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ghisi grütter

Mentre in Europa nasceva e si diffondeva il MovimentoModerno, in Italia - o meglio a Milano - si manifestava il cosid-detto Primo Futurismo quale tentativo di rottura nei confrontidell'accademia. È del 1914 la mostra "Nuove tendenze" aMilano su "Città nuova" di Sant'Elia e può essere consideratol'unico contributo italiano alle avanguardie storiche. Dopo laprima Guerra Mondiale, l'avvento del fascismo collaborò abloccare l'evoluzione moderna delle arti italiane, come succe-de quasi in tutti i casi di governo totalitario dove i valori "tradi-zionalisti" prendono il sopravvento. Nel panorama architettoni-co europeo dell’epoca, ricordo che il De Stijl, il movimentoolandese formato da architetti, pittori, scultori e scrittori, fu fon-dato nel 1917 con la nascita dell'omonima rivista di Teo VanDoesburg, il padiglione di Barcellona di Mies van der Rohe fucostruito nel 1929, la villa a Garches di Le Corbusier nel 1927 ela villa Savoy nel 1931. In quegli stessi anni a Roma, invece,sono ancora vivi gli echi degli stili Art Nouveau e SecessioneViennese. Anche nelle opere di Marcello Piacentini la decora-zione svolge ancora un ruolo importante; nella palazzina diViale della Regina al n. 270 del 1913, disegna una pianta a U,con doppio corpo scala e possibilità di affaccio diretto versol'esterno, di derivazione funzionale ancora ispirata al villino, macon quattro appartamenti a piano e ciascuno con ingresso diservizio, lunghi corridoi centrali di disimpegno, servizi igienico-sanitari molto stretti e profondi; le due braccia della U sonoasimmetriche (dovuto alla configurazione del lotto), mentre lafacciata principale su Viale della Regina, perfettamente sim-metrica con un alto basamento a un bugnato leggero, duebow windows con ordine gigante con interposta terrazza,schema compositivo che Piacentini ripete, in molte sue opere.La decorazione risente di riferimenti formali dell'architetturaLiberty. Molto più sobria è la decorazione sui prospetti interni equelli sui distacchi, nel rispetto del principio che solo il "prospet-to principale" dovesse possedere dei requisiti stilistici più ricchi.Scrive Giorgio Ciucci in Gli architetti e il fascismo, Architettura

e città 1922-1944: «Nella trasformazione di Roma si riassumonoe confrontano, a partire dagli anni Venti, le varie anime delfascismo: da un lato il richiamo alla tradizione classica, dall'al-tro l'immagine della rivoluzione; da un lato il mito della civiltàromana, dall'altro la mistica dell'azione squadrista; da un lato ivalori della Roma degli imperatori, dall'altro il sottoboscogovernativo; da un lato il centurione, dall'altro l'impiegato. Fra

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Vittorio Morpurgo, palazzina inviale Regina Margherita n. 271;progetto del 1913.

APPUNTI SULL’ARCHITETTURA ROMANA DEGLI ANNI VENTI E TRENTA.

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2Concorso per il Palazzo delleSocietà delle Nazioni a Ginevradel 1926/27_progetti diArmando Brasini e di LeCorbusier.

Disegno di fantasia a car-boncino di AlessandroLimongelli, del 1927.

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tali antinomie si trovano a lavorare gli architetti romani, benradicati al presente e cui non difetta una certa dose di seriocinismo professionale di vecchia data, che sembra tramandar-si di architetto in architetto, quando non di padre in figlio.Caratteristica dell'ambiente romano è, infatti, la presenza di"famiglie" di architetti, sia nel senso di più generazioni di unastessa famiglia, si vedano ad esempio i Piacentini o i Busiri Vici(peraltro imparentati fra loro), sia nell’accezione di gruppi chesi formano all'ombra del potere politico e religioso. "Famiglie"abili nel muoversi su più piani e nel rispondere alle diverserichieste, da quelle retorico-rappresentative a quelle della fun-zionalità urbana, da quelle della tradizione "popolare" a quelledella "modernità" borghese. In definitiva, è proprio l'assenza diun vero capitale industriale, in grado, in altre città, non solo difar valere le proprie richieste quanto e soprattutto di indurremetodi di organizzazione del lavoro, che a Roma è possibiletale gestione "famigliare", dove l'abilità della mano che dise-gna tende a prevalere sulla capacità della mente che proget-ta. I due estremi di tale ambiente sono, negli anni fra le dueguerre, Armando Brasini e Marcello Piacentini. Alla comuneanima "romana", empirica e ironica, ricca di inventiva e diapprossimazione, furba e insieme ingenua, un'anima più appa-rente che reale in Piacentini, si sovrappone in Brasini un'ansia diemulare gli architetti del barocco romano, Bernini in testa, e ditrasformare il "barocchetto", in auge all'inizio degli anni Venti, inbarocco scenografico e magniloquente....Mentre alla metàdegli anni Venti prende corpo il dibattito sull'assetto urbano, lacittà cresce di popolazione e di dimensione con, dapprima, iquartieri a villini e le palazzine, poi i quartieri a media e altadensità promossi dall'edilizia sovvenzionata dallo Stato, infine lecase convenzionate, grandi intensivi con alloggi piccoli e tipo-logie a blocco collocati in zone semiperiferiche della città erealizzati da imprese private per conto del Comune o del para-stato. Le palazzine caratterizzano la crescita di Roma contem-poranea. Esse definiscono, a partire dal primo dopoguerra, iltessuto residenziale dei nuovi quartieri altoborghesi - Pinciano,Salario, Parioli, Aventino - e sono possibili in seguito alla varian-te degli anni ’20 al regolamento edilizio, che amplia le cubatu-re e le altezze dei villini, rendendoli più adeguati alle reali pos-sibilità economiche del ceto medio-alto e creando, in unmomento di rilancio del settore edile come volano per la ripre-sa economica, nuove possibilità di investimento da parte diimprese edilizie anche modeste, oltre a consentire rapidaimmissione del prodotto sul mercato e una più veloce urbaniz-zazione. Le palazzine divengono, negli anni trenta, l'occasionedi lavoro per molti giovani architetti "moderni".1 Nello stessoanno in cui s’inventa la palazzina, si dà l'avvio in aree lontanedal centro, alla realizzazione di due modi insediamento, unacittà e un sobborgo giardino, a Monte Sacro e alla Garbatella.

Studio di aggregazioni per lanuova tipologia architettonicadella palazzina, di DarioBarbieri.

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Giuseppe Capponi, palazzinaa lungotevere Arnaldo daBrescia, 1928, sotto AlessandroLimongelli, Studio per il “gratta-cielo italiano” del 1927.

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Entrambi realizzati con la diretta partecipazione diGiovannoni, i due interventi rimangono esempi iso-lati d’intervento suburbano, anche se divengono unpunto di riferimento per il linguaggio architettonico.Qui, infatti, si sperimenta il "barocchetto", un lin-guaggio che assorbe le diverse valenze formalidella Roma storica e popolare, attuando un mime-tismo che allude esplicitamente alla città vecchia ealla tradizione romana, almeno come la intendeGiovannoni. Un linguaggio, che conferisce "dignità"alle case più modeste e che viene subito adottatoanche per dare decoro ai quartieri a media e altadensità promossi dall'Istituto Case Popolari, l'Icp,sulla scia di quelli realizzati dall'Istituto romano caseper impiegati dello Stato, l'Ircis, poi assorbito dal cor-rispondente nazionale, l'Incis. L'Icp, ristrutturato dalfascismo con l'eliminazione delle rappresentanzepolitiche e democratiche, raccoglie i finanziamentistatali dispersi in varie iniziative e realizza grandiintensivi per la media e piccola borghesia dell'impie-go pubblico, mostrando ancora una volta come ilfascismo rimanga inizialmente attento ai problemidei ceti medi, considerati a Roma gli alleati più sicu-

Case INCIS a viale Quattro Venti, progetto diAlberto Calzabini, del 1929/30.

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ri per i quali è necessario predisporre abita-zioni decorose, in aree non troppo lontanedal centro e a prezzi contenuti. Gli intervential Trionfale, su progetto di InnocenzoSabbatini, fra il 1919 e il 1927, quelli a piazzad'Armi, ancora di Sabbatini, del 1925-28,quelli in piazza Perin del Vaga, al Flaminio, diAlessandro Limongelli, del 1924-26, trasforma-no rapidamente le zone suburbane in parti dicittà.».2 In quest’ultimo intervento si riscontraun riferimento alla dimensione romana del-l’abitare; infatti, nei tre blocchi edilizi tra piaz-za Perin del Vaga e Piazza Melozzo da Forlì diM. De Renzi, A. Limongelli e G. Wittinch e T.Bruner, è presente un riferimento all’architet-tura minore del tardo Cinquecento, special-mente nella facciata di De Renzi che insistesulla piazza Perin; gli edifici formano un fron-te compatto sul lungotevere e una sequenzagradevole di spazi pubblici e semipubblici sulfronte interno.3 Gli alloggi Icp sono in totale339 organizzati in tre edifici a corte creandola piazza che, per approssimazione, possia-mo definire di forma ellittica. I fabbricati sonoarticolati con variazioni di altezza e arretra-menti per facilitare luce ed aria nelle corti.Particolare attenzione formale è stata messanelle logge curve che uniscono i blocchi edanno forma alla piazza stessa. Articolazioniche mancano del tutto nella vicina VillaRiccio, cooperativa per impiegati postele-grafonici costruita nel 1919 da E. Negri con,all’interno, edifici in linea più bassi.Il passaggio dagli anni Dieci ai Venti, in termi-ni linguistici, si può sintetizzare come una per-dita dell'ornamento applicato sulla facciataper una maggiore articolazione volumetrica:aggetti o rientranze, balconi con alti para-petti, bow windows più o meno equilibraticompositivamente, coperture a tetto o a ter-razza. Il termine palazzina deriva da unmanufatto edilizio, di piccole dimensioni, pre-sente nelle ville patrizie romane. La nascitadella palazzina è un fenomeno prettamenteromano; una delle motivazioni risiede nellacrisi delle abitazioni venutasi a creare intornoagli anni '20 (come sempre dopo le guerre)che decretò la trasformazione di alcunezone destinate a villini del piano Sanjust di

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Istituto per le Case Popolari al Flaminio, in PiazzaMelozzo da Forlì; progetto di E. Wittinch, A. Limongelli,M. De Renzi, 1925/27, pianta di progetto e foto attua-le di Piazza Perin del Vaga.

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Teulada del 1909, in palazzine con la variantegenerale di piano del 1926. La definitiva istitu-zionalizzazione avviene poi con il piano del1931, quando le normative già proposte conla variante del 1926, vengono confermate inmaniera definitiva. Per il villino era previsto unsolo alloggio ogni piano con "carattere di spa-ziosa signorilità", con possibilità di affaccio pertutti gli ambienti verso il perimetro esterno delfabbricato, mentre, per la palazzina, gli allog-gi potevano essere da due a quattro a piano,più raramente tre per oggettive difficoltà diesposizione, il che richiedeva la presenza dichiostrine per l'aerazione e l'illuminazione deiservizi igienico-sanitari. Gli architetti che, neglianni Venti, operano a Roma, cercando con laloro opera di qualificare il passaggio dal villinoalla palazzina e dal "barocchetto" al razionali-smo, rappresentano il meglio della ScuolaRomana; attraverso la sperimentazione e laricerca di nuovi linguaggi espressivi, applicatiproprio sulla palazzina, contribuiscono all'af-fermazione delle nuove "regole" promosse dal

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Gino Coppedè, quartiere romano di Piazza Mincio,Società Anonima Edilizia Moderna, 1915

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sopra disegni di progetti di Adalberto Libera del1927/29 e, di lato, prospettiva di Luciano Baldessariper l’E 42.

7razionalismo di tipo europeo. In effetti, questomomento segna il passaggio dalle posizioniconservatrici dei linguaggi architettonici, lega-ti alle cornici e ai timpani curvilinei o triangola-ri intorno e sopra le finestre, alle fasce continueche segnano il marcapiano e/o il marcada-vanzale, all'ordine gigante in facciata scandi-to da semicolonne semplici o binate, al fortebugnato nella parte basamentale e sugli spi-goli dell'edificio, ai balconi con il parapettorealizzato con balaustre, ai forti cornicioniaggettanti, in molti casi con tanto di metope etriglifi stilizzati, ai nuovi criteri del funzionalismofatti di un’aggregazione equilibrata dei volumie di una decisa articolazione di pieni e vuoti suiprospetti. Il lento ma progressivo procederedell'architettura italiana verso un linguaggiomoderno produce un percorso di asciuga-mento delle tecniche grafiche di rappresenta-zione dei progetti allontanando i disegni dalladescrizione del dettaglio e delle sovrastruttureornamentali, per concentrarsi sui volumi e sullemasse plastiche, attraverso l'utilizzo di carbon-cini prima e, successivamente, di rappresenta-zioni a tempera tendenti a oggettivizzare sem-pre più l'edificio, isolandolo dal contesto e ren-dendolo compiuto in sé. Così scrive Moretti nel1937 «[...] II concepirsi graficamente è il modonaturale nell'esprimersi dell'architettura con-temporanea. Oggi la costruzione è una pura esemplice proiezione del grafico, e non, come

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dovrebbe essere e come è sempre stato, il graficouna proiezione della costruzione. E tanto ciò è veroche i diversi momenti attraverso i quali l'architetturamoderna è passata in pochi anni si potrebberodistinguere mediante le varie tecniche del disegno.Così dalla carbonella di Limongelli e dal Wolf diAschieri (il Wolf è un carboncino raffinato); si passaalla tempera (Libera, Ridolfi, ecc., io stesso me nesono servito durante un certo tempo), e finalmenteal tiralinee e alla penna che caratterizzano la scuo-la di Le Corbusier. Insomma l'architettura è nata sullacarta, vi è vissuta e vi morirà infallibilmente [...].4

Nel quadro di questa tendenza grafica, ma anchelinguistica, si sviluppa la figura autonoma del "rap-presentatore", del professionista della rappresenta-zione (delineator negli Stati Uniti con back-ground

architettonico mentre in Italia prevalentemente pit-tore) che interpreta, spesso a tempera, i progettidegli architetti. Il delineator è un abile disegnatorequasi sempre con una laurea in architettura – cosìcome lo definisce Hugh Ferriss5 nell'EnciclopediaBritannica del 1928 suggerendone alcuni ruoli edobiettivi – che si specializza in tecniche di rappresen-tazione con prevalenza di vedute prospettiche, diveloci schizzi di studio quali basi per lo sviluppo delleidee progettuali e dei disegni definitivi (renderings),tutti strumenti di comunicazione con il cliente/com-mittente. Tali rappresentazioni non possono consiste-re solo in un'esecuzione meccanica poiché si deveprima entrare in empatia con il progetto architetto-nico; il delineator è considerato, in una certa misura,il "fantasma sconosciuto" dello scrittore/architetto. Intal senso Ferriss sostiene che l'esecuzione meccani-ca della prospettiva di un progetto è ben altra cosadall'averne capito lo spirito e il pensiero architettoni-co, ed è, inoltre, mancante di coinvolgimento intel-

8a destra progetto “Cittànuova” di AntonioSant’Elia 1913/14.

sotto Hugh Ferriss, TheMetropolis of Tomorrow,vista dal Bussiness Centere caseponte, 1927/29.

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lettuale ed emotivo; analogamente a quando sidipingono i ritratti che non sono trascrizioni pittori-che anaffettive, perché nell’elaborarli, bisognacaptare e rivelare un particolare stato d'animo delsoggetto, pur rimanendo in una rappresentazionedi stampo realistico. A Roma, in quegli anni, la rap-presentazione a carboncino dei “disegnatori” èanche lo strumento per una spinta verso il cambia-mento linguistico con un progressivo svuotamentodegli edifici del tradizionale apparato decorativoapplicato, con un percorso che tende a valorizzaresempre più il valore plastico dell'edificio, la sua con-sistenza volumetrica, la drammaticità dell'edificiocome massa, e, a tal fine, i tratti spessi del carbonenon possono che incontrare il favore di quegli archi-tetti che caratterizzano in tal senso la loro esperien-za progettuale. Questo strumento, infatti, non con-sente virtuosismi grafici nella definizione di capitelli,stucchi, ecc. ma, al contrario, separa nettamentesul foglio le masse disegnate, accentuandone ilpeso grazie all'uso del chiaroscuro che, proprio conquesto mezzo grafico ottiene i migliori risultati. DaPiacentini a De Renzi, che prenderanno strademolto distanti negli anni successivi a questa fasecosiddetta "Novecentista", l'attenzione progettualepiù evidente è quella volta a definire l'edificio attra-verso la sua composizione volumetrica e quindi essoè rappresentato a grossi tratti, le pareti mostrano piùla trama dei materiali di rivestimento, la grana delleasperità. Questo nuovo stile di rappresentazione sirapporta con alcune interessanti esperienze grafi-

Mario De Renzi palazzina Castelli in viaCerveteri e Alberto Calzabini, e palazzinaFurmanik a lungotevere Flaminio 1935;sotto Adalberto Libera, abitazioni popola-ri per una coperativa a Tor di Quinto, incoll. con Ridolfi, 1929-30

a sinistra Libera e De Renzi, PadiglioneItaliano all’Esposizione Mondiale diChicago del 1935.

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che di artisti noti in quel periodo e di appartenenza alla cosid-detta "scuola romana". Uno dei principali capiscuola di questainnovazione nel gusto della rappresentazione è senza dubbioAlessandro Limongelli (la cui architettura è sempre soggetta asuggestioni scenografiche) che, secondo Luigi Moretti, è l'in-ventore della tecnica a carboncino. È colui che maggiormen-te si rapporta al disegno Piranesiano, producendo una serie di"fantasie architettoniche" e di ricostruzioni di monumenti roma-ni che costituiscono una aderente rivisitazione dell'opera delmaestro seicentesco: «..negli studi sulla architettura romanaed egiziana... egli ha andava cercando la religione del nume-ro, il segreto dei vuoti e dei pieni, la radice della potenzaespressiva, malgrado ciò non fosse fatto in modo rigoroso.Evidentemente egli sperava, nel mescolare gli elementi dellepiù disparate tradizioni (qualche volta nel confonderle), diritrovare un bandolo restato vivo ed utile tempo...» Ciò nontoglie che anche nei disegni più propriamente progettuali,come quelli per il cosiddetto "grattacielo italiano" o quelli dicorredo al progetto di concorso per il Palazzo delle Nazioni di

Pietro Aschieri, progetto per laPiazza della Romanità all’EUR.

10Innocenzo Sabbatini, prospettivadi Piazza Sempione del 1919circa.

Schizzi di architettura di PietroAschieri.

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Pietro Aschieri, Palazzina Salvi a Piazzadella Libertà, 1930

11Ginevra, l'utilizzo del carboncino e dei tagli prospetticisopra descritti non sia mera imitazione di uno stile dise-gnativo oramai consolidato nel suo studio.6 Il passoimmediatamente successivo, verso il razionalismo archi-tettonico, pur con tutte le accezioni particolaristicheproprie del panorama italiano, è quello della rappre-sentazione oggettiva, del disegno a penna, scarno,asciutto, che tratta l'oggetto architettonico come uncomponente meccanico, che svuota di pittoricità e diinterpretazione la resa grafica per concentrarsi sull'og-gettività scientifica del prodotto progettato. È il boom

delle rappresentazioni al graphos, degli abachi, delleassonometrie e degli esplosi.Nel 1932 fu nominata una Commissione ministeriale conl'incarico di proporre il numero degli edifici postalioccorrenti per Roma, la loro ubicazione, il fabbisogno diambienti, e per formulare i bandi di concorso. LaCommissione ultimò i lavori in meno di due settimanescegliendo le aree per l’ubicazione degli edifici nell'im-mediato intorno al centro storico: a Piazza Bologna, aviale Mazzini, a via Marmorata, e in via Taranto.Quest’idea dello sviluppo di Roma a "macchia d'olio"rientrava nella politica di decentramento tipica delregime. I quattro poli andavano, infatti, a servire dellearee più vaste d’espansione: per Piazza Bologna lazona del Nomentano-Salario; Viale Mazzini era conside-rato come centro di Borgo, Prati, Flaminio, fino a VillaGlori; per Via Marmorata le zone dell’Aventino, diTrastevere, di Testaccio, e dell’Ostiense fino a SanPaolo; infine, l’edificio in Via Taranto-Via La Spezia pertutta la zona dell'Appio-Prenestino. Fu nominata, inseguito, un'altra Commissione per formulare il bando di

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concorso vero e proprio e, nell'elaborarlo, l'architettoGiuseppe Vaccaro - membro della Commissione - allegòalcuni schemi grafici per illustrare le caratteristiche distribu-tive che gli edifici postali avrebbero dovuto avere; quindi,tutti i progettisti degli edifici furono vincolati da questenorme e si mossero, pertanto, all'interno di griglie e regoleabbastanza rigide. Il bando recitava «il progetto oltre arispondere per concezione architettonica alla dignità arti-stica dell'urbe e allo spirito dell'epoca storica attuale, deveanche soddisfare in forma completa e moderna ad ogninecessità di servizi».7 Entro il 5 giugno del 1933 furono pre-sentati 136 progetti, anche se i progettisti erano però innumero minore; infatti, molti di loro presentarono più solu-

Edificio postale di Adalberto Liberae M. De Renzi, a via Marmorata;sotto le poste di Mario Ridolfi a piaz-za Bologna, 1933.

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zioni, tra questi anche Libera e De Renzi, i quali elaboraronoprogetti per le quattro aree, due firmati da Libera e due daDe Renzi poiché il bando obbligava la firma di un solo proget-tista. Vinsero le nuove generazioni, anche perché rientravanella strategia del regime fascista cercare di riassorbire i gio-vani fermenti dell'architettura moderna italiana razionalistaall'interno della cultura ufficiale, e proprio per questo fu sceltoil concorso come formula di compilazione dei progetti. MarioRidolfi, che era uno dei più giovani, vinse il concorso perPiazza Bologna, Giuseppe Samonà quello per Via Taranto,Libera e De Renzi vinsero quello per le Poste di via Marmorata,e infine, Armando Titta il concorso per Viale Mazzini, ma si puòdire che Titta, assiduo frequentatore di concorsi, faceva giàparte della cultura ufficiale, e in effetti, la sua soluzione è la piùconvenzionale e forse la meno interessante. Le tre soluzioniprogettuali di Piazza Bologna, Via Taranto e Via Marmorata,risolvono tre contesti urbani differenti in modo del tutto origi-nale ed inedito, rispecchiando ognuna, in maniera evidente,la personalità architettonica del progettista. Ridolfi redige un

Disegni analitici di studiodell’Edificio postale di AdalbertoLibera e M. De Renzi, a viaMarmorata del 1933.

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Disegno di Giuseppe Samonàper l’Edificio postale a viaTaranto del 1933.

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progetto che alcuni amano definire un “razionali-smo espressionista”. Quest'edificio postale riescenon solo a risolvere la piazza ma addirittura a iden-tificarsi con essa; infatti, quando si pensa a PiazzaBologna si pensa subito alle Poste come elementoformale molto forte, caratterizzante l'ambienteurbano che le circonda. Guardando il sito in cuiveniva a porsi la costruzione, si vede come Ridolfìabbia impostato il progetto abbracciando il luogoe seguendo in sostanza quelle che erano le carat-teristiche del lotto stesso incorporando la curva eimmedesimandosi con l'area ricalcandone quasiperfettamente la forma. Le Poste di PiazzaBologna, con il loro sviluppo così fortemente oriz-zontale, risolvono non solo la piazza ma un conte-sto urbano molto più vasto; tutto il sistema a raggie-ra dei quartiere va a trovare come fulcro proprioquesto elemento molto forte architettonicamente.Guardando dal fronte laterale si nota bene lacurva che riprende il “barocco romano”. In ViaTaranto si pone un altro problema urbano, che èquello dell'isolato; Giuseppe Samonà si trovò difronte ad un lotto abbastanza costretto ed irrego-lare, tra Via La Spezia, Via Taranto e Via Pozzuoli, erisolse il tema con caratteristiche formali che rispet-tano quella che era la forma storica dell'isolatostesso. Infatti, con le rispettive facciate di Via LaSpezia, Via Taranto e Via Pozzuoli viene risolto il rap-porto con l'intorno, rompendo solo sull'angolo cheapre su Via Taranto e progettando una stradainterna con un cortile tipico dei palazzi a corte.L'edificio di Adalberto Libera invece, sorge isolatonell'area compresa tra l'Aventino e Porta SanPaolo, diventando così il terzo polo tra quest'ultimae la Piramide Cestia. In quest'area emergono, oltrealle Poste, altri edifici coevi come la Caserma deiVigili del Fuoco, progettata da Vincenzo Fasolo, ela Stazione della metropolitana. L'edificio risultaarretrato rispetto a Via Marmorata di circa 20 metri,come da bando di concorso, per permettere lademolizione degli edifici antistanti senza dover pro-trarre la data destinata all'inizio dei lavori dell'edifi-cio stesso. Nel bando era richiesta anche la siste-mazione a giardino dell'intorno ed esaminandol'area dei lotti si nota come Libera abbia rispettatoperfettamente quelli che erano i contorni dati;l'edificio sul fronte su Via Marmorata presenta l'ar-retramento rispetto al fronte stradale risolto con tregradonate cui si alternano due declivi verdi.

Qui e nella pagina accanto: sopra le foto dellePoste in Viale Mazzini di Titta sotto quelle in ViaTaranto,via La Spezia di Giuseppe Samonà.

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Inizialmente, al posto di questi ultimi, Libera e De Renzi avevanoprevisto e realizzato due vasche d'acqua che davano ancora piùimportanza e monumentalità all’edificio distaccandolo completa-mente dalla strada e ponendolo su una sorta di podio metafisico.L'edificio postale riesce a essere moderno e classico allo stessotempo, e a confrontarsi con emergenze storiche come la Porta SanPaolo e la Piramide e con il verde dell'Aventino. 8

note1 Nonostante oggi ci sia la tendenza a rivalutare le architetture romane della

palazzina, trovo che l’uso di questa tipologia e i tessuti urbani da essa costituiti,

siano la totale negazione della forma urbana, in una città come Roma dove gli

spazi pubblici e le piazze hanno segnato e condizionato la forma degli stessi edi-

fici, da Piazza Navona a Piazza Bologna, decretandone un modello esemplare.2 Giorgio Ciucci, Gli architetti e il fascismo, Architettura e città 1922-1944, Einaudi,

1989 pp. 81/86.3 Cfr. Alessandra De Cesaris, Il quartiere Flaminio: la complessità data dalla varie-

tà dell’edilizia residenziale, in AA.VV., Cento anni del quartiere Flaminio, Roma

2012.4 Cfr. Carlo Mezzetti, Il villino diventa grande. Dalle disposizioni del 1920 al P.R.G.

del 1931, in AA.VV., Il disegno della palazzina romana, Kappa, Roma 2008.5 Hugh Ferriss è stato un famoso delineator statunitense degli anni ’20. Nel volu-

me The Metropolis of Tomorrow, Ives Washburn del 1929, sono raccolti i suoi dise-

gni che costituiscono una vera e propria utopia urbana in forma espressionista.6 Cfr. Salvatore Santuccio, Il disegno razionale in AA.VV., Il Disegno dell'architet-

tura italiana nel XX secolo, Kappa 2003, (a cura di Carlo Mezzetti).7 Sergio Poretti. Progetti e costruzioni dei palazzi delle Poste a Roma, 1933/35,

Edilstampa, Roma 1990, p. 21.8 Cfr. Manuela Salvitti, L'Edificio postale di Adalberto Libera, in AA.VV., Il Disegno

dell’Architettura, DiPSA edizioni, Roma 1996 (a cura di Ghisi Grütter).

Schizzi di studio elaborati da Sirio

Serafini studente dell’Università

Roma Tre.

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