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ISSN 1122-2557 - Anno XXIII - n. 1/2013 - Gennaio-Giugno 2013 Comitato Scientifico: Aulisa L, Bizzi B, Caione P, Calisti A, Chiozza ML, Cittadini A, Ferrara P, Formica MM, Ottaviano S, Pignataro L, Pitzus F, Pretolani E, Riccardi R, Salvatore S, Savi L, Sternieri E, Tortorolo G, Viceconte G Registro del Tribunale di Roma n. 337 dell’1/6/1991 · Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in A.P. 70% - Roma Periodicità semestrale · © 2013 Mediprint S.r.l. a socio unico In questo numero NPT IN GASTROENTEROLOGIA La malattia da reflusso non erosiva, nuove acquisizioni di patofisiologia e implicazioni terapeutiche M. Cicala, S. Emerenziani, M. Ribolsi NPT IN NEUROLOGIA Uso di zonisamide in monoterapia per il trattamento dell’epilessia parziale di nuova diagnosi T. Zanoni, M. Ferlisi NPT IN ODONTOIATRIA L’impiego degli integratori alimentari in odontoiatria: le basi razionali, i dati sperimentali e le prospettive cliniche E. Röggla

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Comitato Scientifico: Aulisa L, Bizzi B, Caione P, Calisti A, Chiozza ML, Cittadini A, Ferrara P, Formica MM,Ottaviano S, Pignataro L, Pitzus F, Pretolani E, Riccardi R, Salvatore S, Savi L, Sternieri E, Tortorolo G, Viceconte G

Registro del Tribunale di Roma n. 337 dell’1/6/1991 · Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in A.P. 70% - RomaPeriodicità semestrale · ©2013 Mediprint S.r.l. a socio unico

In questo numero

NPT IN GASTROENTEROLOGIA

La malattia da reflusso non erosiva, nuove acquisizioni dipatofisiologia e implicazioni terapeutiche

M. Cicala, S. Emerenziani, M. Ribolsi

NPT IN NEUROLOGIA

Uso di zonisamide in monoterapia per il trattamentodell’epilessia parziale di nuova diagnosi

T. Zanoni, M. Ferlisi

NPT IN ODONTOIATRIA

L’impiego degli integratori alimentari in odontoiatria: le basirazionali, i dati sperimentali e le prospettive cliniche

E. Röggla

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Indice

NPT IN GASTROENTEROLOGIA

La malattia da reflusso non erosiva, nuove acquisizioni dipatofisiologia e implicazioni terapeutiche 5M. Cicala, S. Emerenziani, M. Ribolsi

NPT IN NEUROLOGIA

Uso di zonisamide in monoterapia per il trattamentodell’epilessia parziale di nuova diagnosi 17T. Zanoni, M. Ferlisi

NPT IN ODONTOIATRIA

L’impiego degli integratori alimentari in odontoiatria: le basirazionali, i dati sperimentali e le prospettive cliniche 21E. Röggla

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Anno XXIII - n. 1/2013 - gennaio-giugnoReg. del Trib. di Roma n. 337 del 1/6/1991Poste Italiane S.p.A - Spedizione in A.P. 70% - RomaPubblicazione semestrale

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Definizione

Nel corso degli ultimi quindici anni la comunità scientifi-ca ha profondamente rielaborato, in diversi consensi inter-nazionali di esperti, i criteri per definire la malattia da re-flusso gastroesofageo (MRGE) in tutto il suo spettro (1-3).Avere criteri univoci di classificazione è, in effetti, crucialeper la ricerca come per la pratica clinica ed è stata proprio,fino all’ultimo decennio, la mancanza di criteri condivisi,per la diagnosi di MRGE, a limitare l’interesse dei cliniciai pazienti con esofagite erosiva, identificando questa co-me manifestazione classica di malattia e considerando lelesioni della mucosa, ben visibili alla gastroscopia, comeunico marker oggettivo nonché unica misura di efficaciadella terapia. Il consenso di Genval (1) stabilisce che si de-finisce affetto da MRGE un paziente che presenti “condi-zioni cliniche sintomatiche, con impatto sulla qualità di vita[QoL], o alterazioni istopatologiche risultanti da episodi di re-flusso gastroesofageo”. Rientrano quindi nella vasta popola-zione della MRGE i pazienti con sintomi che incidonosulla QoL, anche se in assenza di alterazioni macroscopi-che della mucosa esofagea all’indagine endoscopica - af-fetti dalla malattia da reflusso non erosiva (NERD) - oltreai pazienti con esofagite erosiva e quelli con esofago diBarrett. I più recenti riscontri, sulla sintomatologia extrae-sofagea dovuta a reflusso gastroesofageo (sintomi otorino-laringoiatrici, respiratori e cardiologici) e sulla emergenterilevanza, e maggiore prevalenza, della forma non erosivahanno poi portato alla definizione e classificazione, neiconsensi di Montreal (2) e di Vevey (3), delle diverse for-me esofagee ed extraesofagee e della NERD.

Presentazioni cliniche, i sintomi esofagei ed extraesofagei

I sintomi tipici, la pirosi e il regurgito, costituiscono oltrel’80% delle presentazioni cliniche della MRGE e altremanifestazioni del reflusso, associate o meno con la piro-si, comprendono sia sintomi esofagei (definiti atipici) co-me la disfagia e il dolore toracico, sia extraesofagei, che

coinvolgono l’apparato respiratorio e otorinolaringoiatri-co quali la tosse cronica, la bronchite asmatica, la disfo-nia, la laringite posteriore (1,2). Il dolore toracico, unavolta esclusa la causa cardiologica, è in oltre il 60% deicasi associato a patologia da reflusso gastroesofageo, co-stituisce una causa frequente di ricorso al pronto soccor-so e, talvolta, di esami diagnostici strumentali (4). I sinto-mi extraesofagei possono talora costituire la sola manife-stazione di MRGE e, quindi, porre problemi di diagnosidifferenziale, l’asma è più spesso associata a reflusso inetà pediatrica. Recenti studi hanno rilevato che oltre il 40% dei pazienticon tosse cronica è affetto da MRGE, anche in assenza disintomi tipici, e che i farmaci inibitori della pompa pro-tonica (IPP) possono alleviare significativamente la tossecronica (Fig. 1) (5,6).

Epidemiologia, storia naturale, impatto sullaqualità di vita, costi sociali

La MRGE è la più frequente patologia in ambito ga-stroenterologico e medico, con un’elevatissima prevalen-za nella popolazione occidentale. I pazienti che si rivol-gono ai medici nei centri di riferimento, spesso deputati asvolgere indagini epidemiologiche, sono solo la puntadell’iceberg (Fig. 2), mentre la grande maggioranza di essiricorre al medico di medicina generale o, con sempremaggior frequenza, all’automedicazione. L’immagine di

La malattia da reflusso non erosiva,nuove acquisizioni di patofisiologia eimplicazioni terapeutiche

5NPT 1/2013

In Gastroenterologia

M. Cicala, S. Emerenziani, M. Ribolsi

UOC Gastroenterologia ed Endoscopia Digestiva, Università Campus Bio-Medico, Roma

Figura 1. Spettro clinico della MRGE.

NERD

TipiciPirosiRigurgito

AtipiciDisfagiaDolore toracicoEruttazione

MRGESintomi

ExtraesofageiTosseAsmaRaucedineLaringiteDisfonia

BarrettAdenocarcinomaEmorragiaStenosi

Esofagite erosiva

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iceberg ben fotografa l’epidemiologia di questa malattia erende anche ragione della difficoltà di stabilirne, se noncon questionari in popolazioni, l’esatta prevalenza.Partendo da questi limiti e con la consapevolezza che idati attualmente disponibili di prevalenza e di impattosocioeconomico di questa patologia sono sensibilmentesottostimati, i pochi studi di popolazione, eseguiti conl’uso di questionari standardizzati, confermano che laMRGE è un problema molto comune e in significativacrescita nella popolazione adulta. Lo studio della popo-lazione della contea di Olmsted, in Minnesota, USA, hafornito dati di prevalenza della pirosi occasionale intor-no al 40%, e il 20% degli intervistati riferiva almeno unsintomo/settimana (7); anche in una recentissima inda-gine, eseguita su una popolazione norvegese adulta, isintomi da reflusso, ricorrenti e severi, erano riferiti dacirca il 18% degli intervistati con un trend in costante au-mento negli ultimi 10 anni (8), mentre nella popolazio-ne asiatica i sintomi sembrano essere meno frequenti (7-11%). Gli studi di popolazione sintomatica sottoposta aesofago-gastro-duodenoscopia hanno recentemente po-tuto chiarire che solo una minoranza dei pazienti consintomi tipici di MRGE, cronici e/o ricorrenti, presentauna malattia erosiva (24-42%) e una piccola percentualeuna metaplasia di Barrett (4-8%), mentre la gran mag-gioranza (fino al 72% nell’ultimo studio pubblicato) di

essi non presenta alterazioni della mucosa esofagea al-l’indagine endoscopica, ed è quindi affetto da NERD(Fig. 3) (7). Nel descrivere le diverse forme - fenotipi –della MRGE, va ribadito che la sua storia naturale risul-ta ancora poco nota, in altre parole la malattia progredi-sce? E in quale misura? La battaglia tra chi vuole consi-derare la MRGE come uno spettro continuo, che preve-de un’inevitabile progressione dalla forma non erosivaalle forme complicate, e chi difende la visione di unamalattia con categorie fenotipicamente discrete, conuna conversione tra una e l’altra categoria in una mino-ranza di pazienti, è ancora accesa. Volendo approssima-re i dati dei numerosi studi a riguardo, la progressioneda NERD, a esofagite erosiva, avviene nel 25% dei casie negli studi che consentono di avere dati sulla progres-sione a Barrett, e adenocarcinoma, la probabilità (like-lihood) di sviluppare un Barrett dopo la guarigione diun’esofagite C o D, è inferiore al 6% (9). Tra gli attualilimiti, che non consentono di ottenere evidenze defini-tive, c’è la mancanza di studi longitudinali su popola-zioni: le osservazioni sono in maggior parte retrospetti-ve, con diversi criteri di diagnosi, differente trattamentodei pazienti e, spesso, mancanza di un appropriato wa-sh-out farmacologico al momento della classificazioneiniziale.Ci si chiede, da qualche anno, se le caratteristiche demo-grafiche e di abitudini di vita siano differenti tra i pazien-

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La malattia da reflussonon erosiva, nuoveacquisizioni dipatofisiologia eimplicazioniterapeutiche

Figura 2. Iceberg di Castell.

Automedicazione

Medico dimedicinagenerale

Specialista Sintomi cronicie complicanze

Sintomi frequentisenza complicanze

Sintomi lievie saltuari

Figura 3. Riscontri endoscopici nei pazienti con sintomi cronicie/o ricorrenti di MRGE (da: Locke G.R. 1997; mod.).

NERD(53-72%)

Esofago di Barrett(4-8%)

Esofagite erosiva(24-42%)

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ti affetti da NERD rispetto ai pazienti con esofagite. Il set-ting degli studi pubblicati è diverso, ma i risultati delle ca-sistiche più numerose confermano, tra i pazienti NERD,una maggiore prevalenza di donne e una minore frequen-za di ernia gastrica iatale, mentre non sembrano essercidifferenze in termini di età, peso corporeo e body massindex (BMI) e abitudini di vita, tipo fumo e consumo dialcol; i pazienti non erosivi mostrano, dato questo inte-ressante, una più forte associazione della patologia esofa-gea con disturbi funzionali gastrointestinali quali la di-spepsia e l’intestino irritabile (10).La rilevanza sociale della MRGE è sopratutto legata alsuo rilevante impatto sulla qualità di vita (QoL) dei pa-zienti: gli studi recenti, che hanno utilizzato questionariche valutano parametri di benessere fisico e mentale - psi-cologico, ci dicono che esiste una progressiva e significa-tiva riduzione della QoL proporzionale alla severità deisintomi. Uno studio eseguito, utilizzando una scala am-piamente validata di QoL, il PGWB (psycological generalwell-being index), dimostra che la malattia da reflussonon trattata, rispetto ad altre patologie comuni, si collocaai primi posti, in quanto a impatto negativo, precisamen-te tra le malattie psichiatriche e l’ulcera duodenale, e haun impatto maggiore rispetto a patologie a prima vistapiù importanti quali l’angina pectoris e l’insufficienza car-diaca lieve (Fig. 4) (11). Un altro validato questionario,l’SF-36, ci mostra che, in quanto a impatto negativo suQoL, la malattia da reflusso e la sindrome dell’intestinoirritabile hanno pochi rivali perché riducono, in manierapiù o meno severa, tutti gli otto domini di salute, da quel-li fisici a quelli psichici (12). Posto, quindi, che la NERDcomprende la gran parte dei malati con patologia da re-flusso è, almeno, questa, come ritenuto in passato, unaforma più lieve rispetto alla forma erosiva? Ragionandosul peso dei sintomi, dobbiamo decisamente rivedere ilconcetto di forma “lieve”, dal momento che gli studi sugrandi numeri di pazienti ci dicono che esiste una pro-gressiva riduzione della QoL proporzionale alla severitàdei sintomi ma del tutto indipendente dalla presenza oassenza di esofagite: in altre parole i pazienti con NERDhanno sintomi sovrapponibili per tipologia, frequenza e

severità, rispetto ai pazienti con esofagite erosiva (13).Questo dato, più volte ribadito in letteratura, confermaun comune riscontro dei medici, che non hanno la possi-bilità di prevedere, sulla base anche della più attentaanamnesi ed esame obiettivo, la presenza di complicanzeesofagee nel singolo paziente. Oltre a ridurre la QoL dei pazienti, la MRGE ha un note-vole impatto sulla società in genere, attraverso una ridot-ta produttività lavorativa, assenteismo e costi sanitari. Èanche noto che la NERD colpisce gli individui nei loroanni di maggiore produttività (dai 30 ai 50) e anche l’im-patto economico è proporzionale alla severità dei sinto-mi. Studi eseguiti in USA, sulla popolazione affetta, dimo-strano una riduzione della produttività durante le ore dilavoro, in media del 25%, e una ridotta efficienza nellosvolgimento delle altre attività quotidiane di circa il 30%,con punte al 50%. Sia per la malattia da reflusso erosivache non erosiva, l’impatto sulla produttività lavorativa,paragonato con altre patologie molto comuni (mal dischiena, cefalea) è elevato anche a causa dei disturbi delsonno, frequenti in oltre il 50% dei pazienti, per i quali,più che l’assenteismo, il risultato è il cosiddetto “presen-teismo”, ossia una ridotta efficacia lavorativa per la man-canza di energia e di concentrazione (14). La spesa sanita-

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La malattia da reflussonon erosiva, nuoveacquisizioni dipatofisiologia eimplicazioniterapeutiche

Figura 4. PGWB nei pazienti affetti da malattia da reflusso inconfronto a pazienti affetti da altre patologie (da: Dimenäs E.1993; mod.).

60 70 80 90 100 110

Pazienti psichiatrici

MRGE non trattata

Ulcera duodenale non trattata

Angina pectoris

Insufficienza cardiaca lieve

Donne (controllo)

Uomini (controllo)

PGWB

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ria, elevatissima nei Paesi occidentali (in USA è la patolo-gia più costosa a carico dell’apparato gastroenterico, concosti diretti di oltre 10 miliardi di dollari nel 2006), è do-vuta, oltre che alle frequenti visite e alle ospedalizzazioni(ricoveri in pronto soccorso per dolore toracico che ri-chiede di escludere cause cardiache), alle procedure dia-gnostiche, in particolare alla invasiva e costosa gastrosco-pia. Queste ultime sono solo parzialmente arginabili conil ricorso alle Linee Guida e alle raccomandazioni deiconsensi internazionali: anche in assenza di sintomi d’al-larme, i sintomi caratteristici della MRGE possono ma-scherare patologie a evoluzione maligna e, ancor più chein altri ambiti della medicina, la gestione diagnostica eclinica di questi pazienti rimane un difficile equilibrio discienza e arte.

Risposta sintomatica agli IPP

Relativamente pochi studi hanno valutato la risposta sin-tomatica dei pazienti affetti da NERD alle diverse classidi IPP. In tutti questi studi un limite è costituito dall’aververosimilmente arruolato, nella popolazione NERD, o,meglio, non aver escluso, pazienti affetti da pirosi funzio-nale, ossia sintomatici ma negativi secondo un criterio siaendoscopico che pH-metrico e che, non a caso, non sonobuoni candidati al trattamento con gli IPP (criteri di Ro-ma III). L’inclusione nei trial di questo sottogruppo, incui i sintomi sono, per definizione, non correlati al re-flusso, porta inevitabilmente a una sottostima, nel “grup-po NERD”, della risposta ai farmaci che sopprimono l’a-cidità. Un altro possibile bias, presente nella maggioran-za degli studi che hanno valutato comparativamente la ri-sposta sintomatica agli IPP nei NERD, rispetto ai pazien-ti con esofagite erosiva, è la possibile misclassificazionedi pazienti che, non avendo eseguito un lungo e appro-priato washout farmacologico al momento della esofago-gastro-duodenoscopia, possono essere in una fase di gua-rigione delle lesioni erosive esofagee piuttosto che “veri”NERD. Partendo da questi limiti, il sospetto clinico che ilsuccesso degli IPP fosse inferiore nei pazienti con NERD,

rispetto a quelli con esofagite (del 20-30%) è stato confer-mato, da oltre 10 anni, da diversi studi clinici (15-17) dacui, tra l’altro, emerge un dato interessante e cioè che, nel-l’intera popolazione di pazienti, l’analisi di intention-to-treat dimostra un trend di progressivo miglioramento deisintomi durante le 4 settimane di trattamento, a confermadella necessità, per il controllo dei sintomi, di una piùprolungata soppressione acida nei pazienti affetti daNERD. Questo concetto è stato ulteriormente conferma-to da una recentissima metanalisi di tutti gli studi chehanno confrontato la risposta al sintomo pirosi neiNERD e nei pazienti con esofagite, nella quale sono statianalizzati separatamente i pochi studi nei quali la classifi-cazione di NERD si fondava, con appropriatezza, su ga-stroscopia negativa ma test pH-metrico positivo, in ter-mini di esposizione acida in esofago e/o di positiva asso-ciazione sintomo-reflusso (18). La prova definitiva diquesta “ipersensibilità”, più che refrattarietà al trattamen-to acido-soppressivo, dei NERD richiederà in futuro unapiù precisa classificazione dei pazienti, maggiori misuredi outcome del trattamento (questionari con score deisintomi, impatto dei sintomi su QoL), disegni degli studiche utilizzano dosi maggiori o, quantomeno, piene dosi,e maggior durata di soppressione acida. Per quanto ri-guarda il fenomeno della resistenza dei sintomi tipici altrattamento con IPP, infine, è utile accennare, tra i possi-bili meccanismi, alla compliance dei pazienti, intesa co-me aderenza al trattamento, al timing di somministrazio-ne degli IPP, all’ipersensibilità esofagea e alla concomi-tante iperalgesia viscerale. Diversi studi hanno difatti mo-strato che l’aderenza giornaliera, alla terapia con IPP, è inmedia molto bassa se paragonata a quella del trattamentoantipertensivo, non superando il 55% a un mese e il 30%a sei mesi, e i valori più bassi di aderenza si osservanoproprio nel gruppo di pazienti NERD, probabilmente acausa di una scarsa comprensione e/o sottovalutazionedella malattia (19). Altre osservazioni, condotte nei pa-zienti con scarsa risposta al trattamento, hanno eviden-ziato che solo il 46% di essi assumeva il farmaco 15-30minuti prima della colazione, così come previsto daglistudi farmacologici (20).

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Evidenze sempre maggiori attestano che l’ipersensibilitàesofagea, presente in circa un terzo dei pazienti NERD, èspesso parte di una generalizzata ipersensibilità visceralee, non a caso, nei pazienti NERD si osserva la maggioreassociazione con patologie funzionali gastrointestinali e,di conseguenza, un più difficile raggiungimento dellostato di benessere fisico nonché una maggiore insoddisfa-zione delle cure.

Quando, e come, indagare?

Il riconoscimento dell’elevata prevalenza e rilevanza cli-nica della NERD e delle manifestazioni extraesofagee,così come della loro ridotta risposta alla terapia medica, ei recenti avanzamenti tecnologici nelle tecniche diagno-stiche per il reflusso gastroesofageo hanno portato a ri-considerare anche l’iter diagnostico della malattia da re-flusso (Fig. 5).È importante sottolineare l’importanza di un’anamnesiesaustiva e per quanto possibile chiara. Il ricorso a criteri

condivisi, e quindi a univoche misure di efficacia della te-rapia antisecretiva, è cruciale. Avremo il più delle volte difronte un/una paziente sofferente e insoddisfatta dellascarsa attenzione dei dottori al suo malessere, che spessoha difficoltà a distinguere la pirosi e il rigurgito (ossia isintomi tipici, molto sensibili e specifici di malattia cosìcome stabilito dai consensi internazionali) dai sintomidispeptici, spesso associati; può non essere facile, per ilpaziente, distinguere l’efficacia delle terapie, spesso giàtentate, sui sintomi tipici e su quelli extraesofagei; non dirado, infine, il paziente sarà già stato classificato, e a vol-te irrimediabilmente, come affetto da malattia da reflussodallo specialista otorino o pneumologo, che non trova al-tre spiegazioni a probabili, ma non ancora certi, sintomiextraesofagei di MRGE. Il rischio di mal classificare il pa-ziente, dando uguale peso a sintomi specifici, atipici edextraesofagei è sempre più segnalato in letteratura e portaspesso a problemi di gestione clinica.Diversi trial prospettici e controllati confermano, nel so-spetto di MRGE, l’utilità nella diagnosi di un trattamentoempirico con IPP. Senza dubbio il test agli IPP è il primostep diagnostico perché, in assenza di sintomi d’allarme,nella maggioranza dei casi la malattia è definita dai sinto-mi (NERD) e l’obiettivo della terapia è la risoluzione deisintomi. Stabilire precocemente la risposta del pazientealla terapia è utile nella successiva gestione clinica del pa-ziente e il test farmacologico dimostra di possedere la mi-glior performance in termini di costo/beneficio: la sensi-bilità del test è riportata da studi su grande casistica (21)essere di circa il 75% (tra il 68 e l’80%) nei confronti dei ri-sultati congiunti endoscopici e pH metrici (non poco,perchè identifica un maggior numero di pazienti); va tut-tavia considerato che il risultato positivo non consenteuna diagnosi di precisione, a volte utile per ottimizzare laterapia - stiamo curando una NERD o un paziente conesofagite o Barrett? - e che una risposta negativa non puòescludere con certezza la diagnosi. È opportuno sottoli-neare l’importanza di eseguire il test correttamente, cer-cando di verificare anche l’aderenza del paziente alla tera-pia prima di etichettare, erroneamente, un paziente comenon responder. Più della durata è l’entità della soppres-

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Figura 5.Algoritmo diagnostico della malattia da reflusso.

Trattamento empirico con IPP

Non risposta

EE, Barrett,stenosi ecc.

Sintomid’allarme

EGDS(con biopsie)

MRGE

Risposta +

pH (impedenza) 24 ore

Test positivoConferma MRGE

Pirosi funzionale

EE=esofagite erosiva

NERD

Nella norma

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sione acida gastrica, e quindi esofagea, a essere diretta-mente correlata alla risoluzione dei sintomi, e maggiore èl’esposizione acida esofagea maggiore sarà la risposta. In-fine, nei trial pubblicati, in due settimane i pazienti conNERD raggiungono i livelli di risposta degli erosivi solocon dosi maggiori (l’esofago acido-sensibile di Watson). Quando eseguire la gastroscopia? I dati di storia naturale,e la seppur modesta progressione dell’esofagite severa edel Barrett con displasia al temibile adenocarcinoma eso-fageo, supportano l’importanza di identificare le compli-canze della malattia da reflusso per pianificare al meglioil trattamento e il successivo follow-up dei nostri pazien-ti: l’endoscopia è il gold standard a questo scopo. Siamocertamente consapevoli del fatto che avremo relativa-mente poche possibilità di trovarci di fronte alle compli-canze erosive, soprattutto se il paziente ha da poco smes-so un ciclo di terapia antisecretiva o con H2-antagonisti evanno tenuti presenti l’invasività e il costo dell’esame. Lepiù recenti Linee Guida ci ribadiscono che la esofago-ga-stro-duodenoscopia è appropriata in caso di scarsa/man-cata risposta agli IPP sui sintomi tipici, se il paziente haun età superiore a 50 anni e con storia familiare di cancrogastrico, se il paziente riferisce sintomi cronici/ricorrentida oltre 5 anni, perché sintomi cronici e di lunga durata siassociano a un aumentato rischio di sviluppare l’esofagoBarrett e l’adenocarcinoma esofageo. L’esofago-gastro-duodenoscopia è mandatoria, senza indugi, in presenzadi concomitanti sintomi d’allarme: disfagia, calo ponde-rale non intenzionale, anoressia, vomito ricorrente, ane-mia, melena, ematemesi, massa epigastrica palpabile. In-fine occorre considerare il ruolo e il timing della pH-me-tria ambulatoriale: è questa l’unica metodica in grado dimisurare quantitativamente l’esposizione esofagea all’a-cido e, ancora più importante, di documentare, in manie-ra non empirica, la relazione temporale e il nesso di cau-salità tra reflusso e sintomo, misurabile con indici (Symp-tom index, Symptom association probability index). Docu-mentare o escludere l’esistenza di un reflusso acido pato-logico può essere importante nella gestione dei pazienticon endoscopia negativa, candidati all’intervento chirur-gico o a procedure endoscopiche, e nei casi di incomple-

ta o mancata risposta agli IPP, ma anche in presenza disintomi atipici o extraesofagei. Anche in assenza di unprofilo patologico di pH (50% dei casi nei NERD) po-tremmo riscontrare una significativa relazione acido-sin-tomo, nei cosiddetti casi di esofago ipersensibile. Dati diuna recente metanalisi mostrano, difatti, che, rispetto allamalattia erosiva e ancora di più rispetto all’esofago diBarrett, i pazienti non erosivi presentano, in minor per-centuale, un’esposizione patologica dell’esofago all’aci-do, ma hanno in maggiore percentuale una positiva asso-ciazione sintomo-reflusso (valutata in termini di Symp-tom-index e/o Symptom association probability), un diversotrend che li testimonia in genere più sensibili al reflussoacido (22). Il più recente uso della pH-metria, in corso ditrattamento con IPP, è una scelta non facile: se, da un la-to, vorremmo, nel paziente con NERD, oggettivare lapresenza di un’eccessiva esposizione esofagea all’acido ovalutare la relazione reflusso-sintomo, quindi eseguirel’esame senza trattamento, dall’altro lato, nel nostro sfor-tunato paziente resistente agli IPP, ci interesserà sapere seil farmaco ha funzionato in termini di soppressione del-l’acidità e se i sintomi sono davvero dovuti a esipodi direflusso. La pH-metria in corso di terapia può, in effetti,guidarci nella scelta di trattamenti più aggressivi; un’uni-ca avvertenza è che, in letteratura, mancano dati consi-stenti del profilo esofageo di pH durante la terapia in pa-zienti che hanno risposto alla terapia e ce ne sono ancorapochi nei pazienti non responder. C’è, da poco, la possibi-lità, attraente, di utilizzare un sistema telemetrico, wirelessche offre diversi vantaggi (23). La mancanza di un sondi-no nel naso aumenta la soddisfazione e la compliance delpaziente al test e, interferendo meno sulle attività quoti-diane (l’esercizio fisico, è dimostrato, aumenta di tre vol-te l’esposizione acida esofagea), ci fornisce un’immaginepiù accurata e reale sul profilo di esposizione acida. Lapossibilità di registrazione, per 48-72 ore, della pH-metriawireless aumenta sensibilmente la percentuale di pazienticon esposizione patologica (12%), riducendo, inevitabil-mente, la specificità del test, ma, soprattutto, offre mag-giori opportunità di stabilire l’associazione sintomo-re-flusso, come indicato da studi prolungati che identifica-

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La malattia da reflussonon erosiva, nuoveacquisizioni dipatofisiologia eimplicazioniterapeutiche

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no meglio l’associazione, anche con i sintomi atipici (do-lore toracico). Un recente e significativo avanzamento nella diagnosticastrumentale della MRGE, particolarmente utile nei pa-zienti con NERD, è la metodica pH-impedenzometria,che associa alla rilevazione del pH esofageo la rilevazionedelle variazioni di resistenza al passaggio di corrente elet-trica attraverso coppie di elettrodi adiacenti, posizionatelungo un catetere.Con un solo sondino nasogastrico la pH-impedenzome-tria consente una maggiore accuratezza nei confronti delsolo test pH-metrico nell’identificare e quantificare gliepisodi di reflusso, di distinguere il tipo (acido, debol-mente acido, debolmente alcalino) di reflusso (Fig. 5), lasua composizione (liquido-gas), la propagazione in esofa-go prossimale e l’associazione dei diversi tipi di reflussocon i sintomi (24). Nei pazienti con NERD la pH-impe-denzometria ambulatoriale ha dimostrato un indiscussoguadagno diagnostico rispetto alla sola pH-metria, so-prattutto nel rilevare (o escludere) l’associazione dei sin-tomi tipici ed extraesofagei (tosse) con il reflusso debol-mente acido e misto (liquido-gas), consente di distingue-re l’esofago ipersensibile dalla pirosi funzionale e di diffe-

renziare l’eruttazione gastrica da quella esofagea (degluti-zione di aria) (Fig. 6,7) (25).

Recenti acquisizioni di fisiopatologia dellaNERD, l’esofago ipersensibile

Uno dei dilemmi nella comprensione della MRGE è rap-presentato dalla mancata corrispondenza tra sintomi, in-tesi come sensibilità-percezione degli episodi di reflusso,e lesioni della mucosa esofagea. Mentre una relazione di-retta e lineare tra esposizione dell’esofago all’acidità ga-strica e insorgenza di complicanze quali l’esofagite e l’e-sofago di Barrett è dimostrata, il paradosso è che pazienticon Barrett ed esofagite, anche di grado severo, possonopresentare sintomi più lievi e meno frequenti dei pazien-ti con NERD. Per quanto riguarda la NERD, è ragione-vole aspettarsi che una mucosa esofagea, che dà origine asintomi così fastidiosi, abbia qualche alterazione struttu-rale, magari rilevabile con metodiche di indagine potenti.Questa logica aspettativa è probabilmente all’origine dellaricerca e, anche, dell’ampia risonanza, in termini di pub-blicazioni, dei cosiddetti minimal change della mucosa os-servabili all’endoscopia. Solo pochi anni fa, in Giappone,è stata proposta una classificazione (modificata rispetto aquella di Los Angeles) di forme lievi di esofagite; pazientinon erosivi che presentano, alla gastroscopia conveziona-le, un’irregolarità (discolorazione) della linea Z (grado M

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Figura 6. Tracciato pH-impedenzometrico. Figura 7. Indicazioni alla pH-impedenzometria.

Reflussoacido

Reflussodebolmente

acido

Reflussodebolmente alcalino

Pazienti NERD con sintomi tipici e/o atipici resistenti, poco sensibili alla terapia con IPP o con ricaduta subitanea,

da eseguire durante e fuori dalla terapia con IPP

Utile per distinguere l’esofago ipersensibile dalla pirosi funzionale

NERD candidati a procedure chirurgiche o aggressive

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grade, per esprimere minimal changes), erano distinti daquelli senza queste alterazioni. Questa classificazionenon è sopravvissuta a successivi studi, che hanno mostra-to una modesta concordanza dei riscontri endoscopicitra diversi osservatori - inter-observer agreement - nella clas-sificazione di quadri M e N, troppo bassa per essere diaiuto nella clinica. Tecniche di immagine più raffinatedovrebbero però avere il potenziale di migliorare il ri-scontro di alterazioni sottili, e diverse nuove tecniche en-doscopiche si stanno sviluppando, a cominciare dalla en-doscopia a magnificazione e la endomicroscopia confo-cale, in grado di valutare meglio la microstruttura dellasuperficie mucosa e la vascolarità; dilatazione e allunga-mento dei vasi capillari intrapapillari, eritema, edema,friabilità, sono state correlate, in limitate casistiche, conalterazioni infiammatorie e sembrano essere più frequen-ti nei pazienti con NERD rispetto a soggetti controllo.Sebbene molto promettenti, le nuove metodiche endo-scopiche sono molto costose, ristrette a pochi centri e ri-chiedono tempi ed esperienza notevoli. Soprattutto, nelcampo della NERD, la riproducibilità e l’accuratezza so-no ancora da dimostrare. Le conoscenze più rilevanti,nella patogenesi dei sintomi, arrivano dagli studi di ultra-struttura dell’epitelio multistratificato esofageo, e senzadubbio l’alterazione oggettiva più consistente, nei pa-

zienti con NERD, è la dilatazione degli spazi intercellu-lari (DIS) dello strato intermedio delle prickle cells, dovutaall’indebolimento e alla rottura dell’apparato giunziona-le che tiene strette le membrane baso-laterali delle celluleepiteliali. Questa storia inizia nel 1979, i DIS si osservanoalla microscopia elettronica a trasmissione nell’epitelioesofageo umano di pazienti con esofagite erosiva. Nelcorso dei dieci anni successivi, in strips di mucosa esofa-gea di coniglio i DIS vengono indotti con la perfusionedi acido e acido + pepsina; questo danno include la rot-tura delle membrane cellulari e la perdita di desmosomi esi correla fortemente con una ridotta resistenza elettrica,una ridotta resistenza transepiteliale e, infine, con un’au-mentata permeabilità epiteliale a piccole molecole comeil mannitolo (26-28). Ritornando agli studi umani, appe-na l’attenzione della comunità scientifica comincia a fo-calizzarsi sulla forma non erosiva della malattia da reflus-so, la presenza dei DIS viene osservata nei pazientiNERD (Fig. 8), con valori simili a quelli osservati nei pa-zienti con esofagite erosiva (29).Nel tentativo di comprendere meglio la relazione tra lealterazioni ultrastrutturali, i sintomi tipici e l’esposizioneacida esofagea, lo studio di pazienti NERD, responsivi al-la terapia con IPP, con e senza valori patologici di esposi-zione acida, ha mostrato, a prescindere dall’esposizione

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Figura 8. Spazi intercellulari dell’epitelio esofageo alla microscopia a trasmissione: A e B, pazienti affetti da malattia da reflussonon erosiva; C, soggetto asintomatico.

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acida, valori dei DIS almeno doppi rispetto ai soggetticontrollo (30). Inoltre i pazienti con NERD, dopo 3 me-si di terapia con omeprazolo, hanno mostrato, nella qua-si totalità, una normalizzazione degli spazi, in parallelocon la risoluzione dei sintomi (31). La storia dell’ultra-struttura dell’epitelio esofageo è lungi dall’essere conclu-sa, negli ultimi 6 anni sono stati condotti altri studi neltentativo di rispondere a nuove domande: sappiamo daimodelli animali che la DIS è indotta dall’esposizione del-la mucosa all’acido, che nei nostri pazienti NERD, laDIS può facilitare l’accesso di idrogenioni in prossimitàdei chemorecettori intra-epiteliali e che lo spazio intercel-lulare si normalizza dopo un trattamento acido-soppres-sivo, suggerendo che l’aumentata permeabilità sia un fe-nomeno secondario.L’acido sembra quindi cruciale in questo modello di gene-razione dei sintomi, ma possono altri componenti delsucco gastrico o fattori extraluminari giocare un ruolo nel-la produzione del danno? È il danno limitato al solo eso-fago distale e quantificabile solo con la costosa TEM? In-fine, è questa lesione presente nei pazienti con sintomi re-sistenti alla terapia e in quelli con pirosi funzionale? Cosìcome nella patogenesi dell’esofagite severa e del Barrett,gli acidi biliari potrebbero essere coinvolti in questa lesio-ne e, in effetti, la loro aggiunta a soluzioni debolmente ofrancamente acide provoca un aumento dose-risposta del-la permeabilità epiteliale alla fluorescina e un aumentodegli spazi intercellulari. Questi riscontri potrebbero spie-gare il riscontro dei DIS nei pazienti NERD con non-pa-tologica esposizione acida, oltre che la loro occasionale erelativa resistenza dei sintomi alla terapia acido-soppressi-va. La microscopia elettronica a trasmissione, sebbene ri-conosciuta come gold standard per l’identificazione di alte-razioni ultrastrutturali, è impegnativa in termini di tem-po, molto costosa e difficilmente reperibile, in altre paro-le il suo impiego nella pratica è a dir poco limitato. Moltistudi hanno impiegato la microscopia ottica nel tentativodi riscontrare i DIS nelle biopsie esofagee, in maniera qua-litativa o semiquantitativa. Alterazioni indicative di DIS,tipo la distanza tra i nuclei cellulari, sono difatti state os-servate nel 68-80% dei NERD ma anche nel 8-30% di sog-

getti sani (32,33). Purtroppo sia la sensibilità che la specifi-cità dell’analisi morfometrica, su immagini ottenute conla metodica elettronica, rimangono significativamente su-periori a quelle ottenute con la microscopia ottica. Un re-centissimo lavoro che studia i pazienti difficili, quelli conpirosi resistente agli IPP e con pirosi funzionale, parago-nandoli a soggetti sani, mostra un significativa dilatazionedegli spazi intercellulari nei pazienti NERD resistenti manon in quelli con pirosi funzionale, ossia quelli completa-mente negativi all’associazione sintomo-reflusso al testpH-impedenzometrico (34). Oltre alle acquisizioni sullaultrastruttura e sull’integrità della mucosa esofagea, un al-tro recente riscontro morfo-funzionale, che potrebbe ave-re implicazioni terapeutiche, è quello dei recettori dellasensibilità localizzati negli strati superficiali della mucosaesofagea. Nei modelli animali sono stati descritti 3 tipi direcettori sulle terminazioni nervose acido-sensitive:ASIC, vanilloidi e purinergici. I recettori vanilloidi sonostati osservati sulle terminazioni nervose di biopsie esofa-gee umane, nei soggetti sani e, con maggiore densità, neipazienti con esofagite erosiva e nei nostri pazienti nonerosivi, con metodiche di immunoistochimica (35). Lapossibilità di sintetizzare antagonisti recettoriali apre l’o-rizzonte a terapie modulatrici della sensibilità e dell’iper-sensibilità dei pazienti con NERD. Molti problemi sonoancora aperti, e c’è ancora molto da comprendere ma nu-merose evidenze confermano l’ipotesi unificante che spie-ga la genesi dei sintomi nei NERD, fondata sulla penetra-zione-diffusione degli idrogenioni attraverso una mucosasolo apparentemente sana, ma la cui permeabilità e resi-stenza è compromessa e, anche, sulla successiva attivazio-ne dei chemocettori che si trovano negli strati superficialidella mucosa esofagea di questi pazienti (Fig. 9). Anche selo studio ultrastrutturale è difficilmente proponibile nellapratica medica, è emersa la possibilità affascinante di ave-re un correlato morfologico e sensibile della NERD e sipuò sperare che le recenti conoscenze patobiologiche, inquesto campo, possano presto trasformarsi in concreti mi-glioramenti nella cura di una malattia, non grave per mor-talità ma comunque rilevante per i sistemi sanitari occi-dentali come il nostro.

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Altro punto, che merita di essere discusso, è quello del-l’ipersensibilità esofagea e dei delicati confini con la pi-rosi funzionale. L’ipersensibilità esofagea, definita dal-l’assenza di alterazioni riscontrabili all’esame endoscopi-co, una non patologica esposizione dell’esofago all’aci-

dità gastrica, ma una positiva associazione tra sintomi edepisodi di reflusso è una caratteristica di circa un terzodella popolazione NERD, che percepisce quindi episodidi reflusso anche molto brevi e solo debolmente acidi.Per una corretta gestione clinica, oltre che per motivi diricerca, questi pazienti “ipersensibili”, che spesso mostra-no anche una non completa risposta dei sintomi al trat-tamento medico, vanno distinti dai pazienti con pirosifunzionale, il cui test pH-metrico o pH-impedenzome-trico è del tutto negativo, ossia i cui sintomi non sonoassociati a episodi di reflusso. Mentre nei pazientiNERD con ipersensibilità esofagea è giustificato il ricor-so a misure terapeutiche più aggressive, in termini di do-saggio e durata di IPP o, in casi selezionati, il ricorso al-l’intervento chirurgico anti-reflusso, nei pazienti con pi-rosi funzionale, dopo aver escluso cause motorie (mano-metria esofagea), l’approccio empirico più comune è l’u-so di farmaci in grado di alzare la soglia della sensibilità(antidepressivi a dosi basse), che si sono dimostrati me-diamente efficaci.

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Figura 9. L’ipotesi unificante nella patogenesi della NERD.

Acido luminale

Cervello

Alla corteccia

Al muscolo

Arco riflessoMidollo spinale

Muscolarepropria

Plessonervoso

Epiteliosquamosostratificato

H+H+

H+

H+H+

H+H+

H+

H+ H+ H+

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IntroduzioneL’utilizzo di zonisamide nel trattamento dell’epilessiaparziale nell’adulto, già ampiamente diffuso nella tera-pia di associazione, trova oggi sempre più conferme inletteratura come monoterapia. A sancire questa moda-lità di somministrazione è l’International League Again-st Epilepsy (ILAE) che, nell’ultimo aggiornamento dellesue linee guida, il Report ILAE 2013 di recente pubbli-cazione, riconosce a zonisamide il livello di evidenza Ainsieme solo ad altri 3 farmaci, tra cui carbamazepina,verso cui si conferma la non-inferiorità (1).

Studi di efficaciaTra i risultati più interessanti, sull’efficacia a lungo terminedi zonisamide in monoterapia, vi sono quelli di due studiretrospettivi, Tosches et al. e Fukushima et al. (2,3) entram-bi del 2006, dove emerge l’efficacia della zonisamide som-ministrata al momento della diagnosi. Nel primo studio,in cui 45 pazienti avevano assunto il farmaco in monotera-pia, tra i quali 18 come prima monoterapia, viene mostratal’efficacia in più della metà dei soggetti (Fig. 1), affetti dadiversi tipi di crisi focali. Nello studio di Fukushima il datoè anche maggiore: su 18 pazienti che avevano ricevuto zo-nisamide in monoterapia alla diagnosi e 59 pazienti con-vertiti a zonisamide in monoterapia, il 78% ha raggiuntouna riduzione >50% della frequenza delle crisi, con effica-cia mantenuta nei diversi tipi di epilessia focale.Un’analisi post-marketing di zonisamide in monotera-pia, eseguita in Giappone, dove l’indicazione alla mono-terapia esiste da tempo, ha mostrato come in pazienti dinuova diagnosi affetti da crisi focali, il trattamento conzonisamide per 1-3 anni determinasse una riduzione del-la frequenza di crisi >50% nel 93% dei soggetti (4).Lo studio più importante, condotto secondo le linee gui-da ILAE, allo scopo di dimostrare la non inferiorità di zo-nisamide a carbamazepina, è lo studio prospettico diBaulac del 2012, che ha confrontato l’efficacia e la tolle-rabilità di zonisamide, in monosomministrazione, versocarbamazepina a rilascio prolungato, somministrata due

volte al giorno (5).Si tratta di uno studio di fase 3, multicentrico, rando-mizzato, in doppio cieco e a gruppi paralleli, che hacoinvolto 120 centri per la cura dell’epilessia in Europa,Asia e Australia, in cui pazienti di età compresa fra 18 e75 anni con nuova diagnosi di epilessia focale sono statirandomizzati a ricevere zonisamide o carbamazepina inmonoterapia. I pazienti ricevevano una dose iniziale di 100 mg/die dizonisamide e 200 mg/die (in due volte) di carbamazepi-na e, dopo una fase di titolazione di 4 settimane fino al-la dose target di 300 mg/die e 600 mg/die rispettiva-mente, entravano nella fase di flessibilità di dosaggio,della durata di 26-78 settimane, in cui le dosi potevanoessere incrementate o ridotte in base alla risposta clinicae alla tollerabilità. Raggiunto un periodo minimo di 26settimane di libertà da crisi, i pazienti entravano nellafase di mantenimento, della durata di 26 settimane. So-no stati arruolati 583 pazienti, randomizzati a ricevere

Uso di zonisamide in monoterapia*per il trattamento dell’epilessiaparziale di nuova diagnosi

17NPT 1/2013

In Neurologia

T. Zanoni, M. Ferlisi

Unità Operativa di Neurologia d.O., DAI di NeuroscienzeAzienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona

Figura 1. Efficacia di zonisamide in monoterapia.

*La monoterapia con zonisamide non è ancora rimborsata dal SSN.

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zonisamide (n=282) o carbamazepina (n=301); di que-sti 456 (223 zonisamide e 233 carbamazepina) sono sta-ti valutati per l’endpoint primario. L’endpoint primario dello studio era rappresentato dallaquota di pazienti che ottenevano un periodo libero dacrisi di almeno 26 settimane con un dosaggio stabile difarmaco. Gli endpoint secondari erano il tempo medianodi raggiungimento della libertà da crisi e il tempo di ri-tenzione in trattamento.I risultati dello studio hanno mostrato che l’efficacia dizonisamide risulta comparabile alla carbamazepina per ladurata di osservazione di un anno; se si guardano, infatti,i dati relativi all’endpoint primario si nota che la propor-zione di pazienti per-protocol liberi da crisi per 26 setti-mane era del 79,4% nel gruppo zonisamide versus 83,7%nel gruppo carbamazepina. A 52 settimane tale propor-zione era 67,6% nel gruppo zonisamide e 74,7% nel grup-po carbamazepina. In entrambi i gruppi, inoltre, il perio-do di libertà dalle crisi di 26 settimane è stato raggiuntoutilizzando il minor dosaggio di farmaco: l’87% dei pa-

zienti del gruppo zonisamide lo ha ottenuto con il dosag-gio di 300 mg e l’88,7% dei pazienti del gruppo carbama-zepina con il dosaggio di 600 mg (Fig. 2).Anche in relazione agli endpoint secondari le due mole-cole sono risultate paragonabili, dimostrando la non in-feriorità di zonisamide rispetto a carbamazepina: il tem-po mediano alla libertà da crisi per 26 settimane era di205 giorni per il gruppo zonisamide e 204 per il gruppocarbamazepina e il tempo mediano alla libertà da crisiper 52 settimane era di 382 giorni versus 381; tali differen-ze non differivano statisticamente.L’incidenza globale di eventi avversi correlati o meno allaterapia è risultata simile in entrambi i gruppi di tratta-mento (Tab. I); tale dato è stato ulteriormente conferma-to dalla frequenza di interruzione del trattamento, risul-tata sostanzialmente equiparabile per entrambe le mole-cole, e dalla quota di pazienti che ha abbandonato lo stu-dio per effetti collaterali o che ha necessitato di una ridu-zione di dose, molto bassa in entrambi i gruppi.I principali eventi avversi, emersi in corso di trattamento(≥5% dei pazienti nell’uno o nell’altro gruppo), sono sta-ti cefalea, riduzione dell’appetito, sonnolenza, vertigini ecalo ponderale; riduzione dell’appetito e calo ponderalesono stati segnalati più frequentemente nel gruppo zoni-samide, mentre le vertigini sono state riportate più spessonel gruppo carbamazepina.

Sicurezza di zonisamideLe evidenze, in letteratura, di sicurezza e tollerabilità cli-nica e biologica di zonisamide in monoterapia in pazien-ti con epilessia focale di nuova diagnosi, confermano idati di sicurezza accumulati dall’utilizzo del farmaco neirapporti di farmacovigilanza (6). Nella già citata analisipost-marketing di zonisamide in monoterapia, eseguitain Giappone, viene evidenziata una frequenza di interru-zioni del trattamento dopo un anno del 16%, con una ri-duzione rispettivamente al 7% e 2% al 2° e 3° anno (4).Anche nello studio di non inferiorità zonisamide ha mo-strato un buon profilo di sicurezza e tollerabilità, sovrap-ponibile a quello della carbamazepina (5). L’incidenza di effetti collaterali associati a zonisamide ri-

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T. Zanoni, M. Ferlisi

Uso di zonisamide inmonoterapia per iltrattamentodell’epilessia parziale dinuova diagnosi

Figura 2. Dose necessaria al raggiungimento della libertà dallecrisi per 26 settimane (popolazione per-protocol).

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sulta inferiore con l’utilizzo in monoterapia rispetto al-l’impiego del farmaco in politerapia (7), probabilmenteper l’assenza di interazioni farmacodinamiche e farmaco-cinetiche con altre molecole; in ogni caso, la migliore tol-lerabilità in monoterapia rende più sicura la prosecuzio-ne del trattamento a lungo termine, con un aumento del-la compliance alla cura e pertanto della risposta terapeuti-ca globale.

ConclusioniIn questa breve revisione della letteratura è stata mostratal’efficacia di zonisamide come monoterapia antiepiletti-ca iniziale in pazienti adulti con crisi focali di nuova dia-gnosi, la sua non inferiorità rispetto a carbamazepina e ilsuo profilo di sicurezza e tollerabilità. Viene dunque con-fermato quale farmaco utile nella monoterapia inizialeper questo gruppo di pazienti.

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T. Zanoni, M. Ferlisi

Uso di zonisamide inmonoterapia per iltrattamentodell’epilessia parziale dinuova diagnosi

Pazienti con eventi avversi in corso di trattamento 170 (60%) 185 (62%)

Eventi avversi in corso di trattamento riportati da ≥5% dei pazienti nell’uno o nell’altro gruppo: - cefalea 29 (10%) 37 (12%)- riduzione dell’appetito 22 (8%) 5 (2%)- sonnolenza 17 (6%) 23 (8%)- vertigini 11 (4%) 23 (8%)- calo ponderale 19 (7%) 0

Pazienti con eventi avversi durante il trattamento e correlabili al trattamento 102 (36%) 115 (38%)

Gravità degli eventi avversi in corso di trattamento, correlabili al trattamento- lievi 61 (22%) 61 (20%)- moderati 31 (11%) 43 (14%)- gravi 10 (4%) 11 (4%)

Pazienti con eventi avversi gravi in corso di trattamento 15 (5%) 17 (6%)

Pazienti con eventi avversi gravi in corso di trattamento, correlabili al trattamento 3 (1%) 7 (2%)

Pazienti con eventi avversi in corso di trattamento 31 (11%) 35 (12%)che hanno determinato la sospensione del trattamento

Eventi avversi in corso di trattamento che hanno determinato la sospensione del trattamento in ≥3 pazienti in ciascun gruppo: - rash 3 (1%) 8 (3%)- vertigini 3 (1%) 4 (1%)- astenia 5 (2%) 0- disturbi della memoria 3 (1%) 2 (1%)

Pazienti con eventi avversi in corso di trattamento che hanno richiesto una riduzione di dose 4 (1%) 3 (1%)

I dati si riferiscono al campione per la sicurezza.

Tabella I. Eventi avversi nei due gruppi in studio.

Gruppo Gruppozonisamide carbamazepina

(n=281) (n=300)

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T. Zanoni, M. Ferlisi

Uso di zonisamide inmonoterapia per iltrattamentodell’epilessia parziale dinuova diagnosi

Bibliografia

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Introduzione

Gli integratori alimentari (articolo 2 del Decreto Legisla-tivo n° 169 del 21 Maggio 2004) sono definiti come pro-dotti alimentari destinati a integrare la comune dieta ecostituiscono una fonte concentrata di sostanze nutriti-ve, quali gli aminoacidi, gli acidi grassi essenziali, i car-boidrati (macronutrienti), ma includono anche le vitami-ne e i minerali (micronutrienti) e altre sostanze aventi uneffetto fisiologico, in particolare, ma non in via esclusiva,fibre ed estratti di origine vegetale. Sia i macronutrienti che i micronutrienti (così definiti inquanto assunti in quantità giornaliere inferiori al gram-mo) per quanto presenti nei normali alimenti, possonoessere assunti in difetto in diverse diete e determinare sta-ti carenziali tali da interferire con importanti funzionibiologiche (ormonali, immunologiche, riproduttive, rige-nerative tissutali). Da diversi anni sono reperibili, in commercio, integrato-ri alimentari, multicomponenti, atti, se assunti insieme auna dieta equilibrata, a potenziare alcune funzioni fisio-logiche dell’organismo, quali l’attività antiossidante, checontrasta i danni cellulari e tissutali indotti da un eccessodi radicali liberi e che si verifica in genere nei fumatori(anche quelli passivi), per assunzione eccessiva di bevan-de alcoliche, eccessiva esposizione solare e artificiale (ra-diazioni ionizzanti), uso di farmaci ed eccessi alimentariin genere, soprattutto se ad alto contenuto lipidico. Que-sta trattazione ha lo scopo di analizzare i dati più recentidella letteratura scientifica internazionale riguardantil’impiego e i potenziali vantaggi delle principali categoriedi integratori alimentari in campo odontoiatrico.

Radicali liberi, antiossidanti eperiodontopatie

Si definisce radicale (o radicale libero) un’entità moleco-lare capace di esistere indipendentemente, seppure perperiodi di tempo molto brevi, e costituita da un atomo ouna molecola formata da più atomi che presenta un elet-

trone spaiato: tale elettrone rende il radicale estremamen-te reattivo, in grado di legarsi ad altri radicali o di sottrar-re un elettrone ad altre molecole vicine provocandonel’ossidazione. In biologia animale i radicali liberi reagiscono facilmentecon i carboidrati, i lipidi, le proteine e gli acidi nucleici dicui sono costituiti i tessuti e le cellule e, se presenti in ec-cesso, li danneggiano, ne compromettono la funzione ene provocano la morte (per necrosi e/o per accelerataapoptosi). L’attuale trattazione si occupa principalmentedel ruolo specifico dei radicali liberi derivanti dal meta-bolismo cellulare dell’ossigeno (ROS – Reactive OxygenSpecies) e dell’azione di alcune sostanze genericamentedefinite antiossidanti che, presenti naturalmente in basseconcentrazioni rispetto ai substrati ossidabili, sono ingrado di rallentarne o inibirne l’ossidazione. Sia per un’aumentata produzione di ROS, sia per unaridotta attività di difesa degli antiossidanti cellulari, siconfigura la condizione definita di stress ossidativo, ilcui ruolo è stato profondamente analizzato in relazio-ne alla patogenesi delle periodontopatie sia cronicheche aggressive (1). Tale termine è utilizzato per definireun processo infiammatorio che prende origine dallaformazione di un biofilm, detto comunemente “plac-ca”, che preclude l’accollamento del tessuto periodon-tale alla superficie della radice dentale e all’adiacentelegamento alveolare e che, nei casi più gravi, esita nellaperdita dell’elemento interessato (Fig. 1). Gli studi epi-demiologi supportano il concetto che la parodontite ainsorgenza precoce sembra essere piuttosto infrequen-te, mentre la parodontite in età adulta e avanzata, congravi e irreversibili lesioni dei tessuti di sostegno e laperdita dei denti, si attesta intorno al 10-15% nellamaggior parte delle popolazioni. L’infiammazione e larisposta immunitaria alle colonie di batteri che coloniz-zano lo spazio sub-gengivale creano una serie di reazio-ni complesse bi-direzionali tra ospite e agenti batterici,che implicano il rilascio di numerose sostanze quali lechemochine, le citochine (TNF-α, IL-8, IL-1, IL-6) e ilfattore di aggregazione piastrinica, tutti ugualmente ingrado di stimolare il “burst” ossidativo da parte dei

L’impiego degli integratori alimentari in odontoiatria: le basi razionali, i datisperimentali e le prospettive cliniche

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In Odontoiatria

E. Röggla

Medico Chirurgo, Specialista in Odontoiatria e Protesi Dentaria, Libero-professionista

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neutrofili umani. Gli stessi fagociti e le cellule connetti-vali producono superossidi (O2-), soprattutto gli osteo-clasti e i fibroblasti. In particolare questi ultimi, essen-do i più numerosi nel legamento alveolare, sembranoessere attivati dall’eccesso di produzione di ROS. Infi-ne le stesse cellule epiteliali gengivali partecipano aquesta complessa reazione infiammatoria/immunitariacon l’elaborazione di citochine e una sovra-produzionedi superossidi. Se quindi l’eziologia della periodontiteè identificabile in batteri Gram-negativi che colonizza-no lo spazio sub-gengivale (Porphyromonas gingivalis,Actinobacillus actinomycetemcomitans, Bacteriodes for-sythus), la cronicizzazione della malattia e il progressivodanno tissutale potrebbero, invece, essere causati dauna risposta inappropriata dell’ospite all’agente infet-tante e alle sue esotossine (2). Più in particolare vieneipotizzato uno sbilanciamento omeostatico tra gli enzi-mi proteolitici come l’elastasi (che danneggia il collage-ne) prodotta dai neutrofili e il suo antagonista α1- anti-tripsina. Inoltre, essendo i neutrofili le cellule infiam-

matorie più abbondanti nel tessuto connettivo gengiva-le e nella tasca paradontale, liberano un’esuberantequantità di ROS che non può essere neutralizzata dal si-stema antiossidativo salivare e gengivale (acido urico,lattoferrina, glutatione-perossidasi, desmutasi del supe-rossido, catalasi) e danneggiano direttamente il tessutogengivale tramite un’azione litica dei proteoglicani e didegradazione dell’acido ialuronico (3). I ROS in eccessosono inoltre capaci di danneggiare, con diverse moda-lità, il collagene di tipo 1, esponendolo a facili processidi frammentazione diretta e di depolimerizzazione (4).Lo stesso collagene di tipo 1 risulta particolarmente dan-neggiato dall’eccesso di glicazione che, a sua volta, è sti-molata da un eccesso dei ROS come accade nei fumatorie nei diabetici, entrambe queste popolazioni più esposteal rischio di periodontopatie avanzate (5). Il collagene,danneggiato inoltre da un’eccessiva perossidazione deilipidi ad opera dei ROS, interferisce con alcune caratte-ristiche fisiologiche dei fibroblasti quali l’adesività, laproliferazione e la longevità, fornendo quindi un ulte-riore elemento di meiopragia funzionale al tessuto disostegno del dente (6). Lo squilibrio tra produzione ineccesso di ROS e ridotta attività antiossidante locale (7),secondo le teorie più recenti, è quindi in parte imputa-bile a fattori genetici predisponenti (8) e in parte a fatto-ri ambientali e/o ad abitudini voluttuarie come il taba-gismo. Il primo studio su eventuali fattori genetici predispo-nenti venne condotto su 110 gemelli adulti con un’etàmedia di 40 anni (variabile da 16 a 70 anni), affetti daperiodontopatia cronica, dei quali vennero valutate lecondizioni parodontali (perdita di attacco, profonditàdella tasca, indice gengivale e indice di placca). I risulta-ti indicarono che tra il 38% e l’82% della varianza diqueste misure può essere attribuita a fattori genetici. Inuno studio successivo, condotto su 117 coppie di ge-melli adulti , l’analisi ha incluso la valutazione dei fatto-ri ambientali come il fumo e l’utilizzo di servizi odon-toiatrici (9). I risultati dimostrarono che la periodonto-patia cronica dell’adulto poteva avere circa il 50% diereditabilità, e che tale percentuale rimaneva perlopiù

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E. Röggla

L’impiego degliintegratori alimentariin odontoiatria:le basi razionali,i dati sperimentali ele prospettive cliniche

Figura 1. La formazione della “placca” preclude il normale ac-collamento del tessuto di sostegno del dente al dente stesso, con fe-nomeni di infiammazione gengivale cronica, facile sanguina-mento e profondità variabile della “tasca paradontale”.

Profondità:6 mm Profondità:

2 mm

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inalterata dopo avere controllato statisticamente i datiper le variabili comportamentali tra cui il fumo. Al con-trario non vi era alcuna evidenza di ereditarietà per lagengivite, dopo avere inserito, nell’analisi, altre variabilicomportamentali come la cura dei denti e il fumo. Gli studi invece più recenti, condotti in particolaremediante tecniche di sequenziamento del DNA, han-no evidenziato alcuni polimorfismi presenti nei sitigenici IL-1, IL-6, IL-10, nel recettore della vitamina De nel CD14 e che possono essere associati con unamaggiore incidenza di gengiviti e parodontiti in alcu-ne popolazioni. Tali polimorfismi genetici possono,in alcuni casi, tradursi in un cambiamento delle pro-teine con possibili alterazioni dei sistemi immunitarie possono quindi essere determinanti nell’aggravare ildecorso della malattia. Allo stesso modo il ruolo disuddetti polimorfismi genetici può anche tradursi inun’azione protettiva dell’ospite mediante un’aumen-tata resistenza. Anche per le periodontopatie quindi,come per altre malattie complesse, la presenza di poli-morfismi, soprattutto se multipli, può esercitare unruolo nel rischio di suscettibilità alla malattia e nellasua gravità e agire in comorbidità con altre patologieanche sistemiche come il diabete con i fattori ambien-tali già citati (10). Da queste premesse, la letteratura scientifica più recenteha analizzato il ruolo dei micronutrienti a spiccata atti-vità antiossidante nel trattamento delle periodontopatie,ma gli studi spesso hanno dato risultati non suggestivi diun’azione specifica, diretta, soprattutto delle vitamine Ced E, e del coenzima Q10 sulla malattia nell’uomo. Uno studio recente ha avuto, come obiettivo, la determi-nazione dell’effetto della supplementazione di vitaminaC (500 mg/die per 14 giorni) sulle concentrazioni pla-smatiche di ICAM-1 solubile (un marker di attivazioneendoteliale), di neopterina (un marker di attivazione deimonociti), e dell’elastasi neutrofila (un marker di attiva-zione dei neutrofili) implicata, come si è visto nella pato-genesi della periodontopatia, nei fumatori e non in unostudio randomizzato, in doppio cieco, controllato conplacebo, sotto stretta sorveglianza medica (11).

Allo scopo sono stati reclutati venti fumatori (cotininasierica ≥20 ng ml-1) e 20 soggetti di età e sesso sovrap-ponibile ai primi, non fumatori (cotinina sierica ≤13,7ng ml-1). I risultati hanno evidenziato, al test basaled’ingresso, un aumento significativo della concentra-zione di sICAM-1 nei fumatori (media: 247, IQR 199-357 ng ml-1) rispetto ai non fumatori (media: 207, IQR189-227 ng ml-1; p=0,014). Dopo somministrazione divitamina C le concentrazioni circolanti di ICAM-1, dineopterina e l’attività dell’elastasi leucocitaria non so-no risultati differenti tra fumatori e non: ovvero gli in-dicatori dell’attivazione enzimatica (soprattutto l’ela-stasi) dei monociti e dei neutrofili non sembra influen-zata dall’abitudine al fumo. Tuttavia le concentrazionidi sICAM-1 erano significativamente più alte nei fuma-tori di tabacco, riflettendo un’attivazione tabacco-cor-relata a livello vascolare, non influenzata dalla supple-mentazione di vitamina C. In particolare non si è potu-to constatare come un’iperattivazione dell’elastasi leu-cocitaria, quale agente promotore della periodontopa-tie, fosse più o meno influenzata dal tabagismo e/o dal-la supplementazione di vitamina C, sottraendo in talmodo evidenza scientifica a un suo ruolo benefico neltrattamento delle periodontopatie con micronutrientiantiossidanti quantomeno nei soggetti fumatori, po-tenzialmente più esposti al rischio. Una prima osservazione alle suddette conclusioni è re-lativa alla scelta del campione all’interno del quale lapresenza o meno di segni clinici di periodontopatianon era stata rilevata sia nei fumatori che nei soggettisenza tale abitudine voluttuaria. All’opposto uno stu-dio interventistico, sull’impiego del succo di pompel-mo, quale supplementazione di micronutrienti conte-nenti acido ascorbico, nei pazienti affetti da periodon-topatia ha conseguito risultati incoraggianti (12). Sonostati esaminati infatti i livelli plasmatici di vitamina C ealcuni indici di flogosi in pazienti con parodontite pri-ma e dopo il consumo di pompelmo. Cinquantotto pa-zienti con parodontite cronica sono stati assegnati algruppo di prova (38 soggetti, di cui non fumatorin=21, fumatori n=17) e un gruppo di controllo malato

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L’impiego degliintegratori alimentariin odontoiatria:le basi razionali,i dati sperimentali ele prospettive cliniche

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(20 soggetti, di cui non fumatori n=11, n=9 fumatori);inoltre, sono stati reclutati 22 soggetti sani per confron-tare i livelli plasmatici di vitamina C tra soggetti affettie non. Sono state effettuate diverse valutazioni clini-che: l’indice di placca, indice di sanguinamento del sol-co, profondità delle tasche (al sondaggio) e sono statideterminati, nel plasma, i livelli di vitamina C all’in-gresso e dopo due settimane di assunzione di spremutaconcentrata di succo di pompelmo. Al basale sono sta-ti rilevati livelli plasmatici significativamente ridotti divitamina C nel gruppo dei pazienti affetti rispetto aicontrolli sani. Generalmente, inoltre, i fumatori hannolivelli più bassi di vitamina C (media 0,39±0,17 mg dl-1) rispetto ai non fumatori (media 0,56±0,29 mg dl-1).Dopo il consumo di pompelmo i valori medi plasmati-ci di vitamina C sono aumentati significativamente nelgruppo di controllo rispetto ai controlli malati (non fu-matori: 0,87±0,39 mg dl-1, fumatori: 0,74±0,30 mg dl-1); inoltre l’indice di sanguinamento del solco è statoridotto nel gruppo di controllo (non fumatori: da1,68±0,6 a 1,05±0,6, p<0,001); non si sono invece ri-scontrate variazioni significative nell’indice di placca enella profondità delle tasche. Lo studio conferma che i pazienti con parodontite sonoaffetti da livelli di vitamina C nel plasma al di sotto deivalori medi di normalità, soprattutto nei fumatori. L’as-sunzione di pompelmo porta a un aumento dei livelli divitamina C nel plasma e migliora il sanguinamento, manon gli altri indici clinici. In definitiva attualmente nonci sono prove definitive che avvalorino o escludano l’im-piego isolato della vitamina C come micronutriente an-tiossidante nei soggetti affetti da periodontopatia.Anche nel caso dell’impiego della vitamina E, impiegatacome supplemento alimentare nella dieta delle cavie dilaboratorio, hanno dato inizialmente risultati parzial-mente discordanti. Nonostante sia stato dimostrato, in-fatti, che nel ratto la combinazione di vitamina E e sele-nio è in grado di ridurre la degradazione del collagene in-dotta dai ROS (13), studi più mirati al trattamento di sof-ferenze periodontali artificialmente indotte nella caviahanno dato indicazioni meno rilevanti (14).

Anche nell’uomo sono stati testati i risultati dell’uso diun gel gengivale con vitamina E al 5%, un gel placebo eun gel placebo contenente comune clorexidina sullaplacca sia consolidata che in via di sviluppo in 48 sog-getti adulti (15). Dopo due settimane i dati clinici sonostati di nuovo raccolti e i risultati non hanno indicatoalcun effetto significativo sulla placca né nei soggettitrattati con gel contenente vitamina E né con placebo;tuttavia l’uso di clorexidina allo 0,12% aveva ridotto laplacca in modo significativo. Questi risultati non han-no quindi supportato l’uso della vitamina E comeagente topico chemioterapico per il controllo delle ma-lattie del periodonto. Per quanto riguarda un altro micronutriente ad attivitàantiossidante, il Co-enzima Q10, i risultati sono più defi-niti: un primo studio, basato su biopsie multiple gengiva-li di pazienti con infiammazione dei tessuti periodontali,mostrava una carenza di CoQ10, a differenza di pazienticon tessuti periodontali normali (16). Sono seguiti, nel tempo, altri studi clinici basati sullasomministrazione orale di CoQ10 a pazienti con malat-tia periodontale. I risultati hanno dimostrato che la som-ministrazione orale di CoQ10 aumenta la concentrazio-ne di CoQ10 nella gengiva malata e sopprime efficace-mente la periodontopatia avanzata (17-19). Anche la suaapplicazione topica, nelle tasche periodontali, sembraavere un effetto aggiuntivo rispetto al loro semplice trat-tamento meccanico (currettaggio) (20). Un recentissimo studio sulla cavia ha focalizzato infineil ruolo dell’associazione di due micronutrienti ad atti-vità antiossidante, la vitamina C e l’acido alfa-lipoico(ALA) sulla periodontite artificialmente indotta con latecnica della legatura del collo del dente per 5 settimane(21). Trentasei ratti albini Wistar maschi sono stati divisicasualmente in gruppi come segue: un gruppo di con-trollo (C), un gruppo con parodontite sperimentale(PED), dei quali una parte trattati con ALA e un’altracon ALA + vitamina C. Nei casi trattati con ALA e ALApiù vitamina C il riassorbimento osseo-alveolare e la di-struzione del periodonto erano nettamente più ridottiche nei controlli. Ciò sembrerebbe aprire un’ulteriore

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campo di applicazione dell’ALA in qualità di micronuti-rente presente in natura nella sua forma destrogira e giàdi uso consolidato in altre patologie come le neuropatieperiferiche e il diabete di II tipo.In considerazione di quanto riportato in letteratura e inprevisione di ulteriori sviluppi applicativi dei numerosiantiossidanti, che rientrano in diversi integratori alimen-tari, la terapia della periodontopatia è ancora suscettibiledi notevoli progressi basati sull’impiego dei micronu-trienti in diversa associazione tra loro.

I disordini dell’articolazione temporo-mandibolare e i micronutrienti

L’articolazione temporo-mandibolare (ATM) è un’arti-colazione sinoviale che contiene un disco articolareche permette movimenti a cerniera e di scorrimento.Le superfici articolari sono coperte da fibrocartilagineavascolare e non innervata, che possiede un’elevata ca-pacità rigenerativa, superiore a quella della cartilagineialina di altre articolazioni (22); la capsula sinoviale e lamuscolatura annessa sono invece innervate e, in parti-colare, l’innervazione sensitiva della capsula è fornitaprincipalmente dal nervo auricolo-temporale, derivan-te dal ramo mandibolare del nervo trigemino e, in mi-sura minore, dai nervi masseterini e temporale profon-do. Tale innervazione capsulare è ritenuta responsabiledi un’intensa attività nocicettiva, ovverossia dolorosa,che caratterizza molte disfunzioni a carico dell’ATM.Come in altri distretti muscolo-scheletrici, anchel’ATM può essere interessata da processi patologici aeziologia differente che ne compromettono l’integritàanatomo-funzionale. Tali alterazioni, definite generica-mente disordini temporo-mandibolari (DTM), com-promettono principalmente la biomeccanica articolaree/o la muscolatura masticatoria (23). Più specificatamente possono essere classificati nel mododi seguito indicato (24).• Gruppo I (disturbi muscolari): (Ia) dolore miofasciale,(Ib) dolore miofasciale con apertura limitata.

• Gruppo II (dislocazione del disco): (IIa) spostamentodel disco con riduzione possibile; (IIb) spostamentodel disco senza riduzione con apertura limitata; (IIc)spostamento del disco senza riduzione e senza aperturalimitata.• Gruppo III (artralgia, artrite, artrosi): (IIIa) artralgia;(IIIb) osteoartrite (OA); (IIIc) osteoartrosi.Tuttavia il paziente affetto da DTM presenta una com-plessità di sintomi che esula dai confini dell’ambitoclassificativo, spesso confusi e mal distinguibili tra loroe che lo portano a rivolgersi a diversi specialisti qualiotorinolaringoiatri, ortopedici, fisiatri, sovente senzatrovare provvedimenti terapeutici soddisfacenti. La sin-tomatologia dei DTM può includere infatti:• limitazione nei movimenti della mandibola (apertura,chiusura, protrusione, retrusione e di lateralità) varia-mente combinate tra loro;• scrosci articolari e dolore non solo in corrispondenzadell’ATM ma anche in sede sotto- e retroauricolare, conirradiazioni multiple all’emicranio corrispondente;• cefalee temporo-occipitali;• sintomi auricolari (tinnito, “ovattamento”, ipoacusiasoggettiva);• disequilibrio e vertigine.Qualora presente, la sintomatologia dolorosa causaimpotenza funzionale con riduzione della masticazio-ne, della fonazione e si ripercuotono negativamentesulla complessità delle attività quotidiane, determi-nando spesso un alto grado di disabilità. I DTM sonospesso associati a cefalea omolaterale di tipo muscolo-tensivo e a disturbi otologici. Sintomi quali gli acufe-ni, l’otalgia, l’ipoacusia, la sensazione di pienezza del-l’orecchio (“orecchio ovattato”) e la vertigine si asso-ciano ai DTM e la loro incidenza raggiunge l’85% deicasi (25); inoltre la comorbidità tra DTM e lesioni ve-stibolari periferiche, sulle strategie posturali, è stata di-mostrata da tempo (26): vivere quindi con i disturbidell’ATM è una sfida permanente per molti individuiche ne sono affetti; per molti di essi, soprattutto ledonne (il sesso femminile ne è infatti maggiormentecolpito), l’interruzione ripetuta delle attività lavorative

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e l’impatto negativo sulle relazioni familiari è causa diun deterioramento della qualità di vita (27). Uno stu-dio epidemiologico del 1995 ha evidenziato che il 5%dei maschi e il 9% delle femmine riferiva di provarespesso, o molto spesso, tale dolore e il 30% della po-polazione riferiva di aver provato tale sintomatologiaalmeno una volta nella vita. Il dolore a carico del-l’ATM è riportato con maggiore prevalenza nella fasciadi età 35-54 anni, nel 6,8% degli uomini e nel 10,4%delle donne (28); inoltre nel corso degli ultimi 20 anni(1998-2012) è stato registrato un incremento nella pre-valenza dei sintomi relativi ai DTM (29). Più in parti-colare la prevalenza dei processi artritici dell’ATM au-menta con l’età, ma i DTM non sono affatto una ma-lattia dell’invecchiamento: è stato infatti osservatoche, nelle persone anziane, le alterazioni artritiche so-no spesso presenti ma in forma asintomatica e/o consintomatologia dolorosa lieve e la scarsa correlazionetra l’intensità dei sintomi e i reperti radiologici è unadelle caratteristiche principali dei DTM (30). All’interno dei DTM l’OA primaria o idiopatica del-l’ATM è tra le forme più comuni. La sua sintomatolo-gia è caratterizzata principalmente dal dolore e, neltempo, dal progressivo deteriorarsi della biomeccanicamandibolare. Altre cause meno frequenti sono l’OAreumatoide, l’infettiva (batterica, fungina, tubercolare),la psoriasica, la metabolica (gottosa e diabetica). La ma-lattia non riguarda solo la cartilagine articolare, macoinvolge tutta l’articolazione nel suo complesso, com-presi l’osso subcondrale, i legamenti, la capsula, lamembrana sinoviale e il menisco. I fattori causali ipotizzati sono molteplici, ma un’esat-ta eziopatogenesi è ancora da definirsi. Mentre in pas-sato è stato più volte ipotizzato un ruolo patogeneticodelle anomalie occlusali (precontatti, mancanza di ele-menti dentari, protesi incongrue) quali causa di inter-ferenza abnorme sulla biomeccanica e sovraccaricodell’ATM, con conseguente degenerazione delle suestrutture anatomiche, oggi tale associazione è contro-versa (31,32). All’opposto le parafunzioni dentarie(bruxismo e serramento) sono da tempo considerati

fattori correlati all’OA-ATM. Molto interessante, a que-sto proposito, è uno studio archeopatologico condottosu di un’antica popolazione britannica (33). I resti sche-letrici umani di individui adulti, ambosessi, provenientida cinque siti archeologici in Inghilterra (n=369) venne-ro studiati per valutare le associazioni tra la presenza diartrosi dell’ATM e alcune possibili variabili patogeneti-che tra le quali il sesso, la perdita dei denti ante morteme l’attrito dentale. La perdita dei denti e il sesso non ri-sultarono significativamente associati con l’OA del-l’ATM. Al contrario venne evidenziato che l’incidenzadei segni di attrito/logoramento dentario (indicativi diparafunzione dentale) era particolarmente elevata in-dipendentemente dall’invecchiamento. Una delle que-stioni più interessanti è la scarsa correlazione spessopresente tra la severità dei DTM e il riscontro di unapatologia tissutale evidente. Questa osservazione hafatto ipotizzare che il dolore, in alcuni pazienti conosteoartosi dell’ATM, potrebbe derivare da un’alteratapercezione del dolore da parte del sistema nervosocentrale e che tale alterazione della percezione possaessere attribuita a specifici geni ereditabili. Si pensache anche lo stress e un’alterata occlusione dentale pos-sano contribuire allo sviluppo di un dolore a sede tem-poro-mandibolare, soprattutto il dolore dei relativimuscoli masticatori. Infine le donne soffrono di DTMpiù frequentemente rispetto agli uomini. Sebbene cisiano probabilmente molte ragioni per spiegare le dif-ferenze tra i due sessi nella prevalenza dei DTM, gliestrogeni sembrerebbero essere implicati nell’aumentodi questi disturbi nel sesso femminile. Uno studio recente ha analizzato i polimorfismi a singolonucleotide (SNPs) del recettore degli estrogeni α(XbaI/PvuII) per valutare l’associazione con i disturbi del-l’ATM nelle donne e sembra confermare tale ipotesi (34).I farmaci antidolorifici fanno parte della terapia di pri-ma linea nel dolore dei DTM e le indicazioni terapeu-tiche suggeriscono l’utilizzo di tali farmaci in più del90% dei casi. I composti farmacologici più comune-mente utilizzati comprendono gli anti-infiammatorinon steroidei (FANS), gli inibitori della ciclo-ossigena-

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si-2 (COXIB), i corticosteroidi, i miorilassanti, gli an-siolitici, gli oppiacei e gli antidepressivi triciclici, an-che se mancano evidenze scientifiche sulla loro effica-cia. Ciò spiega perché ancora oggi non esistono farma-ci specifici approvati dalla Food and Drug Administra-tion (FDA) o dall’Agenzia Europea per i Medicinali(EMEA). Inoltre la popolazione anziana con OA di so-lito si presenta con comorbidità diverse che aumenta-no il rischio di interazioni tra farmaci e il verificarsi dieventi avversi gravi e ciò è causa di tali ulteriori limita-zioni all’impiego dei sopracitati principi attivi. Per talemotivo è dunque necessario continuare la ricerca sullafisiopatologia dell’OA dei DTM, sul dolore associato esull’efficacia del trattamento farmacologico. Di segui-to verranno messi a fuoco il ruolo dei meccanismi bio-chimici, dello stress ossidativo e dell’infiammazionenella patogenesi del dolore e delle lesioni anatomo-pa-tologiche dei DTM e si descriveranno i recenti sviluppinell’uso dei micronutrienti antiossidanti, della gluco-samina e del condroitin solfato (CS), in particolare neltrattamento dell’OA dell’ATM.

Meccanismi biochimici

È stato verificato che, nell’ATM, un sovraccarico di tipomeccanico dovuto, per esempio, a malocclusioni e para-funzioni quali il bruxismo e il serramento si associno, neltempo, a lesioni degenerative a carico del tessuto articola-re, in particolare a una frequente dislocazione con o sen-za recupero del disco interno e a processi degenerativicronici della sinovia e del tessuto osseo condilare, quali lararefazione e il riassorbimento. Analogamente è stato di-mostrato che in tali condizioni si verifica un aumentodella produzione di radicali liberi, dei ROS, della biosin-tesi dei cataboliti dell’acido arachidonico, il rilascio di ci-tochine e di enzimi che degradano la matrice (collagene)di vari tessuti dell’ATM (35). Di fatto, all’interno delle ar-ticolazioni infiammate, è presente una pletora di cellulepotenziali fonti di radicali liberi, compresi sinoviociti,condrociti e mastociti, così come neutrofili, e monociti

infiltranti. Alcuni di essi, in particolare i neutrofili, pro-ducono un eccesso di ossido nitrico (NO) il cui effetto èanalgesico in basse concentrazioni o, all’opposto, genera-tore di iperalgesia ad alte dosi (36). Livelli aumentati dinitrati e nitriti, indice di formazione di NO, sono stati ri-levati nell’essudato infiammatorio, nei dischi articolari,nei condrociti delle cartilagini articolari e nelle cellule si-noviali delle ATM, il cui stato infiammatorio era stato in-dotto dall’iniezione intra-articolare di zymosan, un poli-saccaride tra i più usati per indurre modelli sperimentalidi OA nella cavia. Un altro modello di artrite, sperimen-talmente indotta dell’ATM, che indica il ruolo fonda-mentale dei ROS, prevede l’iniezione intra-articolare diinterleuchina 1alpha (IL-1α), (37). In un primo test, me-diante l’inoculazione di IL-1α umana ricombinante nel-l’ATM è stata sperimentalmente indotta l’artrite del-l’ATM in un gruppo di topi; nel gruppo di topi di con-trollo invece è stata iniettata esclusivamente soluzione fi-siologica. È stato quindi osservato, grazie alla RisonanzaParamagnetica Elettronica (una tecnica spettroscopicaimpiegata per individuare e analizzare specie chimichecontenenti uno o più elettroni spaiati, come i radicali li-beri) che i radicali rilevati nel liquido sinoviale avevanouna forma a quartetto con struttura 1,2:2,1, caratteristicadei radicali idrossili. L’intensità di segnale all’RPE dei ra-dicali idrossili nel liquido sinoviale dei topi trattati conIL-1 era significativamente più elevato rispetto a quelladel gruppo di controllo (p<0,01). Il risultato dello studiocon RPE ha inoltre rilevato che il radicale idrossile au-mentava in maniera tempo-dipendente in presenza dellasuperossido-desmutasi (SOD), lo scavenger dell’anionesuperossido e che la formazione dei radicali idrossili ri-sultava fortemente inibita dalla deferoxamina, agentechelante del ferro. Sono stati inoltre riscontrati livelli diferro libero (Fe2- e Fe3-) più alti nel liquido sinoviale deitopi con artrite rispetto ai controlli (p<0,05). L’analisi deidati ha fatto ipotizzare che la presenza del radicale idros-sile, rilevato nel liquido sinoviale dei topi con artrite del-l’ATM indotta dalla IL-1, fosse dovuta a una reazione diFenton, nella quale l’anione superossido viene tramutatoin H2O2 dalla SOD. Pertanto gli idrossili potrebbero es-

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sere generati dalla reazione di H2O2 con gli ioni ferro li-beri. Questi risultati forniscono una dimostrazione defi-nitiva del coinvolgimento dei ROS nell’artrite dell’ATMIL-1 indotta. Successivamente la RPE è stata utilzzata perstudiare lo composizione del fluido sinoviale di esseriumani affetti da OA dell’ATM, fornendo analoghi risul-tati riguardo alla presenza di radicali liberi, in particolaredegli idrossili (38). In base a quanto detto, una prima possibile proprietàpositiva dell’enantiomero R-(+), l’unica forma naturaledell’ALA, è costituita dalla sua attività chelante il ferro,come nel caso della defexoramina (39). In tal modo lasua somministrazione può bloccare, o ridurre, la forma-zione dei radicali idrossili, che sono ora considerati diimportanza cruciale per la progressione dell’OA del-l’ATM. L’acido lipoico è una vitamina liposolubile mol-to piccola, che si compone solamente di otto atomi dicarbonio e due di zolfo. In natura esiste sotto due for-me, come disolfuro ciclico (forma ossidata) o come ca-tena aperta con il nome di acido diidrolipoico, che mo-stra due gruppi sulfidrilici in posizione 6 e 8; le due for-me sono però facilmente interconvertibili tramite rea-zioni redox. L’acido lipoico partecipa a diversi meccani-smi antiossidativi, quali la rigenerazione del glutationeridotto (GSH) e dell’acido ascorbico. Il suo impiego co-me micronutriente con capacità di contrastare le in-fiammazioni articolari, è stato verificato in cavia affetteda artrite reumatoide (40). L’artrite reumatoide è unamalattia infiammatoria cronica caratterizzata da infiam-mazione cronica e distruzione articolare che rappresen-ta una delle cause più frequenti di OA dell’ATM. Inquesto studio è stata valutata la possibilità di una sup-plementazione dietetica con ALA nel sopprimere la pa-tologia indotta nei topi. I topi sono stati divisi casual-mente in 3 gruppi:1) un gruppo di controllo è stato alimentato con una die-ta normale;

2) un secondo gruppo è stato alimentato con assunzionemedia di 160 mg/kg/die di ALA;

3) un ulteriore gruppo con un’assunzione media di 800mg/kg/giorno di ALA.

I due gruppi alimentati con supplementazione di ALAhanno mostrato una minore incidenza e la gravità di ar-trite rispetto al gruppo con alimentazione normale. I ri-sultati radiografici hanno evidenziato una diminuzionedrastica e una distruzione ossea e tali risultati sono staticonfermati dai dati istopatologici. Inoltre i topi nutriticon ALA hanno evidenziato una ridotta produzione divarie citochine proinfiammatorie, il cui ruolo, nella pato-genesi dell’OA e dell’ATM è ormai accertato. Recentemente numerosi lavori hanno studiato il ruolopotenziale degli agenti condroprotettivi nel ricostituirela cartilagine articolare e nel rallentare il processo dege-nerativo. La glucosamina orale è un supplemento die-tetico e non farmacologico. Negli Stati Uniti è illegalevendere i supplementi dietetici come terapia per qual-siasi patologia o disturbo. Generalmente le forme com-merciali della glucosamina sono la glucosamina solfa-to, la glucosamina idrocloridrato (GH) e la N-acetilglu-cosamina. La glucosamina è spesso venduta in associa-zione con altri supplementi come il CS o il metilsulfo-nilmetano. La glucosamina (C6H13NO5) è un amino-zucchero ed è un importante precursore per la sintesibiochimica delle proteine glicosilate e dei lipidi. Fa par-te della struttura polisaccaridica del chitosano e dellachitina, che costituiscono l’esoscheletro dei crostacei edi altri artropodi, la parete cellulare dei funghi e di altriorganismi superiori. La glucosamina costituisce unodei monosaccaridi più numerosi: è prodotta commer-cialmente dall’idrolisi dell’esoscheletro dei crostacei o,meno comunemente, dalla fermentazione del granocome mais e frumento. In generale l’impiego della glu-cosamina e del CS, nelle patologie articolari, è ritenutocausa di una progressiva e graduale diminuzione deldolore e della dolorabilità, con un miglioramento dellamobilità che persiste anche dopo la sospensione dei far-maci. Le principali critiche, rivolte alla maggior partedegli studi che ne hanno testato l’efficacia, riguardanole piccole dimensioni del campione selezionato e il fol-low-up a breve termine. I risultati positivi, riportati in letteratura, mostrano che laglucosamina ha portato dei benefici (un miglioramento

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complessivo >50% per quanto riguarda i punteggi relati-vi alla sintomatologia) nei pazienti con OA e che, in alcu-ni casi, la sua azione può essere equivalente o superiore aquella dell’ibuprofene (41). In uno studio pilota è stata prescritta una dose giorna-liera di 1500 mg di GH e di 1220 mg di CS, con unadurata di trattamento di 12 settimane in soggetti condiagnosi di capsulite, dislocazione del disco, od OAdolorosa dell’ATM (42). Quarantacinque soggetti so-no stati arruolati nello studio e sono stati randomizza-ti nel gruppo con il farmaco o in quello con il place-bo. I pazienti che assumevano CS-GH hanno mostra-to un miglioramento del dolore misurato mediante ilquestionario sul dolore di McGill, basato su dolorabi-lità, rumori prodotti dall’ATM, e numero di assunzio-ni giornaliere di farmaci in aggiunta alla quota pre-scritta. Risultati simili sono stati ottenuti in un cam-pione di 50 pazienti affetti da OA dell’ATM, usandola stessa combinazione quantitativa di sostanze (43).Al contrario è emerso che la somministrazione isolatadi glucosamina con un apporto giornaliero di 1200mg, quindi inferiore a quella impiegata negli altri due

studi, non sembra essere superiore al placebo nel ri-durre i segni e i sintomi dell’osteoartrite dell’ATM neibrevi tempi del trial (44).

Conclusioni

Oggi conosciamo sempre più dati riguardo al ruolo dellostress ossidativo nella patogenesi sia delle periodontopa-tie che dei DTM, con particolare attenzione all’osteoar-trosi. Tuttavia l’approccio terapeutico tradizionale, in en-trambi i casi, rimane spesso privo di un beneficio apprez-zabile. Al contrario le nuove evidenze indicano chiara-mente che l’impiego dei micronutrienti, siano essi tipica-mente dotati di attività antiossidante o rappresentati dal-l’associazione della glucosamina con il CS ne suggerisco-no un ulteriore campo di applicazione. Mancano, inve-ce, studi clinici riguardo all’effetto dell’acido lipoico sul-l’OA dell’ATM, nonostante sia ben documentata la suapotente azione protettiva nei confronti dei ROS e i primiesperimenti sugli animali lasciano ipotizzare risultati piùche incoraggianti.

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31NPT 1/2013

E. Röggla

L’impiego degliintegratori alimentariin odontoiatria:le basi razionali,i dati sperimentali ele prospettive cliniche

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