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Università degli Studi Dipartimento di di Brescia Economia Aziendale Dicembre 2009 Paper numero 98 Marco BERGAMASCHI IMITAZIONE E CONCORRENZA NELL’ABBIGLIAMENTO DI MODA: UN’INTERPRETAZIONE ECONOMICO-AZIENDALE DELLA NORMATIVA VIGENTE

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Università degli Studi Dipartimento didi Brescia Economia Aziendale

Dicembre 2009

Paper numero 98

Marco BERGAMASCHI

IMITAZIONE E CONCORRENZANELL’ABBIGLIAMENTO DI MODA:

UN’INTERPRETAZIONE ECONOMICO-AZIENDALEDELLA NORMATIVA VIGENTE

Università degli Studi di BresciaDipartimento di Economia AziendaleContrada Santa Chiara, 50 - 25122 Bresciatel. 030.2988.551-552-553-554 - fax 030.295814e-mail: [email protected]

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IMITAZIONE E CONCORRENZA NELL’ABBIGLIAMENTO DI MODA:

UN’INTERPRETAZIONE ECONOMICO-AZIENDALE DELLA NORMATIVA VIGENTE

di Marco BERGAMASCHI

Dottorando in Economia Aziendale Università di Brescia

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Indice

1. Il fenomeno <abbigliamento di moda> nel contesto economico globale .................................................................................... 1

1.1. Introduzione ........................................................................................ 1

1.2. Il mercato dei beni di lusso ................................................................. 2

2. L’imitazione del prodotto. Le forme di tutela giuridica....................... 7

2.1. La tutela disciplinata dal Regolamento CE n. 6/2002 in tema di disegni e modelli comunitari ............................................................... 7

2.2. La tutela prevista dall’art. 2598 c.c.: condizioni e presupposti dell’atto concorrenziale ....................................................................... 8

3. I profili economico-aziendali e giuridici della c.d. imitazione servile............................................................................. 11

3.1. L’imitazione in senso giuridico-aziendale ........................................ 11

3.2. Il look-alike ....................................................................................... 14

4. <Originalità> delle forme imitate e <giudizio di confondibilità>: per un’interpretazione economico-aziendale e di mercato................. 16

5. Conclusioni ............................................................................................. 20

Bibliografia ................................................................................................. 22

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Imitazione e concorrenza nell’abbigliamento di moda

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1. Il fenomeno <abbigliamento di moda> nel contesto economico globale

1.1. Introduzione

L’economia contemporanea si caratterizza per l’abbondanza di beni di tutte le specie, largamente diffusi –quantomeno dal punto di vista conoscitivo- nei consumatori di ogni ceto, cultura, continente.

Tale dinamica economica è probabilmente il principale stimolo non solo alla diffusione delle produzioni e all’ampliarsi della domanda, ma anche ai processi emulativi ogni giorno sempre più diffusi nelle classi sociali, nonché, in particolar modo, a quelli –ineliminabili- di imitazione produttivo-commerciale fra imprese concorrenti.

Tale interazione, da tempo nota, si trova oggi facilitata –proprio per le dimensioni assunte dal fenomeno- vuoi in generale, vuoi nella trasposizione in altre culture e continenti, vuoi infine nei profili patologici loro propri, nel degenerarsi talvolta nella concorrenza sleale per imitazione servile di prodotto. Del resto, il fenomeno della <globalizzazione> ha comportato il progressivo aumento di eventi e attori nei mercati di qualsivoglia settore merceologico e, conseguentemente, si sono create forme di iper-concorrenzialità fra imprese.

In altre parole, tale fenomeno, da sempre esistito, si radica in quest’epoca in settori merceologici sempre più vasti da un lato, sempre meno facilmente definibili dall’altro, al fine di potersi declinare nelle proprie forme patologiche.

Fra i numerosi settori nei quali più tipicamente si ravvisano comportamenti concorrenziali illeciti, occorre rammentare in particolare il mercato dell’abbigliamento di moda. I prodotti di questa categoria –afferenti, più in generale, alla categoria dei c.d. <beni di lusso personali>-, vuoi per l’elevato cash flow che essi sono capaci di generare, vuoi per la relativa semplicità con cui si possono attuare processi di contraffazione e imitazione parassitaria degli stessi, sono sovente soggetti ad atti di concorrenza illecita da parte di terze economie.

Si può peraltro notare come tali atti illeciti incrementino in maniera significativa nelle fasi di recessione economica, proprio come quella che dal 2008 ad oggi i mercati globali stanno attraversando. Per meglio comprendere le cause di questo incremento, occorre nel prosieguo annotare gli aspetti volti a descrivere il contesto economico mondiale dei beni di lusso personali e, in particolare, dell’abbigliamento di moda.

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1.2. Il mercato dei beni di lusso

Il valore del mercato globale dei beni di lusso personali nel mondo è stato stimato pari a 167 miliardi di Euro nel 2008 e, a causa della recente crisi finanziaria, si attesta a 153 miliardi di Euro nel 2009, con un decremento, quindi, pari all’8%. Di questi 153 miliardi di Euro, il 27% è cash flow generato dalle vendite del settore abbigliamento.

Figura 1. – Sviluppo del mercato dei beni di lusso personali (1995-2007)

Fonte: Bain & Company – Altagamma, 2009.

Figura 2. – Sviluppo del mercato dei beni di lusso personali (2007-2009)

Fonte: Bain & Company – Altagamma, 2009.

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Imitazione e concorrenza nell’abbigliamento di moda

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Questa fase di depressione economica colpisce il mercato globale dei beni di lusso personali in modo assai variabile, ciò essenzialmente dipendendo dal differente grado di <maturità> delle seguenti quattro aree geo-economiche:

le vendite in Europa, per quanto colpite dalla crisi (- 8%), reggono discretamente grazie all’apertura di vari punti-vendita nei mercati emergenti dell’Europa dell’Est (Repubblica Ceca, Russia, Ungheria);

il mercato del Nord America è stato particolarmente penalizzato (-7% nel 2008, -16% nel 2009), preminentemente a causa della crisi dei canali distributivi denominati <department store>;

il mercato giapponese risente della recessione nel 2009 (-10%); i mercati emergenti dell’Asia orientale mantengono il loro trend di

crescita sia nel 2008 (+9%), sia nel 2009 (+10%) e confermano il loro periodo di espansione; la Cina rimane il mercato principale e con un’aumento del 12% delle vendite, si assesta ad un valore pari a 6,6 miliardi di Euro1.

Si prevede inoltre che il mercato dei beni di lusso personali si avvii ad uscire dalla crisi economica in modo duraturo solo a muovere dal secondo semestre del 2010 (cfr. tab. 1).

Tabella 1. – Stime previsionali relative alla ripresa dei mercati per l’anno 2010

Fonte: Altagamma Consensus, 2009.

1 C. D’ARPIZIO, Osservatorio mondiale altagamma sui mercati del lusso, Milano,

Bain & Company – Fondazione Altagamma, 2009, pp. 20-52; cfr. anche ALTAGAMMA, Fashion & luxury insight. International fashion & luxury listed companies annual survey, october, 2009.

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Ad oggi, l’intero settore si trova tuttavia esposto –forse in misura più significativa rispetto ad altri comparti industriali- agli effetti <reali> prodotti dalla recente crisi finanziaria. Da questo punto di vista, sono sintomatici di tali difficoltà i casi di amministrazione straordinaria d’impresa e ristrutturazioni del debito che hanno riguardato alcuni noti gruppi italiani appartenenti al comparto (ad esempio, It Holding S.p.A., Mariella Burani Fashion Group S.p.A.).

I volumi di vendita dell’abbigliamento di lusso hanno dunque subito –si diceva- una flessione a livello mondiale sia nel 2008 (-6%), sia nel 2009 (-11%) soprattutto a causa del <down-trading> dei consumatori nei confronti dei c.d. <premium brands>: in particolare, si può notare come le donne abbiano diminuito l’acquisto di beni ad elevato contenuto simbolico, mentre gli uomini abbiano ridotto gli acquisti di abiti formali di lusso.

Figura 3. – Volumi delle vendite nell’abbigliamento per donna (2007-2009)

Fonte: Bain & Company – Altagamma, 2009.

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Figura 4. – Volumi delle vendite dell’abbigliamento per uomo (2007-2009)

Fonte: Bain & Company – Altagamma, 2009.

Riprendendo quindi –tuttavia con integrazioni e modifiche- la letteratura

sul tema, pare di poter asserire che in questo periodo, a livello mondiale, siano emerse, con riguardo ai processi di spesa dei consumatori, le seguenti uniformità comportamentali:

minore propensione agli acquisti di lusso; nel contempo, <understatement> e consumi meno ostentativi;

rinvio dei medesimi al medio termine; ricerca del valore intrinseco (ad esempio, utilizzo di filati pregiati o,

ancora, produzioni di stampo artigianale); incremento del fenomeno <chic-onomic> (riutilizzo di prodotti

acquistati nel passato); incremento della spesa in prodotti <falsi>, siano essi contraffatti o

meramente imitativi di beni di lusso.

In altre parole, i consumatori tendono a porre tipicamente in essere comportamenti <shop in your closet>, cioè riutilizzando –magari mediante nuove combinazioni- prodotti acquistati in passato; eventuali nuovi acquisti riguardano pochi prodotti <chiave> o accessori o, ancora, prodotti appartenenti alle seconde e terze linee.

Appare pertanto evidente che in questo periodo incrementano i propri volumi di vendite le imprese che attuano strategie competitive volte alla

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produzione di beni i) <fast fashion>, ii) imitativi di brand della moda e del lusso.

Il primo caso concerne forme di concorrenza <lecite>, la cui peculiarità consiste nella creazione di marche giovani, innovative, con un migliore rapporto qualità/prezzo o anche meno costose, i cui prodotti vengono distribuiti attraverso numerosi punti-vendita posti nei quartieri più esclusivi delle grandi metropoli. Diversamente, il secondo caso riguarda atti di concorrenza illeciti quali l’imitazione servile dei prodotti, la creazione di <abbigliaggi> simili, la contraffazione del marchio e, più in generale, dei segni distintivi.

Poste tali premesse, il presente lavoro si prefigge in primo luogo lo scopo di esaminare il problema della concorrenza sleale con riguardo al profilo della <imitazione servile> e della natura sua propria. Richiamati i concetti economico-aziendali di <individualità> e <identificabilità> del prodotto -cioè le sue <caratteristiche connotative>, si analizza il <grado definibile> di avvicinamento capzioso, da parte di terze economie, a tali caratteristiche.

Si prosegue con il tentativo di applicare tali concetti al settore dell’abbigliamento di moda, vuoi per l’elevata diffusione nello stesso di tali forme patologiche di concorrenza, vuoi per la meno discriminante definizione delle citate <caratteristiche connotative>, vuoi infine per le economie di costo mediante le quali quella viene sovente realizzata. È chiaro infatti che la moda vestimentaria, sia per la relativa semplicità dei processi produttivi, sia per la elevata redditività dei prodotti, presenta un elevato grado di <imitabilità> da parte di terze economie.

Si cerca così di contribuire a meglio definire –anche operativamente- le categorie interpretative elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza in tema di concorrenza sleale per imitazione servile di cui all’art. 2598 c.c.. Può infatti accadere che in fase giudiziale sorgano difficoltà di carattere tecnico, legate al delicato momento di comparazione e valutazione dei prodotti oggetto della controversia.

Al riguardo, questo lavoro si proporrebbe di chiarire i concetti di <originalità> e <confondibilità> dei prodotti, elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza, alla luce della speculazione scientifica degli studi di marketing, e questo anche al fine della preparazione tecnica per affrontare il c.d. <giudizio di confondibilità> espresso in merito ai prodotti dell’abbigliamento di moda.2 Sul punto, infatti, neppure il Regolamento

2 Per una panoramica su codesta partizione scientifica, si veda, G. BERTOLI, G. TROILO, L’evoluzione degli studi di marketing in Italia, Brescia, Paper numero 10 del Dipartimento di Economia Aziendale, 2000; con riguardo al c.d. <fashion-system>, in particolare, anche A. F. FIRAT, N. DHOLAKIA, A. VENKATESH, Marketing in a postmodern world, in <European Journal of Marketing>, 29, 1, 1995, pp. 40-56; M. EASEY, Fashion Marketing, Oxford, Blackwell Science Ltd., 1995; A. FOGLIO, Il

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(CE) n. 6/2002, strumento certamente innovativo per tutelare i prodotti di moda e, per questo motivo, oggetto di specifico approfondimento, pare offrire adeguato sostegno ai giudici nella definizione dei concetti di <nuovo> e <individuale>.

2. L’imitazione del prodotto. Le forme di tutela giuridica

2.1. La tutela disciplinata dal Regolamento CE n. 6/2002 in tema di disegni e modelli comunitari

Con riferimento alle fonti normative che introducono forme di tutela applicabili all’ipotesi di imitazione dei prodotti fra imprese concorrenti, occorre anzitutto muovere dal diritto comunitario e, specialmente, dal Reg. CE n. 6/2002.

Mediante tale provvedimento il legislatore comunitario si è proposto di costituire un <regime unificato> per la protezione di disegni o modelli comunitari in tutto il territorio della Comunità Europea. In particolare, come si legge nel considerando n. 7, la ratio di una migliore efficacia protettiva dei disegni e dei modelli è ravvisabile nel tentativo di promuovere l’eccellenza della produzione comunitaria, nonché di incoraggiare i processi innovativi affiché emergano nuovi prodotti e possano venire avviati investimenti produttivi.

La portata innovativa del Regolamento è notevole, ove si consideri che l’art. 1 introduce il c.d. <disegno o modello comunitario non registrato>, ossia un diritto di modello o disegno comunitario la cui titolarità i) viene acquisita gratuitamente ed automaticamente dall’autore a muovere dalla data di pubblicazione o divulgazione e ii) ha durata triennale3.

marketing della moda. Politiche e strategie di fashion marketing, Milano, Franco Angeli, 2007; T. HINES, M. BRUCE, Fashion Marketing. Contemporary issues, Boston, Butterworth-Heinemann, 2007.

3 Cfr. Ordinanza, Trib. di Bologna, 2 luglio 2008, inedita, ove si afferma che “[…] La protezione accordata dalla normativa comunitaria del Reg. (CE) 6/2002 (inteso come nuovo strumento di tutela dell’industrial design) al modello/disegno ha oggetto l’apparenza (forma esteriore) di un prodotto o di una parte dello stesso, ovvero il suo aspetto bidimensionale o tridimensionale, sia che si tratti di un prodotto di fabbricazione industriale che di fabbricazione artigianale; l’aspetto può poi risultare dalle forme, linee, contorni, colori, consistenza, strutture, materiali ed ornamenti: in dottrina si è precisato che la privativa comunitaria non registrata tutela ogni forma determinata che sia utile a stabilire una relazione con il consumatore (c.d. market approach). Quanto ai requisiti di protezione, un disegno o modello comunitario deve possedere i requisiti della novità e del carattere individuale, rispetto ad altri disegni o modelli già in precedenza divulgati al pubblico; il requisito della novità va inteso […], in senso relativo, avendo quindi riguardo al settore merceologico cui il trovato appartiene, verificando, solo in questo ambito, se sussiste il

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L’istituto giuridico in questione pare quindi tutelare i prodotti con vita commerciale tendenzialmente a breve durata, quali, appunto, quelli appartenenti al settore dell’abbigliamento di moda. Occorre infatti notare come per tale tipologia di beni, la registrazione brevettuale sia una procedura inidonea o, quantomeno, eccessiva, per tutelare i medesimi, atteso che questi sono destinati a restare sul mercato per periodi inferiori all’anno.

L’art. 3 del Regolamento definisce inoltre come <disegno o modello> l’aspetto di un prodotto quale risulta dalle caratteristiche delle linee, dei contorni, dei colori, della forma, della struttura superficiale, dei materiali, nonché del suo ornamento.

Inoltre, l’art. 4, 1 comma, così recita: “un disegno o modello è protetto come disegno o modello comunitario se ed in quanto è nuovo e possiede un carattere individuale”. Vengono in tal modo determinate le <caratteristiche-tipo> che un prodotto deve possedere per ottenere una protezione giuridica, ossia la <novità> e il <carattere individuale>.

Sul punto, gli artt. 5 e 6 introducono le definizioni di: i) <nuovo>, cioè divulgato al pubblico per la prima volta, ii) <carattere individuale>, che viene riconosciuto se “l’impressione generale che il disegno o modello suscita nell’utilizzatore informato differisce in modo significativo dall’impressione generale suscitata in tale utilizzatore da qualsiasi disegno o modello che sia stato divulgato al pubblico”. Si aggiunge infine che “nell’accertare il carattere individuale si prende in considerazione il margine di libertà dell’autore nel realizzare il disegno o modello”.

Infine, l’art. 19, 2 comma introduce, quale forma di tutela attivabile in via giudiziale per il disegno o modello comunitario non registrato, il diritto di vietare gli atti di copiatura (ossia di imitazione) che terzi indebitamente compiono, ipotesi questa, prevista dal 1 comma del medesimo articolo4.

2.2. La tutela prevista dall’art. 2598 c.c.: condizioni e presupposti dell’atto concorrenziale

L’ipotesi generale di tutela contro gli atti concorrenziali illeciti viene disciplinata dalla norma dell’art. 2598 c.c., il quale statuisce che: “Ferme le

citato requisito di proteggibilità; non trova dunque in questa materia applicazione il concetto di novità “assoluta”; quest’ultimo invero prescinde dal tempo e dal settore o comparto industriale in cui il prodotto si colloca (ed è lo stesso concetto di novità richiesto in materia di invenzioni); la prima accezione di “novità”, quella che è qui chiamata novità relativa, è stata presa in considerazione da parte del legislatore comunitario nella formulazione della normativa relativa al cit. reg. […].”.

4 D. SARTI, Tutela dei disegni e modelli comunitari tra imitazione servile e protezione del diritto d’autore, in <Il Diritto Industriale>, 2, 2008, pp. 170-173.

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Imitazione e concorrenza nell’abbigliamento di moda

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disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque:

1. usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente;

2. diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente idonei a determinarne discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente;

3. si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiarne l’altrui azienda.”.

Tale norma, appartente alla categoria della responsabilità extracontrattuale (artt. 2043 e ss. c.c.), è volta a tutelare tanto l’interesse generale del corretto svolgimento della concorrenza fra operatori economici, quanto l’interesse individuale del soggetto passivo che abbia a subire gli effetti distorsivi cagionati da altrui comportamenti sleali e anticoncorrenziali5.

Ad ogni modo, poiché un variabile <grado catallattico6> in seno a qualsivoglia mercato è, in linea di massima, fisiologico nonché, entro certi limiti, certamente auspicabile, rimane confermato come la differenza fra concorrenza lecita e concorrenza sleale non sia definita dallo scopo, solitamente identico, bensì dalla natura illecita o meno dei mezzi utilizzati; questa illiceità è <l’unico> aspetto rilevante ai fini della qualificazione di un atto come di <concorrenza sleale>, ai sensi dell’art. 2598 c.c.7.

Occorre inoltre annotare che il c.d. <atto di concorrenza> proprio dell’art. 2598 c.c. si deve considerare quale mero <atto materiale> -indipendentemente quindi dalla possibile qualificazione dell’atto in sé come, ad esempio, atto negoziale-, e viene altresì represso e sanzionato in ragione

5 AA.VV., Il diritto industriale. Proprietà intellettuale e concorrenza, Torino,

Giappichelli, 2001; M. SCUFFI, M. FRANZOSI, A. FITTANTE, Il codice della proprietà industriale, Padova, CEDAM, 2005; A. VANZETTI, V. DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Milano, Giuffrè, 2005; F. DE BENEDETTI, G. GHIDINI, Codice della proprietà industriale, Il Sole 24 Ore, Milano, 2005; P. DI TULLIO, voce <Concorrenza sleale>, in <Il Diritto. Enciclopedia Giuridica del Sole 24 Ore>, Milano, 2007, vol. 3, pp. 516-530.

6 Cfr. G. DEMARIA, Trattato di logica economica, vol. I, La catallattica, Padova, CEDAM, 1962. Lo studioso intende per <grado catallattico>, il livello concorrenziale di un determinato settore di mercato; tale termine deriva dal verbo greco “” che significa <scambio>, <permuto>, <baratto>.

7 Cass. Civ. n. 6887 del 1996.

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della sua sola idoneità a raggiungere determinati effetti astrattamente distorsivi della concorrenza fra operatori economici del settore; la tutela della concorrenza sleale veste una funzione preventiva e non repressiva, prospettandosi infatti il risarcimento del danno come sanzione civile solo eventuale8.

Si rende così indispensabile evidenziare il duplice presupposto soggettivo di applicabilità della norma in commento.

Al riguardo, la disciplina della concorrenza sleale trova applicazione solo nell’ipotesi in cui i) i soggetti interessati siano qualificabili come <imprenditori>, ai sensi dell’art. 2082 c.c.; ii) sussista fra questi soggetti un rapporto diretto di concorrenza, il quale peraltro sorge solo se gli operatori economici esitino ii)a) sul medesimo mercato <di sbocco> (ossia comunanza anche solo potenziale dei consumatori cui le imprese in concorrenza si rivolgono), ii)b) beni dello stesso settore merceologico (parzialmente o totalmente identici, ergo sostituibili, atti cioè al soddisfacimento delle medesime esigenze)9.

L’aspetto sub ii), frutto dell’opinione dominante nella giurisprudenza, pare tuttavia sorgere dall’ingiustificata equazione per cui il danno concorrenziale si traduce sempre nel c.d. <sviamento della clientela>10. Infatti, per alcuni Autori pare riduttivo attribuire rilevanza giuridica alla sola concorrenza concernente la c.d. <domanda finale>, ossia il mercato del consumo; non si può infatti negare che tale fenomeno economico possa avere luogo –certo, in tutt’altre forme- anche sui mercati di <approvvigionamento> dei fattori della produzione (capitali, lavoro, fattori produttivi a fecondità semplice e ripetuta)11.

Quindi, la <competizione economica> fra imprese può sorgere anche in assenza di sviamento della clientela; questa è infatti l’effetto di una particolare categoria di atti concorrenziali inerenti al <mercato di sbocco>, non esaustiva tuttavia del concetto economico di <concorrenza>12.

8 Trib. di Milano, 2 ottobre 1972 in <Giur. Annotata Dir. Ind.>, 1972, 1293. 9 Cass. Civ. n. 10684 del 2000 in <Mass. Giur. It.>, 2000; Cass. Civ. n. 1259 del 1999

in <Danno e Resp.>, 1999, 8-9, 885, con nota di RONCO. 10 Cfr. in particolare, Cass. Civ. n. 1259 del 1999; Trib. di Roma 16 gennaio 2006, in

<Foro It.>, 2006, 3, 890; Trib. di Rimini 14 febbraio 2007, in <Dir. Industriale>, 2007, 4, 373, con nota di CAVALLARO.

11 G. GHIDINI, Della concorrenza sleale, artt. 2598-2601 c.c., in <Il Codice Civile Commentato>, diretto da P. SCHLESINGER, Milano, Giuffrè, 1990, pp. 58-62.

12 Cfr. fra gli altri, T. ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, Milano, Giuffrè, 1960; M. ROTONDI, Diritto industriale, Padova, CEDAM, 1965; M. CASANOVA, Impresa e azienda, in <Trattato di diritto civile>, diretto da F. VASSALLI, Torino, UTET, 1974.

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Tale critica ha indotto la giurisprudenza ad adottare il concetto di concorrenzialità <potenziale>, il quale, pur nell’alveo del c.d. <mercato di sbocco>, valuta la concorrenza sotto i seguenti profili:

territoriale (l’area geografica in relazione alla quale l’impresa può espandersi),

temporale (dalla costituzione alla liquidazione dell’impresa), merceologico (prodotti similari o succedanei)13.

Si è in tal modo riconosciuta l’esistenza del <rapporto di concorrenza> anche tra imprenditori che operino in diversi stadi della stessa filiera produttivo-distributiva, ove la loro attività incida sulla medesima cerchia di clienti finali e, conseguentemente, l’atto compiuto da uno dei concorrenti sia idoneo a causare lo <sviamento della clientela> in danno dell’altro14.

3. I profili economico-aziendali e giuridici della c.d. imitazione servile

3.1. L’imitazione in senso giuridico-aziendale

L’art. 2598 n. 1 c.c. delinea, in particolare, tre ipotesi di comportamenti illeciti in ragione della loro idoneità a cagionare confusione fra i consumatori sulla provenienza di determinati beni economici:

uso dei segni distintivi altrui; imitazione servile; altri mezzi idonei a creare confusione.

13 Con riferimento alla sussistenza di concorrenza fra prodotti di alta classe e articoli

offerti in canali non specializzati, si veda, in particolare, Trib. di Milano, 26 settembre 1977.

14 Cass. Civ. n. 4458 del 1997, inedita; si veda, sul punto, anche Cass. Civ. n. 1617 del 2000, in <Riv. Dir. Ind.>, 2001, 2, 96, con nota di CEVOLINI, ove si afferma compiutamente che “la comunanza di clientela –data non già dalla identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti delle due imprese, bensì dall’insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato, e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti che quel bisogno sono idonei a soddisfare- è elemento costitutivo di detta fattispecie, la cui assenza impedisce ogni concorrenza, non potendo ritenersi decisiva di per sé, a tali effetti, la circostanza, da utilizzare solo come criterio integrativo, della idoneità del procedimento di commercializzazione adottato. Peraltro, la sussistenza della predetta comunanza di clientela va verificata anche in una prospettiva potenziale, dovendosi, al riguardo, esaminare se l’attività di cui si tratta, considerata nella sua naturale dinamicità, consenta di configurare, quale esito di mercato fisiologico e prevedibile, sul piano temporale e geografico, e, quindi, su quello merceologico, l’offerta dei medesimi prodotti, ovvero di prodotti affini o succedanei rispetto a quelli atttualmente dal soggetto che lamenta la concorrenza sleale.”.

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Tali fattispecie vengono definite <illeciti di pericolo>, in quanto assumono rilevanza giuridica a prescindere da concreti episodi di confusione, bastando in vero l’idoneità al pregiudizio sulla base del c.d. <giudizio di confondibilità> di cui nel prosieguo.

Con riguardo, anzitutto, al rischio di <confusione>, la dottrina giuridica e la giurisprudenza ritengono che costituiscano atti di concorrenza sleale i comportamenti che determinano la confusione tra prodotti appartenenti al medesimo settore merceologico, al fine di deviare la clientela dall’acquisto di derminati beni in competizione con altri sul medesimo mercato.

In via preliminare, si rende necessaria un’osservazione di carattere metodologico sul c.d. <giudizio di confondibilità>: l’interprete, pur affidandosi al proprio libero convincimento, deve valutare la tipologia di prodotti oggetto della controversia, tenendo conto dell’idoneità di quello ritenuto imitativo a creare confusione ed equivoci in merito alla provenienza dei beni medesimi fra consumatori dotati di medie capacità percettive, di livello medio15.

Pertanto, allo scopo di accertare l’esistenza della fattispecie della confondibilità tra prodotti, occorre che la comparazione fra i medesimi avvenga non tramite l’esame analitico e separato dei singoli elementi caratterizzanti, bensì mediante una valutazione di tipo sintetico, tale da cogliere l’impressione generale che l’aspetto d’insieme di questi elementi estrinseci offre all’acquirente potenziale, considerando altresì che nella logica del consumatore medio la scelta può essere sovente determinata da percezioni di tipo immediato e da sollecitazioni di carattere superficialmente sensoriale16.

Per tornare al tema proposto e dunque in merito al campo dell’abbigliamento di moda, fra le ipotesi sopra menzionate di <atti confusori>, si porgono ora alcune riflessioni concernenti il concetto di <imitazione servile>.

Mediante tale locuzione si fa riferimento all’illecito comportamento dell’imprenditore che imiti un prodotto, la cui forma esteriore abbia un valore individualizzante e distintivo o, detto in altro modo, dotata di <originalità>17. La nozione di prodotto cui la norma si riferisce non riguarda infatti la parte <sostanziale> dello stesso, bensì quella <esterna> e <formale>, ossia l’Ausstattung, l’aspetto caratteristico del medesimo.

15 Trib. di Verona, 30 agosto 1999, inedita. 16 Cass. Civ. n. 11795 del 1998, in <Riv. Dir. Ind.>, 2000, II, 95 con nota di DI

STEFANO. 17 In tema di imitazione servile relativa a orologi di lusso, cfr. Trib. di Milano, 9

novembre 2007, in <Giur. It.>, 2008, 4, 918, con nota di SARACENO.

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Imitazione e concorrenza nell’abbigliamento di moda

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In tal senso, l’attore non può limitarsi a provare che il proprio prodotto sia stato imitato <fedelmente> dal concorrente, ma deve anche dimostrare che questa imitazione sia <confusoria>, cioè atta a ingenerare equivoci nel pubblico indistinto dei consumatori.

In altre parole, affinché sorga un probabile rischio di <confusione>, il prodotto deve essere <originale>, cioè dotato di adeguata <capacità distintiva>. Tuttavia, collocandosi il <fashion-system> nel campo della produzione industriale, si prescinde dal concetto di <originalità> proprio dell’Arte, bastando invero un quid novi, dovuto, ad esempio, dall’innovativa combinazione di elementi estetici di diffuso impiego, sufficiente a differenziare la produzione altrui.

Recente giurisprudenza di legittimità ha inoltre affermato che in tema di <originalità> del bene non si può attribuire carattere individualizzante alla forma funzionale, cioè a quella resa necessaria dalle stesse caratteristiche funzionali del prodotto. In altri termini, costituisce atto di concorrenza sleale per imitazione servile soltanto se la ripetizione dei connotati formali non si limiti ai profili resi necessari dalle stesse caratteristiche funzionali del prodotto, ma investa caratteristiche del tutto inessenziali alla relativa funzione18. A titolo esemplificativo, nel sistema-moda si può allora ipotizzare la sussistenza della fattispecie illecita di <imitazione servile> qualora l’impresa concorrente non si limiti a copiare elementi funzionali di un abito, bensì ne imiti taglio, tessuti, combinazione di colori, stampe e disegni.

L’illecito concorrenziale confusorio è inoltre compiuto anche quando il consumatore attento, pur conscio di essere innanzi a un’imitazione, concluda l’acquisto al fine di poter sfoggiare un bene che, per la sua portata imitativa, induca gli altri a pensare si tratti di un originale19.

Pertanto, l’imitazione servile deve venire intesa come lo sfruttamento e l’appropriazione del lavoro e della creatività altrui, atta a frustrare le aspettative reddituali e finanziarie dell’imprenditore che abbia subito il danno concorrenziale.

18 Cass. Civ. n. 1062 del 2006, in <Giur. It.>, 2006, 7, 1424, la quale ha negato

l’applicabilità della tutela di cui all’art. 2598 c.c. n. 1 per imitazione servile di un gioco in scatola, il quale, pur avendo caratteristiche e regole del gioco simili al prodotto imitato, era rispetto a questo confezionato in modo del tutto differente; cfr. anche Cass. Civ. n. 29774 del 2008 in <Mass. Giur. It.>, 2008, e Trib. Bari, 10 marzo 2008, in <Dir. Industriale>, 2008, 6, 567, con nota di TAVOLARO.

19 Cfr. Ordinanza, Trib. di Torino, 15 luglio 2008, inedita; Ordinanza, Trib. Venezia, 13 febbraio 2008 in <Foro It.>, I, 3, 2009, 673.

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3.2. Il look-alike

Si innesta su tali considerazioni il c.d. <look-alike> (in italiano, letteralmente, <simile a>), fenomeno, questo, riconducibile preminentemente al primo comma dell’art. 2598 c.c., e manifestantesi nella presenza sul mercato di prodotti che ne imitino altri più noti, nel loro aspetto esteriore (colori, forme, scritte, disegni, figure) a un prezzo inferiore, in ragione dell’assenza dei costi relativi a ricerca, sviluppo e commercializzazione del bene in parola20.

Come l’ipotesi generale della <imitazione servile>, così anche il <look-alike> è un fenomeno di concorrenza illecita distinto da quello –peraltro, di rilevanza penale- della contraffazione: solo in quest’ultimo caso, infatti, la riproduzione del bene in violazione della privativa industriale, è talmente fedele all’originale da ingannare –salvo perizia- anche il commerciante. Precisamente, la contraffazione, che i dati indicano in costante aumento21, si caratterizza, fra gli altri, per i seguenti elementi:

estensione ad articoli di utilizzo domestico; realizzazione su scala industriale e conseguente affinamento delle

tecniche che consentono la copiatura del prodotto; elevata qualità del prodotto finale contraffatto; estensione del commercio tramite Internet.

La peculiarità del <look-alike> consiste invece nel fatto che il marchio del prodotto originale non è a sua volta contraffatto; ciò nondimeno l’effetto distorsivo è del tutto palese ove si consideri l’indebito sfruttamento, da parte dell’imprenditore imitatore, dei cospicui investimenti nella pubblicizzazione del prodotto copiato, investimenti peraltro tanto necessari quanto rilevanti nell’ambito dell’abbigliamento di moda22.

A venire imitati sono, in particolare, i prodotti di consumo <fast moving>, ossia beni di <uso comune>, propri della grande distribuzione: ciò tuttavia non esclude che questo fenomeno possa verificarsi anche nel campo dell’abbigliamento di moda, ove abiti griffati vengono copiati e, pur in

20 G. CASABURI, look-alike: situazione e prospettive, in <Diritto Industriale>, 6, 2003,

pp. 560-569; nel marketing, cfr. M. RAFIQ, R. COLLINS, Lookalike and customer confusion in the grocery sector: an exploratory survey, in <The International Review of Retail, Distribution and Consumer Research>, 6, 4, 1996, pp. 329-350; S. BURT, S DAVIS, Follow my leader? Lookalike retailer brands in non- manufacturer-dominated product markets in the UK, in <The International Review of Retail, Distribution and Consumer Research>, 9, 2, 1999, pp. 163-185.

21 Cfr. OECD, The economic impact of counterfeiting and piracy, Executive Summary, 2007.

22 F. SANTONOCITO, L. MOSNA, Il lookalike: sailing too close to the wind, in <Rivista di diritto industriale>, 1, 2004, pp. 32-54.

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assenza della contraffazione del marchio, commercializzati, mediante canali distributivi non specializzati23.

Il look-alike trova anzitutto un proprio compiuto rilievo giuridico nella giurisprudenza statunitense, la quale ha nel tempo assicurato una tutela più rigorosa ai titolari dei prodotti imitati, con particolare riferimento al c.d. <trade dress>, cioè l’insieme dei molteplici elementi che compongono la forma tridimensionale del prodotto e ne rivelano in tal modo l’origine24.

In ragione della tutela apprestata dall’art. 2598 n. 1 c.c., anche il look-alike viene sanzionato dalla giurisprudenza in quanto atto di concorrenza illecita e sleale25. Le Corti di merito hanno in più occasioni ritenuto la sussistenza di atti di concorrenza sleale in tutte le ipotesi in cui si verifichino le c.d. <manovre di agganciamento>, attuate attraverso la messa in commercio di prodotti delle stesse categorie commerciali con <abbigliaggi> simili. Tale fenomeno sta ad indicare i casi di imitazione di confezioni o, più in generale, di altre esteriorità di immediato impatto visivo effettuate ai danni di un’impresa che goda di notorietà da parte di altra meno nota, al fine di sfruttarne le caratteristiche di traino commerciale26.

L’imitatore, nel look-alike, tende infatti a sfruttare <l’affidamento> che di norma il prodotto di marca possiede, giacché questo è in grado di comunicare alla clientela il proprio differenziale qualitativo rispetto a prodotti simili.

23 Cfr. Trib. di Milano, 18 maggio 2004, inedita; Trib. di Milano, 22 giugno 2004,

inedita. 24 G. CASABURI, op. cit., p. 561. 25 Trib. di Napoli, 11 luglio 2000 in <Giur. Napoletana>, 2000, 357, ove si richiama

esplicitamente “il fenomeno, ben noto al diritto anglosassone, […] di prodotti che ne imitano altri, notori, anche senza esserne delle contraffazioni, e venduti ad un prezzo inferiore, con conseguente danno per il primo produttore. Si usa al riguardo il termine di knock-off, o look-alike. […] In definitiva –e per quel che rileva- si tratta della immissione sul mercato di prodotti che per aspetto esteriore, ed in particolare per il packaging, richiamano prodotti già esistenti sul mercato. I knock-off, o look-alike imitano il trade dress di un prodotto, “cioè l’insieme dei vari elementi che compongono la confezione di un prodotto o la configurazione di un prodotto stesso”, ciò anche perché il trade dress, ancorché elemento decorativo ed estetico, è veicolo identificatore della provenienza del prodotto. È un fenomeno che colpisce soprattutto i c.d. own brands products, prodotti con marchi di grandi catene distributive, che presentano sovente forma esteriore e marchi simili a quelli di prodotti già conosciuti. In buona sostanza, in forza del look-alike si realizza una associazione anche inconscia, anche solo subliminare (ma a maggior ragione pericolosa) tra le confezioni e quindi tra i prodotti. L’imitatore consegue così un’attenzione per i suoi prodotti che, altrimenti, non avrebbe avuto. Poco rileva poi la circostanza che il prodotto imitatore presenti un proprio marchio, distinto da quello imitato: egli ha comunque ottenuto una entratura (foothold) illecita e sleale.”.

26 Corte d’Appello di Milano, 28 giugno 2006 in <Giur. It.>, 2007, 7, 1703.

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Occorre infine sottolineare come il fenomeno in parola possa venire ricondotto anche nella clausola generale di chiusura di cui all’art. 2598, n. 3 c.c., qualora, come sovente accade, non sia ravvisabile il carattere di <confondibilità> richiesto dal n. 1 del medesimo articolo. Ciò in ragione del fatto che, pur in assenza del rischio di confusione, determinati comportamenti volti a imitare l’altrui prodotto possono in via generale quantomeno rientrare nella categoria di quelli <professionalmente scorretti>, ergo illeciti e, conseguentemente, oggetto di proibizione, al fine di tutelare il lavoro di un’impresa.

Sulla necessità di reprimere o meno detto fenomeno si giunge allora alla contrapposizione di due differenti <logiche dell’onnipotenza27>, la prima <pro-acquirente>, volta a tutelare il principio di libertà di concorrenza e, conseguentemente, la figura del consumatore, la seconda, viceversa, <pro-impresa>, indirizzata dunque alla tutela della stessa (non necessariamente <monopolista>).

4. <Originalità> delle forme imitate e <giudizio di confondibilità>: per un’interpretazione economico-aziendale e di mercato

Le aziende operanti nel campo del c.d. <fashion system> orientano la propria strategia in ragione della competizione non solo <simbolica>, ma anche <economica>28.

Questo doppio livello concorrenziale evidenzia come il successo, in tale settore, sia determinato non solo dall’accrescimento dei volumi di fatturato, delle quote di mercato, degli utili, ma anche –forse preminentemente- dalla vis creativa dello stilista, intesa quale attitudine a incidere sul gusto dei consumatori tramite lo sfoggio di stili nuovi e distintivi29.

All’interno di questo <binomio competitivo> si situano le molteplici azioni concorrenziali che le imprese possono porre in essere, azioni talvolta lecite, talaltra viceversa illecite e, di conseguenza, sanzionabili in sede civile mediante il disposto dell’art. 2598 c.c..

In particolare, nell’ipotesi di imitazione servile di capi di abbigliamento, per meglio comprendere il senso dei concetti di <originalità> e di <confondibilità> elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza, non si può

27 A. CANZIANI, I processi competitivi fra economia e diritto, , Brescia, Paper numero

15 del Dipartimento di Economia Aziendale, 2001, p. 10. 28 R. CAPPETTA, V. PERRONE, A. PONTI, Competizione economica e competizione

simbolica nel fashion system, in <Economia & Management>, 2, 2003, pp. 73-88. 29 Cfr. P. KOTLER, Marketing management, Torino, Pearson Education Italia, 2007; P.

KOTLER, G. ARMSTRONG, Principi di marketing, Torino, Pearson Education Italia, 2009.

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Imitazione e concorrenza nell’abbigliamento di moda

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prescindere dal valutare il grado definibile di avvicinamento capzioso al prodotto di moda da parte di soggetti terzi concorrenti.

Più precisamente, tale grado di avvicinamento può riguardare sia le <caratteristiche connotative>, sia l’immagine del bene imitato30; in altri termini, l’imitazione può riguardare il <significante> e il <significato> del <prodotto-moda>31.

Innanzitutto, studi di sociologia e di marketing ritengono che la peculiarità preminente del <fashion system> risieda nello <stile>, intendendo, con tale termine, un insieme di elementi formali ed espressivi, e composto dall’eteroclita combinazione dei tipi di tessuto, delle trame dei materiali, dei colori e degli abbinamenti, dei volumi e della modellazione degli abiti32.

La diffusione dei redditi e l’ampliarsi della c.d. <classe media> a livello globale sono le ragioni storico-economiche per cui, nel corso degli ultimi cinquant’anni, si sono affermati comportamenti consumeristici legati allo stile e alla moda.

Inoltre, le ragioni sociologiche dell’importanza che lo stile ha assunto in quest’epoca si possono forse rinvenire negli accresciuti processi di emulazione-ostentazione che in larga parte contraddistinguono gli individui di qualsiasi continente e classe sociale. Del resto, già dal 1899 Thorstein Veblen descriveva la diffusione di comportamenti che non si limitano a testimoniare una maggiore capacità di spesa, bensì l’acquisto di simboli dell’agiatezza, volti a migliorare la stima e la visibilità sociali33.

Il <consumo vistoso> si affissa in particolare sull’abbigliamento, tipica espressione della <cultura pecuniaria>. L’abito viene indossato solo per un breve periodo e non se ne prolunga l’utilizzo, né tantomeno si indossano vestiti della stagione precedente dal momento che comportamenti di tal

30 Con riferimento invece agli studi di marketing, cfr. in particolare, D. A. AAKER,

Managing brand equity: capitalizing on the value of a brand name, New York, Free Press, 1991; K. L. KELLER, Strategic brand management, Upple Saddle River, Prentice Hall, 1998; G. BERTOLI, E. VALDANI, Marketing e mercati internazionali, Milano, Egea, 2006.

31 F. DE SAUSSURE, Corso di linguistica generale, Trad. It. di T. De Mauro, Laterza, Bari, 2007.

32 Oltre alle opere di cui alla n. (1), si vedano, in particolare, anche G. SIMMEL, Die Mode, 1895, trad. it. di M. Monadi in ID., La moda e altri saggi di cultura filosofica, Milano, Longanesi, 1985; B. VINKEN, Fashion Zeitgeist: trends and cycles in the fashion system, Oxford, Berg Publishers, 2005; R. BARTHES, Il senso della moda. Forme e significati dell’abbigliamento, Torino, Einaudi, 2006; Y. KAWAMURA, La moda, Bologna, Il Mulino, 2006; F. MONNEYRON, Sociologia della moda, Roma-Bari, Laterza, 2008.

33 T. VEBLEN, La teoria della classe agiata, trad. it. di F. Ferrarotti, Torino, UTET, 1971.

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genere sono ritenuti contrari rispetto ai comportamenti ostentativi della classe agiata.

Non si può pertanto non considerare il grado di incidenza che lo stile detiene sui processi di spesa attuati dai consumatori, grado che peraltro è noto con il nome di <effetto Veblen>, espressione mediante la quale si suole descrivere la propensione dei consumatori a pagare un prezzo più elevato pur di ottenere la disponibilità di un determinato bene, rispetto ad un altro funzionalmente equivalente34.

Lo <stile> può venire meglio definito nei termini di i) originalità, ossia distanza dall’esistente, nonché distinguibilità da altri stili, ii) esclusività, cioè rarità del prodotto.

Con il primo aspetto si rende necessario comparare lo stile oggetto di valutazione con altri stili in un arco temporale medio-lungo, rilevandone cioè la dimensione diacronica. Il secondo aspetto valuta lo stile rispetto a quelli presenti nel medesimo periodo, evidenziandone invece la dimensione sincronica.

L’incrocio fra queste direttrici permette l’identificazione di quattro tipi fondamentali di <stile> nel settore dell’abbigliamento, caratterizzabili nei seguenti termini:

<classico>, tale cioè da recuperare schemi del passato, atti più a distinguere che a innovare (ad esempio, Chanel, Hermès, Gucci, Valentino, Armani);

<radical fashion>, marcatamente distintivo e, al contempo, innovativo (ad esempio, Jean Paul Gaultier, Alexander McQueen, Yohji Yamamoto, Vivienne Westwood);

<fast fashion>, certamente innovativo rispetto al passato, ma sovente dai tratti poco esclusivi;

<incrementale>, propositivo di stili del recente passato, perciò poco distintivo e poco innovativo35.

Senza alcuna pretesa di definitività, questa suddivisione è tuttavia esplicativa di come gli stili che le imprese del settore tendono a sviluppare si declinino poi in determinate caratteristiche ricorrenti nel tempo e nello spazio, e tali da connotare l’appartenenza dei prodotti ad un’azienda piuttosto che ad altre.

34 Cfr. H. LEIBENSTEIN, Bandwagon, snob, and Veblen effects in the theory of

consumers’ demand, in <Quarterly Journal of Economics, 64 (2), 1950, pp. 183-207; L. S. BAGWELL, B. D. BERNHEIM, Veblen effects in a theory of conspicuous consumption, in <The American Economic Review>, 86, 3, 1996, pp. 349-373.

35 R. CAPPETTA, V. PERRONE, A. PONTI, op. cit., pp. 77-88, con modifiche.

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Imitazione e concorrenza nell’abbigliamento di moda

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Segnatamente, queste <caratteristiche> -denominate appunto <connotative>- si sostanziano in particolare nei seguenti aspetti:

la forma, (il taglio o i volumi del capo d’abbigliamento o dell’accessorio),

il colore (la composizione cromatica), la qualità dei materiali (lana, cotone, seta, cuoio e così via), la grafica (disegni, stampe, intarsi, pizzi).

A questo punto, ogni impresa giunge a definire la propria <isola stilistica>, intesa quest’ultima quale combinazione di stile ed esperienza acquisite nel tempo, analizzate in relazione a un determinato gruppo di consumatori, i quali riconoscono i <codici di condivisione> del prodotto36.

Il <codice> consente in particolare al consumatore di riconoscere in quel bene un insieme di <valenze>, riconducibili a quella determinata azienda e non già ad altre e, conseguentemente, di acquistarlo37.

Quindi, il prodotto ottenuto per mezzo dell’isola stilistica aziendale è portatore di una <grammatica significativa> tale da esprimere un linguaggio coerente con le aspettative della clientela. In altre parole, l’utilizzazione sapiente di tessuti, finiture, proporzioni, consente all’azienda di realizzare un <codice di condivisione> adeguato rispetto alla <isola stilistica> ex ante prospettata38.

Pertanto, la determinazione della propria <isola stilistica> permette all’impresa di sistematizzare e coordinare la propria esperienza e conoscenza nello stile suo proprio e, infine, calibrare l’originalità di linguaggio che si vuole proporre ai consumatori target39. In tal modo,

36 G. COMBONI, F. MOLTENI, Prodotto Moda e <isola stilistica>, in <Economia & Management>, 2, 1994, pp. 20-30.

37 Cfr. G.D. McCRACKEN, V.J. ROTH, Does clothing have a code? Empirical findings and theoretical implications in the study of clothing as a means of communication, in <International Journal of Research in Marketing>, 6, 1989, pp. 13-33; R. ELLIOT, Exploring the symbolic meaning of brands, in <British Journal of Business, 5, 1994, pp. 13-19; nonché, in particolare, G. COMBONI, F. MOLTENI, Prodotto Moda e <isola stilistica>, in <Economia & Management>, 2, 1994, pp. 20-30; W. PESENDORFER, design innovation and fashion cycles, in <American Economic Review>, 85, 1995, pp. 771-792.

38 G. COMBONI, F. MOLTENI, op. cit., pp. 24-26. 39 Cfr. M. EVANS, Consumer Behaviour towards fashion, in <European Journal of

Marketing>, 23, 7, 1989, pp. 7-16; A. O’CASS, An assessment of consumers product, purchase decision, advertising and consumption involvement in fashion clothing, in <Journal of Economic Psychology>, 21, 5, 2000, pp. 545-576; ID., Consumer self-monitoring, materialism and involvement in fashion clothing, in <Australasian Marketing Journal>, 9, 1, 2001, pp. 46-60; In tema di politiche di comunicazione, cfr. M. CODA SPUETTA, La marca nel Sistema moda. Una variabile fondamentale per un marketing di successo, in <Economia & Management>, 4, 1994, pp. 102-115; M. POIANI, Alti

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l’azienda, in ragione del mercato di riferimento, costruisce lo stile <caratterizzante>, allo scopo non solo di conservare il <vantaggio competitivo> rispetto alle imprese concorrenti, bensì anche di perseguire la continua fedeltà dei consumatori40.

In conclusione, nell’ipotesi di avvicinamento capzioso di prodotti da parte di soggetti terzi, l’imitazione <servile> è tale qualora riguardi sia la dimensione <significante> del prodotto-moda, (ossia la riproduzione delle caratteristiche connotative dello stile), sia quella <significativa> (ottenuta attraverso l’emulazione del codice di condivisione proposto alla clientela).

5. Conclusioni

Come si è già avuto modo di osservare, la giurisprudenza tende a valutare ipotesi di concorrenza sleale per imitazione servile di prodotti attraverso una valutazione comparata, globale e sintetica dei medesimi, avuto riguardo dei presupposti della i) <originalità>, o capacita distintiva del prodotto imitato, ii) <confondibilità>, nella quale il consumatore medio può incorrere.

Tale giudizio può talvolta dare adito ad arbitrario soggettivismo da parte del giudice qualora non si tengano nella giusta considerazione alcune riflessioni proprie degli studi di marketing e che con questo lavoro si è tentato di porre in luce.

Atteso che l’originalità assoluta è richiesta forse più all’Arte che non alla moda –data l’appartenenza di questa al c.d. <industrial design>-, tale concetto, oltre a quello complementare della <confondibilità>, se riferito a controversie sorte nell’ambito della moda vestimentaria, può meglio essere definito con riguardo, anzitutto, alla determinazione della c.d. <isola stilistica> di cui ciascuna impresa del <fashion system> si è nel tempo dotata.

Precisamente, l’imitazione dei prodotti deve venire giudicata in via comparativa non solo in base al mero dato materiale dei prodotti, bensì anche in ragione degli <stili> propri delle imprese in concorrenza, alla luce delle loro rispettive storie, esperienze e vocazioni aziendali.

In altre parole, tale giudizio si declina nella definizione del grado di imitazione fra prodotti, con riguardo non solo alle caratteristiche <materiali> che connotano lo stile dei prodotti, ossia il <significante>, bensì anche al <codice di condivisione>, cioè il <significato>, che deve essere coerente e, appunto, <significativo> in ordine alle aspettative non del

consumatori. Il marketing dei beni ad alto valore simbolico, Milano, Lupetti, 1994; S. SAVIOLO, S. TESTA, Le imprese del sistema moda. Il management al servizio della creatività, Milano, Etas, 2006.

40 M. CODA SPUETTA, op. cit., pp. 110.

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<consumatore medio> o del <consumatore informato>, ma dello specifico target di acquirenti.

Si ritiene pertanto che, mediante l’osservazione e la valutazione di questi ulteriori elementi, si possa addivenire a un giudizio sull’ipotetica imitazione servile di un prodotto, i) specifico al caso concreto, ii) adeguatamente preciso, poiché l’interpretazione del fatto avviene alla luce di un sapere <scientifico-tecnico>. Per questo motivo, è auspicabile che la decisione dell’organo giudicante possa venire ancorata a consulenze tecniche che, anche mediante indagini di carattere demoscopico, tendano a ricostruire, da un lato lo <stile> tipico delle imprese di moda coinvolte nella controversia, dall’altro lato i <codici di condivisione> caratteristici e, quindi, lo specifico target di consumatori cui essi sono rivolti.

In altre parole, si vuole porre in evidenza l’opportunità, per l’organo giudicante, di avvalersi di conoscenze tecniche proprie della scienza –lato sensu- economico-aziendale, al fine di meglio definire il grado di avvicinamento capzioso fra prodotti di imprese tra loro in concorrenza.

Del resto, il principio del <libero convincimento> del giudice di cui all’art. 116 c.p.c. durante la valutazione delle prove non si deve risolvere nell’affermazione di una piena e indiscriminata libertà valutativa dello stesso, magari patologicamente declinantesi in arbitrario soggettivismo, se non addirittura nell’irrazionalità di giudizio41. Tale norma è semmai un richiamo alla logica e al buon senso del giudice, il quale è tenuto prima di tutto all’osservanza delle regole di una metodologia razionale di ricostruzione dei fatti; regole, queste, che possono nondimeno appartenere ad altri campi <scientifici> rispetto alle scienze giuridiche, purché abbiano il pregio di meglio spiegare e comprendere tutti i possibili aspetti e momenti della realtà fattuale, oggetto della controversia.

In conclusione, la libertà nella valutazione delle prove e, lato sensu, nell’interpretazione della normativa, in quanto frutto dell’inalienabile libertà del giudice, deve essere soggetta non già al dominio del diritto, ma della logica42. Del resto, il giudice è peritus peritorum, nel senso che egli, ben potendosi avvalere di consulenti tecnici per incrementare le proprie conoscenze su argomenti specialistici, se ne può altresì discostare se ravvisa ricostruzioni illogiche o metodologicamente errate.

41 Si vedano, fra gli altri, V. ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile,

Napoli, Jovene, 1954; S. SATTA, Commentario al codice di procedura civile, Milano, Vallardi, 1959; T. LIEBMANN, Manuale di diritto processuale civile, Milano, Giuffrè, 1968; M. TARUFFO, voce <Libero convincimento del giudice>, in <Enciclopedia Giuridica Treccani>, vol. XVIII, Roma, 1990; C. MANDRIOLI, Diritto processuale civile, Torino, Giappichelli, 2000; P. COMOGLIO, M. TARUFFO, C. FERRI, Lezioni sul processo civile, Bologna, Il Mulino, 2006.

42 S. SATTA, op. cit., p. 465.

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DIPARTIMENTO DI ECONOMIA AZIENDALE PAPERS PUBBLICATI DAL 2006 AL 2009:

52- Cinzia DABRASSI PRANDI, Relationship e Transactional Banking models, marzo 2006.

53- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Federica LEVATO, Brand Extension & Brand Loyalty, aprile 2006.

54- Mario MAZZOLENI, Marco BERTOCCHI, La rendicontazione sociale negli enti locali quale strumento a supporto delle relazioni con gli Stakeholder: una riflessione critica, aprile 2006

55- Marco PAIOLA, Eventi culturali e marketing territoriale: un modello relazionale applicato al caso di Brescia, luglio 2006

56- Maria MARTELLINI, Intervento pubblico ed economia delle imprese, agosto 2006 57- Arnaldo CANZIANI, Between Politics and Double Entry, dicembre 2006 58- Marco BERGAMASCHI, Note sul principio di indeterminazione nelle scienze sociali,

dicembre 2006 59- Arnaldo CANZIANI, Renato CAMODECA, Il debito pubblico italiano 1971-2005 nel-

l'apprezzamento economico-aziendale, dicembre 2006 60- Giuseppina GANDINI, L’evoluzione della Governance nel processo di trasformazione

delle IPAB, dicembre 2006 61- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Ottavia PELLONI, Brand Extension:

l’impatto della qualità relazionale della marca e delle scelte di denominazione, marzo 2007

62- Francesca GENNARI, Responsabilità globale d’impresa e bilancio integrato, marzo 2007

63- Arnaldo CANZIANI, La ragioneria italiana 1841-1922 da tecnica a scienza, luglio 2007

64- Giuseppina GANDINI, Simona FRANZONI, La responsabilità e la rendicontazione sociale e di genere nelle aziende ospedaliere, luglio 2007

65- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Ottavia PELLONI, La valutazione di un’estensione di marca: consonanza percettiva e fattori Brand-Related, luglio 2007

66- Marco BERGAMASCHI, Crisi d’impresa e tecnica legislativa: l’istituto giuridico della moratoria, dicembre 2007.

67- Giuseppe PROVENZANO, Risparmio…. Consumo….questi sconosciuti !!! , dicembre 2007.

68- Elisabetta CORVI, Alessandro BIGI, Gabrielle NG, The European Millennials versus the US Millennials: similarities and differences, dicembre 2007.

69- Anna CODINI, Governo della concorrenza e ruolo delle Authorities nell’Unione Europea, dicembre 2007.

70- Anna CODINI, Gestione strategica degli approvvigionamenti e servizio al cliente nel settore della meccanica varia, dicembre 2007.

71- Monica VENEZIANI, Laura BOSIO, I principi contabili internazionali e le imprese non quotate: opportunità, vincoli, effetti economici, dicembre 2007.

72- Mario NICOLIELLO, La natura economica del bilancio d’esercizio nella disciplina giuridica degli anni 1942, 1974, 1991, 2003, dicembre 2007.

73- Marta Maria PEDRINOLA, La ristrutturazione del debito dell’impresa secondo la novella dell’art 182-bis L.F., dicembre 2007.

74- Giuseppina GANDINI, Raffaella CASSANO, Sistemi giuridici a confronto: modelli di corporate governance e comunicazione aziendale, maggio 2008.

Serie depositata a norma di legge. L’elenco completo dei paper è disponibile al

seguente indirizzo internet http://www.deaz.unibs.it

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75- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Michela APOSTOLO, Dominanza della marca e successo del co-branding: una verifica sperimentale, maggio 2008.

76- Alberto MARCHESE, Il ricambio generazionale nell’impresa: il patto di famiglia, maggio 2008.

77- Pierpaolo FERRARI, Leasing, factoring e credito al consumo: business maturi e in declino o “cash cow”?, giugno 2008.

78- Giuseppe BERTOLI, Globalizzazione dei mercati e sviluppo dell’economia cinese, giugno 2008.

79- Arnaldo CANZIANI, Giovanni Demaria (1899-1998) nei ricordi di un allievo, ottobre 2008.

80- Guido ABATE, I fondi comuni e l’approccio multimanager: modelli a confronto, novembre 2008.

81- Paolo BOGARELLI, Unità e controllo economico nel governo dell’impresa: il contributo degli studiosi italiani nella prima metà del XX secolo, dicembre 2008.

82- Marco BERGAMASCHI, Marchi, imprese e sociologia dell’abbigliamento d’alta moda, dicembre 2008.

83- Marta Maria PEDRINOLA, I gruppi societari e le loro politiche tributarie: il dividend washing, dicembre 2008.

84- Federico MANFRIN, La natura economico-aziendale dell’istituto societario, dicembre 2008.

85- Sergio ALBERTINI, Caterina MUZZI, La diffusione delle ICT nei sistemi produttivi locali: una riflessione teorica ed una proposta metodologica, dicembre 2008.

86- Giuseppina GANDINI, Francesca GENNARI, Funzione di compliance e responsabilità di governance, dicembre 2008.

87- Sante MAIOLICA, Il mezzanine finance: evoluzione strutturale alla luce delle nuove dinamiche di mercato, febbraio 2009.

88- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Brand extension, counterextension, cobranding, febbraio 2009.

89- Luisa BOSETTI, Corporate Governance and Internal Control: Evidence from Local Public Utilities, febbraio 2009.

90- Roberto RUOZI, Pierpaolo FERRARI, Il rischio di liquidità nelle banche: aspetti economici e profili regolamentari, febbraio 2009.

91- Richard BAKER, Yuri BIONDI, Qiusheng ZHANG, Should Merger Accounting be Reconsidered?: A Discussion Based on the Chinese Approach to Accounting for Business Combinations, maggio 2009.

92- Giuseppe PROVENZANO, Crisi finanziaria o crisi dell’economia reale?, maggio 2009.

93- Arnaldo CANZIANI, Le rivoluzioni zappiane— reddito, economia aziendale — agli inizî del secolo XXI, giugno 2009.

94- Annalisa BALDISSERA, Profili critici relativi al recesso nelle società a responsabilità limitata dopo la riforma del 2003, luglio 2009.

95- Marco BERGAMASCHI, Analisi ambientale della Cina e strategie di localizzazione delle imprese italiane, novembre 2009

96- Alberto FALINI, Stefania PRIMAVERA, Processi di risanamento e finalità d’impresa nelle procedure di amministrazione straordinaria, dicembre 2009.

97- Riccardo ASTORI, Luisa BOSETTI, Crisi economica e modelli di corporate governance, dicembre 2009.

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Università degli Studi Dipartimento didi Brescia Economia Aziendale

Dicembre 2009

Paper numero 98

Marco BERGAMASCHI

IMITAZIONE E CONCORRENZANELL’ABBIGLIAMENTO DI MODA:

UN’INTERPRETAZIONE ECONOMICO-AZIENDALEDELLA NORMATIVA VIGENTE

Università degli Studi di BresciaDipartimento di Economia AziendaleContrada Santa Chiara, 50 - 25122 Bresciatel. 030.2988.551-552-553-554 - fax 030.295814e-mail: [email protected]

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