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SPACTION FIELDNOTES ANTROPOLOGIE DEGLI SPAZI IN AZIONE

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SPACTION FIELDNOTES

ANTROPOLOGIE DEGLI SPAZI IN AZIONE

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Direttori

Matteo MUniversità degli Studi di Palermo

Stefano MUniversità degli Studi di Palermo

Comitato scientifico

Francesco BAlma Mater Studiorum – Università di Bologna

Kevin DThe American University in Cairo

Paolo FLibera Università Internazionale degli Studi Sociali “Guido Carli”

Jacques LUniversité de Lausanne

Dietelmo PUniversità degli Studi di Padova

Sami RHelsinki University of Technology

Ciro TUniversità della Calabria

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SPACTION FIELDNOTES

ANTROPOLOGIE DEGLI SPAZI IN AZIONE

Lo spazio è una società di luoghicome le persone sono punti di orientamento nel gruppo

— C L–S

In che modo definire lo spazio? E in che modo l’azione? Invece ditrattarli separatamente, questa collana propone degli studi innovativiche considerano spazio e azione congiuntamente. L’idea è combinarele riflessioni derivanti dallo spatial turn con quelle di chi lavora speci-ficamente alla definizione di agency. In che modo questi paradigmi,cruciali per la comprensione dei fenomeni culturali, si articolanotra loro? Secondo quali modalità, più in particolare, un’azione si si-tua in un dato spazio orientandolo? In che misura un tipo di spaziopuò contenere, condizionare e sviluppare un’azione? Il contributodell’antropologia (dello spazio, del paesaggio, del quotidiano, dellinguaggio, della migrazione, etc.) è centrale, ma per un approcciointerdisciplinare sono indispensabili anche i modelli di analisi derivatidalla linguistica, dalla geografia, dagli studi culturali, dalla filosofiadella scienza, dall’architettura, dalla semiotica testuale e della cultura.I contributi della collana, come un laboratorio teorico e di terreno,offrono le coordinate essenziali per definire in modo esplorativo unnuovo paradigma antropologico, la spaziazione, dove l’idea di spa-zio come azione e di azione come spazio può spiegare da vicino eda lontano i movimenti di popoli e culture. Sono particolarmentebenvenuti i contributi di studiosi che pongono l’enfasi sul continuumtra vita quotidiana e ricerca, tra ordinario e fieldwork. In questo sen-so, Fieldnotes indica un modo aperto e antidisciplinare di definire il“campo” in antropologia e di avvicinare i fenomeni culturali nellaloro ineludibile complessità.

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Con immagini di Claudia L ©, Ordine causale – sette frammenti di tonalite, ,acquerello su carta, , x cm cad., dettagli.

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Matteo Meschiari

Geofanie

La Terra postmoderna

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I edizione: marzo

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La Terra non è che un punto nello spazio, una mo-lecola cosmica; ma per gli uomini che la popolano questa molecola è ancora illimitata, come al tempo dei nostri barbari antenati. È relativamente infinita, perché non è ancora stata percorsa interamente e perché è impossibile presagire quando la conosce-remo tutta. Il geometra geodetico e l’astronomo ci hanno rivelato che il nostro pianeta sferico è schiacciato ai due poli; il meteorologo e il fisico hanno studiato per via induttiva in questa zona sconosciuta la probabile direzione dei venti, delle correnti e dei ghiacci; ma nessun esploratore ha vi-sto le due estremità della Terra, nessuno sa dire se mari o continenti si estendano al di là delle grandi barriere di ghiaccio, delle quali non si è ancora for-zata l’entrata. Nella zona boreale, è vero, arditi ma-rinai, onore della stirpe umana, hanno gradatamen-te ristretto lo spazio misterioso e, ai giorni nostri, il frammento di sfera terrestre che resta da scoprire in questi paraggi non supera la centesima parte del-la superficie del globo; ma dall’altro lato della Terra le esplorazioni dei navigatori lasciano ancora un vuoto enorme, di tale diametro che la luna potreb-be cadervi tutta quanta senza toccare le regioni del pianeta già visitate.

E. Reclus, Géographie Universelle (1876)

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Indice

11 Il Grande Paesaggio

17 Capitolo I Chi spiega le grandi pietre della montagna?

21 Capitolo II Le due piste

25 Capitolo III Milioni di tavolette

31 Capitolo IV Breve preistoria dello spazio

35 Capitolo V Ritagliare e incollare

41 Capitolo VI La scogliera di ciò che accade

47 Capitolo VII Dire il deserto

53 Capitolo VIII La pietra, il pensiero

57 Capitolo IX Geologia della parola

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Indice 10

67 Capitolo X Neogeografia

75 Capitolo XI Corpo-movimento

81 Capitolo XII Il cammino dello sciamano

89 Capitolo XIII Altre tracce

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103

Capitolo XIV Un epilogo? Bibliografia

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Il Grande Paesaggio

Una decina di anni fa stavo camminando per le vie di Avi-gnone, un luogo importante per la storia del paesaggio per-ché, alto tra le case, bianco per la neve o per le frane calca-ree, si intuisce come un’idea il profilo del Monte Ventoso. È lì che Petrarca, salendo per pura cupiditas videndi, avrebbe “in-ventato”, a detta di alcuni interpreti, la categoria estetica del paesaggio, cioè una Terra contemplata per se stessa, nella sua bellezza priva di allegorie. Camminavo dunque per Avignone ed ero con un amico editore, quando a un tratto gli ho chie-sto: «chi sono oggi in Francia i poeti che parlano della Ter-ra?». Così su due piedi Francis Combe (è questo il nome dell’editore) non è riuscito a rispondere, ma qualche mese dopo ha pubblicato un articolo in cui girava la domanda al pubblico francese: ammettendo che in generale sono pochi gli autori contemporanei che mettono al centro la Terra, Combe faceva un appello ai lettori, chiedeva se conoscessero qualcuno o se fossero loro stessi quel tipo di poeta. Che io sappia, in questi dieci anni, le cose non sono cambiate e l’appello non ha avuto risposte, ma forse il panorama non è così arido, a cominciare dallo stesso Combe che, oltre che editore, è anche poeta. Nel suo Cévennes (1985), ad esempio, faceva eco e quasi controcanto al Petrarca del Ventoso:

Sono salito infine al Mont Lozère. I prati di vento, le torbiere muscose, le graminacee ingrate e i

ciuffi di nardo. Nella collisione delle correnti d’aria, in mezzo all’erica viola per il freddo, sono salito infine sul poggio calvo,

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E là, in questo paese già da tempo ritirato dal mondo Ho posato la mano sul collo di un caos di pietre, l’amnesia della roccia, la mandria silenziosa dei macigni solubili Sono loro i testimoni della salita dello gneiss, del sollevamento del quarzo, della migrazione della mica e del feldspato tra strati di notte, della rivolta dei megaliti inalberati da tempo dal vento, dalla neve e dalla pioggia. Allora ho voluto abbracciare il corso del silenzio

inaugurare la respirazione delle creste tallonare i talloni del cielo costruirmi un orizzonte di metri cubi di ossigeno e ho camminato tra le picee, nel mormorio infantile dei mirtilli, la leggenda dei

torrenti, E ho sentito, profondamente sepolto, sotto i miei piedi, il ru-

more continuo del minerale. Poi ci siamo seduti E abbiamo diviso un po’ di pane e di formaggio duro.

Torneremo in Francia. Passiamo invece all’Italia, dove c’è

un autore che ha rappresentato la punta della scrittura pae-saggistica in un Paese che si è inventato come paesaggio an-cor prima che come nazione. Penso a Francesco Biamonti e al suo Le percept de nature dans la poétique contemporaine (2001), una conferenza importante e poco conosciuta:

Tutto cambia con il XX secolo: la natura diventa indifferente, lontana, e sprofonda in un disordine cosmico. […] Tutta la lette-ratura esistenzialista è attraversata da questa concezione di una natura che non significa più niente, che non è altro che un “corre-lativo oggettivo” dello stato d’animo dell’uomo. E con essa, tutta la linea ligure e quella della costa francese del Mediterraneo, dove la natura fornisce degli oggetti che servono a stabilire lo stato d’animo di chi guarda. Questo miscuglio d’emotività umana e di dati naturali comincia con Cézanne. Con Cézanne la natura di-venta non solo il “correlativo” dello stato d’animo del pittore, ma anche il fondamento dell’emozione stessa. C’è questa oggettività

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Il Grande Paesaggio

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dell’emozione che si trasmette alle cose, tracciando al tempo stes-so una sorta di autoritratto.

[…]

Bisogna restare attaccati a qualcosa della natura che, in qualche modo, diventa un’ancora, una speranza di salvezza. Non so come spiegare questo ritorno alla natura nella letteratura contemporanea, questo ritorno del mondo. Al di là delle fedi religiose e delle fedi politiche, al di là delle ideologie, resiste questo carattere primordiale della terra nell’avventura umana. […] La durezza della pietra torna nella letteratura […]. Se volete che il vostro personaggio viva, fate che sia libero. La libertà e la verità della natura, della terra, sono i soli terreni di esplorazione che restano allo scrittore.

La frase è carica di destino. Anche se in modo indiretto e

non troppo cosciente, l’incontro tra discipline diverse sem-brava aver preparato il terreno per un “ritorno” della Terra in letteratura. Un ritorno? Se ritorno c’è stato l’esperienza si è conclusa già prima di cominciare. La Terra, che credevamo stabilizzata in un’immagine razionale, che sapevamo parto laborioso di un lungo transito dal mito alla scienza, aveva cominciato a pulsare e a deformarsi di nuovo. Per tentativi, per assaggi periferici, qualcuno stava provando a reinventar-la, trovando nelle sue forme in rilievo una spinta molto anti-ca e molto attuale. Questa tettonica dell’immaginario viag-giava su assi precisi: epos, cosmografia, corpo come misura del mondo. Qualcosa di cruciale, se si pensa che l’ecologia della mente è un riflesso nell’individuo e nel gruppo di ciò che in scala evolutiva è stato il lento ed efficace adattamento della specie agli ambienti preistorici. Ma il flusso si è blocca-to, e qualcosa di diverso ha preso il sopravvento.

La Terra postmoderna, perché è di questo che si tratta, è stata molto più di una vaga intuizione e molto meno di un paradigma condiviso. Per quanto all’osservatore contempo-raneo sembri attiva e vitale, in realtà è stata un’alba abortita: voltandoci indietro per guardarla, quello che vediamo è la

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storia di una parentesi geografica, un’invenzione dello spazio che è rimasta schiacciata tra la Terra moderna e il Mondo globalizzato, una strana effimera alchimia tra poesia e scien-za, come la storia di due fiumi che hanno corsi distinti ma che procedono nella stessa direzione. Disegnare la geografia delle terre che stanno in mezzo, quella specie di Mesopota-mia mentale che è la patria della cultura occidentale, è un la-voro intellettuale in parte già fatto in parte impossibile da fa-re. Quello a cui si può ambire ragionevolmente, invece, sono delle ricognizioni a breve raggio, per cercare di capire qual-cosa, per disegnare un itinerario e cominciare a orientarsi. In questo libro-lampo intendo allora additare una pista che sto seguendo da qualche tempo, e che riguarda una fase piut-tosto fertile e piuttosto sconosciuta dell’immaginario terrestre. Il mio itinerario va in Italia, in particolare in Liguria, in Breta-gna, fa una puntata in un’America Latina che non esiste anco-ra, e va a finire nei deserti di tenebra e luce della penisola ara-bica, magari con una puntata estrema in Irlanda. L’idea è che dopo due secoli di Romanticismo più o meno travestito e do-po quarant’anni di avanguardie vere e meno vere, è esistita una linea carsica di poeti che ha reintegrato la Terra in lettera-tura, una Terra molto concreta e insolitamente lontana dai simboli e dalle metafore ai quali ci eravamo abituati. Tutto questo, vorrei metterlo in luce, dipende da un rapporto confi-dente, mai dialettico, mai antitetico, che il poeta ha con la geografia e la geologia, ma soprattutto dipende da un modo più o meno implicito di relazionarsi con l’idea di mappa.

Il Postmoderno, lo sappiamo, è ossessionato dalle mappe, anche se quasi sempre si tratta di oggetti fisici e mentali con-cepiti e usati in maniera molto poco cartografica: rigettando e criticando la cartografia come scienza del governo e della guerra, l’intellettuale postmoderno ha usato il mapping come bandiera, come l’urgenza di un ritorno a un pensiero spazia-lizzato e a una tensione cosmografica. Il moltiplicarsi nel se-

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Il Grande Paesaggio

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condo Novecento di mappe immaginarie e di esplorazioni artistiche della cartografia, alcuni tentativi di contaminare la storia e l’analisi letteraria con la riflessione epistemologica dei geografi e con la mappa come metodo ermeneutico, la geofi-losofia di Deleuze e Guattari, le geodeambulazioni da Guy Debord a Gary Snyder, l’etnocartografia e la counter carto-graphy, sono fenomeni che ci parlano di un movimento di va-sto respiro, declinato in versioni intellettuali e pop, documen-tato, studiato, mediatizzato, e che oggi sembra godere ancora di ottima salute. Ma non è di questo che voglio parlare.

La mia idea, invece, è che il Grande Paesaggio che osses-siona in modo trasversale approcci e discipline, che si defini-sce e assottiglia in migliaia di libri e interventi critici, che tra-cima come metafora-metonimia nella cultura del quotidiano e del contemporaneo, è stato per qualche tempo un para-digma di pensiero potenzialmente operativo ma, con una tempestiva appropriazione da parte delle accademie, è stato subito riassorbito in categorie contemplative, simboliche, estetiche. Da modello inferenziale per interpretare la realtà a realtà (an)estetizzata riducibile a un logo, da arena per un nuovo immaginario geografico a wunderkammer en plein air. Il fatto è che, abbagliati dal Grande Paesaggio, stiamo perden-do la Terra. E non solo la Terra con la maiuscola, quella del-le cosmologie, quella ambientalista, ma la terra dei paesaggi radicali, fatti di roccia e ghiaccio, la terra nuda delle grandi migrazioni, percorsa da animali selvaggi e da popoli nomadi.

Hemingway diceva che i cattivi poeti scrivono poesia epica. Forse intendeva l’epica del sangue e del territorio, o forse an-dava più in là, e criticava i cuori stanchi che hanno bisogno del Tempo Grande per simulare una grandezza che non avranno mai. Esiste però un’epica che non somiglia a niente, se non al vagabondaggio picaresco, senza gloria e senza storia, di un gruppuscolo quasi invisibile di poeti della Terra. Questi geoanarchici camminanti hanno cantato pietre di frana e tende

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di pelle, e un giorno ci hanno lasciato com’erano venuti, con poche tracce dietro di sé e senza passare il testimone.

Da qualche tempo cerco un passaggio a Nord-Ovest tra noi e loro, tra rete globale e sentiero. Forse si tratta di imma-ginare un’Isola della Tartaruga sotto l’America attuale, come ha fatto Gary Snyder. Forse è proprio questa la cattiva poesia di cui parlava Hemingway. Ma se ha un senso cominciare a mappare questa avventura delle idee e della parola non è per fare storia (o geografia) della letteratura o per riguadagnare alla poesia un ruolo centrale nella riflessione ecologica. Piut-tosto è questione di studiare la specificità di un immaginario geografico, certamente anomalo, contingente, episodico, ma che nel laboratorio della parola poetica ha trovato per una breve stagione qualcosa da dire, qualcosa che andava al di là della poesia: una visione delle cose, forse, e una pausa al progressivo disincanto.

Modena, marzo 2015

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Capitolo I

Chi spiega le grandi pietre della montagna? Nel testo antico-irlandese noto come il Canto di Amergin, Amergin, mago e poeta, figlio di Mil, capostipite dei Gaeli, recita un incantamento con il quale la sua stirpe prende pos-sesso delle terre d’Irlanda:

Io vento del mare io onda contro la terra io fragore del mare io cervo dalle sette cornate io falco sulla roccia io stilla del sole io l’albero più bello io cinghiale valoroso io salmone nella pozza io lago nella piana io luogo eminente di saggezza io parola dei poeti io sgominante lancia di vittoria io dio che da fuoco al capo. Chi spiega le grandi pietre della montagna? Chi preannuncia le fasi della luna? Chi sa dove ha sede il sole? Chi conduce le mandrie dalla dimora di Tethra? Chi sono le mandrie ridenti di Tethra?

Il mago-poeta sta recitando un incantamento druidico che ricorda molto da vicino i testi dello sciamanesimo siberiano. L’anima del cantore trasvola in tutte le realtà naturali, anima-te e inanimate, animali e vegetali, e in questo modo si appro-pria dell’elemento e del luogo che normalmente le accompa-

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gna: mare e coste, laghi e foreste, pianure e montagne, aria e acqua, terra e fuoco. Tutto questo viaggiare gli procura ov-viamente una vasta conoscenza, una conoscenza delle cose del cosmo, dai ritmi lunari e solari ai movimenti delle stelle, le mandrie di Tethra, il mare, da cui gli astri sorgono nume-rosi. Ma anche un’altra conoscenza Amergin dice di acquisi-re, quella delle «pietre della montagna», vale a dire quella del linguaggio in scrittura ogam che veniva inciso sul legno e sulle rocce sacre; oppure potrebbe alludere agli allineamenti mega-litici, usati come osservatorî astronomici; oppure, ancora, potrebbe far riferimento alle dinamiche interne della Terra, di cui le montagne sono l’epifania più evidente. In ogni caso, Amergin diventa saggio perché ha viaggiato, perché ha cono-sciuto spazi diversi, interni ed esterni alle cose, e ognuno di questi spazi della Terra, nella Terra, ha contribuito a formare in lui una visione unitaria e completa del cosmo. Questo il messaggio, che ci raggiunge in tutta la sua fre-schezza. Ma il Canto di Amergin è anche un canto, un modo del linguaggio che proprio nel suo aspetto formale si oppone al linguaggio della comunicazione denotativa. Entrare nel si-stema del testo, nel suo modo di crescere su se stesso, può aiutare a completarne la comprensione. L’anafora è probabilmente la figura retorica più antica, quella più semplice da “trovare” e che grazie alla pura ripeti-zione solleva la parola a un livello formale e concettuale completamente altro. Se poi è vero che l’arte preistorica ha una profonda matrice sciamanica (e che dunque lo sciamane-simo, fin dal principio, ha affiancato a più riprese ciò che siamo abituati a chiamare arte), l’archeologia dell’anafora non ci restituisce l’idea di una parola usata come racconto enfati-co, ma di un racconto vissuto in prima persona come incan-tamento, come ipnosi. Dunque, non una parola descrittiva, ma una parola inoltrante, che frequenta un concetto, che lo abita, e che bussa ripetutamente contro la parete che separa

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Chi spiega le grandi pietre della montagna?

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la mente dal sommerso, dal non detto, da ciò che è mistero in lei e nelle cose. Nello stesso tessuto antropologico, in tenace continuità, sembra ritagliato il Canto di Amergin, in cui l’anafora non ser-ve a raccontare una vicenda, ma è il “trucco” con cui l’anima in volo sciamanico salta da una natura all’altra. L’io che si ri-pete è certamente un principio di unità nella realtà moltepli-ce, ma la sua ripetizione ossessiva è destinata a svuotare il si-gnificante del significato, e ciò che resta è un suono, am, “io sono” in irlandese antico, che ricorda stranamente il mantra om della tradizione buddista. L’anafora, dunque, attiva una condizione peculiare della mente, la mette in ascolto, e mentre si dissolve l’io, quello biografico e auto-assertivo, rimane un puro catalogo di terre, di elementi naturali, di fenomeni, di entità. Molta poesia ir-landese e gallese della natura è di questo tipo: secca, fram-mentaria, svuotata di ogni mistica pagana o cristiana, soprat-tutto puramente oggettiva, come note di viaggio, di osserva-zione empirica. Note che nel loro insieme abbozzano un paesaggio complesso e strutturato. L’idea d’incantamento, oggi, ci sfugge quasi del tutto, possiamo appena intuirla co-me in presenza di un palinsesto, ma la giustapposizione pura e semplice di immagini, di cose naturali, va a formare un og-getto che non è né un catalogo né una somma aritmetica, ma una galleria di realtà, ciascuna delle quali occupa uno spazio ben preciso, ciascuna delle quali è spazio. E, spazio dopo spazio, si viene a precisare una macro-sintassi del luogo, un ecosistema verbale, una cartografia:

Mare ricco di pesci. Terra ricca di frutti. Prorompere di pesci. Pesci sotto l’onda in stormi di uccelli. Oceano rigonfio.

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Bianca grandinata. Centinaia di salmoni, di grandi delfini. Canto del porto: «Prorompere di pesci. Mare ricco di pesci».

La traduzione lascia ovviamente indietro il dato fonostili-stico, i rumori marini, i versi dei gabbiani, rinuncia invaria-bilmente alle simmetrie dei suoni, ma la ripresa in chiusura delle parole iniziali resta sempre leggibile, come un preciso atto di volontà, come una di firma di autenticità. Nella poesia orale, infatti, era frequente l’aggiunta di strofe, ma la ripresa, detta dúnad, lo impediva, garantendo al pezzo un equilibrio interno che veniva fissato una volta per tutte. Per quale ra-gione il poeta avesse voluto fermare in quel punto le imma-gini, non è facile dire, ma da quanto si è visto fin qui si può azzardare un’ipotesi: la poesia si chiudeva lì perché l’aggiunta di versi ne avrebbe alterato lo spazio. La domanda successiva è allora: quale spazio? Quello esterno? Quello interiorizzato? O quello interiorizzato e poi nuovamente oggettivato nel te-sto, nella parola? Trovare l’equazione tra landscape, mindscape e wordscape, per usare le parole di Kenneth White, è il problema fondamenta-le di ogni poetica dello spazio.