I bisognerebbe rileggersi di nuovo e meglio la Populorum progressio.

Il capitolo 2° aggiunge (rispetto a Populorum progres-sio) la lettura di ciò che nel nostro tempo caratterizza lo svi-luppo, ne segnala i rischi e le potenzialità. È un buon punto di discernimento sul nostro mondo e sulle sue direzioni … Benedet-to ci invita a guardare al modello del nostro sviluppo: come pro-durlo?, come utilizzarlo?. La crescita reale, estesa a tutti, concre-tamente sostenibile … è davvero il nostro modello? Vi sono “distorsioni e drammatici problemi”, e le scelte riguardano sem-pre più il destino dell’uomo. Segnaliamo solo un elenco somma-rio delle distorsioni/problemi che il papa individua:

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La Chiesa è a servizio di Dio e del mondo (questa è la visione di Pao-

lo VI, sgorgata come sorgente limpida al Vaticano II), il che com-prende due verità secondo Benedetto XVI (n. 11):

1) tutta la Chiesa quando ANNUNCIA - CELEBRA - OPERA promuove lo sviluppo integrale dell’uomo. Questo è il “ruolo pubblico” della Chiesa (n. 11) … che non si esaurisce o limita alle sue attività caritative/educative;

2)L’autentico sviluppo riguarda tutte le dimensioni dell’uomo (non solo quella materiale e storica).

Limitare il compito della caritas a “qualcuno” nella comu-nità (senza farne l’anima viva di tutta l’opera e dell’evangelizza-zione della Chiesa) è lontano dalla visione del vangelo e dalla via che la Chiesa può e deve percorrere secondo il Concilio. Limitare dall’altra parte l’uomo alla materia-storia (ai suoi bisogni mate-riali e ridurre tutto alle misure del tempo sulla terra, in questa

Aumento delle disparità (scandalo delle disuguaglianze);

Eccessive protezioni delle conoscenze da parte dei paesi ricchi;

Il potere politico degli Stati in ambito economico è sempre più limitato;

Riduzione della sicurezza sociale (paradisi fiscali, tagli alla spesa sociale, carente capacità negoziale dei sindacati, mo-bilità lavorativa, disoccupazione);

Nuovo contesto culturale (mercificazione degli scambi, ap-piattimento culturale);

La fame (accesso alle risorse);

Chiusura all’accoglienza della vita (impedita);

Negazione del diritto alla libertà religiosa (terrorismo, in-differenza religiosa).

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vita ...) sono due modi per non assumere pienamente il vangelo. La soluzione che Benedetto XVI propone è pienamente in linea con Paolo VI: le istituzioni non bastano (anche nella Chie-sa?), c’è una vocazione dello sviluppo integrale che cor-risponde all’essere immagine di Dio. Sopra la nostra ma-teria e la nostra storia c’è un disegno di Dio, una vocazione. Noi credenti su questo progetto “grande e alto” ma anche “personale e comunitario insieme” dovremmo essere in qualche modo “esperti”.

Noi cristiani non ci siamo fermati abbastanza su questa vocazione, sull’incapacità a darci (da soli) il significato della vita, come siamo incapaci del resto di darci la vita stessa … An-che noi pensiamo che siano le strutture a garantire lo sviluppo oppure che siano le strutture responsabili del sottosviluppo. E lottiamo molto per difendere o per smantellare le strutture. Que-sto non basta, ci dice il papa.

«Il sottosviluppo ha una causa più importante della ca-renza di pensiero … ed è la mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli» (n. 19 con rifer. a PP 66) . Il mondo globale ci rende sempre più vicini e sempre meno fratelli, per questo non basta la democrazia, la giustizia, la correttezza … perfino l’etica è insufficiente.

20 - Per incontrare l’uomo sulla strada del Regno e annunciargli la bella notizia della misericordia del Padre, la co-munità cristiana deve farsi attenta alla realtà complessa del nostro tempo. La storia quotidiana, infatti, è il luogo nel quale sta crescendo il Regno di Dio, pur in mezzo a resistenze e peccati. Per la legge dell’incarnazione del Figlio di Dio nel mondo, la storia degli uomini è parte integrante della storia della salvezza. Di conseguenza l’azione evangelizzatrice «se vuole avere più efficaci risultati nelle menti di coloro che ascoltano, non può limitarsi ad esporre la Parola di Dio in termini generali ed astratti, ma deve applicare la perenne verità del Vangelo alle circostanze concrete della vi-ta».

[…] Proprio per essere fedeli al Dio che si rivela nella storia occorre supe-

… per fare memoria

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Il nostro attuale modello di sviluppo va verificato … esso è un fatto positivo ma

«continua ad essere gravato da distorsioni e drammatici problemi, messi ancor più in risalto dall’attuale situazione di crisi» (n. 21).

Cos’è questa drammaticità e distorsione? Le nostre scelte riguardano il destino dell’uomo, il bene presente e il bene fu-turo (come insisteva H. Jonas).

Tale situazione implica un nuovo sforzo di comprensio-ne unitaria e una nuova sintesi umanistica, un profondo rinnovamento culturale, riprogettare, darci nuove regole, nuove forme di impegno … «La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità. In questa chiave, fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le dif-ficoltà del momento presente» (n. 21).

È necessario un discernimento sapienziale, che non è un

rare ogni atteggiamento di immobilismo e non perdere alcun frammento di vita e di verità nascosto nei fatti e nelle relazioni umane. Il coraggioso atteggiamento di discernimento e di sperimentazione della comunità cri-stiana è reso sicuro dalla forza dello Spirito Santo e dalla luce della Paro-la autenticata dal Magistero dei Pastori...

In questo modo la comunità cristiana si fa attenta ai fatti e ai problemi della vita; riconosce i «segni dei tempi» e distingue i germi del peccato e di morte dai germi di vita e di amore; diventa sempre più «lievito» che spinge alla liberazione integrale dell’uomo. Guardando con simpatia e profondità al modo di pensare e di agire degli uomini d’oggi, le comunità cristiane possono cogliere molti aspetti che interpellano e orientano la loro missione di evangelizzazione e possono scoprire e contemplare la meravigliosa azione dello Spi-rito Santo che opera nel cuore di tutti gli uomini, di tutti i credenti e di tutte le Chiese.

Documento finale 25° Sinodo dioce-

sano, Vicenza 1987

SVILUPPO È:

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Un giorno Mosè, cresciuto in età, si recò dai suoi fratelli e notò i loro lavori forzati. Vide un Egiziano che colpiva un Ebreo, uno dei suoi fratelli. Voltatosi attorno e visto che non c’era nessuno, colpì a morte l’Egiziano e lo sotterrò nella sabbia. Il giorno dopo uscì di nuovo e vide due Ebrei che litigavano; disse a quello che aveva tor-to: «Perché percuoti il tuo fratello?». Quegli rispose: «Chi ti ha costituito capo e giudice su di noi? Pensi forse di potermi uccidere, come hai ucciso l’Egiziano?». Allora Mosè ebbe paura e pensò: «Certamente la cosa si è risaputa». Il faraone sentì parlare di questo fatto e fece cercare Mosè per metterlo a morte. Allora Mosè fuggì lontano dal faraone e si fermò nel territorio di Madian e sedette presso un pozzo. (Es 2,11-15)

Il primo testo dell’Esodo ci presenta l’inizio del cammino di liberazio-ne. Ad un popolo schiavo si presenta un giorno Mosè, che gli ebrei sentono rivolgersi a loro come fratelli (eppure Mosè è ancora nella ca-

La carità non esclude il sapere, anzi lo richiede, lo promuove e lo anima dall’interno. Il sapere non è mai solo opera dell’intelligen-za. Può certamente essere ridot-to a calcolo e ad esperimento, ma se vuole essere sapienza capace di orientare l’uomo alla luce dei principi primi e dei suoi fini ulti-mi, deve essere “condito” con il «sale» della carità. Il fare è cieco senza il sapere e il sapere è steri-le senza l’amore. Infatti, «colui che è animato da una vera carità è ingegnoso nello scoprire le cau-se della miseria, nel trovare i mezzi per combatterla, nel vin-cerla risolutamente» (Caritas in veritate, 30)

LA PAROLA

semplice esercizio di riflessione, di pensiero. Sapienza significa mettere insieme l’intero bene del-l’uomo (la sua dimen-sione materiale, la di-mensione spirituale, la luce del vangelo, l’infor-mazione accurata sulle situazioni, una sintesi orientativa: verso dove stiamo andando. Ma anche una sintesi che apre alla concretezza: quali aspetti oggi sono da osservare meglio e orientare meglio).

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La parola suscita in noi la domanda: ma noi, vogliamo davve-ro la libertà? Siamo un popolo che conserva almeno la nostal-gia di un umanesimo pieno … oppure la schiavitù è diventata così forte da averci assuefatti, abituati, perfino incapaci di de-siderare un cammino libero?

La parola “fratello” (ne è così ricca la liturgia domenicale ...) in bocca a Mosè, il potente, che dice a noi?

La fisionomia della nostra comunità, le sue solitudini, le avi-dità più o meno legittime, i luoghi e i tempi che dedichiamo ad una lettura sapienziale. Da dove partiamo per i nostri

Il secondo testo (Is 5,8) è invece un piccolo gioiello di lettura sapien-ziale del profeta, il quale, dopo il canto della vigna (Israele che tradisce l’amore di Dio e produce frutti selvatici) snoda per sei volte “Guai!”. Ma anziché “castighi” il profeta insegna a leggere la semplice conse-guenza di ciò che l’uomo mette in atto. In questo caso l’avida somma di tutto (case e campi) si trasforma in una solitudine tremenda: avete tutto, avete preso tutto, e non c’è volto di uomo che possa farvi compa-gnia … Si possono leggere anche i versetti che seguono: palazzi belli e grandi ma desolati, campi infiniti ma senza operai che li fanno fruttare … solitudine e sterilità. Altro che sviluppo!

«Guai a quelli che aggiungono casa a casa, che uniscono campo a campo, finché non rimanga più spazio, e voi restiate soli ad abitare nel paese». (Is 5,8)

… per il confronto

sa del potente … anche se potente Mosè si riconosce fratello). Gli ebrei appena vedono Mosè che uccide un egiziano, non approfittano della presenza di un liberatore, non colgono l’occasione … anzi lo accusano. È un’immagine efficace di un popolo che non ha più nemmeno il desi-derio della libertà. E del resto Mosè stesso comprende che non sono le vie violente a trascinare il popolo. Ci vorrà la rivelazione del roveto (al cap. 3) … quando Dio stesso invia a liberare ...

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discernimenti?

Abbiamo luoghi e tempi per riconoscere la nostra vocazio-ne (personale e comunitaria) dentro al “disegno di Dio”?

L’affermazione del papa sulla vicinanza che non diventa fraternità … Com’è il nostro modo di essere vicini e di es-sere fratelli? Che cosa fa, in fondo, la differenza tra l’esse-

ma non hanno cuore e intelligenza, sono solo delle macchine sofisticate. Come loro diventa chi le fabbrica, uno schiavo chi le usa tutto il giorno; ma chi mitizza il potere della scienza ed esalta un progresso senza limiti è sempre più sterile o angosciato. Noi invece ci affidiamo al Signore, solo lui è vero aiuto e difesa; l a Chiesa si affidi al Signore, solo lui è vero aiuto e difesa; ogni persona si affidi al Signore, solo lui è vero aiuto e difesa. Il Signore ci conosce per nome, ci benedice con amore di Padre; beati voi poveri e miti, voi persone pure di cuore; beato chi soffre e perdona, chi ama e riscatta i nemici. Beato chi cerca la giustizia, chi costruisce con tenacia la pace; beato chi ha cura dell’ultimo, chi spera e insegna a sperare; beato chi ha cuore e coraggio d’essere libero e non uno schiavo. Dagli idoli e dai miti dell’uomo vengono morte, sangue, dolore e bestemmie che salgono al cielo. Dai credenti e dagli uomini onesti venga vita, gioia, fiducia e una lode incessante al Signore.

Parafrasi sul salmo 113b

Non su di noi, Signore, non sul nostro modo di agire concentra l’attenzione delle persone, ma sul tuo amore fedele e potente perché tu solo sei degno di lode. Troppa gente ancora si chiede: «Ma Dio esiste veramente? A cosa serve la sua presenza?». La tua presenza è spirito o vita, tu susciti amore e perdono. Gli uomini invece cercano idoli: ideologie e miti da consumare, conti in banca e case di piacere, onorificenze e posti di comando, il controllo e il plauso dei mass media. Loro idolo è anche la scienza, la tecnologia e le reti informatiche, i calcolatori e i cervelli elettronici: hanno memoria e grandi capacità di lavoro

per la preghiera

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Il papa ha dichiarato l’obiettivo dell’enciclica al n. 20: «la realizzazione di un’autentica fraternità. La rilevanza di questo obiettivo è tale da esigere la nostra apertura a capirlo fino in fondo e a mobilitarci in concreto con il «cuore», per far evolvere gli attuali processi economici e sociali verso esiti pienamente u-mani». Da molte parti oggi si cerca di “pensare l’enciclica”, men-tre è l’enciclica che fa “pensare” (capire fino in fondo) e “agire” (mobilitare il cuore): gli esiti dei processi dipendono da noi!

Su questo obiettivo (la fraternità) il capitolo 3° dell’enci-clica propone delle applicazioni sul piano propriamente econo-mico. Anzitutto la diagnosi comincia dall’osservare che «l’esperienza stupefacente del dono» (n. 34) è una “verità spen-ta”, fin dalle origini. L’uomo, che è fatto di dono ed è fatto per il dono, presume di essere invece autore della propria vita (il papa vede in questa “chiusura solitaria” il peccato originale, che feri-sce la natura dell’uomo e lo inclina al male). Si potrebbe ricorda-re proprio due “peccati originali” che hanno per protagonisti due fratelli che vivono in maniera difficile la loro fraternità (Caino e Abele), oppure quel peccato originale che unifica i fratelli in un progetto massificante e unico, la costruzione di una città e di una torre (Babele). Riprenderemo il primo di questi testi nella fine-stra “la Parola”.

Nell’economia l’uomo prova l’ebbrezza di essere autore solitario (anziché fratello) della propria potenza. Non solo l’uo-mo usa l’economia, ma ne abusa in modo distruttivo. A conte-stare questa ebbrezza, secondo il papa, sta il semplice fatto che il fratello nessuno lo può produrre, ognuno lo trova e lo riceve. E questa esperienza del “non poter produrre” il fratello, l’altro, o-gni altro, è la verità che va riaccesa in economia. Questa verità è un dono che Dio fa all’esistenza di ciascuno e alla coscienza di ciascuno: se io ci sono, se l’altro esiste, è per questa “ragione”:

Fraternità, sviluppo economico e società civile

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Il MERCATO è un fondamentale luogo di incontro e di scambio. Ma non tutto può essere messo sotto questa legge inflessibile del “prezzo” e dell’“equivalenza”. C’è qualcosa che sfugge al mercato, ed è la dignità del fratello, al quale alcuni beni vanno assicurati per una “giustizia” più grande di quella dello scambio, ed è la “giustizia” dell’essere custode del fratello, dove il bene che viene scambiato senza nessun prezzo è la relazione gratuita con l’altro. Le implicazioni sono davvero importanti. Noi, ad esempio, sentia-mo spesso parlare di “spesa sociale”. E la si contrappone alla “crescita economica”. Possiamo chiederci: ma la spesa sociale è uno “spreco” o un “investimento”? Ridurre la povertà, “includere” tutti nella produzione (anche i disabili, i poco efficienti …) è “crescita” oppure no? Diffondere una cultura e un apprezzamento della reciprocità nella sfera pubblica, è forse una sfida ancor più grande della democrazia. Uno dei segnali, piccolo ma eloquente, è che l’accumulo (anche in Italia) è diventato più importante del la-voro. Ci possiamo riferire alla “piccola” ma sempre più diffusa

l’amore di qualcuno, anzi l’amore di Qualcuno. È il principio di gratuità, inciso nella storia biografica di ciascuno di noi: la soli-tudine è solo un ritorno indietro, una regressione, un impoveri-mento, uno sviluppo alla rovescia …

Nei seguenti nn. 35-42, il papa entra in questioni molto precise, che toccano il senso del mercato, del povero e dell’im-presa. In questi ambiti il principio di fraternità “impone” un cri-terio all’opposto di quello che normalmente accompagna l’eco-nomia. Infatti il nostro modello economico (capitalista) ricono-sce il valore del “dare” ma lo riduce a due dimensioni (n. 39): si dà per avere (tutto è scambio) oppure si dà per dovere (tutto è doverosità). Il principio della fraternità, al contrario, dà pren-dendosi cura, cioè – come ama dire l’economista Zamagni, uno degli ispiratori di questo capitolo III – «consente agli eguali di essere diversi». Caino è trascinato e accecato dalla diversità di Abele, alla quale non acconsente: lo toglie di mezzo!

CONTENUTI

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consuetudine di “investire” la piccola ricchezza in “sfide alla fortu-na” (gratta-e-vinci, enalotto …). Molti nostri atteggiamenti (che ci sembrano innocui) legittimano l’avidità, puntando su un futuro sempre più radioso, e dimenticano quello che si può fare nel pre-sente. Come si può pretendere che la grande finanza “moderi” l’a-vidità di chi investe, se l’avidità diventa stile di vita?

Il POVERO Nei nostri sistemi economici (fondati sullo scambio tra chi ha) coloro che non hanno sono considerati un fardello, un peso. In sostanza li si “assiste”, non li si promuove facendoli crescere, non si suscitano energie … Paradossalmente è il nostro sistema e-conomico (che pretende di scambiare solo tra chi ha) a generare gli “scrocconi”, i “fannulloni”. Coloro che ricevendo “per assistenza” non sentiranno mai la voglia e la possibilità di “restituire”. Qui l’-enciclica tocca uno dei punti che fanno maggiormente pensare: alla nostra economia spetta la produzione dei beni, mentre alla politica noi abbiamo lasciato la distribuzione giusta dei beni. No, dice il papa! La ricchezza stessa, i beni, devono essere prodotti giusta-mente, in modo giusto. Per questo ci vuole un modello economico che produca “eticamente”, cioè che non lasci fuori nessuno. L’idea chiave che sta sotto a questa idea è che l’economia deve essere in-clusiva, non deve perdere per strada nessuno, non deve umiliare nessuno “assistendolo” dopo che la ricchezza è stata prodotta da pochi (e avidi) intraprendenti. Qui il papa introduce un concetto nuovo, quello di “economia civile” (n. 46) o “civilizzazione dell’e-conomia” (n. 38): «occorre che nel mercato si aprano spazi per atti-vità economiche realizzate da soggetti che liberamente scelgono di informare il proprio agire a principi diversi da quelli del puro pro-fitto, senza per ciò stesso rinunciare a produrre valore economico. Le tante espressioni di economia che traggono origine da iniziative religiose e laicali dimostrano che ciò è concretamente possibi-le» (n. 37). Una buona società è certamente frutto del mercato e della libertà, ma ci sono esigenze, legate al principio di fraternità, che non sono rinviabili alla sfera privata o alla filantropia (una spe-cie di pubblica compassione).

NB! Sull’economia civile vi è un poderoso Dizionario pubblicato

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dalla Città Nuova, (2009), oppure si può vedere: www.riminiventure.i t/binary/rimini_venture/documenti/felicita_ed_economia.1227801860.pdf.

L’IMPRESA Un mercato “civile” e una inclusione del povero, con-clude il papa, toccano lo stesso modo di intendere l’impresa. Si sta di-latando la consapevolezza circa la necessità di una più ampia “responsabilità sociale” dell’impresa (dice il n. 40). Ma che cosa signi-fica? Significa che i cittadini oggi debbono riprendersi intere fette di libertà, di democrazia e di civiltà che per troppo tempo hanno delegato alla politica e ai controllori (pensando che questi fossero animati dal bene comune). Non basta chi “produce” regole (la democrazia non de-lega il potere del cittadino a nessuno, il “potere” di ciascuno è rappre-sentato, non delegato!), come cittadini dobbiamo “abitare” i luoghi del-l’economia e della finanza, riappropriandoci della nostra “cittadinanza attiva” (nel sito www.acvicenza.it si trova un interessante link “Laboratorio Cittadinanza Attiva”). I primi ad avere interessi legittimi perché le regole siano applicate sono i cittadini, e questa è la nuova responsabilità che compete all’impresa (nessuna minaccia autoritaria può ottenere quello che dipende invece dall’attenzione e dalla parteci-pazione di ciascuno …).

È dunque indispensabile che ognuno, se-condo le proprie capacità e possibilità, si faccia carico della situa-zione. È assurdo che, mentre molti versano in serie difficoltà, altri continuino ad accumulare profitti, ad ostentare sprechi, a sottrarsi in vari modi al fisco. Tutto questo suona offesa all’uomo e alla sua dignità, è una immoralità grave perché scarica sulle spalle dei meno difesi il peso economico di tutta la vita sociale. La parola dei profeti risuona sempre severa contro quanti si arricchiscono a danno dei poveri (cfr. Am 8,4-8; Os 4,1-3; Is 1,10-20, ecc.); l’apostolo Paolo afferma che l’attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali (cfr. 1Tim 6,6-10); la parola di Gesù poi dichiara stolto chi accumula tesori per sé e non arricchisce davanti a Dio; è veramente immorale che si ami il denaro più del fratello.

… per fare memoria

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Quel tessuto di vita familiare, as-sociazioni, volontariato, cooperazione che edifica una città. Dice il concilio che la società civile è prima della politica, anzi la politica è in funzione della vita civile stessa (GS 74). Anche il mercato è divenuto l’unico soggetto dell’economia, mentre la società civile presuppone che alcuni beni non possano diventare “mercantili”, alcuni beni essenziali e co-muni (l’ambiente, l’acqua, l’istruzione, la cura della salu-te ...). Ripartire dal “civile” significa ridimensionare la ten-denza del “politico” a dominare ogni aspetto (l’insieme della vita civile è migliore del clima della politica … e questo è u-na grossa risorsa). Ma anche l’economia ha un settore sem-pre più in crescita (purtroppo non conteggiato nel PIL) do-ve “profitto” non è solo “denaro” ma soprattutto: relazione tra le persone, coinvolgimento di tutti, cooperazione, atten-zione a non lasciare ai margini anche i meno efficienti … Il bene del vivere insieme in una città è il migliore anti-virus della conflittualità che i politici non si curano di accrescere sempre più, ed è la grande risorsa che nella solidale onestà vede una risorsa e non una “perdita” ...

SOCIETÀ CIVILE È:

Questa crisi deve dunque diventare per tutti non il tempo di inutili lamentele, dello scoraggiamento e del disimpegno, ma un momento di impegno per demolire gli idoli che ci siamo costruiti (economicismo, consumismo, mito del progresso senza limiti, ecc.), per aprirci ai valori della vita semplice ed essenziale, della solidarie-tà, della fraternità, della condivisione. È il momento nel quale dob-biamo mostrare con chiarezza il coraggio di voler riprendere la rie-dificazione di una società che, sul piano nazionale, tenga conto delle vere e profonde esigenze di tutti e, su quello internazionale, rispetti e valorizzi i diritti sacri e inviolabili delle nazioni povere, per co-struire una pace sicura.

Lettera per il Natale 1982 del vescovo Arnoldo Onisto

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[…] Abele era pastore di greggi, mentre Caino era lavoratore del suolo. Tra-scorso del tempo, Caino presentò frutti del suolo come offerta al Signore, mentre Abele presentò a sua volta primogeniti del suo gregge e il loro gras-so. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offer-ta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. Il Signore disse allora a Caino: «Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agi-sci bene, non dovresti forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, e tu lo dominerai». Caino parlò al fratello Abele. Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano

La carità nella verità pone l’uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono. La gratuità è presente nella sua vita in molteplici forme, spesso non riconosciute a causa di una vi-sione solo produttivistica e utilitaristica dell’esistenza. L’es-sere umano è fatto per il dono, che ne esprime ed attua la di-mensione di trascendenza. Talvolta l’uomo moderno è erro-neamente convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società. È questa una presunzione, conse-guente alla chiusura egoistica in se stessi, che discende - per dirla in termini di fede - dal peccato delle origini. La sapien-za della Chiesa ha sempre proposto di tenere presente il pec-cato originale anche nell’interpretazione dei fatti sociali e nella costruzione della società […] All’elenco dei campi in cui si manifestano gli effetti perniciosi del peccato, si è aggiunto ormai da molto tempo anche quello dell’economia. Ne abbia-mo una prova evidente anche in questi periodi. La convinzio-ne di essere autosufficiente e di riuscire a eliminare il male presente nella storia solo con la propria azione ha indotto l’uomo a far coincidere la felicità e la salvezza con forme im-manenti di benessere materiale e di azione sociale. La con-vinzione poi della esigenza di autonomia dell’economia, che non deve accettare “influenze” di carattere morale, ha spinto l’uomo ad abusare dello strumento economico in modo per-sino distruttivo. A lungo andare, queste convinzioni hanno portato a sistemi economici, sociali e politici che hanno con-culcato la libertà della persona e dei corpi sociali e che, pro-prio per questo, non sono stati in grado di assicurare la giu-stizia che promettevano (Caritas in veritate, 34)

LA PAROLA

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“Fratelli”, è una delle parole più frequenti nel-la liturgia … quanto e come è annunciata?

Qual è il clima “civile” nella nostra comunità (non solo cristiana)?

Fraternità difficile, fin dalla prima ora. Difficile perché diversa, l’uno pastore e l’altro agricoltore. Differenza di offerta: Caino sembra non esserci in ciò che presenta (i frutti del suolo) … mentre Abele c’è nella sua offerta (primogeniti del suo gregge). La differenza suscita invidia e violenza, eppure Dio guarda solo ad Abele, ma parla solo a Caino. E dice a Caino di dominare quella tristezza e collera che è acco-vacciata alla sua porta. Può farlo, è capace di alzare il volto davanti a questo istinto che pare nascere dalla differenza.

Se Dio gradisse il dono di Caino (dove lui non c’è), gradirebbe l’offerta senza l’offerente? Come il servo dell’unico talento (Mt 21,28-31) … che restituisce al padrone il talento (ecco il “tuo” talento!) senza che fosse mai diventato davvero “suo”. Dio cerca Caino col volto ab-battuto e non gli parla dell’offerta, gli dice che qualcosa gli brucia den-tro … ma che può dominarlo! Caino aveva la forza di vincere sulla sua collera, e noi continuiamo a vedere ciò che ha fatto (ha ucciso) … mentre ci sfugge quasi sempre ciò che Dio gli aveva detto: domina la tua invidia, la tristezza per la differenza hai le forze per vincerla … Non vogliamo essere Caino, eppure facciamo come Caino: la differen-za tra noi uomini ci brucia dentro e non vogliamo vincerla ...

… per il confronto

contro il fratello Abele e lo uccise. Allora il Signore disse a Caino: «Dov’è Abele, tuo fratello?». Egli rispose: «Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?». Riprese: «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto, lontano dal suolo che ha aperto la bocca per ricevere il sangue di tuo fratello dalla tua mano. Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra». (Gen 4,2-12)

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Nel sangue, infatti, non si spegne nessun male: non si sradica nessuna ingiustizia col sangue, a meno che non sia una testimonianza d’amore. È nel tuo sangue, o Cristo, «che è sparso per noi», l’«Amore più grande» che dà la misura dell’«amatevi come io vi ho amato». Non è nel proposito di chi pensa alla salvezza spargendo il sangue altrui.

Don Primo Mazzolari

Ci siamo mai fermati a va-lutare la positività delle “differenze”? Vi sono se-gnali di chiusura, di invi-dia, di istintività nel nostro stile pastorale?

Segnali di cooperazione da promuovere, scuola di apprezzamento del civile, attenzione alla massifica-zione, al modello unico … come possiamo parlarne da cristiani, e da fratelli?

per la preghiera

Vedo sangue dappertutto, oggi: il tuo, Signore, che è «riscatto e bevanda» e il sangue di tante tue creature, dal «giusto Abele» sino all’«ultimo». La salvezza non è nel sangue: nel sangue c’è la «preziosità» dell’amore di colui che si offre, ed è l’amore che «fa il prezzo del sangue» e che salva.

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Il capitolo 4° dell’enciclica inizia con un tema promet-tente: il legame necessario tra diritti e doveri. La fraternità (cap. III) è come la cornice di quanto scrive Benedetto XVI in questo ulteriore passaggio: lo sviluppo dei popoli, i diritti e i doveri, l’ambiente. Secondo qualche commentatore ci si trova qui di fronte alla parte più impegnativa del testo papale. Tutto parte da una citazione di Paolo VI: «la solidarietà universale, che è un fatto e per noi un beneficio, è altresì un dovere» (PP 17). [ sui diritti/doveri vedi la finestra]

Il futuro umano dei popoli, delle persone, dell’ambiente, del creato … può essere assicurato se ciascuno, accanto ai dirit-ti («pretendere il potere di …»), riconosce e stabilisce per sé e per il vivere insieme anche dei debiti («rispondere al bisogno di …»). Esasperare i diritti (come dice il papa al n. 43) porta solo ad uno scontro di “potenza”, dove decide il potere del più forte, di chi è meglio attrezzato a vivere. Decide il potere di chi “usa” le risorse, le spreca, le consuma senza altro criterio che non sia l’utile, il piacevole, il comodo … Benedetto XVI parla di un catastrofico «diritto al superfluo».

Il riconoscimento del debito/dovere, invece, “converte” (è una parola qui più adatta che mai!) il punto di partenza dal quale noi guardiamo noi stessi, l’altra persona, perfino il mondo della natura: sono chiamato a rispondere al bisogno di … Non più lo scontro della potenza, ma la fragilità del bisogno dell’altro, che fa sorgere in me una domanda: «questo è davvero bene?». Certamente è la domanda più per-sonale che esiste, ma è su di essa che il dialogo deve allargarsi. L’effetto civile che si può avere dalla questione del bene è l’u-nica strada per un mondo più umanizzato. Sono almeno 7 gli ambiti di applicazione di questa “conversione”:

Sviluppo dei popoli, diritti e doveri, ambiente

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1. la crescita demografica (n. 44) molti sostengono che l’au-mento della popolazione è la causa prima del sottosviluppo (di qui la teoria neomalthusiana del ricorso al controllo delle nascite per impedire l’impoveri-mento dell’umanità). Il dovere – dice il papa – è una procrea-zione responsabile, una «apertura responsabile alla vita» che, da una parte, impegna ad un esercizio personale della sessuali-tà (le tecniche di controllo mortificano questa educazione per-sonale), dall’altra si osserva nel nostro Occidente un «sintomo di scarsa fiducia nel futuro» e di «stanchezza morale». Dunque l’appello al bene ha a che fare anche con una questione così de-licata come la sessualità, il valore della famiglia e della vita per-sonale. Il debito verso chi non esiste ancora.

2. la “certificazione” etica (n. 45) che si riferisce alla dif-fusa consuetudine di accompagnare prodotti, investimenti, im-prese con un marchio “etico”. Ma spesso questa non è etica ve-ra e propria, è solo una “etichetta” (cioè un cartellino posticcio, ma anche una etica “piccola”). Secondo il papa occorre che «l’intera economia e l’intera finanza siano etiche … per il ri-spetto di esigenze intrinseche alla loro stessa natura». L’appel-lo al bene sta all’inizio dell’attività umana e non nel marchio fittizio del prodotto finito, cioè alla sua fine. L’etica non sta alla fine della produzione, ma al suo inizio.

3. l’impresa non profit (. 46) l’enciclica riprende il tema dell’economia civile già incontrato nel cap. III (cfr. scheda 2). È auspicabile – dice il papa - «che nuove forme di impresa trovino in tutti i Paesi anche adeguata configurazione giuridica e fiscale». L’appello al bene qui, domanda un riconoscimento vero e reale delle imprese con scopi di utilità sociale.

4. gli interventi per lo sviluppo (n. 47) dovrebbero coin-volgere direttamente le persone beneficiarie nella progettazio-ne e renderle protagoniste nell’attuazione (uscire dalla benefi-cienza per entrare nella promozione … anche se è un processo

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lungo e difficile); domandarsi la reale efficacia degli apparati burocratici e amministrativi delle Organizzazioni internaziona-li … (n. 48: un richiamo molto deciso!).

5. l’ecologia (n. 48) secondo Benedetto XVI la natura è trat-tata dall’uomo come (1) tabù intoccabile, o al contrario come (2) materiale di cui abusare. Entrambi gli atteggiamenti sono inconciliabili con una visione cristiana della natura. La natura è a nostra disposizione come un dono del Creatore, non è più importate della persona umana (come sostiene certa cul-tura verde, o visioni neo-pagane New Age). Ma non è neppure materia di cui disporre a piacimento … Su questo aspetto il pa-pa è più esplicito nel Messaggio per la Giornata Mondiale del-la Pace 2010.

6. la giustizia inter-generazionale (n. 49) riguarda il problema delle risorse energetiche di cui sono preda soprattut-to i paesi poveri (i vari conflitti hanno questo scopo principal-mente). Il debitum che sorge qui è la diminuzione del nostro fabbisogno energetico, la ricerca di energie alternative e la ridi-stribuzione planetaria delle risorse energetiche. La prima re-sponsabilità è sicuramente verso le generazioni che erediteran-no da noi una gestione immorale dell’ambiente. Si tratta di un «dovere gravissimo» (n. 50), rivedere il concetto di “efficienza” (che finora non ha tenuto per nulla conto dell’abu-so).

7. nuovi stili di vita (n. 51) è in gioco una mentalità nuova che introduce stili di vita improntati alla scelta dei consumi, dei risparmi e degli investimenti. Questo stile nuovo è alla por-tata di ciascuno, ma non è molto richiamato nella cultura o-dierna. Tante risorse naturali sono poi devastate dalle guerre, e questo impone lo stile della pace. Infine il papa richiama un tema caro a Giovanni Paolo II, che parlava di «ecologia uma-na» per indicare la protezione dell’uomo contro la distruzione di se stesso (richiamando qui il diritto alla vita e alla morte na-turale …).

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Stiamo riscoprendo un po’ tutti l’impor-tanza di superare certi stili di vita basati sull’avere e sul profitto ad ogni costo, sullo spreco delle risorse vivendo al di sopra del-le proprie reali possibilità, per promuovere nella mentalità e nel costume di vita quotidiano delle persone e delle famiglie un nuovo rapporto con le cose, con le persone, con la comuni-tà. Con le cose, anzitutto, perché il consumismo di cui siamo stati succubi in questi decenni ha indotto sempre nuovi bisogni, per essere come gli altri e possedere le ultime novità. Il consu-mismo ci consuma in una corsa sfrenata all’avere e lascia in ombra i veri valori dell’essere che appellano all’interiorità, alla sincerità delle relazioni, all’incontro solidale con chi è nel biso-gno. […] Il criterio evangelico del cercare prima di tutto il regno non significa uscire dal mondo, ma operare dentro di esso per indirizzarlo al bene, al vero e al giusto, pagando an-che il prezzo della coerenza alla propria coscienza e ai princi-pi che la fede ispira. Significa soprattutto inserire il proprio agire in quell’orizzonte del bene per tutti, che è anche il bene di ciascuno. Si può anche essere ricchi da soli, ma per esser felici occorre essere almeno in due. La ricchezza, infatti, può essere usata nonostante e anche contro gli altri, ma la feli-cità se non è di tutti non è di nessuno. Si può essere ricchi tra i poveri, ma non felici tra gli infelici. La sobrietà fa parte della vir-tù cristiana della penitenza e del sapersi accontentare del poco, di ciò che è utile per se stessi e la propria famiglia, mentre la ricerca di uno status sociale sempre più elevato spinge al desi-derio di apparire, di essere più belli, più forti, più felici... per-ché più ricchi. Mentre in realtà si diventa schiavi delle cose e dipendenti da esse, faticando e vivendo in funzione di una cre-scita del possesso di beni e di un continuo rincorrere le mode di turno. La sobrietà, infine, riguarda anche il sapiente uso del danaro e delle risorse, puntando all’essenziale ed educando le nuove generazioni a fare altrettanto.

Cesare Nosiglia - Discorso per l’inizio dell’anno pastorale 2009-2010

… per fare memoria

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La parola dovere è una delle più assenti nel pensiero e nel discorrere oggi. Ha il sapore dell’-autorità, della legge, di una “costrizione” … tutte cose a cui è allergica la vita personale (siamo ge-losamente difensori della nostra autonomia) e la vita sociale (il vivere insieme raramente diventa una realtà anche “mia”). Eppure “dovere” deriva da debitum (ciò che è dovuto), rappresenta ciò che io devo. Il dovere è la parte che spetta a me, ed è la risposta al bisogno dell’altro. Se è com-prensibile l’avversione al dovere (che si esprime in regole) è più difficile capire l’oblio del debi-tum, di ciò che suscita in me il volto dell’altro (come ama dire il filosofo Lévinas), l’altro che mi implora: “non uccidermi”.

Oggi è molto più diffusa la parola “diritto”, cioè l’idea di qualcosa che nessuno può impedirmi di fare. E il diritto più tristemente diffuso è l’indif-ferenza (non me ne importa nulla dell’altro).

Le modalità con cui l’uomo tratta l’ambiente influiscono sulle modalità con cui tratta se stesso e, viceversa. Ciò richiama la società odierna a rivedere seriamente il suo stile di vita che, in molte parti del mondo, è incline all’edonismo e al consu-mismo, restando indifferente ai danni che ne derivano. È necessario un effettivo cambiamento di mentalità che ci in-duca ad adottare nuovi stili di vita, “nei quali la ricerca del vero, del bello e del buono e la comunione con gli altri uomi-ni per una crescita comune siano gli elementi che determina-no le scelte dei consumi, dei risparmi e degli investimen-ti” (Caritas in veritate, 51)

DIRITTI/DOVERI

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Il padre della nostra fede (Abram), è un migrante. Scende per fame in Egitto, la potenza dell’epoca. Ma sa che quella ter-ra, dove è costretto a cercare una possibili-tà di sopravvivere, può trasformarsi da terra d’accoglienza in terra di morte. E allo-ra mente su Sarài, sua moglie, e finge facen-dola credere sua so-rella. Essere migrante ti mette in una posi-zione di fragilità, di debolezza, che porta a mettere in atto strate-gie spesso poco puli-te: per sopravvivere, per resistere alla po-tenza di una realtà che può salvarti come schiacciarti del tutto.

Abramo non è diverso da qualsiasi altro

migrante. Fa ciò che è ingiusto. Non sente alcun debitum verso sua moglie, è la sua sopravvivenza che conta. Ingiustizia che incontra l’ingiustizia del faraone, disposto a trattare bene Abram solo perché ha una “sorella” avvenente. Che ne avrebbe fatto di Abram e di Sa-rài il potente faraone se si fossero mostrati nella verità? La furbizia

10 Venne una carestia nella terra e Abram scese in Egitto per soggiornarvi, perché la carestia gravava su quella terra. 11 Quando fu sul punto di entrare in Egitto, disse alla moglie Sarài: «Vedi, io so che tu sei donna di aspetto avvenente. 12 Quando gli Egiziani ti vedranno, penseranno: “Costei è sua mo-glie”, e mi uccideranno, mentre lasceranno te in vita. 13 Di’, dunque, che tu sei mia so-rella, perché io sia trattato bene per causa tua e io viva grazie a te». 14 Quando Abram arrivò in Egitto, gli Egiziani videro che la donna era molto avvenente. 15 La osserva-rono gli ufficiali del faraone e ne fecero le lodi al faraone; così la donna fu presa e condotta nella casa del faraone. 16 A causa di lei, egli trattò bene Abram, che ricevette greggi e armenti e asini, schiavi e schiave, asine e cammelli. 17 Ma il Signore colpì il faraone e la sua casa con grandi calamità, per il fatto di Sarài, moglie di Abram. 18 Al-lora il faraone convocò Abram e gli disse: «Che mi hai fatto? Perché non mi hai di-chiarato che era tua moglie? 19 Perché hai detto: “È mia sorella”, così che io me la so-no presa in moglie? E ora eccoti tua moglie: prendila e vattene!». 20 Poi il faraone diede disposizioni su di lui ad alcuni uomini, che lo allontanarono insieme con la moglie e tutti i suoi averi. (Gen 12,10-20)

LA PAROLA

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Nella nostra comunità, oltre che personal-mente, noi non esprimiamo il senso di debito verso gli altri/l’altro. Ci pare di avere molta più attenzione a rivendicare i diritti. Come le nostre comunità possono far maturare la coscienza che ogni scelta, la più “privata”, produce conseguenze anche sugli altri?

La crisi socio-economica che stiamo vivendo impone orientamenti nuovi nell’uso delle risorse rispetto al passato: “nuovi stili di vita”

di ciascuno di noi vuole “salvarsi la pelle” a qualsiasi costo. E nell’in-giustizia si hanno più vantaggi che nella giustizia.

Il Signore interviene, anche se Abram non chiede nulla a Dio, anche se è solo furbizia ciò che mette in atto … il Signore non dimenti-ca la sua promessa, e interviene anche dove noi abbiamo spezzato la nostra fedeltà.

Un commento talmudico su questo episodio interpreta così l’at-teggiamento di Abram: egli utilizza Sarài per salvarsi la vita: «io viva grazie a te» (v. 13). Non è Dio che fa vivere? E perché, Abram, chiedi a Sarài di “sacrificarsi” per far vivere te? Non è forse la salvezza di Dio (quel Dio che fa vivere te, Abram, che fa vivere Sarài!) l’unico motivo per salvare (proprio tu) tua moglie? Secondo il Talmud in que-sto episodio Abram “sacrifica” Sarài (e più avanti in Gen 22 viene pro-spettato il “sacrificio” di Isacco).

Quanti modi abbiamo per salvarci la vita “sacrificando” l’altro anziché averne cura. L’illusione di poter “usare” gli altri, le cose, il mondo … in vista di sopravvivere. Come potremmo uscire da questa terribile furbizia? Abram, padre della fede, dovrà camminare a lungo per convincersi che Dio lo salva, che Dio salva Sarài quando Abram stesso la mette in pericolo, che Dio salva Isacco quando la mano del padre è stesa sul figlio … Terribile furbizia … o la fiduciosa sorpresa di Dio che salva, e chiede a ciascuno di essere custode del fratello, del-la sorella, del creato, delle realtà più quotidiane … che sono il dono con cui Lui ci salva?

… per il confronto

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Si mio Signore e mio re, concedimi di vedere i miei peccati e di non giudicare il fratello. Perché tu sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen (Efrem il Siro)

per la preghiera

Signore della mia vita, allontana da me lo spirito dell’ozio, della tristezza, dell’amore per il dominio e per le parole vane. Accorda al tuo servo lo spirito di temperanza e di umiltà, di perseveranza, e la carità che non verrà mai meno.

… Come cerchiamo di promuovere luoghi di confronto per cogliere la differenza tra crescita e sviluppo, per individuare un futuro pos-sibile non appoggiato ai beni, ma al Bene? Possiamo aiutare le per-sone ad impegnarsi a produrre e crescere per ridurre le disugua-glianze, più che alla soddisfazione del superfluo?

La scarsa fiducia nel futuro, la stanchezza morale, sono anche frutto del clima di indifferenza verso la “fede” e verso i valori del-la solidarietà umana che il Vangelo, e le varie dichiarazioni sui diritti civili, proclamano. Come possiamo risvegliare coscienza di responsabilità e risorse, per costruire, dal basso, dalla vita quotidia-na, ragioni e impegno per realizzare: pace, fiducia reciproca, affi-damento alla Provvidenza? Siamo attenti all’ambiente attorno a noi, al suo sfruttamento? C’è qualche ingiustizia o “furbizia” che caratterizza il nostro stile, oppure è consentita dai nostri silenzi?

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Il capitolo 5° dell’enciclica introduce il concetto di “famiglia umana”, che è un concetto teologico. Esso si articola attorno ad aspetti interessanti, quali la mondializzazione, la governance* mondiale, l’universalità della comunicazione, ma tutte queste opere della ragione umana non suscitano da sole l’unità familiare dei figli di Dio, che è vocazione ultima di un disegno più grande della ragione umana.

* Sistema allargato di governo, con il coinvolgimento di attori e processi non sempre e automaticamente implicati nella nozione istituzionalizzata di governo.

Il papa parte da una con-statazione: «una delle più pro-fonde povertà che l’uomo può

sperimentare è la solitudine» (n. 53). La crisi economica mette a nudo una crisi molto più profonda che è la carenza di relazioni. L’uomo solo, che si isola, che rifiuta l’amore di Dio e l’amore del fratello. L’uomo che rovescia il primo giudizio di Dio: «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 1,28), giudizio che ci ricorda non tanto che cosa è il bene, ma cosa sicuramente non è bene. Isolarsi dall’amore non può che generare il rifiuto di amare.

Sono molto profonde le riflessioni che Benedetto XVI elabora su questo tema della solitudine come la più profonda povertà. E potremmo dire che ad alimentare questa povertà sia proprio la ricchezza: «la radice di tutti i mali» come la defini-sce Paolo (1Tim 6,10) perché si può essere ricchi da soli, ma non felici da soli. Ora l’affermazione che la solitudine è una delle più profonde povertà che l’uomo sperimenta, fa molto pensare. Anzitutto per il fatto che i motivi della solitudine sono diversi. C’è chi è gelosamente solo perché «pensa di bastare a se stesso»; c’è chi è tremendamente solo perché la «maggiore vicinanza» non si traduce in «comunione» («la società ci rende

La collaborazione della famiglia umana

CONTENUTI

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vicini, ma non fratelli», n. 19). C’è chi è solo – potremmo ag-giungere – perché ha comprato tutto, ha «aggiunto casa a casa, unito campo a campo, finché non rimane più spazio, e resta solo ad abitare nel paese» (Is 5,8). C’è chi, pur essendo cristia-no, ha perso per strada il primo mistero principale della fede che è l’unità di una Trinità (Dio è relazione …).

Il metodo di lavoro più consono a questa umanità soli-taria – ciò sta sotto gli occhi di tutti – è la competizione. È molto bella l’immagine di Benedetto XVI sulla “vicinanza” tra gli uomini. Siamo sempre più vicini … e sempre meno in comu-nione (n. 53). Questo è l’errore più pericoloso per lo sviluppo (cioè il rovesciamento della verità … la menzogna del vivere). Vicini, vuol dire con la possibilità di cooperare, di mettere in atto un “modo” di sviluppo espressione di fraternità, e invece sempre più costretti (o dalla gelosa autonomia di ciascuno, o dalla tremenda indifferenza l’uno per l’altro), costretti a trova-re soluzioni individuali a problemi che sono comuni (come a-ma dire il sociologo Bauman sintetizzando la peggiore malattia della modernità liquida). Questa vicinanza la potremmo in-dicare con semplici atteggiamenti che si moltiplicano senza che ce ne accorgiamo: sfiorarci, sopportarci, non intralciarci, ma anche guardarci con curiosità, oppure con disprezzo, o non guardarci affatto. La comunione invece è prenderci a cuore, stimarci pur diversi, collaborare, trovare quasi con ostinazione ciò che ci rende comuni, uguali, e terribilmente responsabili di ciò che succede a qualsiasi persona. Un lavoro insieme (cum-labor) che è già messo in atto nel mercato equo-solidale (cfr. n. 66), che diventa dialogo culturale (senza alcun senso di supe-riorità di alcune culture – n. 59), che promuove un accesso maggiore all’educazione (n. 61), un turismo diverso, una politi-ca lungimirante e forte di fronte al fenomeno epocale delle mi-grazioni (n. 62), incoraggia strategie per un lavoro “decente” (n. 63), riattiva un ruolo del sindacato attento ai di-ritti sociali (n. 64), riposiziona la finanza tra gli “strumenti” togliendole il ruolo di “scopo”, di “finalità” (n. 66). Da ultimo cooperazione significa attuare il principio di responsabilità di

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proteggere (… il rispetto dei diritti umani, il disarmo integrale, la sicurezza alimentare e la pace, la salvaguardia dell’ambiente … questioni che richiedono una autorità politica mondiale – cfr. n. 67).

Vogliamo una cristianità viva

La Chiesa è sempre nell’azione vivificante dello Spirito: ma la cristianità, vale a dire i cristiani operanti nella società, se nel loro sforzo personale o associato, non rimangono congiunti alla sor-gente della verità e della carità, si smarriscono e divengono fatui. Una cristianità non è viva perché in una giornata di euforia elet-torale conquista la maggioranza, perché riesce a portare dei suoi al governo, perché indice imponenti adunate e protesta ad alta voce quasi dietro comando. Una cristianità è viva: - quando è presente in ogni momento e in ogni attività della vita nazionale e riesce a far presa sull’opinione pubblica con idee chiare e possibili; - quando interessa e inquieta ogni categoria e ogni classe; - quando accetta di rendere testimonianza e di battersi ovunque, senza chiedere riguardi, esenzioni, privilegi; - quando non rifiuta la responsabilità politica perché oggi fa co-modo, pronto a schivarla al primo rischio. Una cristianità viva non ha soltanto una tradizione da conservare e un prestigio da far valere, ma una salvezza da comunicare a tutti, ricchi e poveri, vicini e lontani, traducendo in termini di adesso la Parola che non passa, senza dimenticarla, senza far scontare alla Chiesa le proprie stupidità e la propria ignavia, pa-gando di persona errori e audacie. Una cristianità è viva non per l’insegna che porta sull’albero maestro, ma se ai remi ha braccia valide, se Cristo è al timone.

Primo Mazzolari, “Adesso”, editoriale del 1 marzo 1949

… per fare memoria

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È un principio classico della dottrina sociale della Chiesa, che riconosce lo

spazio di libertà e di iniziativa contro ogni “potere universale di tipo monocratico” (n. 57). La sussidiarietà è una specie di effetto combinato di sussidiarietà orizzontale (per cui ciò che fa la politica non deve farlo l’economia, cioè che fa l’economia non lo fa la scienza … ecc.) e sussidiarietà ver-ticale (un’organizzazione più lontana dalla persona non de-ve fare ciò che meglio può fare un’organizzazione più vicina alla persona). Il principio di sussidiarietà fu elaborato dal pensiero sociale cristiano nell’epoca del totalitarismo euro-peo (ideologia e personalizzazione del potere) per salvaguar-dare la dignità della persona e dei gruppi sociali intermedi (famiglie, associazioni …). Esso ci è ancora utile per valutare molti “verticismi” o “centralismi” tuttora operanti e in atto nella vita sociale e politica, economica ma anche scientifica.

SUSSIDIARIETÀ

Il papa, oltre a recuperare il principio di sussidiarietà, intro-duce il concetto nuovo di poli-archia (= potere plurale). Esso diventa criterio guida della collaborazione fraterna in quanto la vita sociale corre un grave rischio ogni qual volta è posta (più o meno direttamente) sotto un solo potere. La realtà so-ciale non è compresa adeguatamente se ricondotta ad un solo principio (ad una sola archè), se è concepita come dotata di un solo centro o di un solo vertice. Difendere le ragioni della poliarchia significa contrastare la tendenza del potere politi-co, o di quello economico, o di quello scientifico a farsi asso-luto; in breve, significa valorizzare la funzione di reciproca limitazione che ciascun potere sociale svolge rispetto a tutti gli altri.

POLIARCHIA

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La solidarietà è uno dei pilastri della dottrina sociale cristiana, esso è espressione dell’amore u-niversale con un particolare contenuto: l’interscambiabilità tra i soggetti. Infatti i contratti in solidum prevedevano (in antico) la responsabilità di qualcuno che rispondeva per tutto e in tutto di un altro, al quale si sostituiva nell’assolvi-mento di un obbligo. Solidarietà è un legame così forte da poter prendere il posto dell’altro. Nell’enciclica il papa ri-badisce più di 30 volte questo pilastro (nel n. 60 addirittu-ra ci si imbatte 6 volte sul termine), che non è una semplice disposizione dell’animo, ma uno dei presupposti della stes-sa politica, come ricorda il celebre mandato di don Milani: «insegnando imparavo tante cose. Ho imparato che il pro-blema degli altri è uguale al mio. Uscirne tutti insieme è la politica. Uscirne da soli è l’avarizia. Dall’avarizia non ero mica vaccinato. Sotto gli esami avevo voglia di mandare al diavolo i piccoli e studiare per me. Ero un ragazzo come i vostri, ma lassù non lo potevo confessare né agli altri né a me stesso. Mi toccava essere generoso [...]. A voi [cara si-gnora professoressa] vi parrà poco. Ma con i vostri ragazzi fate meno. Non gli chiedete nulla. Li invitate soltanto a far-si strada» (Lettera a una professoressa).

Oggi l’umanità appare molto più interattiva di ieri: que-sta maggiore vicinanza si deve trasformare in vera comu-nione. Lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal rico-noscimento di essere una sola famiglia, che collabora in vera comunione ed è costituita da soggetti che non vivono semplicemente l’uno accanto all’altro. (Caritas in veritate, 53)

SOLIDARIETÀ

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È il celebre episodio della vita di Giacobbe (il fratello che compra la primogenitura per un piatto di len-ticchie) che si trova solo, mentre al di là dal torrente lo aspetta proprio il fratello Esaù, al quale manda un dono, e nello stesso tempo chiede a Dio: «Salvami dalla mano di mio fratello, dalla mano di Esaù, perché io ho paura di lui: che egli non arri-vi e colpisca me» (Gen 32,12). Al-lora Giacobbe fa passare tutti i suoi averi al di là dello Iabbok, mentre lui, per una notte intera, lotta con uno sconosciuto, vince, strappa la benedizione, e riceve una traccia.

Noi leggiamo questo episodio come esperienza mistica, di incontro/scontro con Dio, in realtà Giacobbe vede nel fratello il pericolo che in-combe su di lui e su tutti i beni ma-teriali conquistati in vent’anni di duro lavoro presso Labano. Tutto rischia di essere azzerato. A nulla è valsa l’astuzia, il saper fare … e Giacobbe ancora una volta prepara una strategia: invia un dono al fra-tello, suddiviso in più parti in modo che gradatamente si plachi la furia di Esaù. Giacobbe passa la sua notte

di agonia e capisce di non poter es-sere padrone del mondo, impara che

con il dominio e la furbizia non si giunge da nessuna parte. Lotta con Dio per strappare la benedizione sul suo modo di fare, sulla sua ricchezza; sul suo stile di “soppiantatore” (il significato del nome Giacobbe). Desidera il favore di Dio con-tro Esaù? Desidera avere la forza stessa di Dio per vincere il fratello? E l’angelo non riesce a vincerlo (ironia stupenda sulla “forza di Dio” che non è mai potenza per sconfiggere e imporsi) e gli infligge un colpo, slogandogli l’articolazione del femore. Tuttavia Giacobbe strappa la benedizione, quella vera: il cambio del no-me. Non sarà più “soppiantatore” ma “colui che ha lottato con Dio” (Ish-sarah-El). E ritroverà il volto di Dio nel volto del fratello (la riconciliazione in Gen 33).

23 Durante quella notte Giacobbe si al-zò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici bambini e passò il guado dello Iabbok. 24 Li prese, fece loro pas-sare il torrente e portò di là anche tutti i suoi averi. 25 Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. 26 Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. 27 Quello disse: «Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!». 28 Gli domandò: «Come ti chiami?». Ri-spose: «Giacobbe». 29 Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!». 30 Giacobbe allora gli chiese: «Svelami il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il nome?». E qui lo benedisse. 31 Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuèl: «Davvero – disse – ho visto Dio faccia a faccia, ep-pure la mia vita è rimasta salva». 32 Spuntava il sole, quando Giacobbe pas-sò Penuèl e zoppicava all’anca. 33 Per questo gli Israeliti, fino ad oggi, non mangiano il nervo sciatico, che è sopra l’articolazione del femore, perché quel-l’uomo aveva colpito l’articolazione del femore di Giacobbe nel nervo sciatico. (Gen 32,23-33)

LA PAROLA

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È l’alba di un nuovo giorno, è terminato il tempo dell’astuzia! Il sole si è levato sulla nuova vita di Israele, la notte buia, la vecchia vita angosciosa, piena di paura e di preoccupazioni, indegna di essere vissuta dall’uomo Giacobbe, è passata. Israele ini-zia il suo nuovo cammino zoppicando, dovendo scegliere bene dove mettere i piedi nel cammino di questo mondo. Non cammina più spedito, disinvolto e spregiudicato, come prima, nella sua vita, cercando solo il proprio interesse ingannando gli altri (Esaù e il padre Isacco) e ricorrendo ad espedienti per arricchirsi (si veda lo strata-gemma usato per procurarsi il gregge migliore in Gen 30,25-43). Chi arriva ad una lotta simile con Dio non ne esce indenne, viene toccato e… non rimane come prima!

La ferita che Giacobbe riceve dall’angelo è anche una ferita che ristabilisce una rela-zione spezzata, che risana una ferita più radicale, quella della fraternità. «Anche la società di mercato contemporanea ha ferito la fraternità, e anche qui con un inganno, quello di prometterci una buona convivenza senza gratuità. Questo inganno deve essere espiato se vogliamo riappropriarci dell’umano, e solo un “corpo a corpo” con l’altro in carne e ossa, e l’accettazione della ferita che questo combattimento può procurarci, può ristabilire oggi un nuovo legame sociale, una nuova fraternità, che ancora non sappiamo intravedere, ma che vogliamo credere esista» (L. Bruni).

Sentirci insieme … ma le nostre Comu-nità riescono ad annunciare che “ogni uomo è mio fratello”, che i bisogni essenziali non sono solo ma-teriali? «L’inizio dell’amore per il fratello sta nell’imparare ad ascoltarlo» (Bonhoeffer) C’è accoglienza, spazio per incontrare la vita, la situazione concreta delle persone, delle famiglie...? La forza di una catena si gioca anche sull’anello più debole … siamo illusi di poter essere forti senza gli altri? Chi sono i debo-li nella nostra comunità? Come custodirli? I “surrogati” della fraternità … Le distanze tra di noi hanno molte maschere: ci si rifugia nella massa (anche la comunità può esserlo); frequentiamo santuari di consumo senza cono-scerci, salutarci, senza cortesia. Ci sono possibilità di legami veri, “reali” e non solo virtuali tra le persone? Come abbiamo gli occhi aperti sul mondo? Sulla fame dell’u-manità, sulla violazione dei diritti? Ci siamo abituati a vivere preoccupati che Dio benedica il nostro benessere? Possiamo convivere senza la gratuità? Quali possibilità abbiamo di colla-borazione gratuita non solo nella comunità ma anche nella vita civile?

… per il confronto

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Signore, tante volte mi vien la tentazione di andarmene via da solo, di lasciare che gli altri se la cavino senza di me. Sento la fatica di dovermi fermare per attendere chi cammina lentamente o batte la fiacca, mentre io vorrei correre in avanti. La strada da percorrere è tanto lunga, non vedo l'ora di arrivare e mi tocca perder tempo con chi non ha voglia di camminare. Ma Tu, Signore, mi fai capire che sto sbagliando. Da solo potrei forse arrivare primo, ma Tu mi domanderesti conto dei miei fratelli, e sarei condannato a retrocedere all'ultimo posto. Insegnami, Signore, la pazienza di aspettare, la generosità di aiutare gli altri a scoprire la bellezza del cammino, l'umiltà per non ritenermi il più bravo di tutti. Non è importante che uno arrivi per primo, ma che l'ultimo di noi possa giungere al traguardo sostenuto da una comunità di fratelli e sorelle. Sulla strada non siamo mai soli, non possiamo esser soli, perché Tu cammini con noi, come facevi con i discepoli di Emmaus, e ci insegni a spezzare il pane con i fratelli, per riprendere la strada con entusiasmo e con speranza nuova.

per la preghiera

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Siamo all’ultimo capitolo, il sesto, il più breve di tutta l’enciclica (esclusa l’introduzione e la conclusione). È ancora lo sviluppo il filo conduttore del discorso, e per l’ultima volta vie-ne collegato con “la tecnica”. Lo sviluppo tecnologico attira quasi tutta l’attenzione alla fine del documento papale. Con u-na premessa (n. 68) che è importante: c’è un degrado dello svi-luppo che è questione antropologica. Cioè lo sviluppo (se dav-vero è forza suscitata dall’amore e dalla verità) deve anzitutto rispondere di fronte all’uomo. È indubbio che il progresso tec-nologico sia uno dei pilastri dello sviluppo (cosa che il papa non rifiuta, anzi rappresenta la «signoria dello spirito sulla ma-teria» n. 69). Ma è proprio davanti alla tecnica che «emerge con drammatica forza la questione fondamentale: se l’uomo si sia prodotto da se stesso o se egli dipenda da Dio» (n. 74).

Oramai tutti, nell’Occidente, ci consegniamo alla speranza di scoperte, esperimenti, sconfitte di malattie, perfino possibilità di età interminabili. La tecnica è la grande promes-sa, la salvezza, il messia definitivo: «Dio è il primo Tecnico e la tecnica è l’ultimo dio» (E. Severino). La creazione biblica infat-ti ci presenta un Dio che non è sagomatore di un creato com-piuto e definitivo. Dio crea, ma non c’è solo da osservare e con-servare, c’è ancora da fare: non tutto termina con il gesto ini-ziale del Creatore. Egli non ha creato delle cose, piuttosto ha creato la creazione e in essa la creatura. Noi siamo “creatura” di Dio: la finezza della parola nasconde un bel mistero, perché creaturus è “colui che sta per creare”, è l’uomo-donna che col-labora con Dio in obbedienza al mandato di «coltivare e custo-dire la terra» (Gen 2,15). Il poeta Hölderlin ha fissato in un verso l’idea: «Dio ha fatto il mondo, come il mare ha fatto la riva: ritirandosi». Non va affatto trascurata questa dignità del-la vocazione umana a diventare homo abilis.

Lo sviluppo dei popoli e la tecnica

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È vero, comunque, che la tecnica è rimasta sola guada-gnando il centro della scena. Essa ha per vocazione il domina-re, l’imporsi, fino ad obbligarci a consumare e distruggere (che non è più la fine ma il fine del produrre), affacciandoci sulla soglia del rischio e della catastrofe per l’inarrestabilità di un procedere senza briglie. Invece «dobbiamo irrobustire l’amore per una libertà non arbitraria» (n. 68). Rendere robusto l’amo-re per una vera libertà, questa è la misura più grande che ri-sponde al fascino della tecnica con decisioni responsabili. Tali decisioni si addicono a uomini retti (n. 71), la cui “rettitudine” comincia col misurare l’orgoglio di essere “autori di se stes-si” (a cominciare dall’esaltazione del “fare” di cui è presuntuo-so il gergo politico). Uomini retti vuol dire uomini robusti e non semplicemente efficienti, umanità che si fa domande non solo sul “come” ma soprattutto sul “perché” delle proprie azio-ni, giacché il vero non coincide con il fattibile (n. 70).

Papa Benedetto scende in qualche particolare per illu-strare come la tecnica sta deviando dal suo “originario alveo umanistico”: l’imprenditore che considera unico criterio di a-zione il massimo profitto; il politico che fa del consolidamento del potere il suo scopo; lo scienziato che specula sui risultati delle sue scoperte, sceglie direzioni di ricerca spregevoli, ingag-gia la sua orgogliosa battaglia sull’onnipotenza dei mezzi … tut-te conoscenze «a beneficio dei loro proprietari» (n. 71).

In particolari tre ambiti sono a tema nelle riflessioni di questo ultimo capitolo dell’enciclica.

1. La PACE (n. 72). Anch’essa rischia di essere considerata co-me un prodotto tecnico (accordi …), costruita quasi come una “meccanica”. È necessario – scrive il papa – che tutti gli sforzi «si appoggino su valori radicati nella verità della vita … in con-tinuità con lo sforzo anonimo di tante persone fortemente im-pegnate nel promuovere l’incontro tra i popoli e nel favorire lo

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sviluppo partendo dall’amore e dalla comprensione reciproca». Cos’è la verità della vita per tanti cristiani?

2. I MEZZI DI COMUNICAZIONE SOCIALE (n. 73). Sono così onnipresenti da costituire l’ambiente stesso in cui viviamo … non sono neutrali. Essi in-formano (cioè danno la forma a …) l’immagine della persona, del bene comune. Possono essere un valido aiuto «quando diventano strumenti di promozione dell’universale partecipazione nella comune ricerca di ciò che è giusto». Eppure ci fanno da filtro circa la verità, creano alluci-nazioni da onnipotenza e assuefazione all’orrore, dilatano un orizzonte fittizio ed esibizionista del comunicare … ci fanno di-ventare sempre più massa impotente e frustrata. Non è forse la “cultura” che ci salverà con rigore ed entusiasmo da questa “ipnosi dell’immaginario”?

3. La BIO-POLITICA (n. 74).«Campo primario e cruciale» del rischio di sottomettere tutto al solo criterio del fattibile è la tecnologia sull’uomo. Tentazione così forte da estendersi fino al dominio dell’insieme del patrimonio genetico del vivente, sogno di onnipotenza che presume di offrire all’uomo l’inaugu-razione di una “seconda Genesi” … o di rimaneggiare definiti-vamente la “prima Genesi”. Doppio scandalo di un’umanità o-pulenta sempre più misera e di un’umanità in miseria sempre più inascoltata: a forza di selezionare ciò che è degno di rispet-to, a forza di scandalizzarci per piccolezze mentre tolleriamo ingiustizie gigantesche, rischiamo di non udire più il povero che batte alla porta del ricco. Siamo delle coscienze intorpidite, «incapaci di riconoscere l’umano» (n. 75).

Oltre questo scenario, in cui solo lo spirito può sfondare le chiusure della materia, il papa chiude con un appello all’in-teriorità (la crescita dello spirito) e alla libertà (e non solo tera-pie per il corpo e per la psiche …). Per uno sviluppo verso il “prodigio dell’immateriale”.

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Col suo lavoro e col suo ingegno l’uomo ha cercato sempre di sviluppare la pro-

pria vita; oggi, poi, specialmente coll’aiuto della scienza e della tecnica, ha dilatato e continuamente dilata il suo do-minio su quasi tutta intera la natura e, coll’aiuto soprattutto degli accresciuti mezzi di molte forme di scambio tra le nazioni, la famiglia umana a poco a poco è venuta a rico-noscersi e a costituirsi come una comunità unitaria nel mondo intero. Ne deriva che molti beni, che un tempo l’uomo si aspettava dalle forze superiori, oggi ormai se li procura con la sua iniziativa e con le sue forze.

Di fronte a questo immenso sforzo, che ormai pervade tut-to il genere umano, molti interrogativi sorgono tra gli uo-mini. Qual’è il senso e il valore dell’attività umana? Come vanno usate queste realtà? A quale scopo tendono gli sforzi sia individuali che collettivi? La chiesa, che custodisce il deposito della parola di Dio, da cui vengono attinti i princi-pi per l’ordine morale e religioso, anche se non ha sempre pronta la soluzione per ogni singola questione, desidera unire la luce della rivelazione alla competenza di tutti, allo scopo di illuminare la strada sulla quale si è messa da poco l’umanità.

Bio-politica = è un termine che si va diffondendo (soprattutto in ambito scientifico) per definire il fenomeno tipicamente moderno della presa in carico e della gestione della vita biologica da parte del potere. Non solo del potere dello stato (ci fu ad esempio una bio-politica all’interno della ideologia nazista che si tradusse in atto) ma anche quel “potere” che ciascuno ritiene avere sulla propria e altrui vita biologica. Questo “potere” (sia dello stato, sia dell’individuo) hanno un rilievo di cui deve occuparsi il dibattito pubblico (e in seguito politico). Se tutti concordano nell’attribuire un cari-

… per fare memoria

BIO-POLITICA

Gaudium et spes, n. 33

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co “pubblico” al problema della sanità (tutelare il diritto al-la salute è infatti un diritto che ha rilievo pubblico), è meno pacifico che anche sulle questioni della vita e della morte il dibattito pubblico debba essere ampio e profondo. Toccare “la nuda vita” attraverso la manipolazione, autorizzarne l’e-sistenza o meno, e tutto quello che ha a che fare con ciò che avviene in laboratori, in istituti dove scienziati operano sul-la vita … può essere riconosciuto come un diritto fonda-mentale? Impostare questo problema non è semplice, e non possiamo farlo qui. Ci basti l’aver messo in luce una dire-zione importante del dibattito pubblico su un tema che troppo frettolosamente viene lasciato alla decisione privata di ciascuno. L’enciclica Caritas in veritate sottopone alla ragione e alla fede la discussione di un modello di rapporto con la vita che sceglie la logica della potenza come unica soluzione alla fragilità della vita umana (l’unico “rispetto” della vita è decidere su di essa?).

* Segnaliamo un testo un po’ massiccio ma in grado di ripagare ottima-mente la fatica di leggerlo: F. HADJADJ, Farcela con la morte. Anti-metodo per vivere, Cittadella, Assisi, 2009.

Chi potrà misurare gli effetti negativi di una simile mentalità [tecnica] sullo sviluppo? Come ci si potrà stupire dell’indifferen-za per le situazioni umane di degrado, se l’indifferenza caratte-rizza perfino il nostro atteggiamento verso ciò che è umano e ciò che non lo è? Stupisce la selettività arbitraria di quanto oggi vie-ne proposto come degno di rispetto. Pronti a scandalizzarsi per cose marginali, molti sembrano tollerare ingiustizie inaudite. Mentre i poveri del mondo bussano ancora alle porte dell’opu-lenza, il mondo ricco rischia di non sentire più quei colpi alla sua porta, per una coscienza ormai incapace di riconoscere l’u-mano (Caritas in veritate, 75)

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Si tratta di un episodio molto no-to della Bibbia. Gli studiosi lo indicano come il 4° peccato “originale” (dopo Adamo-Eva; Caino-Abele; violenza che dilaga sulla terra; Babele). È la narra-zione che drammatizza l’orgoglio di ogni civiltà, di ogni cultura sempre a rischio di scivolare ver-so il totalitarismo. Pochi partico-lari ci parlano in modo “sapienziale”. Ad esempio la lin-gua unica, le parole uniche che hanno il sapore non dell’unità ma dell’uniformità, cioè di un livellamento che ripete parole identiche, una ossessione dell’i-dentico, una pigrizia che rispar-mia dal dovere etico di “tradurre” le diversità cercando l’universale che non è a disposizione di nes-suno (P. Gomarasca). Ecco la grande salita che chiama a rac-colta gli uomini, per un nome unico ed evitare la dispersione.

Il sogno di imprese che manife-stino l’identità, il bisogno di ag-grapparsi alla mediazione delle cose materiali: il mattone e il bitume, oggetti artificiali per ec-cellenza, costruiti, oggetti senza

corpo. Essi permettono un mondo dove tutto si adatta, perché il mattone non è irregolare come la pietra, es-so è squadrato e la sua forma è standard; i mattoni sono uniformi e si a-dattano con regolarità, sono l’immagine di una società compatta e regola-re che riflette il mito dell’identico. Ed è per questo che la discesa di Dio non è solo dispersione ma rottura dell’identico, che è la vera benedizione degli inizi: «riempite la terra» (Gen 1,28), sparpagliatevi in orizzontale anziché salire orgogliosamente in verticale.

(Per altri spunti si segnala il commento di: A. WÉNIN, Da Abramo ad Abramo o

11,1 Tutta la terra aveva un’unica lin-gua e uniche parole. 2 Emigrando dal-l’oriente, gli uomini capitarono in una pianura nella regione di Sinar e vi si stabilirono. 3 Si dissero l’un l’altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuocia-moli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da malta. 4 Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra». 5 Ma il Signore scese a vedere la città e la tor-re che i figli degli uomini stavano co-struendo. 6 Il Signore disse: «Ecco, essi sono un unico popolo e hanno tutti un’unica lingua; questo è l’inizio della loro opera, e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro im-possibile. 7 Scendiamo dunque e con-fondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’-altro». 8 Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di co-struire la città. 9 Per questo la si chia-mò Babele, perché là il Signore confu-se la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra. (Gen 11,1-9)

LA PAROLA

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La tec-nica apre strade nuove e impensate, avanza in modo inarrestabile, tocca molti aspetti del vivere. Ma non tutto ciò che è possibile è buono, e nemmeno lecito. C’è un discernimento credente, un confronto su opportunità e scelte di uno stile sempre più “tecnico”, visto che ogni scelta produce effetti sulla propria vi-ta e quella degli altri?

I mezzi di comunicazione socia-le eliminano le distanze spazio-temporali, ma non riescono a produrre “vicinanza” fraterni-tà, solidarietà, cresce anzi “il male dell’anima” , un diffuso senso di paura dell’altro, un conflitto tra generazioni, l’in-capacità di dialogo “a vivo”. An-che lo stile pastorale è “comunicazione”. Come possia-mo essere “riconosciuti” come discepoli dentro e fuori la co-munità?

Da cristiani non possiamo ri-nunciare alla speranza, alla “profezia” nel dire la nostra fe-de. «Con il suo impegno il cri-stiano può e deve dare il suo contributo affinché il mondo diventi un po’ più luminoso e

l’errare dell’uomo. Lettura narrativa e antropologia della Genesi. 1. Gen 1,1-12,4, EDB, Bologna, 2008, 153-162).

Un commento ebraico (midrash) immagina il clima nel quale si è svolto quell’immenso lavoro tecni-co: «Su ogni mattone, grande quanto un essere umano, era inci-so il nome di chi lo deponeva, co-me la firma di un decreto. Non erano pensabili defezioni né ral-lentamenti nel ritmo di lavoro. I bambini e i vecchi erano estromes-si dalla fatica di erigere vera e pro-pria, ma neanche loro si allontana-vano dal cantiere e cercavano di rendersi utili portando acqua da bere e impastando la calce. Se una donna era colta dalle doglie, si di-straeva il tempo necessario a ta-gliare il cordone ombelicale e le-garsi al petto il neonato. Poi, col bimbo in collo, tornava ai suoi mattoni, non si trovava il tempo per dare il benvenuto nel mondo a questi futuri superuomini. (...) Or-mai occorreva più di un anno per arrivare in cima e un anno esatto per tornare giù. Se un uomo si feri-va o cadeva da quell’altezza, nessu-no ci faceva caso, ma se si rompeva o andava perduto un mattone, tutti piangevano perché sarebbero do-vuti passare più di due anni prima di poterlo sostituire».

Un insieme di mattoni per darsi un nome, dei mattoni che portano il nome di chi lo depone … cioè un insieme di uomini che si trovano ad essere considerati, trattati e quasi chiamati come dei mattoni.

… per il confronto

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Quando Dio creava, io c’ero Io so da dove vengo. So perché abito questa terra. Se faccio silenzio, il mio cuore lo sente. Quando il pensiero di Dio ha creato l’universo in quel momento ha creato anche me. I fiumi scendevano verso il mare la vita prendeva corpo gli alberi respiravano l’aria nuova. Respiravo con loro l’armonia di ogni cosa. Dopo la grande ribellione non è più stato così. L’uomo non si è più accontentato ha inventato l’io ha voluto reticolati per difendersi ha agito con violenza, guerre e sopraffazioni. In quel momento ho compreso il mio posto qual’era.

per la preghiera

umano e così si aprano anche le porte verso il futuro» (Spe salvi, 35). Le nostre comunità sono impegnate nella evangeliz-zazione o si accontentano di una pastorale tradizionalmente impostata (catechesi, sacramenti). Siamo capaci di dire qualco-sa sui grandi temi della pace, della bioetica (biopolitica), della comunicazione? Ci occupiamo dei molti ai margini, che maga-ri, come gli abitanti di Ninive, non sanno “distinguere la destra dalla sinistra”?

Lottare contro le ingiustizie asciugare le lacrime riportare l’armonia della pace fino a ritrovare il mio posto nell’eternità