Impianto Sonoro Scolpito

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VILLA delle ROSE_BOLOGNA 18 giugno_16 luglio 2006 interno-catalogo 27-06-2006 17:58 Pagina 1

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Una vera e propria mostra-concerto, tutta da ascoltare e da toccare, dove protagoniste assolute sono le Pietre Sonore di Pinuccio Sciola, combinate questa volta con un’innovativa sperimentazione tecnologica, per permettere ai visitatori di essere a loro volta creatori della loro stessa esperienza artistica.

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VILLA delle ROSE_BOLOGNA18 giugno_16 luglio 2006

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La Bottega è da tre anni un laboratorio di sperimentazione e ricerca.

Il progetto, voluto dalla Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, si presenta come ungruppo di giovani appassionati in crescita, che opera all'interno delle dinamiche della musi-ca, della danza, dell'immagine e della parola e del loro simultaneo fare i conti con la pra-tica del processo produttivo, delle nuove tecnologie e dell'attualità industriale.

La direzione del progetto è stata affidata a Giovanni Lindo Ferretti, fondatore di formazio-ni storiche del panorama musicale italiano come CCCP – Fedeli alla Linea, C.S.I. e PGR (PerGrazia Ricevuta), il cui nome è già fortemente legato alla cultura in Bologna (direzione arti-stica per Bologna 2000 – Capitale Europea della cultura, direzione artistica del festival dimusiche dal mondo “Per te”).

Il luogo è nato come una Bottega in senso medioevale, in cui nulla si potesse insegnare, nelquale l'apprendere è conseguenza della qualità del proprio agire e del proprio colpo d'oc-chio; situata nel cuore del centro di Bologna, ha messo a disposizione degli Allievi ottimiprofessionisti da cui essi potessero trarre insegnamento e una tecnologia essenziale per lamanipolazione di suoni, immagini e parole.

Ha debuttato pubblicamente al teatro Arena del Sole a Bologna in una serata-lezione con-clusiva del suo primo anno di vita; ha allestito l'evento “CosmoAgonia”, al museo d'arte con-temporanea Palazzo delle Papesse a Siena; è stata poi presente al festival Fabbrica Europaa Firenze; ha realizzato il film filosofico-sperimentale “Il Mattatoio di Dio” e il video-danza“Accado da Capo” selezionato al festival milanese di Invideo 2004, e ha curato la direzio-ne artistica della rassegna estiva “Quello che non si dice” presso lo Spazio Pacinotti aBologna, appartenente al cartellone estivo del Comune di Bologna 2004.

Dal Maggio 2005 Bottega Bologna si è costituita Associazione Culturale e in questa nuovaveste ha curato il progetto più consistente a cui abbia mai lavorato, IMPIANTO SONORO SCOLPITO.

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Un'idea diPIER LUIGI ROCCACon l'immancabile appoggio diGIOVANNI LINDO FERRETTICuratoriBOTTEGA BOLOGNA, GIANNELLA DEMURO Project Management CHIARA GALLONIProgettazione software – Elaborazione sonora PIER LUIGI ROCCA, FRANCESCO CASTELFRANCOProgettazione oggetti sonoro/luminosi LORENZO BRUSCI/Giardino Sonoro, MAURIZIO GEPPETTI/Sonic EyesProduzione oggetti sonoro/luminosi SONIC EYES – ArezzoSupervisione installazione e progetto componenti botaniche STEFANO PASSEROTTI/Giardino SonoroProgettazione sistema aiuola subwoofer LORENZO BRUSCI/Giardino Sonoro, BOTTEGA BOLOGNARilevazione suoni IVAN OLGIATIRealizzazione tecnica FABRIZIO CABITZAElaborazione grafica GIULIO BERTOCCHI, BARBARA URRACCIFotografia ALESSANDRA LA GANGA, BARBARA MASCIA, MARTA PAPINIElaborazione video ELISA SERAVALLIPromozione STEFANIA MARCONILetture Salotto di Pietra a cura diGIOVANNI LINDO FERRETTI, GERMANO MACCIONIConferenze a cura di MARIA AGNESE CAVALLICatalogo a cura di FRANCESCO TOSIUfficio Stampa STUDIO DE ANGELIS – Milano

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Salotto di Pietra, Cortile d’Onore di Palazzo d’Accursio (2006)

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A Bologna nulla è mai stato provinciale, neanche nell’antichità. Nel Medioevo era la capi-tale della seta ed era la città delle acque, attraversata da una rete imponente di canali. Ilsuo sistema di chiuse per arrivare al mare fu di esempio nella progettazione del canale diPanama. Oggi quella storia produttiva ed economica conserva una traccia profonda. Bastaguardare alla capacità dei bolognesi di realizzare macchine complesse senza perdere divista la loro compatibilità con l’ambiente. Lo stesso vale nel rapporto della città con l’arte ela cultura, dove la produzione è sempre coniugata ad una fruizione vasta e trasversale. Inquesto è forte il legame con le vocazioni antiche, come il teatro e la musica, sia quella coltache quella popolare, che ha sempre affascinato la capacità creativa dei bolognesi. All’anticosi sono però affiancate le forme culturali moderne, come il cinema, la multimedialità, i nuovilinguaggi musicali, i generi letterari di avanguardia. Non è perciò un caso che PinuccioSciola, lo scultore sardo che da anni sperimenta nuove forme dell’arte nell’incontro tra pie-tra e musica, esponga in città grazie al lavoro di Bottega Bologna, che da anni coniuga lasperimentazione artistica con la pratica del processo produttivo, le nuove tecnologie e l’at-tualità industriale. È un percorso, quello di Bottega Bologna e del progetto Sciola, che coin-volge l’intera città, le sue tradizioni profonde e le sue vocazioni industriali e culturali. Siamoperciò felici di ospitare le sculture del ciclo dei salotti megalitici di Pinuccio Sciola nel Cortiled’Onore di Palazzo d’Accursio, e gli eventi in programma al Parco di Villa delle Rose,dependance estiva della Galleria d’Arte Moderna. "Bologna la dotta" è storicamente cittàdella cultura, come ci ricorda la mole di risorse e di bellezza di cui dispone e come vuoletestimoniare l’installazione interattiva che ospiteremo nel nostro cartellone estivo. La culturaantica e la sperimentazione tecnologica più avanzata che ci portano Sciola e BottegaBologna trovano la loro collocazione ideale in una città cosmopolita e internazionale comela nostra, che conserva il suo passato guardando con attenzione agli artisti che sperimenta-no il nuovo.

Sergio CofferatiSindaco di Bologna

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Promuovere e sostenere il talento e le idee dei giovani, anche in campo artistico, rappresen-ta per la Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna un impegno che si eleva a valoresociale nei confronti della comunità.

Grazie al nostro contributo, quattro anni fa nasceva Bottega Bologna, il laboratorio di spe-rimentazione e di ricerca nel territorio delle arti integrate, diretto da Giovanni Lindo Ferretti.

Dal lavoro continuo di sperimentazione, ricerca e integrazione, operato nel corso diquesti anni dai 15 allievi di Bottega Bologna, è nata l’idea progettuale che dà vitaa IMPIANTO SONORO SCOLPITO.

Un esempio virtuoso frutto di contaminazioni culturali, sospese tra il passato e il “nuovo” tec-nologico, grazie allo studio trasversale delle differenti forme di comunicazione suono-imma-gine-parola.Siamo, quindi, orgogliosi di avere attivato, e di sostenere, il processo creativo che animaBottega Bologna – in cui si inserisce l’evento IMPIANTO SONORO SCOLPITO – e ribadia-mo la particolare attenzione con cui la Fondazione guarda ai giovani, sollecitando iniziati-ve e progetti che ne esaltino le potenzialità espressive in tutti i campi dell’arte.

Un ringraziamento sentito va allo Scultore Pinuccio Sciola e a Giovanni Lindo Ferretti, grazie aiquali l’idea ha potuto trovare la propria forma e animare l’IMPIANTO SONORO SCOLPITO.

Marco CammelliPresidente della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna

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La cultura millenaria del silenzio della Sardegna si sposta a Bologna. Ma questa volta le pie-tre, elemento primo della materialità della nostra terra, non saranno “la muta sentinella deltempo”. Nel Parco di Villa delle Rose Bottega Bologna ha affiancato le “pietre” di PinuccioSciola alla tecnologia più sofisticata, ha unito l’elemento arcaico all’innovazione per far sen-tire i suoni della nostra isola. Grazie a tutti coloro che hanno contribuito a realizzare questa iniziativa, in particolare alsindaco di Bologna Sergio Cofferati. Grazie per questo evento, per questa nuova opportu-nità di riflessione sull’identità di un popolo che vuole parlare al mondo.Sciola racconta i tratti di questa identità. E il suo impegno dimostra il ruolo fondamentaledell’artista nel saper coniugare le istanze della storia e della tradizione con gli esiti delleavanguardie tecnologiche. Grazie all’innovazione del suo linguaggio abbraccia oggi, con isuoni delle “pietre”, il passato e la tecnologia. E questa è il motore di una fruizione moder-na, che dà la spinta all’entusiasmo dei giovani e alla loro creatività. Perché i giovani, fortidella conoscenza del passato possano sempre di più aprirsi al futuro.Sciola è sempre riuscito a comunicare l’unicità della Sardegna. Il suo talento lo sostiene nellaricerca di nuove forme espressive che poi si rivelano con esiti sorprendenti. È così che anchei materiali più umili diventano veicoli di emozioni: Sciola osserva e vede dove non arrivia-mo, ci conduce alla scoperta di nuovi tesori. Sappiamo ancora poco della nostra storia, mal’artista di San Sperate sa entrare nelle pieghe del tempo e dar voce a quelle pietre che cisorprendono suonando inedite melodie.È una soddisfazione sapere che la “poesia della pietra” di Pinuccio Sciola sarà protagoni-sta nella “Bologna la dotta”, città della cultura, dell’arte, della creatività. Sono certo che quella poesia saprà raccontare la nostra terra, e coinvolgere tutti nell’emo-zione di una sua più intima conoscenza.

Renato SoruPresidente della Regione Autonoma della Sardegna

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Quando non ero e non era il Tempo

Quando il Caos dominava l’Universo

Quando il magma incandescente celava il mistero della mia formazione

Da allora il mio tempo è rinchiuso da una crosta durissima

Ho vissuto ere geologiche interminabili

Immani cataclismi hanno scosso la mia memoria litica

Porto con emozione i primi segni della civiltà dell’uomo

Il mio tempo non ha tempo

Pinuccio Sciola

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Cos'è IMPIANTO SONORO SCOLPITO?

Abbiamo tentato il difficile compito di riassumere la complessità di questo evento in tre parole.È innanzitutto la mostra delle opere di Pinuccio Sciola a Bologna, rivolta ad appassionati eprofessionisti dell'arte; ai musicisti; ai bambini, che meglio di chiunque altro colgono l'es-senza della scultura di Sciola, e a tutti coloro che vogliano farsi stupire dalla potenza dellanatura e dalla raffinatezza della mano umana.Perché Sciola? Perché ognuno ha a che fare con le proprie origini e io sono Sardo fuor dipatria, innestato nel contenitore in espansione di Bottega in Bologna, del quale nessuno dinoi sa tracciare i limiti. Durante il trapianto, portare con sé un po' di terra d'origine permischiarla con humus differenti e ritornare un giorno a casa carichi di linfa nuova, è la mis-sione che ogni isolano che ha la fortuna di poter viaggiare dovrebbe compiere. È il percor-so che ha compiuto Pinuccio nei suoi anni carichi di incontri ed esperienze, e i risultati sonod'eccezione. Oltre la mostra, l'inizio di un percorso della Bottega rivolto alla composizione musicale nonlineare, alla quale ci approcciamo con cautela, curiosità ed entusiasmo. Non lineare, nelsignificato di creare delle strutture musicali che non abbiano una rappresentazione tempo-rale unica, un solo inizio ed una sola fine, ma che possano snodarsi in un albero (mai strut-tura dati fu più appropriata) virtualmente infinito di variazioni, dipendenti da scelte casualio da variabili influenzate dall'ambiente fisico in cui la struttura è immersa. Ci serviamo del-l'informatica, della sensoristica e della sorgente sonora più incredibile che un uomo possaascoltare: i vagiti delle Pietre di Sciola. IMPIANTO SONORO SCOLPITO è anche un esperimento di politica urbana. Una riafferma-zione del nostro "rapporto pneumo-dinamico" con la città di Bologna, come recitava il mani-festo della Bottega come concepita da Giovanni. Abiteremo uno dei giardini più interessan-ti di Bologna, riqualificandolo, come punto di concentrazione sociale, spazio espositivo,laboratorio per la creazione di linguaggi musicali e come luogo di ristoro dal caos cittadi-no. In questo contesto il suono è l'elemento architettonico chiave per la riqualificazione dellospazio. Ringrazio Lorenzo Brusci e Giardino Sonoro per averci fornito questa prospettiva,che aggiunge nuovi significati alla nostra ricerca tra musica e comunicazione.Questo e molto di più, da vedere e da ascoltare.

Pier Luigi RoccaBottega Bologna

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Giardino Sonoro, team di design ambientale

Giardino Sonoro è uno studio di environmental design con base a Firenze e il nome dellaboratorio/campo sperimentale per le nuove installazioni e i prototipi acustico-luminosiprogettati dal team (EEM, Expressive and Environmental Modules).Le componenti progettuali acustico/musicali, orticultuali e luminose sono gli strumenti uti-lizzati da Giardino Sonoro per ristrutturare e trasfigurare ambienti architettonici e natura-listici, così estendendo la loro capacità di esprimere contenuti simbolici pubblici e indivi-duali, offrendo diverse e alternative prospettive di disegno dello spazio abitato.I moduli installativi EEM sono destinati alla progettazione d’interni, alla progettazioneurbana e paesaggistica.Interior design: i nostri criteri di progettazione trasfigurano un ambiente interno, riscriven-do il rapporto tra luce, suono e spazio, rendendo dinamica e permutabile la portata, ilsenso e la pre-potenza dell’architettura materiale.Progettazione urbana: gli EEM accrescono la vivibilità nel contesto del caos acustico urba-no, direzionando la percezione ordinaria verso forme musicali fantastiche, riducendo cosìl’esposizione all’invasività del rumore cittadino.Progettazione paesaggistica: come ogni disegno del paesaggio di ieri e di oggi, ancheGiardino Sonoro naturalizza l’artificiale e rende informativamente ibridabile il naturalecon il proprio lavoro compositivo di suono, luce ed oggetto. Obiettivo è abitare espressiva-mente il contesto naturale, aprendone la complessa articolazione attraverso l’apporto dinuova complessità, formale e relazionale.

Co-progettare è una delle principali determinanti del nostro metodo professionale. La rela-zione con altri designer e architetti sublima il valore e la prospettiva del nostro approcciomodulare alla “composizione dello spazio”.

Per un’architettura simbolica.

GIARDINOSONOROENVIRONMENTALDESIGNTEAM

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Georges Pompidou nel 1969 fonda l’Institut de Recherche et CoordinationAcoustique/Musique (IRCAM) affidandone la direzione al compositore e maestro diorchestra Pierre Boulez, teorico della musica. Da allora l’Ircam diviene un centro unico al mondo, dedito alla ricerca e alla creazionemusicale contemporanea, dove si elaborano le più avanzate teorie di informatica musicale.L’Ircam è associato al Centre Pompidou e posto sotto la tutela del Ministero della Cultura edella Comunicazione. Negli anni realizza le utopie e le ideazioni estetiche del suo fondato-re, permettendo all’arte e alla scienza di incontrarsi e favorendo il rinnovamento del lingua-gio musicale.Con l’arrivo di Laurent Bayle nel 1992, l’Ircam si apre ad altre forme artistiche realizzandoil festival Agora, luogo d’incontro rivolto ad un pubblico nuovo, sensibile ai temi della ricer-ca sviluppati in seno all’Istituto. Inoltre, al fine di favorire lo sviluppo di reti informatiche, viene creato un Forum di discus-sione che porta alla diffusione di uno specifico savoir-faire Ircam a livello internazionale.Dal 1995, diviene partner del CNRS nel quadro di un’unità mista di ricerca SMTS (Scienzee Tecnologie della Musica e del Suono).Dal 2002 succede alla direzione dell’Ircam il filosofo Bernard Stiegler che ne riafferma lavocazione iniziale, ovvero il coordinamento tra ricerca e creazione.Volto a riallacciare le relazioni tra arte e scienza, il progetto dell’Ircam s’iscrive a pieno tito-lo nelle problematiche contemporanee relative ai rapporti tra industria culturale e creazio-ne.Facendo affidamento sulla presenza di compositori e artisti invitati a dialogare con i grup-pi scientifici, l’Istituto contribuisce alla crescita del dibattito legato a temi attuali, siano essiteorici, musicali, estetici o politici.

Da gennaio 2006, il nuovo direttore dell’Ircam è Frank Madlener.

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Villa delle Rose (2006)

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Ecologia, cultura o estetica, è stato scritto, le sculture di Pinuccio Sciola sono destinate aeducare e a trasformare il nostro sguardo sulla natura, a creare un altro rapporto con lanatura, a riscriverlo in un certo senso. Cosa ne pensi?

… dal punto di vista metodologico, fenomenologico, compositivo e quindi installativo: troviamo nel lavoro diPinuccio Sciola l’occasione esemplificativa del processo artificiale, il dato colto e accompagnato alla propria ulte-riore espressività, quando nella propria origine naturale l’oggetto materiale e il suo fatto non sono più solo linead’uso, divengono attenzioni ipernaturali, quindi contesto parlante, parlato, mediato manufatto umano, attrazione,alienazione, così principio estetico ed erotico. Impianto Sonoro Scolpito sarà dunque un contesto urbano dove le opere di Pinuccio Sciola – allegorie di natura –diventano via privilegiata alla rappresentazione dello stato dell’ibridazione fondante tra artificio e natura: la natu-ralissima ed evidentissima storia della Convivenza Prima, la dialettica naturale fra i concetti di artificio e natura. IlGiardino Sonoro ha da sempre reso evidente questa danza continua e profondamente se stessa, la danza dell’uo-mo che interviene, altera, condiziona in prospettiva, ripone le basi, apparentemente dimenticando eppure fonda-mentalmente sempre trasfigurando e restituendo la propria percezione dell’ambiente nell’ambiente di origine.È difficile parlare di ecologia e di estetica e non porre il problema dell’origine, dell’appartenenza nel processocostruttivo. Riconduzione e trasfigurazione sono i principi operativi di ogni ecologia, e non c’è un prima e un dopo,il tempo è in totale balia della variazione spirituale, lo stato della vita pubblica e della sua consapevolezza dei pro-cessi produttivi di senso.

Intervista a LORENZO BRUSCI/GIARDINO SONOROEnvironmental Design Team

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La pietra sonora, intesa come pietra che ha in sé dei suoni propri ha spiazzato il mondo dellamusicologia.

… non sono mai stato spiazzato dalla gentilezza con cui Sciola trova il suono nella pietra; l’esito rientra nelle tanteprassi del primitivismo se così lo posso chiamare o nei molti modi arcaici che in tutto il ’900 gli artisti hanno volu-to rivisitare. Uno sguardo trasfigurante verso la materia lavorabile e un comportamento invitato d’interpretazioneesecutiva musico-gestuale: il tutto intriso di un’aura primitiva materiale e manuale che è però solo l’inizio del pro-cesso d’astrazione compibile intorno al lavoro di Sciola. L’ampliamento del ciclo ermeneutico ed espressivo com-piuto dai ragazzi di Bottega lo testimonia pienamente.Trovo che sia doveroso accedere all’elemento naturale con la riverenza e l’irriverenza di chi tratta una materia resi-stente, sperimentarne la reazione e quindi godere del suo trattenimento, in questo caso rappresentato da una vibra-zione timida e intensa: non vedo differenza fra farlo con la pietra o farlo con il cemento, con il plexiglas o il vetro.Ritorno al concetto di ecologia: non sento virtuoso sposare un’idea logica di natura denotata, non porterebbe a noiviventi la necessaria ambiguità, ambiguità che poi significa spazio logico ulteriore, funzioni di riarticolazione pos-sibili, quindi piena e coraggiosa apertura dello stesso sistema vivente (artisticità come prassi dell’apertura rappre-sentativa ed espressiva, spazi logico-vitali, spazi potenzial-identitari, di estensione e ricondizionamento linguistico-ambientale). Intendo naturale il processo sintetico che produce la percezione dinamica del naturale, uomo stesso frutto di natu-ra, quindi in grado di definire flussi di purezza e di comprensibile astrazione, essi stessi poi futura materia per altrapurezza e nuova elementarietà, nuova natura e solidarietà naturale...… talvolta passa per minimalità comune il giogo mediatico alla banalizzazione dei termini: vedo in Sciola un’oc-casione di virtù interpretativa, circostanza per varcare alcune porte straordinariamente aperte sul senso ambiguodella materia acustica naturale, quindi sul senso di un certo suono esistente ma banale e di altro suono sconosciu-to e sorprendente, poco esperito, da cercare intensamente e che una volta trovato andrà accudito come un bimbo.Attraverso gli esiti di Sciola riflettere su un’etica della conoscenza, della curiosità investigatrice. Non ci sfugge infat-ti l’intensa relazione della mondialittà elettroacustica, sono-informatica e multiformale, con le formalità del suonoche scaturisce da una pietra di Sciola, frutto dell’immediato sono-scultoreo. Le apparenti devianze di molta musi-ca elettroacustica sono tali proprio perché ancora non esistono categorie espressive che possono entrare in giocoe darti una lettura emotiva, questa solo frutto di coesistenza, tempo della vita. L’opera di Sciola, e il percorso inter-pretativo proposto da Bottega, aprono un fronte coeso verso la naturalizzazione dell’astratto per mezzo di mate-rialità e musico-gestualità immediata. Le pietre di Sciola rientrano quindi in un piano per le letture possibili di cuiabbiamo tutti bisogno, proprio per aprire rapporti sistematici con la ricchezza dei sensi sonori, la ricchezza deisuoni delle molteplici contemporaneità: ecco qui vedo nitido il rischio di disecologia, nella riduzione della contem-poraneità ad alcuni filoni di cultura mediatica, alcuni giochi di inter-essere estremamente limitati.

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È corretto dire, secondo te, che la Pietra Sonora, così come il Giardino Sonoro, rappresenti aquesto punto un fatto di coscienza critica oltre che sonora e musicale?

Credo che il Giardino Sonoro abbia sempre avuto una vocazione risvegliante. Il Giardino Sonoro – il suo labo-ratorio permanente fiorentino alla Limonaia dell’Imperialino – è un luogo di scoperte musicali, di dettagli acu-stici, posture d’ascolto mediate e suggerite da relazioni botaniche. Il Giardino Sonoro, La Limonaiadell'Imperialino come laboratorio intensivo si sta concentrando sulla stimolazione di attenzioni percettive pertroppo tempo marginalizzate, utilizzando tecniche di immersività controllata: rivitalizzazione dell’ascolto, dellavisione e della lettura del contesto immersivo quotidiano, creando un ambiente urbano anti-distrattivo.Paradossalmente ne è esemplificativo il lavoro che facciamo a fianco e a ridosso del traffico urbano del VialeTorricelli: le nostre installazioni sonore accompagnano il passante altrove e attraverso il rumore cittadino. Unodei piani di progettazione urbana di Giardino Sonoro è appunto creare dei controviali sonoro-botanici dovecondurti per mano, con cura, in mondi dell’ascolto che tu non hai mai immaginato… forse non è l’unico modoper rispondere all’invasività del rumore urbano, ma quello che accade quando si è distaccati in un modo cosìpoco invasivo dal fronte del traffico è un importante punto di partenza: suono fantastico, sorprendente, diffu-so da oggetti variamente mimetici, un tutto che crea cesura in continuità con la violenta e indistinta presenzadi rumore nel (del) cuore urbano.Questioni di crisi, transizione e possibili soluzioni, quindi questioni metodologiche e fenomenologiche: crede-re che l’interattività o l’immersività siano concetti di grande cesura epistemologica della contemporaneità, nonè corretto; quando chiami in campo categorie che pretendi siano rivoluzionare eppure appartenenti alla nostraesperienza sensoriale ordinaria e le chiami in gioco con tanta enfasi, significa che ti aspetti qualcosa di nuovodalla loro azione esperienziale: chiediamo all’interazione di svelare la consapevolezza dell’interazione cono-scitiva, chiediamo all’immersività di creare maggiore consapevolezza della propria azione sensoriale. Eccoche cosa è ormai rilevante nell’esperienza del Giardino Sonoro. Sottolineo la condizione di accudimento spe-ciale di esperienze percettive sempre troppo ridotte nella loro portata quotidiana direi storica e appunto socio-logica e antropologica…

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Sciola afferma: “Nel mio mestiere non c’è un capolinea, ogni meta è la premessa per unnuovo viaggio, un nuovo percorso di ricerca e sperimentazione”. Qual è stata, parimenti erecentemente, l'evoluzione del Giardino Sonoro?

Contrariamente all’esperienza artistica pura la nostra ricerca recente, e anche la mia personale ricerca nelGiardino Sonoro, ha portato a porre una maggiore enfasi sugli aspetti funzionali. Ho una cultura umanistico-filosofica, ma gestisco troppo poco la forza del linguaggio figurativo, del linguaggio plastico e per certi versianche la storia del linguaggio musico-formale: non avendo, io poi, una vera preparazione accademica incampo musicologico. Credo che per formazione culturale mi venga molto naturale cercare una ragione chepotrei definire socio-culturale dell’esperienza musicologica in tutta la sua complessità. La mia più grande sod-disfazione è quella di poter naturalizzare l’incredibile complessità della storia della musica contemporanea edella musica moderna, per naturalizzare intendo l’esperienza che talvolta facciamo nei nostri giardini propo-nendo ascolti estremamente complessi, compositori quali Nono o Petrassi che mi sforzo di collocare in partico-lari posture o relazioni formali con elementi naturalistici… all’improvviso rapporti che sembravano pesanti nelcontesto del concerto borghese o del disco diventano leggeri, alla stregua di un gioco acustico per bimbi… cipossono essere elementi percussivi di un brano di Stockhausen che si confondono col presunto rumore di unazolla percossa da una zappa piuttosto che col movimento della corsa di una persona in un prato fiorito: moltodi quello che sembrava una complessità insormontabile diventa semplicemente esserci, essere lì, cioè essere lì inquel momento poter dedicare attenzione potersi sdraiare poter toccare forse anche con presenza, poter cam-biare le intensità dei reverberi… Come lo spazio variamente vivibile e variamente sensibile restituisce una preziosa complessità della storia dellacultura musicale, che se relegata alla dimensione concertistico-partiturale si perderà nella propria variegata ric-chezza… guardate, personalmente non credo esista un limite di astrazione quando si pongono delle possibili-tà interattive di comprensione – sia analogiche che digitali.Per noi sound designer che veniamo dalla dimensione del mixing in studio, della manipolazione del suono, è entu-siasmante assistere ad un cambiamento quasi epocale, il momento in cui un suono disegnato e composto in stu-dio viene applicato in un contesto vivente e vivibile, un’articolazione acustica che all'improvviso inizia a diventa-re profonda, s’innalza, accoglie e inizia a capire che la sua vocazione non è stare nello spazio chiuso di unastanza sonorizzata… come per un architetto il suo segno su carta o su monitor vuole divenire spazio vivente, cosìil mio suono poststrumentale vuole divenire un luogo dalle sue dimensioni completamente vivibili cioè ambienteinteramente abitabile, senza che sia imposta quella seduta, quel tempo di ascolto, quel modo di ascolto, quelmodo di lettura dell’estensività della partitura. Dovremmo affrontare molto più sistematicamente tutti questi espe-rimenti: noi non siamo un dipartimento universitario quindi essendo uno studio di progettazione ambientale chedeve applicare le proprie ricerche dobbiamo porci dei limiti, non facile frenare la tensione sperimentale.

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Ecco, a proposito dell’oggetto e della continua ricerca, Sciola citando Goya ama dire che“l’artista deve essere cronista e profeta”, è indispensabile quindi che attinga direttamentedalla realtà contemporanea: come nasce e come si evolve soprattutto l’oggetto sonoro?

Il rapporto con la funzione – sebbene a molti livelli di astrazione – inaugura una fase importante del lavoro delGiardino Sonoro: in dialogo con la vita quotidiana, con il design contemporaneo, in particolare con l’experiencedesign e l’information design, ambiti dove il contenuto simbolico della progettazione architettonica si fa espressivoe visionario, metaforico e contenutisticamente variabile, proprio attraverso strumenti progettuali di portata fenome-nologica ed estetica – certamente caratterizzati da una forte vocazione alle nuove (im)materialità. Molte implicazioni sono poi legate alla sensibilità dei nostri moduli e degli ambienti che ridefiniscono. Con sensi-bilità intendo la capacità che i nostri luoghi sonoro-luminosi hanno di ricevere informazioni dall’ambiente in cuisono immersi, capacità che permette ai loro contenuti di trasformarsi grazie al cambiamento delle informazioniambientali che definiamo interagenti. La domotica ci affascina e certamente la formalità esplorata da molti desi-gner ci provoca, com’è nutrimento assiduo anche molta esperienza artistica contemporanea; è nutrimento dellanostra ricerca tutto ciò che si pone puntualmente come stato di sospensione del tempo, sospensione della visione,della costrizione della postura, cambio di prospettiva percettiva e interpretativa.Un nostro modulo sonoro nasce da tutte queste riflessioni, come modulo strumentale alla definizione di un ambien-te immersivamente consapevole.Di progetto in progetto isoliamo risorse e riferimenti per sviluppare la nostra ricerca. La realtà contemporanea? Ilrapporto con la città, con l’indistinzione del caos urbano, credo sia un tema costringente, non solo in termini pre-ventivi ma anche in termini di ricostruzione di una dotazione strumentale nella gestione del suono contemporaneoin quanto grumo indistinto ma distinguibile. Molte persone che hanno visitato il laboratorio del Giardino Sonoro aFirenze raccontano di aver fatto vocabolario di una serie di sonorità che poi riutilizzano nel contesto cittadino pro-prio per leggere la varietà dei suoni, iniziando a editare la loro particolarità quindi non subendo più l’indistinzio-ne casuale, riordinandola, perciò riorganizzandola la parcellizzi, la connoti e la racconti.Ancora realtà? Il rapporto con la natura è stato sorprendente: come negare che molta della complessità formale etimbrica che portavo come ricercatore nel suono si naturalizza adesso attraverso la presenza di un albero, di erba-cee che avvolgono una forma in vetro risonante con particolari proprietà acustiche…Si può definire un contesto esemplificatore o un’interfaccia; certo si può definire sia interruttore che interattore.L’esempio più classico: un bimbo entra nel giardino e inizia a correre, lo può fare perché può correre nell’erbasenza timore; immediatamente si scopre che il multicanale è molto più entusiasmante se correndo lo si incontra elo si supera, inebriandosi delle molte varietà sonore che in un tempo di memoria breve si riescano a conoscere.Siamo alle condizioni base della scienza dell’interazione: conosci, riconosci, utilizza, altera; quando i nostriambienti saranno capaci di compiere completamente l’escursione del processo interattivo forse avremo ambientiintelligenti in grado di rispondere in modo non invasivo alle esigenze d’intelligenza abitativa.

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È stato scritto, inoltre, che di fronte a una scultura di Sciola vengono attivate sia l’attenzio-ne visiva sia la curiosità acustica mettendo in moto un nuovo tipo di rapporto con l’operad’arte, un rapporto di carattere sinestetico nel quale il valore estetico complessivo lo si rag-giunge attraverso l’intervento e la fase interpretativa dell’interprete. A parer tuo cosaaggiunge a questa fase interpretativa il connubio tra sensoristica e oggetto sonoro che sicompierà a Villa delle Rose a Bologna?

Ci sono due valutazioni. Una è di ordine critico e rischioso, l’altra valutazione invece è sempre di ordine critico conun esito più ottimistico. Nel primo esito, con valutazione appunto rischio alto, riconosco uno dei tanti rischi presen-ti anche al nostro laboratorio fiorentino e mi riferisco al fatto che l’elemento installativo originario possa facilmen-te diventare un pretesto, appunto non un contesto esteso ma un pretesto troppo inteso, che dimentica la gestualitàe l’ambientalità implicita nell’oggetto pietra di Pinuccio Sciola, col suo carattere coreografico e relativamente ludi-co. L’altra possibilità è invece molto virtuosa: che diventi un contesto o una porzione di un contesto interpretativocompleto e quindi in rapporto virtuoso con l’intelligenza percettiva di una serie di paramenti materiali e compor-tamentali legati alla pietra sonante e conducenti ad un interaction design specifico (e all’utilizzo di particolarioggetti amplificanti perché la qualità acustica dell’opera di Sciola possa sublimarsi nella sua piena memoria diopera attiva e non conservata). Il rischio è alto nel momento in cui non si riesce a giustificare ambientalmente e storicamente la ricchezza del siste-ma opera. L’installazione IMPIANTO SONORO SCOLPITO ha una vocazione sistemica, ce l’ha in termini sensoria-li, ce l’ha in termini linguistico-espressivi e tutta questa articolazione deve essere restituita in modo puntuale, riper-corribile, riattingibile sui siti internet, in loco con il vostro aiuto di persone presenti e anche con la qualità della realeinterazione in gioco: non ci dimentichiamo che l’oggetto per emanare suono ed emettere suono ha bisogno chequalcuno lo suoni, attenzione a non far diventare troppo artificiale l’operazione della diffusione del suono, è quin-di importante che si possa ricordare il rapporto fisico con l’oggetto. Ogni giorno ad una certa ora viene suonato?Potrebbe essere una soluzione formale e comunicativa. Perché non comunicare che ogni giorno a quell’ora l’og-getto è suonato in modo da diventare poi autoevidente tutta l’astrazione che ne consegue?

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Bottega Bologna di Musica e Comunicazione.

Mi sembra che presentiate un modello di interdisciplinarietà di cui c’è bisogno; quindi vi invito a proseguire, a tro-vare lo spirito realizzativo di volta in volta necessario, pertinente, creando una comunicazione interna sempre piùsofisticata e una comunicazione esterna sempre più professionale ed esaustiva. È un percorso ambizioso e io credoche forse ancora non esistano i modelli economici per rappresentare appieno molta della ricchezza che si riesce aconcepire in particolari momenti della nostra vita associativa e creativa. Questa è una delle grandi preoccupazio-ni; parlerei di poca fantasia giuridica o della poca fantasia organizzativa istituzionale che contraddistingue moltipaesi occidentali ma l’Italia in particolare. Si può sempre dire costituisci un’associazione culturale e definisci il suoscopo, oppure fondate una cooperativa, però non si riesce a fotografare la vivacità della ricchezza professionaleed economico-sociale con cui accadono le relazioni professionali del tipo vostro, molto più variabili e dinamiche.Quindi fra dieci anni sarete ancora voi? Fra un anno avrete modo di approfondire alcuni filoni rilevanti della vostraesperienza? Chi vi finanzierà? Non lo so, non credo che sia un problema solo politico-amministrativo, penso chesia proprio un problema di intelligenza sociale; credo che le società evolute dovrebbero avere dei serbatoi di viva-cità che le rendano sapienti nel tempo, renderle facilmente attive, stimolarle alla professionalità più alta. Quindi uncontesto come il vostro dovrebbe esistere sempre nonostante voi: magari ciascuno di voi potrebbe lasciare il grup-po ma la struttura o l’iperstruttura che rappresentate dovrebbe continuare ad esistere; ecco questo sarebbe un gran-de risultato, riuscire a spersonalizzare i significati del valore che state portando alla città di Bologna e non solo.

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IMPIANTO SONORO SCOLPITO come sintesi della pietra del giardino e dell’oggetto sonoro.

… la sintesi, non so se la sintesi ha a che fare con uno degli aspetti deleteri dell’arte contemporanea, con la suaarrogante autoreferenza, saldezza nell’auto-linguaggio; oppure ha a che fare con la provvisorietà autocritica del-l’atteggiamento e dell’approccio museale/galleristico all’opera. Credo sarebbe un grande risultato di sintesi serestassero tracce intelligenti, diffuse, multicentriche, prima e dopo un’esperienza come quella che state e stiamo peraffrontare con IMPIANTO SONORO SCOLPITO a Bologna. Stiamo lavorando per dei moduli di urbanità fantasti-ca? Allora vedo molto senso… altrimenti sono perplesso, in definitiva dubbioso sul perché di tanto sforzo… Credo che i grandi eventi siano profondamente legati a un’esigenza di cesura che si confà alla standardizzazio-ne della vita mediatica contemporanea. L’evento è un modello che io chiamo spesso di cattiva metafisica, special-mente quand’è in rapporto con l’idea dell’esposizione e della fruizione/ordinazione di massa… sono infatti impau-rito dalla forma concerto, vengo da un’esperienza militantemente musicale ma mi resta l’orrore per quel cattivonutrirsi di se stessi che il linguaggio musicale mette in gioco ogni volta che pensa di dover dare un’idea di tempochiuso, di luogo chiuso, di azione chiusa, di relazione distante, di amplificazione più o meno centrata e centrale… Mi sembrano delle sconfitte dell’umanità libera che si perpetuano, e vedo la forza del suono che prepara ad unaguerra permanente… forse è così, ma vorrei una cultura interespositiva di pace; mi piace immaginare che la sin-tesi della vostra operazione, della nostra operazione, possa essere continuare ad esistere indipendentemente dalluogo fisico in cui per breve tempo accadrà. Mi sembra importante immaginare che nascano dei metodi chiari permettere in relazione opere e statuti estetici diversi: le loro precomprensioni e complessità e gli ambienti nei qualivengono poi fruite si devono aprire interpretativamente alla quotidianità. E mi piace pensare che non esista unprima o un dopo, ma che esista un’esigenza sistematica e costante per questa interazione tra tutte le vite. Vedete,sono profondamente contro la morte, la fine del gioco.

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con i piedi nell’erba e nel fienoe le mani sporche di terra

pascolando voci di un sapere antico,

da custodire.

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“All’inizio dei tempi il nostro mondo era ricoperto di acqua salata.Trascorse del tempo e l’acqua si raccolse verso nord. Fu così chelentamente le terre emersero. In questa epoca gli antenati che abitavano il cielo videro inlontananza una grande quantità di inapatua, degli esserirudimentali che vivevano in gruppi sulle rive dell’acqua salata. Gli inapatua non mangiavano, non avevano membra distinte néorgani di senso. La loro forma era simile a quella di un uomoimbozzolato. Accadde che antenati decisero di trasformare gli inapatua in veriesseri umani. Fu dunque così che, scendendo dalla loro dimoraceleste impugnando dei grandi coltelli di pietra, gli antenati siavvicinarono agli inapatua. Li presero uno ad uno e iniziarono apraticare delle incisioni sul loro corpo. Dapprima liberarono lebraccia, poi, facendo quattro tagli più piccoli, formarono le ditadella mano. Lo stesso fecero con le gambe. Non ancora soddisfatti, gli antenati praticarono una fendituraorizzontale sul capo ottenendo così la bocca. Aprendola erichiudendola più volte permisero alla bocca di articolarsiautonomamente. Con due tagli più piccoli, gli antenati crearonoinvece le palpebre al cui interno si trovavano già gli occhi. Con lostesso sistema ottennero infine il sesso degli uomini e delle donne. Fu a partire da questo momento che gli antenati poteronosuddividere il genere umano secondo differenti clan, ciascuno deiquali diede origine ad una ricca discendenza.”

Martino Nicoletti, …Da un mito di creazione Arunta (Australia centrale)

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Martino Nicoletti, Mekong, fotografia stenopeica (2006)

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Intervista a PINUCCIO SCIOLA

Le tue origini. Sei nato e cresciuto in una famiglia contadina ma anche dalla pietra, come miraccontavi.

Io credo che chi lavora la pietra come sto facendo io abbia le sue origini ben più in là della propria famigliaanagrafica. Origini lapidee che vanno oltre il tempo dandomi veramente uno spessore pietrificato. Credo sianormale che chi lavora la pietra stia dentro a questa dimensione senza tempo. L’uomo nella sua breve esisten-za è un attimo rispetto al tempo del tempo, non ci è dato poter vedere una pietra invecchiare. In quest’attimol’uomo cerca di vivere o di sopravvivere agli eventi di questo pianeta: io lo faccio segnando delle pietre,nell’ultima fase scoprendone i suoni ma anche cercandone il silenzio.

Dopo il diploma hai viaggiato tantissimo, hai conosciuto tutti i pavimenti delle stazioni fer-roviarie d’Europa e non solo.

Il viaggiare per qualsiasi artista è indispensabile perché toccare confrontarsi vedere misurarsi è indispensabile.Fino all’età di 18 anni non ero mai arrivato neanche a Cagliari che dista appena 15 km da San Sperate, ilpaese dove sono nato. Appena diplomato, nonostante mi avessero proposto di restare ad insegnare, sono let-teralmente scappato proprio perché si era scatenata in me la necessità di sapere altro, quindi di conoscere edi vivere altrove. Così ho fatto per parecchi anni al Magistero d’arte di Firenze prima, poi frequentandol’Accademia Internazionale di Salisburgo, la scuola fondata da Kokoschka. Ricordo i bisticci con EmilioVedova, le lezioni di Minguzzi e poi Kirchner. Andavamo alle prove di von Karajan. Un impatto internaziona-le enorme che mi ha portato a frequentare per altri quattro anni questa straordinaria accademia, una scuoladi vita più che una scuola d’arte e di contatti internazionali soltanto. Naturalmente non tutto si fermava aSalisburgo. Finito il corso ho viaggiato in tutta Europa perché sentivo la necessità di conoscere i musei, le cat-tedrali, le opere d’arte che costituiscono l’immensa ricchezza artistica di questo nostro vecchio continente.Naturalmente, come accennavi, non potevo permettermi di dormire negli alberghi delle diverse città. Il mioalbergo preferito in quel caso erano le stazioni ferroviarie, luogo importantissimo per i contatti che potevostringere.

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Dall’Europa al Messico ci sono due frasi che hai fatto tue: citando Goya affermi che “l’ar-tista deve essere cronista e profeta”, dall’esperienza in Messico invece hai ereditato que-sto soprannome, “un maya che è venuto e ha vissuto lontano da qui”. Dicevi poco fa checerchi oggi di lasciare tracce della tua presenza nella pietra e sulla pietra.

Il mio rapporto con i viaggi nasceva prima di viaggiare, non so spiegare perché. Quando mi approcciavo arealizzare delle sculture di una certa dimensione, naturalmente prima ancora di aver frequentato le scuole,cominciavo a fantasticare, e se c’era un posto che volevo visitare non era né Parigi, Roma o Firenze, ma ilMessico. Quando sono stato buttato al liceo artistico mi sono letteralmente mangiato tutti i libri della biblioteca,quelli sulla cultura precolombiana i miei preferiti. Successivamente, l’aver vinto un’altra borsa di studio per laSpagna mi ha permesso di apprendere lo spagnolo per poter finalmente andare in Messico. La frase straordi-naria di Goya che avevo scoperto all’Università di Moncloa a Madrid affemava che el hombre que nació enFuendetodos, appunto Goya, fue cronista y profeta. Un artista, e io questo lo verifico costantemente, è necessa-riamente un cronista che attinge dalla propria realtà contemporanea e per essere tale, artista, deve avere unqualcosa in più, una spiccata capacità inventiva e creativa. Durante il soggiorno in Spagna ho avuto inoltre l’op-portunità di entrare da solo nella grotta di Altamira con una torcia e, come l’uomo di 4000 anni fa, ho potutotoccare con mano quello che avevo sempre intuito: prima di tutto c’è la scultura, come recita anche la frase chein seguito ho appreso a Città del Messico lavorando al fianco del maestro Siqueiros, la escultura es la herma-na mayor de la pintura porque llega directamente desde la tierra, la escultura es la naturaleza misma. Ecco chela scultura viene prima della pittura.

Pittura e Scultura sono due sorelle, una minore e una maggiore.

Nel mio caso è chiaro che la sorella maggiore, la scultura, è quella che mi condiziona di più. La pittura certola esercito, basta pensare ai murales che fanno vivere il mio paese, San Sperate. La scultura però è sempremolto più seria della pittura, molto più severa, anche e soprattutto quando ci fa sentire i suoni che sono alsuo interno.Mi sono recato in Messico per conoscere appunto il muralismo messicano per la prima volta nel 1973, direche stavo arrivando a casa era la stessa cosa. Il segretario dell’Unesco di Città del Messico guardando una seriedi fotografie delle mie sculture, mi disse hombre tu eres un maya que ha vivido muy lejos de aqui. È stato quan-do in seguito ho avuto la fortuna di arrivare in Perù che credo di aver rintracciato queste mie origini artistiche.Osservavo dei segni che sentivo miei, potevo farli combaciare perfettamente con le foto di alcuni dettagli delle scul-ture che facevo allora. Gli amici peruviani mi dicevano puede intonce que tu eres una reincarnacion. Tutta lacultura incaica mi ha toccato profondamente.

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Una volta hai detto che la Sardegna è la più bella scultura del Mediterraneo, lo stesso mitofondatore della Sardegna è un’altra storia di scultura.

Questo lo sostengo continuamente, tanto più lo posso affermare adesso dopo tanti anni di viaggi in molte partidel mondo. Il paesaggio, le montagne, le pietre come tutto il contesto naturale fanno della Sardegna la piùbella scultura adagiata al centro del Mediterraneo. Naturalmente questo mi porta a fare altre considerazioni,altri progetti. Se questa è la scultura più bella che esiste al centro del Mediterraneo mi sembra naturale chequi debbano venire tutti gli scultori del mondo, e questo fa parte di un prossimo progetto che mi piacerebbepoter organizzare. Una grande scultura di almeno 240 km, da Cagliari fino a Porto Torres, attraversando tuttala Sardegna e organizzando lungo la superstrada dei siti con allestimenti di grandi pietre, grazie all’apportodi tanti scultori internazionali. Questa sarebbe un’ulteriore valorizzazione di questa grande scultura, del suopaesaggio e della sua cultura più primitiva.

La scelta del monolite è il momento più importante della tua creazione artistica, una sortadi corteggiamento che tu hai con la pietra.

Ho avuto fin da subito la possibilità di conoscere in prima persona che cosa la natura stessa crei di giorno ingiorno, a partire dai licheni delle pietre. Ancor prima di andare in campagna, cosa che faccio ancora tutti igiorni, mi accingo ad attingere all’energia che si trova nella natura. È in questi paesaggi che io cerco le pie-tre che poi mi servono per realizzare le sculture, anche se mi auguro un giorno di non dover toccare per nullauna pietra.Sarebbe bellissimo, ad esempio, in tutti gli angoli del mondo dove la natura è ricchissima, non soltanto inSardegna, poter collocare delle cornici vuote e guardarci dentro. Senza dover cercare la firma di nessuno,sicuramente potremmo riflettere sulle emozioni che fanno sì che un’opera d’arte sia ricca per l’uomo e che con-tinui a vivere con la natura.

A proposito di questo tuo nuovo rapporto con la natura, la pietra sonora significante di persé ribalta una serie di concetti, a partire da quello della “pietra muta sentinella del tempo”.

Sentinella del tempo lo è in ogni caso, diciamo che non è più tanto muta. Grazie alla tecnologia è possibileentrarci, creando queste sottili lamelle o quadrettature che per una leggera vibrazione fanno uscire i suonicustoditi dentro la materia. Molti dicono che questa sia un’intuizione magica perché, di fatto, i suoni della pie-tra fuoriescono soltanto accarezzando la materia, non più percuotendola. Questa per me è una delle più gran-di soddisfazioni, è questo che intendo come educazione, offrire cioè questa possibilità di poter amare di piùla natura. Non capisco perché non posso fermarmi ad applaudire un albero in fiore, un’altra grande manife-stazione del creato.

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Hai attinto molto dalla cultura e dalla filosofia incaica, uno degli insegnamenti che ti portidietro è che la pietra è la spina dorsale del mondo.

Questo è un detto, un dicho, tra l’altro proprio come si dice in sardo pur se di origine spagnola. Nell’Americadel Sud lo è quasi figurativamente, le cordigliere delle Ande sono, infatti, una spina dorsale naturale, e que-sto accade in tutti i continenti dove la pietra è comunque quella che sostiene, struttura portante. Diciamo cheè naturale che la pietra sia la espina dorsal del mundo. Questo era un detto incaico così perfetto che ancoraoggi nessuno lo potrebbe contestare, ma che cosa è oggi la pietra? Io me lo sono chiesto tante volte, oggi, èsotto gli occhi di tutti, la pietra è più importante che mai anche se non é più utilizzata così come veniva utiliz-zata fino alla metà del 1900, prima dell’avvento dell’acciaio, del vetro, delle nuove tecnologie. La pietra par-rebbe soltanto un elemento paesaggistico, ma al contrario basta pensarci un attimo e ci si accorge che oggi,dal più banale orologio ai più sofisticati microchip, tutto funziona con la pietra. Le sìlici e i quarzi sono pietree dentro la pietra c’è tutta la memoria dell’universo. Gli stessi meravigliosi strumenti che sondano lo spaziofunzionano attraverso la tecnologia computerizzata che viene dalla terra. I suoni che noi abbiamo verificatonelle registrazioni spesso sembrano suoni siderali. Quindi io immagino, citando la mia carta d’identitàQuando non ero e non era il Tempo, una massa incandescente che attraversa l’universo e nella sua traiettoriaincastona dei pezzi di stelle che poi io ritrovo dentro la pietra. La pietra in questo caso diventa davvero archeo-logia dell’universo, e i suoni che noi registriamo sono quei suoni che lungo il suo tragitto ha incamerato e chenoi troviamo ancora naturalmente celati dentro la pietra. È bastato soltanto scoprirli.

Sostieni che nel tuo mestiere non c’è mai un punto di arrivo, la tua è una costante e conti-nua ricerca e sperimentazione. Volevo chiederti della prima volta che hai scoperto il cielodentro il basalto, la materia che utilizzi per le pietre sonore da una dozzina di anni ormai.

Ho iniziato a scolpire la pietra qui in questo paese dove le pietre non ci sono. A soli sette otto anni riuscivocon un martello e uno scalpello a spianare delle pietre, a squadrarle. Cercavo di riuscire a trarne una figura,un viso, anche con gli strumenti più rudimentali. Andavo quindi cercando tutte le pietre che potevo trovare egià da allora andavo registrando, con martello e scalpello, che pietre diverse mi rispondevano con suoni diver-si. Naturalmente non ci facevo caso perché era naturale che a pietra diversa corrispondesse un differentesuono percussivo. E così per anni ho continuato fino a Firenze, dove ho lavorato una sola volta il marmo e maipiù. Rientrato dopo anni di viaggi in tutto il mondo ho ripreso a lavorare per scelta le pietre minori proprioper ridare dignità a questo elemento povero. Soprattutto quando si devono fare dei lavori molto grandi, per togliere un pezzo di 40-50 cm da un bloccogrande 2 o 3 metri e per agevolare il lavoro, si praticano una serie di tagli più o meno paralleli con uno sme-riglio, così da sbalzare un bel pezzo di pietra con un semplice colpo di martello. Con il basalto, essendo unapietra molto più dura delle altre trachiti che andavo utilizzando in quel periodo, questi tagli dovevo farli moltopiù ravvicinati. Mi è capitato sbadatamente di passarci sopra le mani e sentire delle piccole vibrazioni, diffe-

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renti secondo lo spessore della lama, della profondità e naturalmente del tipo di pietra che andavo utilizzan-do, perché i basalti sono diversissimi l’uno dall’altro. Questo mi ha talmente incuriosito che ho continuato a tagliare la pietra quadrettandola o realizzando lamel-le verticali, dando origine a delle sonorità che non avevo mai sentito prima. In seguito, grazie anche all’incontro con altri amici musicisti che si sono trovati spiazzati, ho continuato adapprofondire questa tecnica di estrazione del suono, fino ad arrivare a queste possibilità sonore che non sonometafore perché chiunque le può ascoltare. Naturalmente, accostandosi con profondo rispetto alla pietra,appoggiandoci l’orecchio come si faceva da ragazzi con le conchiglie.

Ancora a proposito della pietra sonora: tu hai parlato di un suono non percussivo, un suonoinedito soprattutto perché nessuno l’aveva mai ascoltato prima.

Credo che questi suoni siano custoditi dentro la pietra da sempre, soltanto che mancando la tecnologia di cuioggi disponiamo nessuno era mai riuscito ad entrarci per mezzo di lame affilatissime, creando queste fendi-ture più o meno sottili che generano sonorità differenti. Anche in Cina e Giappone si realizzavano lamelle finis-sime che appese sbattevano l’una con l’altra soltanto per il soffio del vento, creando sonorità straordinarie. Mapur sempre si trattava di sonorità percussive, mentre trovo straordinario il suono dato dalla vibrazione dellapietra, elemento durissimo, per una semplice carezza. Il mio rapporto con la pietra è un puro atto d’amore ecome in un rapporto d’amore la carezza, assieme allo sguardo, è quell’elemento che fa sentire anche fisica-mente il rapporto con il prossimo, in questo caso con la materia. Che la pietra suoni quando viene accarez-zata e non più percossa, lo possiamo oggi vedere, sentire e constatare. È un fatto di grandissima emozione,non credo che possa esistere un qualsiasi artista che non sia anche poeta, che non sia cioè capace di produr-re emozioni.

Quando sei approdato all’utilizzo dei dischi diamantati con cui oggi incidi il basalto, pene-trando la materialità della pietra stessa?

All’inizio, lo raccontavo prima, non potevo permettermi neanche scalpelli, così che per scolpire utilizzavo glielementi più disparati. Per anni ho usufruito della tecnica naturale dello scultore e naturalmente la conoscen-za e l’apporto della tecnologia mi ha permesso, con intuizioni che possono sembrare anche inizialmente bana-li, di entrare dentro la pietra e tirarne fuori questi suoni. A Carrara, ad esempio, il marmo viene levigato tal-mente tanto da diventare burro o qualsiasi altra cosa, ma non più pietra. Ognuno utilizza la tecnologia secon-do la propria sensibilità, la propria intelligenza. La tecnologia è oggi indispensabile anche in quest’ultima fasediciamo così della mia sperimentazione, quando sto cercando di estrarre il silenzio dalla pietra. Sembra natu-rale che la pietra sia silenziosa, muta, però grazie alla tecnologia sono riuscito a scovarne un silenzio tombale.

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La prima volta che hai incontrato la Bottega.

È stato tre anni fa quando è venuto a trovarmi Pier Luigi. Era molto incuriosito dalle mie sculture, lo ricordobene, ma io ovviamente non sapevo chi fosse e tanto più non sapevo cosa fosse la Bottega, anche se lui midisse subito che faceva parte di questo gruppo di Bologna, di musica e comunicazione. Questo mi ha moltoincuriosito, perciò mi sono prodigato a fargli ascoltare il suono che producevano le pietre e lui, che in quelmomento non aveva con sé un registratore, è tornato una seconda volta perché mi disse che era interessato aregistrarne i suoni per portare questa esperienza a voi del gruppo. Non era ancora nata la proposta concre-ta della mostra, credo che fosse però già sbocciata nella sua mente appena ha sentito la pietra suonare, quin-di intuendone una novità assoluta anche per una città viva e colta qual è Bologna.

La tecnologia, come sai, nel nostro progetto serve per riprodurre nel contesto di Villadelle Rose a Bologna la stessa sensazione che si prova appoggiando l’orecchio alla tuapietra, suonata dalle tue stesse mani qui a San Sperate. Cosa pensi di questo utilizzodella tecnologia applicato alle pietre sonore?

Credo che questa sia l’esperienza più entusiasmante a partire dal 1999 quando per la prima volta ho porta-to le sculture sonore alla fiera del libro di Torino, nell’incontro e nell’unione straordinaria tra l’elemento primodella terra la pietra, appunto, e la massima tecnologia disponibile. Oggi, la possibilità di far interagire nelparco di Villa delle Rose le persone a cospetto di alberi e pietre sonore, di giorno ma soprattutto di notte, illu-minate dagli oggetti sonoro-luminosi, credo sia un fatto meraviglioso.

Le tue diverse sculture rimandano a tempi diversi in quanto sono ovviamente il frutto diun percorso scultoreo in atto da molti anni. Vorrei che ci descrivessi alcune delle tue scul-ture, cominciando dalle foglie morte.

Le foglie morte fanno parte del mio bagaglio agricolo. Come ti dicevo prima provengo da una famiglia con-tadina e devo dire che in età matura tanto più che da ragazzo sto attingendo continuamente a tutta la mia cul-tura contadina. Le foglie di pietra rappresentano un elemento naturale scaturito da scaglie di pietre sulle qualiho inciso soltanto delle piccole venature, come su una foglia.

Le pietre sedili rimandano invece alla storia degli uomini. Nel cortile d’Onore di Palazzod’Accursio porteremo un piccolo salotto megalitico, un divanetto due poltrone un tavolo,attorno al quale si terranno una serie di letture.

Quando ho cominciato a realizzare la prima pietra sedile mia madre mi rimproverava continuamente, perchéstavo rovinando la panca che utilizzavano per sedersi sul ciglio del portone nella strada, ma non trovavo altrepietre così grandi da poter scolpire. In seguito ho dovuto comunque risarcire questa panca che avevo rovina-

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to con una figura, quindi ho realizzato una serie di poltrone in pietra quasi a voler accogliere l’uomo. La pro-posta dell’utilizzo di questi elementi nel Cortile d’Onore di Palazzo d’Accursio mi piace moltissimo perché que-ste sculture primordiali le ho realizzate oramai 25 anni fa, per celebrare il tempo dei padri.

Ci sono anche i semi di pietra, me ne raccontavi a Bologna quando sei venuto a trovar-ci la prima volta.

Costituiscono un altro fatto importante del costante attingere alla mia cultura contadina. Ho realizzato in que-sto caso dei semi di pietra che ho letteralmente seminato, con un aratro trainato dai buoi e un piccolo vome-re. Con questo gesto sostengo l’esistenza anche di un’opera che non si vede, così come esiste l’amore che sipuò cogliere soltanto attraverso lo sguardo, l’affetto, il rispetto che in questo caso dobbiamo alla madre terra.Dal seme di pietra nasce la montagna, mi hanno detto i bambini.

Le pietre fuse.

Questo è un aspetto che sto ancora verificando, un ulteriore capovolgimento di quello che è stato l’utilizzo dellapietra o la concezione stessa della pietra. La pietra, dicevamo prima, è sempre stata la muta sentinella deltempo ma oggi non è più vero perché possiamo sentirne i suoni, la pietra è sempre stata presente nella suaopacità ma oggi vediamo che diventa anche trasparente. Intervengo in una pietra naturale e polimorfa dise-gnando geometrie perfette. Mi sono imbattuto nelle pietre fuse cinque o sei anni fa, quando dovevo tagliareun ferro vecchio con la fiamma ossidrica, strumento che già conoscevo. Avevo in macchina alcuni di questisemi sui quali avevo inferto due tagli, una ferita profonda. Puntando la fiamma ossidrica sulla pietra, questacomincia ad arroventarsi così tanto da non riuscire a sostenerne la vista ad occhi nudi e così continua, fino abollire. Ho riportato la pietra alla sua origine lavica. Un momento per me paralizzante, l’essere entrato den-tro questo universo che è il centro della materia. Sono gocce di sangue, una cosa impressionante. Tolta la fiam-ma questo vetrifica immediatamente e non rimane altro che sangue raggrumato. Un’ulteriore testimonianza chela pietra è una materia vivissima. In fondo, si potrebbe dire che il grafico delle diverse altezze sonore cheabbiamo registrato altro non è che l’elettrocardiogramma della pietra.

Hai detto che la necessità di divulgare l’arte da te molto sentita è un’utopia, in quantoaffermi che un artista non può mai essere un insegnante e che quindi l’opera d’arte nonpuò ridursi a pura didascalia.

Un artista non può essere un insegnante nel senso più didattico del termine, mentre io credo che qualsiasi crea-zione artistica abbia semplicemente questa possibilità di creare emozioni. Forse è già qui la differenza con lascuola che crea tecnica. Ora l’artista deve necessariamente essere anche un poeta, così da comunicare e tra-smettere emozioni genuine e in quanto tali alla portata di tutti.

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Grazie alla tecnologia noi registriamo, per la prima volta con dei microfoni a contatto,il suono che proviene dall’interno della pietra per diffonderlo in un parco pubblico. Cosapensi di questa dimensione non elitaria dell’arte, della tua scultura e degli oggetti sono-ri installati in questo contesto tecnologicamente complesso ma che si espone e va incon-tro alla gente comune?

C’è chi mi ha detto che in montagna ha visto delle pietre che sembravano mie sculture. Allo stesso modoascoltare il suono delle pietre non è un’occasione elitaria. La pietra e la montagna appartengono a tutti e iocredo che chiunque che abbia un minimo di sensibilità possa avvicinarsi e amare questi suoni, scoprendo ununiverso che ancora non si era espresso.

IMPIANTO SONORO SCOLPITO, infine.

In questa mostra c’è tutto, dall’esposizione delle sculture alla realtà sonora del giardino passando per l’inte-razione della gente con il suono delle pietre, quindi con una certa teatralità del movimento. Ci saranno scam-bi, confronti e commenti, diventerà non solo una mostra di sculture ma un evento che possiamo tranquilla-mente pensare a 360 gradi. Credo che in tutto quello che possiamo fare, che dobbiamo fare anche se nonprogrammato, noi dobbiamo sempre porre e porci delle domande. Non riusciremo forse mai a poter offriredelle vere e proprie risposte, ma creando eventi così complessi, manifestazioni così articolate, noi accentuia-mo la possibilità di interrogarci sul mondo che ci circonda, sulla natura che ci accompagna nella nostra vita. Mi piace pensare che eventi come questo vadano anche oltre la mia scultura, la pietra sonora, nella direzio-ne a me assai cara di poter riscrivere il nostro rapporto con la Natura.

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Come linfa preziosa, vita che si infiltra

e spacca la crosta dura della pietrain squarci di memoria

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La Cosmogonia sonora delle pietre di Sciola

Fonemi intraducibili, articolazioni di suoni rochi e profondi, a tratti solo respiri dolenti, bisbigli o pianti cangian-ti in lamento. Note liquide che scivolano affaticate tra brusii e sussurri metallici. Un linguaggio misterioso e alie-no, inaspettatamente familiare seppure inequivocabilmente altro.È la voce suggestiva e straniante delle Pietre sonore di Pinuccio Sciola: non suono disciplinato nel tessuto ordi-nato di una partitura musicale ma materia fisica vibrante, alla quale lo scultore si accosta con la stessa tensio-ne dialettica con cui si rapporta alla fisica plasticità della materia litica. Perché il suono è, per Sciola, sostanzaintrinseca alla pietra.Un’intuizione, questa, che ha portato l’artista ad individuare, in anni recenti, una inedita dimensione della pras-si scultorea e a riattraversare territori già noti, esplorandone nuove possibili direzioni, fino a tracciare un itine-rario innegabilmente singolare e difficilmente uguagliabile.L’insistere sulla medesima materia litica affrontata negli anni Ottanta e Novanta, tuttavia, assume ora connota-zioni differenti. Sciola non cede solo alla seduzione della pietra, al fascino della materia primordiale, alla impo-nente monumentalità di basalti consumati nello scorrere infinito dei giorni. No, il suo è un abbandono nuovo,un incanto cui non può e non vuole sottrarsi: è la voce del Tempo – prigioniero antico incastonato tra i cristallidi rocce magmatiche nate agli albori del Cosmo – che lo chiama, e lui, ammaliato, si lascia catturare.Nato in un’isola di pietra, l’artista ha maturato nel tempo la convinzione che questa materia antica, che luistesso definisce suggestivamente “spina dorsale del mondo”, sia la memoria tangibile dell’origine dell’univer-so e che trattenga in sé, imprigionata nelle sue concrezioni, la storia codificata del suo dipanarsi nel tempo.Una memoria ancestrale la cui voce struggente, annichilita di intimi trattenuti respiri, sgorga oggi dalle visce-re profonde e segrete delle pietre-sculture attraverso le fenditure sensibili create dall’artista, per ricongiun-gersi alla voce di un tempo presente: e questa, indubbiamente, appare essere la declinazione di un nuovo edavvincente statuto estetico.Le Pietre sonore rappresentano, infatti, gli esiti più alti e significativi della stagione matura del percorso diSciola, un percorso lungo quasi un cinquantennio che, sebbene composito e variegato, ha saputo preserva-re una chiara coerenza progettuale ed una originale cifra estetica e stilistica.Un percorso nato sul finire degli anni Cinquanta, quando Sciola, non ancora diciottenne, muove i primipassi nell’ambito della sperimentazione plastica, seguendo una vocazione che già da bambino lo avevaportato a cimentarsi con il disegno ed il modellato in creta fino alla scoperta della pietra e delle sue ine-sauribili suggestioni.Sono gli anni della formazione, ma già le sue sculture rivelano l’impronta di una forte personalità artisticache, nel tempo, si orienta progressivamente verso una rigorosa essenzializzazione delle forme, in un pro-cedere che è sempre più colloquio attivo, confronto dialettico con la materia che abilità tecnica. Per Sciola,infatti, la pietra non è mai sostanza inerte da scolpire o modellare, ma piuttosto entità animata di vita pro-

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pria, alla quale egli sente l’urgenza di accostarsi in un dialogo aperto e dinamico. La stessa urgenza che,nel corso degli anni, lo chiama a confrontarsi con arti e culture differenti, con intuitiva sensibilità e curiosi-tà esigente, alla ricerca di continui stimoli e conferme per la sua arte.Negli anni Sessanta il Magistero d’arte di Firenze, nel decennio successivo l’Accademia di Salisburgo conEmilio Vedova e Oskar Kokoschka, e ancora gli incontri con Giacomo Manzù ed Henry Moore, il Messicocon David Alfaro Siqueiros. L’Europa, l’America Centrale, l’Africa: tappe importanti di un percorso forma-tivo, artistico e culturale intenso, che porta Sciola nei luoghi dove più forte e percepibile è il richiamo“all’espressione primigenia”. E le opere realizzate tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta –quando cioè il sistema teorico dell’artista, assimilata ormai da tempo la lezione dei maestri della grandetradizione scultorea italiana ed europea, si organizza secondo ben precise direttrici antropologiche – reca-no tracce sedimentate e consapevoli di queste ricognizioni.Così, accanto ad opere che offrono una rilettura volutamente non mediata di motivi appartenenti alla cul-tura della sua terra (dalle protomi taurine alle linee centinate delle porte tombali, ai petroglifi antropomor-fi), una sottesa coerenza antropologica porta l’artista a realizzare Steli in trachite dalle superfici ruvide,decorate con geometrismi spiraliformi echeggianti le iconografie simboliche delle civiltà precolombiane, alungo studiate nei viaggi in Messico e in Perù, o Sculture lignee sinteticamente sbozzate in asciutte sembian-ze antropomorfe, le cui severe riduzioni formali rimandano alle atmosfere potenti e suggestive delle cultureprimitive africane.Per quanto composita negli esiti, tuttavia, la ricerca condotta da Sciola in questi anni rappresenta una fasesignificativa e cruciale del suo fare artistico, e non è un caso che le opere realizzate nella prima metà deglianni Ottanta compaiano in un importante ciclo di mostre tenute tra il 1983 e il 1986 in alcuni tra i più inte-ressanti musei d’arte moderna della Germania.La ricerca di un comune denominatore tra le grandi culture archetipali della storia dell’umanità, al di là del-l’inevitabile eterogeneità delle grammatiche espressive incontrate e adottate, porta l’artista a scarnificaresempre più insistentemente la “forma” per indagare i “principi” profondi e impenetrabili dell’universo.Dalle rappresentazioni antropomorfe dei primi anni alla figurazione aniconica degli anni Ottanta: il pro-cesso di riduzione formale che Sciola ha via via operato, orienta in modo sempre più definito e inequivo-cabile la sua ricerca verso quella dimensione geometrica, astrattizzante e minimalista, che caratterizza l’av-vincente ed originale produzione degli anni Novanta, una produzione che pare teorizzare una sorta di ese-gesi animista della Natura e del Cosmo.Nella stagione che chiude il Millennio, Sciola scopre nuove strade e nuovi esiti, affrontando con rinnovataconvinzione un tema già percorso anni addietro, quello delle “pietre legate”, blocchi di trachite sulle cuisuperfici affondano incisioni sottili, come corde tese a imbrigliare una materia ribelle, restia a riconoscersistatica e priva di vita. Di esse, nel passato, lo scultore aveva solo intuito la vitalità pulsante di una materiaapparentemente inerte, una materia la cui esistenza era stata troppo a lungo “negata”, ora egli ne perce-pisce distintamente l’anima, la vita che vibra sotto la scorza dura di stratificazioni millenarie, la volontà for-micolante e l’urgenza di un’entità che lotta per affermare la propria identità.

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Così, accanto alle Pietre legate appaiono Forme verticali e Steli colonnari, affusolate forme aniconiche dai forticontrasti materici, che dietro i ruvidi manti lasciano intravedere piani straordinariamente levigati, superfici“mute” che invitano ad insinuarsi nelle segrete profondità della materia per giungere a coglierne l’essenza piùintima, lungo i tagli netti e acuminati dalle geometrie verticali, che lo scultore realizza penetrando la pietracon violenza sensuale, affondando in essa affilati dischi metallici, rincorrendo il ricordo di fenditure analoghe,modellate dal scorrere naturale del tempo.Il percorso gnoseologico di Sciola si delinea, dunque, in modo sempre più chiaro ed esplicito, tanto che dopoaver caparbiamente indagato nella materia per ritrovare il nucleo del mistero della vita e averne percepitol’anima ancestrale, l’artista è ormai pronto ad andare oltre, nel tentativo di superare la finitezza del mondo.Attingendo alle fonti del pensiero e, particolarmente, alle teorie degli antichi filosofi greci – all’idea pitagori-ca di Cosmo come ordine delle cose, e più ancora, alla rigorosa e razionale rappresentazione dell’universofisico del Timeo platonico – egli elabora, così, una suggestiva e visionaria teoria cosmogonica, ritrovando nelmicrocosmo di magmi cristallizzati nelle viscere di neri basalti, la sconosciuta vastità del macrocosmo e le sueinfinite costellazioni. Per questo, a partire dai primi anni Novanta, l’artista sceglie di utilizzare per le sue operequasi esclusivamente pietre basaltiche, perché i basalti, più delle trachiti o dei graniti, conservano la memoriacosmica di un tempo lontano, fatto di lave incandescenti, di magmi fluidi e arrossati, di impasti raggrumati eraffreddati nella dolorosa genesi di un Caos primordiale.E proprio la riflessione sul cosmo porta Sciola a realizzare il Cielo di pietra, opera monumentale fortementeevocativa che riflette l’ordine cosmico e la presenza pulsante dell’“altrove” e che, come gran parte delle operedi questi anni, evidenzia anch’essa un’intrinseca ambiguità formale: da un lato corazza antica e impenetrabi-le dove le ferite lasciate dal tempo appaiono ormai come cicatrici sbiadite; dall’altro specchio di pietra daicontorni irregolari e sfrangiati, superficie levigata che cattura la luce nera di presenze siderali, cui si sovrap-pongono, discrete, le possibili rotte celesti tracciate dall’artista per non smarrirsi nell’infinità dell’universo.La presenza dell’artista, a questo punto del percorso, appare tanto controllata e contenuta da essere si presen-te ma ormai quasi inavvertibile, e ciò fa sì che le opere appaiano come puri frammenti di materia sui quali lanatura ha depositato le tracce vive di licheni colorati, rocce che conservano le scorze e le cortecce naturali, opietre lasciate volutamente intatte, su cui egli interviene aprendo varchi sempre più minimali, a segnare pas-saggi filiformi per penetrarne l’essenza più intima e farsi interprete del loro mistero.In questi stessi anni Sciola ha tracciato una linea di ricerca parallela, approfondendo la tematica del binomio“natura/cultura”, materia oggi drammaticamente attuale che, fin dagli inizi della militanza artistica, lo ha por-tato ad operare sulle urgenze socio-ambientali della realtà umana e naturale, attuando una strategia di ride-finizione del paesaggio che muove da imprescindibili premesse di carattere culturale, secondo cui si rendenecessario attivare stimoli percettivi idonei che consentano una corretta integrazione dialettica con lo spazioambientale.Nascono da queste premesse i Semi di pietra, forme ambigue dense di osmotici ordini di sensi, embrioni gra-vidi di fertile materia viva, schegge convesse che affiorano fra gli orli slabbrati di scorze rocciose, vulve schiu-se nel compiersi dell’”evento”, nucleo organico di pietra che attende di generare altre pietre.

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Ancora una volta Sciola insiste su una metafora “biologica”: i Semi di basalto diventano così, attraverso un coe-rente slittamento di senso, organismi vegetali viventi, come già, anni addietro, similmente lo erano state le Spighein trachite, in un procedere spiraliforme che è un andare avanti regolare ed incessante, ma anche, via via, unirreversibile processo di azzeramento, un’immersione nel nucleo originario dell’universo per consentire, con ilcompimento del sacro rito della fecondazione, il rinnovamento della Materia, della Vita stessa.Nel 1996, nel corso di un intervento ambientale – la Semina delle pietre – a Niederlausitz, in Germania, PinuccioSciola tracciò un solco nei pressi di una miniera in disuso, su una terra lungamente violata e resa sterile da sac-cheggiamenti rapaci e indifferenti, e vi seminò alcuni dei suoi semi di pietra: gesto antico di un uomo nato con-tadino che rinnova il rito ancestrale della fecondazione, gesto pregnante e attuale di un artista che spargendo i‘semi’ della sua arte nel grembo della Terra, la feconda e la rigenera, riconciliandosi con essa nella promessa dinuova armonia e nuova vita.A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, tuttavia, un ulteriore sviluppo di questa poetica così intensa-mente visionaria, porta Sciola a ritornare ancora sui suoi passi – là tra le pieghe segrete di impasti sopiti dovegià aveva scavato, frugato, sondato – alla ricerca di una dimensione non ancora esplorata ma reale e concreta,alla ricerca degli imprevedibili e imprendibili alfabeti della pietra.Inconsapevolmente, già negli anni in cui teorizzava le origini siderali del basalto, lo scultore non indagava sola-mente il mistero muto dell’anima della pietra ma anche la sua storia e, dunque, la sua voce. Dopo essere pene-trato nei blocchi rocciosi con la cruda verticalità di tagli e spaccature profonde, che lasciavano intravedere, a trat-ti, la rappresa matrice primordiale, Sciola spinge ancora oltre la sua indagine, convinto che se la pietra è mate-ria viva, deve anche poter comunicare; ma convinto, soprattutto, che sia la pietra stessa a volere che lui liberi lesue parole. Per questo, sebbene per definizione la pietra sia considerata “muta”, egli ne ricerca caparbiamentela voce e, ascoltando oltre gli apparenti silenzi, riesce a percepire e liberarne il suono struggente, quel lamentolontano di respiri imprigionati.Da allora la ricerca sulle Pietre sonore è diventata il fulcro nodale del lavoro di Pinuccio Sciola. Lui le chiama sem-plicemente pietre, o, a volte, sculture: tecnicamente sono blocchi di basalto, di dimensioni estremamente variabi-li, attraversati da incisioni regolari e profonde, che creano una fitta sequenza di lamine verticali, la cui vibrazio-ne produce onde: suoni fisici che provengono dalla materia abilmente predisposta dallo scultore e che corrispon-dono inequivocabilmente alla voce della pietra. Una voce, si è detto, roca e affaticata che, attraversando il Tempoe gli spazi siderali, è emersa dalle viscere segrete della materia, scivolando faticosamente in superficie lungo lemembrane litiche delle “arpe di pietra”, veri e propri varchi temporali che rendono uniche le Sculture sonore.E, se da un lato, esse rappresentano indiscutibilmente uno degli esiti più alti e intensi del percorso artistico diSciola, altrettanto rilevante e sorprendente è il fatto che i materiali sonori prodotti dalle pietre, così nuovi e “altri”,abbiano stimolato esiti originali nell’ambito della sperimentazione musicale contemporanea, una conferma dellagrande attualità dell’arte di Sciola, “suono di pietra” che esiste nell’immaterialità di uno spazio estetico assoluta-mente contemporaneo.

Giannella Demuro

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Da feritoie, brecce, fessure,congegnando sempre nuovi modi per passarci attraverso:

una pietra trafitta dal nostro bisogno di guardare

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Seduto, in ascolto, su ciò che ha un tempo denso di millenni:un momento per sostare il nostro essere di passaggio

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FEDERICO NOBILI

DORMIRE SUL DORSO DI UNA TIGRE

– through metaphor to reconcilethe people and the stones.

WILLIAM CARLOS WILLIAMS [1944]

Una pietra non ha polmoni. Eppure già respira. Nel suo sonno è presente il sogno e l’incubo

della vita. Queste parole mi ronzano nel cervello, affiorano senza essere cercate, mentre

guido in autostrada, sotto il sole di fine maggio, rigorosamente a distanza d’insicurezza,

dietro l’ambulanza che trasporta mia madre all’Ospedale di Carrara. Gli occhialini attraver-

sati da due litri di ossigeno al minuto aiutano a compensare quanto l’espansione del tumo-

re impedisce e soffoca. Una pietra non ha polmoni. Mentre la maggior parte del mio corpo

è impegnato con gli automatismi della macchina e con le ondate delle emozioni, si accen-

dono i lampi minuscoli di queste frasi, che vanno in risonanza con la richiesta di scrivere

un testo per il catalogo dell’Impianto Sonoro Scolpito di Pinuccio Sciola a Bologna. Scriverò

per me, come tutti quelli che lo fanno sul serio, sprofondati nel gioco. Ora non posso esse-

re studioso e neppure didascalico. Ora sono la vita che non c’entra niente con il controllo,

anche se lo simula a oltranza, per educazione, per rispetto. Sono il mercante delle quattro

stagioni, non vendo nulla, spreco solo me stesso. Le Alpi Apuane biancheggiano colossali,

fronteggiando il mare, cariate dall’epica della fatica e del lavoro, secoli e secoli di estrazio-

ne e trasporto: il marmo come segno tangibile dello sfruttamento dell’uomo nei confronti

della natura e dell’uomo nei confronti dell’uomo; il marmo come segno di una lotta ostina-

ta, geniale e forse, alla fine, ottusa. Le cicatrici visibili dello scavo e quelle invisibili della

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memoria. La mia infanzia si è giocata principalmente tra due polarità geologiche: quella

monumentale e michelangiolesca del marmo, materia accecante di luce, cosmopolita,

pesante e polverosa, intrinseca all’enfasi della grande tradizione artistica e degli edifici

imponenti, civili, così come è intrinseca alla potenza tellurica e verticale delle montagne da

cui viene estirpato, alle forze cosmiche e magniloquenti che esprime; e quella austera, umile

e tenace dell’arenaria, una materia abitabile e rurale, che sa dell’umido e della semioscuri-

tà grigia di chiese raccolte, ma anche della concretezza alimentare delle macine di mulini e

frantoi, che stempera gli slanci astratti e puri del calcare nella tangibilità porosa e aspra del

quarzo, che mitiga l’eroismo prometeico e romantico dell’artefice nella quotidianità prosai-

ca ed essenziale degli scalpellini. Il marmo e l’arenaria, la storia recente, il 1944: nell’estate

del maggio in cui nasce mia madre, in un paese vicino, a Vinca, terra di pastori e contadini,

ma soprattutto di generazioni e generazioni che in ora antelucana prendevano i sentieri

impervi attorno al monte Sagro per scendere a faticare nelle cave di marmo, i nazisti delle

SS e i fascisti italiani – molti, la più parte, vengono proprio da Carrara – fanno scempio di

centosettantaquattro donne uomini e bambini, si accaniscono persino con gli animali, e poi

fanno festa, cantano e bevono, per tre giorni e tre notti; nella stessa estate, mio nonno mater-

no affila con la cote di arenaria, immersa nell’acqua all’interno di un corno di bue, il rasoio

con cui sta facendo la barba a un ufficiale della Wehrmacht. Una pietra rotola verso il cen-

tro, verso il basso, lungo il pendio di un ravaneto, ma è lei stessa il centro senza centro, il

basso senza fondo. Una pietra quasi sferica galleggia nel buio dell’universo, tra fuochi lon-

tani, ronza, ronza come il mormorio elettrico dei miei neuroni, come il brusio chimico di

milioni di teste brulicanti, come il sistema arterioso delle strade, nell’esplosione continua

dei motori, nell’eruttazione mefitica delle ciminiere, nella scalata dei grattacieli che svetta-

no, nelle traiettorie di aerei che perforano l’azzurro e le nuvole, che atterrano e decollano,

che si schiantano e non si fermano mai. Altre parole prendono forma, si addensano da qual-

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che parte sotto la volta del mio cranio, dove ancora – strano – c’è posto. La pietra è la meta-

morfosi di un incendio. E la vita la sua nostalgia confusa. La nostalgia di un incendio.

Quando una stella è stanca di svenarsi in luce e calore, implode esplode e diventa una pietra.

La pietra, a volte, prende a germogliare, cercando la luce e il calore di un’altra stella. La vita,

una pietra che germoglia, confusa. Non ci sono vie di fuga, credo: o pensiero terra terra o

pensiero della terra. Il pensiero della terra non si può permettere il lusso del cicaleccio sto-

rico, delle menate psicologiche, delle chiacchiere culturali. Non si può permettere la dicoto-

mia di ragione e affetto, dimenticando che sono sgorgati dallo stesso viluppo, che nella pie-

tra sono una sola ed unica cosa. Il pensiero della terra è coscienza scardinata, verticalità irri-

mediabile. Un cantare che non è soltanto melodia, non è soltanto consolazione e gioco, ma

visione che affonda nella carne e nella materia. Un balbettare che si fa carico e voce del peso

e della leggerezza del pianeta, dell’energia smisurata che si dilapida in miliardi di galassie,

incommensurabili al nostro agire e patire quotidiano, un agire e patire troppo spesso impa-

ludato nella meschinità, forse, anche perché non è all’altezza di questa dismisura, perché

non si mette alla prova e all’ascolto della dismisura, ma la subisce senza consapevolezza e

la replica, distorta, nella miopia coatta dei comportamenti umanoidi. Un meditare capace

di disfarsi, finalmente, della schiavitù di millenni di angustia tribale e monoteista, senza

indugiare, però, nel lusso laico e disincantato di una civiltà ormai priva di entusiasmo e

progetto, che ha perduto l’essenza etica e profetica del sapere, che l’ha tradita, rinchiuden-

dola nei laboratori e nelle industrie, barattando i progressi della specializzazione tecnologi-

ca con il benessere dei pochi e l’inerzia del formicaio. Un pensiero della terra. Questa forse

sarebbe ecologia, religione senza lordure antropomorfe, arte che tocca le vene del corpo e del

tempo. Per questo, per dare eco a questa invasione, a questa presenza che schiviamo ogni

giorno e ogni notte, vorrei scrivere come se stessi incidendo tagli definitivi sulla durezza

della crosta terrestre, come se stessi lanciando segnali di soccorso fuori di me, fuori dell’at-

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mosfera. Un’arte accettabile, necessaria, irriducibile alla mera decorazione, al passatempo, è

solo quella dei megaliti di Stonehenge o dei moai dell’Isola di Pasqua, di minareti e campani-

li appena dirozzati, naturali, senza l’ombra di un dio querulo, nevrotico e fascista, senza tau-

tologie idiote per masse sottomesse. Un’arte di gesti radicati nel cielo e nella terra, come gli

alberi. Un’arte che sappia ricordare al corpopensiero la sua inadeguatezza rispetto alla vasti-

tà. E accanto alla quale, dopo lo schianto dello stupore, sia pure possibile sdraiarsi e riposare,

orizzontali. La mano che scrive e la mano che scolpisce – attonita del proprio gesto sottratto

all’urgenza del fare, alla pressione del sopravvivere. Pensate: un animale braccato dagli altri

animali e dalla propria stessa ansia si ritrova obbligato a mettersi in piedi e a liberare l’uso

delle zampe anteriori che diventano mani, scatenando l’abuso della lingua e fiondando la cor-

teccia cerebrale nella corsa genetica dei millenni, nella frenesia evolutiva, a partire proprio da

una pietra lavorata, una selce, un’amigdale, una scheggia, un’arma che colpisce, uno stru-

mento che intaglia, scava, coltiva. La pietra, ponte vertiginoso sulle acque profonde del dive-

nire: c’era un tempo prima del linguaggio articolato, ci sarà un tempo in cui le parole non

saranno più, ingoiate nell’oblio dell’universo. E la pietra sta lì, in mezzo a tutto questo movi-

mento, come la via lattea sopra e sotto le nostre teste, a testimoniare questo passaggio, a riba-

dirne la fugacità. La pietra, che contiene in sé il germe della guerra e dell’intifada, la violenza

dello scontro e la costruzione dell’abitare, la casa e l’omicidio, l’espandersi dell’orizzonte del-

l’utile e la demenza della distruzione. La pietra, che si fa sospensione di tutto questo, quando

la mano indugia nel piacere del gratuito, nell’invenzione del bello – così abbiamo preso a chia-

marlo – che diventa nuovo ossigeno per placare nuove paure, nuovo veleno per fomentare

nuove malattie, grande commedia nel naufragio del tutto. Come una palla di biliardo l’am-

bulanza scivola veloce lungo il manto d’asfalto, la mia automobile dietro, attaccata ad un filo

invisibile, mentre si agitano convulse e cristalline le traiettorie di questi pensieri. Ma la pietra

è davvero passiva? Il minerale è davvero altro dalla biologia, dalla biofollia? La roccia è dav-

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vero inerte? Nei suoi legami molecolari, nella sua struttura invisibile, nella tensione pacata

dei suoi campi energetici, non è già presente lo squilibrio della vita, la spugna e la sete insa-

ziabile del vivere? L’ossigeno è l’elemento più abbondante del nostro pianeta. Il terzo del sole,

dopo idrogeno ed elio. L’ossigeno si combina direttamente o indirettamente con tutti gli altri

elementi, ha fame di accoppiarsi, di moltiplicare i propri legami, di fare società, di architetta-

re imprese. Riesce pure a scalzare, talvolta, l’ascesi monacale dei gas nobili, il loro sovrano e

sterile isolamento. L’ossigeno è la marca febbrile della materia, il sogno e l’incubo dell’univer-

so, che inconsapevole si forma e si consuma. Io, per me, sono indifferente, sembra dire la pie-

tra. Ma è davvero così? È poi vero che la pietra è indifferente? Non siamo scaturiti anche noi

– batteri virus muschio alberi scimmie cavalli tigri insetti uomini e donne tecnologia e parole

– dalla pietra e dalla luce, dall’acqua e dal buio caldo, gorgogliante? Sesso misterioso che

affonda le sue radici nei sassi e nel fuoco siderale. Complicate spinte primordiali di elementi

che si aggregano, fino a diventare specchio unitario di se stessi, fino a diventare suono e dire

io. Il mare della materia e dell’energia si raggruma in piccole isole poco meno fluide del mare

stesso, isole effimere, ché su scala disumana il pulsare di una stella da buio a buio, l’onda di

una catena montuosa, la schiuma di un sorriso hanno quasi la stessa durata, la stessa consi-

stenza onirica, giusto il tempo di qualche ballo meccanico, un po’ di allegria e lo spavento

d’esserci, di non esserci più. Una statua, almeno, viene plasmata senza saperlo, si disgrega

senza rabbia e senza rimpianti. Il suo apparire è felice e crudele: sembra essere lì proprio per

ricordarci il nostro scoramento, per schernire su un palcoscenico muto la nostra vanità verba-

le. Ma se una scultura prendesse in qualche modo ad emettere suoni, a simulare un fiato,

un’ombra di voce lontana? Il brivido. Un tuffo dentro fosse oceaniche di pensiero irrespirabi-

le, che non ci scaraventa subito oltre il sottile confine tra controllo e pazzia soltanto se riuscia-

mo ad aggrapparci all’incoscienza dell’infanzia, potente e fragile, che mai del tutto si cancel-

la: occhiosgranato e boccaperta a inalare stupore, a pronunciare l’infinito dei perché?

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L’infanzia formula domande cui l’intera esistenza adulta sarà incapace di rispondere e per

questo cercherà di archiviarle come futili, tranne ritrovarsele conficcate nella carne, quasi

schegge di una deflagrazione rimossa. La pietra rumina in silenzio la vita a venire, prepara

l’arcano del piacere, lo strazio del dolore, la stupidità che ripete se stessa. Giunti al casello, la

sbarra del telepass risponde agli impulsi, si alza in sincronia di danza col nostro passaggio,

non interrompe il cammino. Per stordirmi dentro l’abitacolo, ripeto a tutto volume lo stesso

brano: how does it feel / how does it feel / to be on your own / with no direction home /

like a complete unknown / like a rolling stone? Perché io con le parole non potrei fare come

lo scultore con la sua materia? Rinchiudermi in un’esteriorità inappellabile. Un dio di pie-

tra, granuloso e compatto, ubriaco di sonno. Anche se mi spaccate, anche se provate a defor-

marmi, quel che è fuori è dentro e quel che è dentro è fuori, finita per sempre la giostra delle

spiegazioni che non spiegano nulla. Non vi parlo di arte. Non vi racconto storie. Provo a spa-

lancare lo sguardo oltre di me, a scagliare il sistema centrale, che è nervoso, nel vuoto astro-

nomico, irrespirabile, oltre l’azzurro del cielo e la coltre del vapore acqueo. Lo faccio e non so

neppure perché. Lo faccio e basta. Rose rosa, non rosse, magari pure gialle, ma non rosse.

Fuochi d’artificio profumati, di tutti i colori, ma non la tinta sanguigna. E se deve essere rosso,

comunque, preferisco i papaveri al margine delle strade, maggio di calore, che è un modo di

dire, maggio, un modo della terra di inchinarsi al sole, un mese per nascere e un mese per spa-

rire. Mi sono rasato via tutti i capelli, come un soldato: sempre in guerra siamo, no? Mi sono

rasato i capelli per essere inafferrabile, perché non ho tempo da perdere, perché devo captare

il vento solare, il rumore di fondo che permea lo spazio. Espongo con orgoglio di trofeo l’uni-

ca parte classica e perfetta del mio corpo, il cranio. Levigato, armonico, senza gibbosità, privo

di stonature, a riprova che il contenitore non fa fede sul contenuto, a riprova che la musica è

un’eccezione, non un accordo con le leggi segrete o manifeste del mondo. Pare scolpito da un

nostalgico di un cosmo tolemaico, questo involucro osseo di figure e di plasma, di grigio e di

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suoni, che fa il buffone di fronte alla morte, come il becchino d’Amleto. Pare un sasso propor-

zionato e lieve, da scagliare sulla superficie del mare, che rimbalza e rimbalza finché non

scompare. Pare un vessillo, sulla canna del collo, sprigionato dal flauto delle vertebre. Non ci

fosse il riverbero inquieto e dardeggiante degli occhi, potresti scambiarlo per un bocciolo sul

ramo di un albero, per un frutto tenace, che non vuol maturare, che non vuole cadere. Non

fosse per la lingua che non tace, farebbe rumore soltanto nel vento, uno sbocco di materia che

inconsapevole si forma e si consuma. Mi sento una pietra in bocca. La sento perché ce l’ho

messa io. Ce l’ho messa perché non sono molto normale. Comunicare fa male e allora smetto

di parlare, almeno finché la pietra resta incastrata fra mandibola e mascella. Le mucose e le

papille si abituano a questo nuovo sapore, a questa consistenza che non è carne, non è grano,

non è frutta, non è vino, ma la scaturigine misteriosa e amara di ogni fame e di ogni sete.

Arriviamo al pronto soccorso, monoblocco di cemento vetro e metallo, incassato nelle pendi-

ci del monte di marmo, la luce del tramonto un polverio di adrenalina inquieta che satura gli

occhi. Il dottore che deve scendere dal reparto per le pratiche del ricovero resta bloccato a

lungo nell’ascensore. Ma se non è pronto, che soccorso è? Eppure proprio questo incidente,

questo letterale contrattempo, regala l’unica pausa di sollievo comico in tutto il viaggio da

casa all’ospedale: l’incongruenza rivelata della vita, che scioglie il patire estremo in sorrisi

d’abbandono: quello tra la mia impazienza aggressiva e gli occhi luminosi dell’infermiera che

me lo comunica, impotente, lieve; quello di complicità rassegnata, tra me e mia madre, final-

mente nel suo letto al quarto piano, appena dopo che il fantasma del dottore, sguardo anco-

ra allucinato di claustrofobia e imbarazzo, ha lasciato la stanza. Già, forse il riso non è che un

incidente e il senso stesso del viaggio, l’accordo evanescente della materia con se stessa. Una

pietra si è trasformata per milioni e milioni di anni, ha faticato tanto, fino a ridere e soffrire,

fino a prendere e perdere calore. Adesso, però, voglio proprio dormire. Dormire come un

sasso. Non c’è altro.

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concrezioni di materia che si saturae chiede aria nei vuoti dei suoi disegni di matrice:

come la possibilità di un respiroe di una voce

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Speravo di defilarmi, sottotono, considerare rito di passaggio il lavorio lento faticoso di que-sti mesi tra le luci e le ombre di Bottega.Roba nostra, questione privata.IMPIANTO SONORO SCOLPITO nel momento dell’inaugurazione è una separazione doverosa.Nascere è recidere il cordone ombelicale. Autonomi di fatto anche se bisognosi di cura ed affetto. Nel frattempo Voi siete cresciuti nel rapportarvi gli uni agli altri e con me. Sono cresciuto anch’io.

Caro Francesco, così come ognuno deve espletare al meglio il proprio compito a Te l’onere del catalogo, mala tua lettera di invito merita una risposta personale, un modo sincero che sostiene degna-mente la necessità di essere pubblicata quindi pubblica.Ti cito: “Scriverti una lettera è la mia maniera di mettermi a fuoco nel rubarti quell’attenzio-ne preziosa e gentile che mi dedichi”.Non ti dirò della Bottega, delle burrasche e delle bonacce traversate ma dell’unica mancan-za così gravosa da non trovare parole per dirsi, solo un balbuziare sconnesso. Stefano nonc’è, non ci sarà, è sparito alla vita, improvviso così come improvviso, non invitato, è com-parso il primo giorno.Ben strano! Siamo riusciti a tenere custodito e segreto l’indirizzo per tre anni a tutti ma nona lui, l’avvocato delle cause perse che mi faceva tremare per il suo tremito.Mi chiedevo come facesse il suo corpo minuscolo a contenere tanta tensione. La sua morteè silenzio, l’unica lezione che il maestro non è riuscito a preparare. Non per me che pure conosco la morte da subito appena nato. Non per te, per Michele, chevi ha accarezzato presto e non potevate non dirmene con tutto il pudore a cui sono tenutigli uomini.So accettare la morte, sostenerne il dolore anche rabbioso ma non so parlarne. Niente dadire se non rimetterla a Dio e solo mi consola se riesco a piangerne.

Raccontami, Tu dici, di questa nostra storia. Quest’universo che sta per implodere tra gliestremi dell’arcaico e della tecnologia, sintesi ultima del Big Bang di Bottega per come l’hoideata, su quella scogliera a Cape Town.Ahimè è un lavorio prezioso e complesso, facile solo alla fine, una volta eseguito.

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Un po’ come suonare un liuto: c’è un numero ragionevole di corde e vanno toccate tutte,nella loro estensione, nei punti giusti con garbo e doverosa forza sì che possono risuonarearmonicamente. E il gesto non può non tener conto della necessità di bellezza nella forma.Lo sto facendo da mesi con Marco tornato a casa, ai suoi monti, dopo la laurea. Marcocome Te ha il dono, piacere ed ansia, della scrittura e per questo si è ritrovato in questosogno ad occhi aperti, arcaico e futuribile, di Bottega.

Ecco, succede da sé tant’è ovvio, s’impone il tema centrale di questa lettera: tra arcaico efuturibile. Quando Pier Luigi propose ciò che ora è realtà: IMPIANTO SONORO SCOLPITO,ne rimasi incantato.Tutti noi sappiamo quanta intelligenza, capacità, fatica ci è costata e quali momenti di scon-forto a fare il pari con lampi di gioia. Quanta pazienza cumulata e le decisioni da prendere che non possono essere rimandate.Fare è anche rischiare e il rischio è insito in ogni azione umana.

Nell’autunno scorso sono stato a Gerusalemme.Nel Santo Sepolcro sopraffatto da architettura, arte, religione, dopo la preghiera e la con-templazione, seduto in un angolo tutto il turbinio di sensazioni e pensieri si è trasformato inun’unica frase, scolpita nella memoria, a pacificare il tumulto: “Grave, lento cammino su ierie il domani cammina davanti a me fiorendo il mio giorno, oggi”.Dovessi racchiudere in sintesi il mio programma di maestro in Bottega vorrei fosse questo.Che il primo impegno da Voi proposto, elaborato e praticato sia IMPIANTO SONOROSCOLPITO non può che colmarmi di gioia e meraviglia, un po’ d’orgoglio anche. Come dicevamo il primo anno: “Non male, niente male si può solo migliorare”.È stato fatto non posso non esserne fiero.Ad ognuno secondo la propria sensibilità, la propria istruzione, la propria disponibilità.State bene, in salute e buona fortuna.

Giovanni Lindo Ferretti

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Pietra spaccata in ferite di potenza di vita che irrompe

e luce e colate di cieloda toccare con mano

in sibili d’aria che s’infiltra e sussura,che racconta le storie

di una materia reduce

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Il progetto, quando ancora progetto non era, è nato come una suggestione involontaria. Da suggestione personale a progettazione frutto dell’intelligenza collettiva dell’associazione il passo è stato breve.Il nostro porci domande, infatti, non è stato finalizzato alla ricerca di risposte, ma semmai a penetrare un discor-so e abitarlo, portarlo al limite. Comprendere i nostri limiti nella condivisione d’ogni aspetto artistico e culturale,primitivo e tecnologico, in costante confronto aperto e costruttivo.

Fin dai tempi più remoti l’uomo ha cercato un significato della sua permanenza sulla terra, una linea che potessecongiungerlo con il proprio inizio. La pietra caricata di simbolismo è sempre stata qualcosa che si adattava perfet-tamente alle richieste di continuità dell’uomo, presente com’è da prima della memoria di una collettività.Il tal senso, il paesaggio è sicuramente stato il primo testo usato dall’uomo per costruire i propri significati, d’iden-tità e appartenenza a un quadro di riferimento con cui potersi rapportare. Ospiti a San Sperate abbiamo compreso sulla nostra pelle come l’opera di Sciola sia a tutti gli effetti una scritturanel paesaggio. La potenza della sua scultura sta nell’aver dischiuso da una materia primitiva e naturale una voce,un discorso sonoro, intimo ed estetico nel contempo. La pietra sonora è quindi luogo di memoria culturale. Memoriavisiva – e soprattutto – memoria sonora.

Abbiamo progettato IMPIANTO SONORO SCOLPITO come una riflessione pratica sulla complessità. Il parco pub-blico di Villa delle Rose diventa un luogo in cui coniugare percorsi appartenenti a mondi differenti. Le Sculture diSciola, il Giardino Sonoro, la sensoristica come mezzo per la creazione di nuove gestualità musicali, sono tutti ele-menti che comunicano attraverso una struttura complessa, la cui percezione è resa fluida dalla qualità dell’intera-zione tra essi e dalla naturalità del mezzo in cui sono immersi, il giardino.Uno dei nostri obiettivi principali è stato quello di cercare di restituire al fruitore della mostra il suono della pietrasuonata intimamente per lui per mano di Pinuccio Sciola.Ci siamo approcciati con estrema riverenza a questa materia prima che perdura nel mutamento, passando dallostato amorfo a quello inciso, lamellare e quadrettato. L’incisione inferta alla pietra le dona ordine geometrico eforma, e l’interstizio, lo spazio minimo che sta nel mezzo di due tagli, diviene luogo di transito. Vi scorre attraver-so la vita della pietra.Il processo sottrattivo della materia è anche uno scavare al ritroso nel tempo, fino a rintracciarne la dimensione ori-ginaria. Una voce primigenia, il suono del Caos. Un gesto di grande umiltà da parte di un artista che si mette daparte per restituirci la sola pietra, nuda, viva.Lo stesso grafo del progresso, come è stato scritto, non si sviluppa sempre avanti, in modo rettilineo, come vorreb-be l’etimologia della parola, ma ad un certo punto compie una curva ed entra in un ritmo spiraliforme di granderitorno.Le certezze si defilano, come Pinuccio ricorda spesso davanti alle sue sculture, niente di quello che pensiamo sianormale riguardo alla Materia-Pietra vale per le sue opere. Essa, e lo ha dimostrato, è trasparente, è flessibile, dàil meglio del proprio suono se accarezzata con movimenti circolari piuttosto che percossa. I basalti d’origine vul-canica e i calcari in particolare, contengono in sé un riverbero che richiama la visione di spazi – eppure ci sono –impossibili da concepire originati in un corpo solido.

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La particolarità dell’amplificazione di questo suono ci ha obbligato, pertanto, ad utilizzare tecniche di registrazio-ne che ci permettessero di cogliere la vastità delle frequenze altrimenti non udibili.Un’esperienza unica, un ritorno all’arcaicità dell’udito.

Si inizia pensando di poter pianificare e organizzare ogni aspetto compositivo del suono per poi lasciarsi guida-re da una caoticità leggera e ovvia a posteriori, nel ricreare quella sospensione che in questo caso è realmentesospensione armonica e ritmica, sospensione che apre ad un ascolto sfaccettato non solo per la molteplicità deglistimoli offerti ma anche nel ripensamento dell’atto stesso dell’ascolto.Comporre significa ordinare, un ordinare non assimilabile ad una pratica puramente meccanica, d’applicazionedi regole soltanto formali. Significa soprattutto creare regole, superarle, raffinarle, ricercare equilibri, tensioni,dinamiche all’interno di spazi limitati.La propagazione del suono nello spazio in rapporto ai corpi che interagiscono con essa è stata coniugata alla pro-gettazione di un giardino sonoro, intesa come conoscenza della storia del luogo che lo ospita e sperimentazionesonora in diretto rapporto con esso.La scrittura del software che governa il sistema sonoro-sensoristico del parco di Villa delle Rose è stata un’ulterio-re via di ricerca nelle forme della composizione, differente nelle finalità, ma perfettamente coincidente nella lucidi-tà di pensiero alla pratica artistica consapevole. Il nostro atto d’intervento lavorativo sull’ambiente, tecnologico e botanico, e la stessa tecnica di registrazione eriproduzione dei suoni delle pietre sono stati pensati non per sottrarsi all’ambito della tradizione, ma in manieraquasi opposta. Il miglior modo per riuscire a continuare a conservare elementi della nostra memoria culturale è ilcoinvolgimento delle culture tradizionali nel processo di trasformazione con la modernità. Tradizione e modernità insieme a formare una parola che manca di essere pronunciata, un balbettio di bambinodavanti alla potenza della pietra comunque vincitrice nel bastarsi a se stessa, nel rimanere se stessa nonostantetagli e manipolazioni sonore, tenera nel non vanificare i nostri sforzi e illuderci di aver afferrato quel vuoto che stalì tra lamella e lamella, e scambiarlo per una voce. Ma forse siamo noi stessi che non riusciamo a dire nulla di fronte a questa immensità indistinta, la Pietra Sonora,generosa comunque nel non lasciarci soli in questo balbettio, regalandoci un riverbero, una timbrica, un riflesso diluce e di suono.

IMPIANTO SONORO SCOLPITO è per noi anche un augurio.Che le Sculture di Sciola, il Giardino Sonoro e la sensoristica, come mezzo per la creazione di nuove gestualitàmusicali, siano tutti elementi che comunicano attraverso una struttura complessa, la cui percezione è resa fluidadalla qualità dell’interazione tra essi e dalla naturalità del mezzo in cui sono immersi, il giardino. Ad un sistemaordinato si affianca l’elemento umano che modifica i percorsi spaziali e la qualità con cui si diffonde la voce dellePietre, aumentando il grado di complessità delle azioni che il suono è indirizzato a compiere.Tutto ciò nel tentativo di costituire sia una nuova modalità di fruizione dei suoni delle Sculture Sonore di PinuccioSciola, sia un modo per rendere tangibile la stretta dualità che intercorre tra arcaicità e tecnologia.

BOTTEGA BOLOGNA

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Musica di gruppo

In questa operazione, IMPIANTO SONORO SCOLPITO, in cui sono coinvolte quattro forze:Pinuccio Sciola, Il Giardino Sonoro, Ircam e Bottega Bologna di Musica e Comunicazione,vi è una commistione portante fra due elementi, primitivismo e tecnologia. Pinuccio Sciola è un uomo, un artista antico. Il suo è un lavoro che si colloca al di là deltempo. Ma non dello spazio, anzi è profondamente legato alle sue origini, alla Sardegna,a quel paesaggio, a quelle atmosfere, a quelle materie. Le sue pietre – il basalto durissimo – riportano al tempo originario al di là del tempo stori-co, quello degli uomini. Ma anche la pietra calcarea è testimonianza del passare del tempo.Memoria lontana.Michelangiolo, profondamente influenzato dalla filosofia neoplatonica, rappresentava iPrigioni nell’atto di liberarsi dalla dimensione corporea, prigione contingente dell’anima.Così Sciola, che cerca di cavare il suono dalle pietre, di cui va in cerca come un rabdoman-te. Le osserva, le studia, le tocca, le ascolta e infine, se le ritiene votate al suono, le fa tra-sportare nel suo laboratorio-officina dove le lavora, le incide, le taglia. Non si tratta di vio-lenza, piuttosto del tentativo di liberazione di quanto è solo latente: la forza sonora. Nascono le grandi sculture, frutto di una continua sperimentazione, che costituiscono l’in-stallazione qui in mostra. Le pietre vengono accarezzate, strofinate, suonate nel tentativo dirintracciare una scala, che ha in realtà posto in condizione Sciola di rintracciare una nuovamateria prima. I ragazzi della Bottega, costituita a Bologna da Giovanni Lindo Ferretti, sono i registi dell’in-tera operazione, un progetto che propone l’arte e il suono delle sculture di Pinuccio Sciolasotto forma di installazione interattiva: grazie all’uso di avanzati dispositivi tecnologici ognivisitatore diviene co-autore della mostra.Il percorso della visita, infatti, perturba la diffusione dei suoni delle Pietre Sonore, preceden-temente registrati presso l’atelier dell’artista a San Sperate, Cagliari. Percorsi liberi e nondeterminati che generano volta per volta risposte differenti e irripetibili. In tal modo il giar-dino non suonerà mai allo stesso modo. Sofisticati sensori captano i movimenti del pubblico come variazioni di calore rispetto alpunto di equilibrio termico in vicinanza di ogni scultura e le apparecchiature wireless Wise

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Box, appositamente progettate dall’IRCAM – Centre Pompidou di Parigi, traducono talivariazioni in un linguaggio comprensibile da una rete di computer. È a questo punto che ilsoftware Max/MSP si fa interprete dei messaggi trasmessi dai Wise Box e permette di pro-cessare il suono delle sculture diffondendolo all'interno del parco della Villa. I suoni dellesculture sono emessi da diffusori sviluppati dal gruppo fiorentino Giardino Sonoro, che hatrovato un nuovo modo di rivalutare gli spazi verdi e urbani, unendo pratica botanica, lan-dscape design e una minuziosa ricerca sulla percezione del suono.

Il nostro è un tempo artistico in cui di frequente si parla di arte pubblica. Se ne parla spes-so in maniera forzata, si vogliono creare forzosamente dei nessi, dei rapporti fra le perso-ne e le opere tentando di dare vita a relazioni più o meno reali. Mi pare che qui si potrebbe parlare davvero di un’operazione di arte pubblica. Nulla è for-zoso, si tratta di una vera e propria operazione in cui la gente si colloca, trova un ruolo,partecipa entra in sintonia etica e poetica con le opere. Mi viene in mente, in tal senso, un’altra artista della terra di Sciola, Maria Lai e l’operazio-ne a cui ha dato vita, nel corso degli anni novanta, nel suo paese, Ulassai, coinvolgendol’intera cittadinanza. Ha, infatti, chiesto alle persone del suo paese di legare le case l’unacon l’altra con un lunghissimo nastro azzurro, facendo un omaggio a una tradizione localeculturale e religiosa. Anche qui ci si trova di fronte a un’operazione in cui la gente è chiamata a partecipare, inuna forma di socialità mediata dalla comunicazione. Un lavoro come questo, di PinuccioSciola, è il superamento dei media nella loro specificità, per dare vita a un linguaggionuovo, diverso, ulteriore, un linguaggio in cui passato, presente e forse futuro si trovano ainteragire perfettamente a dialogare all’unisono. Musica della terra che dalle pietre sonore di Sciola arriva con la sua forza antica diretta-mente al cielo.

Angela Madesani

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Interstizi urbani, Bologna (2006)

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Si ringraziano:Il Sindaco di Bologna Sergio CofferatiIl Presidente della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna Marco CammelliIl Presidente della Regione Autonoma della Sardegna Renato SoruL’Assessore alla Cultura del Comune di Bologna Angelo GuglielmiL’Assessore alla Cultura della Regione Emilia Romagna Alberto RonchiIl Direttore della Galleria d’Arte Moderna di Bologna Gianfranco MaranielloIl Presidente del Quartiere Saragozza Roberto Fattori

E un grazie di cuore:alla Patty, ché senza di lei fare questa mostra sarebbe stato molto più difficile; a Sandra Barrère, per il suoentusiasmo; a Lorenzo Brusci, che oltre tutto è un amico; ad Angela Madesani, Pier Luigi Capucci e FrancoFarinelli per la simpatia e la generosità con cui sono "inciampati" nelle nostre conversazioni in giardino,le cirCONFERENZE. A Maria Luisa Pizzi, ché fra un problema e l’altro questi permessi li abbiamo avuti; aFrancesco Mastrangelo e tutta la Consultec, ché hanno sempre avuto la soluzione giusta al momento giu-sto; ad Antonio Cipriani, ché in qualche modo questa mostra la dobbiamo anche a lui. A tutti i Signori ele Signore di Villa delle Rose, per il calore con cui ci hanno accolto; a chi sulle prime era “restio” e poi siè ricreduto. A Nicola Scano; a Monica Tomea, Leda Giuliani e Adelfo Zaccanti; a Cheti Corsini, Elena DiGioia, Claudio Andolfo e Cristina De Rubertis; a Eva Von Deuster e le Istituzioni che hanno amichevolmen-te rappresentato. Ad Anna Rossi, che ci ha materialmente aperto le porte. A Stefania e Marta, che per laBottega sono state un bel regalo; ad Andrea Russo, che non è stato troppo tempestivo, ma quasi; a CarlaFrancesca Catanese, che se vuole la Bottega la aspetta. A Zar e Chicca, che della Bottega fanno già parte.A Pasquale e alle sue notti più o meno insonni, a Davide Piras e le sue mattine all’alba. Ai genitori di Piergi,che l’hanno fatto, ai suoi coinquilini che l’hanno sopportato. A Dino Cremonini e a Enzo, per la professio-nalità e la testardaggine, perché prima o poi andranno d’accordo. A Valerio Mannucci e la disponibilitàdi Full Security Italia; a Maurizio e Mirca del Divinis, che ci hanno allietato i palati. A Valentina Argiolas,che mentre inauguravamo la mostra si sposava. Ad Anna e Dante della Tipografia Moderna, per lapazienza e i refusi. A Paolo Folletti e alla sua passione per la fotografia. A Fabrizio Montanari, DonatoDe Luca; a Rossella Bertolazzi e Antonella Barra dello IED; a Rino Stefano Tagliafierro; a Davide Lombardi,Paolo e Grazia Gualdi – Le Grandi Immagini Group, per il prezioso aiuto. Ad Alessandra Sardano e Sergio Melani, senza i quali questo catalogo non sarebbe stato tale. A Marco Blardone per i frammenti di poesia; a Michele Vecchi, Ciro Pappalardo, Gianni Cesaraccio,Gualtiero Venturelli e Lorenzo Esposito Fornasari che ci sono sempre.A Giovanni Lindo Ferretti, per quello che è per noi e perché ci siamo divisi. E, infine, al Professor Varni, che (in fondo) “ci ha solo messo i soldi”.

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Un progetto di

Realizzato in collaborazione conFondazione del Monte di Bologna e RavennaCon il contributo diComune BolognaCon il sostegno diRegione Autonoma della SardegnaGalleria d’Arte Moderna di BolognaCon il patrocinio diRegione Emilia RomagnaLa manifestazione appartiene al cartellone di bè 2006

Partners

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