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1 DAL MENTE-CORPO AL PERSONA- CORPO: IL PARADIGMA INTENZIONALE NELLE SCIENZE COGNITIVE Gianfranco Basti ABSTRACT In questo contributo 1 viene approfondito il legame esistente fra il nuovo paradigma intenzionale nelle scienze cognitive e l’approccio duale alla relazione mente-cervello che esso sottintende che fa della persona e non della mente o del cervello il soggetto delle azioni cognitive. Il paradigma intenzionale sostituisce, infatti, quel- lo il vecchio paradigma funzionalista delle scienze cognitive, che si rifà all’approccio rappresentazionale alle funzioni cognitive, tipico delle filosofie razionaliste moderne della mente (Descartes, Leibniz, Kant), e quindi del programma di ricerca dell’Intelligenza Artificiale (IA). Dopo una breve presentazione delle tre possibili so- luzioni del problema mente-corpo, dualista, monista e duale, s’introduce il programma di ricerca delle scien- ze cognitive. Esso, alla “triangolazione” comportamentista fra 1) resoconto introspettivo di uno stato/atto di coscienza e doppio correlato oggettivo, osservabile, di esso, ovvero: 2) corrispondente modificazione neuro- fisiologica, 3) corrispondente modificazione comportamentale, sostituisce a quest’ultima, 3a) il calcolo logico implementato nella modificazione neurofisiologica corrispondente ad un particolare stato/atto di coscienza. Vengono poi discussi i limiti cognitivi, logici e neurofisiologici che hanno portato all’abbandono del paradigma funzionalista nelle scienze cognitive per l’attuale paradigma intenzionale. Infine, nella terza sezione, vengo- no discusse le conseguenze antropologiche del nuovo paradigma intenzionale che fa della persona in quan- to corpo-in-relazione, composto di forma e materia, e non della mente o del cervello soltanto, il soggetto de- gli atti cognitivi e deliberativi. A mo’ di conclusione, viene presentata come una delle più originali implicazioni del paradigma intenzionale e della connessa ontologia duale della persona e quindi del mente-corpo, la loca- lizzazione della mente non come contenuta “nella testa”, secondo il vecchio schema rappresentazionale, ma come “contente il corpo”, secondo quanto nel Medio Evo Tommaso d’Aquino proponeva in contrapposizione ai filosofi platonici. Tutto ciò fornirà anche un’interessante soluzione al problema metafisico della sussistenza dell’anima umana dopo la morte che riprende l’originale soluzione sempre suggerita da Tommaso a questo problema. SOMMARIO DAL MENTE-CORPO AL PERSONA-CORPO: IL PARADIGMA INTENZIONALE NELLE SCIENZE COGNITIVE ............... 1 1 INTRODUZIONE .......................................................................................................................................... 3 2 DALLA FILOSOFIA DELLA MENTE ALLE SCIENZE DELLA MENTE ..................................................................... 3 2.1 FILOSOFIA DELLA MENTE: TEORIE DUALISTE, MONISTE, DUALI .................................................................................... 3 2.2 TEORIE DUALI E APPROCCIO INFORMAZIONALE NELLE SCIENZE ................................................................................... 7 3 DALLA PSICOLOGIA COMPORTAMENTISTA ALLA SCIENZA DELLA MENTE ................................................... 10 3.1 DALLE TEORIE COMPORTAMENTISTE ALLE SCIENZE COGNITIVE ................................................................................. 10 3.1.1 Teorie comportamentiste ................................................................................................................ 10 3.1.2 Dal comportamentismo alla riscoperta della dimensione intenzionale della mente ...................... 11 Ordinario di Filosofia della Natura e della Scienza e Decano della Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Late- ranense. Da oltre trent’anni è ricercatore nel campo dell’intelligenza computazionale (reti neurali) e delle scienze co- gnitive. E-mail: [email protected] 1 Questo saggio costituisce una profonda revisione ed un’integrazione in senso ontologico e metafisico di un altro mio lavoro presentato nel 2008 al III Congresso nazionale della SEPI (Society for the Exploration of Psychotherapy Inte- gration), Roma 14-19,4,2008, e pubblicato in (Basti, 2009). In: …E la coscienza? Fenomenologia, psico-patologia e neuro- scienze, a cura di: ANGELA ALES-BELLO & PATRIZIA MANGANARO, G. Laterza, Bari, 2012, pp.523-634.

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DA L M E N T E - C O R P O A L P E R S O N A -C O R P O : I L PA R A D I G M A

I N T E N Z I O N A L E N E L L E S C I E N Z E C O G N I T I V E

Gianfranco Basti∗

ABSTRACT In questo contributo1 viene approfondito il legame esistente fra il nuovo paradigma intenzionale nelle scienze cognitive e l’approccio duale alla relazione mente-cervello che esso sottintende che fa della persona e non della mente o del cervello il soggetto delle azioni cognitive. Il paradigma intenzionale sostituisce, infatti, quel-lo il vecchio paradigma funzionalista delle scienze cognitive, che si rifà all’approccio rappresentazionale alle funzioni cognitive, tipico delle filosofie razionaliste moderne della mente (Descartes, Leibniz, Kant), e quindi del programma di ricerca dell’Intelligenza Artificiale (IA). Dopo una breve presentazione delle tre possibili so-luzioni del problema mente-corpo, dualista, monista e duale, s’introduce il programma di ricerca delle scien-ze cognitive. Esso, alla “triangolazione” comportamentista fra 1) resoconto introspettivo di uno stato/atto di coscienza e doppio correlato oggettivo, osservabile, di esso, ovvero: 2) corrispondente modificazione neuro-fisiologica, 3) corrispondente modificazione comportamentale, sostituisce a quest’ultima, 3a) il calcolo logico implementato nella modificazione neurofisiologica corrispondente ad un particolare stato/atto di coscienza. Vengono poi discussi i limiti cognitivi, logici e neurofisiologici che hanno portato all’abbandono del paradigma funzionalista nelle scienze cognitive per l’attuale paradigma intenzionale. Infine, nella terza sezione, vengo-no discusse le conseguenze antropologiche del nuovo paradigma intenzionale che fa della persona in quan-to corpo-in-relazione, composto di forma e materia, e non della mente o del cervello soltanto, il soggetto de-gli atti cognitivi e deliberativi. A mo’ di conclusione, viene presentata come una delle più originali implicazioni del paradigma intenzionale e della connessa ontologia duale della persona e quindi del mente-corpo, la loca-lizzazione della mente non come contenuta “nella testa”, secondo il vecchio schema rappresentazionale, ma come “contente il corpo”, secondo quanto nel Medio Evo Tommaso d’Aquino proponeva in contrapposizione ai filosofi platonici. Tutto ciò fornirà anche un’interessante soluzione al problema metafisico della sussistenza dell’anima umana dopo la morte che riprende l’originale soluzione sempre suggerita da Tommaso a questo problema.

SOMMARIO

DAL MENTE-CORPO AL PERSONA-CORPO: IL PARADIGMA INTENZIONALE NELLE SCIENZE COGNITIVE ............... 1

1 INTRODUZIONE .......................................................................................................................................... 3

2 DALLA FILOSOFIA DELLA MENTE ALLE SCIENZE DELLA MENTE ..................................................................... 3

2.1 FILOSOFIA DELLA MENTE: TEORIE DUALISTE, MONISTE, DUALI .................................................................................... 3 2.2 TEORIE DUALI E APPROCCIO INFORMAZIONALE NELLE SCIENZE ................................................................................... 7

3 DALLA PSICOLOGIA COMPORTAMENTISTA ALLA SCIENZA DELLA MENTE ................................................... 10

3.1 DALLE TEORIE COMPORTAMENTISTE ALLE SCIENZE COGNITIVE ................................................................................. 10 3.1.1 Teorie comportamentiste ................................................................................................................ 10 3.1.2 Dal comportamentismo alla riscoperta della dimensione intenzionale della mente ...................... 11

∗ Ordinario di Filosofia della Natura e della Scienza e Decano della Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Late-

ranense. Da oltre trent’anni è ricercatore nel campo dell’intelligenza computazionale (reti neurali) e delle scienze co-gnitive. E-mail: [email protected]

1 Questo saggio costituisce una profonda revisione ed un’integrazione in senso ontologico e metafisico di un altro mio lavoro presentato nel 2008 al III Congresso nazionale della SEPI (Society for the Exploration of Psychotherapy Inte-gration), Roma 14-19,4,2008, e pubblicato in (Basti, 2009).

In: …E la coscienza? Fenomenologia, psico-patologia e neuro-scienze, a cura di: ANGELA ALES-BELLO & PATRIZIA MANGANARO, G. Laterza, Bari, 2012, pp.523-634.

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3.1.3 La nascita delle scienze cognitive .................................................................................................... 13 3.2 DAL PARADIGMA RAPPRESENTAZIONALE AL PARADIGMA INTENZIONALE .................................................................... 19

3.2.1 Teorie funzionaliste e approccio rappresentazionale ...................................................................... 19 3.2.2 Rappresentazionale vs. intenzionale: evidenze cognitive ................................................................ 21 3.2.3 Rappresentazionale vs. intenzionale: evidenze neurofisologiche .................................................... 22

4 PARADIGMA INTENZIONALE E CALCOLO LOGICO INTENSIONALE ............................................................... 24

4.1 PARADIGMA INTENZIONALE E LOGICA ................................................................................................................. 24 4.1.1 Paradigma intenzionale e volontarismo irrazionalista .................................................................... 24 4.1.2 Approccio rappresentazionale, logica estensionale e teorie dell’identità mente-corpo .................. 25 4.1.3 Logiche estensionali e assioma di estensionalità ............................................................................ 27

4.2 LOGICHE ESTENSIONALI VS. LOGICHE INTENSIONALI ............................................................................................... 28 4.2.1 Negazione degli assiomi di estensionalità e generalizzazione esistenziale ..................................... 28 4.2.2 Negazione del principio di vero-funzionalità e verità dei calcoli intensionali .................................. 28 4.2.3 Teoria descrittiva vs. teoria causale della referenza singolare (riferimento alle cose) .................... 30

4.3 DALLA LOGICA DELLA GIUSTIFICAZIONE ALLA LOGICA DELLA SCOPERTA ....................................................................... 32 4.3.1 Dalla teoria causale della referenza al paradigma intenzionale ..................................................... 32 4.3.2 Scienze cognitive e paradigma galileiano di scienza ....................................................................... 33

5 LOCALIZZAZIONE DELLA MENTE NEL PARADIGMA INTENZIONALE ............................................................. 34

6 RILEVANZA METAFISICA E TEOLOGICA DELLA TEORIA DUALE .................................................................... 35

6.1 ONTOLOGIA DEI VIVENTI SECONDO LA TEORIA DUALE ............................................................................................. 35 6.2 PERSONA E PERSONALITÀ, TRASCENDENZA E INTER-SOGGETTIVITÀ ........................................................................... 36 6.3 SOPRAVVIVENZA DELL’ANIMA INDIVIDUALE NELLA TEORIA DUALE ............................................................................. 39

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1 INTRODUZIONE

Tre sono gli argomenti principali di questo breve contributo:

1. Dapprima illustreremo il passaggio dalla “filosofia della mente” alle “scienze della mente”, o “scienze cognitive”, e in particolare alle “neuroscienze cognitive”. Vedremo cioè come le “neuroscienze cognitive” costituiscono una “terza via” fra “cognitivismo” e “comportamenti-smo”, proprio come nella “filosofia della mente”: a. L’ontologia “duale” — aristotelica prima, poi scolastica e quindi fenomenologica — della

“mente” o “anima” come “forma della materia” del corpo, costituisce una terza via fra: b. L’ontologia dello “spiritualismo dualista” — la mente o anima come “sostanza spirituale”

separata, indipendente, dal cervello e dalla “sostanza materiale” del corpo — e c. L’ontologia del “monismo materialista” — la mente e la coscienza come “funzione”,

“prodotto” di parti del cervello e dunque del corpo ridotto alla sola materia.

2. In un secondo passo, illustreremo il passaggio che si sta compiendo proprio in questi anni all’“approccio intenzionale” nelle neuroscienze cognitive, dall’originario “approccio rappre-sentazionale” o “funzionalista” che seguiva la metafora del cervello come un computer e quin-di della mente come “software” dello “hardware” cerebrale. Secondo l’approccio intenzionale, invece, i contenuti mentali prima che “rappresentazioni” del mondo “esterno” interni alla men-te autocosciente, sono il risultato dell’interiorizzazione di “azioni intenzionali” del soggetto, con una ineliminabile componente intersoggettiva, come ha evidenziato la fondamentale sco-perta dei cosiddetti “neuroni specchio” nella corteccia cerebrale dei primati e degli uomini.

3. In un terzo passo, faremo, in un certo senso, un percorso a ritroso rispetto a quello compiuto nella prima sezione. Se infatti nella prima sezione siamo andati lungo il percorso che porta dal-la filosofia della mente alle moderne scienze della mente, in questa terza sezione torneremo (o meglio “tornando indietro, andremo avanti” perché si tratta di un percorso a spirale) dalle mo-derne scienze della mente ad una post-moderna filosofia della mente. Ovvero una filosofia del-la mente che, coniugando il meglio della metafisica classica (Tommaso d’Aquino) della per-sona, con il meglio della riflessione fenomenologica (Edith Stein) in antropologia e delle scienze cognitive secondo il paradigma intenzionale, fornisce delle originali soluzioni al pro-blema della soggettività della persona rispetto alle operazioni mentali, della localizzazione del-la mente rispetto al corpo, della sopravvivenza post-mortem dell’anima rispetto alla materia del corpo.

2 DALLA FILOSOFIA DELLA MENTE ALLE SCIENZE DELLA MENTE

2.1 FILOSOFIA DELLA MENTE: TEORIE DUALISTE, MONISTE, DUALI

Il problema della relazione mente-corpo ha sempre affascinato la ricerca filosofica, teologica e — nell’età moderna — scientifica, per via delle sue molteplici implicazioni. Per esempio, vi sono numerose evidenze che mirano a sostenere la convinzione di una “indipendenza” della mente rispet-to al corpo:

1. L’esperienza comune ad ogni uomo di una vita interiore, legata alla capacità dei nostri “io” di distaccarsi dal proprio corpo fin quasi a poterselo oggettivare dinanzi — anche se mai comple-tamente — in ogni comportamento di tipo consapevole (= auto-coscienza).

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2. L’universale credenza religiosa in una qualche forma di sopravvivenza degli “io” umani dopo la morte.

3. La necessità di supporre la libertà individuale di ciascun uomo per poter giustificare la sua in-tangibile dignità ed insieme la responsabilità individuale dei suoi atti consapevoli, sia dal pun-to di vista morale che legale.

Così, tre sono i diversi tipi di antropologie proposte nel pensiero occidentale, in riferimento al problema mente-corpo: le antropologie dualiste, moniste e duali. Caratteristica tipica delle prime due antropologie è che esse sono legate ad una epistemologia di tipo rappresentazionale (= oggetto della conoscenza non è la realtà, ma delle rappresentazioni di essa interne alla coscienza), mentre le ultime, quelle duali, sono legate ad un’epistemologia di tipo intenzionale. Ovvero: la conoscenza consiste in un’adeguazione alla realtà a partire da azioni intenzionali (= finalizzate al soddisfaci-mento di scopi) del soggetto verso il reale, a partire da azioni causali della realtà sul soggetto. Ve-diamo più sinteticamente queste tre antropologie.

1. Teorie “dualiste”: come nella filosofia platonica (Cfr., Rep., IV, 438d-440a; Timeo, 42e-44e; 69c-77c; 89d-90d; Leggi, X,894e-898d), la mente, come facoltà dell’anima, e il corpo vengono considerati come due sostanze separate e interagenti. In tal modo si perde l'unità della perso-na umana e l’anima viene considerata come “imprigionata nel corpo”, con tutte le ben note conseguenze in etica e filosofia morale (disprezzo del corpo, della sessualità, etc.). Principale rappresentante nella modernità di questa antropologia è R. Descartes, mentre nel XX secolo questa antropologia è stata difesa in particolare dal Premio Nobel J. C. Eccles (Eccles & Popper, 1977), colui che per primo ha studiato e compreso i meccanismi delle sinapsi cerebra-li.

2. Teorie “moniste”: le antropologie moniste nella modernità non sono soltanto di tipo mate-rialista come nell'antichità, per esempio, era l'antropologia di Democrito ed in seguito, dopo Platone ed Aristotele, sono state le antropologie stoiche, epicuree e scettiche. L'epistemologia rappresentazionista rende di per sé disponibili anche altre due possibilità: il monismo spiritua-lista e quello assoluto. a. Monismo materialista. Consiste nella riduzione della vita psichica dell'uomo ad un insie-

me di funzioni neurofisiologiche del corpo. Principali rappresentanti di questa antropo-logia sono tutti i maggiori filosofi empiristi della modernità, da D. Hume ai positivisti e neopositivisti contemporanei.

b. Monismo spiritualista. Consiste nella riduzione del corpo ad una rappresentazione interna della mente. Il corpo e la realtà materiale in genere altro non è che un insieme di rap-presentazioni della mente intesa come una "monade spirituale". Principale rappresentante di questa antropologia è G. Leibniz.

c. Monismo assoluto. Infine, molto più dannose per i destini moderni dell'antropologia sono state quelle filosofie che, in nome di un monismo metafisico assoluto (tutti gli enti sono accadimenti (accidenti) di un’unica realtà o sostanza), hanno inteso distruggere la stessa individualità della persona umana, riducendola:

i. o ad un semplice modo di essere di un'unica sostanza o "natura" universale (la materia fisi-ca col determinismo assoluto delle sue leggi) come nella filosofia monista di B. Spinoza;

ii. o ad un semplice momento dello sviluppo storico di uno "spirito assoluto" come nello sto-ricismo dialettico di tipo idealista di G. W. F. Hegel;

iii. o ad un semplice momento del divenire della materia e della società (= l’uomo come “no-do” di relazioni sociali, secondo l’immagine che fu di L. Feuerbach), come nello storici-smo dialettico di tipo materialista di K. Marx.

3. Teorie “duali”. Diversa da tutte queste antropologie dualiste o moniste sono le antropologie “duali”, quali l’antropologia aristotelica, nell’antichità, quella tommasiana nel medioevo, quel-la fenomenologica e neo-scolastica nella modernità. Per queste antropologie ciò che il senso comune denota come “corpo”, non è solo materia, ma materia e forma che, come tali non pos-

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sono esistere mai separatamente, di qui il termine ilemorfismo (da ylé, materia, e morfé, forma, in greco) con cui nell’antichità venivano designate. L’“anima” dunque è “forma che organizza la materia”, ed il risultato di questa relazione è il corpo vivente, ovvero un corpo auto-organizzato, o “organismo”, che si ri-organizza continuamente, tanto che la sua decomposizio-ne o “disorganizzazione” coincide con la “morte” di quell’organismo, vegetale, animale o umano che sia. Nell’antichità greca e medievale, infatti, questa antropologia è stata sostenuta dai filosofi aristotelici e quindi dalla filosofica aristotelico-tomista del tardo medioevo.

A partire dallo sviluppo della moderna genetica, basata sulla scoperta negli anni ’60 del DNA, e dell’avvio contemporaneo del programma di ricerca della cosiddetta Intelligenza Artificiale (IA) nello studio della mente, l’interpretazione del “principio vitale” in biologia e della “mente” in psico-fisiologia possa avere un suo corrispettivo scientifico “operazionale”2 nella nozione di informazione incorporata negli scambi di materia-energia dell’organismo e/o del cervello, fa sì che oggi la teoria duale sia di fatto la più praticata nell’ambito scientifico, visto che ormai non esiste libro o testo di biologia o di scienze cognitive che, a torto o ragione, non usi il termine “informazione” e i concetti ad esso associati per descrivere e/o spiegare il suo oggetto. Uno straordinario salto in avanti in que-sto senso si è avuto in questi ultimi dieci anni con lo sviluppo in biologia della cosiddetta epigeneti-ca, ovvero dello studio di come i livelli più alti di organizzazione dell’individuo durante lo sviluppo ontogenetico e oltre, retroagiscano informazionalmente, mediante cioè specifici segnali bio-chimici3 sul medesimo corredo genetico delle cellule orientando l’espressione genica del DNA in maniera assolutamente individuale.

E’ dall’epigenesi e non solo dal genoma, dunque, che dipende, per esempio, sia la specializza-zione individuale delle cellule embrionali toti-potenti (in grado cioè di riprodursi per costituire qualsiasi genere di tessuto) verso cellule via via più specializzate, sia la de-specializzazione di esse per ri-produrre da cellule adulte specializzate, cellule multi/toti-potenti, avendo sempre e tutte, co-munque, il medesimo DNA. Ugualmente la degenerazione cancerosa delle cellule è certamente im-putabile all’interazione fra meccanismi genetici ed epigenetici, come pure meccanismi epigenetici entrano nella formazione dei cosiddetti “prioni” divenuti tristemente famosi per la sindrome dege-nerativa del cervello della cosiddetta “mucca pazza”. Inoltre è ormai provata anche l’influenza epi-genetica a livello cognitivo, per esempio, a nella formazione/degenerazione della “memoria a lungo termine” che dipende dall’interazione dinamica fra strutture sotto-corticali come l’ippocampo e strutture corticali nei lobi pre-frontali. Ma, in pratica, ogni mese si moltiplicano le scoperte e le pubblicazioni al riguardo, a testimonianza della crescente importanza di questa nuova dimensione della biologia genetica, in grado ormai di rendere la biologia stessa una scienza galileiana (matema-tico-sperimentale) a tutti gli effetti4.

2 Con “operazionalizzazione” di una determinata nozione filosofica si intende nell’epistemologia contemporanea la sua

“traduzione”, sempre necessariamente parziale e limitata, nel formalismo matematico e quindi nel linguaggio quantita-tivo di una determinata teoria. Una traduzione che consenta così un diretto o indiretto controllo empirico della nozione stessa, mediante la misurazione di determinate grandezze che vengono in tal modo associate alla nozione originaria. Nel nostro caso la nozione ontologica di “forma” che determina l’intrinseca “potenzialità indeterminata” di un sostrato materiale di ogni ente/evento fisico ad esistere in un dato modo invece che in un altro secondo i principi dell’ontologia duale dell’ilemorfismo aristotelico, ha un corrispettivo operazionale nella nozione di informazione come misura di (im-)probabilità di un determinato evento fisico. Siccome lo stato maggiormente disordinato è quello più fisicamente probabile, maggiore è l’ordine e quindi l’improbabilità di quello stato più alta è la “quantità d’informazione” ad esso associato. Di qui la definizione di “informazione” come “grandezza fisica immateriale”, ma misurabile in termini pro-babilistici.

3 E’ altamente significativo che la prestigiosa rivista Science abbia da qualche anno istituito una nuova rivista che tratta esclusivamente di problemi di scambi d’informazione a livello bio-genetico, sia negli individui, sia fra individui, dal titolo, che è tutto un programma, Science Signaling.

4 Per un aggiornamento si può consultare il sito creato dalla rivista Science per gli studi epigenetici: www.sciencemag.org/section/epigenetics .

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Avevano dunque ragione, sia il fondatore della cibernetica, Norbert Wiener — per un banale quanto spesso dimenticato ragionamento matematico5 (Wiener, 1949) — sia il riconosciuto attuale (ri-)fondatore dell’epigenetica, Carol H. Waddington, che riscoprì questo termine aristotelico (Rubin, 2001) per darle il nuovo senso con cui noi oggi l’usiamo6, sia io stesso che citavo ambedue ben prima dell’attuale “esplosione” di studi epigenetici, come chiave per un’adeguata e non ideolo-gica comprensione dei meccanismi evolutivi, secondo i dettami di quello che Waddington stesso (Waddington, 1971) definiva il suo “post-neo-darwinismo” (Basti, 1995, p. 138ss.)7. Infatti, sicco-me è provato che determinati meccanismi epigenetici sono trasmissibili ereditariamente senza mo-difiche del sottostante DNA, la vecchia polemica moderna fra darwinisti e lamarckiani, fra fattori genetici e ambientali nell’evoluzione degli organismi è ormai da archiviare. La modernità come “epoca delle ideologie” è insomma finalmente morta anche in biologia, almeno a livello

5 Il ragionamento di Wiener è semplice quanto lineare: un umano adulto è costituito da centinaia di milioni di miliardi

di cellule (1017: 1 seguito da 17 zeri), tutte derivate da una sola cellula fecondata (lo zigote) che, dopo essersi riprodot-ta sempre uguale a se stessa come fosse un tumore (la morula), comincia progressivamente a differenziarsi. Ora, se schematizziamo ultra semplificando questo processo di differenziazione (epigenesi), come una sorta di albero a bifor-cazioni progressive con ogni biforcazione corrispondente ad una riproduzione/differenziazione cellulare, e poniamo che ci vuole almeno un bit d’informazione per porsi sulla biforcazione e almeno un altro per scegliere quale delle due strade intraprendere, ci vorranno due bit (21) per la prima biforcazione (differenziazione), quattro bit (22) per la secon-

da, otto bit per la terza (23) e così via, fino ad arrivare alla stratosferica quantità dell’ordine di 17102 bit d’informazione

per la produzione del umero di cellule di cui un adulto è composto. Una quantità talmente enorme d’informazioneche non basterebbe tutta la materia dell’universo per contenerla. E’ evidente allora, concludeva Wiener, che tutta l’informazione per costruire l’individuo adulto, non può essere contenuta nel DNA, come nel programma di un com-puter. Il vivente dunque è un sistema auto-regolante, organizzato su molteplici livelli, tutti in grado di retroagire fra di loro, capace per questo di “generare informazione” man mano che evolve. I meccanismi epigenetici, a vari livelli di complessità sono la chiave di volta per cominciare a penetrare questa meraviglia della natura. Come, ricordavo nel mio manuale di antropologia con la metafora, divenuta famosa fra i miei studenti dello sviluppo “del gatto Poldo”, citando una poderosa idea di Tommaso d’Aquino al riguardo, il singolo individuo, sviluppandosi, interagisce colla sua specie di appartenenza (genere naturale) modificandola sulla propria individualità irriducibile (Cfr. (Basti, 1995, p. 158ss.)). Non c’è dunque bisogno di alcuna hecceitas come, dopo Tommaso, nel Medio Evo affermeranno gli Scotisti, eviden-temente schiavi di un pregiudizio pre-formista come chiunque ragiona con pre-comprensioni matematiche sui processi genetici (ai tempi di Aristotele erano Democrito e Leucippo) per garantire l’individualità del prodotto finale (tutta l’informazione del fenotipo è nella cellula germinale come in matematica tutta l’informazione dei seguenti teoremi è negli assiomi iniziali). Basta usare la nozione aristotelico-scolastica di actio immanens, come caratteristica di tutti i vi-venti, che, appunto secondo Tommaso, a livello ontogenetico, determina la capacità dell’individuo stesso nel suo pro-cesso di sviluppo di eseguire/non eseguire determinate istruzioni della cellula germinale e comuni alla sua specie, così da caratterizzare progressivamente, in maniera dinamica, “epigenetica” appunto (ricordiamo che il termine originale è di Aristotele), la propria unicità individuale. Ripeto: tutte nozioni che oggi, da Waddington in poi — che per questo motivo riscopre il termine aristotelico di “epigenesi” —, sono operazionalizzabili nella nozione di sistema epigenetico di auto-regolazione che attiva/inibisce l’espressione genica a diversi livelli dello sviluppo individuale. Cfr. il terzo ca-pitolo del mio (Basti, 1995), dove affermavo che la nozione di “azione immanente” è operazionalizzabile in quella di sistema biologico auto-regolante, fin dai livelli fondamentali di ontogenesi dell’individuo. Questa capacità di “azione immanente” si esplicita, infatti, secondo Tommaso a questo livello come capacità dell’individuo di “eseguire/non ese-guire” le istruzioni “date per natura” nella cellula germinale e comuni alla specie cui l’individuo appartiene. Tornere-mo in §6.1 su questa ontologia tommasiana del vivente basata sul concetto di azione immanente, operazionalizzato nella nozione di auto-regolazione.

6 “La branca della biologia che studia le interazioni causali fra i geni e i loro prodotti che portano all’esistenza il fenoti-po”, ovvero l’organismo sviluppato (Cfr. (Waddington, Epigenetics of birds, 1952)). 7 La critica che colà facevo a Waddington, e che oggi è in pieno confermata, è quella di usare come base fisica dei mec-

canismi epigenetici “la teoria delle catastrofi” di René Thom, assolutamente insufficiente — come affermava lo stesso, vero, inventore della teoria: il grande fisico matematico russo, recentemente scomparso, Vladimir I. Arnol’d (Arnol'd, 1983) — a giustificare la complessità delle dinamiche epigenetiche dei viventi. I sistemi non-lineari studiati da Ar-nol’d infatti, sono caratterizzati da una stabilità vicina all’equilibrio, sono cioè caratterizzati da “stabilità strutturale”. Viceversa i viventi sono, termo dinamicamente, “sistemi dissipativi” o “strutture dissipative”, capaci di riadattarsi con-tinuamente alle variazioni ambientali, cioè sistemi la cui stabilità è molto lontana dall’equilibrio (solo il cadavere di un (ex-)vivente è all’equilibrio termodinamico col suo ambiente, ma proprio per questo è assolutamente instabile: sta de-componedosi). Si deve a Ilya Prigogine che per questo è stato insignito del Premio Nobel , la scoperta di questa nuova classe di sistemi fisici complessi, conosciuti anche col nome di “sistemi caotici”, che sono la chiave, peraltro, dello studio delle basi fisiche dell’intenzionalità nelle dinamiche cerebrali, come vedremo fra poco.

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dell’accademia, anche se essa permane più virulenta che mai nella strumentalizzazione ideologico-politica della scienza, e non solo biologica, ad opera della falsa divulgazione scientifica. Un pro-blema angosciante, questo della falsa divulgazione, che è parte di quella “emergenza educativa” de-nunciata da più parti, ormai da diversi anni, ed a cui occorre trovare una soluzione!

Infatti — proprio per l’erronea identificazione fra “immaterialità” dell’anima e dualismo psico-fisico: anche l’informazione non è materia, sebbene sia scientificamente (empiricamente e matema-ticamente) studiabile! — l’approccio informazionale alle scienze biologiche e cognitive viene spes-so inserito nel quadro di un’antropologia monista di tipo materialista/meccanicista (cfr., come tipici e più famosi esempi, i contributi dei coniugi Churchland, Patricia (Smith-Churchland, 1986), (Smith-Churchland, 2002); e Paul (Churchland, 1999), (Churchland, 2007)) anche se non mancano esempi di tentativo di coniugare questo approccio informazionale di tipo rappresentazionale e dun-que funzionalista (cfr. infra) allo studio della mente, con un’antropologia di tipo dualista, per esem-pio in Jerry Fodor (cfr. (Fodor, 1980) e (Fodor, 2008)). Torneremo in seguito a spiegare il perché.

Viceversa, una volta abbandonato, per una converegenza di motivi, neurofisologici, logici ed epistemologici il paradigma rappresentazionale nelle scienze cognitive8, il paradigma intenzionale alternativo a quello intenzionale appare perfettamente compatibile con una ontologia duale, che fa della persona, in quanto costituita di materia e forma, e non della mente soltanto (la res cogitans cartesiana) o del cervello soltanto (la res extensa cartesiana), il soggetto metafisico (il cosidetto “io” della psicologia introspettiva) delle operazioni cognitive (Cfr. (Basti & Perrone, 2002); (Basti, 2006); (Freeman, 2008); (Metzinger & Gallese, 2003)). Nell’approccio “duale” post-moderno, in perfetta continuità con l’ontologia tommasiana della persona (Basti, 1995), ma anche con l’antropologia fenomenologica di ispirazione cristiana (Cfr. (Stein, 1935); (Ales-Bello, 1992); (Manganaro, 2007)), si passa dal vecchio e malposto problema del mente-corpo, al corretto proble-ma del persona-corpo, essendo la “mente” e il “corpo” solo strumenti o “cause strumentali”, per quanto indispensabili, del soggetto personale che compie gli atti umani, rispettivamente mentali e/o comportamentali. Proprio come — e l’esempio, efficacissimo è di Tommaso d’Aquino — a nessuno verrebbe in mente di definire il martello o lo scalpello “autori” della statua, malgrado sono essi strumenti indispensabili per fare la statua, ma è lo scultore l’autore, così è sciocco affermare che so-no il processamento dell’informazione e/o le attivazioni sinaptiche del cervello a “fare le operazioni mentali”, ma è la persona.

2.2 TEORIE DUALI E APPROCCIO INFORMAZIONALE NELLE SCIENZE

Roger Penrose, in un libro di per sé molto critico all’approccio funzionalista, spiega questo suc-cesso della teoria “duale” con un’ulteriore evidenza neurofisiologica, peraltro incontrovertibile e di facile comprensione per tutti: il fatto che cambiamo completamente la materia di cui siamo fatti al-meno due volte l’anno. Così, se fossimo in grado di segnare con un mezzo di contrasto attivo tutte le molecole (proteine) del nostro corpo e ci facessimo subito dopo una schermografia, ne risultereb-be un’immagine “fosforescente” completa sullo schermo. Se ci facessimo la stessa schermografia dopo qualche mese, sarebbe piena di “buchi”. Dopo sei mesi la schermografia sarebbe quasi com-pletamente, se non completamente oscura. La continuità del nostro “io”, anche quando ridotto al so-lo nostro “corpo”, è legata evidentemente non alla materia e agli scambi di materia di cui siamo fat-ti, ma all’informazione e agli scambi di informazione con cui questa materia è organizzata. Eviden-temente, e parafrasando un famoso detto biblico, l’uomo “non vive di solo pane”, vive di “pane e informazione”. Detto nei termini di Penrose,

8 Si tratta pur sempre di “scienza galileiana”, basata, cioè, su determinate ipotesi logico-matematiche che, nel caso

dell’approccio rappresentazionale, non hanno retto al controllo empirico, nel nostro caso, neurofisiologico, logico-cognitivo e logico-informatico, così da venire progressivamente abbandonato, come una qualsiasi ipotesi scientifica confutata dai dati, in favore dell’approccio alternativo, quello intenzionale, appunto.

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La massima parte del materiale di cui sono fatti i nostri corpi e i nostri cervelli viene continuamente sosti-tuito con del nuovo, così che è solo il pattern d’informazione che persiste nel tempo […]. Non è irragio-nevole perciò supporre che la persistenza dell’ “io” abbia più a che fare con la conservazione di questi pattern che con la conservazione di concrete particelle materiali (Penrose, 1994, p. 13s.).

D’altra parte, il nostro senso comune occidentale è talmente impregnato di dualismo nell’affrontare, sia la nozione di “forma” e di “causa formale” in ontologia, sia la nozione di “in-formazione” nelle scienze, che occorre soffermarci ulteriormente su questo problema, offrendo al nostro senso comune degli esempi che lo aiutino a interpretare correttamente queste nozioni, per evitare che, sia da sostenitori che da detrattori della teoria duale, si continui a interpretare inconsa-pevolmente la “forma” o la “causa formale” in senso effettivamente dualista, ovvero come una sor-ta di assurda “causa efficiente immateriale”. Una “forma” capace, cioè, di esercitare un’azione su corpi e corpuscoli fisici (p.es., modificare verso e/o direzione di un flusso di elettroni nella propaga-zione di un impulso elettrico in un mezzo conduttore), “in concorrenza” con le forze fisiche. Una nozione che non ha nulla a che fare con la nozione scientifica di “informazione”, nè con l’ontologia corrispondente duale o “ilemorfica”, di ispirazione aristotelica e tomista.

Una definizione intuitiva di “forma” (e quindi di “informazione”, nel senso, sempre intuitivo, di “applicazione di una forma a qualcosa che ne è sprovvisto”) che può aiutare l’ontologia del senso comune a curarsi dal virus dualista nell’interpretare queste nozioni è la seguente: “relazione di ordi-namento di parti che potrebbero stare (ordinarsi) altrimenti”. Una simile definizione ha il duplice pregio:

1. Di essere in continuità con la nozione scientifica di “informazione” che, matematicamente, è legata alla nozione di “(im-)probabilità”9, p.es., di determinati stati fisici all’interno del siste-ma, e, logicamente, è legata alla nozione di “(in-)decidibilità”10 di determinati enunciati all’interno di una teoria deduttiva. Il fatto che la nozione di informazione sia applicabile sia in fisica che in matematica, che in logica, giustifica la definizione di “informazione” nelle scien-

9 In fisica matematica, e più esattamente in meccanica, statistica la nozione di “informazione” è legata alla nozione sta-

tistica di entropia che essenzialmente è una misura del numero di modi in cui un sistema fisico potrebbe ordinarsi. Propriamente, l’entropia si definisce come proporzionale al logaritmo del numero di possibili configurazioni micro-scopiche che gli atomi e/o le molecole del sistema (= microstati) potrebbero assumere e che danno luogo agli stati ma-croscopici osservabili del sistema (= macrostati). In termodinamica statistica, per esempio, in cui la nozione statistica di entropia è stata sviluppata da L. Boltzmann, il secondo principio afferma che in un sistema termodinamico isolato (che non scambia energia con l’esterno) l’entropia non può essere mai decrescente, ma solo stabile o crescente. In questo senso l’entropia viene presa come una misura di “disordine”, nel senso che un sistema isolato tenderà ad assu-mere nel tempo tutte le possibili configurazioni del microstato compatibili col principio di conservazione dell’energia (= principio “ergodico”, formulato per la prima volta da Poincaré). L’informazione, intesa come ciò che si oppone al decadimento entropico di un sistema, può essere allora intesa come una misura di “ordine”, talvolta definita anche co-me neghentropia. Infatti, essendo lo stato di massima entropia lo stato più probabile cui il sistema tende (= stato di equilibrio o di minima energia “libera”), l’informazione può essere intesa come una misura dell’improbabilità di una determinata configurazione “ordinata” del sistema e quindi come una misura di “sorpresa”. E’ questo il senso con cui l’informazione viene intesa anche in teoria delle comunicazioni. P.es., la prima volta che leggo il giornale al mattino esso ha per me il massimo di contenuto informativo (sorpresa), contenuto che crolla verticalmente già la seconda volta che lo leggo, in quanto le sue notizie hanno perso ogni capacità di sorpresa. Analogamente in biologia, un organismo vivente, avendo una struttura fisica estremamente complessa, è altamente improbabile in natura e quindi è dotato di un grandissimo contenuto d’informazione (di ordine).

10 In logica, sappiamo come la necessaria incompletezza di ogni teoria formalizzata, in quanto coerente, è legata alla ne-cessaria indecidibilità di alcune “formule ben formate” al suo interno, dove “indecidibilità” significa che la verità o la falsità della formula non può essere formalmente “decisa” (dimostrata) all’interno della teoria formalizzata medesima. Ovviamente, l’indecidibilità delle formule all’interno di una teoria, possono essere rimosse in una teoria “più potente” della prima, mediante, per esempio, l’aggiunta di ulteriori assiomi. In questo senso, si afferma che la seconda teoria è dotata di maggior “contenuto informativo” della prima, essendo l’informazione in logica una quantità che si conserva all’interno di ciascuna teoria, nel senso che un teorema non aggiungerà mai informazione a quella già contenuta nei suoi assiomi.

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ze naturali come “grandezza fisica misurabile, ma immateriale”11, una nozione che, metafisi-camente, ha senso solo in un’ontologia duale.

2. Con la nozione ontologica di “forma” come atto/determinazione della “materia” (poten-za/indeterminazione), come nell’ontologia duale di ispirazione aristotelica. Tuttavia nell’estensione metafisica di tale ontologia anche alle sostanze spirituali operata da Tommaso, siccome ciò che conta non è la “materialità” del sostrato che la forma “ordina”, attualizzando

11 E’ stato il grande fisico John Archibald Wheeler, uno dei maggiori fisici teorici del ‘900 dell’Università di Princeton,

maestro in quell’università di altri fra i maggiori fisici teorici della seconda metà del secolo scorso (dal Premio Nobel Richard Feynman, a Kip Thorne, a Jacob Bekenstein a Hugh Everett), recentemente scomparso a 96 anni (2008), e con il quale ho avuto l’onore di incontrarmi più volte, a formulare nel 1990, per la prima volta, questa idea che ogni ente fisico fosse ultimamente costituito di energia ed informazione. Ciò fu espresso sinteticamente attraverso il suo famoso principio it from bit: “It from bit. Altrimenti detto, noi poniamo che ogni ‘it’— ogni particella, ogni campo di forza, addirittura lo stesso continuo spazio-temporale — deriva la sua funzione, il suo significato, la sua stessa esistenza per intero — anche se in alcuni contesti solo indirettamente — dalle risposte elicitate dall’apparato a questioni di tipo si-no, scelte binarie, ‘bits’. 'It from bit' simbolizza l’idea che ogni componente del mondo fisico ha al fondo — molto in profondità, nella stragrande maggioranza dei casi — una sorgente ed una spiegazione immateriali; ciò che noi chia-miamo “realtà” sorge, in ultima analisi, dal porre delle questioni “si-no” e dalla registrazione di risposte evocate dall’apparato. In breve ciò significa che tutte le realtà fisiche sono all’origine informazionali (information theoretic) e che tutto ciò costituisce un universo di partecipazione” (Wheeler, 1990, p. 75). Forse il fisico teorico che ha maggior-mente portato avanti l’idea di Wheeler è stato un fisico tedesco, Heinz-Dieter Zeh, ora emerito dell’Università di Hei-delberg, che l’ha collegata alla nozione di decoerenza della funzione d’onda probabilista, fenomeno balzato al centro dell’attenzione degli studiosi di meccanica quantistica, e non solo in questi ultimi vent’anni. Attraverso tale nozione, Zeh fornisce un unico quadro esplicativo ad un’infinità di paradossi teorici della fisica quanto-relativistica (dal para-dosso della misura cui Wheeler faceva riferimento attraverso la nozione di “apparato”, al paradosso della non-località, al paradosso della dissipazione d’informazione nei buchi neri, alla freccia del tempo, allo stesso principio di quantiz-zazione e di indeterminazione etc.) invertendo la relazione fra meccanica classica (relatività inclusa) e quantistica. L’entità fondamentale è l’unica funzione d’onda quantistica (una funzione di Schrödinger universale), dalla cui decoe-rentizzazione in diversi contesti, tutte le singole realtà che compongono l’universo a livello microscopico, mesoscopi-co, macroscopico, noi stessi compresi, derivano. La generalizzazione della nozione di “universo di partecipazione” di Wheeler proprio questo significa, sebbene impostata così, si tratta di una visione della realtà molto neo-spinoziana che ricorda da vicino Process and Reality di Whitehead. Per un’approfondita rivisitazione della nozione di decoerenza nel-la fisica quantistica, sia teorica che applicata, cfr. (Schlosshauer, 2004). Una sintetica, e per questo molto provocante, recentissima sintesi dell’approccio può trovarsi in (Zeh, 2010). Per avere una visione intuitiva dell’idea di fondo, l’unica funzione d’onda quantistica può rappresentarsi come le onde dell’oceano viste dall’elicottero. Esse appaiono come un’unica onda che si propaga con molte creste. Tuttavia per un osservatore sulla riva, o per una nave, o per uno scoglio nell’oceano (cioè per sistemi localizzati), l’unica onda si manifesta come tante onde distinte che si rifrangono in successione temporale sulla riva, sulla carena della nave o sullo scoglio. La discretizzazione spazio- temporale de-gli eventi/enti fisici, come la stessa “freccia del tempo”, dipende dunque dalla decoerentizzazione dell’unica funzione d’onda (non-locale) in molteplici funzioni d’onda particolari (in meccanica quantistica ogni ente/evento può essere rappresentato come funzione d’onda: cfr. il principio di complementarietà onda/particella di Bohr), causa la sua inte-razione con sistemi (ambienti) locali. Ed è da questo che dipende il fatto che il mondo esista e ci appaia come spazio-temporalmente composto di enti/eventi distinti, noi stessi compresi. Infatti, non c’è possibilità di un osservatore “esterno” al mondo come nell’analogia dell’onda oceanica: in quanto immersi nell’oceano, noi interagiamo e vediamo solo onde/particelle locali e distinte. Per un collegamento con lo It From Bit di Wheeler, cfr. (Zeh, 2004), che è l’articolo di Zeh nella miscellanea in onore del 90° compleanno di Wheeler, celebrato nel 2002. In esso Zeh critica co-loro che considerano la funzione d’onda quantistica in termini puramente informazionali, per esempio tutti i fisici in-formatici che usano la decoerenza per realizzare il computer quantistico, secondo le originali intuizioni di Wheeler e del suo discepolo Feynman. Per Zeh essa è una realtà fisica duale, un “it” che contiene in forma non-locale, spazio temporalmente ubiqua, tutta l’informazione, “bit”, e tutta l’energia (materia) che viene a distribuirsi (dissiparsi) nei di-versi enti/eventi della fisica ordinaria mediante il meccanismo della decoerenza. Come si vede siamo di fronte ad una sorta di “spinozismo” (un'unica sostanza con “attributi” energetici ed informazionali insieme) rivitalizzato… Metafi-sica a parte, grazie a questi lavori e all’enorme interesse che lo studio della fisica dell’informazione oggi suscita, non solo in biologia e nelle neuroscienze, come abbiamo già visto, ma anche in fisica fondamentale (quantistica), il concet-to di “informazione” come grandezza fisica “immateriale” — ancora più interessante della “massa” e della “energia”, le uniche grandezze fisiche “materiali” di cui finora si era interessata la fisica moderna —, è entrato nella pratica scientifica ordinaria del XXI secolo. Addirittura la “fisica informatica” si avvia oggi a diventare una delle tante bran-che della fisica fondamentale oggetto d’insegnamento universitario, come la meccanica, l’elettronica, la termodinami-ca, la quantistica…

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in esso uno o più dei possibili ordinamenti, ma la sua indeterminatezza, la sua “potenzialità ad essere altrimenti di come esso è”, la nozione di “informazione” si applica anche alla comuni-cazione fra entità immateriali come fra “sostanze spirituali” (angeli) superiori e/o inferiori (Cfr. p.es., S.Th., I, 106, 3 ad 3; De Ver., 9, 7 ad 1, etc.), o nell’uomo fra le “forme intellettive” e le “forme sensibili” (Cfr., la famosa conversio ad phantasmata: S. Th., II-II, 175, 5 co.). Una relazione di “informazione” come “determinazione dell’indeterminato”, senza base materiale, per cui Tommaso usa in ogni caso il termine tecnico di conversio.

Sempre per aiutare il nostro senso comune a guarire dal morbo dualista, un elementare esempio può aiutarci ulteriormente a comprendere la suddetta definizione intuitiva. Può aiutarci cioè a com-prendere come un semplice cambio di ordinamento delle cause efficienti, può determinare un cata-strofico cambio degli effetti. Per produrre un certo effetto non basta, infatti, un insieme di cause agenti e materiali, bensì occorre anche l'ordinamento di queste cause.

P. es., per produrre un incendio, non basta un fiammifero acceso, la paglia, ed il soffio della mia bocca. Se, infatti, l'azione del soffio precede l'avvicinamento del fiammifero acceso alla paglia, spe-gnerò il fiammifero e otterrò solo un fiammifero spento. Se viceversa lo segue, attizzerò un incen-dio, che, per opportune circostanze, potrebbe avere anche effetti devastanti. Dopo che avrò scoperto questa relazione d'ordine, nulla mi vieta di formalizzarla sotto forma di "legge universale degli in-cendi", a partire da due cause agenti (fiammifero acceso, soffio) ed una causa materiale (paglia) ini-ziali. Quando dunque Aristotele definiva la “forma” una vera e propria “causa”, proprio perché ave-va dinanzi fenomeni non-lineari come quello dell’esempio sopra ricordato (piccoli cambiamenti nelle cause iniziali, come il cambio di un semplice ordinamento di parti, possono produrre grandi cambiamenti nell’effetto finale) non aveva certo torto. E questo senza dover supporre che la “for-ma” agisse a sua volta sulla materia come una sorta di magica “energia immateriale”…

Fatte queste doverose premesse per liberare il più possibile la testa da pregiudizi culturali conso-lidati, vediamo come si è giunti, nella storia della scienza della mente degli ultimi cinquant’anni, al paradigma intenzionale nelle neuroscienze cognitive.

3 DALLA PSICOLOGIA COMPORTAMENTISTA ALLA SCIENZA DELLA MENTE

3.1 DALLE TEORIE COMPORTAMENTISTE ALLE SCIENZE COGNITIVE

3.1.1 Teorie comportamentiste

Il comportamentismo, cominciato come particolare scuola di psicologia empirica negli anni ’30 del secolo XX con i lavori di J. Watson, che escludeva come non-scientifico ogni riferimento alla psicologia ottocentesca della coscienza, in particolare quella di marca fenomenologica, acquistò di-gnità filosofica negli anni ’50 con un libro fondamentale che è quello di G. Ryle, The concept of mind (Ryle, 1951), tradotto in italiano con il titolo molto più significativo de Lo spirito come com-portamento. L’idea fondamentale è la non-oggettivabilità dell’”io” auto-cosciente, inteso come “presenza a me stesso” (ciò che riesco a oggettivare a me stesso è solo il “me”, ma sempre relati-vamente a suoi stati o atti passati) e la sua sistematica elusività, esattamente come l’istante tempora-le presente, l’“ora”, l’“adesso”, il nunc.

Di qui la critica all’ “io cartesiano” inteso oggettivisticamente come “cosa spirituale” e la pro-posta di un “comportamentismo disposizionale” come oggetto proprio di una psicologia davvero scientifica. Ovvero, ciò che del comportamento è oggettivabile — causa la sistematica elusività dell’istante temporale — non è l’evento fisiologico istantaneo in quanto tale (p.es. la modifica dello stato fisico di un insieme di neuroni e/o il movimento muscolare associato ad un dato comporta-

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mento), ma la modifica della disposizione ad agire di un insieme di organi (p.es. la modifica del po-tenziale elettrico d’azione di un aggregato di neuroni interconnessi, immediatamente prima dello “sparo” di un impulso elettrico lungo i loro assoni). Questo approccio è risultato particolarmente fe-condo scientificamente perché ha creato teoreticamente un collegamento fra il vecchio comporta-mentismo della psicologia associazionista alla Pavlov e alla Watson, con l’approccio computaziona-le del funzionalismo in neurofisiologia, proprio perché la nozione di “disposizione ad agire” ha un immediato corrispondente nel calcolo matriciale della meccanica statistica applicato allo studio del-le dinamiche neuronali12. Vi torneremo nella prossima sezione. 3.1.2 Dal comportamentismo alla riscoperta della dimensione intenzionale della mente

In un ormai storico contributo alla contemporanea discussione sul rapporto mente-corpo (Feigl, 1958) contenuto nel secondo volume dei Minnesota studies of philosophy of science (cfr. nota 13), Herbert Feigl, discepolo di Moritz Schlick e principale rappresentante negli Stati Uniti di quel mo-vimento filosofico, fondamentale nella storia del neo-positivismo logico, il cosiddetto “empirismo logico”13, rivendicava che una adeguata teoria scientifica della mente doveva nascere da una sorta di triangolazione fra tre serie di dati:

1. I dati mentali, derivanti dall’analisi della coscienza tipo introspettivo propri della psicologia fenomenologica e quindi della cosiddetta scuola psicologica della Gestalttheorie di Wolfgang Köhler, Max Wetheimer e Kurt Lewin.

2. I dati fisico1, derivanti dall’analisi degli eventi neurofisiologici correlati con determinati dati mentali;

3. I dati fisico2, derivanti dall’analisi degli eventi comportamentali correlati con i medesimi dati mentali.

Ora, tesi fondamentale dell’empirismo logico sostenuto da Feigl — e che per questo distingueva la sua posizione sul problema mente-corpo, dal monismo riduzionista, tanto del comportamentismo, come di parecchi rappresentanti del neo-positivismo logico —, è che i dati mentali non sono riduci-bili né ai dati fisico1 neurofisiologici, né a quelli fisico2 comportamentali. Infatti, i primi, data la lo-ro natura intenzionale, che suppone sempre una relazione soggetto-oggetto, sono espressi necessa-riamente in una logica intensionale, mentre gli altri, per la loro natura osservativa da parte di un soggetto esterno a quello intenzionale cui gli stati mentali appartengono, sono espressi necessaria-mente nella logica estensionale propria dell’indagine scientifica oggettiva. E’ questo il risultato so-

12 Uno stato disposizionale può avere un suo immediato corrispettivo operazionale in una matrice di probabilità transiti-

ve. Tale matrice di n×n elementi, per ciascun tempo t, definisce la probabilità di ciascun elemento di transitare dall’uno all’altro dei suoi possibili stati (p.es., la probabilità in base al “potenziale evocato d’azione” di transitare dallo stato “attivato” a quello “non-attivato”, o viceversa, per ciascun neurone in una rete di neuroni interconnessi), in ma-niera condizionata allo stato (attivo/non-attivo) degli altri elementi (neuroni) della matrice (ovvero, degli altri neuroni fisicamente connessi).

13 Infatti, con Michael Scriven, Feigl inaugurò nel 1956 dello scorso secolo, presso l’Università del Minnesota a Min-neapolis la prestigiosa raccolta di saggi “The Minnesota Studies in Philosophy of Science”, che ospitò lavori di alcuni fra i più famosi rappresentanti del movimento del neo-positivismo logico dell’epoca. La (temporanea) chiusura di que-sta serie di raccolte, avvenuta nel 1978 al volume IX della raccolta, è stata così fatta coincidere da Karl R. Popper con la “morte del neo-positivismo logico”, di cui Popper stesso, nella sua Autobiografia, si vantava di essere il “killer”. Solo che, ironia della sorte, la raccolta è “risuscitata” nel 1983, sopravvivendo al suo presunto killer, e arrivando at-tualmente fino al volume XIX pubblicato nel 2006. I contenuti completi di tutti i volumi dal I al XIV sono disponibili online, mentre dal vol. XV sono disponibili solo degli excerpta, sul sito del Minnesota Center for Philosophy of Scien-ce : http://www.mcps.umn.edu/philosophy/ . E’ un centro attivissimo e tutt’altro che defunto, diretto attualmente dal Prof. C. Kenneth Waters, che organizza senza sosta workshop e seminari sui temi più attuali della filosofia della scien-za e dai quali, come in passato, altri volumi saranno pubblicati della prestigiosa raccolta, “la più longeva più conosciu-ta sul tema”, come giustamente la introducono i suoi attuali curatori.

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stenuto da fior di filosofi analitici e logici del calibro di un Peter Strawson14 o Wilfrid Sellars, in particolare nel primo volume dei Minnesota Studies del 1956 ed al quale Feigl si richiamava15.

Non potendo dunque esistere un’identità logica fra dato mentale e dato neurofisiologi-co/comportamentale che consenta di ridurre lo stato/evento mentale allo stato/evento neurofisiolo-gico/comportamentale osservabile, un’adeguata teoria del mente-corpo deve accontentarsi di una identità empirica fra dato mentale, neurofisiologico e comportamentale, legato a una semplice co-occorrenza fra i tre. In questo senso, dunque, va intesa la “triangolazione” fra dato menta-le/neurale/comportamentale che Feigl intende sostituire al riduzionismo comportamentista che sup-pone, invece, una logicamente insostenibile teoria dell’identità logica fra dato mentale e dato fisico neurologico/comportamentale. Malgrado tutto questo, però, ciò che Feigl afferma recisamente è che, anche con la suddetta irriducibilità, l’intenzionalità degli stati mentali è problema irrilevante per la trattazione scientifica del problema mente-corpo perché l’intenzionalità, proprio per la sua in-commensurabilità con tutto ciò che è fisico e osservativo, riguarda l’ambito squisitamente psico-logico e non psico-fisico. Feigl propone così come soluzione al problema mente-corpo una partico-lare teoria, che sulla base dell’identità solo “empirica” fra dato mentale soggettivo e osservabile neurofisiologico/comportamentale oggettivo, egli definisce “materialismo dello stato centrale”. Per illustrarla, egli usa una metafora termodinamica: come gli eventi macroscopici della termodinamica (calore, pressione, volume) non sono di per sé identificabili con gli eventi microscopici (agitazione molecolare) soggiacenti, e pur tuttavia derivano causalmente da essi, così per gli eventi comporta-mentali osservabili e gli stati mentali ad essi (indirettamente) ascrivibili. Sebbene non identificabili formalmente con gli stati neurali soggiacenti, tuttavia ne derivano causalmente16.

Un’interpretazione diversa dalla teoria dell’identità empirica di Feigl, della medesima evidenza logica dell’irriducibilità stato mentale (inosservabile, soggettivo) / stato neurofisiologico (osserva-bile, oggettivo) si ha nella posizione della teoria sostitutiva dell’identità di Wilard V. O. Quine e dei suoi seguaci, in particolare i coniugi Churchland (Churchland, 2007). Sebbene sia un’evidenza logica incontrovertibile la non riducibilità dell’intenzionale e dell’intensionale (=mentale) all’osservativo e all’estensionale (=neurofisiologico), pur tuttavia la “psicologia popolare” (folk psychology) dell’intenzionalità dev’essere sostituita da una teoria scientifica della mente che ha nell’osservabilità/misurabilità dei fenomeni e nella loro formalizzazione matematica — e dunque nell’uso di linguaggi esclusivamente estensionali — gli ingredienti fondamentali, che caratterizzano il cuore dell’impresa scientifica moderna. Ecco una famosa citazione di Quine, particolarmente si-gnificativa al riguardo in cui, seguendo Frege, si caratterizza la descrizione intenzionale e quella neurofisiologica come due diverse “connotazioni” del medesimo “denotato”, l’evento neurofisiolo-gico, come “stella del mattino” e “stella della sera” sono due connotazioni diverse dello stesso de-notato: il pianeta Venere.

14 Il saggio di Strawson dal titolo “Persons” fu ripubblicato da Strawson medesimo nel 1959 come cap. 3 del suo famo-

so testo Individuals. In tale saggio è notevole, per i nostri scopi, la distinzione fra intenzioni intese come “schemi di azioni da compiere” attribuibili da noi a noi stessi, mai come risultati di un’osservazione, ma come esperienze assolu-tamente private, inoggettivabili, mentre le attribuiamo ad altri mediante osservazione. Beninteso, però, non, di per sé, come “intenzioni” bensì come azioni o come “piccoli movimenti che preparano all’azione”, e che per analogia alle nostre intenzioni di cui noi soli siamo coscienti, attribuiamo anche ad altri, facendone così dei “soggetti intenzionali” (Strawson, 1959, p. 111ss.). Nei termini della distinzione di Feigl fra “neurologico” e comportamentale”, l’unico cor-relato osservabile di un’azione intenzionale soggettiva è dunque un correlato comportamentale e non neurologico. La contemporanea neurofisiologia si è preoccupata di sfatare questa leggenda.

15 Sellars, in particolare, aveva pubblicato in quel volume uno storico saggio, Empiricism and the Philosophy of Mind, ripubblicato poi come volume a parte con un’introduzione di Richard Rorthry, oltre quarant’anni dopo a testimonianza della sua centralità nel dibattito sul nostro problema (Sellars & Rorthry, Empiricism and the Philosophy of Mind. With an introduction of Richard Rorthry, 1997). Difatti, già nel secondo volume dei Minnesota Studies, Sellars pubblicò un appendice dal titolo “Intentionality and the Mental” (Sellars, 1958), dal quale appare tutta la vivacità della discussione che il saggio del primo volume aveva provocato nell’ambito della filosofia analitica.

16 Per una sintesi critica più articolata della posizione di Feigl, mi permetto di rimandare al mio (Basti, 1991, p. 76-85).

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Molto si è letto riguardo alla proclamata riduzione della mente al corpo: qualcosa di simile alla riduzione della psicologia alla fisiologia o più esattamente alla neurologia. Io penso che non c'è nessuna speranza di poter riuscire in questo e tanto meno di una riduzione del linguaggio mentalistico ordinario alla neurolo-gia. Facciamo un esempio. Ogni episodio individuale di qualcuno che sta pensando a Vienna, per esem-pio, è un evento neurale, che potrebbe essere descritto con termini strettamente neurologici, se ne cono-scessimo abbastanza circa il caso specifico ed il suo meccanismo. Ciò è quanto afferma convenzional-mente la mentalità comune odierna. Nondimeno non esiste, né esisterà mai, alcuna possibilità di tradurre il predicato mentalistico generale "pensare a Vienna" in termini neurologici. Gli eventi mentali sono eventi fisici, ma il linguaggio mentalistico li classifica in modi incommensurabili con le classificazioni che possono essere espresse in linguaggio fisiologico (Quine, 1989, p. 133).

Come si vede, sia la teoria di Quine che quella di Feigl sortiscono un esito di fatto materialistico nell’interpretazione del mente-corpo perché sono accomunate da un medesimo pre-concetto che ambedue fanno risalire all’originaria impostazione fenomenologica di “sospensione della tesi natu-ralistica” nella trattazione dell’intenzionalità cognitiva, che impedisce addirittura di ipotizzare che lo stato intenzionale come tale possa avere un correlato neurofisiologico caratteristico. E’ questo presupposto che, per dirlo nei termini di Feigl, farebbe dell’intenzionalità un problema esclusiva-mente psico-logico e non anche psico-fisico e quindi irrilevante per le neuroscienze.

3.1.3 La nascita delle scienze cognitive

Come ho sempre affermato fin dalla prima volta che mi sono incontrato con questa problemati-ca17, questa limitazione dell’intenzionale alla sola sfera psico-logica — dove originariamente l’ha confinata Husserl con la sua epoché fenomenologica per il suo originario interesse di trovare nell’intenzionalità il fondamento della logica —, che esclude che l’intenzionalità cognitiva interessi anche la sfera psico-fisica non è affatto sostenibile per la teoria aristotelico-tomista dell’intenzionalità, ed ha ormai cessato di essere vero anche per la teoria fenomenologica dell’intenzionalità attraverso il duplice movimento convergente della cosiddetta “naturalizzazione della fenomenologia” (Cfr. (Petitot, Varela, Pachoud, & Roy, 1999) e della “fenomenologizzazione della neurofisiologia” (Gallese, 2006). Un duplice movimento che ha le sue storiche origini nelle stesse analisi di Husserl e di Maurice Merlau-Ponty sulla fenomenologia della percezione e sulla duplice componente materiale e formale del contenuto intensionale (noema) degli enunciati del soggetto intenzionale, in particolare in quanto enunciati di esperienza (noema percettivo: cfr. (Dreyfus, 1982)). Per questo rimando alle analisi di fenomenologia della percezione di E. Husserl e di M. Merlau-Ponty (Merlau-Ponty, 1949) sull’argomento, che suppongo ben conosciute dal pub-blico filosofico.

Viceversa, ritengo assai poco conosciuta dal pubblico, filosofico e non, la teoria aristotelico-tomista dello stimolo sensoriale nella sua duplice e inscindibile componente oggettiva (e non sog-gettiva come nel caso fenomenologico), materiale sull’organo di senso (immutatio naturalis, “input energetico”, potremmo quasi letterariamente tradurre) e formale sulla relativa facoltà sensibile (im-mutatio intentionalis vel spiritualis, “input informazionale”, potremmo tradurre). La illustro qui sommariamente18 non per erudizione, ma perché, per la sua “ingenuità” descrittiva, ma non certo teoretica, può aiutare il pubblico, non aduso al linguaggio scientifico, a capire il cuore dell’approccio informazionale / computazionale all’operazione cognitiva, tipico delle neuroscienze cognitive. Ecco uno dei tanti testi che si possono citare al riguardo di Tommaso in cui illustra la di-stizione nello stimolo sensoriale fra immutatio naturalis e spiritualis:

17 A livello della mia tesi di laurea, parzialmente pubblicata in (Basti, 1991) e in una serie di altri articoli precedenti a

partire dal 1986. 18 Per una ricostruzione completa ed esauriente della psicofisiologia tommasiana, duale, dell’operazione cognitiva ri-

mando al cap. 4° del mio manuale di antropologia (Basti, 1995) e alla bibliografia ivi citata.

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Vi è dunque una duplice “immutazione” (“input” potremmo letteralmente tradurre in inglese, N.d.R.) nel senso, una “naturale”, l’altra “spirituale”. La naturale è quella secondo la quale la forma del mittente (im-mutantis) viene passivamente recepita in ciò che la riceve (immutato) secondo l’essere naturale, come il calore nel riscaldato19. L’immutazione spirituale invece è quella secondo la quale la forma del mittente viene recepita dal ricevente secondo l’essere spirituale, come la forma del colore nella pupilla, che per questo, però, non diviene colorata. Ora all’operazione di ciascun senso si richiede una immutazione spiri-tuale per mezzo della quale l’intenzione della forma sensibile si costituisce (fiat) nell’organo di senso. Al-trimenti, se fosse sufficiente la sola immutazione naturale per sentire, tutti i corpi naturali “sentirebbero” per il fatto stesso di essere fisicamente alterati. In alcuni sensi, però, come quello della vista si dà sola immutazione spirituale. In altri invece, con l’immutazione spirituale anche la naturale (S. Th., I,78,3co).

Per la nostra mentalità moderna malata di dualismo cartesiano, ovviamente la dottrina dell’immutatio spiritualis ci rimanda subito a qualcosa di “immateriale” inteso nel senso di non-fisico. Risparmio al lettore vere e proprie “vagonate di sciocchezze” che i commentatori moderni hanno sprecato su questi testi di Tommaso, semplicemente perché non si “studiava Tommaso con Tommaso”. Forse anche perché, non avendo a disposizione lo strumento informatico dell’Index Thomisticus del P. Busa, che con pochi clic del mouse permette di confrontare in un attimo tutte le occorrenze di un termine in tutte le più di cinquanta opere dell’Aquinate, senza doversi arrampicare per giorni sugli scaffali di polverose e ammuffite biblioteche per ottenere lo stesso risultato, al quale così molto facilmente si rinunciava, si preferiva lavorare di fantasia o di saccente erudizione. Nien-te, invece, di queste fantasticherie spiritualiste per Tommaso. Basta, una fra le tante, la citazione se-guente:

Se, infatti, qualcosa è fatto per essere immutato solo spiritualmente non è necessario che venga immutato anche naturalmente. Come accade all’aria che è ricettiva del colore non secondo l’essere naturale, ma solo secondo quello spirituale e quindi viene immutata solo secondo questo modo. Mentre invece, al contrario, i corpi inanimati vengono immutati per mezzo delle qualità sensibili (anche il colore, come vedremo subi-to, N.d.R.), ma solo naturalmente e non spiritualmente (In IV Sent., d.44, q.2, a.1, qc.3, ad 2).

Come si vede, da questo testo risulta che anche l’aria, come la pupilla, viene modificata (immu-tetur) secondo l’ “essere spirituale” soltanto, e questo cozza contro le nostre manie spiritualiste. L’arcano viene subito svelato non appena ci rendiamo conto di quale “spiriti” si tratta quando Tommaso parla di immutatio spiritualis. Per capirlo, occorre ricordare la dottrina fisica, fondamen-tale per la cosmologia aristotelica, ma teoreticamente molto interessante anche per noi, della cosid-detta diaphaneitas di tutti i mezzi fisici appunto “trasparenti” quali “acqua”, “aria”, etc. che, nota-vano gli aristotelici, hanno la capacità di trasmettere informazioni sul colore dei corpi a distanza, p.es., ai nostri occhi, senza essere a loro volta colorati. In questo essi costituiscono un’eccezione al-la legge fondamentale dell’ontologia fisica aristotelica espressa fin dal I Libro della Fisica secondo la quale per tutti gli enti materiali (corpi) vale il principio della “privazione della forma”. La materia di ogni corpo, cioè, può essere attuata solo da una forma alla volta per cui è “privata” di tutte le altre cui è in potenza. Nel nostro caso, per esempio, un corpo non-trasparente (p.es., la foglia di un albe-ro) può assumere nel tempo diversi colori, ma solo uno alla volta. Viceversa, l’aria di fronte a noi ci porta informazione sui diversi colori dei corpi che ci sono dinanzi senza essere a sua volta colorata e così è dell’acqua che ci porta informazione, p.es., sui colori del mosaico disegnato in fondo alla vasca della fontana, e così via. Il “mistero” di tale capacità è presto svelato. Il colore, che, per Ari-stotele, dipende da come la luce va ad interagire col sostrato materiale di elementi di cui ogni corpo è costituito, portandoci così informazione essenziale sulla costituzione materiale del corpo stesso20,

19 Si tenga presente la modernità di quest’esempio. Infatti per gli aristotelici, come per i moderni, il calore dei corpi era

legato al moto degli elementi che li costituivano, quindi era una particolare “forma” dei moti interni del sostrato mate-riale dei corpi.

20 Come si vede, si tratta di un’ontologia del fondamento fisico del colore che, per quanto ingenua, si sposa perfetta-mente con quanto oggi ci insegna la spettrografia di massa della fisica dei materiali. Sappiamo infatti che ad ogni ele-mento della tavola chimica degli elementi corrisponde un ben preciso spettro di emissione elettromagnetica (“luce co-

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nel caso dei corpi trasparenti come aria ed acqua, attualizza solo parzialmente la potenzialità del co-stitutivo materiale di quei corpi. Ovvero, siccome la potenzialità del sostrato materiale dei corpi ad assumere diverse forme (ordinamenti) dipende dai moti degli elementi che costituiscono il sostrato stesso, la forma del colore attualizza (ordina) solo parzialmente nei corpi trasparenti questi moti, co-sì che “acqua”, “aria” e “vapore” possono trasmettere “virtualmente” ai nostri occhi l’informazione di molteplici colori simultaneamente, senza essere “attuati”, e dunque “colorati”, da uno solo per volta come accade ai corpi non trasparenti.

Così, è proprio perché l’occhio è pieno d’acqua (sic!), che può ricevere “virtualmente” la forma del colore senza colorarsi a sua volta, come l’aria. Ma — e qui sveliamo l’arcano di quali “spiriti” si tratta nella immutatio spiritualis, comune a tutti i sensi anche a quelli che vengono immutati natu-ralmente come il tatto e gli altri tre sensi esterni — è questo il caso soprattutto degli “spiriti corpo-rei”. Ovvero dei “vapori” distribuiti in tutti i nervi, negli organi di senso, nel cervello e fin nei mu-scoli, attraverso i quali con un meccanismo, appunto “pneumatico”, lo stimolo nervoso si trasmette a distanza, e le membra del copo si possono coordinare fra di loro per compiere comportamenti complessi, quali appunto quelli intenzionali21. Una dottrina neurofisiologica, questa, che accomu-nava tutto il mondo antico e parte del moderno, dagli antichi egizi, ai greci, passando per la Bibbia (chi non ricorda il “soffio vitale” della creazione dell’uomo dal pupazzo di creta?), ai medievali, al-lo stesso Descartes, fino a Galvani che, con le sue rane, per primo scoprì il carattere “elettrico” e non “pneumatico” dell’impulso nervoso.

Ma allora, secondo Tommaso, come avviene che i sensi come il tatto o il gusto, che vengono “modificati naturalmente” in maniera passiva, p.es. il polpastrello del tatto toccando un corpo (più) caldo si riscalda, o, toccato da uno meno caldo si raffredda (immutatio naturalis) —, siano capaci poi di immutatio spiritualis, ovvero, nel nostro caso, di trasmettere al cervello e al resto del corpo l’informazione sul calore del corpo toccato, attraverso gli “spiriti corporei”? Ciò avviene attraverso la parte più interna di ciascun sistema sensorio esterno, collocata per tutti e cinque i sensi nel cervel-lo (nella corteccia sensoria, relativa a ciascun senso, diremmo noi). Ovvero, avviene attraverso il cosiddetto “primo senso interno” dei quattro aristotelici, il “senso comune”, definito per questo da Tommaso “la radice comune” di ciascun senso esterno. In esso, infatti, “sentendo” (correlando e dunque “computando”) la differenza fra la temperatura attuale del sensorio esterno (p.es., il polpa-strello riscaldato) e quella precedente, tale differenza viene incamerata così da prodursi “il miraco-lo” della sensazione secondo lo schema aristotelico per il quale “non la pietra è nell’anima, ma la forma della pietra” (De An., III,8,431b28-432a,3)22. Forma dell’oggetto indotta dalla immutatio spi-ritualis sul senso, che non causalmente Tommaso, nella precedente citazione dalla Summa, ha defi-nito “forma intenzionale” perché quanto il sistema sensorio di un qualsiasi animale riesce a percepi-re dell’oggetto, è quanto ad esso serve per realizzare i propri scopi biologici (istinti), secondo com-

lorata”, per un eccesso di divulgazione) che porta informazione fondamentale sulla struttura atomica caratteristica dell’elemento stesso. Siamo dunque anni luce distanti dalle chiacchiere dei moderni sul presunto fondamento esclusi-vamente “soggettivo” delle qualità sensibili “secondarie”, come il colore, appunto…

21 Addirittura Aristotele, nel suo trattatello di neurofisiologia De Sensu et Sensato, affermava che è grazie alla capacità dei vapori nel cervello di assumere simultaneamente e/o di cambiare repentinamente diverse forme — si pensi, egli di-ceva, alle nuvole in un giorno di vento — che si può capire la base neurale della “fantasia” e della memoria a breve termine. Come pure si può capire perché chi è ottenebrato dai “fumi dell’alcool” ha le allucinazioni (sic!).

22 Infatti, è sempre secondo questo schema che il sotto-sistema “senso comune/sensi esterni” può percepire le proprietà “quantitative” dei corpi (figura, numero, movimento) attraverso il confronto tra una successione di modificazioni in-dotte “naturalmente” e dunque in successione dall’esterno (p.es., percepire il profilo di un oggetto attraverso confronto di colori delle superfici, o della loro differente o temperatura o ruvidezza mediante il tatto, etc.). Per un approfondi-mento della nozione di immutatio spiritualis come meccanismo mediante cui il senso dopo la modificazione passiva sul sensorio (immutatio naturalis), computando la differenza fra vari adeguamenti successivi del sensorio “estrae la forma dell’oggetto sensibile senza la materia”, cfr. il paragrafo §4.2 del mio (Basti, 1995, p. 220ss), dove illustro la teoria aristotelica della mesòtes (“medietà”) del senso.

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portamenti adeguati alla realtà dell’oggetto23. E, come abbiamo spiegato, per Aristotele e Tommaso la dinamica degli spiriti corporei, “verso l’alto” negli organi di senso, nei nervi, nel cervello, e poi, “verso il basso”, dal cervello a tutte le diverse membra del corpo è il mezzo fisico adeguato — pro-prio per la sua capacità di trattare simultaneamente informazione proveniente da diverse sorgenti — con cui l’organismo animale può “controllare se stesso” e le sue disposizioni ad agire — è capace cioè di “auto-regolazione” —, a diversi livelli nel suo comportamento intenzionale24.

Chi ha studiato come me per decenni la fisica dei sistemi dinamici caotici che, guarda caso è na-ta proprio per studiare la “bestia nera” del determinismo della dinamica classica ovvero “le turbo-lenze”, p.es., i moti di grandi masse di aria nell’atmosfera o di acqua nelle correnti dei mari, sa be-nissimo che si tratta di un’ontologia questa delle forme “virtuali” che caratterizzano i moti turbolen-ti, che si sposa benissimo con l’unica caratterizzazione matematica che si può dare di questi moti, e delle dinamiche caotiche in generale, in fisica-matematica. In estrema sintesi, mentre in un sistema “ordinato”, per esempio un’onda sonora che si propaga nell’aria, occorrono frequenze regolari che si propagano come una vibrazione, una dinamica caotica — a differenza di una puramente “stoca-stica” o “assolutamente casuale”, si pensi per esempio al moto quasi browniano dei puntini sullo schermo di un televisore de-sintonizzato — è caratterizzata dal fatto che esistono molteplici fre-quenze simultaneamente nel sistema, ma esso staziona in maniera impredicibile solo per un tempo limitato su ciascuna di esse, così da dare globalmente l’impressione che si tratti di rumore “stocasti-co”.

E’ questo, per esempio, come accenneremo, l’errore di molti neurofisiologi che studiano i se-gnali cerebrali senza conoscere la fisica e la matematica dei sistemi complessi (caotici), e che quindi hanno la falsa impressione che l’attività di fondo, continua, dei neuroni del nostro cervello, costitui-sca solo “rumore” da cui filtrare i segnali “buoni” per i loro elettro-encefalogrammi o elettro-corticogrammi, senza sapere che così stanno buttando via una quantità enorme di informazione. In-fatti, questo apparente “caos” è il modo con cui onde di attivazione complesse si trasmettono nel cervello stesso, coinvolgendo così in comportamenti complessi neuroni molto distanti fra di loro, come appunto richiede il sostrato neurale adeguato di un “atto intenzionale”. Esso, infatti, includen-do a livello cosciente (I-talk) componenti emotive-cognitive-motorie, coinvolge a livello neurale neuroni sub-corticali (p.es., dell’amigdala) e corticali (p.es., della corteccia sensoria, associativa, motoria) distanti molti centimetri fra di loro — e se seguissimo il groviglio delle connessioni sinap-tiche con cui sono fisicamente connessi, addirittura molti metri. Tali popolazioni di migliaia e mi-glia di neuroni mai potrebbero “coordinarsi” in maniera complessa fra di loro in tempi dell’ordine dei decimi di secondo — e dunque in tempo “reale”, perché il tempo minimo di attivazione di un neurone è precisamente dell’ordine del decimo di secondo — , se questa coordinazione dipendesse dalla trasmissione del segnale unicamente “microscopica”, attraverso i canali sinaptici, e non anche attraverso la propagazione di onde di attivazione complesse, multi-frequenza, mediante cui neuroni

23 Come, celiando, spiego agli studenti, la mucca spesso conosce le erbe del campo meglio di molti botanici, ma non ha

mai scritto un libro di botanica. Conosce le erbe, cioè, tanto quanto gli è necessario per soddisfare i suoi bisogni alime-tari.

24 Dal punto di vista metafisico, spiega Tommaso, gli “spiriti corporei” non sono quindi il mezzo per l’unione dell’anima al corpo, come nell’interazionismo dualista di Platone e, nella modernità di Descartes, nel senso che costi-tuiscono il mezzo con cui l’anima agisce come un’assurda causa efficiente immateriale, sulle membra del corpo, muo-vendole ad agire. Essi invece, come una totalità, una totalità che dispone il corpo ad agire come un tutto coordinato, costituiscono la disposizione formale del corpo e delle sue facoltà (atti secondi) nei vari organi, all’unione con la sua forma sostanziale o “anima” o «atto primo di un corpo che ha vita in potenza, e tale è il corpo munito di organi» — secondo la classica definizione aristotelica dell’anima (Aristotele, De An, I,1,412,30). Ovvero, il corpo animale è un corpo organizzato come un tutto capace di azioni vitali, di azioni immanenti, reso cioè un organismo mediante l’azione dispositiva, auto-organizzante degli spiriti corporei, in e fra i vari organi. Su questo punto, del differente ruolo degli “spiriti corporei” (e dunque dell’informazione in neurofisiologia) in un’ontologia duale invece che dualista, cfr. (Basti, 1995).

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anche molto distanti possono coordinarsi fra di loro25, fornendo la base neurale dei comportamenti intenzionali. E’ questa la scoperta fondamentale operata da Walter Freeman (cfr., p.es., (Freeman, 2001)) e dalla sua scuola (Cfr. per i contributi più recenti e sintetici (Kozma & Freeman, 2009); (Kozma, 2010)) che integra, al livello-chiave delle dinamiche “mesoscopiche” del cervello, e su ispirazione filosofica esplicitamente tomista (Freeman, 2008), quanto Giacomo Rizzolatti, il suo gruppo (cfr. p.es. (Rizzolatti & Sinigaglia, 2006)) e i loro numerosissimi seguaci nel mondo, su ispirazione filosofica esplicitamente di tipo fenomenologico (Cfr., p.es., (Gallese, 2006), hanno scoperto a livello di “dinamiche macroscopiche” del cervello umano (p.es., attraverso lo studio del comportamento complesso di intere aree cerebrali mediante la risonanza magnetica funzionale) e a livello “microscopico” dei singoli neuroni — i famosi “neuroni-specchio” — nel cervello della scimmia e oggi anche dell’uomo (Mukamel, Ekstrom, Kaplan, Iacoboni, & Fried, 2010). I meccani-smi “mesoscopici” di attivazione complessa costituiscono cioè “l’anello mancante” fra il livello mi-croscopico dei singoli “neuroni specchio” e macroscopico dell’attivazione di intere aree cerebrali, essenziale per cercare e trovare ciò che, invece, secondo Feigl e Quine neanche poteva essere cerca-to: il correlato neurofisiologico dei comportamenti intenzionali.

Tornando al filo del nostro discorso, questa lunga digressione che ha anticipato in forma sinteti-ca molto di quanto diremo in §3.2, è essenziale per capire perché punto di svolta per l’attuale cam-biamento di paradigma nella ricerca neurofisiologica verso il paradigma intenzionale è lo sviluppo dell’approccio delle neuroscienze cognitive. Infatti, è fondamentale, tanto per l’approccio tomma-siano alla teoria dell’intenzionalità, come per quello fenomenologico, poter distinguere nell’evento neurofisiologico medesimo la componente materiale da quella formale, un passo che si è comincia-to a compiere a partire dagli anni ’60 dello scorso secolo, appunto con la nascita delle scienze co-gnitive. Infatti, come tutti i manuali ricordano, nel 1956 era nato allo MIT di Boston, ad opera di un gruppo composto da alcuni fra i leader mondiali della computer science — due nomi per tutti: il fu-turo Premio Nobel per l’economia, Norbert Simon e il futuro guru dell’IA, Marvin Minsky — il programma di ricerca della cosiddetta Intelligenza Artificiale (IA), che si riproponeva un nuovo ap-proccio allo studio delle funzioni cognitive secondo quello che sarà, in seguito, definito come il “paradigma funzionalista” nelle scienze cognitive (Cfr. §3.2.1). Tuttavia, come vedremo, il passo sarà pienamente compiuto solo con lo sviluppo dell’approccio intenzionale alle neuroscienze cogni-tive. Infatti, la linearità della dinamica cerebrale supposta dall’approccio funzionalista, oltre a essere cognitivamente (Cfr. 3.2.2) neurofisiologicamente (Cfr. §3.2.3) confutata, dal punto di vista teorico, rende la distinzione energia-informazione puramente metaforica (in un sistema lineare, il suo de-terminismo fa sì che tutta l’informazione sia già nelle condizioni iniziali (e/o nel caso del computer, nel programma che gira su di esso). Il sistema né dissipa, né soprattutto genera informazione, sol-tanto la manipola, così da privare l’ontologia duale della sua continuità con la ricerca scientifica, e allo stesso tempo giustificare una lettura meccanicista dell’approccio funzionalista stesso in filoso-fia della mente. Ben diverse sono le dinamiche caotiche nelle quali, anche dal punto di vista stret-tamente fisico, energia e informazione non sono più sovrapponibili26. In tal modo, a livello

25 Userei il termine “risuonare”, ma è fuorviante, perché la risonanza, p.es., la vibrazione all’unisono delle corde di una

chitarra sul suono di una medesima nota è, invece, su una frequenza alla volta, sebbene nel cervello esistano anche fe-nomeni semplici di questo tipo di attivazione a distanza fra neuroni.

26 P.es., anche nelle forme più semplici di dinamica caotica nei sistemi dissipativi (sistemi fisici che scambiano energia con l’esterno (=sistemi energeticamente “aperti”, come, grazie al metabolismo, sono anche tutti gli organismi viventi)) mentre l’energia, come nei sistemi termodinamici lineari, predicibili, viene sempre dissipata dal macrostato al micro-stato (= equi-distribuita fra le particelle che compongono il sistema, così da rendere indispensabile che il sistema ac-quisisca sempre energia dal suo ambiente se vuole continuare a compiere il suo lavoro e non “morire entropicamente”, disorganizzandosi), viceversa l’informazione viene dissipata anche nella direzione inversa: piccole modifiche del mi-crostato vengono, in un sistema caotico, enormemente amplificante a livello di macrostato. Si pensi, all’ormai storico “effetto farfalla” di Edward Lorenz — “se una farfalla batte le ali a Boston, ne può derivare un tornado nel Mar dei Caraibi” —, che è il primo, nel 1972, ad aver caratterizzato al computer, per simulare le turbolenze atmosferiche, un sistema caotico. Esso, peraltro, era infinitamente più semplice — era generato da un semplice sistema di tre equazioni non-lineari —, dell’enorme complessità delle dinamiche caotiche nel cervello in cui concorrono, invece, un numero

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dell’ontologia duale è possibile garantire che la persona sia caratterizzata come un sistema non solo energeticamente (come un qualsiasi organismo vivente) ma anche informazionalmente “aperto”, in grado di scambiare informazione sia con i suoi simili (intersoggettività) sia con l’Assoluto (trascen-denza), senza violare alcun “principio di conservazione dell’energia” come nell’interazionismo dell’approccio dualista platonico e cartesiano.

Anche in questo senso, dunque, squisitamente ontologico, è indispensabile avere, nel sostrato neurofisiologico di un atto intenzionale una dinamica caotica complessa, e non solo perché soltanto attraverso dinamiche caotiche, a livello mesoscopico, è possibile garantire il coordinamento com-plesso di larghe popolazioni di neuroni appartenenti a molteplici aree cerebrali, come richiesto, ap-punto, al sostrato fisico di un comportamento intenzionale .

Il primo passo in questa direzione, lo ripeto, fu posto negli anni ’60 dello scorso secolo, con la nascita delle scienze cognitive, nel loro originario approccio funzionalista. Seguendo l’ormai stori-co manuale di Howard Gardner (Gardner, 1988)27, che definiva le scienze cognitive “la nuova scienza della mente”, esse, nella triangolazione di Feigl (mentale / neurofisiologico / comportamen-tale), sostituiscono il “comportamentale” con l’informazionale /computazionale. Ovvero, ad ogni stato mentale, accessibile ed ascrivibile solo e come tale al soggetto intenzionale (persona) che lo prova e lo descrive, e quindi assolutamente inoggetivabile (I-talk), sono correlati due dati corporei (di qui il paradigma persona-corpo come proprium dell’approccio intenzionale), accessibili all’osservazione oggettiva e descrivibili dall’osservatore esterno (O-talks): modificazione neurofi-siologica (materia), computo informazionale (forma) implementato in quella modificazione. Lo schema risultante è dunque quello rappresentato schematicamente nella seguente figura che esem-plifica bene come le scienze cognitive nascano dall’intersezione fra psicologia, neurofisiologia ed informatica.

Figura 1. Schema delle scienze cognitive come intersezione fra psicologia della coscienza intenziona-le (I-talk), neurofisiologia e informatica (O-talks)

Contro l’originaria triangolazione di H. Feigl (Feigl 1968) fra psichico-fisico1 (neurologico)- fisico2 (comportamentale), la rivendicazione del carattere non solo psico-logico (Husserl e Feigl: la-to C) ma anche psico-fisico (Aristotele, Tommaso, Merlau-Ponty, Dreyfus, Freeman, Rizzolatti: lato A), ha portato all’attuale passaggio dal paradigma rappresentazionale–simbolico (IA) a quello in-tenzionale–pre-simbolico nelle neuroscienze cognitive (lato B). Da ultimo, il fatto che tutto ciò che è formalizzabile come calcolo logico (estensionale e/o intensionale) è anche simulabile artificial-mente nell’opportuno artefatto, sta portando attualmente alla nascita di una nuova branca della

enorme e sempre cangiante di variabili, non certo solo tre. Per questo Freeman, che è un po’ il Lorenz delle dinamiche caotiche nel cervello, ha coniato per la loro tipologia, fin dal 2000, l’ossimoro di “caos stocastico”, invece di “caos de-terministico”, come nelle simulazioni di Lorenz (Cfr. (Freeman, 2000).

27 Per una sintesi più aggiornata, completa e soprattutto ricca di citazioni da libri e articoli che hanno fatto la sotria di questa disciplina, Cfr. (Piattelli-Palmarini, 2008).

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Computational Intelligence (CI) che, simulando comportamenti intelligenti pre-simbolici e non solo simbolici come l’IA, è in grado di simulare negli artefatti comportamenti intenzionali e semantici, sta aprendo una nuova era nelle scienze dell’informazione della comunicazione. Ma su questo non possiamo qui dilungarci (Kozma, 2010).

3.2 DAL PARADIGMA RAPPRESENTAZIONALE AL PARADIGMA INTENZIONALE

3.2.1 Teorie funzionaliste e approccio rappresentazionale

All’inizio degli anni ’60 del XX secolo, H. Putnam, in un famoso saggio (Putnam, 1960), lanciò il programma di ricerca del cosiddetto funzionalismo, inteso a risolvere il problema mente-corpo nei termini della relazione software-hardware di un computer. Tale approccio, oggi ripudiato comple-tamente dal suo iniziatore, intendeva riproporre su basi nuove la classica teoria razionalista moderna della mente di Descartes, Leibniz, Kant che riduce la mente a ragionamento deduttivo, alla luce, in-nanzitutto della nozione di “inconscio cognitivo” della psicologia dell’intelligenza di J. Piaget. Se-condo tale nozione, tipica della psicologia genetica piagetiana, s’identificava l’intelligenza stessa con lo sviluppo e l’uso inconsapevole da parte del singolo di schemi operatori di tipo logi-co-formale, propri del ragionamento deduttivo (Piaget, 1952) e (Piaget & Inhelder, 1977).

L’altro pilastro della teoria funzionalista era stato lo sviluppo della teoria della computabilità, alla base dell’odierna computer science. I passi principali di tale sviluppo, dopo la matematizzazio-ne della logica formale con la nozione di funzione proposizionale ad opera di Frege operata alla fine del secolo XIX, furono essenzialmente due, e sono concentrati nella prima metà del secolo XX.

1. Innanzitutto, l’invenzione del λ–calcolo mediante cui A. Church ipotizzò che tutte le funzioni computabili del calcolo logico e/o matematico erano computabili algoritmicamente mediante funzioni ricorsive.

2. Quindi ci fu l’invenzione di uno schema teorico elementare di macchina algoritmica, la Mac-china di Turing (MT), ciascuna in grado di calcolare una data funzione ricorsiva. Siccome, pe-rò, ciascuna MT può essere programmata a simulare anche il calcolo eseguito da un’altra MT, si arriva al costrutto della MT Universale (MTU) in grado di simulare il calcolo di qualsiasi MT. La MTU costituisce dunque lo schema logico di un moderno calcolatore mul-ti-programmabile (Turing, 1937), ma anche della “macchina inferenziale” della mente umana, in quanto capace come la MTU di eseguire qualsiasi ragionamento deduttivo logico-formale.

Il collegamento col comportamentismo, e dunque con la psicologia, derivava da un’ulteriore dimostrazione ad opera di McCulloch e Pitts negli anni ’40 che garantiva l’equivalenza fra il calco-lo algebrico matriciale di una rete di neuroni semplicemente interconnessi (cfr. nota 12) e i calcoli eseguibili da una MT (McCulloch & Pitts, 1943). Il comportamentismo disposizionale di G. Ryle, sopra ricordato (Cfr. §3.1.1), si coniugava così con i calcoli logici eseguibili da una rete di neuroni interconnessi e quindi con la MTU, ovvero con il paradigma informatico di un nostro computer multi-programmabile: il cerchio così si chiudeva. Dalla filosofia della mente si poteva passare alle moderne scienze della mente o scienze cognitive, anche se nella forma molto limitata e limitante dell’approccio cosiddetto funzionalista. Una scienza di tipo galileiano (ma cfr. anche §4.3.2), ov-viamente, perché dotata di una base sperimentale (neurofisiologica) e di un rigoroso apparato logi-co-matematico (= la teoria della computabilità). Di qui, infatti, erano nati i due capisaldi del funzio-nalismo:

1. L’idea della simulabilità artificiale dello stesso comportamento intelligente umano (Turing, 1950), alla base del programma di ricerca dell’IA; e

2. La conseguente idea dell’essenziale isomorfismo (corrispondenza biunivoca) che deve for-malmente esistere fra il calcolo logico eseguito dal cervello di un essere umano che sta com-piendo un certo ragionamento deduttivo, e il software che “gira” (cioè il calcolo formale su

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simboli eseguito) in un computer in grado di simulare quel comportamento. Una tesi che, dopo i teoremi di Gödel è logicamente indimostrabile, così da essere definita “il dogma dell’ IA” (Hofstadter, 1994).

Tipico del funzionalismo è perciò il carattere rappresentazionale, neo-kantiano, con cui viene interpretato l’atto cognitivo. Anzi il termine “funzionalismo” con cui l’approccio viene definito di-pende proprio dall’interpretazione “rappresentazionale” dell’atto cognitivo. Una “funzione” in teo-ria degli insiemi è, infatti, denotata come una “rappresentazione” da uno a uno (o più) insiemi. Ov-vero: “y = f(x)”, che si legge: “y è una qualche funzione (p.es., “è il doppio”) di x”, insiemisticamen-te significa che un qualsiasi simbolo y (p.es., “6”) è una rappresentazione f (“×2”) nell’insieme degli {y} (= l’insieme dei numeri pari, evidentemente) del corrispondente valore x (“3”) appartenente all’insieme degli {x} (= l’insieme dei numeri naturali, 0,1,2,3,4,…).

Cognitivamente, allora, la conoscenza come rappresentazione significa che conoscere equivale a stabilire una corrispondenza funzionale f (o “rappresentazione”) fra uno “stato di cose” esterno al cervello e uno “stato mentale”, corrispondente all’attivazione di un determinato circuito neurale di neuroni reciprocamente attivantesi all’interno del cervello, circuito che costituirà “la rappresenta-zione cerebrale” dell’oggetto esterno. Gli “stati disposizionali” via via attivati nelle reti di neuroni, costituiranno così i “simboli”, le “attitudini proposizionali” (proprio come in logica simbolica i simboli del calcolo sono detti “funzioni proposizionali”, funzioni che, applicate, producono “propo-sizioni” invece che “numeri” come le funzioni matematiche) del “linguaggio del pensiero (Langua-ge of Thought, LOT)”, secondo l’efficace sintesi di J. Fodor (Fodor, 1980).

Anche se Fodor ha cercato in seguito di evitare la seguente, ulteriore conseguenza del suo ap-proccio (Cfr. (Fodor, 2001); (Fodor, 2008)), è chiaro che nel rappresentazionismo funzionalista, la mente è considerata puramente passiva, visto che sarà l’evoluzione biologica e culturale28 a stabilire per ciascuno le corrispondenze funzionali fondamentali — e quindi i “simboli-base” del calcolo, o “categorie” —, fra realtà e pensiero in un atto cognitivo che viene così ridotto a pura aequatio, a pu-ra equivalenza funzionale y = f(x), fra “stato interno”, y, e “stato esterno” x. Insomma, come un computer non si può riprogrammare da solo, così la nostra mente è schiava dei suoi pre-giudizi e pre-comprensioni biologiche e culturali.

Figura 2. Schema rappresentazionale della conoscenza secondo il principio funzionalista: y=f(x). L’insieme degli stati mentali/cerebrali {y}è funzione (o rappresentazione) f dell’insieme {x} degli stati fi-sici extra-mentali. Dove il “mappaggio” f di uno stato fisico x in uno stato mentale y dipende dalla “tra-sduzione” operata dai sistemi sensori degli stimoli fisici “esterni” al corpo (p.es., una determinata in-tensità dello stimolo luminoso), in stimoli “neuro-fisiologici” interni ad esso e manipolabili dal cervello (p.es., nella determinata frequenza di scarica di un certo pool di neuroni del sistema visivo)

Per venire al tema principale di questo contributo è chiaro che la logica della mente rappresen-tazionale, della mente funzionalista, sarà la logica estensionale che è “logica della giustificazione”. L’esperienza serve solo ad aumentare la ridondanza e quindi a giustificare le ipotesi di partenza, mai a modificarle, a “scoprirne” o “inventarne” di nuove. Tali “forme” sono degli a-priori immodi-

28 P.es., che cosa vede di notte (quale rappresentazione dello stato di cose abbiano) un uomo e una civetta, è frutto

dell’evoluzione biologica che ha determinato in maniera diversa (ha definito delle f diverse per) il sistema sensorio no-stro e delle civette. Come pure il fatto che l’ospite arabo beva dalla ciotola fatta girare durante un banchetto, invece di lavarsi in essa le dita, dipende dalla sua cultura… La vista della ciotola elicita, cioè, rappresentazioni senso-motorie diverse nell’europeo e nell’arabo…

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ficabili che, a seconda dei casi, la divinità, l’evoluzione, la cultura o, nel caso della macchina, il programmatore, ha “inculcato” nella mente del povero individuo che non può modificarle, con buo-na pace dell’adagio tommasiano a difesa della dignità della persona e della sua capacità di pensare e di escogitare con la propria mente hic homo intelligit. Quest’uomo, carico dei suoi condizionamenti biologici e culturali, proprio lui è capace di “generare” e non “manipolare” soltanto informazione, attraverso un processo che ha nell’intelletto solo il punto di arrivo, ma è preparato dai sensi. 3.2.2 Rappresentazionale vs. intenzionale: evidenze cognitive

Malgrado il suo estremo interesse teoretico e la sua fecondità scientifica che ha fatto sì che da questo programma di ricerca sorgesse una nuova disciplina di collegamento fra psicologica e neuro-fisiologia, le scienze cognitive, il limite fondamentale dell’approccio funzionalista è il suo riduzio-nismo, legato al carattere esclusivamente estensionale dei calcoli logici simulabili da una MTU. Es-sa può al massimo simulare la mente umana nel suo comportamento logico-deduttivo, di “logica della giustificazione”, mai di “logica della scoperta”. In particolare, il funzionalismo è del tutto in-sufficiente a rendere conto del carattere intenzionale proprio della conoscenza umana e quindi delle varie forme di ragionamento intenzionale e delle varie forme di logica della scoperta e di logica in-tensionale (logiche deontiche, epistemiche, aletiche…) che le caratterizza, (Cfr. (Searle, 1980), (Searle, 1983). Cfr. infra, sezione 4). Possiamo insomma dire che nelle scienze cognitive si sta ope-rando un passaggio analogo a quello, della metà del XIX secolo, dagli inizi neo-kantiani della psi-cologia della coscienza, alla psicologia della coscienza di tipo intenzionale della scuola di Brentano. Quella scuola, cioè, tipica della fine del secolo XIX e che poi darà origine alla scuola fenomenolo-gica e alla stessa psicologia della Gestalt, o “psicologia cognitiva”.

Ma andiamo con ordine. Tipico dell’approccio intenzionale all’atto cognitivo è avere come pa-radigma sensorio non il senso, “rappresentazionale” per eccellenza, della vista, come per Platone, ma del tatto, come per Aristotele. La conoscenza, cioè, in questo paradigma, è una conseguenza dell’azione e termina in un’azione motoria, dopo una riorganizzazione interna all’animale delle di-sposizioni ad agire in vista di fini, che costituisce il “momento cognitivo” qua talis dell’atto inten-zionale nel suo complesso. Notava Aristotele, infatti, che il passaggio dal vegetale all’animale è le-gata al fatto che alcuni organismi divengono capaci di locomozione — almeno quella elementare del moto di contrazione-dilatazione dei molluschi, prima ancora del movimento locale dei vermi —, e per questo, innanzitutto, sviluppano il senso del tatto: per orientare la loro locomozione al rag-giungimento dell’obbiettivo. Come ci ha insegnato Piaget, infatti, l’origine dell’intelligenza umana, anche nelle sue capacità rappresentazionali di ragionamento logico-formale, è il comportamento senso-motorio: non per nulla, notava ancora Aristotele, ciò che distingue l’uomo, “animale raziona-le”, dall’animale tout-court, è l’eccezionale sviluppo del senso del tatto, non della vista. Anche qui l’eccezionale intuito dell’Aristotele acuto osservatore del regno animale aveva colto nel segno. Nell’uomo, infatti, la parte tattile è quella molto più diffusa delle altre nella cosiddetta “corteccia sensoria”.

Dunque, sintetizzando, proprio dell’approccio intenzionale vs. l’approccio rappresentazionale all’atto cognitivo è interpretare la conoscenza non come statica rappresentazione “interna” di un “esterno” (Cfr. Figura 1), ma come attiva e adattiva continua auto-modificazione (“azione imma-nente” la definivano gli scolastici) degli stati disposizionali da/verso l’ambiente (“abiti”, li defini-vano gli scolastici) del cervello, in reciproco controllo con quelli dell’intero organismo, in vista del conseguimento effettivo di fini (Cfr. Figura 2 e (Basti, 1995); (Nunez & Freeman, 1999); (Basti & Perrone, 1999); (Clark, 1999); (Freeman, How brains make up their minds, 2001); (Basti & Perrone, 2002); (Noë, 2004); (Rizzolatti & Sinigaglia, 2006); (Basti, 2006); (Metzinger & Gallese, 2003); (Gallese & Sinigaglia, 2010)).

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Figura 3. Schema di azione immanente come schema di auto-organizzazione intenzionale cervello-organi, per la locomozione (interazione adattiva organismo-ambiente), finalizzata al raggiungimento effettivo di uno scopo.

L’atto psichico è atto di tutto il corpo, di tutta la persona, non del solo cervello o della sola men-te: noi non siamo né la nostra mente (Descartes) né il nostro cervello (funzionalismo). In quanto persone — soggetti metafisici in relazione con noi stessi, il mondo, i nostri simili e l’Assoluto —noi siamo i nostri corpi, e i nostri corpi non sono solo materia, ma materia e forma (anima), energia e informazione che scambiamo continuamente dentro — fra le varie parti del nostro corpo — e fuo-ri noi stessi, come la teoria duale insegna (Cfr. (Basti, 1995); (Clark, 1999; 2008); (Freeman, 2001; 2010); (Basti, 2004; 2006; 2009); (Noë, 2004; 2009); (Metzinger & Gallese, 2003); (Gallese, 2006; Gallese & Sinigaglia, 2010))!

La verità in senso cognitivo è intesa qui non come la statica aequatio rappresentazionale, ma, tomisticamente, come una dinamica, continua ad-aequatio, come adeguazione delle nostre disposi-zioni all’azione (abiti cognitivi) mediante cui assimilarsi al reale per aderirvi il più possibile. In questo paradigma, la mente non è passiva, ma attiva. Non solo calcola su simboli (insiemi, classi e loro relazioni funzionali) costituiti a priori, ma costituisce e continuamente adegua i simboli logici del calcolo, ridefinendoli sull’oggetto in relazione ai fini del soggetto. La logica della mente inten-zionale, non è logica della giustificazione, ma logica della scoperta.

Afferma Freeman (Freeman, How brains make up their minds, 2001): L’adeguazione non è un adattamento per mezzo di un processamento passivo dell’informazione e non è un processo di accumulazione dell’informazione per mezzo di risonanze. Per esempio, quando afferriamo un bicchiere per bere, il nostro cervello non si fa una rappresentazione. Ma riconfigura la mano perché si assimili al bicchiere. Il cervello riconfigura il sé per l’interazione ottimale con un aspetto desiderato del mondo. Il fine dell’atto intenzionale è uno stato di competenza che Maurice Merlau-Ponty ha definito di massima aderenza (maximum grip).

Gli fa eco, praticamente all’unisono, ma senza dipendenza diretta, Rizzolatti, il già ricordato scopritore con il suo gruppo dei “neuroni-specchio”, base del comportamento imitativo a livello motorio, essenziale per lo sviluppo inter-soggettivo, dell’intelligenza intenzionale (Rizzolatti & Sinigaglia, 2006):

Si consideri il caso della tazzina: sin dall'iniziale apertura della mano, il nostro cervello ne seleziona quei tratti (forma e orientamento del manico, del bordo, etc.) che appaiono pregnanti ai fini dell'azione e che concorrono a determinare tanto la fisionomia motoria dell'oggetto, quanto lo spazio delle possibili prese. L'una si costituisce attraverso l'altro e viceversa. (...) Lo spazio dell'oggetto si declina qui nella forma del-la sua posizione relativa ai vari effettori coinvolti (braccio, bocca, mano, etc.) risultando definito nei ter-mini dei loro possibili scopi d'azione.

3.2.3 Rappresentazionale vs. intenzionale: evidenze neurofisologiche

A decretare il passaggio dal paradigma rappresentazionale-statico a quello intenzionale-dinamico hanno contribuito, però, molto di più delle evidenze cognitive, le evidenze neurofisiologi-che accumulatesi in questi ultimi trent’anni. Come ogni scienza galileiana, infatti, le scienze cogni-tive hanno una solida base logico-matematica sul fondamento della quale formulare ipotesi che de-vono poter poi essere controllate empiricamente, nel nostro caso neurofisiologicamente, così da ga-rantire la scientificità del relativo modello, della relativa teoria. Sintetizzando qui una bibliografia

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praticamente sterminata ed in continuo aggiornamento, i fatti neurofisiologicamente più rilevanti che hanno decretato la falsificazione delle teorie funzionaliste nelle neuroscienze cognitive sono i seguenti (Per una sintesi, cfr. (Nunez & Freeman, 1999); (Basti & Perrone, 1999); (Freeman, How brains make up their minds, 2001); (Basti & Perrone, 2002); (Basti, 2006); (Rizzolatti & Sinigaglia, 2006); (Churchland, 2007)):

1. Separazione vs. non-separazione apprendimento/riconoscimento. Una rete neurale funzionali-sta deve separare la fase di apprendimento (= stabilimento delle connessioni del circuito neura-le) da quella di riconoscimento (= attivazione del circuito). Nelle reti neurali naturali non esi-ste nulla di simile. I circuiti neurali sono in apprendimento/modificazione continua.

2. Stabilità vs. instabilità delle dinamiche neurali. Un approccio di tipo rappresentazionale impli-ca che input simili, producano sempre output simili. P.es., se in un computer batto la medesi-ma stringa di caratteri, il sistema produrrà sempre la stessa risposta: guai se non fosse così. Niente di tutto questo nella realtà cognitiva (lo stesso input, p.es., un materiale commestibile, produrrà risposte diverse, di ricerca o addirittura di disgusto, a seconda dei fini, nel caso della fame, dell’animale), né in quella neurale. Se “facciamo il film” mediante la PET (= tomografia ad emissione di positroni) o la risonanza magnetica funzionale, dell’attivazione di circuiti neu-rali durante un comportamento ripetitivo, sarà sempre la stessa zona cerebrale ad essere attiva-ta, ma con circuiti neurali di attivazione sempre diversi. Anzi, la persistenza in forma di com-portamento oscillatorio stabile di un circuito di attivazione neurale (battimento) è segno di malfunzionamento grave della dinamica cerebrale. Nei casi più gravi, addirittura, è sintomo del prossimo insorgere di un attacco epilettico, oppure è la causa cerebrale dell’insorgenza del terribile “dolore patologico” in pazienti tumorali avanzati (Basti, 2005), proprio come, cogni-tivamente, il comportamento ossessivamente ripetitivo di un soggetto è segno di disturbo psi-chico grave.

3. Stazionarietà vs. non stazionarietà delle dinamiche neurali. Grazie al perfezionamento delle tecniche di registrazione neurali, in grado oggi di studiare il comportamento nel tempo di un singolo neurone, è diventato evidente che i singoli neuroni codificano nel tempo input sempre diversi. Addirittura gli stessi, “gloriosi” neuroni dell’area 17 della corteccia visiva, scoperti dai Nobel Hubel e Wiesel come codificanti stimoli di forme visive (p.es., forme verticali, orizzon-tali, oblique) nel tempo codificano forme diverse (p.es., invece di essere attivati da forme ver-ticali e inibiti da forme orizzontali esibiscono il comportamento esattamente opposto). In ter-mini di computer, sarebbe come se le diverse celle magnetiche degli hard disk dei nostri com-puter codificassero in instanti successivi input totalmente diversi. Un computer cesserebbe di funzionare immediatamente con un “danno” del genere!

4. Carattere localizzato vs. distribuito delle funzioni corticali. Mentre seguendo il paradigma rappresentazionale si era ipotizzata una ferrea distinzione funzionale fra zone della corteccia, in particolare fra corteccia sensoria, associativa e motoria, studi più recenti hanno dimostrato l’onnipervasività dei neuroni motori, secondo lo schema intenzionale dell’operazione cogniti-va, già ricordato, azione-(ri-)organizzazione-azione. Come ha evidenziato recentemente Riz-zolatti (Rizzolatti & Sinigaglia, 2006):

Non è un caso che un approccio di questo ultimo tipo abbia consentito di scoprire una proprietà sor-prendente nell’area F5: la maggior parte dei suoi neuroni non codifica singoli movimenti bensì atti motori, cioè movimenti coordinati da un fine specifico.

5. Memorizzazione statica vs. dinamica degli input. L’instabilità e la non-stazionarietà delle di-namiche cerebrali fanno sì che esse siano caratterizzabili fisicamente, in teoria dei sistemi di-namici, come “caos deterministico” (è la scoperta fondamentale di W. Freeman e del suo gruppo: Cfr. (Freeman, 2001) per una sintesi di cinquant’anni di studi). Questa caratteristica consente a tali dinamiche di usare una tecnica di memorizzazione dell’informazione partico-larmente efficiente. Invece che memorizzare staticamente l’informazione in zone spazialmente

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distinte e fisse del cervello come negli hard-disk dei nostri computer — condannati per questo ad accrescersi di dimensioni, con l’accrescersi dell’informazione da immagazzinare: cosa evi-dentemente impossibile per i nostri cervelli che non possono mai accrescere il numero di neu-roni dalla nascita in poi — la memorizzazione cerebrale è di tipo dinamico non statico. Ricor-dare, significa riattivare una dinamica complessa fra neuroni del sistema limbico sub-corticale (legato alla componente emozionale) e una rete di neuroni corticali senso-motori che non solo possono, ma debbono essere sempre diversi, anche se spesso localizzabili nelle medesime zo-ne, affinché si riproduca il medesimo effetto globale di assimilazione intenzionale attiva del sé all’ambiente, all’origine di quel ricordo, in un contesto evidentemente sempre diverso, e che quindi non ha senso che sia mediato dallo stesso circuito neurale. Questo ruolo è svolto egre-giamente dalla presenza di dinamiche caotiche a livello mesoscopico del cervello che consen-tono di aumentare indefinitamente le capacità di memorizzazione di una rete comunque a ele-menti finiti (Basti & Perrone, 1999), (Basti & Perrone, 2001) (Basti & Perrone, 2002), anche se i ricordi sono così resi cognitivamente dipendenti dalla ricostruzione dell’effetto emoziona-le originario, con conseguente distorsione del ricordo propriamente percettivo. Si pensi al film Amarcord di Fellini per una perfetta resa dell’evidenza di questo meccanismo del ricordo in-tenzionale. Ecco come Freeman spiega questa proprietà sconvolgente delle dinamiche caotiche (Freeman, 2001):

L’adeguazione è il punto di partenza di ogni conoscenza. Il tendere-verso-il-mondo del corpo esem-plifica quello che Tommaso d’Aquino definisce il processo dell’intenzionalità. La nostra parola “in-tenzione” viene dal latino “protendersi verso”. Questo protendersi inizia il ciclo azione-percezione che è seguito da cambi nel sé, man mano che impara dal mondo per assimilazione del sé al mondo. Non vi è trasferimento passivo dell’informazione attraverso i sensi nel cervello. Invece il cervello usa la propria dinamica caotica per creare la sua propria informazione, perché il caos può creare co-me distruggere informazione.

Non per nulla, e in base a quanto abbiamo anticipato in §3.1.2 sullo stretto rapporto fra dinami-ca delle turbolenze in fluido-dinamica e dinamiche caotiche si capisce immediatamente il perché, Freeman usa, per spiegarsi in maniera semplice, sul ruolo delle dinamiche caotiche l’esempio di meccanismi di condensazione/rarefazione del vapore — guarda caso un esempio tipicamente aristo-telico-tomista, se ricordiamo il ruolo essenziale che la fluidodinamica degli “spiriti corporei” nei nervi giocava per dare una spiegazione “neurofisiologica” al comportamento cognitivo intenziona-le. Dunque, dice Freeman, il riconoscimento di uno stimolo sensoriale o l’attivazione di un compor-tamento intenzionale complesso corrisponde alla formazione di un “attrattore caotico” nella dinami-ca complessa di fondo dei neuroni nel cervello dei mammiferi. Tali attrattori si possono formare, modificare, fondersi e separarsi nell’arco di pochi decimi di secondo un po’ come, se immaginiamo la condensa del vapore su una superficie soggetta a repentine variazioni di temperatura, goccioline d’acqua (attrattori della dinamica delle molecole d’acqua) si formano, si fondono e si dissolvono su questa superficie a temperatura variabile.

4 PARADIGMA INTENZIONALE E CALCOLO LOGICO INTENSIONALE

4.1 PARADIGMA INTENZIONALE E LOGICA

4.1.1 Paradigma intenzionale e volontarismo irrazionalista

Ciò che irrita profondamente chi sa di logica nel leggere gran parte della letteratura europea e americana sull’argomento del nuovo paradigma intenzionale, è l’aura di irrazionalismo che la per-vade, come se “razionalità” fosse sinomimo di “razionalità matematica”, e “logica formale” e “logi-ca simbolica” fossero sinonimo di “logica estensionale”. Spetta al già ricordato J. Searle, nella sua critica all’approccio funzionalista nelle scienze cognitive aver ricordato alla comunità dei filosofi e scienziati della mente che, se l’approccio rappresentazionale alle funzioni cognitive implica l’uso di

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logiche estensionali nelle MT, il carattere intenzionale dell’operazione cognitiva umana suppone l’uso di logiche intensionali. Purtroppo però Searle non è andato oltre su questa strada, se non con affermazioni generiche molto naif che un computer, o una MT, non fa uso di logiche intensionali semplicemente perché non è un cervello, e amenità di questo genere (Cfr. (Searle, 1980); (Searle, 1983); (Searle, 2007)).

Queste affermazioni generiche non è che aiutino molto a superare quell’alone di irrazionalismo che circonda attualmente l’uso del paradigma intenzionale nelle scienze cognitive, e certamente non spiegano come mai, per esempio, la ricerca e la tecnologia giapponese siano in grado ormai di pro-durre robot capaci, non solo di simulare comportamenti emozionali e dunque intenzionali, ma anche di suscitare gli uni e gli altri nell’utilizzatore (verrebbe da dire, “nell’interlocutore”) umano. Il mo-tivo è semplice: se le dinamiche cerebrali sono in grado di essere il sostrato di operazioni intenzio-nali è perché mentre una dinamica stabile e stazionaria è il necessario sostrato fisico dei calcoli estensionali di una MTU, una dinamica caotica, non stazionaria e stabile fuori dall’equilibrio, è il sostrato fisico necessario di calcoli intensionali e dunque delle operazioni intenzionali della mente (Cfr. (Nunez & Freeman, 1999); (Basti & Perrone, 1999); (Freeman, How brains make up their minds, 2001); (Basti & Perrone, 2001); (Basti & Perrone, 2002); (Basti, 2006)).

Se la tecnologia giapponese è andata così avanti rispetto a quella europea e statunitense (almeno quella per usi civili e quindi di pubblico dominio), è perché sia le dinamiche caotiche che le logiche intensionali sono massicciamente studiate e applicate da decenni nella ricerca applicata del sol le-vante, soprattutto in robotica. E’ vero insomma che una MT per definizione implementa solo calcoli estensionali, ma anche le logiche intensionali possono essere simbolizzate e dunque definite come calcolo (= manipolazione di simboli secondo regole) e perciò implementate in opportuni artefatti. E’ vero, insomma, che un artefatto “non capisce” e “non può capire”, come un agente intenzionale, ma può simulare di farlo, esattamente come un alunno preparato che manda a memoria la lezione può ingannare il docente simulando perfettamente di aver capito… Il futuro “WEB3”, la rete in gra-do non solo di interagire, come l’attuale “WEB2”, ma di interagire semanticamente (simulando l’atto intenzionale del capire, quindi di anticipare, auto-correggersi, auto-modificarsi in base ai con-testi, agli scopi…), con l’interlocutore umano, si basa su questi principi. E questa non è né fanta-scienza, né stregoneria irrazionalista, né seduta spiritica… 4.1.2 Approccio rappresentazionale, logica estensionale e teorie dell’identità mente-corpo

Come già più volte ricordato, esiste uno stretto rapporto fra approccio rappresentazionale nell’epistemologia e nelle scienze coginitive e monismo materialista in antropologia. La soluzione monista del problema mente-corpo, come già sappiamo, è quella soluzione che riduce una delle due entità a “prodotto” dell’altra (Cfr. § 2.1). Nel caso del monismo materialista, si riduce la mente a collezione di stati psichici consapevoli (rappresentazioni mentali: Cfr. Figura 1), prodotti in qualche parte del corpo — generalmente il cervello, almeno nell’età moderna —, proprio come qualsiasi al-tra funzione fisiologica (p.es., la digestione).

Malgrado storicamente la soluzione monista del problema mente-corpo nella filosofia greca ri-salga alla teoria democritea, i filosofi monisti nella filosofia greca — gli Stoici e gli Epicurei — so-no solo coloro che hanno criticato il dualismo platonico, magari sulla scorta della critica aristotelica all’essenzialismo platonico. Prima di Platone infatti non poteva esistere alcun “materialismo” per-ché non esisteva ancora la scoperta, platonica, di una realtà immateriale, della realtà “spirituale” delle pure forme logiche, del regno degli “universali” o “idee” platoniche29. Democrito dunque non

29 La scoperta degli “universali logici” risale a Platone come risposta al famoso secondo paradosso di Parmenide. Par-

menide è in qualche modo il padre del pensiero scientifico occidentale, nella misura in cui, differentemente dal pensie-ro logico orientale, riconosce al “principio di non contraddizione” (p.d.n.c.) un valore ontologico-semantico e non solo logico-sintattico. Se, infatti, non si può avere pensiero deduttivo senza p.d.n.c., non è detto che le leggi non contraddit-torie della logica abbiano a che fare con la realtà, a meno che con Parmenide e tutto il pensiero greco ( e scientifico occidentale) non si ammetta che il p.d.n.c. abbia a che fare con la realtà, ovvero non si affermi con Parmenide “che

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poteva essere “materialista”. Viceversa, saranno “materialisti” quei filosofi che dopo Platone, criti-cando il suo “spiritualismo”, gli opporranno la spiegazione democritea della conoscenza. Questi fi-losofi antichi (p.es., stoici ed epicurei), si rifanno così alla teoria democritea della conoscenza, in-terpretando le rappresentazioni della realtà esterna nella mente come effetto della “sommatoria” di singole collisioni di atomi, originati dai corpi esterni, con gli atomi molto più piccoli e leggeri di vapore (i famosi “spiriti corporei”) all’interno degli organi di senso, dei nervi e quindi del cervello, così da riprodurre all’interno del corpo umano le stesse forme dei corpi esterni.

A parte il carattere naïf di questa spiegazione, ciò che è tipico di ogni spiegazione materialistica del rapporto mente-corpo, sia antica che moderna, è il cosiddetto dogma empirista. Esso consiste nella supposizione esista un isomorfismo e dunque un’equivalenza fra lo stato fisico (p. es., la modi-ficazione fisica dell’organo di senso e quindi del cervello in seguito ad una stimolazione esterna) e lo stato mentale corrispondente (p.es., la percezione consapevole di un colore). Questa equivalenza è esplicitamente affermata da D. Hume, per mezzo della sua teoria della sensazione come raw feel, letteralmente un “puro tocco”, ovvero effetto interno di una singola collisione atomica sull’organo

l’essere è e il non essere non è”. Come sappiamo, questa posizione portò Parmenide a negare che la realtà possa essere “molteplice” (due o più “enti”, possono essere divisi solo da ciò che non è ente, ma il non essere non è, quindi la mol-teplicità quantitativa è apparenza); “diversificata” (se due enti “A” e “B” sono diversi vuole dire che “A” “non è B” e viceversa, ma il non essere non è quindi la diversità qualitativa è apparenza); “in divenire” (se “A” diventa “B” vuole dire che “A” diventa “non-A” o “non-B” diventa “B”, ma il non essere non è quindi il divenire è apparenza). I grandi filosofi greci, Democrito, Platone, Aristotele sono tali perché hanno trovato una soluzione ai tre paradossi di parmeni-de, senza rinunciare al valore reale del p.d.n.c., ovvero ad ammettere che le leggi logico-matematiche del pensiero ab-biano a che fare con la realtà, essendo così con Parmenide i padri del pensiero scientifico occidentale. Democrito, di-mostrò infatti che per ammettere la molteplicità quantitativa basta ammettere non il non-essere, ma il “pieno” e il “vuoto”, ovvero la presenza/assenza di materia che così diventa principio della molteplicità quantitativa. L’errore di Democrito fu di assolutizzare la sua scoperta, ovvero di pretendere di ridurre anche la diversità qualitativa a differenza quantitativa (di ordine e posizione di “atomi”, intesi come parti indivisibili della materia: se la materia fosse stata divi-sibile all’infinito il “pieno” avrebbe coinciso col “vuoto”, violando il p.d.n.c.) e il divenire al solo moto locale (pas-saggio di un “pieno” da uno spazio “vuoto” ad un altro). Spetta così a Platone aver scoperto l’irriducibilità del “diver-so” qualitativo (formale) al “differente” quantitativo (materiale). Infatti, la molteplicità di oggetti materiali dello stesso tipo (p.es., n cani, n gatti, etc.), o anche semplicemente, di oggetti unitari, binari, trinari, etc. (un gatto, un cane…, due gatti, due cani…) rimanda sempre a delle unicità irripetibili, ovvero a degli universali non moltiplicabili, non replica-bili (“l’esser-cane”, “l’esser-gatto”, “l’esser-uno”, “l’esser-due”, etc.) alla base della diversità di oggetti molteplici. Se dunque la “materia” è principio di molteplicità e ripetibilità, la non-materia o “forma” è principio di unicità. L’unità quantitativa materiale moltiplicabile, iterabile non è l’unicità qualitativa formale, irripetibile, non-iterabile (auto-referenziale). Di qui la soluzione al secondo problema di Parmenide: come il “vuoto” di Democrito non è negazione dell’essere, ma solo “negazione della materia” di un ente, così nella diversità il “non-B” di “A” non è la negazione di tutto l’essere di “A” ma solo della forma “a” di “A”, essendo “B” costituito della materia indeterminata “x” e della forma “b”, come “A” è costituito della materia indeterminata “x” e della forma “a”, etc. Ovviamente, per risolvere il terzo problema di Parmenide non bastano “materia” e “forma” di Democrito e Platone, bisogna introdurre le “modalità di essere” di Aristotele. Infatti, nel passaggio da “A” a “B” dove va a finire la forma “a” o da dove viene la forma “b”? Evidentemente non vanno né vengono al/dal nulla, altrimenti violeremmo di nuovo il p.d.n.c.. Quindi vuol dire che nella materia “x” di “A” era in atto la forma “a” e in potenza la forma “b” (e le altre compatibili con quella materia), mentre nella stessa materia “x” di “B” era in atto la forma “b” e in potenza la forma “a” (e le altre compatibili con quella materia). Quindi il “divenire” non è un assurdo passaggio dall’essere al non-essere e viceversa (come ancora al-cuni moderni si ostinano a pensare, p.es., Severino), ma da un modo di essere (in potenza) ad un altro modo di essere (in atto) e viceversa. Per un approfondimento, Cfr. (Basti, 2002, p. 307ss.). “Universale”, dunque, significa, da Platone in poi, letteralmente unus versus alia “unico rispetto ad altri”, ovvero “assolutamente unico”. Per esempio, vi possono essere infinite implementazioni quantitative di numeri (infinite collezioni-oggetto di “unità”, di “doppie”, di “tri-ple”,…, di n-ple), ma le nozioni universali di “unità”, “duità”, “trinità”, …, “n-ità” sono ciascuna come tale assoluta-mente uniche e come tali irripetibili e auto-referenziali. È questa la scoperta fondamentale di Platone che caratterizza tutta la logica e matematica dell’occidente, tanto da far affermare a qualcuno che non si può essere dei veri logici o matematici senza essere “platonici” (Fraenkel, 1968). Più correttamente, si dovrebbe dire che, se si vuole affermare che la logica e la matematica sono linguaggi dotati di un qualche significato rappresentazionale, denotativo di oggetti, non si può non accettare questa posizione di pensiero (realismo logico). Ovviamente, però, si può negare che matema-tica e logica formale siano linguaggi dotati di significato denotativo, ma siano solo convenzioni linguistiche che non denotano nulla (nominalismo ontologico) e quindi correttamente negare siffatta posizione, come fanno la gran parte dei logici e degli informatici contemporanei.

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di senso provocata dall’esterno. In questo modo, egli può interpretare le singole sensazioni come al-trettanti “atomi psichici” per la costruzione, mediante un principio additivo di associazione, di “idee” più complesse, così da estendere il metodo newtoniano (calcolo integrale incluso: un integra-le è solo una sommatoria di termini) dalla fisica alla psicologia, secondo il programma di ricerca che ispira la sua opera fondamentale: Il Trattato sulla Natura Umana.

Attraverso il contributo di I. Kant che, con la sua teoria della conoscenza come rappresentazio-ne, pone le basi per un’estensione alla logica della nozione matematica e in futuro insiemistica di “funzione” (Cfr., sopra §3.1.2), e soprattutto attraverso il contributo della logica simbolica di G. Frege che, con il concetto di “funzione proposizionale”30, completa l’unificazione fra logica forma-le e matematica moderne, la conseguente interpretazione puramente estensionale degli universali, l’equivalenza humiana fra stati fisici e stati mentali ha potuto essere consistentemente interpretata come identità fra di essi. Per questo, nella discussione contemporanea, tutte le teorie moniste mate-rialiste della mente sono anche definite teorie dell’identità fra stato (o evento) psichico e soggiacen-te stato (o evento) neurale. Cosa s’intende dunque con “logica estensionale” e perché in questo tipo di logica si può passare “impunemente” dalle equivalenze alle identità?

4.1.3 Logiche estensionali e assioma di estensionalità

Le logiche estensionali (e innanzitutto la logica matematica) sono infatti quelle logiche in cui vale il cosiddetto assioma di estensionalità: se due classi (cioè, l’estensione di due predicati, p.es., “essere acqua” e “essere H2O”) sono equivalenti (cioè definite sui medesimi oggetti: tutto ciò che è l’uno (p.es., “acqua”) è anche l’altro (p.es. “H2O”)), esse sono identiche, sono la medesima classe e i relativi predicati possono essere reciprocamente sostituiti senza che l’espressione linguistica cambi o addirittura perda di senso: il loro significato è infatti estensionalmente il medesimo31. Quindi, se il soggettivo “vedere il rosso” di n individui umani, equivalesse sempre all’oggettivo “essere attivato il circuito neurale xyz”, il secondo predicato potrebbe sostituire il primo. Di qui la famosa afferma-zione, che si rifà allo stesso Frege, ed è tipica della teoria dell’identità sul mente-corpo con il sog-giacente dogma empirista humiano, secondo la quale stato mentale e stato fisico (neurofisiologico) sono due modi di connotare un medesimo denotato, proprio come “stella del mattino” e “stella della sera” sono due connotazioni diverse dello stesso pianeta Venere.

Come sappiamo (cfr. sopra, §3.1.2), la teoria dell’identità fu confutata nella sua versione logica forte dall’analisi formale della stessa filosofia neo-positivista sulla logica degli enunciati intenzio-nali (“intenzionali” con la “z”). Questi enunciati, per mezzo dei quali gli stati mentali coscienti sono necessariamente espressi dal medesimo soggetto che li prova (I-talk), hanno infatti la forma logica tipica, sempre riferita a un contenuto, degli “enunciati di credenza” (“Io… qualcosa”, p.es.: “Io penso, vedo, sento, voglio… qualcosa”). Essi si distinguono così radicalmente dagli enunciati dell’osservatore esterno (O-talk) mediante i quali il neurofisiologo descrive in forma scientifica ed in linguaggio estensionale i corrispondenti stati neurofisiologici. E’ evidente che i due generi di enunciati sono reciprocamente irriducibili poiché, mentre i primi sono necessariamente espressi in una logica intensionale (“intensionale” con la “s”) dei predicati — una logica in cui l’assioma di estensionalità non vale —, i secondi, in quanto enunciati di misura su grandezze fisiche, sono espressi in una logica estensionale.

30 Il concetto di “funzione proposizionale” è più esteso ed include quello, originario, di “funzione matematica”, ovvero

di una funzione proposizionale del linguaggio matematico. Una funzione proposizionale è infatti un’espressione predi-cativa (formula) che contiene variabili, p.es., f(x) che possono appartenere a insiemi (classi) qualsiasi (p.es., la classe degli oggetti “rossi”, per cui se x denota “il sangue”, la funzione proposizionale f(x) potrebbe essere validamente sosti-tuita dalla proposizione “il sangue è rosso”. Una funzione matematica contiene invece variabili che possono apparte-nere solo ad insiemi (classi) numerici e quindi le f denotare solo relazioni fra insiemi numerici (p.es., “essere doppio” con x che in questo caso può appartenere solo ad un particolare insieme numerico, quello dei numeri pari).

31 Senza questo assioma, non potremmo usare il segno “=” in matematica. Infatti “5 = 2+3” non denota per sé un’identità, ma solo un’equivalenza…

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Ora, la distinzione fra logiche estensionali e intensionali possono, almeno per i nostri scopi limi-tati, essere ridotte a tre gruppi di differenze. Esaminiamoli brevemente.

4.2 LOGICHE ESTENSIONALI VS. LOGICHE INTENSIONALI

4.2.1 Negazione degli assiomi di estensionalità e generalizzazione esistenziale

Per comprendere immediatamente cosa questa irriducibilità (intensionale/estensionale) signifi-chi è sufficiente ricordare innanzitutto che molti usi dei nostri linguaggi ordinari divengono imme-diatamente insignificanti non appena applicassimo ad essi l’assioma di “estensionalità”, appena illu-strato, e il connesso assioma di “generalizzazione esistenziale”32 (Cfr. (Zalta, 1988); (Basti & Perrone, 2001); (Basti & Perrone, 2002); (Basti, 2006)). Per esempio, si consideri nel linguaggio re-ligioso la formula “Dio Onnipotente, benedici quest’acqua…”, oppure, nel linguaggio poetico il famoso verso del Petrarca: “chiare fresche e dolci acque ove le belle membra pose colei che solo a me par donna”. Se applicassi i due suddetti assiomi, i due asserti diverrebbero immediatamente sen-za senso: “Qualcosa Onnipotente, benedici quest’H2O”. Oppure: “Chiare fresche e dolci H2O ove le belle membra pose qualcosa che solo a me par donna”. Quindi, una prima differenza fra logiche estensionali e intensionali è quella secondo la quale nelle logiche intensionali, non valendo gli as-siomi di estensionalità e di generalizzazione esistenziale, il significato e la verità delle espressioni dipendono criticamente da ciò che s’intende soggettivamente (da parte di individui o di gruppi) con i termini (intensione) di una proposizione, e non soltanto da ciò cui oggettivamente i termini si rife-riscono (estensione). Se Popper diceva che l’epistemologia della scienza (fisico-matematica) mo-derna è “epistemologia senza soggetto conoscente” è perché le scienze fisico-matematiche moderne fanno uso esclusivamente di logiche estensionali. 4.2.2 Negazione del principio di vero-funzionalità e verità dei calcoli intensionali

Altra proprietà tipica della logica estensionale e quindi dei calcoli logici estensionali è il princi-pio di vero-funzionalità. Ovvero, data una funzione proposizionale complessa (p.es., una funzione composta da n funzioni proposizionali semplici, p, q, r… (cioè, sostituibili con altrettante proposi-zioni elementari soggetto-predicato, tipo “il sangue è rosso)), ottenuta legando queste mediante l’uso di connettivi logici (“non” (¬) , “e”(∧), “o”(∨), “se…allora”(→), “equivale”(≡),…) come per esempio, (“il sangue è rosso, p, e (il sangue è) liquido, q,: in simboli p∧q”), la verità/falsità della proposizione complessa dipende esclusivamente (necessariamente) dalla verità/falsità delle propo-sizioni componenti (nel nostro caso, la verità della congiunzione p∧q dipende univocamente dalla verità di p e dalla verità di q: se il sangue non fosse rosso o non fosse liquido o non fosse né l’uno né l’altro, la proposizione “il sangue è rosso e liquido” sarebbe falsa).

Prendiamo ora la proposizione: “Giulio Cesare scrisse il ‘De Bello Gallico’ mentre combatteva in Gallia”; oppure la proposizione “E’ necessario che tutti gli Italiani paghino le tasse”. E’ evidente che la verità di ambedue queste proposizioni complesse non dipende esclusivamente (necessaria-mente) dalla verità delle proposizioni componenti. Dal fatto che sia vero Giulio Cesare abbia scritto il “De Bello Gallico” e che abbia combattuto in Gallia non deriva che sia vera la proposizione com-plessa che afferma la loro simultaneità temporale. Né dal fatto che non tutti gli Italiani (ovvero dalla non-verità della congiunzione logica di n proposizioni, una per ciascun italiano contribuente, affer-mante che quell’italiano paga le tasse) ne deriva la non-verità che “sia necessario” che tutti le pa-ghino. La “necessità” cui qui si fa riferimento non è infatti “estensionale”, ma è di tipo “deontico” (necessità legale/morale, quindi “obbligo”).

Le logiche “temporali” (tense logic) del primo esempio e quelle “deontiche” (deontic logic) del secondo sono dunque due esempi di logiche intensionali perché nei loro calcoli (dimostrazioni) non

32 Tale assioma afferma che qualsiasi uso sensato di una predicazione su individui (p. es., l’enunciato “Socrate muore”),

implica la sensatezza della generalizzazione esistenziale di quella predicazione (p. es, se “Socrate muore”, allora “esi-ste qualcosa che muore”).

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vale l’assioma di vero-funzionalità (Galvan, 1991). Valgono invece altri assiomi di logica modale che introducono nei calcoli e quindi nelle dimostrazioni anche della logica simbolica moderna, co-me già era nella logica classica di ispirazione aristotelica e scolastica, le distinzioni di vari tipi e gradi di necessità/possibilità (“l’essere si dice in molti modi”) nelle inferenze di altrettante forme di ragionamento e dunque di logiche intensionali33.

Varie interpretazioni degli assiomi fondamentali di logica modale, legati ad altrettante combina-zioni di sequenze dei due operatori modali fondamentali, di necessità “” e possibilità “◊”, sono divenute disponibili alla logica simbolica moderna dando luogo ad altrettante possibilità di forma-lizzazioni e simbolizzazioni consistenti (metodi di dimostrazione consistenti) di logiche intensiona-li, tipiche delle varie discipline umanistiche (logiche, ontologiche, metafisiche, epistemologiche, etiche, teologiche, etc.). Le principali sono (Galvan, 1991):

1. Logiche aletiche: distinzione fra tipi e gradi di necessità/possibilità logiche (=necessità legata a leggi logiche) e di necessità/possibilità ontologiche, o in senso fisico o in senso metafisico (= necessità legata a relazioni causali)34.

2. Logiche epistemiche: distinzione fra vari tipi e gradi di necessità/possibilità epistemiche inter-pretati come altrettanti tipi e gradi di sapere (certezza)/credenza (opinione).

3. Logiche deontiche: distinzione fra vari tipi e gradi di necessità/possibilità deontiche interpreta-ti come altrettanti tipi e gradi di obbligo/permesso, in senso morale, o in senso legale.

4. Logiche assiologiche: distinzione fra vari tipi e gradi di necessità/possibilità assiologiche in-terpretati come altrettanti tipi e gradi di ottimalità/sub-ottimalità nella determinazione di si-stemazioni valoriali cui orientare le scelte volontarie.

33 P.es., quando considero la necessità nel senso di una legge fisica, vale il seguente assioma T di logica modale:

“α⇒α”: “se è vero necessario-α, allora è vero α”. Ricordiamo che il simbolo “⇒”, non è il semplice connettivo condizionale “se…allora” ma il simbolo meta-linguistico “è vero che, se… allora”. Esso infatti connetterà non due simboli di proposizioni, ma due meta-simboli di proposizioni (simboli che stanno per un’infinità di simboli proposi-zionali, p, q, r, …, e per questo si usa convenzionalmente una lettera greca, α, nel nostro caso). E’ da notare che la re-lazione condizionale in questione è definita per uno stesso simbolo meta-proposizionale α, sia come protasi che apo-dosi della condizione, dunque è una relazione condizionale riflessiva, come se dicessi “se è vero che piove, allora pio-ve”. Nel caso della legge di Galilei “se è vero (per la legge galileiana della caduta dei gravi) che è necessario che que-sta pietra cada, allora questa pietra cade”. E’ chiaro perciò che l’assioma T di logica modale che definisce la logica delle leggi fisiche (e metafisiche) è un principio di logica ontica non può valere in campo deontico (morale e legale), altrimenti cadremmo nel determinismo fisico. Non è affatto vero, infatti, che “se è vero (per la legge dello Stato) che è necessario che tutti i contribuenti paghino le tasse allora tutti i contribuenti pagano le tasse”. Nelle logiche deontiche vale allora l’assioma D di logica modale, più debole di T: “α⇒◊α”:“se è vero necessario-α allora è vero possibile-α” che rende simbolicamente molto bene l’assioma fondamentale di filosofia morale classica: impossibilia nemo tene-tur, ovvero che la possibilità di seguire una norma è condizione necessaria (anche se non sufficiente: sono libero sem-pre di disubbidire) per la sua obbligatorietà. Quindi: “se è vero che α è obbligatorio (“necessario” in senso mora-le/legale), allora α è (moralmente/legalmente) possibile”. Dal che si vede bene anche la differenza fra norma e impu-tabilità morali e norma e imputabilità legali. Infatti, laddove moralmente, la possibilità e dunque l’imputabilità sono soggettive (se non ho i soldi per pagare le tasse, allora non sono moralmente imputabile se non le pago, almeno che non abbia sperperato o mal usato i soldi), legalmente la possibilità è oggettiva. P.es., per commercianti, professionisti e imprenditori italiani è stabilita dai famigerati “studi di settore”, cosicché se non pago le tasse perché non ho soldi, ma per gli studi di settore dovrei avere quella disponibilità, resto comunque imputabile per lo Stato.

34 Diversamente da Leibniz che, per il suo rappresentazionismo, confuse sistematicamente fra legge e causa, quando si parla di “necessità causale” si parla di un tipo di necessità che prescinde dalla possibilità di normare la relazione cau-sale stessa attraverso leggi, sia fisiche (si pensi, p.es., processi causali di tipo casuale, ovvero, logicamente impredici-bili nei sistemi fisici non-lineari fuori dall’equilibrio (se fossero all’equilibrio varrebbero le leggi gaussiane della pro-babilità matematica) o “sistemi caotici”), che metafisiche. Si pensi, p.es., al caso tipico in teologia della creazione del-la causalità divina che è necessitata dal punto di vista della creatura, ma non del Creatore: il mondo ha bisogno di Dio per esistere, ma Dio non ha bisogno del mondo per essere Dio, con buona pace di Hegel che metteva la necessità da tutt’e due le direzioni, “immanentizzando” il Dio della Bibbia, sottoponendoLo cioè (in maniera blasfema per un cre-dente) a legge logica.

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4.2.3 Teoria descrittiva vs. teoria causale della referenza singolare (riferimento alle cose)

Un’ultima distinzione, è divenuta chiara solo negli ultimi anni, grazie allo sviluppo della neona-ta ontologia formale35. Ovvero, si tratta dell’applicazione dei principi delle logiche modali e inten-sionali sopra accennati, alla formalizzazione-simbolizzazione dei linguaggi ordinari — e dunque delle ontologie ad esse sottese tipiche dei vari gruppi linguistici — al fine di poter sviluppare nel prossimo futuro la “terza rivoluzione informatica”, quella del cosiddetto “Web3” del web semantico e quindi dei database e della robotica in grado di interagire coll’interlocutore, come se lo capissero, simulando cioè compiti e comportamenti “intenzionali”. E’ a questo livello, in particolare, che le “logiche intensionali” mostrano la loro capacità di non essere soltanto una classe particolare di logi-che deduttive, appunto non-estensionali, legate cioè a forme di ragionamento deduttivo diverse da quello matematico (causale, epistemico, deontico, etc.) in quanto basate su assiomi modali e non sull’assioma di vero-funzionalità (Cfr. nota 33), ma a vere e proprie forme di “logica della scoper-ta”, induttiva e non solo deduttiva. D’altra parte, come abbiamo già accennato:

1. Se è vero come è vero che le logiche intensionali sono le logiche del comportamento e dell’intelligenza intenzionale nei suoi molteplici usi e sviluppi, e che

2. “Paradigma intenzionale” significa — come illustreremo meglio in seguito — precedenza e preminenza dell’azione sulla rappresentazione, qui ancora non si vede il collegamento fra lo-giche modali e intensionali e “azione intenzionale”.

Questo passaggio, come detto, si ha nel campo logico-analitico, ma anche informatico contem-poraneo, attraverso l’ontologia formale che recupera alla logica simbolica moderna quella “relazio-ne con le cose” in grado di modificare le nostre teorie che la “relazione con gli oggetti” come “proiezione delle nostre teorie sul mondo” effettivamente non ha (cfr. Relazione del prof. Carere in questo Convegno). Per capire questo punto essenziale bisogna ricordare quelli che sono i fondamen-ti stessi della logica contemporanea, intesa come disciplina semiotica, ovvero come analisi logica o metalinguistica di un linguaggio, concepito come insieme di segni dotati di senso. In base a tali fon-damenti, bisogna ricordare che siffatta analisi può essere effettuata considerando tre classi di rela-zioni che le varie parti (parole, frasi, discorsi, etc.) possono avere:

1. Con il mittente e con il ricevente di una comunicazione linguistica; 2. Con le altre parti del linguaggio 3. Con gli oggetti linguistici o extra–linguistici (cose) cui le parti del linguaggio si riferiscono.

In base a tale distinzione abbiamo la ripartizione della semiotica e della logica (operata da C.W. Morris) in:

1. Pragmatica: studio dei linguaggi in riferimento alle relazioni dei diversi segni con gli agenti della comunicazione ed alla capacità del linguaggio di modificare i comportamenti (p.es., pub-blicità, retorica, etc.). Nella logica classica e aristotelica, questa parte della logica era definita anche Dialettica.

2. Sintattica: studio dei linguaggi in riferimento alle relazioni dei diversi segni linguistici fra di loro, prescindendo sia dai contenuti che dagli agenti della comunicazione. Nella logica classica e aristotelica, questa parte della logica era definita anche Logica formale.

3. Semantica: studio dei linguaggi in riferimento alle relazioni dei diversi segni con i loro oggetti intra– o extra–linguistici (= referenti). Nella logica classica e aristotelica, questa parte della lo-

35 Ricordiamo che il termine “ontologia formale” si deve a Edmund Husserl che con esso intendeva denotare il para-

digma sommo di “scienza eidetica” di “scienza delle cose” e non “degli oggetti”, ovvero delle proiezioni delle nostre teorie sulle cose. In quanto formalizzabile e simbolizzabile in un particolare calcolo modale delle relazioni, quello del-la semantica modale di Kripke con alcune modifiche e aggiunte (Cfr. (Cocchiarella, 2007) e (Basti, 2007)), l’ontologia formale husserliana, allargata all’ontologia dell’azione intenzionale di un Merlau-Ponty, secondo i dettami dell’ontologia aristotelica dell’atto intenzionale, si può passare dalla scienza eidetica husserliana ad una vera e propria ontologia formalizzata, strumento per il dialogo interculturale (fra filosofie e religioni) e interdisciplinare (fra discipli-ne scientifiche e umanistiche), oltre che per un’infinità di applicazioni scientifiche in campo psicologico e psicotera-peutico, oltre che delle scienze cognitive in generale e delle loro applicazioni tecnologiche.

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gica era definita anche Logica materiale e, nella logica fenomenologica husserliana, Logica dei contenuti.

Ora, è chiaro che all’interno di un approccio rappresentazionale la logica estensionale dei conte-nuti (ma anche quella intensionale se non si estende esplicitamente all’analisi formale delle azio-ni)36 non può eccedere il livello dell’analisi semantica e sintattica e mai estendersi “al di là del lin-guaggio” o della “coscienza” verso le cose stesse. Dal punto di vista formale, infatti, esistono una molteplicità di teoremi di limitazione semantici, che si rifanno essenzialmente ai teoremi di seman-tica formale di Tarski e di Gödel, che dimostrano come risulti irrisolvibile dal punto di vista “orto-dosso” della teoria fregeana descrittiva della referenza37, il problema della referenza singolare o di-retta di un termine ad una cosa, singolare, esistente. Se dunque generalmente dall’interno dell’epistemologia rappresentazionale si parla del realismo cognitivo in termini neo-kantiani, come di una pura ipotesi mai verificabile, è essenzialmente per l’impossibilità della soluzione del proble-

36 L’analisi formale delle azioni può essere effettuata attraverso quella che è la disciplina-principe della logica formale

moderna: la logica delle relazioni. Così, il problema della referenza delle rappresentazioni concettuali alle cose real-mente esistenti diviene, nel calcolo delle relazioni della teoria causale della referenza il problema di come giustificare il passaggio da una collezione di relazioni causali (formalmente: una relazione transitiva e seriale) da un oggetto reale (p.es., l’acqua) ad un insieme di relazioni di equivalenza (formalmente un insieme di relazioni transitive, simmetriche e riflessive) fra oggetti rappresentazionali di un agente cognitivo che costituiscano una classe di equivalenza (p.es., il concetto di acqua nelle sue rappresentazioni mentali). Per questo, però l’analisi logica deve estendersi dal livello sin-tattico-semantico a quello prammatico che possa includere cioè l’analisi formale di azioni e non solo di rappresenta-zioni. Tale analisi è quella che si può realizzare nella semantica modale delle relazioni di S. Kripke, estesa ad include-re alcuni assiomi fondamentali dell’ontologia tommasiana (Basti, 2007).

37 Con questa teoria s’intende l’interpretazione data da G. Frege nella sua semantica del fatto evidente che la referenza di un termine ad un oggetto (p.es., del termine “lampada” alla lampada reale, singola, esistente sul mio tavolo), dipen-de da ciò che si “intende” concettualmente con quel termine. In altri termini l’estensione o significato (Bedeutung) o riferimento (referenza) o denotazione dei termini predicativi dipende dall’intensione o senso (Sinne) o connotazione del termine stesso. E’ chiaro che linguisticamente se non c’è accordo sul senso (su ciò che s’intende con un termine) non ci può essere accordo neanche sul riferimento ad oggetto del termine stesso, come appare dai termini ambigui (p.es., “sale” che può denotare, riferirsi, tanto all’ipoclorito di sodio, quanto all’azione di una terza persona di salire una scala, a seconda del senso che associamo al termine, a seconda di ciò che intendiamo con esso). Ora, la teoria fregeana cosiddetta “descrittiva” o “ortodossa” della referenza singolare di un termine afferma che il senso si identifi-ca con una formulazione abbreviata di una descrizione definita dell’oggetto. Dove con “descrizione definita” s’intende una formula predicativa che includa un’identità che consenta di definire l’unicità dell’oggetto singolare esistente al quale il termine si riferisce. Ammettiamo che si voglia dire che “esiste un unico filosofo”, in simboli ∃!x Fx ovvero “esiste un unico x tale che x è filosofo”, questa formula per esprimere l’unicità di x come filosofo corrisponde alla de-finizione predicativa con identità: “∃x Fx ∧∀y (Fy →y=x)”, ovvero “esiste un x tale che x è filosofo e per ogni y se y è filosofo, allora y è uguale ad x”. Ora ammettendo che la denotazione di un termine singolare supponga una definizione descrittiva del genere, facciamo l’esempio del filosofo Platone del quale vogliamo connotare l’unicità non nel senso che non ci siano stati prima e dopo di lui altri filosofi, ma nel senso che, in quanto individuo, è stato filosofo in modo unico e irripetibile. Così per denotare il referente del nome proprio “Platone”, potremmo usare la connotazione “Ate-niese”, o abitante di Atene, ma essa non è sufficiente a connotare l’unicità di Platone, in quanto Atene non fu una città a un solo abitante. Molto meglio è definire Platone come “il maestro di Aristotele” che simbolicamente si può scrivere:

( )( )( )! ! ,x Px y Ay M x y∃ ∧ ∃ ∧ , ovvero: “esiste un unico x tale che x è Platone ed esiste un unico y tale che y è Aristo-

tele e x è il maestro di y”. Come si vede il problema, irrisolvibile, è legato all’autoreferenzialità dei termini singolari di cui proprio Platone già per primo si accorse nella sua teoria degli universali (Cfr. sopra nota 29) e ben evidenziato da Tarski in termini di semantica formale. Il predicato “essere maestro di”, in quanto predicato generico, è un predica-to o relazione bi-argomentale M(x,y). In questo senso, esistono tanti maestri, quante sono le coppie ordinate ammissi-bili, x,y, docente-discente. Ma quando vogliamo indicare l’unicità di una relazione di docenza quale quella Platone-Aristotele — davvero unica se pensiamo alla genialità dei personaggi — la relazione da due diventa a tre termini, avendo come ulteriore argomento la relazione stessa, ovvero M’(x,y,M). Dove M’ è una relazione di second’ordine (una meta-relazione) rispetto ad M. Stesso problema se voglio definire l’unicità di M’ rispetto a tutte le altre relazioni docente-discente fra geni, avrò bisogno di una meta-meta-relazione M’’ a quattro termini M’’(x,y,M, M’) e così all’infinito, rendendo il problema della referenza singolare in termini di una logica estensionale delle relazioni un pro-blema logicamente irrisolvibile. Il problema è dato dal fatto che l’interpretazione della denotazione singolare ∃!x Fx implica che la singolarità sia definita rispetto all’infinità possibile di tutti gli elementi di una data classe, nel nostro ca-so essere maestro-filosofo come l’esplicitazione della suddetta denotazione in termini di descrizione definita “∃x Fx ∧∀y (Fy →y=x)” evidenzia per la presenza in questa formula del quantificatore universale “∀”.

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ma della referenza agli esistenti singolari, dall’interno di un approccio puramente sintattico-semantico di tipo fregeano (teoria delle descrizioni definite: Cfr. nota 37) al problema della referen-za, tipico dell’epistemologia rappresentazionale.

Viceversa, quando nell’analisi logica dei linguaggi si tiene conto simultaneamente di tutte e tre le classi di relazioni che determinano la forma delle espressioni e delle argomentazioni corrette all’interno di ciascun linguaggio — si tiene conto cioè anche della dimensione “pragmatica” e non solo “sintattica” e “semantica” del senso e del significato —, non siamo più nell’ambito della logica formale rappresentazionale, ma dell’ontologia formale. Infatti il problema della referenza reale ex-tra-linguistica, irrisolvibile all’interno dell’approccio rappresentazionale, sintattico-semantico, me-diante la fregeana “teoria descrittiva” della referenza (cfr. nota 37), diventa risolvibile mediante la cosiddetta teoria causale della referenza (Cfr. nota 36 e (Donnellan, 1966); (Kaplan, 1978); (Putnam, 1975); (Kripke, 1980); nonché, per una sintesi aggiornata, (Salmon, 2005)), che fa del momento rappresentazionale, sintattico-semantico, dell’atto cognitivo una funzione del momento intenzionale, prammatico, dove cioè la “rappresentazione” dipende dall’azione causale a/da il sog-getto reale conoscente da/a l’oggetto reale conosciuto (Cfr. (Basti, 2007); (Cocchiarella, 2007)38).

Come si vede, dunque, il problema mente-corpo è dunque, prima ancora che ontologico, un pro-blema logico: quello della non riducibilità di molti usi significativi del linguaggio ordinario — ef-fettivamente, tutti quelli strettamente correlati a stati coscienti dei parlatori — ai soli linguaggi estensionali delle moderne matematiche. Naturalmente, tutto ciò non significa che:

1. Il problema mente-corpo è solo un problema logico, come W.V.O. Quine — seguito da molti filosofi della mente, Patricia e Paul Churchland prima di tutti — ha affermato (Quine, 1989, p. 133).

2. I calcoli della moderna logica simbolica non possano evolvere così da includere anche calcoli intensionali ed i calcoli della teoria causale della referenza per risolvere problemi logici al-trimenti irrisolvibili (p.es., simulare capacità semantiche intenzionali nei moderni calcolatori).

4.3 DALLA LOGICA DELLA GIUSTIFICAZIONE ALLA LOGICA DELLA SCOPERTA

4.3.1 Dalla teoria causale della referenza al paradigma intenzionale

Spetta ancora a H. Putnam segnare il punto di svolta dall’originario paradigma rappresentazio-nale del funzionalismo, da lui stesso inaugurato agli inizi degli anni ’60 (Putnam, 1960), a quello in-tenzionale agli inizi degli anni ’90 dello scorso secolo (Putnam, 1988), abbandonando J. A. Fodor, suo antico discepolo, solo a difendere i destini del funzionalismo nelle scienze cognitive (Fodor, 1980). Il punto di svolta è legato allo sviluppo, ad opera di Putnam stesso, di Kaplan e di Kripke di quella che viene definita la teoria causale della referenza di cui abbiamo appena parlato (Cfr.

38 Chiave di volta del passaggio a un’ontologia formale e la sostituzione della teoria fregeana della predicazione, sog-

giacente alla sua teoria della referenza, secondo la quale l’unita della proposizione semplice dipende con un’analogia chimica, dalla saturazione della parte “insatura” della proposizione (predicato) con la parte “satura” (soggetto) ad una teoria post-fregeana di “doppia saturazione” soggetto/predicato (Cfr. (Cocchiarella, 2007); (Basti, 2007)). Come ab-biamo dimostrato altrove (Cfr. (Basti, 1995); (Basti & Perrone, 2001)), questa teoria si rifà, senza che Cocchiarella ne fosse consapevole, anche se da vero amico mi ha ringraziato della segnalazione, alla soluzione di Tommaso del pro-blema della referenza singolare (vivissimo nella metafisica e teologia medievale — si pensi alla hecceitas di Scoto, dopo Tommaso — quanto e più delle ontologie formali e delle scienze cognitive della post-modernità) mediante la teoria dell’adeguazione soggetto-predicato nella formulazione del giudizio, guidato dall’azione causale delle cose sui sensi (teorie della conversio ad phantasmata attraverso il contributo della emotività (cogitativa), dove la mutua ade-guazione soggetto/predicato alla res, sulla base dei dati sensibili, avviene, per preparare il giudizio intellettivo, come base cognitiva dell’adaequatio intellectus ad rem, nella formulazione del giudizio sulla res). Ciò che manca a Coc-chiarella — ma non è uno scienziato cognitivo — è il collegamento formalizzato di questa teoria della doppia adegua-zione/saturazione soggetto-predicato, da una parte, alla formalizzazione della teoria causale della refernza mediante la semantica modale della relazioni di Kripke, dall’altra allo studio delle dinamiche caotiche del cervello in chiave di computational intelligence, come base del comportamento intenzionale del soggetto umano (Cfr. (Basti & Perrone, 2002); (Basti & Perrone, 2001); (Basti, 2006); (Freeman, How brains make up their minds, 2001)).

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(Putnam, 1975) e nota 36). Così, la motivazione che Putnam stesso evidenzia nel suo libro dell’88 per giustificare questa sua “conversione”, è che il rappresentazionismo non può essere paradigma adeguato di una scienza cognitiva perché condannato a rendere formalmente impossibile il realismo cognitivo per i problemi logici insolubili legati alla teoria descrittiva della referenza singolare di Frege (Cfr. nota 37). Si tratta, insomma, del principio del cosiddetto “solipsismo metodologico”, che sia in Kant sia in Carnap, sia nel funzionalismo di Fodor, condanna sistematicamente, il rappre-sentazionismo cognitivo a far sì che oggetto della conoscenza possano essere solo le rappresenta-zioni logiche del reale entro il cervello, senza poter mai infrangere lo schermo della coscienza, co-me nella caverna platonica, per vedere cosa ci sia “dietro lo specchio” dell’autocoscienza (Kant) o della (parziale) autorferenzialità del linguaggio (Carnap), anche quando questo fosse il neuronale “linguaggio del pensiero” di fodoriana memoria (Cfr. (Fodor, 1980) (Fodor, 2008)).

Nei termini di Putnam, insomma, la mente umana non può essere una MTU perché questa è in-capace di fare ciò che la mente intenzionale è in grado di fare: ridefinire i simboli del suo calcolo logico sulla realtà, in una relazione che è fra due sistemi in continua, reciproca modificazione (Putnam, 1988). 4.3.2 Scienze cognitive e paradigma galileiano di scienza

L’evoluzione delle scienze cognitive dal paradigma rappresentazionale a quello intenzionale, esteso ad includere anche la teoria causale della referenza — e quindi capace di formalizzare anche la teoria dell’intenzionalità oggettiva aristotelico-tomista e non solo quella husserliana-fenomenologica della intenzionalità soggettiva (Cfr. (Basti, 1995) (Basti & Perrone, 2001)) — se-gna anche il passaggio da un paradigma moderno di scienza galileiana ad uno post-moderno. Cosa si intende con questa affermazione?

Il paradigma galileiano di scienza, inteso nel suo senso più generale, in quanto fa tutt’uno con l’epistemologia ipotetico-deduttiva delle scienze moderne, afferma essenzialmente due cose:

1. L’ipotesi logico-matematica precede l’osservazione empirica. Contro l’ideale “contemplati-vo”, teoretico della scienza fisico-matematica greca, per Galilei la natura va interrogata alla lu-ce delle nostre ipotesi logiche e matematiche su di essa. Metaforicamente, se parliamo il suo linguaggio, il linguaggio matematico, la natura ci risponde.

2. L’osservazione empirica è essenzialmente atto di misura. Permettere alla natura di rispondere alle nostre domande in linguaggio matematico significa che, di nuovo contro l’ideale contem-plativo greco, l’osservazione empirica in senso moderno significa operare delle misurazioni sulla natura stessa, in base a quegli “assiomi di misura” e ai conseguenti “strumenti di misura” costruiti su quegli assiomi che fanno parte dell’apparato ipotetico di partenza della teoria. In ogni caso, l’osservazione (misurazione) empirica entra come momento successivo di controllo empirico della verità delle ipotesi, un controllo che per le leggi fondamentali della logica delle proposizioni — come Popper ha ricordato all’epistemologia del XX secolo contro certi eccessi del neo-positivismo logico — può solo falsificare l’ipotesi, ma mai verificarla completamente (un’ipotesi così acquisterà un grado (statistico) sempre maggiore di verisimiglianza man mano che supera sempre nuovi controlli empirici).

Come ho illustrato altrove (Basti, 2002, p. 29ss), i contributi successivi di Descartes, Newton, Kant hanno fatto sì che il paradigma moderno di scienza galileiana si identificasse con quello rap-presentazionale, dove per l’assoluta preminenza delle scienze fisico-matematiche nel paradigma moderno, la logica delle teorie scientifiche fosse quella puramente estensionale del calcolo funzio-nale newtoniano e dei suoi successivi sviluppi — logica-matematica fregeana inclusa —, abbando-nando completamente quei contenuti di logica e matematica intensionali che pure, nell’apparato matematico di un Galilei (e di un Cavalieri), abbondantemente esistevano.

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E’ chiaro che lo sviluppo delle scienze cognitive secondo l’iniziale paradigma rappresentaziona-le del funzionalismo, segue il paradigma moderno di scienza galileiana, seppure rompendo l’ “armi-stizio cartesiano” che riservava alla filosofia e non alla scienza lo studio della mente39.

Un discorso diverso va fatto per le scienze cognitive secondo il paradigma intenzionale o “post-funzionalista” che in letteratura può trovarsi sotto le diverse nomenclature di soft-computing (per opposizione all’hard computing dei modelli cognitivi basati sulla nozione di MTU) e la dizione più comprensiva di Computational Intelligence (CI), per distinguere questi approcci che studiano l’intelligenza umana nelle sue operazioni pre-simboliche e pre-rappresentazionali da quelli simboli-co-rappresentazionali dell’Artificial Intelligence (AI), che si muove all’interno del paradigma fun-zionalista.

E’ chiaro infatti che la CI ed in genere il paradigma intenzionale alle scienze della mente, se da una parte sono “scienze galileiane” nel senso di supporre determinate ipotesi di calcolo (intensiona-le e non solo estensionale) e di formalizzazione logica delle ipotesi, e di far seguire ad essi un con-trollo empirico, neurale e computazionale (al calcolatore), in grado di falsificare o corroborare le ipotesi di partenza, pur tuttavia, per la loro indole post-funzionalista e anti-rappresentazionale, sono fra le principali rappresentanti di un paradigma “post-moderno” di scienza galileiana. Un para-digma che proprio nel dialogo costruttivo con le discipline umanistiche, e in particolar modo le on-tologie delle diverse culture, ha il suo centro propulsore (Basti, 2002).

5 LOCALIZZAZIONE DELLA MENTE NEL PARADIGMA INTENZIONALE

Abbiamo ricordato all’inizio come esista uno stretto rapporto fra teorie “duali” (né dualiste né moniste) della mente e approccio intenzionale alle funzioni cognitive. Non sorprende dunque che un recupero dell’una e dell’altra nelle scienze cognitive odierne “post-funzionaliste”, si accompagni ad una riscoperta di una localizzazione della mente “fuori della testa”. Una conseguenza pubblicizzata, come il biglietto da visita più ad effetto del nuovo paradigma (Noë, 2009) (Cfr. anche (Clark, 1999); (Noë, 2004); (Clark, 2008)).

Al di là dei “fuochi di artificio” propagandistici, questa teoria ha addirittura una millenaria tra-dizione, che risale a Aristotele e a Tommaso d’Aquino40 e che dunque va ben al di là della scuola fenomenologica e dell’approccio cosiddetto “ecologico” di J. J. Gibson in psicologia (Cfr. (Gibson, 1966); (Gibson, 1986)), o dell’approccio “sistemico” di G. Bateson, e di H. R. Marturana e F. J. Va-rela in scienze cognitive (Cfr. (Bateson, 2002); (Marturana & Varela, 1992)) cui di solito, e peraltro correttamente, ci si riferisce (Basti, 2006). D’altra parte, andando oltre i pur necessari riferimenti storici, basta riflettere un attimo sul principio “duale” che “la mente” o “anima” non è una cosa né “spirituale” né “materiale”, ma è “forma che organizza una materia”, per inferire immediatamente che essa non può essere collocata “dentro” nessuna struttura materiale del corpo che essa organizza. Ecco perché invece di essere collocata nel corpo e al limite “nella testa”, come in tutte le teorie sia dualiste che moniste, nelle teorie duali è la mente che “contiene” il corpo. E’ considerata, infatti,

39 Qualcuno, e non a torto, potrebbe dire che l’armistizio è stato rotto dal funzionalismo nel senso di una riduzione della

res cogitans cartesiana al meccanicismo della res extensa. Resta comunque il fatto della rottura dell’armistizio carte-siano stesso.

40 Diceva, appunto, che entità non materiali come “l’anima”, possono essere localizzate rispetto alla materia che esse controllano e organizzano (gubernant et regent, diceva letteralmente Tommaso), non mediante la relazione di contatto fra le dimensioni rispettive di un corpo “contenente” rispetto ad uno “contenuto”, come avviene fra entità materiali, bensì mediante “l’estensione della capacità di controllare e organizzare (gubernare et regere) la materia” che proprio grazie a questo controllo e a quest’organizzazione “attivi”, costituiscono un corpo vivente, un “organismo” con speci-fiche facoltà. Localizzare l’anima e la sua azione in specifiche parti del cervello, come faceva ai suoi tempi l’interazionismo dei platonici, è per Tommaso del tutto erroneo e fuorviante (Cfr., p.es., TOMMASO D’AQUINO Summa Theologiae, I,52,1c; 76,8c, etc.). Con lo stesso principio Tommaso giustificava l’onnipresenza di Dio nel creato, pro-prio per la Sua capacità di governare ogni cosa. In questo modo soltanto aveva per lui senso dire che tutto l’universo “è in Dio”, come affermano la Bibbia e la teologia. Per una ricostruzione, Cfr. (Basti, 1995, p. 266ss.).

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come un insieme formale di relazioni di organizzazione (comunicazione e controllo) fra parti mate-riali in processo, in continua modificazione fisico-chimica, che garantisce a siffatta totalità dinamica una sua unità, identità e specificità nel tempo, a loro volta plastiche, dinamiche, in continua modifi-cazione di adeguamento a un ambiente che cambia. Così, molto efficacemente, si esprimeva D. M. MacKay, uno dei fondatori delle scienze cognitive, e precursore dell’attuale approccio post-funzionalista in esse:

Cercare una localizzazione della "mente" non è un compito che possa essere eseguito per un'analisi del cervello in componenti, cercando "l'azione della mente" su delle parti separate. L'attività mentale potreb-be essere (in linea di principio) localizzata in determinate strutture di flusso del diagramma informaziona-le. Ma questo significa che le linee di flusso rilevanti si estenderanno in generale al di là dei confini di tutte le strutture fisiche componenti, e, nel caso dell'azione cosciente, esse potranno anche correre in avanti ed all'indietro attraverso l'ambiente. La "mente" come proprietà-di-sistema potrebbe essere di-strutta o resa invisibile con dei tentativi di localizzare una qualche sua "azione" in qualcuno dei sotto-sistemi del flusso informazionale nella quale essa è dinamicamente incorporata (MacKay, 1980).

Quando dunque in un’esperienza profonda di dialogo, nella vita come in una corretta pratica clinica, pastorale, professionale, abbiamo la viva percezione che, con il nostro interlocutore, “le no-stre anime sono in mezzo a noi”, non è solo esperienza di profonda spiritualità e umanità, ma oggi, finalmente!, è anche scienza, scienza della mente in senso galileiano post-moderno (Cfr. §4.3.2), scienza cognitiva.

6 RILEVANZA METAFISICA E TEOLOGICA DELLA TEORIA DUALE

6.1 ONTOLOGIA DEI VIVENTI SECONDO LA TEORIA DUALE

Nel sintetizzare l’insegnamento aristotelico sui corpi viventi, Tommaso d’Aquino è stato in gra-do di distinguere i classici tre regni dei viventi (vegetale, animale, umano), sulla base dei tre livelli al quale il controllo attivo (= l’azione immanente) che caratterizza l’operazione vivente all’interno di un organismo può essere eseguita. Questa distinzione segue la re-interpretazione aristotelica della metafora “cibernetica”41 dell’anima-timoniere, secondo la sua teoria della quadruplice componente della causalità fisica. Cioè, nella costruzione di un organismo vivente (la nave), è la componente fi-nale (il timoniere) che controlla quella formale (l’ingegnere navale), che a sua volta controlla quella agente (il carpentiere) la quale agisce direttamente sulla componente materiale (il legno di cui la nave è fatta).

Fuor di metafora, se ciò che caratterizza un corpo vivente rispetto al non vivente è la capacità di azione immanente, la capacità cioè di auto-determinare a diversi livelli il proprio sviluppo e/o il proprio comportamento, attraverso le azioni reciproche “circolari” fra i vari organi42, i tre livelli a cui l’immanenza dell’azione di controllo può dispiegarsi sono i seguenti (Cfr. Basti 1995, cap. 3):

1. Al primo livello ci sono le operazioni vegetative (che Tommaso ricordava essere quelle legate alla nutrizione (metabolismo), accrescimento (ontogenesi), riproduzione), comuni a tutti gli organismi, dai batteri e dai vegetali, agli uomini inclusi. A questo livello, l’organismo è capace di controllare attivamente solo l’esecuzione/non-esecuzione di alcune operazioni con forme e fini delle medesime dati “per natura” (determinate dal genoma e dalla nicchia ecologica, di-ciamo noi). P.es., l’organismo animale è capace di scegliere automaticamente quale tipo di operazione digestiva eseguire, per differenti alimenti in differenti contesti ambientali, fra un

41 Ricordiamo che “cibernetica” viene dal greco kybernetiké (corrispondente al latino ars gubernatoria), la tecnica di

guidare le navi da parte del kybernétes (latino: gubernator), il timoniere. 42 Prigogine si riferisce giustamente ai complessi “circoli di retro-azione (feed-back loop)” caratterizzati da forte non-

linearità fra le varie strutture, come ciò che caratterizza la dinamica e la chimica del vivente rispetto a quella di corpi non-viventi.

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insieme pre-determinato di strategie (forme) metaboliche, consentite dalla specie cui l’animale appartiene e quindi consentite dal suo genoma e dalla stabilità del suo ambiente vitale. Per quanto riguarda l’altro tipo di operazioni vitali “vegetative” ricordato da Tommaso, l’ontogenesi, se ritorniamo ai fenomeni legati all’epigenesi di cui abbiamo parlato all’inizio di questo saggio ricordandone anche la loro originaria ispirazione aristotelica, è facile vedere come essi costituiscano un’ottima esemplificazione della “circolarità” gerarchica dei controlli tipica di un’operazione vegetativa secondo il principio sintetizzato da Tommaso. Secondo tale principio, il livello più fondamentale (il DNA) determina i livelli più alti di organizzazione della struttura fisica di un organismo (proteoma, cellule, tessuti, organi…), ma essi sono in grado a loro volta di controllare l’ “esecuzione/non esecuzione” delle istruzioni presenti nelle comuni sequenze geniche delle cellule, “specializzandone” la riproduzione e dunque indiriz-zandola verso lo sviluppo di tessuti e organi distinti.

2. Al secondo livello ci sono le operazioni senso-motorie, che sono comuni a tutti gli animali, dai vermi e molluschi, agli uomini inclusi. A questo livello, per questo tipo di operazioni, la struttu-ra organica dell’animale è capace di controllare attivamente non solo l’esecuzione, ma anche le forme di queste operazioni — non i fini, comunque, determinati per natura (geneticamente), come altrettanti “istinti”. In altri termini, nelle operazioni senso-motorie, a differenza di quelle vegetative, è consentito qualche tipo di apprendimento. P.es., l’animale può controllare attiva-mente il pattern (forma) di attivazione del suo sistema muscolare motorio, adattandolo conti-nuamente al pattern (forma) dell’ostacolo esterno da evitare, in tanto in quanto è conosciuto dal suo apparato sensorio, al fine di soddisfare i suoi istinti di base (fame, sesso, paura). Questi a lo-ro volta non sono controllabili dall’animale, se non nel senso molto povero di poter cambiare la gerarchia naturale di questi fini in alcuni animali superiori che, per questo, sono addestrabili. P.es., si può addestrare un animale, attraverso l’opportuna somministrazione di punizioni e ri-compense a vincere la sua paura del fuoco. W. McCulloch e W. Pitts, due pionieri nello studio delle dinamiche neurali hanno parlato a tale riguardo di eterarchia dei fini come tipico del si-stema cognitivo degli animali superiori.

3. Al terzo livello vi sono le operazioni razionali tipiche dell’uomo. A questo livello, l’uomo è ca-pace di controllare i suoi istinti — localizzati da Tommaso come per noi nella parte più interna del cervello, il sistema limbico — ed anche di dare consapevolmente al proprio comportamento dei nuovi fini non determinati dalla sua biologia. Naturalmente, laddove un’ontologia dualista supporrebbe a questo punto un’azione dell’anima spirituale sulla materia con tutti i problemi che conosciamo, per soddisfare l’ontologia duale aristotelica, è sufficiente supporre che questo tipo di controllo attivo possa essere localizzato fuori del singolo organismo umano come tale, visto che riguarda l’ultimo livello del controllo organico: i fini biologici.

6.2 PERSONA E PERSONALITÀ, TRASCENDENZA E INTER-SOGGETTIVITÀ

Questo “dal di fuori” è identificato da Aristotele — come dalla maggior parte degli psicologi contemporanei (si pensi agli psicoanalisti) e degli scienziati e filosofi cognitivi (Minsky 1988; Freeman 2001; Searle 1997), fino a risalire alla nozione di “spirito oggettivo” o “spirito di un popo-lo” di Hegel che proprio per questo amava definirsi “l’Aristotele della modernità” — in un controllo esercitato dalla cultura cui ogni uomo appartiene, assimilata dal suo cervello. Più che di mente in-dividuale, allora, si dovrebbe parlare di una sorta di “società delle menti” (Minsky) o “mente collet-tivisticamente interpretata”. Per Aristotele, l’Aristotele della Politica, infatti, i Barbari, i popoli che non appartengono alla cultura e alla nazione greca, non sono dotati di anima razionale, non accedo-no ad un controllo culturale, intersoggettivo, delle proprie pulsioni. In questo senso è perfettamente equivalente per Aristotele definire l’uomo “animale razionale” o “animale politico”, animale mem-bro di una polis. Tommaso non può accettare questa interpretazione “collettivistica” della “separa-tezza” della mente razionale rispetto al corpo, anche nella versione annacquata di questa teoria for-

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nita dall’aristotelismo teologico arabo del suo tempo che, con Avicenna e Averroé, parlava di un in-telletto spirituale separato, ma unico per tutti gli uomini.

Al fine di garantire non solo uguaglianza fra tutti gli uomini, ma anche creatività ed insieme universalità intellettuale, nonché responsabilità individuale a livello morale e legale a ciascuna per-sona umana, a qualsiasi cultura appartenga — le basi della cultura occidentale nelle sue radici euro-pee, come si vede — è necessario garantire ad ognuno una sua, individuale mente “separata”. Que-sta “separatezza” dev’essere intesa, dal punto di vista delle operazioni, come la capacità effettiva data ad ogni individuo di controllare non solo i suoi istinti biologici — per questo, di fatto, anche una “società delle menti”, per parafrasare il titolo della famosa opera di M. Minsky al riguardo, po-trebbe essere sufficiente —, ma anche i propri condizionamenti culturali. Altrimenti non la singola persona, ma la sua biologia o la sua cultura sarebbero i soli attori e quindi i soli agenti responsabili, a livello morale e legale, delle azioni umane.

La natura delle facoltà razionali dell’uomo, per il controllo che “dal di fuori” del corpo debbono esercitare a livello intellettuale e volitivo sulle sue azioni, non può essere dunque di tipo esclusiva-mente culturale, sebbene questa ne possa essere una componente, forse non sufficientemente valo-rizzata dal recupero medievale tommasiano dell’antropologia duale aristotelica. Seguendo la logica interna dell’ontologia duale, l’insieme delle relazioni formali con gli altri individui della propria cultura può rendere l’uomo consapevole dei propri istinti biologici e quindi capace di controllarli, per ciò stesso dando alle proprie facoltà cognitive quella capacità di generalizzazione che è tipica dell’universalità del pensiero logico. Tuttavia, per rendere il singolo uomo davvero libero e respon-sabile a livello comportamentale e, a livello cognitivo, non solo capace “passivamente” di pensiero logico elaborato altrove, ma capace “attivamente” di elaborarlo, crearlo e formalizzarlo, occorre an-dare al di là del reticolo delle relazioni culturali.

Per risolvere questo problema di fondazione metafisica dell’individualità irriducibile della per-sona umana e quindi della sua capacità, come soggetto agente e non puramente recipiente, di logici-tà e moralità, Tommaso applica all’antropologia quello che è il cuore del suo sviluppo critico dell’ontologia aristotelica. Ovvero, estendere la spiegazione causale aristotelica dell’essere dell’essenza anche all’essere dell’esistenza degli enti — e quindi a tutto l’essere dell’ente —, così da:

1. Rendere reale e non solo logica perché causalmente fondata la distinzione fra essere-dell’essenza e essere-dell’esistenza;

2. Risolvere un’antinomia intrinseca all’ontologia aristotelica, quella cioè di una non adeguata fondazione dell’essere dell’esistente singolo, così da rendere l’ontologia aristotelica esposta ad una deviazione materialista-monista di essa, divenuta realtà, nella filosofia antica, nelle letture stoica e epicurea della filosofia aristotelica, e, nella modernità, nella sua lettura spinoziana. Ta-le antinomia consiste nel confondere l’essere dell’esistenza dell’individuo con l’essere del suo sostrato materiale (= confondere la materia come sostrato delle forme di un’essenza con la so-stanza individuale (materia+forma) esistente, come sostrato degli accidenti), rendendo per ciò stesso incomprensibile a gran parte del pensiero ellenista e moderno i due punti più geniali dell’ontologia aristotelica, e cioè: a) l’eduzione delle forme dalla potenzialità della materia, ad opera dell’azione causale di un altro ente fisico nella costituzione dell’esistente singolare; b) la distinzione sostanza-accidente.

3. Ricondurre ad una superiore unità la distinzione reale essere-essenza e la sua duplice spiega-zione causale, mediante una nozione di essere più comprensiva: quella dell’essere come atto, come effetto, cioè, di una particolare causalità efficiente da una Causa Prima, cui la suddetta distinzione non si applica e da cui tutto l’essere (essenza ed esistenza) degli enti dipende. In tal modo, in filosofia della natura, si può interpretare l’entità del singolo individuo, la sua esisten-za singolare spazio-temporalmente e causalmente determinata secondo la modalità specifica

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della sua essenza, come partecipazione all’essere come atto (all’effetto universale e atemporale dell’unica Causa Prima) secondo la misura della sua essenza. Ovvero, secondo la modalità de-terminata dal concorso delle cause seconde, tutte a loro volta, in quanto enti, dipendenti dalla Causa Prima, secondo la medesima legge ontologica della partecipazione all’essere, appena ri-cordata (Cfr. Basti 2002a, capp. 5 e 6).

In quest’ottica, la cosiddetta componente “spirituale” dell’anima umana individuale dev’essere intesa nella teoria duale tommasiana come un’ulteriore relazione causale, “ultima” perché costituti-va della formalità individuale irriducibile e inalienabile della singola persona, che ogni individuo umano ha con un Agente Trascendente la natura fisica, biologica e culturale (connotato come “Dio” dai credenti). Grazie a questa relazione causale, costituente la formalità irriducibile di ciascun indi-viduo umano nella sua totalità e nella sua unicità (= l’anima razionale come forma sostanziale spiri-tuale della materia che costituisce il corpo umano), la singola persona umana è resa capace di dive-nire progressivamente consapevole, e quindi di controllare in modo sempre meno parziale, l’inviluppo di relazioni causali con gli altri agenti fisici, biologici e culturali che costituiscono il tes-suto della sua esperienza (progressivamente) conscia e (largamente) inconscia, durante tutta la sua vita. Naturalmente, tutto questo si lega benissimo allo sviluppo di una fenomenologia di ispirazione cristiana quale, in particolare, quella della Stein (Stein, 1935) e dei suoi seguaci Cfr. (Ales-Bello, 1992); (Manganaro, 2007)), e alla nozione di spiritualità della persona umana in essa come rela-zione trascendente “verticale” con l’Assoluto che fonda e rende possibile la stessa relazione tra-scendente “orizzontale” con le altre persone umane o “intersoggettività”.

Sempre in quest’ottica, la dottrina teologica cristiana della creazione da parte di Dio della singo-la anima umana non dev’essere più intesa, come nella sua interpretazione neo-platonica, quale un atto singolare, posto esclusivamente all’inizio di ciascuna vita umana e che in qualche modo “inter-romperebbe” il corso deterministico della natura, ma come simultanea all’intera esistenza di cia-scun individuo umano, sulla terra e oltre. Ma soprattutto tale causalità divina va intesa, non come opposta, ma bensì come fondante la formalità del particolare determinismo causale, logicamente (matematicamente) impredicibile, dei processi di auto-organizzazione della generazione e crescita biologica e quindi del comportamento consapevole della persona umana. Proprio come, nella co-smologia metafisica di Tommaso d’Aquino, l’atto creativo di tutto l’universo degli esistenti — me-tafisicamente, la partecipazione dell’essere a tutto l’universo degli esistenti — dev’essere inteso si-multaneamente all’intero corso dell’evoluzione dell’universo e non solo legato al suo inizio43. Di nuovo, va inteso come globalmente fondante, con un unico atto rispetto alla totalità dell’universo fi-sico, il concorso causale fisico nella determinazione dell’esistenza e dell’essenza di ciascun ente fi-sco, e non come “interruzione” o “sospensione” di tale concorso44.

Naturalmente, in un siffatto universo, è possibile che vengano all’esistenza — in domini limitati dello spazio-tempo dell’evoluzione dell’universo fisico — alcuni esseri intelligenti e liberi, come appunto gli uomini, sebbene anche l’esistenza di altri esseri corporei non umani (extra-terrestri), come afferma il Genesi stesso, p.es. nel cap. 4, è perfettamente compatibile con questo quadro. Condizione metafisica per l’esistenza di simili agenti intelligenti e liberi è che essi, oltre all’universale dipendenza dei componenti materiali del loro corpo dall’azione creatrice divina come tutti gli altri enti fisici, manifestino, diversamente da questi, un’ulteriore dipendenza dalla Causa Prima anche per la componente formale del loro essere (entità) e del loro operare. Altrimenti, essi

43 Per esempio, come collegato alle sole “condizioni iniziali” della dinamica del mondo, come nella dottrina cartesiana

di un universo inteso come “macchina inerziale” cui l’atto creativo di Dio avrebbe dato “dal di fuori”, sia le “leggi de-terministiche” di evoluzione, sia la “spintarella iniziale”.

44 Per esempio, come in certe teorie creazioniste e anti-evoluzioniste oggi tornate di moda, tutte tese a trovare dei gap nelle spiegazioni biologiche dell’origine delle specie, in cui inserire l’intervento del Creatore. Salvo poi doversi ri-mangiare la supposta “spiegazione metafisica”, alla teoria biologica successiva, in grado di risolvere il gap della teoria precedente.

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non potrebbero controllare i loro condizionamenti non solo biologici, ma anche culturali — gene-ralmente mediati dal linguaggio —, così da essere individualmente intelligenti e, dunque, liberi e responsabili nelle loro azioni45.

6.3 SOPRAVVIVENZA DELL’ANIMA INDIVIDUALE NELLA TEORIA DUALE

È opinione sempre più diffusa fra i fisici che il futuro della loro disciplina — e delle scienze na-turali in generale — è legato da molteplici punti di vista allo sviluppo di un’adeguata teoria mate-matica e sperimentale dell’informazione, a partire della sua fondazione micro- e macro-fisica e del-le sue diverse manifestazioni, nei sistemi fisici, biologici e cognitivi. Il futuro della scienza fisica dipende dallo sviluppo di questa teoria, tanto quanto i suoi inizi e il suo prodigioso sviluppo nella modernità sono stati legati allo sviluppo di un’adeguata teoria matematica e sperimentale della ma-teria e dell’energia. Già all’inizio di questo saggio ci siamo dilungati su questi sviluppi della fisica dell’informazione che ha nell’opera di John Archibald Wheeler il suo pioniere (Cfr. §2.2).

Come già ricordato, il “materialismo di fatto” ancora perdurante soprattutto nella divulgazione dei risultati delle scienze naturali moderne, non rende giustizia ad un’evidenza empirica che è sotto gli occhi di tutti. E cioè che la vita psichica degli animali e, soprattutto dell’uomo, seppure sempre mediata da scambi di energia con l’ambiente, non dipende da questi, ma dall’informazione veicola-ta attraverso questi scambi. Si pensi, per esempio, come già ricordavamo, all’importanza fonda-mentale che per il corretto sviluppo, sia biologico che cognitivo, del feto nel grembo della madre — o, ancora più evidentemente dei neonati prematuri costretti a trascorrere diversi mesi in incubatri-ce — hanno gli scambi d’informazione affettivamente significativi, con l’ambiente circostante46.

Correlativamente, al termine della parabola dell’esistenza umana, è fin troppo evidente che la vitalità psichica degli anziani dipende in minima misura dall’alimentazione e quindi dagli scambi di materia con l’ambiente — altrimenti tutti gli anziani soli delle nostre società opulente dovrebbero essere intellettualmente super-dotati —, ma, di nuovo, da scambi d’informazione affettivamente si-gnificativa con l’ambiente circostante. Non basta, cioè, per tener deste le capacità intellettuali dei nostri anziani, fargli leggere il giornale o fargli vedere la televisione: l’informazione misurabile dai bit non è sufficiente in questo caso, anzi spesso ottiene a lungo andare un effetto contrario, ottun-dente tali capacità47. Che dire poi del fenomeno impressionante del risveglio dal coma alla vita psi-chica per malati, sia giovani che anziani, che dipende in maniera assolutamente critica, e per il mo-mento del tutto misteriosa, da questi scambi d’informazione affettivamente significativa?

45 Di per sé, a ben vedere, nei racconti delle origini del Genesi, anche questa dipendenza, della componente culturale

della mente di agenti liberi umani e non dall’azione del Creatore è esplicitamente affermata nei capitoli 4-11. Si pensi solo al racconto della “Torre di Babele” di Gen. 11, per esempio. Purtroppo, la catechetica e la divulgazione dei rac-conti di creazione continuano invece ad identificare come “racconti delle origini” solo i capp. 1-3, evidentemente per-ché più affini a quella lettura neo-platonica ed eccessivamente antropocentrica della metafisica cristiana della creazio-ne che da sempre la condiziona e la limita.

46 Se abbiamo compreso “la filosofia dei sistemi caotici” è chiaro che è contenuto informativo significativo solo quello legato alla ristrutturazione dello spazio di fase della dinamica, alla ridefinizione dei punti si stabilità relativa e dei per-corsi per raggiungerli. Nel cervello, questo significa, agire sulle sue strutture profonde, legate alla sfera affettiva, in grado di riorganizzare le componenti superficiali, corticali, della dinamica, legate alla sfera sensoriale e alla coordina-zione senso-motoria.

47 Sempre alla luce delle basi fisiche dell’informazione biologica e neurale il perché di questo effetto contrario è fin troppo evidente. L’informazione misurata dai bit non è legata affatto alla modificazione della struttura dello spazio di fase, anzi suppone uno spazio di fase ben strutturato (informaticamente, un “codice”) per essere addirittura captata. Un anziano, alle prese con fenomeni degenerativi della sua dinamica cerebrale, trova ben poco giovamento da un’informazione che non l’aiuta minimamente a ristrutturare lo spazio di fase e quindi a “riparare i codici corrotti” della sua capacità percettiva, trovando sempre nuove strade per renderli effettivi. Per far questo, dovrebbe avere scopi ben affettivamente attraenti, che lo ripaghino della fatica, motivandolo a ristrutturarsi. Ecco perché gli anziani mostra-no di gradire solo e soprattutto informazione “ridondante”, quella che li aiuta a consolidare i propri vecchi “codici” malfermi, a costo di un “impigrimento” della complessità della propria dinamica neurale. Anche se, a lungo andare, ciò risulterà esiziale per la loro vitalità cognitiva e quindi per la loro sopravvivenza biologica.

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Una volta che fosse a tutti ben chiaro, da questa come da un’infinità di altre evidenze di psico-logia clinica e sperimentale, che la vita cognitiva delle nostre menti dipende criticamente da scambi d’informazione appropriata con l’ambiente circostante, quanto e molto di più la vita organica dei nostri corpi dipende da scambi metabolici (di materia e energia) appropriati con l’ambiente, la so-luzione duale al problema teologico della sopravvivenza dell’anima dopo la morte risulterebbe mol-to meno sorprendente di quanto oggi ci possa sembrare. Essendo nella teoria duale l’anima raziona-le, non una sostanza indipendente da quella corporea, ma una parte — quella formale, organizzante la materia — dell’entità corporea individuale dell’uomo, si può capire la metafora tommasiana con cui egli giustifica metafisicamente la possibilità ontologica della sopravvivenza dell’anima. Di una sopravvivenza della sua vita psichica di relazioni, anche senza quegli scambi di materia, mediante cui era ad essa veicolata l’informazione, durante la sua esistenza come forma di un corpo umano vi-vente.

La metafora tommasiana affermava in sostanza che, come una parte del corpo (p.es. una mano) potrebbe sussistere provvisoriamente viva staccata dal resto del corpo — quasi fosse un corpo vi-vente autonomo — purché vengano garantiti artificialmente ad essa quegli scambi metabolici di materia che la sua previa appartenenza al corpo gli forniva, così analogamente per l’anima razionale di un uomo, in quanto parte formale che soprassiede all’organizzazione della materia del suo corpo (alle operazioni senso-motorie e vegetative del corpo umano). La differenza è che la vita psichica della mente, a differenza di quella organica di parti materiali del corpo, non dipende da scambi di materia, ma da scambi d’informazione con gli organi del proprio corpo che controlla e, attraverso di essi, con gli altri soggetti (corpi), umani e non, che costituiscono il suo ambiente culturale e fisico (Cfr. Tommaso d’Aquino, Quaestio Disputata De Anima, 14; Basti 1995, 362-364).

Ciò significa che l’anima potrebbe continuare a sopravvivere di vita psichica quasi fosse una so-stanza immateriale vivente autonoma, se si potesse garantire in forma artificiale ad essa quegli scambi d’informazione mediante i quali continuare ad operare anche senza il suo corpo d’origine. In siffatto “ambiente informazionale”, essa potrebbe sussistere in attesa di un suo re-inserimento in un ambiente materiale, che gli potrebbe fornire i costituenti materiali per riorganizzare un corpo umano simile a quello di partenza.

La fede cristiana ci dice che questa Sorgente Universale d’informazione appropriata per tutte le anime umane dei defunti è Dio, così da dare una fondazione teologica alla nostra convinzione di fe-de che le anime dei defunti sono “tutte viventi in Dio” aspettando la resurrezione finale dei relativi corpi che avverrà in qualche altra parte dell’universo materiale (o in qualche altro universo materia-le?), quando il mondo terrestre in cui viviamo sarà distrutto — e quest’ultima, della fine della vita sulla terra e della terra stessa, oggi è non solo credenza religiosa, ma ipotesi con solide, praticamen-te certe, basi scientifiche48.

D’altra parte, tutti sappiamo che la sopravvivenza metabolica, temporanea, dei nostri organi se-parati dai loro corpi che, al tempo di Tommaso era solo “un esperimento di pensiero” buono solo per elucubrazioni teologiche, è viceversa oggi procedura di routine nella moderna pratica chirurgica dei trapianti. Non è fantascienza ipotizzare che un appropriato sviluppo di un’adeguata teoria non-entropica dell’informazione per sistemi biologici e cognitivi, potrebbe fornirci la condizione neces-saria per pensare in futuro ad una pratica medica più efficiente in campo genetico, neurofisologico e

48 La stessa esperienza, che ben conosce chiunque assista i moribondi, e che molti rientrati dal coma profondo confer-

mano, secondo la quale, sul limitare della vita, il moribondo vive esperienze d’incontro con le anime dei propri cari già defunti — e per i credenti, con la luce dell’amore divino — cui affidare la propria esistenza psichica, tanto da ren-dere molto spiacevole in alcuni casi, l’essere richiamati alla “vecchia” vita da interventi medici appropriati e di solito molto dolorosi, potrebbe essere fenomeno con molte spiegazioni neuro-psicologiche diverse e, in linea di principio, valide nella loro necessaria parzialità. Resta che, in base alla teoria duale, è di questo tipo, legata a scambi affettiva-mente significativi d’informazione, l’unica forma di sopravvivenza appropriata per le anime umane.

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cognitivo. Fra l’altro, ciò porrebbe termine all’unica giustificazione (pseudo-)etica della necessità di una “sperimentazione alla cieca”, in mancanza di una teoria scientifica certa in base alla quale for-mulare le ipotesi sperimentali, che determina l’attuale far-west della pratica sperimentale in questi campi delicatissimi.

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