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1 IL TRENO Una storia nata ottant’anni fa e non ancora finita di Renato l’antico, classe 1932

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IL TRENO Una storia nata ottant’anni fa e non ancora finita

di Renato l’antico, classe 1932

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IL TRENO Una storia nata ottant’anni fa e non ancora finita

di Renato l’antico, classe 1932

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Correva l’anno 1938 – XVI dell’Era fascista – io avevo 6 anni, abitavo al terzo piano della casa di via Chieri n. 5 (ora via Cosmo) e frequentavo la 1^ classe della vicina Scuola Elementare Roberto d’Azeglio, sotto la ferrea guida della Signora maestra Guttilla, per la quale non rappresentavo di certo un esempio di scolaro modello, sia come profitto che come disciplina.

Comunque sia, o comunque ero, anche a casa non ero un bambino tranquillo tanto che poco prima del Natale del 1938, correndo come un pazzo nel corridoio di casa, mi ero scatafottuto (termine siciliano) violentemente a terra procurandomi una ferita lacero contusa alle parti basse con conseguente sutura al Pronto Soccorso delle Molinette e prognosi di sette giorni s.c..

Nei giorni successivi giacevo immobile (?) e dolorante, in attesa del Natale, nel lettino di mio fratello con le gambe larghe e il pistolino bendato, sperando in una rapida guarigione.

Fu in quei giorni che accadde uno fatto imprevisto. Per me quasi miracoloso.

1935 - Renato sul balcone di Via Chieri

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Mio papà Pietro era un impiegato della sede delle Cartiere Burgo, da poco trasferita a Torino da Verzuolo, piccolo borgo, in provincia di Cuneo che aveva dato i natali, oltre che a me, anche alla più grande Cartiera d’Italia. Mio padre era molto fiero di aver contribuito alla crescita e poi alla trasformazione di questa neonata società, che, sorta eminentemente come azienda familiare, era diventata in breve una società per azioni. La ragione, non ultima, della rapida crescita la si poteva trovare, oltre alle indubbie qualità imprenditoriali, negli ottimi rapporti - indispensabili in quel periodo della storia d’Italia - che il Fondatore ingegner Luigi Burgo aveva con Mussolini, rapporti che però, col mutare degli avvenimenti, sarebbero diventati, a dir poco, tragici (Processo di Verona).

NB: in quel periodo le aziende potevano sopravvivere solo finanziando massicciamente il partito che rispondeva al nome di Partito Nazionale Fascista.

Mio padre, nonostante la sua totale indifferenza verso il regime politico che presiedeva e indirizzava con totale sudditanza tutte le attività sia umane che imprenditoriali, aveva una discreta posizione nella Burgo e a lui era stato affidato (mi pare conoscesse un po’ di tedesco), oltre alle normali mansioni d’ufficio, l’inserimento in azienda di un giovane ingegnere tedesco – ricordo che si chiamava Waidass - proveniente dallo stabilimento che la Burgo aveva acquistato a Pöls in Austria, da poco annessa alla Germania dal regime di Hitler.

Questo signore e la sua famiglia – moglie e due figli - era diventato molto amico di mio padre che l’aveva introdotto molto affabilmente in un ambiente a lui sconosciuto e totalmente diverso da quello tedesco tantoché, proprio a Natale del 1938 aveva voluto

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dimostrare la sua riconoscenza regalando a me, figlio del suo amico, una gioco raro per l’Italia. Era un meraviglioso trenino elettrico Marklin.

Io, immobile nel mio letto di dolore, penso di essere diventato matto – in quel giorno si deve essere manifestata nel mio DNA la mutazione di una molecola della follia infantile che poi si è riappalesata molti anni dopo in un mio nipote, oggi diciottenne (di cui si dirà in seguito) - e più nessuno riusciva a tenermi coricato, salvo uno dei figli di Waidass (si chiamava “Pichico”) che aveva messo insieme, a terra e ai piedi del letto, un piccolo circuito con qualche rotaia e aveva fatto viaggiare elettricamente uno stupendo locomotore verde e alcuni vagoni. Una meraviglia! Il povero degente si dimenava nel suo letto di dolore e non stava più nella pelle per non essere lui a manovrare il treno.

Sono passati tanti e tanti anni ma quell’immagine è rimasta scolpita, come nel granito, nella mia mente e pare sia accaduta ieri, beh……. forse l’altro ieri.

Mio papà, appassionato di fotografia, possedeva una bellissima macchina fotografica a soffietto Voigtländer ed ha scattato nel 1942 alcune fotografie al trenino, montato in camera da letto, di cui dirò in seguito.

Il trenino con la locomotiva elettrica MARKLIN Spur 0 RV 66/12920

La Voigtländer a soffietto di mio padre

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In due foto si può vedere anche la locomotiva a vapore con tender che oggi non c’è più.

I due convogli con la locomotiva a vapore con tender in primo piano (Märklin Spur 0 R880 a molla)

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In un triste e spaventoso giorno di guerra accadde un fatto grave, ormai purtroppo quasi quotidiano. Nella notte fra l’8 e il 9 dicembre del 1942 – è data certa perché ne fa fede un documento ufficiale, da me conservato, di richiesta danni di guerra inoltrata da mio padre - una bomba d’aereo centra la nostra casa causando un parziale crollo del soffitto e del pavimento della camera da letto dei miei genitori dove in un angolo erano religiosamente ben accatastate tutte le scatole del fantastico treno elettrico.

Io e gli altri abitanti della casa eravamo rintanati nel rifugio antiaereo nelle sottostanti cantine e eravamo usciti, spaventati si, ma fortunatamente incolumi, per capire alla luce delle torce elettriche cosa fosse successo e constatare i danni. La camera da letto dei miei genitori non esisteva praticamente più, al sua posto un grande buco al centro della stanza, ma la struttura a volta era rimasta intatta lungo tutto il suo perimetro.

Scatola originale

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Miracolo!

Il treno era tutto al suo posto anche se coperto da uno spesso strato di polvere e calcinacci. L’hanno ricuperato e posto al sicuro gli uomini dell’U.N.P.A (Unione Nazionale Protezione Antiaerea). Tutto il resto degli arredi era andato distrutto fra la straziante disperazione dei miei genitori, ma il mio tesoro era salvo. Fra le cose andate perdute o rubate dagli sciacalli che imperversavano c’era pure la mia fisarmonica che io stavo imparando a suonare – anche senza troppa convinzione – con il Signor Maestro di 5^ Conte Radicati di Primeglio. Per mia madre era una perdita gravissima perché vedeva in me un futuro virtuoso della fisarmonica. A volte le madri si fanno strane idee. Tutta la casa era inagibile, noi con tutti gli altri abitanti siamo sfollati, noi prima a Ceres e poi, nel gennaio del 1943, a Costigliole Saluzzo, paese vicino a Verzuolo dove era anche stata trasferita la sede delle Cartiere Burgo.

Qui il racconto fa una breve pausa per dire che oggi, marzo del 2018, la mia vecchia casa di via Chieri, ristrutturata nel dopoguerra, esiste ancora ed è quasi identica a quella del 1940.

Il balcone della mia foto del 1935 - oggi La casa di via Chieri, oggi via Cosmo

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Costigliole era un paese di contadini che mediamente non amavano gli sfollati (non esisteva ancora la parola immigrati) perché dovevano dividere con loro le già scarse risorse alimentari rigorosamente tesserate (eravamo nel terzo anno di guerra) e soprattutto non immaginavano lontanamente che a Torino – distante solo 63 Km ma a ben 4 ore di treno - la situazione era ben peggiore e si faceva letteralmente la fame mentre loro, i locali, mangiavano ancora pane bianco. Per me era un mondo nuovo e tutto da scoprire ma dove potevo dare sfogo a tutte le mie iniziative ed esperienze vissute nella grande città e a quelle nuove che mi stavo facendo in paese. Le mie specialità erano piccoli modelli di carro agricolo a quattro ruote a trazione ovviamente animale – il tamagnùn – che veniva costruito utilizzando telai di stoffe vuoti, pezzi vari di legno per i supporti delle ruote ed il timone, chiodi vecchi raddrizzati; il problema grosso era rappresentato dalle ruote. Ma che c’era di meglio che le ruote in ferro che sostenevano i cavi di comando dei passaggi a livello della vicina ferrovia? Lì ho rischiato grosso ma me la sono cavata alla grande raccontando ai Carabinieri che le avevo trovate in un deposito nascosto (ne avevo già accumulate un bel po’) da presunti sabotatori –partigiani? – della ferrovia. I Carabinieri accompagnati da me sul posto – in loco - hanno potuto constatare che di ruote accumulate fra i cespugli ce n’erano parecchie e mi hanno ringraziato per l’importante informazione fornitagli. Però le ruote ho dovuto restituirle. Con questi carri agricoli io giocavo con i miei amichetti ed uno di loro si prestava a fare il bue, attaccato al timone, per trainare il carro stracarico di spighe di grano raccolte nei campi, di mele cadute o di paglia e fieno che poi il finto bue doveva far finta di mangiare. Avevo anche inventato e costruito un apposito

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attrezzo per raccogliere le pesche e le mele stando a terra – in verità l’avevo copiato ma i paesani non lo sapevano.

La popolazione indigena era sbalordita, ma presto ero entrato nelle loro grazie, mi ero fatto degli amici come il fornaio, il carradore, il contadino con le vacche e le galline, il cagnolino del calzolaio, il vecchio prete; ma dopo l’8 settembre del 1943, quando la maggior parte degli uomini abili erano fuggiti sulle montagne o erano finiti in Germania, io, fra una bombardamento, un rastrellamento o qualche altra frequente azione di guerra, a bordo di uno scricchiolante carro agricolo trainato da un bue aiutavo i vecchi e le donne nei lavori di campagna, suggerendo qualche innovazione per ridurre la fatica.

Il mio soggiorno a Costigliole è stato però abbastanza breve e limitato ai mesi estivi; per 9 mesi all’anno, salvo le brevi vacanze di Natale e Pasqua, io, molto a malincuore, ero in collegio nella Scuola Agraria Salesiana di Lombriasco per frequentare la scuola media. La mia ultima pagella di terza media - che conservo - recita: “promosso ma, se si impegna, può fare molto di più”. NO COMMENT.

Durante le mie vacanze estive a Costigliole non mancavo certo di farmi notare come, tanto per citarne una, quella volta che ho montato il treno elettrico in un porticato (l’Ala del mercato) affacciato sulla via principale fra lo stupore e l’ammirazione di grandi e piccini. Purtroppo la corrente elettrica non era accessibile e quindi il trenino andava solo avanti grazie alla poderosa locomotiva a molla. Era comunque un avvenimento epocale per il paese.

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Nel 1946 tornati a Torino alla fine della guerra, accompagnati sempre dal mio fedele trenino, cominciavo ad essere grandicello e i miei interessi erano ormai rivolti altrove anche se un bel giorno, dopo snervanti trattative con Isacco (al tempo unico negozio di trenini ed altri giochi scientifici a Torino) ho permutato la “Littorina (automotrice del regime con fasci littorio)” e la locomotiva a molla e tender della foto con un motore a scoppio per aeromodelli ed un motore a vapore che tutt’oggi è vivente - e funzionante - ed è stato utilizzato qualche anno fa, a scopo dimostrativo, nelle scuole dei miei figli.

Ma la storia del trenino Marklin, abbandonato per molti anni in un qualche armadio di casa, non finisce qui.

Nel 1962 convolo a nozze e nasce un maschietto piuttosto vispo che ben presto dimostra la sua insaziabile e inesauribile attitudine a distruggere qualsivoglia tipo di gioco. Pierino, soprannominato “la peste”, è il terrore di suo cugino Vittorio che invece è gelosissimo dei suoi giochi che cura e accarezza.

Il bimbetto Pierino cresce e ogni tanto trascorre qualche giornata dalla nonna Matilde, detta “la nonna dei treni” perché dalle finestre della sua casa si vede lo scalo

Piero, soprannominato “Pierino la peste”

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ferroviario del Vallino dove vengono formati i treni in partenza dalla stazione di Porta Nuova. E’ tutto un via vai di piccole locomotive che spostano e agganciano vagoni passeggeri e merci. Il piccolo, in piedi su una seggiola, resta affacciato in estasi davanti a una finestra guardando per ore il movimento dei treni, emettendo di tanto in tanto gridolini di gioia e abbandona la strategica postazione solo per un piatto di pastasciutta e la bistecchina.

Passano gli anni, nel frattempo la nonna aveva cambiato casa e Pierino, diventato più grandicello scopre, ravanando in un armadio a casa della nonna, lo scatolone del trenino Marklin. La nonna è e rimane quindi ancora “la nonna dei treni”.

Da quel giorno Pierino da inizio alle prove per diventare ingegnere.

Le rotaie, appoggiate a supporti precari (le scatole da scarpe, i vari imballaggi, i libri e giornali, le vecchie padelle non mancavano certo a casa della nonna, tutto materiale buono per costruzioni), diventavano traballanti ottovolanti su cui far scendere a velocità vertiginosa i vagoni e i vagoncini che finivano inesorabilmente spiaccicati contro a un muro.

Per mia fortuna, io non c’ero e non vedevo la triste sorte di una reliquia.

Chi inopinatamente sta leggendo queste righe penserà certamente che la storia del trenino finisca qui; non è così.

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Il trenino va in letargo per anni. Gli scatoloni ogni tanto escono a prendere aria quando traslocano da una casa all’altra finché finiscono a casa mia dove vivo oggi, e dove il profondo sonno continua. Il trenino aspetta … la riesumazione.

Alcuni anni fa, rimasto ormai solo da tempo perché la compagna della mia vita era salita fra le stelle, io tanto per ammazzare il tempo, ho rimesso le mani sul treno, anzi, appena l’ho visto, me le sono messe in testa.

La guerra l’aveva miracolosamente salvato ma le mani di Pierino l’avevano reso molto malconcio e non più in grado di funzionare; le rotaie erano storte e schiacciate, il locomotore elettrico sembrava morto, i vagoni avevano il tetto e le fiancate deformate, molte scalette erano sparite insieme ai respingenti, l’unico ancora vivo era il trasformatore che però doveva essere alimentato con una tensione di 110 Volt e non parliamo della vernice.

Con molta pazienza e con l’aiuto di qualche attrezzino fatto apposta ho raddrizzato e riparato tutte le rotaie e gli scambi, ho sistemato i vagoni e ricostruito i pezzi mancanti e perduti chissà dove, la vernice delle carrozzerie è stata ritoccata; il locomotore ha richiesto parecchio lavoro per riparare il motore elettrico e gli altri congegni che hanno dovuto essere ricostruiti manualmente ex-novo non esistendo ormai più pezzi di ricambio originali.

E’ stato un lavoro lungo e di molta pazienza ma alla fine il trenino del 1938 è tornato a vivere e funziona quasi perfettamente.

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Se non ci credete, guardate il video (*), girato nel febbraio del 2018 proprio da quel Pierino che era stato l’artefice del tragico destino di un pezzo da museo.

Fine della storia.

Renato, marzo 2018

(*) Potete richiedermi il video e sarò felice di condividerlo con voi via internet.

P.S. Con il trascorrere degli anni, ripensando al considerevole valore del regalo che avevo ricevuto, si è insinuato in me il sospetto che l’incarico dato a mio padre, più che rivolto all’ambientalismo dell’ingegnere tedesco, non fosse altro che un’abile mossa per indottrinare mio padre – in quanto persona con un discreto seguito nell’ambito aziendale – nel pensiero e nella logica della cultura fascista con la complicità di una persona di indiscussa (credo) fede politica.

E’ un dubbio che resta, che è e sarà senza soluzione ma, pensando in modo più realistico, il trenino c’è e non è il caso di porci tanti interrogativi.

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Appendice n.1

Il racconto a pagina 9 dimentica un fatto rilevante, notato da un attento lettore; difatti i demolitori del trenino sono stati ben due, entrambi figli miei, che, pur avendo agito in tempi successivi e con modalità diverse, hanno ottenuto pressappoco lo stesso risultato.

Nei primi anni ’70 anche il mio secondo figlio – il sessantottino Roberto – ha dato sfogo alle sue idee creative o distruttive realizzando ottovolanti e circuiti aerei molto più evoluti utilizzando come punto di partenza tavoli e sedie, quindi più alti degli scatoloni e delle padelle del fratello maggiore, con il risultato che lo schianto dei vagoncini era ben più efficace e le rotaie molto più deformate.

Ma nulla però succede per caso. Se il trenino per avventura avesse potuto viaggiare nel modo per il quale il costruttore l’aveva progettato e cioè con la corrente elettrica, forse i fatti sarebbero stati ben altri. Ma c’era un problema, anzi due: mai la nonna dei treni avrebbe permesso ai nipotini che aveva in custodia di mettere le mani sulla corrente elettrica; e meno male che è andata così perché se non altro il divieto è servito a salvare almeno il trasformatore che, come detto, richiedeva una tensione di 110 volt e quindi non avrebbe potuto essere utilizzato (o meglio si sarebbe immediatamente fulminato) con la nuova tensione di 220 volt. Senza contare, in secondo luogo che la casa della nonna era dotata di prese elettriche di sicurezza

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TICINO MAGIC e quindi, anche se i due vivaci frugoletti fossero momentaneamente sfuggiti all’attenta sorveglianza, non avrebbero potuto recare danno.

E poi, fra le cose che trovano poco sicura spiegazione - anche se forse una ragione la si può trovare in quel DNA di cui si è detto a pagina 2 – vi è la seguente.

Molti anni dopo, e siamo ormai nel 2000, un mio nipote, fanatico fin da piccolo, di treni, auto, camion e qualsiasi veicolo a motore ha ignorato totalmente il trenino del nonno ma se casualmente l’avesse scoperto, son certo, l’avrebbe trattato come una reliquia da venerare.

C’era ben altro a cui dedicare intere giornate! Adesso si andava elettricamente.

Fine della prima Appendice

25 marzo 2018

Note dell’autore:

- le date di tutte le fotografie presenti nel documento sono riportate sul retro delle foto originali che per semplicità non sono state qui riprodotte;

- i marchi e modelli dei vari “pezzi” del treno sono stati ricavati dai cataloghi dei prodotti Marklin ancora esistenti e reperiti nella rete.

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Documentazione fotografica

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