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« P ensare con le nostre orecchie offre l’opportu- nità di aumentare le nostre immaginazioni criti- che, di comprendere il nostro mondo e i nostri incontri con esso secondo molteplici registri di sentimen- to. Pensare nell’ambito di una “democrazia dei sensi” si- gnifica che nessun senso è privilegiato rispetto agli altri». Così Michael Bull e Les Back, curatori del volume Paesag- gi sonori edito da Il Saggiatore nel 2008, ci indicano la via per esplorare il mondo e con questo spirito abbiamo af- frontato l’universo sonoro di Venezia. Il progetto sul pa- esaggio sonoro veneziano, attualmente in corso di svol- gimento, nasce all’interno del laboratorioarazzi, ciclo di se- minari sulla musica elettroacustica promossi dall’Istitu- to per la musica della Fondazione Giorgio Cini di Vene- zia (cfr. p. 93). La mappatura dei suoni della città laguna- re vuole essere un’esperienza multiforme: ‘ecologica’, nel senso di relazione ed equilibrio uomo/ambiente; didatti- ca, con il coinvolgimento degli studenti durante le sessio- ni di ripresa del suono; performativa, nel momento in cui i materiali sonori raccolti vengono utilizzati come «cam- pioni» da elaborare dal vivo con strumenti elettroacusti- ci; compositiva, tramite la realizzazione di brani musicali basati sui, o ispirati ai, suoni registrati; filosofica, poiché, come suggerisce Jacques Attali nel saggio Bruits del 1977, «il mondo non si guarda, si ode». Il suono del paesaggio sonoro ha valore documenta- rio, concreto, di testimonianza, di salvaguardia del pa- trimonio antropico – si pensi che certi suoni potrem- mo non sentirli più, come quelli, ad esempio, legati a cer- te attività artigianali – e naturale, ma può anche esse- re utilizzato, manipolato, trasformato, da elaborazioni elettroacustiche. Fino a oggi sono state effettuate varie sessioni di regi- strazioni, in collaborazione con gli studenti dell’Accade- mia di Belle Arti di Venezia guidati dal docente di Sound design Davide Tiso, gli studenti del Conservatorio di mu- sica «C. Pollini» di Padova guidati dal docente di Elettro- acustica Matteo Costa e gli studenti del Conservatorio di musica «B. Marcello» di Venezia guidati dal docente di Musica elettronica Paolo Zavagna, per riprendere, fra gli altri, suoni di acqua, campane, l’attività all’interno di uno squero e di una vetreria, animali, vaporetti, barche, vo- ciare, passi nelle calli e tanti altri. A questa prima fase di riprese seguiranno altre sessioni di registrazioni in par- ticolari condizioni climatiche, atmosferiche, stagionali e in particolari momenti della giornata o in particolari oc- casioni festive e/o istituzionali. Al lavoro sul campo è seguito un seminario, tenutosi il 30 aprile 2010 nel Salone degli Arazzi della Fondazio- ne Giorgio Cini, che ha permesso lo scambio di informa- zioni con altre esperienze operanti nell’ambito del pae- saggio sonoro, sia documentarie sia compositive. Anto- nella Radicchi, nell’intervento Sull’immagine sonora della cit- tà. La creazione di paesaggi sonori nel progetto della città contem- poranea, ha illustrato «le potenzialità insite nel progetto di paesaggio sonoro all’interno del processo di riqualifica- zione della città contemporanea»; Giancarlo Toniutti ha analizzato due sue composizioni basate su registrazioni di suoni naturali; Ilaria Mancino ha parlato dell’«espe- rienza vissuta in una città che è entrata nel novero del- le Città della Musica dell’Unesco: Bologna. La struttura urbanistica di Bologna facilita la trasmissione del suono e quindi della comunicazione, della voglia di fare musica ma anche amplifica i rumori con conseguente sensazio- ne di straniamento della popolazione. La mappa acusti- ca della città, infatti, mostra la sua ragnatela di strade me- dioevali inserita nel contesto sonoro previsto per le zone industriali. E quando il rumore è il dato essenziale in cui vive e cresce ogni cittadino, la sensibilizzazione al pae- Il paesaggio sonoro di Venezia Per una mappatura dei suoni della città lagunare di Giovanni Morelli e Paolo Zavagna 64 — l’altra musica l’altra musica

Transcript of 64 — l’altra musica Il paesaggio sonoro di Venezia Fino a ... · l’altra musica saggio sonoro...

«Pensare con le nostre orecchie offre l’opportu-nità di aumentare le nostre immaginazioni criti-che, di comprendere il nostro mondo e i nostri

incontri con esso secondo molteplici registri di sentimen-to. Pensare nell’ambito di una “democrazia dei sensi” si-gnifica che nessun senso è privilegiato rispetto agli altri». Così Michael Bull e Les Back, curatori del volume Paesag-gi sonori edito da Il Saggiatore nel 2008, ci indicano la via per esplorare il mondo e con questo spirito abbiamo af-

frontato l’universo sonoro di Venezia. Il progetto sul pa-esaggio sonoro veneziano, attualmente in corso di svol-gimento, nasce all’interno del laboratorioarazzi, ciclo di se-minari sulla musica elettroacustica promossi dall’Istitu-to per la musica della Fondazione Giorgio Cini di Vene-zia (cfr. p. 93). La mappatura dei suoni della città laguna-re vuole essere un’esperienza multiforme: ‘ecologica’, nel senso di relazione ed equilibrio uomo/ambiente; didatti-ca, con il coinvolgimento degli studenti durante le sessio-ni di ripresa del suono; performativa, nel momento in cui i materiali sonori raccolti vengono utilizzati come «cam-pioni» da elaborare dal vivo con strumenti elettroacusti-ci; compositiva, tramite la realizzazione di brani musicali basati sui, o ispirati ai, suoni registrati; filosofica, poiché, come suggerisce Jacques Attali nel saggio Bruits del 1977, «il mondo non si guarda, si ode».

Il suono del paesaggio sonoro ha valore documenta-rio, concreto, di testimonianza, di salvaguardia del pa-trimonio antropico – si pensi che certi suoni potrem-mo non sentirli più, come quelli, ad esempio, legati a cer-

te attività artigianali – e naturale, ma può anche esse-re utilizzato, manipolato, trasformato, da elaborazioni elettroacustiche.

Fino a oggi sono state effettuate varie sessioni di regi-strazioni, in collaborazione con gli studenti dell’Accade-mia di Belle Arti di Venezia guidati dal docente di Sound design Davide Tiso, gli studenti del Conservatorio di mu-sica «C. Pollini» di Padova guidati dal docente di Elettro-acustica Matteo Costa e gli studenti del Conservatorio di musica «B. Marcello» di Venezia guidati dal docente di Musica elettronica Paolo Zavagna, per riprendere, fra gli altri, suoni di acqua, campane, l’attività all’interno di uno squero e di una vetreria, animali, vaporetti, barche, vo-ciare, passi nelle calli e tanti altri. A questa prima fase di riprese seguiranno altre sessioni di registrazioni in par-ticolari condizioni climatiche, atmosferiche, stagionali e in particolari momenti della giornata o in particolari oc-casioni festive e/o istituzionali.

Al lavoro sul campo è seguito un seminario, tenutosi il 30 aprile 2010 nel Salone degli Arazzi della Fondazio-

ne Giorgio Cini, che ha permesso lo scambio di informa-zioni con altre esperienze operanti nell’ambito del pae-saggio sonoro, sia documentarie sia compositive. Anto-nella Radicchi, nell’intervento Sull’immagine sonora della cit-tà. La creazione di paesaggi sonori nel progetto della città contem-poranea, ha illustrato «le potenzialità insite nel progetto di paesaggio sonoro all’interno del processo di riqualifica-zione della città contemporanea»; Giancarlo Toniutti ha analizzato due sue composizioni basate su registrazioni di suoni naturali; Ilaria Mancino ha parlato dell’«espe-rienza vissuta in una città che è entrata nel novero del-le Città della Musica dell’Unesco: Bologna. La struttura urbanistica di Bologna facilita la trasmissione del suono e quindi della comunicazione, della voglia di fare musica ma anche amplifica i rumori con conseguente sensazio-ne di straniamento della popolazione. La mappa acusti-ca della città, infatti, mostra la sua ragnatela di strade me-dioevali inserita nel contesto sonoro previsto per le zone industriali. E quando il rumore è il dato essenziale in cui vive e cresce ogni cittadino, la sensibilizzazione al pae-

Il paesaggio sonoro di VeneziaPer una mappaturadei suoni della città lagunare

di Giovanni Morelli e Paolo Zavagna

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saggio sonoro è un processo che ha il sapore di una fisio-terapia o della psicoterapia quando il racconto di una cit-tà passa e si esprime attraverso la mutazione morfologica dei suoi suoni»; Massimo Liverani ha riassunto le tappe del «paesaggio sonoro nella musica» e in chiusura Enri-co Coniglio, nel suo intervento sulle Topofonie di Venezia e Laguna: dal field recordings alle soundscape compositions, ha trat-tato «brevemente del concetto di paesaggio sonoro con-temporaneo e del concetto di “topofonia” che è definibi-le come “l’insieme dei suoni autoctoni che appartengono a un dato luogo e tempo”».

I materiali sonori raccolti sono stati anche l’occasione – il ‘tema’ – per una perfomance musicale tenuta dall’Araz-zi Laptop Ensemble (i cui membri Stefano Alessandret-ti, Ongakuaw, Luca Richelli, Julian Scordato, Giovanni Sparano, Davide Tiso, Paolo Zavagna, hanno collabora-to anche alle sessioni di registrazione e all’organizzazione del seminario) in occasione del simposio Beyond Entropy. When energ y becomes form organizzato da Stefano Rabolli Pansera dell’Architectural Association School of Archi-

tecture di Londra come evento collaterale della Bienna-le Architettura di Venezia presso la Fondazione Giorgio Cini (27 agosto 2010).

I suoni registrati verranno inoltre inseriti nel sito ve-neziasoundmap.org, attualmente in fase di realizzazio-ne e permanentemente aggiornabile. Sulla scorta di altre esperienze simili come ad esempio London sound sur-vey, New York sound map, Montreal sound map e Firen-ze sound map, sarà possibile accedere, tramite una map-pa di Venezia, alle registrazioni, ascoltando i campioni ad alta risoluzione. Sarà possibile inoltre scaricare i suoni, che verranno pubblicati con licenza Creative Common by-nc-sa, la licenza che permette di utilizzare documen-ti purché citandone la fonte (by), facendone un uso non commerciale (non commercial ) e condividendoli allo stesso modo (share alike). Sempre con l’intento di condividere il materiale sonoro raccolto, alcuni suoni verranno ‘carica-ti’ all’interno del free sound project (freesound.org), un pro-getto di mappatura sonora a livello planetario.

Un altro possibile utilizzo dei suoni raccolti è quello di

serbatorio per la soundscape composition, pratica compositiva elettroacustica, le cui origini risalgono ai lavori di Barry Truax e Murray Schafer presso la Simon Fraser Univer-sity alla fine degli anni sessanta. All’epoca partì il World Soundscape Project, che nasceva come «un inizale ten-tativo di dare attenzione all’ambiente sonoro attraverso un corso sull’inquinamento acustico» (http://www.sfu.ca/~truax/wsp.html). Barry Truax, in un articolo appar-so nel n.13 del 2008 della rivista «Organised Sound» dal titolo Soundscape Composition as Global Music: Electroacoustic Music as Soundscape, afferma che la soundscape composi-tion non è «uno stile o un sottogenere della musica elet-troacustica» ma un «principio organizzativo, un insieme di strategie di ascolto e quindi un punto di riferimento per tutta la musica elettroacustica con riferimenti al mon-do reale».

Al progetto di mappatura sonora di Venezia parteci-pa anche il fotografo Riccardo Zipoli, che ha accettato la sfida di ‘fotografare il suono’, e le cui immagini colgono aspetti visivi dei meccanismi fisici che producono le onde

sonore: dettagli di campane che diventano figure astratte – mai però completamente slegate dall’oggetto raffigura-to in modo da renderlo comunque riconoscibile –, parti-colari del getto di una fontana o di vaporetti che attrac-cano sono solo alcuni esempi delle sue fotografie. Anche la regista Alberta Ziche, che ha seguito tutte le fasi del la-voro e realizzerà su di esso un documentario di cui si può vedere un breve estratto in anteprima su http://vimeo.com/17981041, ha partecipato con entusiasmo al proget-to fin dalla sua nascita.

Un progetto aperto, in continua evoluzione, che te-stimonia e fa rivivere, aggrega e stimola, che acco-glie e abbraccia la definizione di acustemologia, da-ta da Steven Feld nel libro curato da Bull e Back cita-to all’inizio, come «l’unione tra acustica ed epistemo-logia, e l’indagine sulla supremazia del suono come modalità di conoscenza e di esistenza nel mondo». ◼

Immagini tratte dal video-documentario di Alberta Ziche.

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ogni nuova rassegna del Centro d’Arte dell’Uni-versità di Padova deve rispettare un doppio cri-terio alla base delle sue scelte: da una parte deve

essere conservatrice, ossia confermare la sua vocazione avventurosa, da sempre lontana dai cliché; dall’altra, de-ve tentare di rinnovarsi per incuriosire una nuova gene-razione di ascoltatori, assetati di sorprese. Non è semplice muoversi tra le maglie di questa sottile ambiguità, in un panorama musicale sempre più frantumato e sfuggente,

ma soprattutto alle prese con una penuria di risorse an-cor più marcata, in questa congiuntura di vacche magre.

In un contesto dove il «marchio» comunicativo gioca un ruolo essenziale per fidelizzare un pubblico, il Centro d’Arte propone invece un approccio unitario alla musi-ca d’oggi, rifiutandosi di etichettare il suo cartellone. Né «jazz», né «contemporanea», né tantomeno «world»: il ti-tolo della rassegna è da alcuni anni «Ostinati!», a sugge-rire semplicemente la convinzione di proporre autori di valore, laterali a qualsivoglia contenitore, spesso legati al-la rassegna da un rapporto antico, rinnovato dalla vitalità di musiche in continua mutazione. Oppure porta in su-perficie musiche dal sottosuolo, che nel circuito del no-stro territorio non troverebbero mai un pertugio da cui emergere.

La rassegna che si annuncia per il prossimo anno rical-ca queste premesse, a partire dal prologo, affidato al nuo-vo progetto del sassofonista Tim Berne, il quartetto Los Totopos (21 gennaio, cinema teatro Torresino).

Berne fa parte dei punti di riferimento stabili del Cen-tro d’Arte, rappresenta uno di quegli artisti seguiti cicli-camente e documentati in diverse fasi produttive. È stato invitato per la prima volta nel lontano 1980, all’interno di una tre-giorni che è rimasta memorabile a Padova. Era-no i tempi in cui il Centro d’Arte fungeva un po’ da apri-pista nazionale per un certo tipo di musiche: jazz di ricer-ca, contemporanea non allineata (l’avveniristico cartello-ne di «Musica Oggi»…), giovani talenti.

Berne per un certo periodo è stato considerato un po’ pretenzioso e indigesto: in realtà negli anni si è afferma-to come tra i pochi compositori-improvvisatori di gran-de caratura, un vero «narratore» sonoro che, partendo dal soul e da Julius Hemphill, è arrivato a governare un insie-me di strategie musicali in costante divenire. Così, dopo i gruppi con Paul Motian, e i progetti via via denomina-ti Bloodcount, Paraphrase, Quicksand, Big Satan e Buf-falo Collision, ecco adesso Los Totopos, nuovo combo che allinea i clarinetti di Oscar Noriega – già ascoltato nel quartetto di Chris Speed la scorsa stagione – il piano di

Matt Mitchell e la batteria di Ches Smith (già a fianco di Mary Halvorson e della rock band «Xiu Xiu»).

Nell’autunno del 2008 il Centro d’Arte aveva promos-so un piccolo festival dedicato al collettivo di «El Gal-lo Rojo», tra le realtà più rigorose e di qualità della musi-ca indipendente italiana. Sempre con l’intento di appro-fondire le diverse sfaccettature di un fenomeno in dive-nire, è rimasto fecondo il collegamento con la spina dor-sale di quell’insieme di musicisti, vale a dire la coppia rit-mica formata da Danilo Gallo e Zeno De Rossi (rispet-tivamente contrabbasso, percussioni, strumenti vari). I quali, lateralmente a svariati progetti, hanno dato vita a «Guano Padano», un trio + ospiti, che sviluppa uno stile musicale indefinito, orientato verso la rivisitazione per-sonale di accenti folk-blues americani arricchiti da incur-sioni sulla forma canzone e con spazio per l’improvvisa-zione. L’esito è stato salutato con ampio successo, anche per la partecipazione su disco di Alessandro Alessandro-ni (il fischiatore nelle musiche per il cinema di Morrico-

La nuova rassegna del Centro d’Arte dell’Università

A Padova ritornano i suoni «Ostinati!»

di Stefano Merighi

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ne), Bobby Solo, Gary Lucas.Il gruppo conta sulla sapiente chitarra di Alessandro

«Asso» Stefana (elemento della band di Vinicio Capossela) e invita il multistrumentista Vincenzo Vasi, tra i talenti più eclettici della scena odierna. «Guano Padano» sarà al Tor-resino di Padova il 25 febbraio.

E proseguendo nella presentazione dei gruppi newyor-chesi meno noti in Italia ma laggiù attivissimi (il Centro d’Arte aveva iniziato anni fa con i Sex Mob e insistito fino alla scorsa stagione con i Fieldwork), tocca stavolta ai Kne-ebody lanciarsi presso il pubblico padovano. È una forma-zione attiva da diversi anni, incentrata sull’amicizia e sul-la ferrea cooperazione tra cinque strumentisti disinibiti, virtuosi. Gente che sa suonare di tutto, come dimostra-no le collaborazioni con Ani DiFranco e Chaka Khan, al di fuori dei circuiti jazz. E che ama i volumi rotondi, qua-si rock-jazz anche se non proprio, con piano Fender e bas-so elettrico a disegnare trame funk come contorni per le narrazioni di tromba e sassofoni. Apprezzati e supportati da Dave Douglas, i Kneebody hanno inciso per l’etichet-

ta del trombettista (Greenleaf Records) e hanno da poco pubblicato un cd per la prestigiosa Winter&Winter. Sem-pre al Torresino il concerto, venerdi 18 marzo.

Su di un versante più raccolto, segnato da una conver-sazione raffinata e sapiente, sarà uno tra gli appuntamen-ti più attesi (Torresino, 25 marzo) di «Ostinati!», ossia il duetto formato dal trombettista Wadada Leo Smith e dal batterista Günter «Baby» Sommer. Un duetto raro da ascoltare dal vivo, dunque preziosissimo. Wadada rappre-senta una delle voci più alte del jazz creativo, fin dalle sta-gioni seminali nell’aacm di Chicago, un altro territorio che il Centro d’Arte ha visitato a lungo, dagli anni settanta a oggi. Wadada è un maestro della world music, intesa pe-rò non superficialmente come accostamento tra linguag-gio occidentale e profumi di musiche etniche, ma come ri-fondazione di una ricerca verso una purezza spirituale che implica uno studio serio delle tradizioni africane e orienta-li. Smith propone un suo sistema sonoro, che egli chiama «Ankhrasmation», una sintassi flessibile, declinabile nel-

le sue improvvisazioni radicali, ma anche nelle composi-zioni da camera o nei gruppi funk derivati dal Miles Davis elettrico. La collaborazione con Sommer risale all’album, in cui figurava anche lo scomparso bassista Peter Kowald. «Baby» Sommer è tra le figure leggendarie del free jazz di quella che fu la ddr ed è ancora elemento stabile del-lo Zentralquartett (con gli altri tedeschi ex-«orientali» Ul-rich Gumpert, Ernst Ludwig Petrowsky e Connie Bauer).

E se è vero che la musica europea è poco presente nel-le feste di «Ostinati!», l’esibizione di The Thing (Torresi-no, 1 aprile) di sicuro può sopperire a questa relativa assen-za. Una figura come il sassofonista improvvisatore Mats Gustafsson, da molti anni colonna della musica anarchi-ca svedese, merita più di una vetrina. E il lungo sodalizio con il bassista Ingebrigt Håker-Flaten e il batterista Paal Nilssen-Love (entrambi norvegesi), sotto il marchio The Thing – omaggio a Don Cherry – fotografa con la giusta intensità una musica estrema, essenziale, necessaria. Da dieci anni The Thing coniuga originalità scandinava e fi-liazione dal free jazz americano, mettendo in corto circu-

ito l’energia jazzistica, l’amore per il punk e per gli autori rock come PJ Harvey, White Stripes, Björk.

Un collegamento Italia-Usa è invece quello realizzato da anni dal chitarrista napoletano Marco Cappelli, entra-to con autorevolezza nel giro degli esploratori musicali di New York e che ora propone le alchimie del suo Acoustic Trio, in compagnia del bassista Ken Filiano e del batterista Satoshi Takeishi (Torresino, 15 aprile). Un altro protagoni-sta dei suoni della «Big Apple», spesso ascoltato come side-man e poco come leader, è lo splendido batterista Ben Pe-rowsky. Ora il Centro d’Arte colma la lacuna, invitando Pe-rowsky a presentare il repertorio del suo recente lavoro in quartetto, «Esopus Opus» (21 aprile, teatro delle Maddale-ne), che spazia dai rifacimenti di Hendrix e Beatles a brani originali che sintetizzano una miriade di stili. Nel gruppo, spiccano i fiati di Chris Speed e il pianoforte di Bojan Z. ◼

Sopra: il sassofonista Tim Bernecon il suo nuovo progetto Los Totopos ( foto di Valerie Trucchia).

A fronte: The Thing ( foto di Krz ysztof Penarski ).

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ludovico einaudi è un musicista di professione. Lo confessa lui stesso, raccontando una carriera che ha attraversato la sperimentazione sui timbri

e la riappropriazione della melodia, unendo tre decen-ni sull’onda di un successo di pubblico crescente. Un ri-scontro, quello con gli ascoltatori, confermato da The Ro-

yal Albert Hall Concert, che rende conto di una sua esibizio-ne recente a Londra, e da un rapporto sempre più intenso e stratificato con le tecnologie di comunicazione, così le chiama lui, che possono permettere di «proporre agli ap-passionati idee e spunti discutendoli in diretta».

Partiamo dalla professione, appunto, di musicista.Dire che la mia è una professione può sembrare scanda-

loso, chiaramente, perché magari si azzera l’aspetto cre-ativo. Io però intendo questa affermazione come un at-to di fede, un approfittare del momento, non un sempli-ce lavoro meccanico.

Al di là di questo giocare con le parole, il suo percorso è riuscito nel tempo a riprendere la tradizione senza rinnegare i cambiamen-ti del linguaggio del Novecento musicale, quello delle avanguardie.

Una pacificazione inevitabile, che conosce bene chi, co-me me, ha praticato l’elettronica in tempi non sospetti. Mi sono accorto che il nostro traguardo finale dovreb-be essere sempre la comunicazione, quindi trovare un modo per arrivare a condividere sugge-stioni, spesso le più arcane, che i suoni e i loro intrecci si portano dietro. Non c’è frattura, su questo, ma evoluzione.

Lo testimonia bene il recente Nightbook, che

non si vergogna delle melodie e della presa diretta del suono.Perché dovrebbe, del resto? L’ossessione della melodia

è un aspetto della mia espressività, da sempre. È lo sche-letro, il nerbo di tutto ciò che si può fare. Senza melodia non c’è musica. Certo, poi si può lavorare sulle oscillazio-ni di determinate idee melodiche, però si parte da quelle.

Da quella partenza si arriva a risultati quasi trascendenti.Esattamente. La mia formazione classica si è stratifica-

ta, con il tempo, fino a diventare inestricabile con ricor-di più primitivi, con l’interesse per il folk, l’etnica, il po-polare contemporaneo. Non voglio escludere nessun ele-mento e forse per questo comunico bene con il pubblico.

Un pubblico che ha riscoperto le partiture, se si pensa al successo di altri suoi colleghi.

Probabilmente una pecca grave del musicista classico è

stata quella di pensare di rinnovare un linguaggio a prio-ri, senza tenere conto di quello che è il referente ultimo, ovvero chi va nei teatri e ascolta i dischi. Un peccato di superbia che stiamo ancora scontando, ma che la mia ge-nerazione non intende ripetere.

Oltre a numerosi concerti dal vivo, lei utilizza anche la Rete per comunicare con gli appassionati.

Sono affascinato dalla simultaneità. L’idea di fare, per esempio, un duetto a distanza, servendosi solo di un paio di computer e della webcam, azzera i problemi fisici nel far viaggiare l’ispirazione. È una cosa bellissima se è usa-ta con criterio e soprattutto se non scalza l’esibizione ve-ra e propria e l’integrazione con altri supporti, tipo il cd.

Nel futuro molti pronosticano però la fine di un supporto materia-le, per il lavoro dei musicisti.

Per ora non è così: c’è ancora bisogno di un archi-vio fisico. Io lavoro con la materia e penso a un di-sco, a un’opera, dall’inizio alla fine. Il futuro però non

mi spaventa. Lo stiamo aspettan-do senza ansie, ma con curiosità. ◼

Le arcane suggestionidell’intreccio sonoroLudovico Einaudi si racconta

a cura di John Vignola

Ludovico Einaudi ( foto di Stefano Costantino).

GoriziaTeatro Comunale Giuseppe Verdi

22 febbraio, ore 20.45

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ormai è quasi una rock star del-la world music, ascoltato entusia-sticamente da generazioni di ap-

passionati in tutto il mondo, come proba-bilmente toccherà anche al pubblico del Gran Teatro Geox di Padova venerdì 11 febbraio alle 21.00: tuttavia non si può fare a meno di pensare a Goran Bregović, sessantenne giovanilissimo, come all’unico ar-tista veramente popolare e cosmopolitica, diventato fa-moso a causa della peggiore tra le guerre civili nell’ultimo decennio del ventesimo secolo, grazie però a una musica festosa, allegra, ironica, dissacrante, quasi a rispecchia-re i tanti volti di una società multietnica complessa. Go-ran, bosniaco, nato a Sarajevo da padre croato e mamma serba, dopo il divorzio dei genitori vive nella zona a pre-dominanza musulmana entrando in contatto con le tre le culture (e nazionalità) che formano la Bosnia-Erzegovi-na: araba, cattolica e ortodossa.

Del passato di Bregović si possono ricordare gli inizi al violino e poi alla chitarra, l’adolescenza trascorsa a Napo-li a suonare folk, il ritorno in patria dove in breve diventa famosissimo con il leggendario gruppo rock Bijelo Du-gme (Bottone bianco) indiscutibilmente il più talentuo-so nella Jugoslavia degli anni settanta e ottanta. Ma è solo quando la band si scioglie e si mette a comporre per il ci-nema che Bregović diventa internazionalmente famoso.

Il suo primo lavoro, lo score del Tempo dei gitani (1989) per la regia di Emir Kusturica, ottiene subito unanimi consensi di pubblico e critica, che apprezzano tanto la storia quanto la frizzante, energetica colonna sonora. La collaborazione tra Bregović e Kusturica diventa tra le più strette, inventive, paritetiche, come negli esempi classici di Nino Rota con Federico Fellini o di Prokofiev con Ej-zenstejn. Nel film successivo, Arizona Dream (1993), Go-ran scrive canzoni addirittura cantate da Iggy Pop; per il capolavoro Underground (1995) c’è la Palma d’oro a Can-nes anche grazie allo score, benché il sodalizio s’incrini di colpo per le accuse del regista di eccessivo uso concer-tistico delle partiture filmusicali.

Ma la strada di Bregović è ormai quella della celluloide, allargata ai cineasti europei come Patrice Chereau (La Re-gina Margot), Radu Mihăileanu (Train de Vie), Chris Men-ges (The Lost Son), Roberto Faenza (I giorni dell’abbandono), non senza una propria attività di recital e di album con un gruppo chiamato Wedding and Funeral Band: da se-gnalare in tal senso i cd per case discografiche interazio-nali Silence of the Balkans (1997), Ederlezi (1998), Songbook (2000), Goran Bregović’s Karmen with a Happy End (2007).

Tutta la musica di Goran trae ispirazione da antichi te-mi zigani e dal folclore slavo meridionale: con opportu-ne metamorfosi attualizzanti è quindi il segno marcato di un’intelligente fusione della tradizione polifonica bal-canica, delle radici popolari ritualizzate, delle moderne

esperienze novecentesche, soprattutto a livello di sonori-tà leggera dal tango al rock, dal pop alle marcette (anco-ra molto usate nella Ex Jugoslavia grazie alle numerose scoppiettanti bande di ottoni).

Di se stesso Bregović dice: «Non ho mai avuto un’edu-cazione musicale, bensì una sorta di conoscenza incon-scia, che mi fornisce una percezione di qualcosa che, pur non conoscendo, capisco. Anche Beethoven, verso la fi-ne della sua esistenza, riusciva a comporre senza poter sentire nulla, perché c’era qualcosa che sentiva per lui. Il mio, comunque, rimane un approccio semplice alla musi-

ca, come in tutte le altre cose. Al tempo del mio successo nella Ex Jugoslavia ho fat-to dei dischi negli studios dei Pink Floyd e per me loro sono sempre stati un model-lo dal punto di vista della loro immagine

pubblica».E conclude, prendendo sempre a modello il miti-

co quartetto inglese: «[Dei Pink Floyd] quasi non si co-noscono i loro volti e si possono incontrare per strada senza che tu ti accorga di loro. Li ho visti in concerto e potevano sembrare persone come mio padre. Musi-cisti di questo tipo non sono ossessionati dalla rincor-sa verso il successo. Ciò che ho oggi è quello che ho so-gnato tutta la vita: un grosso pubblico ai miei concer-ti e numerosi acquirenti dei miei dischi, senza pe-rò essere costretto ad apparire in un certo modo». ◼

Goran Bregović:a Padovala rock stardella world music

di Guido Michelone

Goran Bregović.

Padova – Gran Teatro Geox11 febbraio, ore 21.00

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l’anno scorso è stato muto per un po’ di tempo. E se normalmente questo per un cantautore può es-

sere un problema, per Max Gazzè è stata una nuova occasione di formazione arti-stica. Nel lungometraggio Basilicata Coast to Coast diret-to da Rocco Papaleo ha infatti interpretato il personag-gio di Franco Cardillo, falegname con la passione per il contrabbasso rimasto senza parole come conseguenza di una delusione d’amore. Nel film i protagonisti riabbrac-ciano i sogni musicali che avevano abbandonato col ma-turare degli anni, riunendo la loro band e iniziando una scanzonata attraversata della Basilicata a piedi, da costa a costa. Una specie di Easy Rider appiedata che ha co-me meta Scanzano Jonico. In qualità di unico vero mu-sicista anche al di fuori della finzione cinematografica, Gazzè compone la canzone che si sente nei titoli di coda, «Mentre Dormi». Galvanizzato dal buon succes-so del film e del brano, ritorna in sala d’inci-sione, dove lavora con un gruppo di vec-chi amici per produrre Quindi?, un di-sco che lui stesso definisce onesto, re-gistrato in maniera diretta, con stru-mentazioni vintage e con un uso li-mitato di software musicali proprio per mantenere intatta la spontanei-tà del suono.

Max Gazzè nasce a Roma ma tra-scorre la prima parte della sua vi-ta a Bruxelles, iniziando a suonare il pianoforte per poi abbracciare defi-nitivamente il basso. Ha alle sue spalle una lunga gavetta consumata in giro per l’Europa con i Play 4, gruppo specializza-to in nothern soul, genere molto in vo-ga nell’Inghilterra degli anni sessanta. Sentito il richia-mo della madre patria, ri-torna agli inizi degli an-ni novanta nella Capitale e inizia un proprio per-corso artistico nel mondo cantauto-rale nazionale. Entra in con-tatto con una scena di musi-cisti quali Da-niele Silvestri,

Niccolò Fabi, Paola Turci e altri ancora, con cui instau-ra un’amicizia profonda consacrata anche da molte col-laborazioni reciproche. I primi due dischi, Contro un’onda del mare del 1995 e La favola di Adamo ed Eva del 1998, ini-ziano a farlo conoscere al pubblico, in particolare grazie al singolo «Vento d’Estate», registrato in duetto con Nic-colò Fabi. Sanremo diventa tappa inevitabile: vi partecipa nel 1999 con «La Musica può Fare», nella sezione Giova-ni. Come spesso accade a un non entusiasmante riscon-

tro sanremese (arriverà ottavo) corrispon-de un buon successo della canzone nei me-si successivi, elevando il brano al rango di «tormentone» estivo. L’anno successivo è di nuovo al Festival, questa volta tra i big,

con «Il timido ubriaco», singolo trainante del terzo omo-nimo disco, Max Gazzè. Poesia gentile, vissuta tra l’iro-nia e le tematiche più svariate, dalla narrazione amorosa all’analisi del sociale, il mondo musicale di Gazzè non ha confini. Raccoglie dal quotidiano, dal passato e da visioni futuribili, tutto materiale che trasforma in musica senza paura di esplorare la complessità dei generi, senza curar-si delle mode. In questo si sente che i riferimenti ai qua-li attinge si rifanno a Battisti, a Battiato e più in genera-le alla poesia piuttosto che alla narrazione. Ma non biso-gna dimenticare che Gazzè è un musicista prima che un

cantante: un bassista consumato, fedele alle quattro corde del Fender Standard Jazz. Si sente che c’è

moltissima esperienza nel suo sound, e molti passaggi rimandano ai Police, dei quali si è

sempre dichiarato grande fan. Ha suona-to sia in una cover band da lui formata, I Polis, sia nei Gizmo, gruppo musicale capitanato da Stewart Copeland, bat-terista e fondatore – assieme a Sting – dei Police. Dopo un tour «Di Comu-ne Accordo» con Marina Rei e Pao-la Turci, viene pubblicato Dall’aratro alla radio, in cui il nostro riflette sui cambiamenti della società, dalla vita agreste ai modelli di vita contempo-ranea. Nel disco troviamo anche «Il solito sesso», una delle sue canzoni più famose. A seguito dell’esperien-za di attore, ha prestato il suo volto anche nella messa in scena del mu-sical Jesus Christ Superstar, nel qua-le ha interpretato il ruolo di Ero-de. Lontano dalla musica, Max

Gazzè pratica il reiki, disci-plina orientale che ha come

obiettivo l’armonizzazio-ne del corpo, del cuore,

della mente e dello spi-rito con la realtà uni-versale. Vista la sicu-rezza e la tranquilli-tà con cui affronta ogni suo progetto, sembra proprio funzionare. ◼

di Tommaso Gastaldi

Nuovo discoe nuovo tourper Max Gazzè

Mestre – Teatro Toniolo15 gennaio, ore 21.00

Max Gazzè.

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quasi in sordina, senza particolari messaggi pro-mozionali, lo scorso 31 ottobre al Teatro Villa dei Leoni di Mira si è tenuto un mirabile mo-mento pub-

blico/concerto dal tito-lo Terre di emigranti, terre di incontri, che ha visto protagonista il celebre cantautore argentino di origine piemontese León Gieco (1951), di passaggio in Italia nel-la veste di membro del-la Giuria del xxv Fe-stival del Cinema lati-no-americano di Trie-ste. Definito da alcu-ni il Bruce Springste-en del Sudamerica, Gieco – autore e inter-prete di canzoni-ma-nifesto fra le quali So-lo le pido a Dios, Cinco Si-glos Igual, La Memoria, che lo identificano co-me paladino dei dirit-ti umani e della solida-rietà nei confronti de-gli umili e degli emar-ginati – si caratteriz-za musicalmente per la personale, originalis-sima sintesi di folclo-re latino e rock ameri-cano. Nel corso della sua lunga carriera – nel 2006 si è aggiudicato il Grammy Latin Award – ha collaborato con artisti del calibro di Bob Dylan, Sting, Pe-te Seeger, Mercedes Sosa, i cubani Pablo Milanés e Sil-vio Rodríguez, i cileni Inti Illimani. Nato nel 1951 in un paesino vicino a Santa Fé, appena diciottenne si trasfe-risce a Buenos Aires, dove comincia a entrare in contat-to con il mondo rock locale. Nella prima metà degli anni settanta ha già al suo attivo tre dischi, ma la censura im-posta dalla dittatura militare lo spinge a trasferirsi per un anno a Los Angeles. Nel 1981 compie un lungo viaggio all’interno del proprio Paese, intitolato «De Ushuaia a la Quiaca», con l’intento di raggiungere anche luoghi im-pervi e lontani dove la musica nasce spontanea, per regi-strarla nel suo ambiente naturale: di questi tre anni pas-sati in giro per l’Argentina restano duemila fotografie,

cinquanta ore di videofilmati e tre lp. Dal 1989 inizia la grande notorietà che lo porta a incontrare i nomi illustri citati poco prima, e a ottenere un gran numero di premi e onoreficienze.

Durante la serata mirese Gieco si è esibito sia in asso-lo, con chitarra e armonica, che con un gruppo di tur-nisti chiamati ad accompagnarlo per l’occasione, propo-nendo una selezione dei pezzi più celebri del suo reper-torio. L’incontro è stato arricchito dalla proiezione della pellicola Mundo Alas, documentario di straordinaria cari-ca emotiva che vede protagonista lo stesso cantante assie-me a un gruppo di musicisti disabili in tournée per l’Ar-gentina. Ad omaggiare la presenza del grande cantautore

è stato chiamato, per aprire la serata, Gio-vanni Dell’Olivo, che ha proposto in trio, oltre che pezzi propri come «Erne-sto non fa più il me-dico» e «Il tempo», alcuni brani del-la nostra tradizione popolare. Il compo-sitore veneziano, do-po il graffiante affre-sco La saga del Com-menda e l’elabora-to lavoro di recupe-ro e riproposta del-la tradizione che ha preso il titolo di La-gunaria, uscito nel 2009 (cfr. VMeD n. 3, p. 58, n. 21, p. 17, n. 27, p. 29 e n. 31, p. 54) sta ora ponendo le basi per un nuovo progetto, immagi-nato insieme a Gian-ni De Luigi e incen-trato su una figu-ra quasi mitica del-la Venezia degli an-ni settanta, il bandi-to-acrobata Kociss. Attraverso una vera e propria dramma-turgia, che unisce la parola narrativa al-la musica e alle can-

zoni, Dell’Olivo affronterà – stando a quanto ci antici-pa – quella drammatica parabola esistenziale, conclu-sasi a trentun anni con uno scontro a fuoco in pieno centro storico, raccontando la vicenda umana del fuo-rilegge in relazione a quella del suo alter ego nella po-lizia, Arnaldo La Barbera. Ma di questo tributo – par-tecipato ma non agiografico – all’antieroe venezia-no Kociss torneremo a parlare quando si conclude-rà il lavoro preparatorio e sarà già tempo di debutti. ◼

León Gieco incanta Villa dei LeoniAprono la serata le canzoni di Giovanni Dell’Olivo

di Leonardo Mello

León Gieco (pressenza.com).

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che fossero «zirudelle», o «Canzonieri», o «Fatti», per oltre un secolo quei fogli di car-ta sottile, dai colori a pastello e stampata

in bianco e nero, hanno costituito la principale, se non unica, fonte di guadagno dei Cantasto-rie dell’Italia settentrionale. Li vendevano nelle piazze, nei mercati, nelle strade nel corso del-le loro esibizioni.

Le «Zirudelle», come le chiamavano in Emilia-Romagna, erano fogli di carta colo-rata, talvolta di dimensioni ridotte, stam-pati da un solo lato e contenevano fila-strocche o poesie in dialetto, spesso as-sieme a numeri del Lotto o altri sugge-rimenti. Piazza Marino, uno dei Canta-storie più famosi che abbiamo incon-trato nell’articolo precedente, era un produttore inesauribile di ziru-delle, capace di improvvisa-re rime e strofe all’im-pronta su qualsia-si argomento.

Divert ire era l’obietti-vo di queste composizioni, e ci riuscivano debordando tal-volta nel campo del doppio senso o dello scurrile vero e proprio.

Componimenti satiri-ci o comici in tutto simili alle zirudelle furono diffu-si in tutte le regioni dell’Italia Settentrionale dai diversi Can-tastorie; in Lombardia, ad esem-pio, presero il nome di «Bosinate».

I «Canzonieri» erano fogli grandi di carta colorata, stampati fronte/re-tro, che riproducevano i testi delle can-zoni in voga che nelle esibizioni pubbli-che si alternavano con le altre forme com-positive, allo scopo di attirare l’attenzione del pubblico e costituire rapidamente il treppo.

Furono distribuiti dagli anni quaranta in poi,

quando la capillare dif-

fusione del-la radio aveva

portato in ogni sperduto paese

i motivi lancia-ti dai cantanti più

famosi: Rabaglia-ti, Natalino Otto, la

Ferida, il Trio Lesca-no e tanti altri.L’editore Campi di

Foligno, uno dei più prolifici stampatori di

Fogli Volanti, produce-va anche «Il Canzoniere della

radio», un libricino che ebbe una distribuzione capillare,

venduto anche attraverso le edicole, che costituisce

oggi una preziosa fon-te di informazione sul

mondo della mu-sica leggera negli

anni quaranta/cinquanta.

Ma i pro-dotti più origina-

li della creatività dei Cantastorie sono «i Fatti»,

costituiti da fogli stampati da un solo lato con disegni e decorazioni in

bianco e nero. Raccontavano fatti tragici,

Fogli Volanti:preziose testimonianzedi culturae vita popolare

di Gualtiero Bertelli

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commoventi o strazianti (il reduce che torna dalla Russia e trova la moglie risposata con un altro, la bambina gettata nel pozzo, lo smemorato, la bambina salvata dal cane, ecc.), spesso composti all’indomani degli accadimenti, venendo così a svolgere la funzione di veri e propri giornali cantati. Le ballate erano eseguite con tale partecipazio-ne da coinvolgere il pubblico fino alle lacrime. I «Fatti» erano così strutturati: la metà superiore era occu-pata dai riquadri disegnati che illustravano gli episodi sa-lienti della storia, la metà inferiore conteneva la «canzo-ne» che narrava la tragedia. E così sono giunti sino a noi gli echi de «La vita e morte del brigante Chiavone» o del bandito sardo Stocchino, «Il grande miracolo di S. Anto-nio da Padova» o la tragica fine della squadra del Torino, «L’effetto degli aeroplani e dei dirigibili» e l’attentato a To-gliatti e così via fino a tempi a noi molto prossimi, come quelli della strage di Bologna del 2 agosto 1980.

Lo scopo dei Cantastorie era vendere per poter campa-re; un treppo senza vendita era un treppo fallito. Per que-sto accanto ai fogli volanti vendevano di tutto: la statuetta della madonna di Lourdes con la bottiglietta d’acqua be-nedetta, la medaglietta del Santo che aveva fatto il miraco-lo, santini e immaginette sacre di ogni tipo.

D’altra parte l’origine dei Fogli Volanti precede di mol-to la vicenda dei Cantastorie di cui stiamo raccontando. I primi fogli e libretti con storie, disegni, calendari, preghie-re incominciarono a circolare fin dalla fine del XV seco-lo e successivamente si arricchirono di informazioni su guerre, battaglie, omicidi e testi di canzoni e ballate che così si diffusero da una parte all’altra dell’Europa.

Un gran numero di fogli e scritti volanti comparvero con la Riforma nell’Europa centro-settentrionale, arri-vando sin nelle nostre valli del Piemonte e della Lom-bardia, orientando l’opinione pubblica verso determina-te idee religiose e politiche. Una tiratura particolarmen-te elevata ebbero, ad esempio, alcuni scritti polemici di Martin Lutero che, secondo le indicazioni dello stesso Lutero, furono diffusi (comprese le ristampe) in quat-tromila copie.

Sarebbe quindi possibile ricostruire e documentare la storia d’Italia, e anche d’Europa, attraverso l’anali-si di fogli volanti e le vicende da essi narrate. Natural-mente più ci avviciniamo ai tempi nostri e maggiore è la massa dei documenti a disposizione. Ma anche periodi a noi più lontani possono essere ampiamen-te documentati.

Trattandosi di materiale a stampa, i Fogli Volan-ti nella loro trasformazione formale seguono la sto-ria di questo mezzo di comunicazione, passando da stampe incerte, con testi brevi e disegni xilografa-ti, alla stampa con la famosa «pedalina», la macchi-na della propaganda clandestina dell’antifascismo, dalle vignette che ricalcavano lo stile de «La Do-menica del Corriere» fino al più recente rotocalco stampato su carta bianca più robusta, entrando co-sì nel sistema produttivo commerciale e della co-municazione di massa.

A questo punto «imprenditori» sono non solo i Cantastorie capaci di scrivere le proprie canzoni e ballate, ma anche gli stessi editori e tipografi che commissionano «storie» a vari autori e distribu-iscono i loro fogli da vendere alla rete dei Can-tastorie, ma anche alle edicole e ad altri sogget-ti capaci di far giungere ovunque quei fogli che

talvolta vengono stampati anche su quattro facciate, rag-giungendo la dimensione di una pagina di giornale.

Fino ai primi decenni del Novecento le tipografie, gran-di o anche piccole, che stampano i fogli volanti sono mol-te, sparse in tutto il nord Italia. Alcune, come la Ranzini di Milano, la Salani di Firenze, la Artale Matteo di Torino, si dettero stili ben riconoscibili per impaginazione, grafi-ca e caratteri tipografici.

Con l’affermazione del sistema produttivo industriale su quello artigianale, la produzione si accentra in alcune ti-pografie, come Arti Grafiche Elio Gualandi di Bologna, Grafiche Veronesi e infine la già citata Campi di Foligno che negli anni cinquanta, il momento di maggior espan-sione del fenomeno editoriale, assunse una presenza e un peso sempre maggiori sul mercato nazionale.

Il processo di alfabetizzazione e di scolarizzazione avvia-to su tutto il territorio nazionale, la comparsa di una vera e propria stampa «popolare» basata su settimanali dedica-ti e fotoromanzi, e poi la televisione, segnarono l’inizio di una parabola discendente che per lungo tempo risparmiò i Cantastorie, ma ridusse rapidamente la produzione di Fogli Volanti. Ormai i fatti giungevano in ogni casa con la rapidità della realtà e i giornali li riprendevano illustrando-li a fondo in ogni loro aspetto. I Cantastorie, anche quel-li ancora in attività, rappresentano un sedimento cultura-le, una rappresentanza attiva di un passato prossimo, ep-pure lontano, un cumulo di suggestioni che possono dare

alimento a ciò che di più prezioso ha un popo-lo: la memoria. ◼

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il Programma musicale del Teatro Fondamenta Nuo-ve per il 2011 si apre con due concerti in esclusiva as-soluta, che vedranno protagonisti due tra i più talen-

tuosi e influenti pianisti della scena jazz contemporanea.Si parte giovedì 13 gennaio con l’americano Anthony

Coleman, già protagonista nel 2008 al Teatro Goldoni di un indimenticabile concerto per il Giorno della Memo-ria. Musicista tra i più intelligenti e originali della scena downtown newyorchese, pianista estroso e raffinato studio-so vicino all’avanguardia di John Zorn, nonché artista ce-lebre per la capacità di reinterpretare mu-siche della tradizione ebraica miscelandole con ritmi e sonorità di tutto il mondo, Cole-man è stato invitato come artista in residen-za dal Centro Veneziano di Studi Ebraici Internazionali in collaborazione con Vene-tian Heritage per studiare il repertorio mu-sicale ebraico veneziano. Proprio per ce-lebrare questo speciale soggiorno e la pri-ma tappa del suo lavoro sul campo, Cole-man presenta al pubblico una selezione del-le sue migliori composizioni ebraiche, spa-ziando tra il mondo ashkenazita dell’Euro-pa centrale e dell’est, e quello sefardita del mediterraneo.

Domenica 16 sarà la volta della pianista svizzera Iréne Schweizer, nome di culto del jazz europeo da oltre quarant’anni, artista che ha saputo sintetizzare la ricerca più spe-rimentale dell’improvvisazione con le radi-ci africane, la tradizione classica con quel-la afroamericana. Al Fondamenta Nuove si esibirà in una prima parte in solo, formu-la che l’ha resa famosa e nella quale mostra tutte le sue anime creative, e in un secondo

momento dello spettacolo in duo con il sassofonista Jurg Wickihalder.

Giovedì 3 febbraio a salire sul palco saranno i Digital Primitives, originale trio che combina blues, funky, free jazz, ritmi africani, pop e tutto quello che gli passa fra le mani. Formato dal sassofonista Assif Tsahar con il batte-rista Chad Taylor e con un personaggio indomabile come Cooper-Moore, che si esibisce con incredibili strumen-ti autocostruiti, il trio evoca suoni provenienti quasi da una giungla virtuale, con echi di slide guitar del delta, ruvidi blues urbani, spoken-jazz di rivendicazione sociale, infuo-cati assoli di free che trasportano l’ascoltatore in una sor-ta di viaggio sciamanico tra i segreti della musica popola-re americana.

Ma il Fondamenta Nuove non nutre il suo pubblico di sola musica. Anche in questo nuovo anno, infatti, il Tea-tro veneziano prosegue l’indagine delle traiettorie più ori-ginali e sperimentali della scena italiana, utilizzando mo-dalità flessibili che prevedono, oltre agli spettacoli, an-

che residenze artistiche, laboratori, incon-tri, in stretta collaborazione con il proget-to «Esperienze» di Giovani a Teatro (cfr. pp.75-81).

Il 18 gennaio giunge a Venezia la compa-gnia Città di Ebla, guidata da Claudio An-gelini, che sarà in scena con una conferen-za/spettacolo sul progetto «Pharmakos», mentre il 20 presenterà La metamorfosi, cre-azione liberamente ispirata al racconto di Franz Kafka.

In febbraio l’appuntamento è con un al-lestimento site-specific al Museo Fortuny da parte della compagnia Anagoor: si trat-ta di Ballo Venezia, nuovo episodio di un progetto che porterà poi al debutto nei prossimi mesi e che continuerà l’indagi-ne che la compagnia di Castelfranco sta svolgendo sul rapporto tra arte e contem-poraneità. Prima dell’evento la compa-gnia terrà anche un laboratorio dedica-to ancora una volta ai Giovani a Teatro. ◼

VeneziaTeatro Fondamenta Nuove

musica13 gennaio, ore 21.00

Anthony Coleman16 gennaio, ore 18.00

Iréne SchweizerJurg Wickihalder

3 febbraio, ore 21.00Digital Primitives

teatro18 gennaio

compagnia Città di Ebla,conferenza/spettacolo

sul progetto «Pharmakos»20 gennaio

Compagnia Città di Ebla,La metamorfosi

VeneziaPalazzo Fortuny

febbraioAnagoor, Ballo Venezia(allestimento site-specific)

Un 2011 di musicae teatro al Fondamenta Nuove

di Ilaria Pellanda

A sinistra: Anthony ColemanA destra: Città di Ebla, La metamorfosi

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