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Una vita felice per Dio e per il re La vita quotidiana nelle riduzioni del Paraguay

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© 2009 Società Editrice Fiorentinavia Aretina, 298 - 50136 Firenzetel. 055 5532924fax 055 [email protected]

isbn: 978-88-6032-112-1

Proprietà letteraria riservataRiproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata

Progetto grafico e impaginazioneGrafica Elettronica srl - Napoli

In copertinaAnnunciazione, particolare della Vergine, statua in legno (Santa Rosa, Cappella di Loreto)

Questo volume è pubblicato in occasione della mostra realizzata e organizzata per la XXX edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli

Una vita felice per Dio e per il Re. L’avventura quotidiana nelle riduzioni del Paraguay

TestiAldo Trento, Ferdinando Dell’Amore, Norma Gimenez, Marcos Insfran, Ana Burrò, Claudia Palazon, Cesar Rojos, Eduardo Zavala

Ricerca bibliografica e d’archivioFerdinando Dell’Amore

ImmaginiMarcelo Torterolo, Ferdinando Dell’Amore

Progetto graficoIsabella Manucci

StampaMillennium, Rimini

VideoSofia Paoli Thorne, Valentina Todaro

ProgettoMaurizio Bellucci, Victoria Palacios

AllestimentoStudenti della Facoltà di Architettura di Firenze e Venezia, con il prezioso contributo di alcuni studenti dell’Accademia di Brera di Milano

LuciGianfranco Branca

CatalogoSocietà Editrice Fiorentina

Noleggio della mostraIES International Exhibition [email protected]

Si ringraziano tutti coloro che a vario titolo hanno offerto la loro preziosa collaborazione

Con il contributo di

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Indice

7 prefazione di Aldo Trento

9 introduzione. camminavano sempre…

13 i guaranì

14 I Guaranì 16 Tupà e la Terra senza male

19 origini e inizi delle riduzioni

20 I primi gesuiti arrivano in Paraguay 22 La fondazione della provincia del Paraguay 26 A sud di Asunción. Fondazione della prima riduzione: San Ignazio

Guazù 27 A nord-est di Asunción: il Guairà 30 La diffusione delle riduzioni nel Guairà e nel Itatìn 32 Le missioni di Tapé 34 Il grande esodo e la battaglia di Mbororè

37 l’organizzazione delle riduzioni

38 Cosa furono le riduzioni? 42 La chiesa 44 Le case degli indiani 46 Il tracciato urbano: scuole, laboratori, coty guazù 50 L’organizzazione interna 53 La giustizia

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56 La medicina e l’igiene 59 Il sistema economico 62 L’agricoltura

65 la vita quotidiana nelle riduzioni

66 L’uso del tempo 69 Il fondamento della vita 72 La famiglia 75 Il lavoro 78 L’educazione e la scuola 81 La musica e il canto 84 La scultura e la pittura 87 La danza e il teatro 88 La stampa 90 Un osservatorio astronomico

93 la fine delle riduzioni

94 Perché terminarono le riduzioni

98 conclusione

99 bibliografia

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Prefazione

Se don Giussani, che fu colui che mi propose di andare in Paraguay, non ci avesse detto «andate e rivivete quella esperienza», io non mi sarei mai mes-si sulle orme dei gesuiti.

È iniziata così la scoperta delle riduzioni, che sono l’esempio di come il cristianesimo vissuto crei una forma nuova di civiltà.

Per questo abbiamo voluto realizzare questa mostra, in cui fosse possibi-le vedere come si viveva la quotidianità nelle riduzioni, e mostrare che vive-re così è possibile ancora oggi.

È impressionante leggere i diari dei gesuiti del tempo, da cui trapela la passione per la gloria di Cristo. Era gente innamorata di Cristo, e a loro non importava fare strutture, esse crescevano perché cresceva la coscienza di Dio come colui che fa la realtà.

Per me e la mia opera è la stessa cosa, nasce dalla stessa coscienza.Ed è dal riconoscere che “io sono Tu che mi fai” che posso ripartire ogni

giorno.

p. Aldo Trento

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Biglietto scritto da don Luigi Giussani alla comunità degli universitari di Comunione e Liberazione del Paraguay

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Introduzione. Camminavano sempre…

«Camminavano sempre, senza stancarsi mai, spinti da una febbre interiore che faceva scordar loro la fame e la fatica fisica. Senza alcun rimpianto, ave-vano lasciato le loro capanne di palma e di canna di bambù, i monti dove si approvvigionavano di tapiri e di cervi alla ricerca della “Terra senza male”. Una terra nuova, diversa dalla terra contaminata dal serpente che avevano dovuto abbandonare; una terra nella quale non sarebbe stato più necessario che le donne lavorassero i campi né che gli uomini andassero affannosa-mente a caccia e a pesca. Lì, tutto si sarebbe prodotto in abbondanza, tutti sarebbero stati felici senza mai invecchiare. Nei pascoli eterni i bambini avrebbero riempito le loro canaste con il miele delle api, mentre le loro ma-dri, adornate con fiori e piume colorate, avrebbero suonato ritmicamente le loro canne di bambù accompagnando i sonagli delle danzatrici. La caccia e la pesca sarebbero state abbondanti, e non sarebbe mai venuto a mancare il tabacco, regalo degli dèi agli uomini per comunicare con loro attraverso la nebbia delle loro pipe.

Di fronte a qualsiasi tipo di ostacolo, anche quello apparentemente più insormontabile, non perdevano mai la fiducia: semplicemente cambiavano direzione, certi che un giorno sarebbero arrivati alla terra promessa. Nulla, neanche il fatto che il cammino fosse lungo, li distoglieva dalla meta desi-derata. La loro fede nel luogo delle delizie e dell’immortalità rimaneva in-tatta. Fu così che nel corso dei secoli popolarono tutta l’area amazzonica, verso il nord, il sud e il sud-est del Grande Fiume.

In questo scenario, nel quale la terra rossa contrasta con il verde della fo-resta e coi monti, attraversato dai fiumi Paranà, Uruguay, Paraguay, Yguazù e dai loro affluenti, arrivarono i padri gesuiti, i figli di sant’Ignazio di Loyo-la, pieni dell’entusiasmo del loro fondatore e dei suoi primi amici, disposti a seguire fino al martirio il comandamento evangelico “andate e battezzate tutte le genti”.

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La loro impresa non era per nulla improvvisata. Erano muniti di due armi fondamentali: la conoscenza dell’idioma di quelli che andavano a in-contrare e la totale disponibilità a Dio. Come i Guaranì, tutta la loro vita era orientata verso il Mistero.

Fu solo in seguito a quell’incontro che il vagare dei Guaranì si trasformò in pellegrinaggio: divennero i pellegrini dell’Assoluto, di un Assoluto che si era rivelato in Cristo. Per questo, la loro vita nomade venne presto sostitui-ta da quella sedentaria e dalla stabilità: non era più necessario camminare, cercare strade, creare ponti, perché il Mistero stesso si era rivelato e aveva mostrato il suo volto anche agli abitanti della foresta. La promessa era man-tenuta, il sogno dell’immortalità, della vittoria della vita sulla morte, si era realizzato.

Nacquero le riduzioni».

(tratto da Lucia Galvez, Guaranies y Jesuitas, Editorial Sudamericana, 1995)

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I Guaranì

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I Guaranì

Si attribuiscono diversi significati al termine Guaranì; alcuni suppongono derivi da “gua” dipinto, e “ni” che è il plurale, ossia “uomini dipinti”. Altri credono che possa essere una alterazione della parola “guaranai”, cioè “nu-merosi”. Altri ancora ritengono che significhi “vespa” e veniva loro riferito perché erano selvaggi.

I Guaranì erano un popolo seminomade, caratterizzato da costanti mi-grazioni. Vivevano dispersi in molte tribù indipendenti; ogni tribù era go-vernata da un cacicco e le diverse tribù si alleavano in caso di pericolo. Pra-ticavano l’antropofagia: sacrificavano e mangiavano i nemici prigionieri.

All’interno della tribù le relazioni sociali erano basate sull’uguaglianza: nessuno godeva di alcun privilegio. La famiglia era basata sul matrimonio poligamico. Non vivevano in villaggi, ma in accampamenti, che chiamava-no “Tava”. Le loro abitazioni erano in comune e venivano denominate “Oga”: erano costruite senza adoperare la pietra, unicamente con legname, frasche e paglia.

Nelle estese terre in cui vivevano c’erano altre popolazioni, con i quali erano spesso in guerra: tra queste, le più note erano i Guaicurùes, che abi-tavano la regione dell’attuale Chaco, il cui spirito bellico era acuito dalle precarie condizioni di vita.

La loro economia era basata soprattutto sulla caccia, sulla pesca e sul rac-colto dei frutti della foresta: possedevano una agricoltura rudimentale che permetteva loro di coltivare mais, arachidi e manioca.

Avevano una grande conoscenza della botanica e della zoologia; erano molto esperti nella medicina naturale.

Il loro patrimonio culturale era ed è la lingua guaranì, che ha una strut-tura molto logica e permette di esprimere con precisione idee e sentimenti.

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Tupà e la Terra senza male

I Guaranì credevano in un essere supremo, creatore del cielo e della terra, chiamato “Tupà”, parola che significa “che meraviglia!” ossia “chi ha fatto questa cosa bella”. Tupà è concepito e invocato come un padre buono, che usa il suo potere creatore per amare e non per punire. Tupà, quando viene invocato, allontana le malattie e la morte, dona la pace e la concordia.

I Guaranì credevano anche in uno spirito maligno, Anai.Tupà creò il mondo e lo pose su cinque palme di Pindù. Poi creò l’uo-

mo, Karai, che era immortale, e viveva nel paradiso, un luogo di pace e di bellezza. Ma il serpente, lo spirito maligno di Anai, tentò l’uomo e lo con-vinse a disobbedire a Tupà. Fu così che Tupà fece venire un diluvio ed espulse l’uomo dal paradiso, condannandolo a perdere l’immortalità. La-sciò però all’uomo una speranza, quella di poter raggiungere un giorno la “Yvy marané’y”, la Terra senza male, dove sarebbe stato felice per sempre. Una terra a cui si poteva arrivare attraverso la migrazione, la musica e la danza.

Da quel momento, gli uomini cercarono la Terra senza male, in ogni tempo e in ogni luogo. Stando alla leggenda, i Guaranì erano discendenti di due fratelli, Tupì e Guaranì, che arrivarono nella foresta provenendo da una terra situata dall’altra parte del mare. A causa delle loro donne, nacque tra loro un’inimicizia: così si separarono, conservando però la medesima lingua e uguali costumi. Tupì, il più grande, rimase nella vasta regione del Matogrosso fino al litorale Atlantico; i Guaranì, invece, attraversando il rio Parapanema, proseguirono verso sud e ovest, disseminandosi nelle terre comprese tra l’attuale Brasile, Paraguay, Argentina e Uruguay.

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Origini e inizi delle riduzioni

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I primi gesuiti arrivano in Paraguay

Il 15 agosto del 1537 Juan de Salazar fonda la città di Asunción. Esattamen-te cinquant’anni dopo, nel 1587, arrivarono ad Asunción i primi gesuiti.

Già nel 1553 la Compagnia di Gesù aveva iniziato la sua opera missiona-ria in Brasile, mentre nel 1568 alcuni dei suoi membri si erano stabiliti a Lima, in Perù. Fu dal Brasile che, passando per Buenos Aires, in Argentina, nel mese di agosto del 1587 arrivarono ad Asunción i primi tre gesuiti: il pa-dre Juan Saloni, catalano; il padre Tomas Fields, irlandese e il padre Manuel de Ortega, portoghese. Erano stati con padre José Anchieta, grande evange-lizzatore del Brasile, e come lui erano conoscitori della lingua guaranì. Pa-dre Saloni si fermò ad Asunción, prendendosi cura soprattutto degli spa-gnoli, mentre Ortega e Fields percorsero l’immensa e apparentemente disa-bitata foresta del Paraguay, visitando man mano anche alcuni villaggi spa-gnoli, come Villaricca del Espiritu Santo e Ciudad Real.

Scrisse di loro padre Antonio Astrain: «Cercavano gli indios nella foresta, percorrendo per giorni interi terre abbandonate, affrontando orribili difficol-tà, fame e sete, nell’ardua impresa d’istruire i rozzi indigeni, scontrandosi con la resistenza dei peccatori più ostinati; sperimentarono tutte queste fatiche, insite nella vita apostolica e soprattutto in quei luoghi normalmente non molto frequentati dai sacerdoti. Una peste che si diffuse a quel tempo tra in-dios e spagnoli diede loro l’occasione di esercitare la carità, amministrando i sacramenti agli ammalati e sollevando i poveri appestati, per quanto possibi-le, dai lavori manuali. Incorsero più volte nel pericolo della morte riuscendo però a raccogliere un copioso raccolto di frutti spirituali. Gli spagnoli di Vil-larrica, edificati dallo zelo apostolico dei missionari, li obbligarono quasi a forza ad accettare di vivere in una modesta abitazione, che da quel momen-to fu considerata il centro della missione, sebbene i padri, che andavano con-tinuamente alla ricerca di indios da convertire alla fede e a cui amministrare il sacramento della confessione, vi si trattenessero molto poco tempo».

San Ignazio di Loyola, statua in legno

(S. Ignazio Guazù)

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La fondazione della provincia del Paraguay

I religiosi della Compagnia di Gesù vivevano riuniti in diverse case sotto la direzione di un superiore locale; l’insieme di queste case formavano una provincia. Ogni provincia era autonoma, ma tutte avevano un superiore provinciale, che rappresentava il superiore generale, che viveva a Roma e da lì dirigeva l’intera Compagnia.

Quando le notizie sullo sviluppo dell’opera evangelizzatrice in Paraguay giunsero a Lima, il padre provinciale inviò una lettera al padre generale dei gesuiti, nella quale descrivevano l’urgenza di nuove missioni, il lavoro pa-storale e la disponibilità degli indios a ricevere il Vangelo.

Padre Claudio Acquaviva, superiore generale dell’Ordine, nel 1604 pre-se la decisione di creare una nuova provincia del Paraguay che fosse autono-ma dalla provincia del Perù e di nominare padre Diego de Torres superiore provinciale della nuova realtà.

La provincia del Paraguay, chiamata Paracuaria, era vastissima, e rac-chiudeva allora territori che oggi sono parte dell’Argentina, del Paraguay, dell’Uruguay e delle province meridionali del Brasile, a quel tempo occupa-te dagli spagnoli.

Padre Diego Torres arrivò in Asunción nel 1609 e il governatore, Her-nando Arias de Saavedra, lo invitò a prendere su di sé la conversione degli indios che abitavano in piccoli accampamenti in differenti regioni del pae-se. Indicò a padre Diego tre punti dove si potevano iniziare le missioni del-la Compagnia: a nord-ovest di Asunción; nella regione del nord-est, chia-mata Guairà, e a sud, tra il rio Paraná e il rio Uruguay.

Padre Torres richiese e ottenne dal governatore che gli spagnoli non avessero contatti con gli indios, e che questi ultimi non fossero sottomessi all’encomienda. Questo era un sistema fiscale, basato sull’assegnazione di un gruppo di indios a un colono (detto “encommendero”), incaricato di pagare per loro i tributi dovuti al re. L’encommendero doveva dar loro

San Francesco Saverio, statua in legno

(S. Ignazio Guazù)

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un’istruzione e una formazione cristiana, ma questo molto spesso non av-veniva e l’encomienda si trasformava facilmente in schiavitù. Padre Torres scrisse anche una lettera al re spiegando le ragioni delle condizioni poste al governatore e chiedendo umilmente la protezione degli indios.

Il re riunì il Consiglio delle Indie, il massimo organo preposto al gover-no dei territori oltremare, e il 21 ottobre 1611 ordinò che fosse confermato quanto padre Torres aveva domandato.

Mentre si chiarivano queste questioni, padre Torres, nel novembre 1609, destinò tre gruppi di missionari a lavorare con gli indios.

Padre Vicente Griffith con padre Roque Gonzalez de Santa Cruz, anco-ra novizi, furono destinati nella regione abitata dagli indios Guaicurúes, al nord-ovest di Asunción.

Padre Marcial de Lorenzana, rettore del collegio di Asunción, fu desti-nato con padre Francisco de San Martìn alla missione meridionale, al sud di Asunción, oltre il fiume Tebicuary.

Infine, i padri italiani Giuseppe Cataldini e Simone Mazzetta, appena arrivati in Paraguay, furono destinati nel territorio a nord-est di Asunción denominato Guairà, tra gli indios Guaranì.

Di queste tre spedizioni, quella che poteva iniziare la sua missione era quella destinata agli indios Guaicurúes; ma i padri scoprirono ben presto che era impossibile continuare per l’ostilità degli indigeni, e così, dopo vari e inutili tentativi, furono costretti ad abbandonare la regione.

Mappa delle Missioni di p. Sanches Labrador,

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A sud di Asunción. Fondazione della prima riduzione: San Ignazio Guazù

Padre Lorenzana e padre San Martin si diressero per trenta leghe (circa 150 km) verso sud e, dopo aver attraversato fiumi e paludi, stabilirono la loro residenza oltre il fiume Tebicuray.

Percorsero tutti gli accampamenti vicini, evangelizzando gli abitanti, finché non incontrarono un luogo adatto per stabilirsi, dove edificarono una cappella di fango e paglia. Era il 29 dicembre 1609: la data di fondazio-ne della prima riduzione gesuitica in Paraguay, dedicata a san Ignazio.

Già nei primi due anni di permanenza in questo luogo, pur tra difficol-tà e contrasti, molti chiedevano il battesimo; però i padri battezzavano solo quelli che conoscevano il catechismo e vivevano una vita conforme a esso. Non accettavano mai di battezzare se non erano certi che gli indios fossero coscienti di quello che chiedevano. Anche due importanti cacicchi (capi tri-bù), Arapizandu e Aniagara, si fecero battezzare.

L’opera iniziata da padre Lorenzana fu continuata da padre Roque Gonzales, che terminò la costruzione della riduzione, dandole la forma definitiva.

San Ignazio sarà il modello di tutte le altre riduzioni dei gesuiti. In se-guito venne chiamata san Ignazio “Guazù” (maggiore), per distinguerla da un’altra riduzione, san Ignazio “Minì” (minore), fondata più tardi.

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A nord-est di Asunción: il Guairà

La regione del Guairà si trova nella parte del Paraguay al confine con il Bra-sile, a ovest del rio Paranà, confinando a sud con il rio Uruguay. L’attraver-sa il Tropico del Capricorno e ha un clima caldo e umido.

Ce ne dà un descrizione padre Nicolas del Techo, in una sua lettera: «Crescono alberi che distillano aromi e molta frutta. Tra i fiori si nota par-ticolarmente il Mburucuyà, che mostra tra i petali gli strumenti della pas-sione del Signore, e ha un frutto dolcissimo. Ugualmente delizioso è il Guembe: ha una forma oblunga e assomiglia molto alla melograna, per il sapore dei suoi grani. Ci sono datteri, anche se non così dolci come quelli africani: con questi si produce una specie di vino. Il cuore delle palme fa le veci del pane in caso di necessità. Ci sono molti uccelli e abbondano i ser-penti, tra i più velenosi che esistano. Alcuni serpenti vivono sospesi agli al-beri, altri sulla riva di pozze e lagune. Inoltre la selva è piena di tigri e scim-mie».

I padri Giuseppe Cataldini e Simone Mazzetta, entrambi italiani, furo-no inviati nella regione del Guairà: navigarono per il rio Parapanà fino al suo incontro con il rio Pirapò, e in quel punto fondarono, nel 1611, la pri-ma riduzione del Guairà. Padre Cataldini era nato a Fabriano, vicino al san-tuario di Loreto, e così intitolarono la riduzione a santa Maria di Loreto.

I primi abitanti di Loreto furono duecento indios; ben presto però mol-ti altri chiesero di unirsi a loro, al punto che la riduzione non poteva più contenerli.

Così fu deciso di fondare un’altra riduzione, a Itaberaca, dedicandola a san Ignazio.

In seguito vennero inviati nel Guairà padre Ruiz de Montoya e padre Martin Javier Urtasum, lontano parente di san Francesco Saverio.

Così padre Montoya racconta la vita dei primi missionari del Guairà: «Erano poverissimi, ma ricchi di allegria. I rammendi dei loro vestiti non

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permettevano di distinguere il materiale con cui erano intessuti. Avevano scarpe rammendate con pezzi di stoffa tagliati dai bordi delle loro vesti. La capanna, i gioielli e il loro sostentamento erano paragonabili a quelli degli anacoreti. Da molti anni non assaporavano né pane né vino, mangiavano la carne solo alcune volte, quando gliene portavano qualche pezzetto in ele-mosina. Il principale alimento erano patate, banane e radici di manioca. […] La necessità ci obbligò a seminare con le nostre mani il grano per le ostie, sei litri di vino li facevamo durare per ben due anni, prendendone solo lo stretto indispensabile per la consacrazione, e per non essere di peso agli indios avevamo nel nostro orticello le radici comuni e i legumi coi qua-li nutrirci».

Alle difficoltà della vita quotidiana, si aggiunse una grave carestia, che nel 1614 ridusse alla fame tutti gli abitanti. Padre Cataldini, rendendosi conto della gravità della situazione, partì verso la città di Santa Fe in cerca di aiuto. Quando ritornò con i soccorsi, però, padre Martin Javier era mor-to di fame. Racconta padre Montoya: «A mezzanotte consegnò la sua ani-ma al Signore, con tanta pace e tranquillità che pareva dormisse un sonno soave, mostrando nella bellezza e serenità del suo volto la bellezza della sua anima benedetta». Aveva solo ventisei anni.

In una lettera inviata qualche tempo prima a padre Torres, padre Mar-tin Javier Urtasum aveva scritto: «Non mi resta altro da desiderare, né at-tualmente desidero altro, se non il dare questa vita, e le altre mille che vor-rei avere, per Colui che diede la sua per me. Ho grandi speranze che il Si-gnore esaudisca i miei desideri, essendo ormai tanti anni che me li ha posti nel cuore – già prima di entrare nella Compagnia desideravo venire a vive-re con gli indios. Sia fatta in tutto la volontà di Nostro Signore e quello che può servire per la Sua maggior Gloria».

La traslazione della s. casa di Loreto, affesco (Santa

Rosa, Cappella di Loreto)

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La diffusione delle riduzioni nel Guairà e nel Itatìn

Nel 1620 padre Ruiz de Montoya fu nominato superiore del Guairà: inca-rico che occuperà fino al 1630. Questi dieci anni furono gli anni di maggior sviluppo delle riduzioni in questa regione: grazie all’intenso lavoro di padre Montoya e dei suoi confratelli ebbero origine le riduzioni di San Javier, di Nuestra Señora de la Encarnacion, di San Josè e quella di San Miguel, che arrivò a essere la principale riduzione della regione, con più di settemila abi-tanti.

A queste si aggiunsero altre più distanti: San Antonio, Concepción e San Pedro, nei territorio dei Gualachi; Los Siete Arcangeles nella terra dei Tayoba; Santo Tomas e la riduzione di Jesùs y Maria.

Nell’anno 1631 gli indios Itatines, che vivevano sulle rive del rio Para-guay, alla stessa latitudine del Guairà, non lontano da una piccola città spa-gnola chiamata Jerez, chiesero di incontrare i padri della Compagnia.

Padre Montoya incaricò di questo i padri Ferrer e Mansilla, entrambi belgi. I due missionari incontrarono molta disponibilità negli indios Itati-ni, tanto che, in seguito, vennero raggiunti da altri missionari, e tra il 1631 e il 1632 sorsero in quella regione quattro riduzioni: la prima fu San José, in seguito quella de Los Siete Arcangeles, quella di Nuestra Señora de la En-carnacion e quella dedicata a San Pedro e Pablo.

La madonna di Loreto, statua in legno (Santa

Rosa, Cappella di Loreto)

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Le missioni di Tapé

Anche i missionari inviati a evangelizzare le regioni meridionali delle rive del Paranà incontrarono molte difficoltà. In particolare si scontrarono con l’osti-lità dei conquistatori spagnoli a causa del loro rifiuto dell’encomienda.

Nel 1612 padre Diego de Boroa fu inviato nella riduzione di San Ignazio Guazú en compagnia di padre Salas.

Nel 1615, il 25 marzo, fondarono, a sud del rio Paranà una riduzione che chiamarono Encarnacion. Sei anni dopo questa riduzione fu trasferita a nord del rio Paranà, dove oggi si trova la città di Encarnación.

Scrive padre Boroa: «siamo passati da questo lato del Paranà cercando un posto per la riduzione e nostro Signore ci regalò un luogo bellissimo, cir-condato da molte montagne: è un eccellente luogo di pesca e più salubre di quello dell’altro lato del fiume».

In questa riduzione, fecero la loro professione solenne, nell’ottobre del 1619, i padri Roque González, Pedro Romero e lo stesso Diego de Boroa.

Nel 1620 padre Roque González iniziò la riduzione di Concepción, mentre già aveva iniziato quelle di San Nicolás, di San Javier e Yapeyu de Los Reyes. Fece anche una esplorazione verso est, cercando e segnalando luoghi dove avrebbero potuto sorgere nuove riduzioni.

Ritornato verso il rio Uruguay, fondò la riduzione di Candelaria e quel-la di Asunción del Ijui. Verso la fine dell’anno 1628, mentre stava sorgendo la riduzione di Todos los Santos del Caaró, venne ucciso dagli indios insie-me a padre Juan de Castillo.

Nel 1638 padre Romero fondò la riduzione di Santa Teresa e di San Mi-guel, mentre i padri Benavides e Berthold fondarono un’altra riduzione con il nome di Santo Tomas.

In questo modo, nello spazio di cinque anni, sorsero le riduzioni del Tapé, tutte situate a est del rio Uruguay. Vergine addolorata,

statua in legno (Santiago)

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Il grande esodo e la battaglia di Mbororè

Attorno al 1630, una ventina d’anni dopo la fondazione di san Ignazio Guazù, erano sorte quattordici riduzioni, sparse in quattro regioni di un territorio vastissimo: il Guairà, l’Itatin, il Tapè e una zona a sud di Asunción tra il rio Paraná e il rio Uruguay.

Erano state costruite il più lontano possibile dagli insediamenti spagno-li, per evitare problemi con i coloni. Proprio per questo, ognuna di esse era capace di vivere autonomamente, e tutte erano protette da ordinanze mol-to precise del governo spagnolo, che vietavano assolutamente l’accesso a esse di spagnoli, meticci e negri e ribadivano l’esenzione degli indios dall’en-comienda.

Ma il problema più grande sorse quando incominciarono gli attacchi e le razzie dei “paulisti”, cacciatori di schiavi, così chiamati perché provenien-ti da San Paolo. Erano detti anche “bandeirantes”, per queste loro scorrerie (“bandeiras”) o “mamelucos”, dal nome del loro abbigliamento.

Le riduzioni più colpite furono quelle del Guairà, le prime che essi in-contravano sul loro cammino venendo da San Paolo, dalle quali vennero ra-piti migliaia di Guaranì. In breve tempo la situazione divenne insostenibi-le: delle dieci riduzioni del Guairà, otto furono distrutte dai mamelucos. Solo due, san Ignazio e Loreto, riuscirono a salvarsi grazie alla loro ubica-zione, ma era necessario abbandonarle. Così, nel 1631, fu deciso di emigra-re verso sud cercando una zona più sicura.

Quello che fu definito “il grande esodo” fu un viaggio epico e terribile. Guidati da padre Montoya, percorsero più di 900 km, per fiume e per ter-ra, attraversando foreste e paludi e superando le pericolosissime cascate del salto del Guairà.

Dopo trenta giorni arrivarono infine sulla riva sinistra del rio Paranà, dove poterono fondare due riduzioni, con lo stesso nome di quelle abban-donate. Erano partiti in 12.000 e arrivarono a destinazione solo in 4.000.

San Michele Arcangelo, statua in legno (Santa

Rosa, Cappella di Loreto)

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Anche le riduzioni di Itatin nel 1638 furono costrette a trasferirsi. Dopo molte peripezie si fermarono a sud del rio Tebicuary, nel territorio dove oggi restano le rovine delle riduzioni di Santiago e santa Maria.

Un terzo nucleo di riduzioni obbligato a trasferirsi fu quello del Tapè. Delle quattordici riduzioni che esistevano in questo territorio, nel 1638 ne rimanevano solo sei, perché le altre erano state distrutte dai paulisti. Anche queste sei furono costrette a spostarsi verso il sud percorrendo 800 km.

Nonostante l’esodo di massa, la situazione non era affatto sicura: i gesu-iti decisero allora di chiedere al re di sospendere il divieto che la legislazio-ne coloniale faceva agli indios di possedere armi da fuoco. Padre Montoya si recò a Madrid nel 1638 e riuscì a convincere la corte di Spagna a sospen-dere questo divieto: la proibizione venne sospesa, fu permesso di dotare le riduzioni di armi da fuoco e i Guaranì vennero addestrati a usarle.

Tre anni dopo, nel marzo del 1641, si verificò l’evento decisivo. Alla con-fluenza fra il rio Uruguay e il rio Mbororé, una spedizione paulista di tre-mila uomini fu annientata da un esercito di circa quattromila Guaranì, ad-destrati a usare fucili e anche rudimentali cannoni. Dopo la battaglia di Mbororè le incursioni pauliste diminuirono, anche perché le riduzioni con-tinuarono a tenere una forza armata.

Dopo questa battaglia, considerato da alcuni storici «l’episodio militar-mente più rilevante della storia dell’America coloniale», la vita e lo svilup-po delle riduzioni continuò con maggior sicurezza, tanto che si arrivò a co-stituire trenta riduzioni, che occupavano un’area di centomila chilometri quadrati, più o meno le dimensioni dell’Italia settentrionale.

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L’organizzazione delle riduzioni

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Cosa furono le riduzioni?

La definizione più semplice di “riduzione” è quella fornita dal Dizionario della Lingua della Real Academia Española: «Popolo di indios convertiti al cristianesimo». Tuttavia essa appare alquanto limitata poiché, se lo scopo delle riduzioni era indubbiamente religioso, esso però non fu né primario né unico. Non tutti gli indigeni, infatti, rinunciarono alle loro antiche cre-denze anche se molti si convertirono o furono in procinto di farlo. Inoltre questo termine non viene usato in riferimento a tutte le missioni, come per esempio quelle africane, ma indica solo quelle del Paraguay, a dimostrazio-ne che lo scopo delle riduzioni non era fare proselitismo, ma iniziare gli in-digeni guaranì a una vita cristiana, libera da ogni tipo di schiavitù spiritua-le e temporale. Solo in questa prospettiva è possibile comprendere il signi-ficato della parola riduzione, che uno dei più importanti tra i fondatori del-le riduzioni, padre Antonio Ruiz de Montoya, spiega così:

«Chiamiamo riduzioni i popoli indios che vivevano, secondo una loro antica usanza, sui monti, in piccoli gruppi, molto distanti tra loro, e che l’opera dei padri riunì, invece, a formare villaggi, in cui poter iniziare le pri-me forme di vita associata anche dal punto di vista politico. riduzione pro-viene dal verbo spagnolo “reducir”, usato nel senso di “convincere”: gli in-dios infatti furono convinti a lasciare una condizione di vita solitaria e no-made per un tipo di vita stanziale e comunitaria, ma pur sempre libera».

Gli indios non furono “ridotti” in nessuno dei sensi che attualmente si attribuisce a questa parola, ma al contrario incontrarono e furono essi stes-si protagonisti di una esperienza di libertà corrispondente al loro cuore.

Per questo, perché sia a noi oggi comprensibile, potremmo tradurre e interpretare la parola “riduzione” con la parola “comunità”.

Fin dagli inizi di questa esperienza, padre Diego Torres diede istruzioni ben precise riguardo alla scelta del luogo e delle caratteristiche delle riduzio-ni: «Il villaggio va tracciato secondo le modalità di quelli del Perù, o come

San Paolo, statua in legno (S. Ignazio Guazù)

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più piacciono agli indios, con strade e cuadras (una sorta di isolati), dando a ciascuno un terreno edificabile, così che ognuno abbia la sua casa e ogni casa abbia il suo orticello. La casa di Vostra Reverenza e la chiesa siano nel-la piazza, e si abbia cura di lasciare alla chiesa lo spazio necessario per il ci-mitero e di fare in modo che la casa sia attaccata alla chiesa, così che si pos-sa passare direttamente dalla casa dei padri alla chiesa. Tutto questo sia fat-to poco per volta, nel rispetto dei gusti degli indios, essendo stati loro i pri-mi a costruirsi delle case, a farne una piccola per voi e ad adibire un pergo-lato alla celebrazione della Messa. […] Prima di fondare una riduzione, si valuti bene il luogo, perché dovrà essere capiente per molti indios, con un buon terreno, della buona acqua, adatto per creare fattorie, per pescare e cacciare; e di questo dovrete informarvi molto lentamente presso gli indios stessi, principalmente presso i cacicchi. Il villaggio abbia strade ordinate e ben tracciate, e sia lasciato ad ogni indio abbastanza spazio per il suo orti-cello. […] Ponete la vostra casa e la chiesa nel mezzo, e vicino a voi fate in modo che ci sia la casa dei cacicchi. La chiesa sia capiente, con buone fon-damenta e attaccata alla vostra casa, la quale dovrà essere cintata il più pre-sto possibile e alla quale dovrete fare una porta col campanello, come anche alla chiesa, in modo da garantire la guardia e la decenza di questo luogo nel quale è custodito il Santissimo Sacramento».

Riduzione di Jesus, porta laterale della chiesa

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La chiesa

Il centro di tutto era la chiesa: grazie alla sua chiesa, ogni riduzione aveva un’anima, una vita propria e originale. Tutte le chiese delle riduzioni, fosse-ro in pietra, legno o mattoni, potevano contenere molte persone e avevano molti ornamenti, statue e dipinti. Spiega padre Josè Cardiel: «queste chie-se, in quanto casa di Dio, sono gli edifici principali di ogni riduzione e, come le cattedrali europee, sono tutte molto capienti, anche perché, essen-docene solo una in ogni villaggio, è necessario che sia in grado di ospitare le migliaia di persone che nei giorni di festa vi si riuniscono per la messa. Generalmente sono di tre navate, ma ce n’è anche di cinque. Per evitare che i temporali non le danneggino, sono difese ovunque da grande corridoi. Ogni chiesa ha cinque grandi portali, alcune perfino sette». Avevano molte finestre, per far entrare la luce e per la ventilazione nella stagione calda.

Padre Guillermo Furlong acutamente osserva: «pare che coloro che non conoscevano da vicino le riduzioni siano stati sorpresi dalla grandezza e dal lusso delle chiese missionarie, senza vedere, in primo luogo, che quella gran-dezza era necessaria per contenere nei giorni di festa quattro, cinque o seimi-la indigeni, e senza apprezzare, in secondo luogo, l’effetto psicologico ed educativo che la magnificenza e la bellezza delle decorazioni e degli altri ele-menti artistici avevano negli indios, abituati alla foresta». Già nel 1618 le ri-duzioni allora esistenti avevano «delle chiese ammirabili e capacissime, es-sendoci tra i padri gesuiti eccellenti falegnami, muratori e architetti», anche se solo nell’ultimo periodo dell’esperienza gesuitica giunsero architetti pro-fessionisti, come i padri Giuseppe Brassanelli, Giovanni Battista Primoli e Josè Grimau. Per i Guaranì l’amore alla loro chiesa era legato alla loro perso-nalità cristiana: per questo, quelli che vivevano nelle riduzioni del nord-est non accettarono mai di consegnare questi luoghi sacri, espressione della loro identità, ai loro nemici, portoghesi o bandeirantes. A San Miguel gli indios decisero di dar fuoco alla chiesa piuttosto che vederla profanata dal nemico.

Riduzione di Jesus, interno della chiesa

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Le case degli indiani

È stata una lenta e paziente educazione che ha aiutato i Guaranì, abituati a vivere tutti insieme in capanne comuni nella foresta, a capire che la casa non era una cosa di poca importanza, ma il segno dell’inizio della civiltà portata da Cristo. Così padre Roque González scrive al padre provinciale Diego de Torres: «nel passato anno 1612, dovendo creare delle riduzioni tra questi indios (di San Ignazio Guazú), ci parve necessario doverli educare all’ordine, alla pulizia, all’igiene, per liberarli dai molti inconvenienti e dal-le sventure che esistevano nelle grandi case in cui normalmente vivono. E sebbene pensassimo che non lo avrebbero gradito, perché significava to-glierli da un modo di convivere caratteristico dei loro antenati, non è stato così: fin dall’inizio sono stati molto felici nelle loro nuove case, nelle quali si trasferirono anche prima del loro completamento, per essere liberi e co-modi. Come si dice: “Ogni gallo nel suo pollaio”».

Padre Francois-Xavier Charlevoix, riferendosi ai primi tempi, ha scritto nel 1752: «le case degli indiani per molti anni erano molto semplici e pove-re, fatte di canne ricoperte di argilla. Non avevano finestre, né camini, né sedie, né letti; tutti dormivano in amache, che di giorno scomparivano alla vista. Il fuoco veniva acceso in mezzo alla stanza, e la luce e il fumo non ave-vano altra via di uscita se non la porta. Si sedevano sul pavimento, e non c’erano mobili. Oggi sono confortevoli e pulite come quelle degli spagnoli del villaggio, si è cominciato a costruirle in pietra e coprirle con tegole». Scrive il padre Cardiel negli stessi anni: «Le case sono tutte di pietra grezza, con pietre lavorate e squadrate, i porticati e gli archi della stessa pietra e la-vorazione. Essendo questa una pietra morbida e facile da lavorare, sopra ogni porta ci sono pietre con decorazioni floreali».

In generale misuravano 5 x 5,70 metri e lo spessore delle pareti non era inferiore a 80 cm. Ancora oggi queste case si possono vedere visitando le ro-vine di San Ignazio Guazú, Santa Rosa, Santa Maria de Fe e Trinidad.

Riduzione di Trinidad, fregi della chiesa

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Il tracciato urbano: scuole, laboratori, coty guazù

La zona in cui era ubicata la chiesa aveva due grandi cortili. Nel primo, che era il più piccolo, c’erano le stanze occupate dai padri, le aule di scuola per i bambini, la sala delle armi e la dispensa.

Il secondo cortile, più grande, era occupato da officine e laboratori, dove gli indios apprendevano ed esercitavano ogni tipo di professione: erano fab-bri, falegnami, scultori, tessitori, doratori, argentieri, pittori, costruttori di organi, di campane e di ogni genere di oggetti di bronzo. In questo secon-do cortile, a volte, c’erano il mattatoio e la macelleria. Di fronte alla chiesa c’era la piazza principale, e su di un lato di essa si trovava la scuola per le bambine, in cui si insegnavano attività tipicamente femminili, come cucire e ricamare.

Dietro la chiesa c’era un grande orto, in cui veniva coltivato, dalle aran-ce alle verdure importate dall’Europa, dai fiori locali a quelli del vecchio mondo. In questo orto i padri avevano sviluppato un sistema di irrigazione artificiale. Sempre dietro la chiesa c’era il cimitero. La creazione dei cimite-ri fu una novità singolare, un secolo e mezzo prima che nelle città spagnole del rio de la Plata. Il cimitero era molto capace e molto bello. Ogni tomba aveva una croce ed esisteva anche una cappella. C’era un cimitero con luo-ghi distinti per i bambini e egli adulti; i padri gesuiti, invece, venivano se-polti sotto il pavimento della chiesa.

Nelle vicinanze della chiesa e del cimitero, separato da una strada, c’era quello che in guaranì si chiamava “Coty guazú” (letteralmente: “rifugio grande”). Era una sorta di casa di accoglienza, formato da un ampio cortile circondato da alloggi. Padre Cardiel spiega: «entrano in questa casa tutte le vedove con cattiva fama, ma anche quelle di buona reputazione, sempre che lo desiderino, e sono molte. Vi abitano anche quelle donne il cui marito è momentaneamente assente, o perché è fuggito, o perché è in viaggio».

La riduzione di Trinidad

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La riduzione di Trinidad

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L’organizzazione interna

L’organizzazione delle riduzioni aveva tre punti di riferimento: i padri, il Cabildo e i cacicchi.

I padri erano l’autorità principale: tutto si riferiva a loro.Di solito c’erano solo due sacerdoti in ogni riduzione. Uno era il padre

parroco o Paì Tuyá (padre anziano): era lui che aveva la responsabilità della pianificazione economica, della costruzione e dell’amministrazione. Colla-borava con lui un padre “dottrinero” o Paì Mini (padre minore): era il re-sponsabile per la parte spirituale, della catechesi, della cura per i malati e dei servizi religiosi.

C’erano anche due o più fratelli religiosi, in proporzione al numero de-gli abitanti.

La vita dei padri era accompagnata da un’intensa vita di preghiera quo-tidiana e di formazione personale. La loro casa era di stretta clausura.

I padri si alzavano alle quattro in estate e alle cinque in inverno. Mezz’ora dopo aveva inizio la preghiera della mattina e immediatamente dopo la san-ta messa.

Dalle sei fino alle dodici, percorrevano il villaggio, visitando i malati e i moribondi, prestavano attenzione a eventuali processi e giudizi, assistevano alle deliberazioni del cabildo, incontravano i cacicchi, visitavano le officine e i laboratori. Di solito uno di loro rimaneva nella chiesa per assistere chi ne aveva bisogno.

Ogni giorno veniva insegnato il catechismo ai bambini, due volte alla settimana per adulti e tre volte agli anziani. La preghiera della mattina, per il bene delle missioni, e l’insegnamento del catechismo erano considerati i due assi portante delle riduzioni.

In ogni villaggio inoltre vi era un libro chiamato “Ordini”, che riporta-va tutto il necessario per una buona amministrazione della riduzione e che

San Stanislao Kostka, statua in legno

(S. Ignazio Guazù)

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i padri leggevano ad alta voce a tutti gli indios almeno per mezz’ora ogni settimana.

Il Cabildo era la massima autorità civile delle riduzioni, una sorta di “consiglio comunale”, che affiancava e aiutava i padri.

Era guidato da un governatore (detto in Guaranì “Paroquaitara”, “colui che dispone cosa si deve fare”) che veniva nominato dal governatore della provincia, su proposta dei padri gesuiti.

Del Cabildo facevano parte diverse persone, con incarichi giudiziari, economici e di segreteria: un tenente governatore, due alcaldi, quattro as-sessori, uno o due ufficiali giudiziari, un maggiordomo e un segretario.

Gli alcaldi, che i Guaranì chiamavano “Ibirayacu”, “il primo tra quelli che portano il bastone di comando”, avevano il compito di curare il buon costume, punire i pigri e i vagabondi, vigilare che ognuno facesse il proprio dovere.

Gli assessori erano incaricati di vigilare sull’igiene e la pulizia, pubblica e privata, oltre che sulla frequenza dei bambini a scuola e a catechismo. Il maggiordomo era l’economo responsabile dei beni della comunità. Tutti questi incarichi erano ufficialmente riconosciuti dalla autorità regale.

Due altre cariche importanti erano il portiere (detto “Coriapiraraqua-ra”, “colui che difende la porta”) e il sacrestano (“Tupà-Orerequa”, “colui che custodisce la casa di Dio”).

I membri del cabildo venivano scelti tra l’aristocrazia degli indios, e que-sta era costituito dai cacicchi e le loro famiglie. I cacicchi, dopo i padri e il Cabildo, erano la figura di maggior importanza nella organizzazione delle riduzioni. I gesuiti dimostrarono una grande saggezza nel loro modo di re-lazionarsi con i Guaranì, tenendo in grande rispetto loro la struttura socio-politica, pur rimodellandola secondo le nuove esigenze. Nell’organizzazio-ne, come in altri aspetti della vita quotidiana, la realtà delle riduzioni è sta-to il proseguimento e la maturazione di ciò che già esisteva nelle diverse tri-bù indigene.

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La giustizia

Nelle riduzioni esisteva un sistema giudiziario e una organizzazione di po-lizia, con un compito essenzialmente preventivo. Ogni riduzione era suddi-visa in quartieri, di ognuno dei quali era responsabile un cacicco; sopra di loro c’erano un sovrintendente e un alcalde. Tutte queste persone erano re-sponsabili del buon andamento della vita sociale nella riduzione, e incarica-te di informare quotidianamente il padre parroco di quello che accadeva nel loro settore. Il padre parroco, poi, si incontrava settimanalmente con tutti i responsabili per verificare gli eventi della settimana, i bisogni e i problemi che si creavano anche nei dintorni. Durante la notte c’erano delle sentinel-le, che vigilavano e accudivano gli eventuali malati. Loro compito era anche quello di impedire disturbi e disordini di ogni genere.

La responsabilità di giudicare i crimini commessi e applicare le pene era del governatore del Cabildo e degli alcaldi, sotto la supervisione e la guida dei padri. La presenza dei padri era una garanzia che la giustizia fosse am-ministrata con verità ed equità.

Il padre Bernardo Nusdorffer scrive: «in nessun modo si può dare in mano o lasciare in totale libertà i governatori e i membri del Cabildo nell’in-dagare sui delitti, specialmente se sono gravi e intricati. Tanto meno si può lasciare nelle loro mani l’accusato, che verrebbe costretto con la tortura a confessare la verità. Dovrà essere il sacerdote stesso a fare le dovute indagi-ni, e dopo essere giunto alla verità, dovrà scrivere al padre superiore dei mis-sionari, perché questi, con i suoi consiglieri, decida il da farsi».

Scrive il padre provinciale Mastrilli Duran nel 1627: «i parroci cerchino di non essere troppo rigorosi nei castighi ordinari, in modo da potersi gua-dagnare il nome di padri amorosi. In nessuna riduzione si imponga una pena senza l’esplicito ordine del padre provinciale, e nel caso che un simile ordine venga dato, non sia eseguito a nome dei padri, ma a nome del co-mandante e dei sindaci, così che i padri non si trovino mai nelle condizio-

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ni di dover castigare dei colpevoli con le loro mani». Le correzione e il ca-stigo dovevano servire a riabilitare la persona perché imparasse a vivere in modo più umano: per questo tra le punizioni non esisteva la pena di mor-te, forse per la prima volta nella storia della convivenza umana. Di solito i delitti erano puniti con la fustigazione, che avveniva in piazza e alla presen-za di uno dei padri, per impedire che il governatore o gli alcaldi eccedesse-ro nell’esercizio del loro compito.

Gesù Bambino “Alcalde”, legno (S. Ignazio Guazù)

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La medicina e l’igiene

I Guaranì soffrivano di pochissime malattie. Ma l’arrivo degli spagnoli aprì la porta a molte di esse, in particolare a una: la peste.

Questa malattia decimava rapidamente le popolazioni indigene e anche le riduzioni si trovarono ad affrontare questa terribile realtà senza una ave-re sufficiente preparazione e adeguate misure di difesa.

In modo particolare negli anni 1641-1643, la peste colpì fortemente le ri-duzioni e i padri, vedendo la necessità di personale destinato alla cura dei malati, iniziarono a progettare le prime scuole per infermieri. Ciò che san Camillo ha fatto in Italia, i gesuiti lo hanno fatto nelle riduzioni. Si sono improvvisati medici, infermieri e guaritori. Come scrisse padre Diego Tor-res, «quando scoppiò l’epidemia, in poco tempo morirono moltissimi in-dios. L’unica consolazione erano i padri, che si prodigavano come servitori, medici e infermieri».

Nelle riduzioni fino alla fine del 1600 non c’era alcun medico, nel senso stretto della parola. Solo agli inizi del 1700 si cominciarono a creare e orga-nizzare in modo sistematico le prime scuole per infermieri. In queste scuo-le tutto l’insegnamento era orientato a guardare l’unità e l’unicità del pa-ziente, a preoccuparsi di tutte le sue esigenze: era impensabile una divisio-ne tra salute fisica e spirituale. Nel tempo furono create tre regioni sanita-rie, con un responsabile, solitamente un fratello gesuita. In ogni riduzione esistevano poi un responsabile medico e una squadra di infermieri.

Gli infermi venivano assistiti nella loro casa. Per questo due cose erano considerate fondamentali: che i familiari degli infermi si prendessero cura di loro e che il medico e gli infermieri garantissero una terapia necessaria. In questo modo il paziente non veniva privato dell’attenzione necessaria e allo stesso tempo gli veniva garantita una adeguata assistenza professionale.

Solo in caso di peste o di malattie contagiose venivano costruiti dei sana-tori. Gli infermieri si intendevano di medicina e conoscevano molte erbe cu-

La Trinità, statua in legno (Santiago)

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rative; erano chiamati curuzuyá, per il fatto che portavano sempre con loro una croce. Il curuzuyà aveva il compito di visitare i malati nelle loro case e informarsi se c’erano nuovi malati; doveva diagnosticare la malattia e sugge-rire la medicina adatta. Se c’era un malato grave il suo primo dovere era quello di avvisare i padri, perché gli venissero amministrati i sacramenti.

Anche l’igiene fu una delle preoccupazioni fondamentali nella vita delle riduzioni. Già il piano urbanistico delle prime riduzioni prevedeva una rete fognaria. I servizi igienici erano pubblici e situati alle due estremità di ogni quartiere, da un lato per gli uomini e dall’altro per le donne.

Per permettere l’uso dell’acqua, necessaria per garantire l’igiene, venne-ro costruite non solo cisterne, ma fonti e anche laghi artificiali.

A Santa Maria de Fe ancora oggi si può vedere la famosa Ycuá Santa Ma-ria in cui le donne ancora lavano i vestiti e prendono l’acqua per uso dome-stico.

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Il sistema economico

I Guaranì vivevano della caccia, della pesca e di ciò che la natura offriva. Non si preoccupavano del domani: il loro problema principale era soddisfa-re l’istinto del momento; erano governati dai loro capricci, uno dei quali era effettuare acquisti o baratti attratti dall’aspetto delle cose e non dal loro va-lore intrinseco e reale. Nel commercio erano sistematicamente perdenti, non essendo in grado di difendere i loro interessi che neanche conoscevano. Per questo era necessario che i padri li affiancassero e controllassero.

L’esempio più chiaro della necessità di questo accompagnamento è mo-strato da ciò che avvenne dopo l’espulsione dei gesuiti: il governatore Buca-relli volle dare piena libertà di commercio agli indios delle riduzioni, ma dovette subito ritornare sui suoi passi, perché gli spagnoli approfittavano dei Guaranì, spogliandoli perfino delle loro terre in cambio di cose di poco conto.

Sviluppare una economia in queste circostanze fu realmente difficile per i gesuiti. Specialmente all’inizio dovettero affrontare ogni genere di proble-mi, causati dalla mentalità indigena. Accadde, per esempio, che i padri die-dero a un gruppo di indios un sacco di grano da seminare, e questi, una vol-ta arrivati al campo, si sedettero, mangiarono i semi e buttarono via quello che restava. Ritornati, dissero che avevano fatto quanto era stato detto loro. Solo al tempo del raccolto, i padri si resero conto dell’inganno vedendo solo erbacce e piante infestanti.

La prima vittoria dei gesuiti è stata quella di fare comprendere agli in-dios la necessità del lavoro, cosa che appresero non senza difficoltà; la se-conda quella di farli lavorare, cosa ugualmente non facile.

Nelle riduzioni esistevano tre forme di proprietà della terra. La prima era detta “Ava’mbae”: la proprietà dell’indio. Era la forma di proprietà del-la famiglia. A ogni coppia, al momento del matrimonio, veniva assegnato un appezzamento di terra da coltivare, che non poteva essere venduto o ce-

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duto. Quello che produceva questa terra serviva al sostentamento della fa-miglia.

Esisteva poi il “Tupa’mbae”, la proprietà di Dio. In questi campi tutti la-voravano a turno, e i prodotti ricavati servivano per i mantenere il Coty Guazu e per le necessità religiose (costruzione di templi, la liturgia, ecc.).

Infine c’era il “Tava’mbae”, la proprietà del popolo. Erano le fattorie, la cui produzione serviva per pagare i tributi al re e per aiutare le riduzioni più povere.

Il sistema economico delle riduzioni era al servizio delle riduzioni stes-se. Dovendo sostenere ogni giorno migliaia di persone (le riduzioni arriva-rono ad avere complessivamente più di 100.000 abitanti), l’alimentazione era un problema non facile da risolvere. Ciò che ha garantito la vita delle ri-duzioni, più che l’agricoltura, furono le vaquerias, cioè le grandi estensioni di terra sfruttate per l’allevamento.

I gesuiti, fin dall’inizio, diedero una grande importanza all’allevamento. Già padre Mascetta e padre Cataldini, nel Guairà, svilupparono l’alleva-mento di bestiame, preoccupandosi anche che la macellazione fosse esegui-ta in modo ordinato. Quando nel 1631, a causa delle invasioni pauliste, si dovettero abbandonare le terre del Guairà, rimasero in quella regione 30.000 mucche.

Con il tempo, svilupparono grandi vaquerias, tra le quali spiccano la Vaqueria del Mar e la Vaqueria de los Pinares. Ogni riduzione contribuì alla creazione di queste vaquerias, donando ciascuna un certo numero di mucche: La Cruz, per esempio, ne offrì 30.000, Santo Tomé 10.000; Ya-peyú 4.000, San Francisco Borja 15.000. Ogni vaqueria consisteva di una quindicina di estancias o accampamenti. Ogni estancia era composta da casette, orti, boschi, vivevano alcune famiglie, una delle quali era quella del fattore, responsabile dell’estancia. Ogni estancia possedeva cinque, dieci o più mandrie.

Mappa della Provincia di Paraquaria, 1732

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L’agricoltura

Le riduzioni svilupparono il complesso agricolo più avanzato dell’America del Sud: la raccolta del mais, dell’orzo, del grano e del riso vi si alternavano anche quattro volte all’anno. Veniva coltivato cotone di tre varietà differen-ti, e la produzione raggiunse una media annua di ventiduemila chili per ogni riduzione; nel 1695, la sola riduzione di Santa Rosa produsse duecen-tocinquanta quintali di zucchero bianco. Molti di questi prodotti venivano venduti in tutto il sud America e con il ricavato delle vendite venivano pa-gate le tasse reali. L’eccedente veniva investito in strumenti o utilizzato per le necessità delle riduzioni. Il vino era esportato a Buenos Aires e in tutta la zona del rio de la Plata, e il tabacco locale, oltre a essere anch’esso esporta-to in quantità, godeva di stima pari a quello dell’Avana.

È molto interessante la storia legata alla coltivazione e alla diffusione dell’erba mate.

Una delle carte annuali del 1637-1639 riferisce che gli indios «sono tal-mente amanti del bere, che voler togliere loro questo vizio sarebbe come vo-ler sgozzare un toro con le unghie». Scrive padre Josè Cardiel nel 1639: «Sono già due anni che i gesuiti lavorano disperatamente e ancora non han-no visto nessun miglioramento nei costumi degli indios, ai quali non vo-gliono entrare in testa i consigli dei padri. […] È necessario dissimulare i princìpi che si vogliono comunicar loro, essere indulgenti con le loro sbor-nie, e non molestarli né insistere troppo perché abbandonino i loro strego-ni. Se si fa questo, si arrabbiano e si ritraggono, o addirittura tornano alla loro vita passata e alle loro terre. È importante convincerli con cose palpa-bili, senza severità, così che si liberino dalle loro illusioni poco per volta. Passata la sbronza, li si pone davanti alla bruttezza del loro vizio e alle con-seguenze che esso ha nella loro vita. Non si dice loro che lo lascino del tut-to, ma che, come gli spagnoli, bevano ogni giorno non più di un bicchiere. In questo modo, quando avranno progredito nel loro amore al Padre e nel-

Albero nei pressi di Trinidad

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la loro affezione alle cose di Dio, li si potrà riprendere in modo da togliere loro questo e tutti gli altri vizi. Se non si hanno riguardi in questo, si perde-rà tutto. Bisogna avere molta pazienza e raccomandarli a Dio. La medicina va applicata in modo ragionevole e al tempo giusto, quando può dare gio-vamento; altrimenti, anche se è molto buona, si trasforma in veleno».

I padri iniziarono con l’allontanare dal vizio del bere i bambini, portan-doli in un ambiente di moralità, lavoro, rispetto e sobrietà. Ma ben presto si resero conto che questo non era sufficiente: era necessario offrire una be-vanda alternativa. Fu allora che pensarono per la prima volta alla possibili-tà di usare l’erba mate, con la quale si produce una bevanda che i primi ge-suiti avevano guardato con sospetto. Così questa erba divenne nel giro di pochi anni una benedizione. La sua diffusione e coltivazione fu anche una prova di pazienza e di perseveranza. Scrive ancora padre Cardiel: «i padri si applicarono per creare nei loro villaggi delle piantagioni di mate, come fos-sero degli orti. Costò loro molto lavoro, perché i semi che portavano – un seme era della misura di un grano di pepe, con dentro dei granelli e circon-dato da caucciù, inizialmente non attecchivano. Finalmente, dopo molti tentativi, si trovò che quei granelli, se puliti dal caucciù, germogliavano. Fu così che provarono a trapiantare delle piante tenere dal semenzaio ben con-cimato in un altro punto, e dopo averlo lasciato lì fino a quando era diven-tato duro, lo trasportarono nella piantagione. Dopo due o tre anni di cure e di innaffiamenti, attecchirono e crebbero bene, e dopo otto, dieci anni fu possibile raccogliere l’erba». In breve tempo l’erba mate fu coltivata non più solo per l’uso che se ne faceva all’interno delle riduzioni, ma anche per es-sere venduta. Divenne la più cospicua fonte di reddito, al punto che, un se-colo dopo la cacciata dei gesuiti, dalle zone delle riduzioni se ne esportava-no ancora cinque milioni di chili all’anno.

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La vita quotidiana nelle riduzioni

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L’uso del tempo

La consapevolezza del valore del tempo e dello spazio nasce dalla coscienza del mistero dell’incarnazione: Dio ha scelto un luogo e un tempo precisi per incarnarsi, dando così un valore al tempo e all’uso del tempo. Ogni istante, dunque, era per i gesuiti l’affermazione del legame con Dio: il loro motto «Ad maiorem Dei gloriam» («Per la maggior gloria di Dio») ha espresso molto bene questa posizione, perché vivevano tutto in funzione della gloria umana di Cristo e della edificazione della sua Chiesa.

Ciò a cui tendeva l’educazione e la vita nelle riduzioni, è stato l’uso per-fetto del tempo, vivere cioè ogni momento coscienti del rapporto con il mi-stero presente.

Per aiutarsi tra loro e aiutare il popolo a vivere così ogni istante, i padri stabilirono un orario preciso, in modo che l’ordine della giornata educasse alla libertà, anche dalla propria istintività.

A San Ignazio Mini, su una parete di quello che ora è un museo, si può leggere uno schema di orario, che documenta questo uso del tempo:

Orario dei padri

04:00 Si alza l’incaricato settimanale di turno e suona la campana per la sveglia.

04:30 Ave Maria e orazione mentale.05:30 La campana grande chiama alla messa. Il padre ascolta gli infermie-

ri e i guardiani del turno della notte. Se ci sono delle urgenze, va a dare l’estrema unzione.

06:00 Santa messa.07:00 Il padre distribuisce l’erba mate, si accorda con il governatore sui

compiti del giorno.08:00 Ufficio religioso per gli infermi e celebrazione dei funerali.

Annunciazione, statua in legno (Santa Rosa,

Cappella di Loreto)

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09:00 Il padre ascolta le confessioni dei ragazzi e degli adulti. Poi controlla la scuola e le officine.11:30 Campana dell’esame di coscienza.12:00 Pranzo.13:00 Riposo.14:00 Campana del ritorno al lavoro. Il padre continua il suo controllo.16:00 Catechismo.18:00 Santo rosario.18:30 Sepolture. Il padre parroco svolge le faccende della parrocchia.19:00 Recita dell’Ufficio.20:00 Cena.20:30 Lettura spirituale, meditazione

Orario degli adulti

04:00 Tutti si svegliano.04:30 Si preparano per la giornata e per la messa.05:30 Santa messa. Salutano il padre e ritirano la loro razione di erba mate.

Ricevono le consegne per il lavoro della giornata. Bevono il mate nelle loro case e poi vanno al lavoro.

11:30 Quelli che lavorano nei laboratori vanno a prendere il mate.12:00 Pranzo.13:00 Riposo.14:00 Ricomincia il lavoro fino all’ora del rosario.18:00 Assistono al santo rosario, ricevono la razione di erba e di carne, ac-

compagnano l’ufficio dei defunti.19:00 Tornati a casa bevono il mate.20:00 Cena.20:30 Cantano e suonano i loro strumenti fino all’ora di dormire.

Esistevano anche orari simili per i bambini.

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Il fondamento della vita

Rifacendosi a Platone che scrisse che al fondarsi di una città si doveva, so-prattutto, invocare Dio, perché Lui, che è il Bene, è anche la regola del Bene, padre Peramas, autore di un libro intitolato La Repubblica di Platone e i Guaranìes scrive: «Nelle riduzioni il massimo interesse si concentrava su Dio e sulle cose di Dio». La bellezza della chiesa risaltava nel confronto con l’umiltà degli altri edifici, compresa la casa dei padri; tutto nella chiesa era degno di ammirazione, e la liturgia si svolgeva con grande solennità e splen-dore. Dalla cupola alle colonne, dalle pitture alle statue, ai candelabri, dai paramenti sacerdotali agli ornamenti, tutto questo contribuiva a elevare la mente degli indios e a partecipare con rispetto ai sacri misteri.

I sacerdoti celebravano la messa tutti i giorni: i vescovi che hanno visita-to le riduzioni hanno pubblicamente lodato il fervore religioso. Lo stesso papa Benedetto XIV nel 1746 espresse ammirazione per i canti e la liturgia vissuta nelle riduzioni.

Un momento fondamentale della vita quotidiana nelle riduzioni era il catechismo: i gesuiti erano preoccupati di indicare le ragioni della fede, così che essa divenisse il criterio di pensare, di vivere e di agire. La religione na-turale degli indiani fu costantemente apprezzata, però anche educata e que-sto spiega il sorgere di una società libera, ben organizzata, socialmente ed economicamente. La semplice esperienza religiosa naturale, non sarebbe mai stata in grado di generare una società così avanzata. Fede e ragione camminano insieme.

Nelle riduzioni i segni o simboli che ricordavano la presenza di Dio era-no sparsi in tutti posti, anche nelle officine, nei laboratori o nelle estancias. Esistevano nicchie e cappelle. La vita quotidiana era piena di gesti che tene-vano viva la memoria di Cristo: la campana che indicava le ore, le proces-sioni solenni con le immagini dei santi quando si andava per seminare o per raccogliere, i canti che accompagnavano il lavoro. In tutte le riduzioni c’era-

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no anche diverse congregazioni e confraternite, in onore alla Madonna o a qualche santo. Erano come piccole fraternità in cui i membri venivano aiu-tati a vivere la fede in tutti i dettagli della vita.

La libertà era la caratteristica di tutta la vita religiosa nelle riduzioni, fino al punto che nessuno veniva mai costretto a partecipare alla messa ogni giorno.

Le lacrime di san Pietro, statua in legno

(S. Ignazio Guazù)

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La famiglia

Prima dell’incontro con i gesuiti, la famiglia monogamica era qualcosa di impensabile per i Guaranì: tutte le famiglie vivevano insieme in accampa-menti. La poligamia e il divorzio erano normali, e il libertinaggio sessuale era non solo tollerato, ma applaudito. Di solito i Guaranì avevano una mo-glie, ma non c’era cacicco che non si sentisse in diritto di avere cinque o più donne. Con l’arrivo dei gesuiti e il formarsi delle riduzioni le cose sono cambiate radicalmente, seppure lentamente.

Padre Furlong scrisse: «Nulla aiutò tanto la formazione della famiglia e l’affermarsi del suo valore spirituale, come l’aver ottenuto che gli uomini indios considerassero le loro mogli non più come uno strumento con cui saziare le loro concupiscenze ma come un essere con pari dignità, loro com-plemento nella funzione creatrice di un altro essere umano. Questo diede al vincolo matrimoniale una grandezza e un’indissolubilità che prima non possedeva, ed educò sia gli sposati che i non sposati a guardare ad una don-na o ad un uomo con libertà e gratuità».

Padre Montoya nel suo libro La conquista spirituale del Paraguay ha scrit-to: «Sebbene in tutte le prediche domenicali trattassimo con la massima chia-rezza possibile i Misteri della nostra fede e i precetti divini e istruissimo sulle tentazioni della vita carnale, sul sesto comandamento mantenevamo il silen-zio, per evitare di far marcire quelle tenere piante e di creare odio nei confron-ti del Vangelo. Questo silenzio durò due anni, e fu decisamente necessario, come confermò il successo che ottenemmo in seguito». Scrive padre Peramas: «In nessun’altra cosa i padri furono così prudenti e cauti come nell’esamina-re le primitive unioni degli indios per stabilire come si dovesse procedere suc-cessivamente». Inizialmente ci furono diversi punti di vista su come gli indios dovessero comportarsi con le loro mogli una volta convertiti al cristianesimo. La controversia durò a lungo, finché i padri non si decisero a consultare il papa e a chiedergli se i nuovi cristiani fossero obbligati a restare con la donna

Madonna con Gesù, dipinto su legno (Santiago)

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alla quale si erano uniti in matrimonio prima della conversione o se era loro permesso di prendere un’altra moglie. Il papa Urbano VIII rispose che, in quanto al vincolo che gli indios contraevano una volta battezzati, esistevano ragioni valide per entrambe le posizioni, e che quindi si seguisse la strada a loro più favorevole. Una prova della grande saggezza e del rispetto della liber-tà che da sempre caratterizza l’insegnamento del Magistero della Chiesa.

L’età minima per sposarsi era diciassette anni per gli uomini e quindici per le donne, anche se ovviamente era necessario per entrambi il consenso dei genitori. Prima di sposarli, il sacerdote esaminava separatamente i fidan-zati per sincerarsi che scegliessero liberamente la strada del matrimonio e che non esistesse alcun tipo d’impedimento. La celebrazione di questo sacramen-to era estremamente solenne e ricca di rituali. Racconta padre Peramas: «Il sacerdote riceve il mutuo consenso di ciascuno e dà la benedizione; ma pri-ma fa ai promessi sposi una predica nella quale spiega bene cos’è il sacramen-to che stanno per ricevere. Dopo aver chiesto ai membri del Cabildo se c’è qualche impedimento, dice allo sposo di procedere. Questi indossa gli anelli e i tredici reali, che rappresentano la controdote e che sono sempre custoditi nella casa dei padri gesuiti perché servono per tutti, e successivamente li pas-sa alla sua sposa. Dati e ricevuti questi pegni, segno del matrimonio, i novel-li sposi li ripongono sul vassoio; terminato il primo matrimonio si passa al se-condo (i matrimoni tra gli indios erano comunitari), e così di seguito. Finita questa cerimonia, che si svolge all’ingresso della chiesa, entrano tutti fino ai gradini dell’altare, mentre i coristi cantano “Una sposa è come una vite fe-conda, i tuoi figli come germogli d’ulivo”. Il padre recita le preghiere di rito, e prosegue poi con la celebrazione della santa messa solenne».

La liturgia del sacramento era seguita da una vera e propria festa popo-lare, espressione della coscienza che tutti avevano di questo sacramento. Racconta padre Cardiel: «Una volta volli andare di nascosto a vedere cosa facevano durante la festa. Arrivai improvvisamente, senza che loro lo sapes-sero, e vidi da una parte del tavolo gli sposi, con di fronte le loro spose, e tutti mangiavano serenamente mentre i musicisti cantavano le grazie di No-stra Signora. Vedendo un modo così umano e devoto di festeggiare, non po-tei contenere le lacrime per la gioia. Andai ad un’altra festa e trovai la stessa situazione, con altri musicisti che suonavano e cantavano altre cose».

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Il lavoro

Il padre Sanchez Labrador raccontava: «I Guaranì erano molto propensi all’ozio. Tutto ciò che significava lavoro e sforzo, soprattutto costante ed or-dinato, era qualcosa che non rientrava nelle loro possibilità. Arringati dal missionario, iniziavano un lavoro, ma poco dopo erano già lì con le braccia conserte, e benché vedessero che il padre parroco continuava a lavorare, loro stavano a guardarlo tranquilli ed oziosi, con la maggiore indifferenza possibile. Se incitati ad aiutare, o non rispondevano, o si limitavano a dire che lo avrebbero aiutato più tardi». Il più sorprendente miracolo della ridu-zione è stato il gusto con cui gli indiani hanno imparato a lavorare, grazie alla paziente educazione dei padri, come testimonia padre Antonio Sepp: «vive qui a San Miguel un indio di nome Ignacio Paica. È un musicista no-tevole, sa costruire e suonare cornette, clarinetti e trombe di guerra e, oltre a questo, è un fabbro con molta esperienza, coniatore di medaglie, pulito re di oggetti di metallo, fonditore di stoviglie, paioli, bacinelle e marmitte. La-vora alla perfezione col cesello e fa sfere astronomiche e spingarde. È un or-ganista eccezionale. Tutte le mattine suona la cornetta durante l’ufficio di-vino in chiesa, terminata la messa fa colazione e poi fonde il ferro e, come un ammirevole Prometeo, fabbrica, con vari stampi, con materie prime di-verse e con le più disparate configurazioni, centinaia di oggetti. Ma Ignacio Paica non è l’unico Apollo sul tripode. In ogni riduzione si possono trova-re uno o più campioni di questo genere».

A questa testimonianza si può aggiungere quella di padre Labbé, che nel 1711 scriveva: «Ho visto bellissimi dipinti fatti con le loro mani, libri stam-pati con estrema correttezza, altri scritti con molta delicatezza, organi ed ogni genere di strumenti musicali comuni in quella zona, Fanno orologi ta-scabili, incidono cartine geografiche, disegnano mappe, e sono eccellenti in tutte le attività manuali, a condizione di avere davanti agli occhi l’originale o un modello».

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Racconta padre Furlong: «In una riduzione di cinquemila persone, era-no circa tremila quelle che dovevano lavorare e si fece in modo che nessu-no restasse senza aver nulla a cui dedicarsi. C’erano le estancias, nelle quali lavoravano con diverse responsabilità fino a duecento persone; c’erano i campi seminati, nei quali, solo per spaventare o uccidere i pappagalli, terri-bili nemici dei campi, erano necessarie ogni giorno cento o più persone; c’erano le piantagioni di mate, con le loro cinquecento e più piante, ed era indispensabile mantenere pulito il terreno intorno a ciascuna di esse, innaf-fiarle nei periodi di siccità e poi raccogliere le foglie, tostarle e immagazzi-narle; c’erano le piantagioni di cotone e i terreni coltivati a canna da zuc-chero, che esigevano costanti cure da parte di persone esperte; c’erano l’or-to e la casa di campagna dei missionari, dove erano assunte più di dieci per-sone, equamente stipendiate, perché si dedicassero alla semina e al raccolto; c’erano poi le case delle riduzioni, che andavano costruite o sistemate, le strade da spianare, i sentieri da segnare, la provvista d’acqua per la quale co-struire delle condutture, tutti lavori per i quali era richiesto un numero considerevole di persone; c’erano il mattatoio e il locale in cui quotidiana-mente venivano ripartiti la carne e il pane per tutta la popolazione e dove lavoravano l’economo dei magazzini e gli alcaldi delle diverse officine, con tutto il loro seguito di lavoranti e apprendisti».

In tutte le riduzioni i gesuiti crearono fucine, falegnamerie, argenterie, botteghe di ceramiche, sellerie, botteghe per fare carretti, porte e finestre, costruire canoe, e infine, come se non bastasse, botteghe di scultura, pittu-ra, oreficeria, realizzazione di rosari, ricamo ecc. Tutti, dai quattordici ai cinquant’anni, erano tenuti ad avere una professione tra quelle indicate, e ciascuno era libero di sceglierla a seconda delle proprie inclinazioni e dei propri gusti, che non dovevano però cambiare a seconda del capriccio del momento.

Il tempo dedicato al lavoro era scandito da orari precisi, segnati dalle campane che suonavano ogni tre ore, oltre che dalle meridiane che erano sparse in tutto il villaggio e che con il passare degli anni furono sostituite da orologi meccanici.

Gesù fabbrica le stelle, affresco (Santa Rosa,

Cappella di Loreto)

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L’educazione e la scuola

Prima che si costituissero le riduzioni, gli indios si preoccupavano soltanto che i loro figli sapessero maneggiare l’arco e non davano loro nessun altro tipo di insegnamento.

Scrive padre Peramas: «Tra i Guaranì l’educazione e l’insegnamento si ri-ducevano a questo: vivere e dormire coi propri figli». Per questo, come scri-ve padre Cardiel: «Ciò in cui si pone estrema attenzione è l’educazione cri-stiana dei bambini e delle bambine […] perché se fossero lasciati alle cure dei loro genitori, crescerebbero come animaletti e resterebbero dei fannul-loni per tutta la vita». Già nel 1570 il re di Spagna aveva ordinato che in tut-ti i luoghi abitati dagli indios ci fossero delle scuole di dottrine e di lettura.

I padri gesuiti erano coscienti della importanza della scuola nell’ambito della educazione: già nel 1610, all’inizio dell’esperienza delle riduzioni, il padre provinciale Diego Torres sottolinea la necessità di creare «la scuola per i bambini, nella quale uno dei coadiutori del parroco insegnerà la dot-trina, che essi dovranno ripetere entrando e uscendo da scuola, alla mattina e al pomeriggio, fino a saperla molto bene. […] Si insegnerà anche a legge-re, scrivere, cantare e suonare».

Nella lettera annuale della riduzione di Loreto, nell’anno 1611, si afferma che «i bambini leggono, scrivono, aiutano durante la messa e cantano duran-te la celebrazione»: solo un anno prima quei bambini vivevano nella foresta.

Nella riduzione di San Ignacio Guazú, cinque anni dopo la sua fonda-zione, «tutti i giorni i ragazzi frequentavano la scuola, la mattina e il pome-riggio, per imparare a leggere e scrivere, e lo facevano con molto fervore».

L’educazione era intesa come introduzione alla realtà in tutti i suoi fat-tori: per questo la teoria era accompagnata dalla pratica. Anche i bambini, dunque, avevano le loro occupazioni, vigilati ugualmente da un insegnan-te. Si dava loro un lavoro leggero e alla loro portata, come ripulire le pian-te di cotone o scacciare gli uccelli dai campi comuni.

San Giuseppe e Gesù, statua in legno

(Santi Cosma e Damiano)

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L’educazione consisteva anche nel far apprendere il corretto uso delle cose, cominciando dal modo di scrivere, dalla grammatica, dall’ortografia. Curando cioè ogni dettaglio. Scrive padre Furlong: «Sono passati davanti ai nostri occhi centinaia di documenti scritti in guaranì dai Guaranì stessi, e tanto la calligrafia di quegli scritti quanto la forma in cui si presentano – con spaziature uguali, margini adeguati, intestazione e conclusione ben ubicati – dicono chiaramente che almeno per quanto riguarda la scrittura le scuole missionarie sono state efficienti».

Anche il fatto che dal 1700 fu installata una tipografia nelle riduzioni, e che in essa si stamparono parecchie opere in guaranì, indica chiaramente che quegli indios impararono a leggere e scrivere correttamente.

In un’epoca in cui in tutto il mondo conosciuto la scuola era un privile-gio di pochi (e la scuola per le ragazze è stata una novità assoluta), nelle ri-duzioni era un diritto e un obbligo per tutti i bambini: da cinque a dodici anni seguivano scuole separate, dove imparavano a leggere, a scrivere e a fare i conti. Per non dimenticare le cose apprese, in particolare l’aritmetica, ogni domenica dopo la messa tutti dovevano ripetere le tabelline delle mol-tiplicazioni. Già nel 1621 padre Lorenzana riferiva che «nelle riduzioni del Guairà ci sono varie scuole con più di quattrocento ragazzi; anche a San Ignazio ci sono diverse scuole, e il numero degli alunni che le frequentano ogni giorno supera i duecento».

Nella riduzione di Santo Angelo, nel 1711 andavano a scuola oltre 900 ragazzi e ragazze, su una popolazione composta da 1400 famiglie.

Gli insegnanti non erano solamente i padri gesuiti, ma anche indios ben istruiti e con una solida preparazione professionale.

Terminata la scuola primaria, passavano alla scuola professionale per im-parare differenti mestieri, ma potevano accedere alle scuole di disegno, di pittura e di scultura. Le ragazze imparavano anche a filare e a cucinare.

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La musica e il canto

Padre Antonio Sepp, il genio delle riduzioni, grande musicista e costrutto-re di strumenti musicali, presenta così gli indios: «sono musicisti per natu-ra, come se fossero stati creati per la musica: imparano a suonare con sor-prendente facilità ogni tipo di strumento, e sempre in pochissimo tempo. Non hanno quasi bisogno di maestri, è sufficiente avviarli e poi imparano da soli perfino i passi più difficili. Così ad esempio, nella riduzione di San Juan Bautista, c’è un bambino di dodici anni che suona con dita ferme so-nate tedesche, sarabande, balletti e molti altri pezzi composti dai più insi-gni maestri europei, quali Ignaz von Biber e Johann Schmelzer. Anche i preludi che fanno pensare all’organista più abile, perché richiedono una ca-pacità di concentrazione non indifferente, il mio piccolo indio li suona con l’arpa o con la cetra col sorriso sulle labbra».

Fin dagli inizi, la musica fu uno dei pilastri portanti dell’educazione e della formazione cristiana degli indios. Si può dire che i gesuiti evangelizza-rono gli indios con la musica e con il canto, riuscendo a formare coristi e musicisti degni delle migliori cattedrali europee di allora. Ogni riduzione aveva il suo coro e i suoi maestri di musica, che suonavano diversi strumen-ti come l’arpa, il violino, l’organo, le trombe, le cornette, i fagotti e le ma-racas. La musica e il canto accompagnavano tutti i momenti della giornata: la santa messa, il catechismo, il lavoro nei campi, la vita nelle case e la pre-ghiera. La fama dei musicisti guaranì arrivò non solo nelle città più impor-tanti del sud America, ma anche in Europa, giungendo fino a Roma alle orecchie di papa Benedetto XIV, che ne parla nella sua enciclica del 1749.

Scrive padre Cardiel: «Ho attraversato tutta la Spagna, ma in poche cat-tedrali ho ascoltato musicisti migliori di questi. Nella città di Buenos Aires, dove sono giunti i musicisti della riduzione più vicina per celebrare i festeg-giamenti in onore dell’incoronazione del nostro re Ferdinando, ci sono at-tualmente alcuni soprani che non ho mai sentito neanche nelle migliori

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cattedrali di Salamanca e di Siviglia. Ciò che muove a speciale devozione è il modo con cui questi indios cantano: non con la vanità e la disinvoltura con cui cantano in Spagna, ma con molta serenità, devozione e modestia».

Molti furono i musicisti gesuiti inviati nelle riduzioni, come i padri Juan Vaisseau e Luis Berger, provenienti dalle Fiandre spagnole, il tirolese Anto-nio Sepp e l’italiano Domenico Zipoli.

Padre Sepp fondò una scuola di musica e di canto, nella quale formò molti maestri, i quali a loro volta fondarono altre scuole nelle loro riduzio-ni di origine. Ogni riduzione arrivò così ad avere, tra cantanti e musicisti, un coro di trenta elementi, composto da bambini, giovani e adulti, ciascu-no con la sua parte da soprano, contralto, tenore o basso. Erano sempre ac-compagnati da strumenti di diverso genere, arpe, fagotti, tamburelli, violi-ni, violoncelli, e i loro canti polifonici furono motivo di ammirazione e, molto spesso, di conversione.

Il più grande compositore e musicista delle riduzioni, che in verità non poté mai arrivare alle missioni poiché morì ancora giovane a Cordoba, in Argentina, nel 1726, fu l’italiano Domenico Zipoli. Nato a Prato, vicino a Firenze, dopo essere stato per alcuni anni organista nella chiesa del Gesù a Roma, si recò nelle missioni del sud America. Qui ebbe modo di compor-re moltissime opere. Il suo stile è quello tipico dell’epoca, contrappuntuale e con l’uso di vari strumenti caratteristici della musica barocca.

Una testimonianza della bellezza e dell’importanza della musica nelle ri-duzioni ci è offerta dai fregi della chiesa di Trinidad. In essi sono raffigura-ti i diversi strumenti che si suonavano abitualmente nelle riduzioni. In par-ticolare, nel presbiterio, ad alcuni metri di altezza, c’è un bassorilievo raffi-gurante la Vergine Madre di Dio, vincitrice sul male, immortalata nell’atto di calpestare il serpente tentatore e circondata da un gruppo di angeli che suonano trombe, maracas, arpe, clavicordi e strumenti a fiato.

Angeli musicanti, rilievo in pietra (Trinidad)

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La scultura e la pittura

Nelle riduzioni, la scultura e la pittura furono abbondantissime. La sola chiesa di San Ignazio Guazù, se si contano i quadri e le pitture a olio di tut-te le dimensioni che ricoprivano le pareti e il soffitto, arrivò ad avere ben 1400 dipinti.

Nel 1800 il francese Jean-Antoine De Moussy descrive così la chiesa di Santa Rosa: «è letteralmente ricoperta da statue di santi scolpite in legno, e l’architrave è coronato da un San Michele che sconfigge il demonio. Ai quattro angoli che formano gli archi che sostengono la cupola, scolpita e di-pinta di rosso e oro, c’è una nicchia con la statua di un papa. Sulle dodici colonne ai lati della navata ci sono delle statue a misura naturale dei dodici apostoli, e le sette cappelle laterali non sono meno ricche né meno decora-te. Vi sono poi quattro confessionali artisticamente decorati e scolpiti, e il battistero, che è un piccolo santuario all’interno della chiesa, è arricchito da un gruppo scultoreo in legno rappresentante il battesimo di Gesù. La sacre-stia, situata nella zona dell’abside, ha un magnifico altare riccamente deco-rato con sculture e grandi armadi appoggiati alle pareti, anch’essi in legno scrupolosamente intagliato. Un fonte battesimale di marmo, spaccato in più punti per qualche incidente e imperfettamente restaurato, versa l’acqua in un’enorme brocca d’argento, unica testimonianza delle antiche ricchezze di questa magnifica chiesa. La volta del portico è ugualmente ricoperta con ornamenti scolpiti e dipinti, sebbene i colori siano in parte scomparsi».

In ogni villaggio c’erano delle botteghe, in alcune delle quali lavoravano più di trenta artisti. La quantità delle pitture e delle sculture prodotte era tale che non solo venivano usate per decorare le chiese delle riduzioni e le cappelle delle estancias, ma erano anche vendute come vere e proprie opere d’arte, sebbene fossero quasi tutte anonime.

Considerare di provenienza europea quelle dai tratti più fini, e di fattu-ra indigena quelle più rozze e primitive, sarebbe certamente un errore. Rac-

Natività, particolare degli angeli, affresco (Santa

Rosa, Cappella di Loreto)

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conta padre Furlong: «Tutte le statue sono fatte con legno proveniente da piante indigene, e lo stesso vale per i colori, sebbene in alcune predomini il gusto tipico italiano e in altre quello tedesco. Ci furono maestri di entram-be le scuole, come Brassanelli e Berger rispettivamente, ed è evidente che entrambi ebbero tra gli indios numerosi discepoli».

Il primo pittore che arrivò nelle riduzioni fu il fratello Bernardo Rodri-guez, inviato dalla provincia del Perù perché eseguisse opere d’arte rappre-sentanti immagini sacre. Come si afferma in una lettera del 1616: «Rodri-guez fu colui che insegnò agli indios l’arte della pittura».

Un altro grande artista fu il francese Louis Berger, già conosciuto come pittore a Parigi e a Roma. Nonostante desiderasse ardentemente recarsi nel-le riduzioni a insegnare la musica e la pittura, i suoi superiori lo trattenne-ro a Buenos Aires, dove dipinse una tela rappresentante le quattro missioni. Quando il padre provinciale decise di inviarla a Itapùa, gli indios di quella riduzione rimasero molto stupiti, e affermarono di non aver mai visto nien-te di così bello. Più tardi, quando lui stesso poté visitare alcune riduzioni, dipinse una tela rappresentante i sette Arcangeli per la riduzione a essi de-dicata. Una terza tela la dipinse per l’altare maggiore della chiesa della ridu-zione di San Carlos, dove fu collocata nel 1633.

Il terzo pittore che passò per le riduzioni fu il fratello Luis de la Cruz, anch’egli di origine belga, esperto, oltre che di pittura, di matematica e di prospettiva. Giunse nelle riduzioni nel 1640 e lavorò assiduamente, tanto che le lettere annuali ci riferiscono che «le case, i collegi e tutte le riduzioni sono piene di quadri, opera del suo pennello».

Oltre a lui e a Brassanelli, non vi fu nessun altro pittore europeo attivo nelle riduzioni nel corso del XVIII secolo, ma non per questo non vi furo-no altre opere, frutto di artisti indigeni.

Ancora oggi nella cappella di Nostra Signora di Loreto, nella riduzione di Santa Rosa, è possibile contemplare i resti di un affresco, rappresentante la natività e la traslazione della santa casa di Loreto. Nonostante sia molto rovinato per l’abbandono in cui rimase per molti anni, è senz’altro uno dei gioielli più preziosi dell’arte paraguayana.

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La danza e il teatro

Tra i Guaranì, la musica, la danza e il teatro non erano concepite come espres-sioni artistiche separate, perché le danze erano in gran parte drammatizzate e il teatro era anzitutto un melodramma, in cui predominavano la musica e la danza. Il teatro e la danza, a differenza del canto e della musica, erano attivi-tà che si svolgevano solamente la domenica e le feste, e gli attori erano tutti professionisti che esercitavano ogni giorno sotto la guida di un direttore.

Fin dal loro arrivo in Paraguay, i gesuiti utilizzarono il teatro come stru-mento educativo durante la catechesi della domenica, considerandolo una delle espressioni artistiche più adeguate per la comprensione e l’educazione alla fede cristiana. Nel 1640 nella maggior parte dei villaggi delle missioni si organizzavano rappresentazioni teatrali.

Racconta padre Del Techo: «In occasione della celebrazione del centena-rio della fondazione della Compagnia di Gesù, i neofiti di Mbororé rappre-sentarono un’opera drammatica il cui argomento era l’invasione dei mam-malucchi, i quali disponevano i loro piani di battaglia, combattevano ed era-no poi sconfitti e messi in vergognosa fuga!». Padre del Techo racconta an-che che per celebrare lo stesso centenario, anche nella riduzione di Encarna-ción fu messa in scena una pantomima. Lo spettacolo venne rappresentato in una delle vie principali della riduzione: «all’improvviso, compariva sulla scena un gigante chiamato Policronio, personificazione del centenario, con la barba lunga e i capelli bianchi e vestito con abiti multicolori. Policronio portava con sé cento bambini variopinti, che rappresentavano i diversi osse-qui alla Compagnia, e che, con un inno armonioso, ne cantavano le lodi».

Oltre a queste testimonianze dirette, è sufficiente dare una scorsa agli in-ventari dei beni sottratti ai gesuiti dopo l’espulsione del 1768, che docu-mentano l’enorme quantità di indumenti e di elementi scenici posseduti da ogni villaggio, e permettono di concludere che le rappresentazioni teatrali e le danze nelle riduzioni erano sfarzose e molto curate.

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La stampa

La prima tipografia che venne creata in questa parte nel Nuovo Mondo fu pro-prio nelle riduzioni. Già nel 1632 i padri chiesero al padre generale della Com-pagnia che destinasse alle loro missioni un confratello della Germania o delle Fiandre il quale insegnasse loro l’arte della stampa, così da poter stampare in loco tutto il necessario per l’educazione e la formazione culturale degli indios. Per molto tempo, però, questo desiderio non poté essere soddisfatto. Così, per esempio, padre Ruiz de Montoya dovette pubblicare i suoi libri a Madrid.

Solo alla fine del XVII secolo, grazie ai padri Juan Bautista Neumann e José Serrano, venne costruita la prima macchina per stampare, fatta con le-gno locale, ferri vecchi e una lega di piombo e stagno per i segni e le lettere. Scrisse padre Antonio Sepp: «Nell’anno 1700 il padre Neumann ha dato alla luce un volume stampato in caratteri, un Martirologio Romano che fino ad allora le riduzioni non possedevano, e sebbene i caratteri siano diversi ri-spetto a quelli delle tipografie europee, sono assolutamente leggibili».

Oltre al Martirologio Romano, i primi libri stampati nelle riduzioni furo-no il Flos Sanctorum del padre Rivadeveira e La differenza tra il temporale e l’eterno del padre Nieremberg, tradotto in guaranì nel 1700 da padre Serra-no: si tratta di un volume di 438 pagine, scritte su due colonne, la cui stam-pa è corretta in tutti i sensi: i caratteri sono belli e vari, dal contorno elegan-te e con una fine delineazione, contenente incisioni e lamine magistralmen-te disegnate dagli indios stessi.

Padre Dobrizhoffer ha scritto a proposito dell’abilità degli indios in que-sto lavoro: «Non pochi di loro stamparono libri, anche di grandi dimensio-ni, e non solo in lingua Guaranì, ma anche in lingua latina, e quel che con-ta soprattutto è che furono essi stessi a costruire i caratteri e i segni tipogra-fici fondendo lo stagno».

Le opere stampate nelle riduzioni furono almeno venti, delle quali pur-troppo si conservano solamente nove esemplari.

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Scrisse Bartolomé Mitre: «La comparsa della stampa nella regione del rio de la Plata è un caso singolare nella storia della tipografia. Non fu im-portata, fu una creazione originale; nacque, o rinacque, in mezzo alla fore-sta vergine, come una Minerva indigena armata di tutte le sue armi, con ca-ratteri di fabbricazione autoctona, maneggiati da indios selvaggi da poco ri-dotti alla vita civilizzata e che parlavano una lingua sconosciuta, e con segni fonetici di loro invenzione».

Va ricordato che nelle riduzioni si parlava solo il guaranì, e i gesuiti, a par-tire da Ruiz de Montoya, avevano scritto e tradotto libri in questa lingua.

I Guaranì non solo avevano imparato a leggere, ma erano anche scrittori.Ricordiamo per esempio Nicolas Yapuguay, autore di una pregevole Spie-

gazione del Catechismo e dei Sermoni. Di lui parla padre Peramas, quando scrive «I Guaranì non solo leggevano, ma erano essi stessi scrittori. Io stesso ho visto e letto i sermoni che scrisse un indio della riduzione di Loreto per ciascuna delle domeniche dell’anno. Il modo in cui compose questo volume fu il seguente: ogni domenica prestava particolare attenzione a quello che il parroco esponeva sul Vangelo del giorno, e una volta tornato a casa medita-va su queste cose e riproduceva il sermone, scrivendolo in una purissima lin-gua Guaranì e aggiungendovi ciò che gli sembrava più adatto. Conobbi an-che autori di libri non religiosi. Uno scrittore, Melchiorre, scrisse la storia del Corpus Christi. Lo stesso Melchiorre aveva arricchito la sua opera con una cartina sulla quale erano ubicati i monti, i fiumi e i torrenti situati all’interno dei confini del villaggio. Un altro libro fu scritto da un indio della riduzione di San Javier, il quale, essendo un discendente dei primi abitanti, racconta l’arrivo dei gesuiti nella sua terra descrivendo l’accoglienza che ricevettero e riferendo la morte del venerabile Roque Gonzàlez e dei suoi compagni».

Si potrebbero citare altri titoli di opere pubblicate dagli indios, come la Storia del villaggio di Yapeyu e un libro di storia intitolato Relazione della bat-taglia del 3 ottobre 1754: questo ci permette di comprendere il livello di alfa-betizzazione e di cultura a cui giunsero in pochi anni grazie ai gesuiti. Da quanto detto è quindi evidente che nelle riduzioni non solo l’analfabetismo divenne una realtà praticamente sconosciuta, ma ci fu una produzione lette-raria che le altre città della regione non conobbero mai. Quello che i bene-dettini erano stati per l’Europa cristiana, i gesuiti lo furono per i Guaranì.

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Un osservatorio astronomico

Nelle riduzioni sorse anche un osservatorio astronomico, per opera di pa-dre Buenaventura Suàrez. Dopo aver studiato astronomia a Cordoba, in Spagna, venne ordinato sacerdote nel 1703 e inviato alla riduzione di San Cosma e Damiano in qualità di parroco. Uomo colto e appassionato all’in-dagine scientifica, egli si dedicò anche alla fabbricazione di organi e specchi, perfezionò l’arte di realizzare le campane e insegnò ai suoi indios a dorare i calici. Come se non bastasse, creò la prima fabbrica di cioccolato di queste regioni. Il nome di padre Buenaventura è legato al prestigiosissimo osserva-torio astronomico che riuscì a edificare. La fama di tale osservatorio giunse fino ai celebri Vargentin e Celsius, i quali riprodussero nelle aule dell’uni-versità di Uppsala le osservazioni astronomiche provenienti da questa parte dell’America Latina.

Padre Buenaventura pubblicò in Europa il primo libro di scienze astro-nomiche concepito in America del sud: si tratta di un Lunario che, come si legge nella prefazione, «comincia nel gennaio dell’anno 1740 e finisce nel dicembre del 1841» e «contiene gli aspetti principali del sole e della luna, cioè le congiunzioni o posizioni dei quarti di luna con il sole, a seconda dei loro reali movimenti, e le informazioni delle eclissi che saranno visibili nei secoli a venire in queste missioni della Compagnia di Gesù nella Provincia del Paraguay. Alla fine vengono fornite delle regole per realizzare dei lunari simili per gli anni successivi al 1842 e fino al 1903».

Nel Lunario, lo stesso Suàrez ci fornisce alcuni dettagli sul suo lavoro: «mancando gli strumenti, non avrei potuto fare simili osservazioni se non avessi fabbricato con le mie stesse mani gli strumenti necessari: orologi a pendolo indicanti i minuti e i secondi, quadranti astronomici per adeguare l’orologio all’ora solare dividendo ogni grado di minuto in minuto, telesco-pi con lenti convesse e di varie gradazioni, dagli otto ai ventitré piedi. Quel-li con la gradazione minore li ho usati nelle osservazioni delle eclissi di sole

Sole, dipinto su legno (Santiago)

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e di luna, e quelle con la gradazione maggiore le ho usate nelle immersioni dei quattro satelliti di Giove, che ho osservato per tredici anni nel villaggio di San Cosme».

I suoi studi astronomici gli ottennero fama in America, in Europa e per-fino in Asia. Padre Suàrez stesso allude alla sua corrispondenza con scienzia-ti di tutto il mondo quando scrive: «Inviai in Europa il padre Nicasio Gram-matici, della Compagnia di Gesù, che mi comunicò le osservazioni da lui realizzate nel Collegio Imperiale di Madrid e ad Alberga del Palatinato, le copiose ed esatte osservazioni di don Nicolas de l’Isle fatte a Pietroburgo, e quelle del padre Ignacio Koegler fatte sulla carta di Pechino in modo meno approfondito rispetto a quelle di Pietroburgo; con quelle che mi comunicò anche il dottor don Pedro de Peralta fatte a Lima, comunicai le mie».

Morì nel 1750. Di lui resta scritto nella carta annuale: «il padre Buena-ventura fu un uomo prudente, geniale e dal giudizio assennato. Abilissimo in qualunque cosa a cui si accostasse, riuscì a coltivare, con la sua istruzio-ne, il suo genio e la sua applicazione, molte discipline matematiche; instan-cabile nell’osservazione, ideò strumenti matematici, fece lenti per vedere a distanza e orologi a pendolo, semplicemente imitando ciò che aveva regi-strato nelle sue osservazioni».

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La fine delle riduzioni

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Perché terminarono le riduzioni

Ha scritto lo storico Woodbine Parish: «il notevole successo dei gesuiti giunse a suscitare invidie e gelosie, dando così origine a centinaia di storie circa le mire politiche della Compagnia. Tali storie, per quanto assurde, ot-tennero facilmente credito, ed indubbiamente accelerarono la caduta delle riduzioni. Il vero crimine dei padri, se di crimine si può parlare, consistette nella forza morale che possedevano».

Il potere, economico o politico, non può tollerare nessuna rivalità: non può ammettere né pluralismo, né diversità. La Compagnia di Gesù rappre-sentava un potere indipendente, e bisognava eliminarla in modo radicale e definitivo. Incominciò così una violenta campagna contro la Compagnia di Gesù, alimentata presso le corti europee da illuministi, enciclopedisti, gian-senisti, deisti: il potere intellettuale, politico ed economico del tempo.

Nel 1750 la Spagna e il Portogallo firmarono un trattato che prevedeva, in cambio della colonia portoghese di Santo Sacramento, la cessione da parte della Spagna di un territorio a est del rio Uruguay. Questo accordo fu un colpo molto forte per le riduzioni, perché nel territorio passato ai por-toghesi si trovavano sette riduzioni, tra le quali san Miguel, e grandi estan-cias con moltissimi capi di bestiame. Inutilmente i gesuiti cercarono di op-porsi: nel 1752 le sette riduzioni furono traslocate al di là del rio Uruguay. Poi gli eventi precipitarono: nel 1759 i gesuiti furono espulsi dal Portogallo e dal Brasile, nel 1767 dalla Spagna e dai territori delle sue colonie.

Anche il papa Clemente XIII aveva fatto un tentativo per dissuadere Carlo III da questa decisione, inviandogli una lettera, nella quale scriveva: «Se quelle povere anime, che sono già entrate nel gregge di Cristo o sono in procinto d’entrarvi, dovessero andar perdute per mancanza di pastore, qua-le accusa esse non leveranno davanti al tribunale di Dio contro chi avrà loro sottratto i mezzi e l’assistenza necessari alla loro salvezza!».

Fu tutto inutile. Il 24 maggio 1768, il governatore di Buenos Aires, Fran-Pietà, statua di legno

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cisco Bucarelli, partì dalla capitale, portando con sé l’ordine di espulsione di tutti i gesuiti dai territori soggetti alla corona, con un esercito di mille-cinquecento soldati: l’obiettivo era Candelaria, sorta di capitale delle ridu-zioni.

Poco tempo prima, gli indios della riduzione di san Luis avevano invia-to una lettera a Bucarelli: «Signor Governatore: Dio ti protegga! Te lo dicia-mo noi, il Cabildo e i Caciques, con gli indios, le donne ed i bambini, tut-to il popolo di San Luis. Affermiamo con piena fiducia, Signor Governato-re, che tutti noi siamo tuoi figli e ti imploriamo con le lagrime agli occhi che tu permetta ai padri sacerdoti della Compagnia di Gesù di rimanere sempre con noi e che, a questo scopo, tu ci rappresenti e lo chieda al nostro buon Re, in nome e per amore di Dio. Questo ti chiede, coi volti inondati di lagrime, il popolo intero: uomini e donne, giovani, ragazzi e ragazze e particolarmente i poveri, tutti infine. I figli di sant’Ignazio vennero e accu-dirono con sollecitudine i nostri avi e li istruirono. I padri della Compagnia di Gesù sanno sopportare le nostre povere condizioni aiutandoci ad affron-tarne le durezze; e così viviamo una vita felice per Dio e per il Re, e siamo disposti a pagare una tassa maggiore, se così lo desidera. Perciò buon Signor Governatore, ascolta le nostre povere suppliche e fa’ che le vediamo esaudi-te. Inoltre, vogliamo dirti che noi non siamo in nessun modo schiavi, né lo furono i nostri avi; non ci piace neppure il modo di vivere degli Spagnoli, che pensano solo a se stessi senza aiutarsi e sostenersi tra di loro. Questa è la semplice verità: te lo diciamo, buon Signor Governatore, fa ciò che ti chiediamo, e Nostro Signore ti premierà concedendoti il Suo aiuto. Che Egli ti protegga ora e sempre. Questo è quanto abbiamo da dirti. Da San Luis, 28 febbraio 1768».

Forse sarebbe stato facile, per i padri e gli indios, resistere al governato-re e istituire uno stato indipendente. Ma i gesuiti, per evitare il genocidio del loro popolo, rinunciarono allo scontro e, con grande dolore, accettaro-no di separarsi dai loro figli. Raggiunsero Buenos Aires per poi continuare il viaggio verso l’Europa, dove si rifugiarono nello Stato pontificio.

Qualunque realtà umana illuminata dal cristianesimo, quando si allon-tana, volontariamente o per imposizione, dal carisma che l’ha generata, fi-nisce in rovina. Con la partenza dei padri, tutto ciò su cui si basavano le ri-

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duzioni venne in breve tempo eliminato ed esse furono progressivamente abbandonate dai loro abitanti: nel 1768 erano abitate da 88.890 Guaranì, nel 1793 si erano ridotti a 51.991. Nonostante il tentativo del governatore Bucarelli di portare avanti l’opera delle riduzioni, i nuovi responsabili che si sostituirono ai gesuiti nella gestione delle riduzioni non furono in grado, o non vollero, di continuarne l’esperienza.

Delle riduzioni, di questa affascinante esperienza durata centocinquan-t’anni, oggi restano solo delle pietre che la foresta protegge come un seme destinato a germogliare.

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Conclusione

La drammatica fine delle riduzioni non ha significato la scomparsa del cri-stianesimo in Paraguay, perché il cristianesimo è una Presenza che si dilata nella storia.

Come ha detto Julian Carron: «A come permanere ci pensa Cristo risor-to! Questo non è il nostro problema. A noi tocca riconoscerLo ogni volta che accade nella nostra vita. Per questo, il cristianesimo vissuto così è una cosa da brividi. E così sfida costantemente la nostra libertà, attraverso que-sta diversità presente. Questa diversità è un bene, è un segno della preferen-za che Cristo ha per noi, non una cosa da cui uno deve difendersi. Questa contemporaneità sfida ciascuno di noi mettendoci davanti all’alternativa: o aggrapparsi al già saputo […] o aprirsi all’imprevisto di come succede ora, rendendoci disponibili a seguire quello che Cristo fa oggi. Questa è la vera decisione, perché davanti al nuovo c’è sempre il rischio della paura del nuo-vo… Proprio questo è Cristo: il nuovo in tutti i giorni della vita».

Le Riduzioni sono nate dall’accogliere questa sfida, dal prendere questa decisone.

La stessa sfida che vissero i guaranì nell’incontro con i gesuiti quattro-cento anni fa è viva e attuale anche per noi oggi.

Quello a cui possiamo assistere oggi, in Paraguay come in tutto il mon-do, è proprio il riaffermarsi della novità dell’incontro con Cristo.

Il sorgere di esperienze come quella di San Rafael e della Virgen de Ca-acupè ad Asunción, oppure quella dell’Associazione Sin Tierra a San Pao-lo, o il Meeting Point di Kampala sono veramente la prova che «la fede è il mezzo che permettere di vivere più intensamente anche questo mondo».

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Finitodi stampare

nel luglio 2009(Grafica Elettronica - Napoli)