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* Omaggio a Hermann Zapf *Progetto informatico di Tiziano Stefanelli

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QUATTRO PASSI PER STRADA

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Dialoghi in psichiatria e scienze umane Vol. XXI, N.3, 2013
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IL VASO DI PANDORA Dialoghi in psichiatria e scienze umane

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<<Il Vaso di Pandora>>

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IL VASO DI PANDORA Dialoghi in psichiatria e scienze umane - Vol. XXI, N. 3, 2013

Sommario

Editoriale Maurizio Marcenaro

pag. 7

TRA PRASSI E TEORIA Bisogna usare i farmaci antidepressivi con i pazienti depressi?

Una domanda non retorica e una risposta non scontata G. Corsini, E. Maura

pag. 13

Quale psicoterapia per la depressione? M.D. Fiaschi

pag. 31

APPUNTI DI VIAGGIO Variazioni della “distanza” nella relazione psicoterapeutica M. Briselli, P. Buonsanti, M. Devale, P. Gianotti, M. Moccafighe

pag. 51

QUATTRO PASSI PER STRADA L’anoressia come disperata volontà di esistere

P.F. Cerro, L. Pasero pag. 69

OLTRE… La formazione del Prof. Giovanni Carlo Zapparoli alle Comunità

“La Redancia” M. Solari pag. 85

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IL VASO DI PANDORA Dialoghi in psichiatria e scienze umane - Vol. XXI, N. 3, 2013

Table of contents

Editorial Maurizio Marcenaro

pag. 7

TRA PRASSI E TEORIA You have to use antidepressant drugs with depressed patients?

A question not rhetorical and a not obvious answer G. Corsini, E. Maura

pag. 13

Which psychotherapy for depression? M.D. Fiaschi

pag. 31

APPUNTI DI VIAGGIO Variations of “distance” in the psychotherapeutic relationship

M. Briselli, P. Buonsanti, M. Devale, P. Gianotti, M. Moccafighe pag. 51

QUATTRO PASSI PER STRADA Handicap and anorexia a desperate will of life

P.F. Cerro, L. Pasero pag. 69

OLTRE… The professional and personal training of Prof. Giovanni Carlo

Zapparoli in Therapeutic Communities “La Redancia” M. Solari pag. 85

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Editoriale In questo numero della rivista i primi due articoli affrontano il tema dei disturbi depressivi sia dal punto di vista diagnostico e del trattamento psicofarmacologico sia da quello psicoterapeutico. Corsini e Maura facendo un aggiornamento della letteratura pongono due questioni cruciali del processo terapeutico psicofarmacologico nei disturbi depressivi: la correttezza dell’inquadramento diagnostico e della scelta del farmaco (le altre attengono quanto meno allo stile prescrittivo e alla qualità della relazione terapeutica). Le argomentazioni sviluppate dagli autori confermano le evidenze acquisite fino ad oggi in questo campo mettendo in evidenza risorse e limiti dei criteri diagnostici dei Disturbi dell’Umore e facendo luce sia sulle zone d’ombra del processo della diagnosi differenziale (ancora non risolte del tutto dai criteri del DSM-V) sia sui dubbi e sulle controversie emergenti nella scelta dei farmaci antidepressivi e degli stabilizzatori dell’umore (anticonvulsivanti, neurolettici atipici) da soli o in associazione tra di loro. Al termine del loro excursus Corsini e Maura formulano alcune proposte operative per il processo diagnostico differenziale e per l’appropriatezza dei percorsi terapeutici al fine di migliorare l’efficacia delle risorse, psicofarmacologiche e non, disponibili. Gli autori pongono infine l’accento su un’altra questione fondamentale per la prevenzione dei Disturbi dell’Umore: il loro riconoscimento precoce in età evolutiva e l’importanza ai fini prognostici del trattamento (con tutte le cautele del caso) in questi periodi cruciali sia sul versante psicologico per la strutturazione della personalità sia su quello patofisiologico per il rischio del kindling. L’articolo è di utile lettura anche per i medici di medicina generale e di altre specialità a cui infatti gli autori in alcuni passi si rivolgono. Sull’argomento del trattamento psicofarmacologico della Depressione in adolescenza segnalo un mio contributo in collaborazione con Repetti pubblicato nel 2006 sul N. 2 del Vol. XIV di questa rivista “Il trattamento psicofarmacologico dei disturbi depressivi in adolescenza. Attualità della ricerca scientifica e la centralità della relazione terapeutica in uno studio osservazionale prospettico”.

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Il contributo di Fiaschi si colloca utilmente a completamento della cura della Depressione rivolgendo la propria attenzione al versante psicologico e psicoterapeutico; in premessa l’autrice conferma ancora una volta il famoso verdetto di Dodo sulla mancanza di differenze significative nell’efficacia delle diverse forme di psicoterapia e sull’esistenza appunto di fattori curativi comuni (c.d. aspecifici) per le differenti tecniche psicoterapeutiche, e sottolinea altresì la necessità di personalizzare e rendere l’intervento tecnico adatto al singolo paziente. Per rispondere al quesito che si è posta − Quale psicoterapia per la depressione? − prende in considerazione due modelli psicoterapeutici per lei consueti: quello dell’integrazione funzionale di G.C. Zapparoli e quello dell’intervento breve focale di M.C. Gislon. Ripercorrendo le tappe di due esperienze psicoterapeutiche in situazioni depressive, l’autrice mostra al lettore i criteri su cui si fonda la tecnica psicoterapeutica integrata breve da lei adottata. In maniera sistematica mette in evidenza il protocollo su cui sviluppa l’alleanza terapeutica indispensabile e la formulazione del caso, estrapolando in ciascuna situazione esaminata il core conflictual relational theme, i fattori di rischio, i fattori protettivi e quelli di resilienza, per intervenire poi sui pensieri automatici e sugli assunti di base (sec. Beck) disfunzionali. L’isolamento del tema conflittuale centrale e la presa in carico del paziente in relazione a questo focus permette di produrre un’opportunità di rivitalizzazione di aree psicologiche rese bloccate dal conflitto, di creare in quei luoghi mentali uno spazio vitale per pensare e anche di recuperare una ragione di vita nel percorso di ri-mentalizzazione prodotto dalla relazione terapeutica. La seconda storia tocca in maniera emblematica questo punto mostrando come l’accompagnamento del terapeuta, la sua presenza e il recupero dell’autoriflessione rendono possibile il senso di esistere fino all’estremo limite della morte reale. È una lettura suggestiva di numerosi rimandi soprattutto riguardo ai trattamenti psicoterapeutici istituzionali (e non) “as usual”, che debbono poter integrare equipaggiamento tecnico e flessibilità riguardo ai bisogni del paziente, alle risorse e ai tempi disponibili. Il contributo del gruppo di lavoro della Comunità Terapeutica Redwest di Sanremo pone un tema di per sé fondamentale per l’operatore psichiatrico con formazione psicoterapeutica in contesti istituzionali.

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Si tratta della giusta distanza nella relazione terapeutica tra empatia e collusione; il gruppo svolge riflessioni cliniche su questo aspetto nei diversi ambiti del contesto terapeutico istituzionale esprimendo innanzi tutto un’autentica partecipazione emotiva al proprio lavoro che restituisce a chi legge il sentimento del gruppo di un desiderio formativo professionale e delle emozioni vissute nelle tappe di un percorso evolutivo/maturativo da questo punto di vista in progress. Un valore di questo contributo è la sua freschezza, quasi lo stupore di fronte agli stati d’animo che accompagnano il loro lavoro e che sappiamo lo punteggeranno sempre. Penso mentre leggo che la giusta distanza relazionale ha a che vedere con la funzione di rêverie del terapeuta, una funzione di sentimento e di comprensione che non risolve mai i problemi a monte ma necessita di sentire prima e di comprendere poi, nel momento in cui gli avvenimenti relazionali accadono. La giusta distanza si costruisce sul campo e la funzione di rêverie concorre a garantire che il coinvolgimento necessario e inevitabile non diventi collusione, o quando questo accade, e accade, si possa recuperare la comprensione in un secondo momento. L’accenno che gli autori fanno all’importanza del gruppo di lavoro nel breve paragrafo dedicato alla supervisione va in questa direzione: quando uno di noi è in difficoltà la presenza dei colleghi è salutare per rimettere in moto questa funzione. Questo contributo sollecita i ricordi formativi e le esperienze terapeutiche personali, le letture fatte, e soprattutto la storia della psicoterapia istituzionale in Italia; non possiamo non ricordare qui i contributi fondamentali degli psicoanalisti italiani che si sono occupati di psicoterapia istituzionale a orientamento psicoanalitico e hanno sviluppato un modo originale di intendere la prassi applicativa della psicoanalisi ai trattamenti istituzionali. Perché non ricordare pertanto “Quale psicoanalisi per le psicosi” e “Psicoanalisi e psichiatria” (due volumi editi da Cortina rispettivamente nel 1997 e nel 1999)? E i numerosi contributi di Carmelo Conforto? E infine anche un mio contributo, scritto con Vecchiato, “Fattori curativi di base strutturali e procedurali della psicoterapia istituzionale del paziente grave”, oggetto di una relazione ad una riunione scientifica tenutasi all'Istituto Superiore di Sanità e pubblicato nel 1998 sulla rivista Prospettive psicoanalitiche nel lavoro istituzionale. Per finire Cerro e Pasero ci portano la loro esperienza di trattamento di una giovane con Deficit Intellettivo Lieve e Disturbo del Comportamento Alimentare. Nel loro contributo ripercorrono la storia di questa persona e le tappe di un percorso

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terapeutico complesso e complicato, e mostrano il progressivo svilupparsi della relazione terapeutica e della comprensione del sintomo anoressico della giovane come donatore di senso della propria esistenza. Vengono riconosciute angosce di abbandono e di separazione, vissuti di non riconoscimento, bisogni di dipendenza, e tentativi manipolativi di recuperare accudimento. Gli autori sottolineano anche l’importanza della correttezza della diagnosi di DCA a fronte di usi impropri o troppo estensivi. Nel caso che loro ci propongono il Disturbo Alimentare sembra avere una caratteristica peculiare che è quella di una richiesta di aiuto seppur connotata da notevole ambivalenza e il modo con cui si esprime per certi versi richiama i disturbi fittizi; per non dimenticare infine che la comprensione della qualità di questo disturbo deve fare i conti da un lato con la ridotta capacità di simbolizzazione che il Deficit Intellettivo se pur lieve comporta e dall’altro con il sovrapporsi a tutto questo della fase evolutiva adolescenziale in cui la giovane si trova. Il cenno che gli autori fanno al DSM-V in tema di DCA sollecita a considerare per questa giovane − e a scopo meramente speculativo − oltre alle altre componenti diagnostiche occorrenti per la formulazione diagnostica completa del suo caso, un quesito: potrebbe essere preso in considerazione il disturbo Avoidant/Restriction food intake disorder? Lascio la risposta agli autori e ai lettori. Buona Lettura

Maurizio Marcenaro

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Tra prassi e teoria

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Giovanni Corsini, Emilio Maura

Bisogna usare i farmaci antidepressivi con i pazienti depressi? Una domanda non retorica e una risposta non scontata

“…Quello che voglio indietro è ciò che ero prima che il letto, prima che il coltello,

prima che la spilla e l’unguento mi inchiodassero in questa parentesi;

cavalli trascorrenti nel vento, un luogo, un tempo ormai lontano dalla mente”.

Sylvia Plath (La pagliuzza nell’occhio, 1959)

La Depressione, soprattutto per l’elevata prevalenza e per la frequente invalidità che può comportare rappresenta un problema indubbiamente importante per la medicina. I farmaci antidepressivi, soprattutto della generazione successiva a quella degli IMAO e ai triciclici sono apparsi una soluzione molto promettente per la maneggevolezza e per la relativa scarsità di effetti collaterali, attualmente sono senza dubbio largamente prescritti dai medici di famiglia oltre che dagli psichiatri e un po’ in tutto il mondo congressi e convegni sono stati organizzati per diffondere tra i medici di famiglia le conoscenze per riconoscere e trattare la Depressione.

Dirigente Medico DSM e Dipendenze ASL 3 Genovese − SPDC Osp. San Martino. Psichiatra.

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Tuttavia vi sono difficoltà, sia da parte del medico che del paziente, a far emergere la diagnosi di Depressione (Fornaro et al., 2001) e quindi probabilmente molti pazienti rimangono senza trattamento. Il medico, infatti, spesso non è stato sufficientemente preparato a valutare gli stati depressivi specie se si manifestano con equivalenti depressivi o in forma mascherata (Giberti, 1985). Oltre a ciò sovente non è stato formato per condurre un colloquio che mette in evidenza le variazioni dell’umore e ultimo, ma non ultimo, può non avere il tempo, anche mentale, di dedicarsi a queste patologie né la competenza per svolgere una terapia adeguata, per scelta di molecole e dosaggi e/o indirizzare ad un sostegno psicologico-psicoterapico. D’altra parte anche il paziente può avere difficoltà a percepire i propri Disturbi dell’Umore e ad accettare che gli stessi (spesso celati come dicevamo sopra da equivalenti e/o mascherature sintomatologiche) possano essere curati con farmaci. Accanto alla preoccupazione per la mancata diagnosi di Depressione negli ultimi anni è andata però diffondendosi nella pratica clinica e nella letteratura l’insoddisfazione e la delusione per molti casi non responsivi alla terapia con antidepressivi. È noto da tempo che nei trials di antidepressivi contro placebo, quest’ultimo determina una risposta molto elevata, seppure inferiore a quella del farmaco antidepressivo, con una differenza statisticamente significativa ma di piccola entità. È interessante notare che lo stesso trattamento con placebo non può essere considerato un trattamento “finto”, ma è comunque “un prendersi cura”, un segnale di cambiamento, un interessamento che viene percepito dal paziente e che innesca delle modificazioni metaboliche cerebrali, che le stesse tecniche di brain imaging hanno potuto documentare (Beauregard, 2009). Se la Depressione però è di grado moderato-severo l’effetto del farmaco si rivela nettamente più consistente rispetto al placebo (Fournier et al., 2010). Da ciò consegue che l’antidepressivo dovrebbe essere prescritto nelle diagnosi di Depressione almeno moderate e in

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quelle gravi, mentre nelle Depressioni Lievi, a nostro parere, come prima scelta dovrebbe essere evitato, e il paziente dovrebbe essere trattato con consigli e sostegno psicologico dal medico stesso, o inviato ad un trattamento psicoterapico. Per completezza dobbiamo aggiungere che un’obiezione a questa nostra dichiarazione potrebbe derivare dalla convinzione che una terapia con antidepressivi, a fronte di effetti collaterali solitamente lievi, garantirebbe comunque forse un effetto neurotrofico (Ladea & Bran, 2013) che potrebbe giustificare l’estensione della prescrizione di antidepressivi a pazienti depressi anche di gravità moderata. Ma il problema più importante per valutare l’opportunità e un’adeguata scelta della terapia antidepressiva è sicuramente la diagnosi del tipo di Depressione che si deve trattare. È essenziale ricostruire l’anamnesi per valutare la presenza di un Disturbo Bipolare e a questo fine è raccomandabile coinvolgere in ciò un familiare per informarsi se il paziente presenta fasi euforiche o subeuforiche o periodi in cui appare sopra le righe, più energico, insonne ma instancabile, logorroico con propensione a spendere e con interessi sessuali più accentuati… È sospettabile che la Depressione costituisca un episodio di un Disturbo Bipolare, quando è ricorrente, specie se in un soggetto caratterizzato da episodi più o meno prolungati di iperattività, o di labilità e mutevolezza dell’umore, quando siamo in presenza di una familiarità per il Disturbo Bipolare, o quando siamo davanti a sintomi psicotici o a idee suicidarie (Solomon et al., 2006), oppure vi sono sintomi atipici come ipersonnia o la cosiddetta paralisi plumbea (sensazione di pesantezza o di avere le gambe e le braccia di piombo) o vi è rallentamento motorio importante. Questi elementi, specie se concomitanti, sono campanelli d’allarme che dovrebbero condurre ad un’attenta valutazione diagnostica del caso e anche ad un più attento monitoraggio dell’evoluzione clinica da parte, preferibilmente, di uno specialista – esiste anche un questionario messo a punto per evidenziare un Disturbo Bipolare con domande mirate su periodi d’iperattività, spese, tendenza a parlare molto, maggior

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interesse per il sesso, per iniziative avventate… (The Mood Disorder Questionnaire; Hirschfeld, 2007) –. Nel trattamento del Disturbo Bipolare gli antidepressivi hanno infatti un ruolo controverso; è infatti accertato che in questi casi gli antidepressivi possono dimostrarsi inefficaci (Dudek et al., 2010) o anche dannosi, determinando instabilità dell’umore con accorciamento dei periodi intervallari di benessere, comparsa di stati misti e aumento degli episodi di Disturbo dell’Umore. Spesso proprio i pazienti che rispondono più rapidamente agli antidepressivi sono quelli che ricadono velocemente e si nota in costoro un’accelerazione dei cicli euforia/subeuforia e Depressione. Il trattamento di un paziente bipolare deve infatti prevedere quanto meno un’associazione di stabilizzatori dell’umore, antidepressivi e spesso antipsicotici atipici. A volte gli antidepressivi possono essere anche evitati. A favore dell’uso degli antidepressivi associati ad uno stabilizzatore dell’umore nella Depressione Bipolare, abbiamo una metanalisi (Gijsman, 2005), però la solidità di questa conclusione è limitata dall’avere escluso, per problemi metodologici, una precedente ricerca (Nemeroff et al., 2001), che confrontava in doppio cieco pazienti che assumevano paroxetina o imipramina o placebo in aggiunta al litio, e otteneva il risultato che l’associazione di litio e antidepressivo non superava l’associazione litio-placebo. Più recentemente anche lo studio STEP-BD (Sachs et al., 2007) non ha rivelato vantaggi nell’aggiunta di un antidepressivo ad uno stabilizzatore. Il problema in questo caso non è stato lo switch in mania, ridotto al 10%, quasi senza differenza tra i pazienti in cura con placebo o antidepressivo, ma l’efficacia: perché sia il placebo che l’antidepressivo associati entrambi ad uno stabilizzatore dell’umore (litio, valproato, carbamazepina), hanno dimostrato efficacia in un deludente 25%! Se spostiamo l’attenzione alla terapia di prevenzione nel Disturbo Bipolare, la maggioranza degli studi con antidepressivi triciclici da soli o in aggiunta al litio, aveva dimostrato una mancanza di beneficio

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dell’uso di antidepressivi. Uno studio più recente (Post et al., 2006; Leverich et al., 2006) ha paragonato venlafaxina, bupropione e sertralina in aggiunta ad uno stabilizzatore dell’umore per un anno. Tutti e tre questi farmaci risultavano efficaci nella fase acuta (percentuale di risposta dal 50-60%, basando il criterio di risposta su una riduzione del 50% della sintomatologia depressiva al secondo mese), ma sulla fase di mantenimento i dati si fanno molto più deludenti: solo il 15-25% dei pazienti in un anno non va incontro ad un nuovo episodio di Disturbo dell’Umore. Questo studio, in quanto privo di un braccio di controllo con placebo, non può portare a conclusioni sulla reale efficacia di questi farmaci, ma dà l’idea che i vantaggi che si possono ottenere con questi antidepressivi nella Depressione Bipolare, possono anche essere buoni nelle prime settimane di cura ma poi si perdono nel lungo tempo. Da notare che in questa ricerca si rilevavano più frequenti viraggi maniacali con la venlafaxina rispetto a bupropione e sertralina e questo conferma precedenti studi per i quali antidepressivi a più largo spettro neurotrasmettitoriale e con una componente noradrenergica, come appunto venlafaxina (e i triciclici), siano più inclini a causare un viraggio in mania dei farmaci super selettivi per la serotonina o debolmente dopaminergici. Una ricerca nell’ambito del programma STEP-BD, estesa ad una terapia di mantenimento per tre anni, ha dimostrato che l’associazione antidepressivo stabilizzatore nel mantenimento del Disturbo Bipolare, protegge da più rapide ricadute depressive ma non conduce ad un numero minore di episodi patologici di Disturbo dell’Umore né ad una minor gravità di essi mentre per un sottogruppo particolare, quello a cicli rapidi, si assisteva ad un peggioramento per aumento degli episodi depressivi (Ghaemi, 2007). Le indagini, che suggeriscono l’inefficacia o la relativa efficacia dei farmaci antidepressivi sulla Depressione Bipolare, sono ancora più stridenti con l’opinione prevalente se si pensa che troviamo un farmaco antipsicotico, la quetiapina, così efficacie nella Depressione Bipolare da

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poter entrare nelle linee guida, come molto raccomandato nella fase acuta della Depressione Bipolare (Yatham et al., 2009). È stato osservato che è possibile che molti dei casi con Depressione Bipolare trattati con successo con quetiapina, fossero in realtà con sintomi misti, cioè avessero sintomi maniacali ma in un numero inferiore a tre, il che consente con la classificazione del DSM-IV la diagnosi di Episodio Depressivo e non di Episodio Misto. Si può anche pensare che gli antidepressivi avrebbero sovente un risultato deludente sulla Depressione Bipolare perché questa sarebbe in realtà un Episodio Misto non diagnosticato, sempre perché i sintomi maniacali presenti sarebbero inferiori alla soglia di tre (Ghaemi, 2007). Ma questa soglia ci sembra del tutto arbitraria, sarebbe meglio valutare, infatti, come segni di Episodio Misto aspetti come l’agitazione, l’iperattività, la rabbia… Esistono comunque anche importanti studi che confermano l’opportunità della terapia antidepressiva nella Depressione Bipolare (Altshuler et al., 2003). In questa ricerca per un anno sono stati seguiti 84 soggetti che avevano ottenuto la remissione da un episodio di Depressione Bipolare con una terapia di associazione stabilizzatore dell’umore e antidepressivo, in 43 pazienti l’antidepressivo fu sospeso dopo sei mesi, negli altri 41 proseguito. Nel gruppo che sospese l’antidepressivo la ricaduta depressiva fu significativamente più precoce rispetto al gruppo che lo continuò e il rischio di un Episodio Maniacale non è stato maggiore nei pazienti che hanno proseguito l’antidepressivo. In definitiva appare che la scelta di una terapia antidepressiva nel Disturbo Bipolare deve tener conto dei rischi verso i quali in quel singolo paziente è più opportuno proteggersi: occorre quindi valutare la gravità della Depressione, la facilità ad innescare viraggi maniacali e induzione di cicli rapidi, per come può risultare nell’anamnesi, la gravità dei sintomi maniacali (Harel & Levkovitz, 2008). Anche nella Depressione Unipolare però si registra una certa delusione dall’uso di farmaci antidepressivi. Lo studio STEP-D che ha riguardato

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pazienti “del mondo reale”, cioè non ha escluso quelli con comorbilità, Depressioni Ricorrenti ecc., ha dimostrato una capacità di remissione con un SSRI, il citalopram, del 33%. Considerando anche i casi di semplice risposta (in cui la sintomatologia viene ridotta di almeno il 50%) si arriva al 50% di pazienti responder. È vero ed è consolante che cambiando antidepressivo o con strategie di augmentation si guadagna come responder un altro 50% di pazienti non responder al citalopram, e del rimanente non responder il 20% risponde ad un terzo tentativo con un triciclico o con un IMAO o al potenziamento con litio, ma i dati veramente deludenti vengono dopo un anno di terapia: quando si è verificato che i soggetti di questo studio che avevano mostrato remissione o per lo meno avevano risposto al trattamento solo nella metà dei casi stavano ancora bene o mantenevano la risposta. In pratica, dopo un anno di terapia, solo un quarto dei pazienti entrati nello studio mostravano di avere beneficio dal trattamento (Rush et al., 2006; Ghaemi, 2008). Una metanalisi sugli studi di trattamento di lunga durata con antidepressivi ha documentato che nel periodo molto lungo (dieci anni) è difficile avere certezze sul beneficio di terapie antidepressive di mantenimento (Hughes & Cohen, 2009). In uno studio con venlafaxina (Keller et al., 2007) abbiamo 1.096 soggetti che furono inizialmente randomizzati a venlafaxina vs fluoxetina e di questi il 65% (715) ebbe una risposta clinica nella fase acuta. Questi 715 continuarono per sei mesi con lo stesso farmaco con cui erano stati trattati nella fase acuta, dopo sei mesi poteva essere considerato responder il 35,9%, cioè 258 su 715; di questi 258 (circa la metà) era ancora responder dopo 18 mesi, ma questo dato corrisponde al solo 18% dei pazienti entrati originariamente nello studio. Effettivamente il 92% di questo ridotto 18% sarà ancora responder dopo un secondo anno e siamo quindi autorizzati a pensare che solo a questo piccolo gruppo l’antidepressivo (in questo caso venlafaxina) faccia molto bene. (Ghaemi, 2008).

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Forse a questo punto medici di medicina generale e psichiatri dovrebbero ripensare alla diagnosi di Depressione, che non può innescare un automatismo alla prescrizione di antidepressivi. Probabilmente vanno ripensate le antiche distinzioni che l’uso della diagnosi troppo frequente di Depressione Maggiore ci ha portato a dimenticare. Ghaemi (2008) ha suggerito il recupero del concetto (se non della dicitura) di Depressione Nevrotica: quei casi cioè di depressione prolungata, nella pratica almeno sei mesi, simile alla tristezza accompagnata da ansia o sintomi somatici (forse più ansia che tristezza), con un alto grado di sensibilità/vulnerabilità ai fattori di stress psicosociale. Si tratta di quadri più cronici che episodici e che probabilmente rispondono poco agli antidepressivi. Un’evenienza episodica della Depressione senza aspetti misti, senza caratteristiche premorbose di temperamento ciclotimico, è probabilmente il caso della miglior risposta ai farmaci antidepressivi. Quest’acquisizione legata alla clinica tradizionale ha ancora la sua validità, in attesa che in un futuro non troppo lontano, la ricerca ci consegnerà strumenti consolidati per riconoscere la predittività dei trattamenti attraverso tecniche ad esempio di brain imaging (Liao et al., 2013), o elettrofisiologiche (Rentzsch et al., 2013). La terapia di mantenimento prolungata è probabilmente da riservare a quei casi di particolare gravità e con tendenza alla recidiva, e benché sostenuta da studi in ambito specialistico, non sembra possa essere garantita da un sostegno basato sulle evidenze nella Depressione usualmente trattata nella medicina generale (Piek et al., 2010). Quando invece nella biografia del paziente siamo davanti ad un ripetersi particolarmente frequente di episodi depressivi unipolari, è opportuno pensare ad una Depressione Ricorrente (figura ancora mal definita nella nosografia attuale), probabilmente in qualche modo simile al Disturbo Bipolare o che per lo meno sembra giovarsi dell’associazione antidepressivo con litio (Coppen et al., 1983; Kupfer et al., 1975), strategia terapeutica promettente anche se ancora non

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pienamente chiarita (Cipriani et al., 2006; Lepkifker et al., 2007; Bschor et al., 2013). Accenniamo infine e brevemente alle note polemiche sul rischio suicidario indotto da farmaci antidepressivi. Tra il 2003 e il 2004 la FDA emise vari warning contro l’uso degli SSRI e degli antidepressivi perché avrebbero dimostrato la possibilità di aumentare il rischio d’idee e comportamenti suicidari nell’età pediatrica e adolescenziale. La FDA disponeva che in caso di prescrizione di antidepressivo a un minore, questo dovesse essere controllato settimanalmente dal medico nelle prime quattro settimane. Queste misure, successive anche al rinvenimento di ricerche che le case farmaceutiche avevano condotto e non pubblicato, hanno promosso una nuova ondata di ricerca sul rapporto farmaci antidepressivi-suicidio. È emerso che tutti gli antidepressivi sembrano avere un piccolo rischio di pensieri suicidari e tentativo di suicidio in soggetti sotto i 25 anni, mentre sopra i 30-40 anni questo rischio si riduce (Moller et al., 2008). Deve comunque essere sottolineato che specie nel primo mese di trattamento con antidepressivi è sempre possibile un piccolo ma significativo aumento dei pensieri suicidari (Jick et al., 2004), per cui è soprattutto in questo periodo che questo rischio dev’essere valutato e monitorato, prendendo in considerazione per i casi più gravi l’ospedalizzazione e la scelta di farmaci meno tossici e la prescrizione di minori quantitativi. Bisogna ricordare che dopo la pubblicazione dell’ammonimento della FDA del 2003 (seguita dalle Autorità Regolatorie Europee) contro l’uso degli antidepressivi nella fascia d’età sotto i 18 anni, in alcuni paesi come negli stessi USA, in Olanda (Gibbons et al., 2007), e in Canada (Katz et al., 2008) si è registrata una marcata diminuzione delle prescrizioni di antidepressivi ai minori e contemporaneamente un aumento dei suicidi nell’età pediatrica-giovanile. Questo dato potrebbe essere in relazione anche con un mancato sviluppo di offerta di terapie psicologiche alternative alla farmacoterapia, ma ci riporta all’attenzione che il rischio suicidario è inerente alla malattia della Depressione.

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La nostra personale opinione è che in molti casi di Depressione in età giovanile sia facile omettere una diagnosi di Disturbo Bipolare per la difficoltà di riconoscere nell’anamnesi i periodi di umore maniacale, perché brevi, perché caratterizzati da disforia, irritabilità, rabbia, sintomi attribuibili a generiche sofferenze adolescenziali; in questi casi un trattamento con antidepressivi può precipitare in uno stato misto con facile passaggio all’atto suicidario, per cui la pericolosità del trattamento con antidepressivi è insita più nella diagnosi del medico che nel farmaco e quindi è sbagliato escludere radicalmente, e sempre, il trattamento con farmaci antidepressivi nell’età minore. Vogliamo ancora ricordare che il principale presidio farmacologico che oggi abbiamo a disposizione nella prevenzione del rischio suicidario nella Depressione Bipolare ma anche Unipolare è il litio, specie in quelle situazioni di Depressione Ricorrente con disforia, irritabilità, impulsività, rabbia (Tondo & Baldessarini, 2009). In conclusione, volendo riassumere dei suggerimenti in presenza di sintomi depressivi, si consiglia:

1) evitare l’uso di farmaci antidepressivi, almeno in prima battuta, nelle Depressioni Lievi, indicando piuttosto trattamenti psicoeducativi, psicologici, problem solving, psicoterapia;

2) assicurarsi che non si tratti di un paziente affetto da Disturbo

Bipolare (anamnesi con un familiare); nel caso di un Disturbo Bipolare, o nel sospetto di un tale disturbo, è consigliabile l’invio allo specialista e comunque l’uso degli antidepressivi dovrebbe essere evitato in monoterapia e dovrebbe essere affiancato da uno stabilizzatore dell’umore, e probabilmente in molti casi evitato nella terapia di mantenimento;

3) l’invio ad uno specialista o al Servizio di Salute Mentale appare

consigliabile oltre che nei casi di Disturbo Bipolare (accertati o

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sospetti) e nei casi di persistenza della sintomatologia depressiva anche a un livello modesto (sottosoglia), nei casi di risposta insufficiente alla terapia iniziale praticata, in presenza d’idee di suicidio o di sintomi psicotici, o di sintomi depressivi gravi, o d’importanti comorbilità, e di gravi problemi sociali (problemi familiari, economici, d’isolamento e solitudine);

4) nel corso di depressione unipolare di grado almeno moderato gli

episodi dovrebbero essere trattati con antidepressivi per otto-dodici settimane, in caso di risposta dovrebbe seguire una terapia di continuazione per sedici-venti settimane (alle stesse dosi che hanno ottenuto la risposta nella fase acuta). La terapia ulteriore di prevenzione dovrebbe essere praticata solo nei casi di recidiva. Ricordiamo che la sospensione degli SSRI dev’essere graduale, con riduzione progressiva del dosaggio nel corso di almeno due settimane, ma a volte con tempi anche molto più lunghi nei casi di composti ad emivita breve (paroxetina), e nei casi di prolungata terapia alle spalle, per evitare la sintomatologia da sospensione. Nelle forme “nevrotiche” croniche è opportuna la scelta di una psicoterapia in associazione con l’antidepressivo, ma riteniamo probabile sulla scorta di una crescente letteratura e della nostra esperienza, che forme d’aiuto psicosociale-psicoterapico possano giovare sempre alla prognosi dei Disturbi Affettivi: trattare questo argomento, i vari approcci psicoterapeutici e i confronti fra essi è oltre i limiti di questo lavoro. Nelle forme depressive unipolari particolarmente ricorrenti sarà opportuno valutare l’associazione con litio, in un ambito specialistico.

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RIASSUNTO Alcuni studi hanno stimolato dubbi circa il beneficio di antidepressivi

in Depressione Maggiore. Come è noto, in generale, l’efficacia degli

antidepressivi vs placebo è più evidente nelle forme di Depressione, di

Depressione Moderata-Grave, mentre il vantaggio di antidepressivi sul

placebo diminuisce nelle forme più lievi. Probabilmente l’approccio più

appropriato per il trattamento, piuttosto che differenziare la

Depressione per gravità, è capire le distinzioni nel campo della

definizione di Depressione Maggiore che è troppo generica e allargata e

finisce per coprire distinzioni nosografiche. Sicuramente discutibile è

l’uso di antidepressivi nella Depressione Bipolare e di certo la

Depressione Episodica e Unipolare è la forma che risponde meglio al

trattamento con antidepressivi. È più problematico invece il

trattamento delle forme unipolari ricorrenti in cui si potrebbe pensare

al litio, tratto dal repertorio di trattamenti per le forme bipolari.

Difficili da trattare con antidepressivi appaiono anche quelle forme che

in passato sono state chiamate Nevrotiche. Non è ancora chiarito in

dettaglio il ruolo della terapia con antidepressivi a lungo termine. Gli

autori esaminano poi brevemente il problema del rapporto tra

antidepressivi e suicidio e cercano di fornire una guida pratica per l’uso

di antidepressivi e l’invio da parte del medico di medicina generale allo

psichiatra specialista.

PAROLE CHIAVE Antidepressivi, Depressione Bipolare, Depressione, Depressione Maggiore, Depressione Nevrotica, suicidio.

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SUMMARY Some studies have stimulated doubts about the benefit of antidepressants in major depression. It’s known that, in general, the effectiveness of antidepressants vs placebo is more evident in moderate-severe depression, while the superiority of antidepressants on placebo decreases in milder forms. Probably the most appropriate approach for treatment is not based only on depression's severity; furthermore the definition of major depression is too general and enlarged and includes different nosographic forms. Certainly the use of antidepressants in bipolar depression is questionable, and the episodic and unipolar depression responds better than the other forms. A hard problem is the treatment of recurrent unipolar forms: a possible treatment is lithium, considering the repertoire of treatments for bipolar disorder. An other form that appears difficult to treat with antidepressant was called, in the past, neurotic depression; it might be useful to recover this concept. It is still unclear the role of antidepressants in the long term. The authors will examine briefly the problem of the relationship between antidepressants and suicide, and will provide a practical guidance about the use of antidepressants and about cooperation between general practitioners and psychiatrists. KEY WORDS Antidepressants, Bipolar Depression, Depression, Major Depression, Nevrotic Depression, suicide.

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Mara Donatella Fiaschi

Quale psicoterapia per la depressione?

Nell’affrontare l’argomento relativo a quale tipo d’intervento psicologico o psicoterapia per i Disturbi dell’Umore, dalle forme più lievi a quelle medio gravi, dobbiamo fare una breve premessa. È importante sottolineare che, come numerose ricerche hanno messo in evidenza, non vi sono differenze significative sia dal punto di vista teorico, che della durata e frequenza delle sedute, tra le diverse forme di psicoterapia e tra le terapie brevi e quelle a lungo termine (Smith et al., 1980; Shapiro & Shapiro, 1982; Lambert & Bergin, 1994). Secondo i numerosi studi in materia sembra che vi sia un’equivalenza fra i diversi modelli psicoterapici (Lampropoulos, 2000) e che i fattori curativi risiedano nella presenza di elementi comuni implicitamente presenti in ogni psicoterapia: non sarebbe precipuamente il modello di riferimento a fare la differenza, quanto piuttosto alcuni elementi che risultano diffusi nella prassi clinica (Castonguay, 2000). Occorre precisare che non vi è un accordo pieno sul numero, sulla definizione e sul tipo di fattori comuni che sarebbero responsabili del processo terapeutico (Lampropoulos, 2000). Inoltre, se è vero che ogni terapia ha elementi comuni con le altre terapie, non tutte agiscono allo stesso modo, ma ognuno offre un contributo unico, che può anche divenire complementare ad altri contributi. Da questi studi si evidenzia che nessuna forma di psicoterapia si è dimostrata valida per qualsiasi categoria di pazienti e per dirla con le parole di un autorevole psicoanalista possiamo affermare che “non è il paziente a doversi adattare a un modello psicoterapico precostituito, ma il contrario” (Zapparoli, 2009).

Dirigente Psicologo DSM e Dipendenze ASL 3 Genovese − SPDC Osp. San Martino.

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Tuttavia bisogna rilevare che l’argomento è di tale ampiezza e interesse che occorre limitarne il campo di studio, approfondendo il modello di psicoterapia che meglio conosciamo e che utilizziamo nella nostra attività psicoterapeutica. Dopo brevi considerazioni preliminari, si farà riferimento a due esperienze cliniche, descrivendo alcuni presupposti teorici che fanno capo al modello dell’integrazione funzionale di Giovanni Carlo Zapparoli e alla psicoterapia focale integrata di Maria Clotilde Gislon. Se per la scelta della farmacoterapia è necessaria un’accurata diagnosi del tipo di Depressione, anche per la scelta dell’approccio psicoterapico più indicato per il paziente depresso dobbiamo tenere conto non solo della gravità della diagnosi ma anche in che misura il paziente vuole, si aspetta ed è in grado di modificare il proprio comportamento e raggiungere un cambiamento, sulla base del suo funzionamento mentale, delle sue risorse e dei suoi deficit (Gislon, 2004). La tecnica di trattamento che scegliamo dipende quindi da quale o quali sono gli aspetti del complesso funzionamento psichico di quel paziente che vogliamo curare. L’esperienza della psicoterapia integrata insegna che due diversi tipi di terapia possono essere usati contemporaneamente o in sequenza, per raggiungere effetti migliori. Il modello d’intervento psicoterapico proposto si definisce integrato in quanto le sue basi concettuali comprendono le teorie freudiane e post-freudiane, la teoria cognitiva-comportamentale di Beck (1984), il contributo delle teorie evolutive e del ciclo di vita e la teoria dell’integrazione funzionale di Zapparoli (1985, 2008, 2009). Prendendo a prestito il concetto di continuum della psicopatologia (Winston A. & B. 2002; Winston A. et al., 2004), questo modello si rivolge a due principali popolazioni di utenti (Gislon, 2005):

- pazienti con disturbi psicopatologici più gravi, ossia le condizioni psicotiche e borderline nel capo sinistro di un’ipotetica linea, e all’altro capo destro quello dei soggetti che presentano un migliore funzionamento mentale, quali pazienti con diagnosi di

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Disturbo Dipendente, Evitante, Ossessivo, Distimico, Disturbo di Panico e di Adattamento, Depressione Lieve;

- nell’area intermedia si situano quei pazienti il cui adattamento e comportamento è disomogeneo, quali i Disturbi Narcisistici, Depressione Media, Ipocondria.

Nel presente lavoro si farà riferimento più specificatamente, attraverso l’esemplificazione di due casi clinici, al modello della psicoterapia breve integrata che si rivolge ai pazienti che appartengono all’area media (caso di Liliana, Depressione Media) e al lato destro del continuum (caso di Cinzia, Depressione Lieve). La caratteristica principale di questo modello è l’intervento a carattere focale, ossia l’individuazione di un focus o problema significativo identificato, la risoluzione del quale aiuta il paziente a raggiungere la finalità desiderata. Lo scopo dell’intervento psicoterapeutico è quello d’individuare interventi differenziati volti a modificare i fattori che ostacolano il percorso evolutivo. La prospettiva evolutiva è utile per identificare i fattori e i processi che possono determinare crisi normative nel corso dello sviluppo che ha luogo durante tutta l’esistenza, senza la mediazione terapeutica. Il modello psicoanalitico per individuare il conflitto intrapsichico che ostacola il superamento della crisi evolutiva e il modello cognitivo per individuare la disfunzione cognitiva che agisce anch’essa come ostacolo al superamento della crisi. Dal punto di vista metodologico i due modelli forniscono le tecniche più adatte al paziente al fine di unire brevità ed efficacia dell’intervento. Questa forma di psicoterapia è dunque indicata per quei pazienti in grado di collegare l’origine della loro sofferenza con problematiche intrapsichiche e interpersonali, dotati di capacità autoriflessive e sufficientemente motivati al cambiamento e alla risoluzione del proprio stato di sofferenza (Gislon, 2005; Gislon et al., 2010). A conferma della nostra esperienza anche altri autori (Fosha, 2004; Goldfried, 1991, 1999; Ramsay, 2001) sostengono che ogni

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psicoterapia che produce dei risultati positivi è integrata o integrativa, in modo da rispettare e rispecchiare la complessità dell’essere umano. Il modello psicoterapico utilizzato nei trattamenti che verranno presentati è stato sviluppato come già espresso a partire dal modello dell’integrazione funzionale di Zapparoli, tra i più conosciuti, discussi, ma anche tra i più diffusi nell’istituzione psichiatrica italiana. Questo modello si è sviluppato nell’arco di quarant’anni ed è nato dall’analisi della specificità e molteplicità dei bisogni del paziente psicotico e della conseguente necessità di attuare interventi diversificati a livello farmaco-terapeutico, psicoterapeutico e assistenziale-riabilitativo. Zapparoli insisteva molto sull’importanza della diagnosi basata sui bisogni specifici del paziente, finalizzata a costruire un’alleanza terapeutica quale condizione indispensabile per scegliere il trattamento più efficace per quel paziente in quel determinato momento. Oltre alle potenzialità evolutive il terapeuta deve dedicare grande attenzione alle resistenze al cambiamento, per comprendere se il potenziale paziente è in grado di capitalizzare l’aiuto, ed è la comprensione delle resistenze al cambiamento uno dei più importanti mezzi per capire come favorire la strutturazione dell’alleanza terapeutica (Zapparoli, 2009). Tale modello è stato arricchito nel corso degli anni con nuove e preziose intuizioni contenute in testi più recenti rispetto ai testi più conosciuti tra i quali: La psicoanalisi del delirio (1967), La follia e l’intermediario (2002), La Diagnosi (2004), Psicopatologia grave, una guida al trattamento (2008). Si sottolinea che le basi concettuali e la metodologia della tecnica presentata nei due casi affondano le loro radici nell’insegnamento di Zapparoli e sono state applicate alla strutturazione dell’intervento breve e focale integrato da Gislon unitamente all’apporto della prospettiva evolutiva e dei dati relativi alla resilienza. Per una migliore comprensione del modello di psicoterapia utilizzato, al termine della presentazione di ciascun caso, saranno evidenziate alcune tra le principali concettualizzazioni e tecniche psicoterapiche relative all’insegnamento di Zapparoli e Gislon.

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Primo caso Problemi e sintomi di presentazione Cinzia, ventisei anni, viene inviata dal medico con il quale sta preparando la tesi in biologia. Le manca un esame alla laurea. Dall’inverno appena trascorso lamenta un calo nello studio, avrebbe voluto laurearsi in primavera ma non è riuscita per uno stato di apatia, di preoccupazione e di ansia: “sono un soggetto che si sposa bene con l’ansia”. Si sente in colpa e si vergogna per non essersi laureata nei tempi previsti. Lamenta inoltre umore depresso, inattività e difficoltà di concentrazione. Descrive insonnia con risveglio precoce che motiva per la paura di non svegliarsi in tempo e di sottrarre ulteriore tempo allo studio. In passato riusciva a gestire i suoi stati d’animo con una sorta di auto convincimento e con qualche goccia di valeriana. Dalla valutazione dei fattori di resilienza di questa paziente emerge fin dal primo colloquio che Cinzia nei periodi di crisi si è sempre potuta appoggiare alla zia medico e al fidanzato con il quale ha un rapporto solido. Storia di vita Cinzia vive con i genitori ed è figlia unica. Dopo aver provato i test d’ingresso alla facoltà di Medicina, ha scelto e frequentato con interesse e soddisfazione gli studi universitari in Biologia. La madre è ipovedente (soffre di una forma di maculopatia retinica) bisognosa di accudimento, al quale provvedono la paziente e il padre, architetto in pensione. I nonni, materni e paterni, sono deceduti da qualche tempo. La paziente non parla molto con i genitori e afferma di avere problemi con la mamma “come tutte le femmine”. A proposito del rapporto con la mamma dice che non si sente sostenuta perché non è una figura dalla quale trae sicurezza. Con il papà riesce a confrontarsi ed è percepito

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dalla paziente come una figura più forte. Si sente spesso limitata nella sua libertà dai bisogni della mamma che aumentano con gli anni, per via della malattia che è di tipo degenerativo. Cinzia riferisce di essere stata discretamente bene durante il periodo, circa venti giorni, nel quale i genitori si erano assentati in occasione di una vacanza all’estero. È fidanzata da un anno e mezzo con un ragazzo più grande di lei. Focus e tecniche d’intervento Cinzia fa fatica ad autonomizzarsi da una madre bisognosa di cure e attenzioni per un conflitto tra bisogni di dipendenza e protezione e bisogni di emancipazione e crescita emotiva. I bisogni reali di assistenza della madre “oscurano” i suoi bisogni di dipendenza ed emancipazione. Cinzia riconosce sentimenti di “ambivalenza” nei confronti della madre, rabbia e pena, i ruoli sono rovesciati. Il conflitto d’individuazione-separazione si manifesta con il blocco negli studi e rappresenta l’ostacolo che interrompe il suo percorso fisiologico di crescita. L’esperienza di ascolto empatico, il riconoscimento dei suoi bisogni di autonomia e di emancipazione favoriscono l’instaurarsi di una esperienza emotiva correttiva che insieme all’interpretazione del conflitto intrapsichico mobilitano in breve tempo (come succede spesso nelle terapie brevi sia psicodinamiche che cognitive) le risorse e la ripresa degli studi con la riduzione dei sintomi con i quali la paziente era stata inviata. Fattori di rischio

- nucleo familiare ristretto; - handicap della madre.

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Fattori di protezione

- insight; - motivazione al cambiamento.

Dopo poche sedute (tre) la situazione degli studi si sblocca in concomitanza all’elaborazione del focus. Dopo l’espletamento dell’ultimo esame Cinzia si concentra sulla preparazione della tesi e si laurea nei tempi programmati. I rapporti con la madre sono più distesi. Cinzia vede la mamma più serena e più “attiva” e questo cambiamento nella madre consente alla paziente di riconoscere e rispettare i suoi bisogni e nello stesso tempo accettare l’invalidità e quindi i bisogni della madre. Follow-up dopo tre mesi È confermato il miglioramento nei rapporti con i genitori. Ha trovato un lavoro di sostituzione per una maternità in un importante Istituto Scientifico. Cinzia considera l’esperienza lavorativa più faticosa dello studio ma più “emancipante”. Da quando lavora, va a dormire sempre più spesso dal fidanzato. La paziente ha occasione in questa seduta di follow-up di riflettere sul fatto che l’esperienza lavorativa e l’autonomia economica sono tutori di resilienza (nell’accezione usata da Boris Cyrulnik, neuropsichiatra e psicoanalista francese), perché si sente legittimata nell’allontanamento da casa.

Numero sedute: sei. In questo primo caso segnaliamo l’importanza che nel modello di Zapparoli, sia per i casi di psicopatologia grave che per quelli di patologia minore, è attribuita alla diagnosi dei bisogni che risponde alla domanda di che cosa ha paura il paziente e da che cosa si difende.

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Cinzia ha paura della sua aggressività non costruttiva vissuta in termini di rabbia e si difende dai sensi di colpa provati nei confronti della madre malata e bisognosa di cure. Questa valutazione insieme ai punti di forza e di vulnerabilità è utile per individuare il focus centrale, finalizzato alla comprensione del blocco evolutivo, nel processo emancipativo e di crescita di questa paziente. Secondo caso Liliana cinquantanove anni. La prima volta che incontrai Liliana fu nell’aprile del 2007, inviata dall’allergologo per un problema di orticaria che la paziente attribuiva ad un effetto conseguente al ciclo di chemioterapia somministratole per un tumore all’utero. Mi riferì di essere stata sottoposta nei cinque anni precedenti all’asportazione dell’utero e delle ovaie per un tumore. Nel gennaio 2006 subì un altro intervento per una recidiva al colon, seguì a luglio chemioterapia. Sia l’oncologo sia il dermatologo che la seguirono esclusero che il disturbo da lei riferito dipendesse dal ciclo di chemioterapia e la inviarono dall’allergologo che oltre a sottoporla a dei test allergologici, me la inviò in consulenza. Dal primo colloquio si delineò un quadro di sintomatologia depressiva reattiva alla situazione fisica e di lutto, ancora attuale, per la separazione dal marito avvenuta dieci anni prima. Storia di vita Già dalle prime battute del colloquio emerse una vita costellata da patologie somatiche successive alla separazione dal marito avvenuta nel 1996. La paziente dopo pochi anni dalla separazione, molto sofferta, “si ammalò di cuore”, ebbe un infarto.

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Liliana sembrava non aver elaborato la separazione dal marito che rappresentava, anche a distanza di tanti anni, una ferita subita, poiché fu il marito a lasciarla per un’altra donna. Raccontò che si era sposata dopo essersi laureata in lingue e dopo poco tempo era nata la sua unica figlia di trentun anni che vive e lavora a Milano. La paziente originaria dell’Emilia Romagna, dopo essersi laureata, iniziò ad insegnare inglese e si trasferì a Genova per seguire il marito. La sua famiglia di origine, le tre sorelle e i genitori rimasero in Emilia Romagna. Dall’anamnesi risultò una familiarità per patologia oncologica poiché sia una sorella che il padre erano deceduti per un tumore. Mentre nel periodo doloroso della separazione la paziente non chiese alcun aiuto, quando si ammalò di tumore, sviluppò una sintomatologia depressiva e un’amica l’accompagnò da uno specialista psichiatra che le prescrisse una terapia antidepressiva e le fornì un supporto psicoterapico, dai quali la paziente trasse beneficio. Mi disse che ora non aveva più paura della malattia, “non me ne frega più niente”. Appariva piuttosto arrabbiata e delusa nei confronti dei medici che non l’avevano saputa proteggere dal rischio di una recidiva. Cominciai a pensare che il sintomo dermatologico poteva inquadrarsi in questo contesto depressivo-reattivo. Tuttavia i sentimenti di rabbia e di delusione sembravano sentimenti caratteristici della sua personalità che avevo riconosciuto nella gestione del lutto coniugale e nel rapporto con la figlia che mi apparve da subito molto conflittuale. Fattori di resilienza

- Ambizione e desiderio di riscatto sociale;

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- relazioni sociali significative (con ex colleghe di lavoro, ex alunni).

Fattori di vulnerabilità

- Rigidità caratteriale e tendenza al pessimismo; - scarso sostegno parentale.

Focus e tecniche d’intervento Mi domandai fin da subito come potevo aiutare questa paziente, che non aveva chiesto volontariamente il mio aiuto, ma che manifestava chiare aree di sofferenza somatica e psichica. Durante i colloqui la paziente piangeva, si arrabbiava, si sentiva sola e percepiva, trasmettendomi una scarsa volontà di approfondire, la precarietà della sua vita. Era tormentata dalla rabbia e delusione nei confronti del marito che l’aveva abbandonata, del tumore che si era ripresentato e della figlia che era andata via e aveva deciso di fare scelte diverse da quelle che lei avrebbe voluto. Nonostante le diverse aree emerse, decisi di approfondire il focus nel quale la paziente mi sembrava disposta a lavorare e che in qualche modo sembrava premerle di più, il conflitto tra la figlia ideale e la figlia reale. L’obiettivo che mi prefissai fin da subito fu quello di svolgere una mediazione tra questi due poli. La paziente non accettava che la figlia pur essendosi laureata in architettura svolgesse un lavoro impiegatizio che non la ripagava, a suo giudizio, degli sforzi compiuti. Il ragazzo che si era scelta non era all’altezza e veniva descritto come un opportunista che la plagiava e mirava ad acquistare una casa con il suo contributo. Era criticata anche la scelta della figlia di convivere e di non sposarsi con il ragazzo. Inoltre Liliana non accettava che Sara mantenesse un buon rapporto con il padre, giudicava ciò una sorta di tradimento. Emergeva il quadro

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di una figlia “sbagliata”, non rispondente alle sue aspettative. La paziente non era in grado di vedere le risorse di questa figlia che anche lei aveva contribuito a sviluppare, come non era abbastanza consapevole dei suoi meriti di madre. Liliana, cresciuta in una famiglia descritta come poco accogliente sul piano emotivo e con poche risorse economiche, era riuscita con le sue forze e la sua determinazione a laurearsi e svolgere un lavoro che tuttora le dava grande soddisfazione. La sua casa era frequentata quotidianamente, pur essendo prepensionata per motivi di salute, da giovani ai quali impartiva ripetizioni d’inglese. L’interpretazione del conflitto intrapsichico e il lavoro di consapevolezza degli elementi descritti avevano contribuito a rendere la paziente più serena e fiduciosa anche nei confronti della malattia. In questo percorso di riavvicinamento alla figlia le avevo suggerito di scrivere emozioni e sentimenti provati nel corso della settimana. Questo suggerimento aveva portato la paziente a scrivere una bella lettera alla figlia nella quale era stata capace di esprimere parole e sentimenti che non riusciva a comunicare a voce o di persona. Dopo pochi mesi dal nostro primo incontro la paziente arrivò allarmata poiché gli esami clinici relativi al tumore erano alterati. Le ulteriori indagini evidenziarono la presenza di un’altra recidiva a livello intestinale. La paziente era spaventata, mi disse che non aveva paura di morire ma aveva paura di affrontare da sola questo momento. Le dissi che avrei continuato a seguirla finché ne avesse avuto bisogno e tacitamente concordammo un accompagnamento fino alla fine della sua vita. Liliana fin da subito mi apparve non completamente disponibile ad elaborare le reali paure di morte che la recidiva del tumore le suscitava, mi chiedeva di muovermi cautamente nell’elaborazione del limite rappresentato dalla prevedibile fine della sua vita. Il focus sul presente fu occupato, fino a che le sue condizioni fisiche lo consentirono, nel proseguimento della conciliazione con la figlia.

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Il tentativo del chirurgo di rimuovere la massa tumorale fallì. La figlia, chiese al personale medico di comunicare parzialmente l’esito dell’intervento alla madre. La paziente si sentì presa in giro e mi espresse rabbia e delusione nei confronti del chirurgo che non le aveva parlato con chiarezza. La figlia, l’oncologa, il chirurgo ed anche la sottoscritta cogliemmo l’ambivalenza della paziente nella conoscenza completa della situazione. Pur non convinta della decisione di non informare la paziente del quadro prognosticamente sfavorevole, mi adeguai alla volontà della figlia. Durante la terapia mi ero dichiarata disponibile a parlare con lei. Quest’attivismo, non consueto nella mia pratica clinica, era forse indotto dalla consapevolezza che il tempo a disposizione, anche per una terapia focale, non fosse sufficiente. Gli eventi della malattia somatica di Liliana ci avevano fatto incontrare. Fu la figlia a chiedermi di potermi parlare. Era una ragazza graziosa, dai bei modi, preoccupata per la sorte della madre, ma allo stesso tempo rammaricata dalla consapevolezza di non essere completamente accettata. Il rapporto conflittuale rendeva la situazione più difficile. La figlia aveva chiesto un mio consiglio sull’opportunità di comunicare alla madre il suo stato di gravidanza. La ragazza temeva, ciò che poi si avverò, che la madre non accettasse la sua condizione. Le consigliai di attendere un poco e mi dichiarai disponibile nel caso avesse avuto bisogno di parlarmi. Informai la paziente del colloquio avvenuto e della disponibilità telefonica data alla figlia. Sara che si rivelò come la madre poco flessibile e comprensiva nei confronti delle caratteristiche della madre, scelse forse il metodo meno indicato per comunicare la sua gravidanza portando in visione alla madre l’ecografia della bambina che aveva in grembo. In una sorta di acting out indusse la risposta che temeva, cioè la disapprovazione e la chiusura al dialogo da parte della madre. Dopo l’intervento chirurgico Liliana si recava da me nonostante i dolori. Sembrava aggrappata allo spazio di riflessione che le offrivo che si connotava sempre di più come spazio d’intermediazione tra la

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ribellione e la resa alla malattia, tra la vita e l’ineluttabilità della morte, tra l’onnipotenza e l’impotenza del chirurgo, dell’oncologo, dello psicoterapeuta, tra l’accettazione e non accettazione della figlia e della sua scelta di diventare madre… Liliana nella ricerca di uno spiraglio di miglioramento delle sue condizioni fisiche insistette per cercare un chirurgo che riprovasse ciò che il primo non era riuscito a fare. Non ci fu il tempo per un secondo intervento poiché fu sottoposta, d’urgenza, ad un intervento palliativo per via di un’occlusione intestinale che subentrò nel frattempo. Ebbi un ulteriore colloquio telefonico con la figlia negli ultimi giorni di vita di Liliana. La situazione fu complicata dal fatto che la figlia non poté recarsi a trovare la madre perché, ormai all’ottavo mese di gravidanza, aveva minacciato un parto prematuro. La penultima volta che vidi Liliana mi lesse un’affettuosa lettera scritta alla figlia che esprimeva il suo dolore per non poterla vedere e aveva parole di comprensione ed affetto per la sua sofferenza. In questo caso la tecnica d’intervento principalmente utilizzata è stata quella dell’intermediario, sviluppata da Zapparoli. Nel testo La follia e l’intermediario (Zapparoli, 2002) la tesi principale proposta è che l’operatore psichiatrico, nel trattamento dei pazienti gravi, può assumere la funzione di “intermediario” tra la follia e la realtà, tra le richieste “impossibili” del folle (o del suo ambiente familiare e sociale) e le risposte “possibili”, percorribili e attuabili nel contesto della cura. Nel caso di Liliana è stato necessario svolgere il ruolo d’intermediario durante tutta la psicoterapia, intermediario tra la figlia ideale e reale, ribellione alla malattia e la resa, tra la vita e l’ineluttabilità della morte, tra l’onnipotenza e l’impotenza della paziente, del chirurgo, dell’oncologo, dello psicoterapeuta. Nel trattamento di questa paziente sono state fondamentali anche le riflessioni e il contributo di Zapparoli sul ruolo e le funzioni dell’Ortothanasista nell’importante testo scritto insieme a Segre Vivere e morire (1997). Il ruolo che è stato svolto ha riguardato il mantenimento

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dell’illusione della paziente di poter sopravvivere quel tanto, per portare a termine il progetto di recuperare minimamente un rapporto con la figlia. Per concludere, il clinico che si trova di fronte alla necessità d’indicare un trattamento psicoterapico dovrebbe conoscere i vari modi di accostarsi alla psicopatologia in generale ed in particolare a quella depressiva, per essere capace di applicare con etica, conoscenza e flessibilità, una determinata tecnica per raggiungere una o più finalità che portino il paziente a stare meglio.

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RIASSUNTO In questo lavoro si evidenzia che, come testimoniato da molte ricerche, non ci sono differenze significative tra le diverse forme di psicoterapia. I fattori curativi dei diversi modelli psicoterapici risiedono in alcuni elementi comuni. Non sembra essere il modello di riferimento a fare la differenza, quanto alcuni elementi che risultano diffusi nella prassi clinica. Tuttavia non tutte le psicoterapie agiscono allo stesso modo ma ognuno può offrire un contributo unico che può divenire complementare ad altri contributi. Si sottolinea quindi l’importanza dell’integrazione dei modelli (psicoanalitico, cognitivo, evolutivo) e l’integrazione delle tecniche. La valutazione della resistenza al cambiamento, del funzionamento mentale, delle risorse e dei deficit del paziente sono gli indicatori che ci possono aiutare a rispondere alla domanda: “Quale psicoterapia per la depressione?”. Dobbiamo però avere sempre in mente che: “non è il paziente a doversi adattare ad un modello psicoterapico precostituito, ma il contrario”. Nell’articolo vengono presentati due casi di Depressione Lieve e Moderata seguiti con il modello della psicoterapia focale integrata secondo gli insegnamenti di G.C. Zapparoli e M.C. Gislon.

PAROLE CHIAVE Depressione, psicoterapia focale, integrazione.

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SUMMARY This paper, as already shown in past research, seeks to underline that there are not significant differences between different types of psychotherapy. Therapeutic factors belonging to different models of psychotherapy can be found in a few common elements. It seems that the model makes little difference whereas other elements common in clinical practice could be more relevant. However not all psychotherapies act in the same way but each one offers a unique contribution that could be complementary to other contributions. We must stress the importance of integration between different models (psychoanalytic, cognitive and developmental) and between different techniques. Evaluation of the patient's resistance to change, mental functioning, resources and deficits are precious indicators that can help us answer the question: “What kind of psychotherapy for depression?”. We should also always bare in mind that : “It is not the patient who should adapt to a particular type of psychotherapy but the opposite”. In the following article I present two cases in which mild and moderate depression are treated following the integrated focal psychotherapy model of G.C. Zapparoli and M.C. Gislon.

KEY WORDS Depression, focal psychotherapy, integration.

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Appunti di viaggio

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Marina Briselli, Paola Buonsanti

, Marcella Devale

, Piero

Gianotti

, Michela Moccafighe

Variazioni della “distanza” nella relazione psicoterapeutica

Perché l’équipe della Comunità Terapeutica Redwest ha sentito il bisogno di trattare questo tema? La difficoltà maggiore avuta nello svolgere il ruolo dell’operatore di comunità con persone adulte con Disturbo di Personalità e Schizofrenici, è stato quello di gestire i diversi ruoli che le diverse situazioni impongono. Ci troviamo continuamente in situazioni che alternano momenti che sono diametralmente opposti (dal colloquio al servire il pasto, dal condurre un’attività strutturata a preparare la lavatrice). Queste situazioni richiamano un ruolo differente che comporta una modulazione della distanza. Nel concreto il bisogno nasce dalla consapevolezza di ritrovarsi, ad esempio nel colloquio, a chiedere ad un paziente che ha bevuto come “ti senti, cosa provi” e fuori da questo momento strutturato, avere una funzione più normativa/educativa e quindi trovarsi a riformularne il progetto terapeutico e limitarne le uscite. Nel lavoro psichiatrico il paziente s’impone sempre in primo luogo come persona con la quale è necessario e prioritario stabilire una relazione interpersonale. Quando l’individuo che soffre incontra chi è in grado di farsi

Psicologa, Psicoterapeuta. Psichiatra, Direttore Sanitario CT Redwest (IM); Consulente Medico Psichiatra e Psicoterapeuta Centro Terapeutico Riabilitativo La Tolda (SV). Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica.

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professionalmente e tecnicamente carico della sua sofferenza si stabilisce una relazione terapeutica. Nei disturbi mentali, in cui è alterato in modo significativo il vissuto del soggetto, la sua capacità di comunicare e di stare insieme agli altri in una realtà condivisa, la relazione rappresenta prima ancora di qualsiasi risorsa tecnica specifica, lo strumento indispensabile per potersi accostare a questa condizione di sofferenza. La malattia psichica è avvicinabile solo attraverso la relazione e l’operatore dispone di se stesso con tutta la propria persona per rispondere alla richiesta di relazione, spesso ambivalente che il paziente esprime. Questo fa della psichiatria una scienza e una terapia centrate sulla relazione. Essa è già di per sé uno strumento terapeutico. Il suo impiego dunque dev’essere attento, misurato, calibrato, paziente per paziente e momento per momento illuminato dalla tecnica e riscaldato da un buon uso delle emozioni. Al di là di ogni risorsa tecnica è l’irriducibile “fattore umano” l’irripetibile equazione personale dell’operatore, l’unico strumento in grado di accostare più possibile il mondo lontano, estraneo, bizzarro e spesso incomprensibile del paziente cogliendone comunque un senso. L’operatore dev’essere qualcosa in più di tecnico e deve sapere di sé le infinite potenzialità e gli enormi limiti. Il primo passo per costruire con lui una relazione è quello d’instaurare un buon clima emotivo in cui stare bene insieme, fidarsi, parlare e più tardi esprimere dei bisogni. Definiamo ciò “clima empatico”. Il clima empatico permette all’operatore di sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda emotiva del paziente, di coglierne i bisogni e di emettere risposte adeguate. Questo consente all’operatore di ridurre le sensazioni di fastidio, di non comprensione, di fuga e di noia. In questo clima anche una risposta negativa ad una richiesta, trasmette il messaggio che comunque la sua richiesta è stata ascoltata, accolta e compresa. Occorre sottolineare che nella relazione terapeutica l’operatore psichiatrico non è solo “cronista” della realtà, ma anche “attore” inteso

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come colui che partecipa attivamente con i propri sentimenti e le proprie emozioni. Le emozioni e il bagaglio di esperienza non solo professionale ma anche umano, sono strumenti indispensabili nel lavoro psichiatrico. In questo contesto dunque l’operatore non può limitarsi ad essere osservatore, ma deve necessariamente entrare nel campo da lui osservato: deve partecipare. Nella relazione con il paziente psichiatrico tale partecipazione rischia però di trasformarsi in un coinvolgimento che annulla ogni distanza critica ed ogni efficacia terapeutica. Gran parte delle energie di cui l’operatore dispone dev’essere impiegata nel mantenere una giusta distanza che consente di non avvicinarsi troppo ma anche di non interporre un eccessivo spazio di sicurezza. Frapporre tra sé e il paziente uno spazio, protegge la relazione da una serie di rischi, consentendo di stabilire una distanza equa, per cui l’operatore non rischia di venire inglobato dal paziente e quest’ultimo non viene mantenuto difensivamente ad una distanza eccessiva. La relazione e la comunicazione con questi pazienti rimangono comunque difficili e precarie nel tempo. Spesso l’operatore deve confrontarsi con una richiesta ambivalente. Di fronte alla possibilità di cambiamenti il paziente può rifugiarsi nella sua patologia, può cercare di rendere inefficace le strategie impiegate, svalorizzando e attaccando umanamente e professionalmente l’operatore. La relazione per quanto cercata, può essere nello stesso tempo attaccata e rifuggita, perché avvertita come pericolosa per l’integrità e l’autonomia del soggetto. Soprattutto per questo motivo è determinante che dello strumentario tecnico dell’operatore psichiatrico facciano parte la capacità di tollerare la frustrazione e di continuare ad esistere nonostante gli attacchi distruttivi provenienti dalla relazione col paziente.

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La capacità di tollerare la frustrazione ha alla base la capacità di essere flessibili nel variare la distanza? In questa oscillazione instabile e continua del paziente tra paura e desiderio della relazione, tra realtà e fantasia delirante, è difficile per l’operatore stabilire uno spazio di negoziazione ed una stabile e positiva alleanza terapeutica. Ma questo deve comunque rimanere l’obiettivo di tutto il lavoro relazionale. Un lavoro lento, volto a conquistare la sua fiducia che può durare anche molti anni con fasi di arresto e molti attacchi distruttivi. Il giusto atteggiamento per stabilire una relazione ideale con il malato non può essere insegnato in un manuale, esso s’impara con la pratica e con l’esperienza, ma soprattutto un operatore psichiatrico deve avere un buon equilibrio emotivo e una ricca esperienza umana. Il che non significa essere perfetti ma semplicemente delle persone autentiche. Dice Paolo Quattrini in un’intervista del 2009: “Una delle difficoltà consiste in genere nel fatto che conoscendo fenomenologicamente, si è costretti a conoscere contemporaneamente anche sé stessi e non si può rimanere in posizione asettica. Conoscere fenomenologicamente è una lama a due tagli che obbliga il terapeuta a fare i conti con la propria realtà esistenziale anche mentre è in seduta con i pazienti”. Quindi, un terapeuta non deve avere paura di quello che prova e vive; non deve avere vergogna, anche se in senso paradossale può permettersi di averla, di sperimentare confusione, tristezza, che “oggi non è giornata” ecc., al contrario dev’essere in grado di usare e di avere la capacità di trasmettere questo tipo di vissuti, che è normalmente molto rilassante per il paziente e lo aiuta ad accettare le proprie difficoltà con maggiore dignità. La terapia si fa con la presenza, ovvero avendo realizzato dentro di sé questa umanità. La chiave dell’intervento riabilitativo nelle comunità terapeutiche sta nell’accento posto sul rapporto personale in ambito gruppale, che investe della funzione terapeutica non tanto il singolo operatore quanto la comunità nel suo complesso.

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La comunità è un insieme di persone che condividono tempi, spazi ed emozioni, il numero di persone presenti all’interno della struttura permette che si verifichino scambi non anonimi, tipici invece di luoghi più vasti. All’interno della comunità si ha la sicurezza di ricevere cibo, alloggio, accudimento e di essere riconosciuti come persone; tale riconoscimento costituisce un potente strumento di costruzione e mantenimento dell’identità personale ed ha una sicura valenza terapeutica. Fornire al paziente uno spazio che possa personalizzare e che abbia per lui caratteristiche di comfort e accudimento, realizzare una quotidianità regolare e familiare che non deve comunque scadere nella monotonia ripetitiva ma deve prevedere momenti di apertura e di cambiamento. La quotidianità residenziale dev’essere protettiva, accogliente, prevedibile, ma deve anche offrire piccoli dubbi e incertezze. La consuetudine residenziale non è fatta solo di muri e oggetti inanimati ma di persone e di comuni regole di vita. Le regole sono importanti per creare una cornice e al tempo stesso aprire spazi d’innovazione che rinnovano la consapevolezza del fatto che le regole sono fatte per le persone e non viceversa. La comunità terapeutica impone un tipo di rapporto tra operatori e ospiti diverso da quello abituale delle strutture sanitarie: caratteristica di questo particolare rapporto è lo stare insieme, è il condividere la quotidianità al di là di ruoli definiti, tollerando la diversità. La dimensione terapeutica introduce però una differenziazione: c’è chi è lì per curare e chi per essere curato, i primi stanno nella comunità a tempo parziale i secondi no, i primi sono pagati, i secondi pagano o qualcuno paga per loro. Se dunque lavorare in comunità richiede all’operatore di tollerare una minor differenziazione fra sé ed il paziente, ponendo l’accento sugli aspetti condivisibili non c’è dubbio che tuttavia la differenziazione esiste, che il terapeuta deve sostenere un ruolo diverso dal paziente e che per sostenerlo ha bisogno di conoscenze tecniche. Ma queste ultime non devono costituire una difesa e fargli dimenticare che la

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propria persona è il fondamento di ogni possibile intervento curativo. In altre parole, l’operatore ha il delicato compito di muoversi tra due modalità opposte di rapporto con il paziente: la scissione e la confusione (Conforto et al., 2005). È importante che l’accoglienza si alterni alla stimolazione e il codice materno a codice paterno; il dosaggio di queste due componenti è delicato. Utile sarà per l’operatore il concetto di stimolazione ottimale, vale a dire quel grado di stimolazione utilmente fruibile dal paziente: se la stimolazione sarà scarsa si potrà favorire una regressione comportamentale ma questa potrà verificarsi anche in seguito ad un’eccessiva stimolazione ansiogena. Quello che si è voluto dire finora è che in una comunità tutto è terapia. Attenzione però! La dimensione terapeutica data ad esempio dalle attività riabilitative o ricreative (anche loro hanno un loro perché) non è sufficiente, per cui oltre alla dimensione gruppale occorre tener ben presente anche quella del singolo. In tal senso vogliamo mettere in evidenza la dimensione psicoterapica all’interno di quel setting che chiamiamo comunità, spostare la nostra attenzione dall’asse gruppale e puntare il riflettore sul singolo ospite. Nel fare ciò possiamo allora vedere come alla fin fine si realizzi anche in comunità un classico percorso psicoterapico che inizia dal momento in cui ci viene presentato il caso e come varia la distanza a seconda delle varie fasi in cui ci si trova. L’assessment del paziente e il momento del suo ingresso Nella fase iniziale il professionista utilizza gli strumenti che ha a disposizione per decidere quali interventi hanno maggiori possibilità di successo per quel determinato paziente, con quelle determinate risorse cognitive ed emotive, con le sue particolari disabilità, inserito in quel particolare ecosistema.

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L’obiettivo di questa prima fase, è l’identificazione di un percorso terapeutico, con la scelta del tipo, o dei tipi d’interventi, che possono essere programmati in successione o in parallelo e la proposta di una serie di verifiche nel tempo che aiutino a fare il punto della situazione e proporre eventuali correzioni di rotta. Il percorso può essere in buona parte negoziato con il paziente: la scelta di un approccio per quanto possibile “breve”, quindi centrato sulla soluzione dei sintomi, piuttosto che “profondo” e quindi mirante ad una ristrutturazione più ampia della personalità, l’eventuale coinvolgimento del coniuge o di altri familiari. In questo modo, fin dall’inizio, la parte che si propone al paziente è molto più attiva di quanto si possa immaginare. Se il terapeuta può essere considerato l’esperto dei processi di crescita e di cambiamento psicologico, il paziente, paritariamente, resta il massimo esperto di se stesso. A questo livello d’intervento quindi lo psicoterapeuta si pone come un consulente tecnico impegnato in uno scambio paritario con il paziente. Questo è il momento in cui dare del Lei al paziente, col quale ha ancora da svilupparsi la necessaria partnership; ha una valenza differente del Lei che viene dato nel momento in cui l’aggancio è avvenuto. Se in questo secondo caso, col dare del Lei ci si riferisce ad un insieme di fattori fra cui la differenziazione dei ruoli all’interno della struttura o la veicolazione di una vicinanza/distanza autentica, nel primo caso ha una valenza maggiormente simile a quella data al di fuori di un contesto comunitario: una norma sociale che lo impone per questioni di buona educazione a due persone che si conoscono per la prima volta. La psicoterapia individuale Scopo della psicoterapia è quello di aiutare il paziente a riconoscere le proprie emozioni, le proprie difficoltà e collocarle nel contesto

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relazionale attuale ed evolutivo in cui sono emerse. Anche in questo caso la relazione terapeutica nasce come collaborazione paritaria. Tuttavia ben presto questa cornice non è più sufficiente: l’accesso ai contenuti mentali esclusi dalla consapevolezza richiede un coraggio che per definizione il paziente non ha. Solo se il terapeuta riesce a porsi come nuova e rassicurante figura capace di contenere e alleviare il dolore del paziente, l’esplorazione delle emozioni potrà procedere. In questa fase la modulazione della distanza ha un valore fondamentale al fine del mantenimento della cornice terapeutica la quale per funzionare deve rimanere stabile. Tutti i terapeuti sanno che occorre mantenere un’adeguata distanza per cui non accettano inviti a pranzo, non accettano regali e non permettono di essere contattati più di tanto nella loro vita privata. Insomma occorre non stabilire rapporti così vicini perché poi si entra in dinamiche per cui la cornice terapeutica non regge più e se da una parte il paziente può sentirsi frustrato da tale distanza, dall’altro è proprio quella che gli permette di fidarsi. L’esposizione in vivo Altro punto in comune con un classico percorso psicoterapico che utilizza interventi differenti lo possiamo ritrovare ad esempio nella terapia della padronanza guidata di stampo cognitivo-comportamentale (attualmente utilizzata in Inghilterra) la quale agisce sul comportamento per provocare cambiamenti a livello cognitivo; tende cioè a modificare le convinzioni che la persona ha rispetto alla propria capacità di affrontare le situazioni temute attraverso una verifica dal vivo dell’erroneità delle proprie convinzioni. Per fare questo il terapeuta guida personalmente ad affrontare le proprie difficoltà. Tale tipo di terapia è da considerarsi uno sviluppo della tecnica

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dell’esposizione graduale in vivo, finora applicata nella gran parte dei trattamenti mirati all’Ansia (Panico, Ossessioni, Ipocondria, Ansia Sociale) in cui il terapeuta chiede al paziente di scomporre l’obiettivo (comportamento problematico) in sotto-obiettivi di difficoltà minori e di esporsi a questi, ossia affrontarli in modo graduale dal più facile al più difficile. Dal punto di vista del tipo di relazione terapeutica che si stabilisce va osservato che il terapeuta tende a condividere il più possibile le “fatiche” della terapia con il proprio paziente. Il paziente percepisce il sostegno del terapeuta anche per il fatto che ha lasciato la sua comoda poltrona per accompagnarlo dove più forte è la sua angoscia. Questo è il caso di un paziente con diagnosi di Schizofrenia di Tipo Indifferenziato e Ritardo Mentale Moderato. Tale ospite in passato si era mostrato in grado di far uso autonomo dei mezzi pubblici ma in seguito ad eventi negativi ripetuti nel tempo in cui aveva subito diversi agiti aggressivi, aveva sviluppato un rifiuto totale a ricorrere a tale risorsa. Al fine di preservare questa capacità, la mini équipe aveva deciso di formulare un progetto che prevedesse l’accompagnamento del paziente durante l’uscita con la corriera, dove l’operatore una volta seguitolo più volte fino a destinazione, iniziasse a scendere ogni volta ad una fermata precedente. Tale progetto è stato necessario comunque protrarlo per un periodo di tempo considerevole ma ha poi comunque portato agli effetti desiderati. La terapia di coppia o familiare Un altro tipo d’intervento che attuiamo in parallelo agli altri può benissimo essere paragonato alla terapia familiare e questo perché una presa in carico, anche se minima, dei congiunti del paziente è sempre presente.

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Nel momento in cui il nucleo familiare si mostra particolarmente aggressivo/espulsivo nei riguardi del congiunto, della struttura, del percorso terapeutico o quando si rendono evidenti alti livelli d’Ansia che comportano un’intromissione corposa del familiare nel lavoro svolto con l’ospite presente in struttura, l’équipe imposta, ad esempio, incontri o telefonate a cadenza settimanale in modo da rielaborare le diverse situazioni che si presentano nella quotidianità durante il percorso del paziente. Tutto ciò poi viene “riutilizzato” durante le riunioni psicoeducazionali svolte mensilmente, le quali sono indirizzate non solo ai familiari ma a tutti coloro che sono in stretto contatto col paziente (amici, compagni di vita, ecc.). Nel lavoro con i partner o con le famiglie, la posizione del terapeuta tende ad essere equidistante ed il suo lavoro di mediazione ha la funzione di ricreare, nell’ecosistema del paziente, legami sicuri con la convinzione che il paziente adulto può ottenere sicurezza nella relazione anche imparando a darla all’altro. La supervisione Lo psicoterapeuta dovrebbe essere inserito in una rete di professionisti che collaborano tra loro in modo organico, perché nessuno può pretendere di poter rispondere sempre e da solo a tutte le esigenze che può porre la psicoterapia. Lo staff di psicoterapeuti di riferimento può discutere insieme, in assenza del paziente, alcuni passaggi problematici e/o fasi di stallo della psicoterapia dei pazienti che risultano “difficili”. Un collega, dall’esterno, può “vedere” cose invisibili a chi è dentro il processo. Ma soprattutto i colleghi possono sostenere chi è in difficoltà, evitando anche il senso d’isolamento e d’impotenza che spesso si avverte di fronte a situazioni che sembrano essere più grandi

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del singolo terapeuta. Anche a questo livello esiste una relazione con il paziente anche se questi non ne è consapevole. Non è detto che però sia meno importante (Conforto et al., 2005). Conclusioni La terapia residenziale richiede interventi a vari livelli. Nel processo psicoterapeutico la “distanza” personale tra terapeuta e paziente varia sia nell’uso di una specifica tecnica sia nel passaggio da una tecnica all’altra. Questo più che una necessità cui assoggettarsi rappresenta una potenzialità per il trattamento: il paziente può fare esperienza concreta dell’intimità e dell’autonomia e se la terapia funziona, impara a sentirsi a suo agio sia in un caso che nell’altro. Tornando alla domanda iniziale: quale giusta distanza? Dal nostro ingresso in società abbiamo sempre avuto a che fare con la regolazione della giusta distanza con i parenti, con gli amici, con gli insegnanti, i datori di lavoro, i colleghi quindi dovremmo essere allenati da questo punto di vista. Ciò che cambia nel lavoro o comunque nella relazione col paziente psichiatrico è che occorre avere piena consapevolezza, momento per momento, dei vari cambiamenti necessari, della variazione continua che dobbiamo misurare da un minuto all’altro, da paziente a paziente, da intervento a intervento. Che strumenti abbiamo che ci aiutano in ciò al di là della consapevolezza? Il nostro lavoro sarà influenzato dalla curiosità del desiderio, dalla passione, fantasia, invenzione, creatività, improvvisazione (Cecchin, 1997). Gli uomini vivono immersi in un tessuto di storie a cui tutti partecipano, storie che possono dar origine a problemi ma che rinarrate contengono anche le risorse necessarie per risolverli. Gli

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esseri umani traducono i loro sistemi di credenze in storie che si raccontano allo scopo di organizzare ed interpretare le esperienze della vita. Le storie possono essere più o meno rigide in quanto definite da contesti sociali e culturali specifici, attribuzioni di ruolo, schemi prefissati, vincoli narrativi: le storie rigide hanno di solito un forte potenziale anticipatorio, si sa già all’inizio come andranno a finire. Anderson e Goolishian (1992), sostengono che solo mantenendo una posizione di apertura il terapeuta può favorire la creazione di altre storie, di altre realtà più funzionanti. Avremo dalla nostra l’irriverenza che è un atteggiamento mentale, un modo di guardare sé stessi e gli altri. L’irriverenza consiste nel non lasciarsi mai sedurre del tutto da un modello al punto da esserne irretiti. Il terapeuta irriverente cerca di non sentire il bisogno di seguire una teoria particolare o le regole che gli sono imposte dai clienti, istituzioni, ambiti in cui opera. L’entusiasmo verso un modello o un’ipotesi aiuta il terapeuta ad entrare in contatto con un paziente senza perdere quella posizione di relativo distacco che rende possibile ed alimenta la curiosità (Cecchin et al., 2003). Quando il terapeuta comincia a riflettere sulle conseguenze del suo modo di porsi e dei suoi presupposti di base, assume una posizione che è terapeutica ed etica al tempo stesso. Per acquisire la capacità di osservarsi e riflettere su di sé è necessaria una certa dose d’irriverenza e senso di humor che si ottiene mettendosi in gioco a vari livelli con gli interlocutori, psichiatri, colleghi. Le ipotesi del terapeuta sono descrizioni di ciò che vede o crede di vedere non sono spiegazioni. Il terapeuta non si preoccupa di sapere che cosa effettivamente produce il cambiamento ma è interessato al cambiamento che si verifica. L’irriverenza è un’attitudine mentale, una particolare flessibilità che si applica in primo luogo a noi stessi, alle nostre convinzioni. Il nostro modo di essere non si basa sui nostri giudizi quanto sui nostri pregiudizi (Cecchin et al., 2003).

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I pregiudizi indicano le linee lungo cui si muove la nostra apertura al mondo, ci imbattiamo in qualche cosa che ha per noi un significato. Diamo il benvenuto proprio a quegli ospiti che promettono qualcosa di nuovo alla nostra curiosità. L’idea d’irriverenza ha solidi fondamenti nel passato, quanto più ci avventuriamo in quelle acque agitate e pericolose più sentiamo il bisogno di cercare approdi sicuri rivolgendoci ai nostri maestri e precursori. “La nostra posizione riflette il desiderio di non essere così ingenui da credere di poter risolvere tutti i problemi dei nostri pazienti, senza però finire intrappolati nella convinzione cinica di non poter fare nulla quando i problemi sono difficili. Dobbiamo essere capaci di sopravvivere allo scoraggiamento e allo sconforto che qualche volta ci assalgono quando ci confrontiamo con le tragedie della vita. Dobbiamo essere sempre capaci di cogliere gli aspetti comici di situazioni assurde e apparentemente impossibili. Per questo è importante alimentare la nostra capacità di entusiasmarci e ricaricarci anche quando sperimentiamo il fallimento” (Cecchin et al., 1997).

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RIASSUNTO

Nel lavoro psichiatrico il paziente s’impone sempre in primo luogo come persona con la quale è necessario e prioritario stabilire una relazione interpersonale. Nei disturbi mentali, in cui è alterato in modo significativo il vissuto del soggetto, la sua capacità di comunicare e di stare insieme agli altri in una realtà condivisa, la relazione rappresenta lo strumento indispensabile per potersi accostare a questa condizione di sofferenza. Il suo impiego dunque dev’essere attento, misurato, calibrato, paziente per paziente e momento per momento, illuminato dalla tecnica e riscaldato da un buon uso delle emozioni. Nella relazione terapeutica l’operatore psichiatrico partecipa attivamente con i propri sentimenti e le proprie emozioni. Tale partecipazione rischia però di trasformarsi in un coinvolgimento che annulla ogni distanza critica ed ogni efficacia terapeutica. Una delle maggiori difficoltà consiste in genere nel fatto che conoscendo fenomenologicamente, si è costretti a conoscere contemporaneamente anche sé stessi e non si può rimanere in posizione asettica. La capacità di tollerare le frustrazioni, ha alla base la capacità di essere flessibili nel variare la distanza? Che strumenti abbiamo che ci aiutano in ciò, al di là della consapevolezza? Dove vanno posti gli accenti in un intervento curativo all’interno di una comunità terapeutica?

PAROLE CHIAVE Giusta distanza, differenziazione, irriverenza, spazio di negoziazione, storie narrate, conoscenza fenomenologica.

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SUMMARY

In the psychiatric work the patient is always put in the first place as the

person with whom it is both necessary and a priority to establish an

interpersonal relationship. In Mental Disorders, which is significantly

altered the experience of the subject, his ability to communicate and to

get along with others in a shared reality, the relationship is the essential

tool to be able to approach to this condition of suffering. Therefore its

use should be careful, measured, calibrated, from patient to patient and

from moment to moment, illuminated by technique and heated by a

good use of emotions. In the therapeutic relationship, the psychiatric

operator is actively involved with their feelings and emotions. Such

participation, however, is likely to turn into an involvement that

cancels any critical distance, and every therapeutic efficacy. A major

difficulty lies in the fact that generally knowing phenomenologically, at

the same time you are also forced to learn about yourself and you can

not stay in aseptic position. The ability to tolerate frustration, has at the

base the ability to be flexible in varying the distance? What tools do we

have to help us in this, beyond the awareness? Where should the

accents be placed in a curative intervention within a therapeutic

community?

KEY WORDS Right distance, differentiation, disrespect, space in dealing, stories, phenomenological knowledge.

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BIBLIOGRAFIA Anderson H. & Goolishian H. (1992): Il cliente è l’esperto: il “non

sapere” come approccio terapeutico, In: La terapia come costruzione sociale, Franco Angeli, Milano.

Conforto C., et al., (2005): Lavorare in psichiatria. Manuale per gli operatori della salute mentale. Bollati Boringhieri, Torino, capp. 14-21.

Cecchin G., et al., (1997): Verità e pregiudizi. Raffaello Cortina, Milano. Cecchin G., et al., (2003): Irriverenza. Una strategia di sopravvivenza per i

terapeuti. Franco Angeli, Milano.

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Quattro passi per strada

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Pier Fabrizio Cerro, Laura Pasero

L’anoressia come disperata volontà di esistere

Partendo da un caso clinico, proporremo alcune riflessioni che ruotano essenzialmente intorno a due temi:

- l’importanza di un accurato percorso di diagnosi differenziale nel campo della sintomatologia anoressica per non correre il rischio di non saturare troppo presto, attraverso una diagnosi stabilita da un sintomo, il vuoto dell’identità che potrebbe celarsi dietro il disordine alimentare;

- l’anoressia come tentativo estremo di sopravvivenza psichica in persone con grave vulnerabilità narcisistica.

Il tema dell’utilizzo più o meno consapevole della diagnosi di Anoressia all’interno della psicopatologia ci sembra inoltre si collochi a pieno titolo nell’attuale dibattito sul possibile cambiamento dell’inquadramento diagnostico dei Disturbi Alimentari, dibattito che sta imperversando tra i clinici in vista della prossima uscita del DSM-V. Vari autori nel corso del tempo, trattando patologie diverse, provenendo da scuole di pensiero separate, hanno individuato alla base della psicopatologia il tentativo, più o meno consapevole, dell’individuo di sopravvivere anche usando “mezzi” estremi per farlo (Grava, 2004, 2005). A proposito di questo, Joyce McDougall (1995, p. 252) si domanda: “Ma cos’è esattamente la sopravvivenza psichica? Forse la potremmo concettualizzare come la capacità di mantenere da una parte il senso

Psichiatra, Centro dei Disturbi dell’Alimentazione e dell’Adolescenza, ASL 2 Savonese. Psicologa, Dipartimento Attività Distrettuali e Cure Primarie, ASL 2 Savonese.

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della propria identità, nelle sue dimensioni soggettive e sessuali, dall’altra un senso di stabilità narcisistica... Tutti i sintomi sono tentativi infantili di auto-trattamento di fronte a una sofferenza mentale ineluttabile... che il senso così creato sia liquidato dagli altri come patologico, sintomatico o perverso, non invalida quello che è il fine di tale comportamento: l’impulso a sopravvivere”. L’autrice che forse più di ogni altro ha trattato la psicopatologia dell’Anoressia Mentale, Hilde Bruch (1973, 1978) afferma che le giovani anoressiche assumono un tal comportamento e pensiero distorti per ottenere il dominio almeno sul proprio corpo. A un livello più profondo queste ragazze derivano la loro estrema magrezza dal tentativo di appropriarsi di se stesse passando prima di tutto dall’appropriarsi del proprio corpo. Qual è il pensiero implicito? Forse è che stati d’animo, condotte, pensieri estremi, possono essere funzionali alla sopravvivenza dell’individuo stesso. Strettamente correlato a questo discorso sull’anoressia come bisogno di sopravvivenza psichica, ci pare ce ne sia un altro con il quale ultimamente siamo sempre più chiamati a confrontarci, quello dell’utilizzo inconsapevole della diagnosi di Disturbo del Comportamento Alimentare come tentativo estremo di appropriazione di una “identità” in persone con grave vulnerabilità narcisistica. Naturalmente tale “scelta” appare fortemente condizionata dall’humus socio-culturale di cui la nostra società è pervasa, e dal fatto che i Disturbi Alimentari siano diventati un disturbo per così dire di “tendenza”. Una suggestione di Simona Argentieri (2009) sulla trasformazione del Disturbo Alimentare negli ultimi anni, da sindrome a sintomo generico, dilagante, aspecifico, ci ha sollecitati a riflettere sulla storia di una ragazza diciottenne alle prese con il problema del cibo. Angela, al primo incontro, parlando del vomito e del digiuno, pone direttamente la questione, sulla quale ancora ci interroghiamo: “Come possiamo definirlo? Un disturbo alimentare? Lascio a lei la definizione”.

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Argentieri ben descrive il comportamento di queste ragazze che arrivano al primo colloquio con la diagnosi già pronta e con la pretesa della cura e per cui l’impresa diventa quella di smantellare questa costruzione e osservare cosa vi sia dietro. Ma la storia di Angela è particolare, giunge reclamando un’attenzione sul suo sintomo, ma ci porta anche a riflettere su come un Disturbo Alimentare si possa innestare su una Disabilità Mentale, in un incrocio di diagnosi che sfumano una nell’altra come a cercare, come lei stessa chiede, una definizione, un confine preciso che possa delimitare la sua identità. La domanda che la ragazza pone non è di diagnosticare un disturbo, ma descrivere la sua persona, per rendersi viva agli occhi degli altri. Angela, infatti, non nasconde il suo problema, ma cerca in ogni modo di evidenziarlo, raccontandolo a tutti e lamentandosi perché non viene preso in seria considerazione. Angela è seguita dal Servizio di Assistenza Consultoriale per un quadro di Insufficienza Mentale Lieve conseguente a grave prematurità: nasce alla ventiquattresima settimana da gravidanza complicata da distacco placentare e sofferenza fetale. Alla nascita presenta importante sofferenza respiratoria, emorragia subependimale cui è conseguita lieve dilatazione ventricolare e sofferenza ai nuclei della base e ittero trattato con fototerapia. Durante lo sviluppo, ha effettuato terapia riabilitativa (fisioterapia e psicomotricità) per ritardo psicomotorio, turbe dell’equilibrio e sfumato emilato e difficoltà di coordinazione oculo-manuale. Ogni tappa della sua crescita è avvenuta in ritardo (deambulazione a tre anni, prime frasi a sei), ma il suo sviluppo è stato progressivamente migliorativo, ed oggi restano alcuni postumi del suo traumatico inizio alla vita (impaccio motorio globale, lieve deficit mentale con discrete capacità espressive). Anche la sua storia familiare è stata segnata da vicissitudini: i suoi genitori si separano quando Angela ha circa sei anni, ne segue

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l’affidamento al padre e alla nonna paterna, mentre la madre si trasferisce in un’altra regione. Il rapporto con la madre appare connotato da precoci separazioni, dalla prematurità al distacco successivo a sei anni: un legame fragile, che non riuscirà a ricomporsi nemmeno successivamente (Angela comunica con la madre solo con sporadici messaggi). La sua è una storia di traumi cumulativi ed un presente di solitudine, in cui la compagnia della nonna e del padre, fra loro conflittuali, non sembra fornire una cornice di crescita adeguata. All’età di diciotto anni Angela confida alle insegnanti di soffrire di un Disturbo Alimentare. Inizialmente nessuno le crede, ma a forza d’insistere, ottiene di poter parlare con una psicologa, alla quale dice: “Per me vomitare è come piangere”. L’aggravarsi dei sintomi (episodi di vomito ricorrenti, dimagrimento, pensiero persistente sul cibo) induce a richiedere una consulenza presso il Centro per i Disturbi del comportamento Alimentare di natura psicogena (CDAA), centro che ha sede nello stesso territorio in cui Angela vive. L’osservazione presso il CDAA prevede una valutazione nutrizionale ed internistica e alcuni colloqui con lo psichiatra. Al primo colloquio con lo psichiatra, Angela racconta spontaneamente la storia della sua vita: inizia a parlare ponendo in primo piano sulla scena la sua nascita, dicendo di essere stata lasciata in sala parto su un lettino perché tutti pensavano fosse nata morta e solo in seguito rianimata. Angela si sofferma a lungo su questa scena, ponendo molta enfasi soprattutto sul fatto che nessuno immaginava che lei potesse sopravvivere. Al di là della veridicità o meno di questo episodio, colpisce come questo rappresenti per la ragazza una vera e propria scena “modello” (nel senso utilizzato da Lichtenberg et al., 2000) e come lei l’abbia “scelta”, anche con un certo compiacimento, come modo per rappresentare se stessa nel mondo.

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La scena della sala parto porta con sé la paura di essere dimenticata, che Angela proietta sui curanti: il Disturbo Alimentare può essere il medesimo segnale della sala parto, un tentativo di fare sentire a tutti: “ci sono! Sono viva! Aiutatemi, voglio vivere”. Dimagrire è anche tornare sottopeso, come alla nascita. Essere magra sembra l’unico modo per essere coccolata, l’unico modo di esistere per l’altro. Il sintomo andrebbe qui in direzione della vita, piuttosto che in quello della morte? Forse è per questo che per lungo tempo le richieste di aiuto di Angela non hanno preoccupato nessuno? Simona Argentieri sostiene che la diagnosi di anoressia offre una sorta d’identità: dire “sono anoressica” colma il vuoto di dire “io sono”. L’identità è frutto di un lungo processo, che si costruisce in un doppio movimento d’assimilazione e rifiuto, d’introiezione e proiezione. La disabilità rappresenta un’offesa invalidante all’integrità somatopsichica della persona, che viene intralciata per questo nel suo corpo, nella sua mente, nel suo divenire adulta. Cionondimeno, i bambini con insufficienza mentale seguono le stesse tappe di sviluppo affettivo dei bambini cosiddetti “normali”. La loro vita immaginaria e la nozione che hanno della loro identità non sono necessariamente connotate da questa disabilità. Se questo accade, fa osservare Simone Korff-Sausse (1996) è per altre ragioni, non riconducibili al loro patrimonio genetico o congenito, ma alle ripercussioni psicologiche dell’handicap sull’accesso al pensiero simbolico. Ricerche sulle sequele psicologiche della grave prematurità individuano la frequenza di una grande insicurezza interna, dominata da un’angoscia di separazione e da una depressività che ostacolano il processo d’individuazione. Questi aspetti sembrano tradurre una patologia precoce dei legami d’attaccamento indotta dalle circostanze eccezionali della nascita di questi bambini (Sibertin-Blanc, 2002). Romana Negri (1994) nel suo ormai classico lavoro sui neonati in terapia intensiva, scorrendo in rassegna i diversi studi sui bambini pretermine, individua una linea di continuità dai Disturbi Alimentari Precoci (inscrivibili nella più vasta cornice di “Sindrome

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Psicosomatica”) ai successivi severi Disturbi di Apprendimento e di Identità, che già Kreisler inseriva nella categoria diagnostica di Psicosi. Se diversi studi individuano una correlazione fra prematurità e vulnerabilità narcisistica, ricerche più recenti escludono invece l’associazione specifica fra complicazioni perinatali e disordini alimentari in adolescenza (Feingold et al., 2002). Tornando ad Angela… Sulla soglia della maggiore età, qualcosa accade nel processo di costruzione della sua identità: la ragazza sembra spogliarsi del ruolo di handicappata, e cerca un nuovo abbigliamento trovandolo nella ricerca della magrezza. Cresciuta con la nonna paterna e il padre, sembra sprovvista di un’identificazione femminile: questa viene cercata prima in un’insegnante anoressica, che diventa un involontario modello, poi in una compagna di scuola anch’essa sottopeso. “Mi sento insignificante, mi sembra di non significare niente per nessuno. Monica, la mia compagna di scuola che è anoressica, la guardano tutti, ha l’attenzione di tutti. Perché tutti si occupano di lei, e non di me? Mi capita poi una cosa… c’è un’altra mia compagna che mangia poco. Ho paura che voglia essere anoressica. Mi fa venire rabbia. L’anoressia è mia e nessuno me la toglie!”. Korff-Sausse (2002) osserva una linea di congiunzione fra handicap e Anoressia nel fenomeno comune della ricerca dell’accentuazione della bruttezza. Non è raro, infatti, incontrare bambini disabili che esibiscono la loro diversità, anziché rendersi invisibili, in una ricerca narcisistica quasi insaziabile dello sguardo dell’altro. Similmente le anoressiche spesso si vestono in modo tale da esibire di fronte a tutti il loro aspetto orribile, cadaverico, mostruoso. In entrambi i casi, si cerca lo sguardo dell’altro come specchio che restituisca un’immagine di sé. Tutto sembra avvenire come se la loro identità fosse sempre riportata a ciò che, nella loro persona, è visibile.

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La loro ricerca incessante di una rassicurazione narcisistica esprime una profonda inquietudine sull’esistenza e sulla permanenza degli oggetti interni. Con l’ingresso di Angela al CDAA si avvia il percorso di legittimazione della diagnosi di Disturbo Alimentare. Nonostante le perplessità dei curanti, per il rischio di rafforzare la pseudo identità anoressica, si rende necessario un periodo di ricovero per il progressivo dimagrimento, ma soprattutto per le condotte eliminative (episodi di vomito pluriquotidiani). Il ricovero viene vissuto da Angela come l’entrata trionfale nel mondo delle anoressiche. Angela aderisce da subito, e apparentemente senza alcun problema, a tutte le attività terapeutiche proposte. È evidente il suo tentativo di farsi accettare e di essere una paziente modello sia per il gruppo curante, ma ancor più per quello dei pazienti. Nel corso del ricovero, con il progressivo venir meno dei suoi timori di espulsione, lascia trasparire contenuti più autentici e vissuti di grande tenerezza e sensibilità. L’équipe curante è spesso colpita da come Angela, forse perché meno prigioniera degli schemi rigidi e perfezionisti delle altre ragazze anoressiche, sia in grado, soprattutto nei gruppi di psicoterapia, di esprimere considerazioni lucide e puntuali sulle dinamiche del gruppo e sull’atmosfera emotiva presente in reparto. La remissione della sintomatologia legata al Disturbo del Comportamento Alimentare avviene abbastanza rapidamente. Angela viene dimessa dopo circa due mesi in condizioni di normopeso, in buone condizioni fisiche e compensata sul piano della sintomatologia psichiatrica. Dopo la dimissione, Angela riprende i colloqui in consultorio, frequentando il CDAA solo per visite di controllo e periodici accessi in day hospital che progressivamente si riducono di frequenza. Questo progetto sembra muovere in Angela l’idea di dover abbandonare l’identità di anoressica e ritornare in una sorta di limbo. Il limbo non è in fondo il luogo dei bimbi morti prima di ricevere il

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battesimo? Pontalis (1998, p. 9) dedicando a questo non-luogo un libro, afferma: “forse mi colpiscono coloro che non hanno un’identità ben definita, coloro che non sono ciò che sono o che credono di essere”. In un recente incontro con la psicologa, Angela arriva con venti minuti di ritardo, esibendo quasi compiaciuta la borsa del supermercato in cui aveva appena fatto la spesa. La terapeuta fa osservare il ritardo e prova ad esplorarne le ragioni. Angela prima si giustifica dicendo di essere andata a fare compere e poi di essere passata in ospedale a cercare il Dottor C. (medico psichiatra del CDAA) per avere un appuntamento, lamentandosi del fatto che al CDAA l’avrebbero dimenticata. L’abbandono è l’angoscia prevalente, tanto che, di fronte all’osservazione della terapeuta di come questi passaggi l’avessero portata a perdere quasi metà della seduta, Angela reagisce piangendo: “adesso anche lei non mi darà più appuntamenti? Non potrò più venire?”. La psicologa cerca di mostrarle che nella sua ricerca di un posto in ospedale rischia di perdere quello che ha invece di sicuro, le sedute di psicoterapia. Angela inizia a scusarsi e aggiunge: “Non è che io preferisco il Dottor C. a lei, per me siete importanti tutti e due. Sono una stupida, non sono altro che una stupida!”. Il ricorrere alla stupidità sembra un volersi ricollocare nella relazione: “non sono stata cattiva con te, non ti ho voluto allontanare per andare dal dottore, ritorno ad essere stupida, situazione che conosco benissimo”. Il lavoro psicoterapico prova a farle sentire che il deficit, l’identità della stupida, è qualcosa di rassicurante, qualcosa che l’ha protetta, ma che la sua ricchezza interna va esplorata, al costo di vedere anche le parti spiacevoli. Nel mosaico transferale che la ragazza mette in gioco sembra esserci una competizione fra psicologa-madre, da cui staccarsi, e psichiatra-

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padre da cercare di sedurre per farsi coccolare. La richiesta pressante di ricoveri e colloqui allo psichiatra sembra andare in questa direzione. Nel momento in cui lo psichiatra accogliendola la tiene a distanza (anche per scoraggiare l’identificazione con il mondo fascinoso delle anoressiche), riesce a svolgere la funzione del padre dell’adolescente che non la mette a letto con sé. Al contempo, i due transfert (psichiatra vs psicologa) forse riflettono anche la scissione fra l’identità di anoressica e quella di disabile (o stupida): s’insegue la prima e si cerca di sfuggire la seconda, ma si ha anche paura di non trovare più niente, nessun posto in nessun luogo. Conclusioni L’incontro terapeutico con l’adolescente o giovane adulto porta con sé la necessità di concepire, al di là della coppia terapeuta-paziente, altri spazi psichici nei quali possa dispiegarsi e mettersi alla prova il mondo interno adolescente. La complessità organizzativa e funzionale di tali luoghi istituzionali (consultorio, ospedale, day hospital) sarà direttamente proporzionale alla fragilità delle basi narcisistiche dell'adolescente (Marinelli, 1995a, 1995b). Più l’adolescente è sofferente, più è impedito nel suo processo di soggettivazione, più la relazione duale avrà bisogno di allargarsi a più organizzati contesti istituzionali, che dispongano di una capacità di tessere una rete che accolga le diverse sfaccettature e le diverse domande che il sintomo pone. È così che lo spazio psichico istituzionale può connotarsi come “terzo”, con funzioni organizzative e strutturanti per il paziente e per l’équipe curante (Monniello, 2007). In questo senso ci sembra che la storia di Angela metta una volta di più in evidenza come, affinché questa funzione di contenitore si mantenga, sia necessario sfuggire alla trappola di etichettare troppo presto, in una diagnosi, la domanda che il sintomo dell’adolescente porta con sé.

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È necessario permettere al sintomo di continuare a parlare, a tracciare linee, a riallacciare nessi, a proporre immagini, a non diventare “insensato”. Ci piace concludere riprendendo le parole di Philippe Jeammet (1972, p. 87): “…in adolescenza in modo particolare ogni sintomo acquista rapidamente un potere organizzatore sulla formazione della personalità: conferisce un’identità, instaura un neo linguaggio, diventa mezzo per trattare l’angoscia e per regolare piacere e dispiacere. Il sintomo psichiatrico, man mano che dura e s’instaura, perde i suoi legami con i conflitti che hanno presieduto alla sua nascita. Diventa sempre più insensato nella sua espressione, indifferenziato nel suo significato. Detto in una parola, diventa stupido”.

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RIASSUNTO In questo lavoro i due autori intendono sottolineare l’importanza di un accurato percorso di diagnosi differenziale nel campo della sintomatologia anoressica. Viene avanzata l’ipotesi che l’Anoressia possa rappresentare un tentativo estremo di sopravvivenza psichica in persone con grave vulnerabilità narcisistica. In particolare viene illustrato il caso clinico di Angela, una ragazza con Deficit Cognitivo Lieve, che sembra ricorrere al Disturbo Alimentare per strutturare un’identità ancora troppo incerta, per dare forma alla propria personalità. Il contesto istituzionale viene a costituire la cornice terapeutica che può accogliere le diverse sfaccettature e le diverse domande che il sintomo pone. PAROLE CHIAVE Anoressia, disabilità, vulnerabilità narcisistica, terapia istituzionale.

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SUMMARY In this paper, the Authors intend to underline the importance of an accurate pathway of differential diagnosis in anorexic symptomatology field. They advance the hypothesis that Anorexia could represent an extreme attempt of psychic survival in people afflicted by severe narcissistic vulnerability. In particular, they are presenting here the clinical case of Angela, a girl with a light Cognitive Deficit, who seemed to recur to the Eating Disorder to structure her still uncertain identity and shape her personality. Institutional context becomes the therapeutic framework able to receive the various aspects and the many answers that the symptom points out. KEY WORDS Anorexia, handicap, narcissistic vulnerability, institutional therapy.

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Michele Solari

La formazione del Prof. Giovanni Carlo Zapparoli alle Comunità “La Redancia”1 Col passare degli anni alcuni dei concetti base dell’insegnamento del Professore, sono divenuti parte integrante della nostra pratica comunitaria. Con i colleghi, che hanno condiviso questa esperienza di formazione, ci siamo spesso detti che molto di ciò che abbiamo appreso allora è oggi nella pratica quotidiana e che molti dei nostri collaboratori giovani non sanno a chi lo dobbiamo. L’alleanza terapeutica, la residenza emotiva, la lettura dei bisogni, la conoscenza dei bisogni specifici compreso il bisogno di non avere bisogni e ancora la funzione di oggetto inanimato, il ruolo dell’operatore meno qualificato, definiscono solo alcuni dei concetti che costituiscono già soli un bagaglio di conoscenza e strumenti straordinario. Ognuna di queste idee non solo concettualizza un aspetto specifico del paziente e dell’ambiente, nella loro interazione, ma indica nell’insieme gli elementi costitutivi di una cultura teorica e operativa della cura. Come soleva dire il Professore: “il paziente è il nostro migliore maestro nonché datore di lavoro”. Questo assunto implica la capacità di privilegiare l’ascolto della teoria del paziente, la comprensione della sua filosofia, che ne rivela i bisogni e che non può essere mai trascurata rispetto a qualsiasi programma di cura si pensi per lui.

Psichiatra, Direttore Sanitario CT Redancia 1 (SV). 1 Relazione presentata al Seminario: “Il centro di psicologia clinica. Giancarlo Zapparoli e la saggezza clinica”, Genova 8 febbraio 2013.

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Questo atteggiamento, assieme clinico, profondamente umano, rispettoso e rigorosamente etico, ha improntato in modo determinante il nostro lavoro, fornendoci gli elementi alla base della nascita di un’identità di gruppo grazie all’utilizzo di strumenti e tecniche condivise. Prendiamo ad esempio il concetto di residenza emotiva: nell’insegnamento di Zapparoli può essere definita come “uno spazio che può essere collocato in un luogo che lo favorisce, ma è essenzialmente un rapporto con un oggetto animato o inanimato, a seconda delle capacità di relazione del paziente, nel quale quest’ultimo vive la possibilità che i suoi bisogni vengano salvaguardati”. L’organizzazione mentale degli operatori che conoscono l’esercizio di queste prime funzioni e strumenti di cura, definisce il perimetro di un setting di lavoro ben preciso, dando un primo senso all’azione o alla sua sospensione. Allo stesso tempo si pongono le premesse per l’individuazione dei bisogni specifici, risultato della dinamica paura-difesa: paura di fronte al vissuto di pericolo e difesa o strategia difensiva, disadattiva, disfunzionale o patologica per superarla. L’importanza del riconoscimento dei bisogni specifici dell’individuo psicotico, sapendo distinguere il superfluo dall’essenziale è quindi una premessa fondamentale all’avvio di un trattamento efficace. Presenterò una sintetica esemplificazione, tratta dalla supervisione di un caso clinico che richiese tre successivi incontri. Paola aveva richiesto il ricovero in comunità perché in famiglia si sentiva angosciata; cercava un posto per stare più tranquilla e trovare protezione. Faceva risalire la sua storia di malattia all’età di ventun anni quando: “mi sono sentita puntare qualcosa contro la schiena e in quel momento mi hanno messo un computer dentro la testa con un’operazione di microchirurgia”. I sintomi si erano organizzati attorno ad un sistema delirante in cui i

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potenti della terra si sarebbero accaniti contro di lei, mediante un microcomputer, trasparente ai raggi x, collocato nel suo cervello “perché sapevo i segreti del mondo”. Il desiderio dei suoi persecutori sarebbe stato di piegarla totalmente rinchiudendola in un manicomio, non creduta da nessuno e ridotta allo stato vegetale. Il cibo era l’unico piacere che le rimaneva e l’unica sua arma per contrastarli. Le frequenti crisi erano caratterizzate da vissuti corporei terrifici con sentimenti depressivi, dispercezioni somatiche, allucinazioni uditive e condotte bulimiche. Ogni sollecitazione verso una maggiore autonomia produceva un ritiro immediato. Ciò avveniva soprattutto in relazione a stimolazioni o punizioni autoinflitte che la portavano a “vivere emozioni gradevoli”. Il trattamento risultava assai difficoltoso per il suo bisogno di essere lasciata in pace, senza stimoli e senza dover corrispondere alle attese di miglioramento da parte degli operatori. Lo stallo nel quale ci trovavamo indusse a sottoporre il caso al Professor Zapparoli. Egli fece subito notare che si manifestava una condizione abbastanza particolare e che il rifiuto della paziente di entrare in relazione era da attribuirsi al bisogno di rimanere in uno stato di costanza di dolore. Di conseguenza ogni fonte di piacere le ingenerava colpa e tormenti, per punirsi ed espiare. La gestione di questo caso metteva la comunità in una situazione paradossale perché il nostro mandato di fare tutto il possibile per riabilitare la paziente e darle sollievo, si scontrava col suo bisogno di mantenere, appunto, una costanza di dolore. Scrive in merito Zapparoli: «una delle più importanti dinamiche che ho potuto osservare attraverso il trattamento dei pazienti psicotici riguarda una paradossale inversione del sistema motivazionale che caratterizza l’essere umano, che ricerca il piacere e fugge il dolore: la possibilità cioè che la ricerca della costanza di oggetto possa in certi casi comprendere

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un oggetto particolare, il dolore… …La cessazione del piacere suscita angosce di abbandono, mentre la cessazione del dolore non le suscita: questo è il motivo per cui di fronte all’angoscia di abbandono, che il piacere evoca in quanto la fine del piacere non è sotto il controllo assoluto dell’individuo, coloro che sono fortemente vulnerabili rispetto ad angosce di abbandono, ricercano il dolore e sfuggono il piacere... ...Lo psicotico tradisce colui che lo cura quando non sente capito il suo bisogno di costanza del dolore: rifiuta cioè le cure finalizzate al benessere ed al piacere. Si spiegano così le reazioni paradossali dei pazienti che interrompono le terapie che hanno raggiunto questo scopo». Comprendemmo che Paola esprimeva un bisogno specifico che Zapparoli definì algofilia, il cui mancato riconoscimento impediva il costituirsi dell’alleanza terapeutica e l’avvio del trattamento, inteso come possibilità di favorire un graduale accesso cognitivo della paziente alle ragioni della sua sofferenza, senza che incorresse in stati di profonda angoscia, sentendo minacciato il suo peculiare sistema di sicurezza. Il lavoro con Paola prese quindi un differente indirizzo. Apparve chiaro che i nostri tentativi di farla stare bene: le uscite con l’educatore, il controllo alimentare, i permessi a casa, l’incontro con i parenti in struttura, il prodigarsi dell’équipe per darle sollievo, si erano rivelati strumenti inefficaci. Dovevamo, al contrario, organizzare qualcosa che le evitasse il divertimento. Occorreva passare ad un atteggiamento inanimato perché potesse sviluppare la credenza, ossia la fiducia di essere capita senza che il suo sistema di difesa fosse misconosciuto e minacciato. Le trascrizioni dei colloqui con la psicoterapeuta incaricata del caso mostrano che, in seguito alle modificazioni strategiche che operammo, la paziente iniziò l’elaborazione cognitiva dei suoi bisogni, con una notevole attenuazione della sintomatologia, il diradarsi delle crisi e la loro cessazione.

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È quindi la comprensione del paziente e dei suoi diritti adattativi, compreso il diritto di delirare, a tracciare la rotta del trattamento. Una delle eredità più note di Zapparoli è legata al modello della integrazione funzionale e al metodo che ne discende. Anzitutto il modello integrativo presuppone una disposizione mentale, una cultura clinica e operativa specifica. Si tratta quindi e primariamente di assumere e perseguire un atteggiamento integrativo. L’immagine che s’impone è quella di un movimento concentrico, che si sviluppa attorno e col paziente stesso, compiendo un primo sforzo integrativo tra le sue e le nostre risorse. La prima cerchia è costituita, quindi, dagli operatori che se ne prendono cura. I professionisti in gioco hanno però funzioni e formazioni differenti, talvolta contrastanti o perlomeno diffidenti le une delle altre. Zapparoli ha ben descritto le conseguenze che possono derivare da conflitti di potere sterili tra culture contrapposte e non comunicanti. Anche a questo livello si rende evidente la necessità di un lavoro d’integrazione. Il presupposto per il superamento di questa situazione anti-terapeutica è stato da Lui identificato col passaggio dal potere assoluto a quello relativo. La difesa, una vera e propria resistenza, della personale cultura formativa e professionale produce, infatti, una rivalità all’interno del gruppo di lavoro, con la tendenza a difendere ognuno le proprie posizioni, sino al determinarsi dell’autoinganno con la propensione, più o meno inconsapevole, a privilegiare le informazioni che confermano le proprie conoscenze e contraddicono quelle dei collaboratori. A questo livello l’integrazione presuppone quindi la capacità di dialogo fra professionalità, che non debbono essere in rapporto gerarchico fra loro, ma piuttosto in ascolto le une delle altre. Bisogna quindi favorire una democrazia interna al gruppo di lavoro che, analogamente a quanto facciamo col paziente, privilegi l’ascolto e il rispetto delle funzioni e dei bisogni di ognuno. Questo atteggiamento non solo libera

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le energie di tutti, valorizzandone le competenze, ma è anche un presupposto fondamentale per la ricerca di soluzioni creative. Per proseguire nell’immagine, attorno al paziente e all’istituzione, in un’altra cerchia, si collocano i familiari e gli affetti a lui legati. Anche a questo livello possiamo trovarci in conflitto con altri progetti di cura che non possiamo trascurare, per quanto inadeguati, per il potere che possono esercitare sul paziente stesso, confermandone le resistenze. Siamo di nuovo chiamati ad uno sforzo integrativo, piuttosto che di contrapposizione. Difficilmente riusciremo a portare avanti un percorso terapeutico senza aver costruito un’alleanza sufficiente con i congiunti del paziente, per quanto disfunzionali possano essere. Così come sarà più difficile comprendere i suoi bisogni specifici ignorando, più o meno volutamente, i bisogni insorti all’interno delle sue relazioni primarie e secondarie. Attorno ed assieme a tutto ciò dobbiamo anche perseguire una buona integrazione con i curanti esterni alla struttura e con le figure professionali a vario titolo coinvolte. Infine, in un cammino di cura che presupponga il recupero di una condizione di sufficiente benessere, di guarigione sociale, se non clinica, dovremo anche preoccuparci, in una prospettiva di reinserimento, di lavorare sull’integrazione tra le esigenze proprie del nostro paziente e quelle dell’ambiente che lo accoglierà. I terapeuti debbono perciò saper svolgere un ruolo d’intermediazione tra le diverse forze in gioco delle quali è necessario fare una sorta di mappa dei poteri. Come scrive Zapparoli: «una delle questioni più difficili da affrontare e che crea maggiori ostacoli nel trattamento degli stati psicotici, è la questione legata all’esistenza di gruppi di potere in conflitto tra loro; si rende necessario, infatti, delineare fin dall’inizio, quella che può essere definita la mappa dei poteri per poter cercare, nei limiti del possibile, di arrivare ad una riduzione della conflittualità. Quando questo non avviene, infatti, si crea una situazione di forze opposte che si combattono e che distruggono ogni possibilità di operare costruttivamente verso un obiettivo terapeutico».

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Quanto detto ci riporta ad una specifica funzione terapeutica che il professor Zapparoli ha diffusamente descritto: la funzione intermediaria dell’operatore. Il concetto di oggetto intermediario, deriva dalla ricerca sugli spazi transizionali e porta con sé l’idea di uno spazio mentale e relazionale intermedio, che permette lo sviluppo psichico ed in particolare il passaggio da una fase ad un’altra, considerando l’esigenza di una gradualità fondamentale nelle trasformazioni relative allo sviluppo psichico stesso e al processo terapeutico. Zapparoli ci porta quindi a considerare la funzione dell’operatore quale intermediario tra patologia e normalità, tra follia e realtà, tra i diversi sistemi illusionali del paziente che fanno parte del fondamentale bisogno di non avere bisogni. Egli propone una tecnica che si basa sulla possibilità di porsi come intermediario tra i due poli opposti del dilemma che caratterizza il bisogno del paziente. Non solo essa rinuncia a voler modificare, con qualsiasi mezzo, le convinzioni onnipotenti del paziente, ma lo aiuta nella ricerca di quelle situazioni illusionali che gli mantengano la sicurezza di poter non avere bisogni, ma anzi di essere lui ad avere la padronanza dei bisogni stessi, negandoli. Il paziente, grazie all’esercizio di questa funzione d’intermediazione, può acquisire la sicurezza di avere una residenza emotiva dove sono riconosciuti sia il diritto di delirare, che la possibilità di parlarne. Questa funzione permette al terapeuta di passare gradualmente da una posizione senza potere ad una con potere grazie alla possibilità di comprendere la filosofia di vita dello psicotico, considerando principalmente il folle un individuo che sta vivendo un’esperienza umana. Possiamo quindi descrivere l’intermediario come una persona che riesce ad accedere e poi a comprendere la vita segreta dello psicotico, ad entrare nella relazione senza “farsi risucchiare”, cercando di stabilire una giusta distanza sia per i bisogni del paziente, che per la propria sicurezza emotiva. È proprio questa distanza che permette di svolgere

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la funzione d’intermediario tra la realtà dei bisogni e la necessità di costruire un mondo illusionale senza bisogni, tra la nostra realtà e la loro realtà, cercando di farle coesistere ma mantenendo dentro di noi i confini necessari per non perderci. L’intermediario si propone quale «oggetto transizionale che lo psicotico è in grado di costruire e utilizzare per la rottura, o la riduzione, della fusione simbiotica». Così l’intermediario è il traditore dell’onnipotenza psicotica, ma anche colui che fornisce la credenza che fornisce al paziente un senso di fiducia e di sicurezza sufficiente a permettergli di comunicare e di elaborare le sue angosce e ad attrezzarsi per la sopravvivenza. La comunità terapeutica si connota così, come spazio transizionale, area racchiusa tra il segreto, il tradimento del segreto e la credenza dove, per tappe successive, si costruisce l’alleanza terapeutica, indispensabile all’emergere ed alla comprensione dei bisogni. Diventa quindi possibile la guarigione sociale, togliendo lo schizofrenico dall’isolamento e dalla solitudine del non essere capito. In questo percorso si affianca il programma riabilitativo che non dev’essere in contrasto, ovviamente per quanto possibile, con la lettura e il soddisfacimento dei bisogni. Se la residenza emotiva è spazio, accoglimento, contenitore, gli spazi intermediari sono il movimento, il percorso, il ponte che può portare al cambiamento e l’intermediario colui che lo può permettere. Vorrei aggiungere qualcosa in merito al concetto di area illusionale e alle tecniche relative. Zapparoli stesso scrive quanto questo concetto evochi facilmente l’ostilità dei familiari e degli operatori stessi, ma può essere la miglior strada da percorrere con pazienti gravi, per i quali la guarigione non può essere completa. Si tratta di una modalità di cura che non solo rinuncia a voler modificare le convinzioni onnipotenti del paziente, ma lo aiuta nella ricerca di quelle situazioni illusionali che preservano la sicurezza di cui ha bisogno. Sperimentando uno spazio sicuro, dove vivere questo ambito illusionale, può accettare maggiormente un contatto con la realtà e con gli altri, che diventa affrontabile e gestibile.

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Questi concetti potrebbero risultare abbastanza familiari poiché ciò che il Professor Zapparoli ha insegnato è divenuto un patrimonio comune dato quasi per scontato. È giusto invece ricordare chi ha gettato il seme di una pianta, che nel frattempo è molto cresciuta, sapendo, come dicevano gli antichi, che i nani, solo se si siedono sulle spalle dei giganti possono guardare più lontano. In ricordo del Professore Ricordo molto bene il funerale del Professor Zapparoli. Era agosto, a Bergamo, e la gente arrivava alla spicciolata attraverso il grande giardino della sua casa. Mano a mano che mi avvicinavo alla villa sentivo le note cupe di un’orchestrina di soli fiati che suonava, all’ombra di un porticato, a fianco alla piccola e spoglia cappella di famiglia. Quel giorno tutto sembrava coperto da una foglia sottile d’argento ed era di una bellezza dolorosamente malinconica. Non mi era capitato spesso di vedere tante persone disperse assieme in completo silenzio, come se fossero sbalordite e sole per aver perso qualcuno che non potrà essere sostituito. Sarà stata la musica, troppo bella per essere coperta anche soltanto da un lieve brusio, il profilo cupo della grande casa che incuteva soggezione, immersa dentro una macchia ombrosa di alberi secolari, ma tutti si comportavano come chi non voglia turbare il sonno di una persona cara. Durante la funzione, nella piccola cappella, una nipote ha preso la parola leggendo una lettera che gli inviava idealmente. La ragazza parlava al nonno come se fosse lì e raccontava di un’intimità fra loro, così gioiosa e scanzonata che mi pareva di vederli a farsi i dispetti e poi, all’improvviso, diventare seri a parlare dell’uomo e delle sue complesse e misteriose meraviglie.

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Così, nel giorno della sua partenza, ho fatto il mio ultimo viaggio per andare a trovarlo. L’amico Giovanni Folco mi ha fatto acutamente notare quanto la metafora del viaggio sia calzante per descrivere la nostra storia con Zapparoli. Ma non si tratta solo di una metafora perché per poter navigare, anche solo due ore, nel mare della sua umanissima conoscenza, dovevamo davvero viaggiare. Tutto è iniziato molti anni fa con l’intuizione del Professor Giusto di chiedergli di prenderci in supervisione. A quel tempo, che io ricordi, c’erano solo le prime “Redancie”. Lavoravamo molto, con grandissimo entusiasmo ma con poca esperienza. Ogni giorno ci misuravamo col compito, che spesso appariva impossibile, di comprendere e curare la follia. I nostri pazienti, perlopiù psicotici, ci ponevano sfide affascinanti e misteriose. La buona volontà, la tolleranza, l’atteggiamento sinceramente democratico, lo spirito di sacrificio, che pure sono ingredienti fondamentali del nostro operare, non potevano essere sufficienti. Dovevamo capire di più e iniziare a costruire un metodo, a partire da una maggiore conoscenza dei nostri pazienti, ma anche di come lavorare assieme per loro. Ci si accordò per iniziare le supervisioni a Milano. Ogni due settimane partivamo in macchina, nel tardo pomeriggio, per raggiungere il suo studio. Si lasciavano le comunità in fretta e furia, sempre un po’ in ritardo e in apprensione per qualche guaio lasciato in sospeso, con l’incognita del tempo e del traffico. L’emozione era forte già molto prima di partire. Poi, una volta in auto, iniziava l’avventura. Nel tragitto eravamo sempre stipati e si parlava del caso, del materiale che avevamo inviato, talvolta piuttosto scadente e delle figuracce che temevamo di fare. Si stava costituendo “l’anima” di un gruppo di lavoro che, anche grazie a quell’esperienza, emozionante e amicale, è cresciuto senza troppo disperdersi. Trafelati, si arrivava nello studio del Professor Zapparoli. I casi dovevano essere presentati con qualche giorno di anticipo, mediante una relazione descrittiva, che avrebbe voluto fosse il più

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accurata possibile. Con la Dottoressa Pinciara, sua collaboratrice e recorder, leggevano attentamente il materiale inviato, in modo da risparmiare tempo e avere, al nostro arrivo, già in mente le domande d’approfondimento. Tutta la seduta veniva poi sbobinata e ci veniva spedita perché potessimo rileggerla e rifletterci. Come ha scritto Rodolfo Reichmann (2007): «Zapparoli privilegiava l’approccio fenomenologico e quindi intraprendeva un viaggio volto ad esplorare le varie espressioni delle Psicosi, a partire dal delirio, per passare alle perversioni, alla paura, alla noia al tema della morte e di come affrontarla, in un percorso in cui diventavamo di volta in volta i suoi compagni di avventura e il suo pubblico». Usava dire spesso che i pazienti sono i nostri migliori maestri, oltre che i nostri datori di lavoro. Questo concetto implicava: in primo luogo il richiamo ad un profondo rispetto per l’ammalato, lui solo vero titolare dei propri bisogni o del “bisogno di non avere bisogni”, dei propri progetti e diritti; in secondo luogo, un’osservazione attenta rispetto al riconoscimento delle modalità specifiche d’espressione proprie della Psicosi. Finita la supervisione si tornava a casa. Si ricreava quel clima d’amicizia e comunanza dell’andata con qualcosa di più: una nuova scoperta, un sollievo, un’idea che riorganizzava i nostri disordinati pensieri. Talvolta una gratificazione, talvolta una mortificazione. Zapparoli era, scrive Foresti, «una persona molto riservata e totalmente aliena dai sentimentalismi». Ma le cose sono per ognuno diverse a seconda di come gli appaiono. Nella mia percezione era un Uomo Grande e Segreto nel corpo e nella mente. C’era per me qualcosa di misterioso in lui. Era contadino e signore e non avrei saputo dire quali fossero le sue origini. I suoi modi erano bruschi e spicci ed al tempo stesso gentili e delicati. Era umorale e talvolta sprezzante, specie nei giudizi su alcuni autori e sulle loro teorie e insieme umilmente curioso e attento ad ogni segno che possa svelare un significato. Passando dal dialetto bergamasco ad una lingua precisa e tecnica era sempre perfettamente chiaro e comprensibile,

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riuscendo a dare a ciò che diceva una coloritura emotiva divertita e cangiante. Forse anche per questo era difficile dimenticare le sue geniali e fulminanti osservazioni. Sembrava che qualsiasi cosa gli si raccontasse lui già la conoscesse. Ma soprattutto sentivo che amava i folli, che per lui erano infinitamente più interessanti degli altri. Lo affascinava “l’intelligenza” che i nostri pazienti debbono adoperare per potersi difendere e sopravvivere. La curiosità per il paziente, amorevole e al tempo stessa distaccata, era uno dei suoi grandi talenti. Ripensandoci, in trasparenza dietro a certe sue intuizioni teoriche, si potevano scorgere alcuni tratti suo carattere. Forse anche questo contribuiva a dare verità al suo pensiero e alle sue parole. Zapparoli è morto in pochi minuti, a ottantacinque anni, al largo di Camogli, dove aveva quello che lui chiamava “un Quartierino”, mentre faceva il bagno durante una gita in motoscafo. Mi sembra abbia scelto un bel giorno e un bel modo per morire. Concludo con una frase, tratta dal suo bellissimo libro Vivere e Morire che, come è stato giustamente osservato, “può essere considerata l’emblema simbolo del suo pensiero sulla morte”:

«La prospettiva della vita come un dono e della morte come di un evento naturale

aiuta a contrastare la disperazione e il senso d’impotenza di fronte all’ignoto».

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Caro Lettore,

lo spirito con cui è nata la rivista “Il Vaso di Pandora” è stato quello di favorire ed agevolare il dialogo tra i professionisti delle scienze umane, con particolare riguardo all’area della Psichiatria. A tale proposito, la Segreteria Scientifica e di Redazione invita i Lettori ad inviare elaborati, loro o dei loro collaboratori, dai quali poter trarre nuovi spunti di dialogo e riflessione e che possano contribuire ad un arricchimento dei temi trattati. La pubblicazione di un articolo sulla rivista è, in ogni caso, rigorosamente subordinata al parere positivo di referee esterni al Comitato Editoriale.

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7. I riferimenti bibliografici nel testo saranno indicati tra parentesi semplicemente con il cognome dell’Autore, seguito dalla data ed eventualmente dal numero delle pagine: (Freud 1921, p. 315), ma (Freud A. 1936, p. 58). Nel caso di opere coeve: (Hartmann 1939a, p.46), (Hartmann 1939b, p. 161). Se gli Autori sono due, appariranno entrambi: (Breuer e Freud 1893-1895, p.345). Se sono più di due: (Racamier et al. 1981, p.184).

8. I titoli di libri riportati nel testo saranno sottolineati (o scritti in corsivo). I titoli di articoli apparsi in riviste o libri saranno citati tra virgolette doppie. Ad ogni riferimento bibliografico nel testo dovrà corrispondere una voce nella bibliografia finale.

9. La bibliografia consiste in una lista, non numerata, in ordine alfabetico, e deve contenere unicamente gli Autori citati nello scritto. La voce bibliografica relativa ad un libro seguirà questo modello: - Wing J.K. (1978): Reasoning about Madness. Oxford University Press, Oxford. Di seguito, tra parentesi, può essere indicata l’eventuale traduzione italiana con titolo sottolineato, editore, città, anno; il tutto chiuso da un punto fermo. E’ accettata anche la citazione del titolo della traduzione italiana, purché tra parentesi, dopo il nome dell’Autore, figuri la data di uscita del lavoro in originale. La data della traduzione va in fondo. Es.: - Wing J.K. (1978): Normalità e dissenso, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1983. Le opere di uno stesso Autore appariranno secondo ordine cronologico, con ripetizione del nome dell’Autore ed eventuale differenziazione con lettera alfabetica delle opere: - Freud S. (1923a): Remarks on the Theory and Practic of Dream-Intepretation. S.E., 19. - Freud S. (1923b): The Infantile Genital Organization. S.E., 19. Due coautori appariranno entrambi; se gli Autori sono più di due, può essere citato il primo seguito da: et al. Un Autore citato come Autore singolo e anche come coautore apparirà in primo luogo come Autore singolo. La voce bibliografica relativa ad un articolo pubblicato in volume apparirà secondo questo modello: - Wittember I. (1975): “Depressione primaria dell’autismo. John”. In D. Meltzer et al., Esplorazioni sull’autismo, Boringhieri, Torino, 1977. Oppure, quando l’Autore è lo stesso: - Ferenczi S. (1913): “Stages in the Development of the Sense of Reality”. In First Contributions to Psycho-Analysis, Hogarth Press, Londra, 1952 La voce bibliografica relativa ad un articolo pubblicato su rivista seguirà questo modello: - Servadio E. (1976): Il movimento psicoanalitico in Italia. Riv. Psicoanal. 22, pp. 162-168.

10. Il materiale iconografico, sia fotografie, sia disegni, dovrà essere presentato su singolo foglio e numerato progressivamente in numeri arabi. Le tavole, anch’esse in fogli singoli, dovranno essere numerate in cifre romane. Sia le tavole, sia l’iconografia dovranno essere richiamate nel testo ed essere accompagnate da una legenda esplicativa.

La Segreteria Scientifica e di Redazione si riserva di apportare ai testi degli Autori piccole correzioni, qualora ritenute indispensabili o comunque utili ad uniformare i testi stessi allo stile della rivista. Ogni qual volta ciò accada, l’Autore ne riceverà immediata comunicazione.

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Comunità Terapeutica Psichiatrica Redwest Via S. Antonio 25 – 18038 Verezzo (IM)

Tel. 0184.559508 – Fax. 0184.559949 email: [email protected]

Direttore Sanitario: Dott. Piero Gianotti Coordinatore: Dott.ssa Marcella Devale Coordinatore: Dott.ssa Paola Buonsanti Consulente: Dott. Dario Nicora Supervisore Clinico: Prof.ssa Roberta Antonello Red West (Redancia dell'ovest) è collocata nel piccolo borgo di Verezzo sulle alture di Sanremo, un tempo adibita a convento e orfanotrofio, ad oggi si presenta come una grande casa bianca circondata da un cortile ed affacciata su una piccola cappella. La struttura si propone di offrire i diversi setting d’intervento per adulti (trattamento residenziale: 25 posti letto di cui 5 riservati ai DCA). Patologie quali Disturbi dell’Umore, Disturbi di Personalità, Disturbi Psicotici Subacuti, possono accedere a programmi di trattamento residenziali di medio-breve durata finalizzati ad un più accurato inquadramento diagnostico, ad una valutazione prognostica e all’individuazione di programmi terapeutico-riabilitativi da svolgere in un contesto di trattamento integrato che prevede il coinvolgimento della altre agenzie interessate alla cura del paziente (SPDC, CSM, Strutture Intermedie, Medici di base, curanti privati, ecc.). Oltre a questi interventi la struttura prevede la gestione di un Centro

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Diurno (10 posti) rivolto ad un’utenza caratterizzata prevalentemente da Disturbi del Comportamento Alimentare. È possibile accedere alla comunità in seguito a segnalazione da parte del Servizio Sanitario, del Medico curante, autosegnalazione, segnalazione da parte dei familiari. La valutazione viene condotta attraverso una o più visite presso la struttura. Il programma terapeutico individuale viene concordato con l’inviate e condiviso con il paziente. Il Centro Diurno (Modulo 1) segue un programma terapeutico individualizzato che prevede un’iniziale visita di valutazione clinica, visita medica e visita psicodiagnostica e successivamente la formulazione di una proposta d’interventi individuali e di gruppo che possono comprendere: psicoterapia individuale e di gruppo, attività terapeutiche e riabilitative. La comunità terapeutica residenziale per DCA (Modulo 2) e la comunità terapeutica per i Disturbi dell’Umore, dell’Affettività e di Personalità (Modulo 3) organizzano per i pazienti un programma similare che prevede la partecipazione dell’ospite alla quotidianità della struttura (cura degli spazi propri e comuni). Il programma prevede attività di risocializzazione e recupero delle funzioni sociali, affiancamento nella realizzazione di percorsi individuali, di crescita volti all’autonomizzazione e recupero di risorse relazionali e/o lavorative, partecipazione alle attività terapeutico e riabilitative previste all’interno del modulo funzionale del Centro Diurno. L’équipe è composta da diverse figure professionali; tutti gli operatori partecipano ad una riunione d’équipe settimanale e alla supervisione. L’équipe utilizza il Redancia System: un modello psicodinamico che viene integrato a seconda delle esigenze interne con modelli di tipo cognitivo-comportamentale e sistemico-familiare. Il programma terapeutico del paziente è registrato in una cartella clinica computerizzata che permette di avere una fotografia dettagliata durante il percorso comunitario.

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Comunità Terapeutica Psichiatrica Redwest