Il testamento di Tito

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Tito (Disma, secondo altre fonti) è il nome del ladrone che, alla destra del Cristo in croce, riceve da lui l’assoluzione dei propri peccati. Salvatore, il protagonista del romanzo, un pensionato che, prima geometra presso l’Ufficio Tecnico Comunale, ha poi concluso la propria attività lavorativa come rappresentante di vini, ascolta una dimenticata canzone della propria giovinezza: “Il testamento di Tito” di Fabrizio de Andrè. In quell’esame di coscienza apparentemente dissacratorio che fa il buon ladrone, Salvatore rivive le difficoltà e le contraddizioni della propria vita: dalle paure infantili per un Dio vendicatore, alle torbide visioni del peccato di un catechismo anni ’50, dalla morbosa curiosità sui temi di morale sessuale ai cedimenti di fronte alle lusinghe del potere, della ricchezza, del possesso. Un esame di coscienza laico e tipicamente umano.

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CARLO ZAMPARELLI

IL TESTAMENTO DI TITO

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IL TESTAMENTO DI TITO Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-573-1 In copertina: “La crocifissione del buon ladrone”.

Fotografia di Claudio Moncada, Ispica (RG), 2009.

Prima edizione Luglio 2013 Stampato da

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In quest’opera personaggi, luoghi e circostanze sono esclusivo frutto della fantasia dell’autore.

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“Siamo re che si credono mendicanti. L’uomo è eterno, ma crede alla follia che lo dice mortale e quindi mendica la propria salvezza dal baratro del niente presso un Dio oppure, come accade ora, presso la scienza.” Emanuele Severino (Professore emerito dell’Università Ca’ Foscari di Venezia), “Cosa vuol dire morire”, a cura di Daniela Monti, Einaudi, 2010, pag. 139

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Il testamento di Tito Maria mi raggiunge in cucina. Io ho già fatto colazione e ascolto la radio che tengo accanto al frigorifero. Una canzone che credevo di aver dimenticato. «Ricordi?» Maria non risponde. È ancora assonnata e, con gli auricolari nelle orecchie, forse non mi ha neanche sentito. Tiene appesa al collo la radiolina digitale che le ho regalato. La mattina le piace vagare in un lento risveglio cullato solo dalle chiacchiere del primo giornale radio della giornata. So che la musica la infastidisce. So che vuole isolarsi dalle note che provengono dalla radio che ho appena acceso. Attendo che abbia terminato di armeggiare con la macchina del caffè. Mi siedo in silenzio accanto a lei e continuo ad ascoltare la mia musica. Il suo risveglio è lento, poi sembra accorgersi della mia presenza e la giornata comincia uguale a tante altre. «Ricordi?» insisto. Vorrei lasciarla ancora a lungo nel suo limbo di sogni non ancora terminati, fra pensieri che intravedo sotto i suoi occhi socchiusi, ma oggi non posso proprio. La canzone che sto ascoltando mi mette nostalgia, una commozione che voglio subito condividere con qualcuno. Non avrai altro Dio all'infuori di me, spesso mi ha fatto pensare: genti diverse venute dall'est, dicevan che in fondo era uguale. Credevano a un altro diverso da te e non mi hanno fatto del male. Credevano a un altro diverso da te e non mi hanno fatto del male.

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Una voce dolce e pacata, una chitarra che appena si intromette fra i versi di una poesia. Maria mi guarda con uno sguardo supplice ed ebete. Libera un orecchio dall’auricolare, allontana da sé la tazza sulla tavola e sussurra qualcosa che non capisco. Ho alzato troppo il volume della radio. Mi alzo, metto nel lavabo la tazza del caffè, faccio scorrere un po’ d’acqua e mi guardo attorno. «Ricordi?» «Sembra Fabrizio De Andrè, ma questa non l’ho mai sentita…» «Il testamento di Tito. Non la conosci? Era il 1969.» «De Andrè mi ha sempre messo tristezza, non era fra i miei autori preferiti.» Si rimette l’auricolare. Dice che ora ci sono gli interventi degli ascoltatori. Mi piace aggirarmi per casa con la musica che mi segue da una stanza all’altra. Accendo anche la radio dello studio e controllo fuori dalla finestra che tempo fa. È ancora presto e una nebbiolina stenta a lasciare libero il giardino che circonda la casa. Mi alzo troppo presto la mattina, forse per l’abitudine di quando ancora lavoravo, forse per l’insonnia che dicono sia normale nelle persone anziane. Anche stamane, alle quattro ero già sveglio, ho sonnecchiato fino alle sei, poi mi sono voltato e rivoltato a trovare nuovi progetti per la giornata e dalle sette sono in piedi. Forse dovrei fare come Maria: lei non si alza dal letto mai prima delle otto, ma è perché la sera va a dormire oltre mezzanotte, anche alle due, quando è finito l’ultimo film giallo alla televisione. A me i film gialli mettono tristezza, specie quelli costruiti attorno al piacere di sbirciare dal buco della serratura le miserie e le efferatezze umane. Preferisco i film che troppo frettolosamente ho visto da ragazzo. Mi beo a ritrovarvi tutto quello che allora ero sicuro sarei diventato. Il film “Woodstock 1969” l’ho rivisto almeno tre volte e ogni volta con la stessa eccitazione di quando avevo diciotto anni. Avrei dovuto dire più semplicemente “con lo stesso piacere”: forse maschero ciò che ora è solo nostalgia e rimpianto. La nostra casa è troppo grande per noi due soli. Mia figlia, da quando è sposata, abita in un’altra città e sono vuote anche le due stanze dove hanno vissuto fino alla fine i miei genitori. In quelle stanze non ci metto

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mai piede. Le altre ogni mattina le riempio di musica, di fotografie e di ricordi. «Ricordi?» De Andrè mi segue. Maria ha finito la sua colazione e piomba anche lei fra questi ricordi. I ricordi di due ragazzi diciottenni che su una spiaggia guardavano lontano l’uno negli occhi dell’altra. Ci eravamo appena diplomati e la vita era tutta davanti a noi. È vero, neanche allora a Maria piaceva De Andrè. Diceva che il suo gruppo preferito erano i Weather Report con quella musica un po’ rock e un po’ jazz. In realtà non amava la musica, quella classica la annoiava, quella moderna la ascoltava solo per farmi piacere. Però doveva essere una musica che non mettesse tristezza. Per un suo compleanno le regalai l’ultimo 33 giri della Premiata Forneria Marconi. «Bello» disse, «belli questi suoni vibrati...» Per un’altra ricorrenza provai a cambiare genere con un disco di Burt Bachrach. Poi capii che voleva stare sola con me, in silenzio, sulla spiaggia. Era l’anno in cui sarei partito per il servizio militare. Oggi non ho voglia di uscire. Oggi è festa. Maria si è già vestita e mi chiede cosa faccio. Mi chiede se l’accompagno al supermercato. Sono sprofondato nella mia poltrona preferita e questa volta sono io a non risponderle. Preferisco non rispondere: sento che sarebbe il modo più sbagliato per iniziare questa giornata. Lei capisce e non insiste oltre. Mentre si allontana le grido dietro: «Ma è festa, sarà tutto chiuso.» «L’Ipercoop non chiude mai» mi risponde. Sento la porta chiudersi alle sue spalle. Il brano di De Andrè è terminato; è volato via troppo in fretta, appena il tempo di insinuarsi fra i miei ricordi. Proprio ora che, solo in questa stanza, sento tutto il piacere di possedere un tempo infinito tutto per me. Mi collego a Internet con il mio telefonino Wi-Fi e cerco su You Tube il brano musicale. Ho un telefonino dell’ultima generazione e ne posso pure collegare l’audio alle casse dello stereo. Mi armo di telecomandi e torno a sprofondarmi in poltrona. «…genti diverse venute dall'est…»

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«Ricordi papà? Ricordi quante favole mi raccontavi di quei popoli che sbarcavano sulle nostre coste, di quelle guerre, di quegli eroi che avevano combattuto lì dove tu portavi i turisti in visita?» Ascolto quei versi e penso a mio padre in divisa da custode, all’antiquarium dove lui fiero mostrava la statua di un accigliato Zeus che a me, troppo piccolo per capire, metteva una paura indicibile. Vorrei rispondergli. Mi chiede se voglio accompagnarlo nel suo giro di guida turistica. Vorrei gridargli di sì, che mi piace tanto scoprire assieme a lui quei mondi misteriosi. Vorrei corrergli fra le gambe, guardare tutte quelle persone che lo seguono come scolaretti, sentire parlare altri bambini in lingue straniere, ma non posso. Sono sprofondato in questa poltrona e la canzone continua. Non nominare il nome di Dio, non nominarlo invano. Con un coltello piantato nel fianco gridai la mia pena e il suo nome: ma forse era stanco, forse troppo occupato, e non ascoltò il mio dolore. Ma forse era stanco, forse troppo lontano, davvero lo nominai invano. Tito, il buon ladrone, ha invocato Dio. Secondo De Andrè non è stato ascoltato. Anch’io da bambino lo invocavo. Credo che, a quei tempi, mi abbia ascoltato, anche se io con quel nome ci giocavo, lo inserivo fra le tante formule scaramantiche che usavo per vincere la paura del buio e non sapevo che il vero buio l’avrei incontrato molti anni dopo, da adulto. Il ladrone invece non l’ha ascoltato. Perché? E se ora lo invocassi nuovamente anch’io, se gli chiedessi di uscire dal buio che vedo infittirsi come gli anni che mi rincorrono veloci? Mi ascolterebbe nuovamente? «Come potrò dire a mia madre che ho paura?» Onora il padre, onora la madre e onora anche il loro bastone, bacia la mano che ruppe il tuo naso perché le chiedevi un boccone:

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quando a mio padre si fermò il cuore non ho provato dolore. Quanto a mio padre si fermò il cuore non ho provato dolore. «Papà, raccontami. Raccontami di quando eri bambino e seguivi tuo padre all’alba nei campi. Raccontami di quella volta che lasciasti aperta la porta della stalla, di quella volta che il nonno si sfilò la cintura per colpirti.» Sento come una fitta al fianco. Arresto la musica e mi alzo dalla poltrona indeciso su cosa fare. Fuori ha cominciato a piovigginare e non credo di aver più voglia di ricordare. Alzandomi inciampo sul tappeto. È un tappeto che ho sempre pensato di eliminare. È anche brutto e vecchio; è di lana grezza, è stato fatto da mio nonno. I nonni paterni li ho conosciuti poco: mia madre non voleva che li frequentassimo. Diceva che la guardavano con invidia. La famiglia di mia madre era di un altro ceto sociale, rispettata e onorata da tutti in paese. Era una famiglia di zii, zie, nonni e bisnonni; vestivano di nero, gli uomini avevano una catena d’oro al panciotto e, quando sedevano in circolo sul terrazzo, sulle sedie di paglia, allungavano le gambe parlando fra loro con gesti e con silenziosi movimenti delle labbra. «Salvatore, saluta lo zio… come si dice, Salvatore? Dagli un bacio.» Quello zio, che si chiamava come me, sapeva di mentine alla liquirizia. Mio nonno era sempre assorto in pensieri lontani e avevo paura a strofinare la mia guancia sulla sua barba ispida. La bisnonna, la nonna e le altre donne erano le uniche a riempire quei silenzi. Risento le loro stridule voci di comando e di soddisfazione. Un atavico compiacimento di appartenere alla famiglia. Chissà cosa staranno facendo in questo momento i miei nipoti. Così lontani, così distanti da questa famiglia di cui hanno sentito parlare solo nelle mie favole. Sono forse anch’io così distante da loro? Come posso ulteriormente nutrire la loro solarità con questa morta presenza che mi aleggia dentro? Mi turbano troppo questi versi: chiudo gli occhi per non voler più vedere il passato. Eppure il passato mi insegue: mi ritrovo nella mia poltrona a far ripartire i versi di quella canzone.

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Ricorda di santificare le feste. Facile per noi ladroni entrare nei templi che rigurgitan salmi di schiavi e dei loro padroni senza finire legati agli altari sgozzati come animali. Senza finire legati agli altari sgozzati come animali. «Ricordi mamma? Ricordi quando, la domenica, mi accompagnavi in chiesa?» Per il catechismo, invece, era sempre mio padre a offrirsi di accompagnarmi; tirava fuori la sua bicicletta e mi invitava a saltare sulla canna. Non capivo perché la mamma non voleva. Quando lo capii diventai il suo complice. Gioisco nel rivedere i suoi occhi contenti mentre, dopo avermi lasciato sul sagrato della chiesa, si avvia verso la mescita di vino che si trovava in quella piazza. Era quella la sua festa; era sabato pomeriggio e durava fino a tardi. Finivo il catechismo e rimanevo fino a ora di cena, a giocare e a correre fra le panchine della piazza, in attesa che lui, più rosso di me, mi chiamasse per fare ritorno a casa. Lo rivedo anche quando mi accompagnava la mattina a scuola. Iniziava la sua giornata con gioiosità per quel piacere che l’attendeva. Ma non ne parlava; a casa soffriva per quella debolezza che la mamma chiamava vizio e spesso gli vedevo sparire il sorriso dal volto. Festeggia la tua festa, papà, ogni giorno ne hai diritto. Ogni giorno voglio rivedere il tuo sorriso, il tuo sguardo furbo, le tue gote arrossate. Mi vien voglia di prendere quel vino che conservo per le grandi occasioni. È uno dei residui del magazzino di quando facevo il rappresentante. «Vedi, papà, che ho capito? Vedi come il destino ha voluto che anche la mia vita fosse scandita dal vino? Hai visto che ho fatto bene ad abbandonare per tempo il mio lavoro da geometra?» Ho anch’io un modo di santificare le feste che potrebbe apparire blasfemo. Ma chi danneggio con la mia gioia? E poi, anche se qualche volta esagero un po’, tu mi capisci, non è vero? Sai bene a cosa mi riferisco: non parlo dell’ebbrezza di una ubriacatura, ma dell’ebbrezza

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di ritrovarsi a fare scorrere liberi i nostri sogni. Sarà pure un voler fuggire dalla realtà ma solo così essi cessano di essere il tormento di un sonno agitato e diventano quei pensieri, quelle idee che, non più fugaci, mi hanno fatto diventare adulto. Com’è lontano ormai quel tempo in cui la festa era invece solo alla domenica! Quando era la mamma a condurmi in chiesa per la messa della mattina. Tu dicevi che proprio la domenica non potevi assentarti dal lavoro. Rivedo una donna e un bambino che, con gli abiti buoni, si incamminano per la stradella davanti casa. Li rivedo in paese, assieme a tanta altra gente sorridente e compita, davanti al portone della chiesa, pronti a entrare nei templi che rigurgitan salmi. Sento pure il suono delle campane. Stonano e si sovrappongono con fastidio alle note sommesse della chitarra di De Andrè. Voglio ascoltare solo lei. Il quinto dice non devi rubare e forse io l'ho rispettato vuotando, in silenzio, le tasche già gonfie di quelli che avevan rubato: ma io, senza legge, rubai in nome mio, quegli altri nel nome di Dio. Ma io, senza legge, rubai in nome mio, quegli altri nel nome di Dio. Nello studio ho di fronte a me una libreria con tanti scaffali colmi di apparecchi elettronici e di telecomandi; telecomandi per la televisione, per il videoregistratore, per il lettore DVD e per il ricevitore satellitare. Uno scaffale lo dovrei rinforzare, è troppo debole per tutte quelle apparecchiature. Ormai so come fare: in cucina sotto la mensola che corre lungo tutta la parete ho inserito delle squadrette metalliche. Maria diceva che, per alleggerire il peso, forse era meglio disfarsi di quegli inutili elettrodomestici, che lo snocciolatore elettrico per le olive non le serviva e che della micro filtratrice per il latte ne avrebbe fatto volentieri a meno. A lei piace il latte intero, magari appena munto. Non so decidermi, forse quelle macchine un giorno potranno pure esserci utili.

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Mi dico che domani provvederò a rinforzare con lo stesso sistema anche le mensole della libreria. In alto tengo pochi libri vecchi e qualche ricordo dei tempi della scuola di mia figlia. È questa la fine che fanno i ricordi, in alto nei posti più scomodi di una libreria. Eppure lì, che mi ci vuole la scala per arrivarci, fino a qualche anno fa tenevo ben nascosto qualcosa che non volevo appartenesse al mondo dei ricordi. Anzi. Era un antico vasetto greco, nero a figure rosse; un lekythos del V secolo a.C., mi aveva detto una volta un esperto. Apparteneva a mio padre e lui diceva che era veramente antico e di valore. Non ho mai saputo da dove provenisse. Non l’ho mai voluto sapere. Oggi lo so. Fra i versi di questa canzone lo rivedo trafficare con un signore che ci veniva a trovare spesso, quando ancora abitavamo nell’alloggio di servizio del parco archeologico. Ma oggi so anche che almeno non ha rubato nel nome di Dio. So che eravamo veramente poveri e che anche grazie a vasetti del genere sono potuto diventare geometra e avere con Maria una casa tutta per me. Mi scrollo di dosso tanta ipocrisia. Mi guardo attorno per essere sicuro che nessuno ascolti questi pensieri. Sono ladro anch’io e provo a farmi un segno di croce per penitenza; ho l’impressione che sia solo una ricerca di complicità. Tanto sono solo e non mi vede nessuno. Non commettere atti che non siano puri cioè non disperdere il seme. Feconda una donna ogni volta che l'ami così sarai uomo di fede: Poi la voglia svanisce e il figlio rimane e tanti ne uccide la fame. Io, forse, ho confuso il piacere e l'amore: ma non ho creato dolore. Fermo la musica e riporto indietro la traccia. Voglio riascoltarla con calma. Una, due, tre volte. Oggi è festa. È la festa dell’Immacolata Concezione ma ho da tempo smesso di andare a messa. Se ci fosse Maria le racconterei ancora una volta di quando da ragazzo mi accapigliai con il parroco della chiesa di Mongibellisi sul significato di quella festa. È una storia che ho raccontato tante volte; ho scritto al Vescovo, ai giornali, ho posto

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quesiti sui vari siti internet che trattano di religione… anni e anni… Ma mi rendo conto che tutto ciò non può nulla di fronte ai millenni di ipocrisie cattoliche che, interiorizzate e giustificate, ormai rendono incomprensibile questa mia protesta. Quella volta, come sempre, ero andato a messa con mia madre. Ero alle soglie della pubertà e, come si può ben capire, ero molto sensibile ai temi di etica sessuale che venivano trattati anche dalla religione. Non ricordo dove avevo letto che il testo originale del sesto comandamento vietava di commettere adulterio, senza alcun richiamo, neanche velato, alla castità o alla verginità che invece, in ogni omelia, erano sbandierate come le principali virtù dell’uomo, forse ancora più fondamentali per la donna. Perché sono così pochi i santi, e ancor meno le sante, che hanno vissuto una normale vita coniugale? Ritrovai questi concetti, ancora una volta, nella predica di quel parroco: Maria aveva concepito Gesù rimanendo pura e immacolata, cioè senza alcun intervento maschile. Era facile concludere che a essere impuro era il concetto stesso dell’atto sessuale. Roba da impazzire, da far impazzire la mente di chi, ragazzo, si affaccia ai segreti della vita. Roba da far sospirare di ipocrisia le tante beghine e i tanti adulti che, introiettato con morbosità il problema, da secoli vivono in un soffocante e ineliminabile rimorso. «Ma perché ancora giocate con quel termine “concezione” senza spiegare chi ne è il soggetto e chi ne è l’oggetto?» chiesi al parroco, dopo la messa. «Perché non spiegate che non c’entra nulla il concepimento di Gesù da parte di Maria, e che invece si tratta della nascita stessa della Madonna? Di una nascita che, a differenza di tutti gli esseri umani, è avvenuta senza la presenza, sin dal momento del suo concepimento da parte di Giocchino e Anna, del peccato originale?» Il parroco mi ascoltava. Rosso in viso, tentò di dire qualcosa: «Ma è certo che è così… però la purezza della Madonna è pur sempre un fatto che…» «Un fatto che non discende dai suoi più o meno avvenuti rapporti sessuali. Ma è sempre opportuno lasciare ambigua la questione, non è vero?» Di ritorno a casa avrei voluto dire qualcosa a mia madre. La sentivo troppo addolorata per quella che evidentemente considerava un mio atto

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irriguardoso verso la religione, la Chiesa, il prete. Tacqui, come sempre ho poi fatto di fronte a questi argomenti. Provo a chiederglielo ora, con il cuore palpitante nonostante la pacatezza che credo di aver raggiunto. Evidentemente questa pacatezza è solo apparente se è vero che questi versi di De Andrè mi fanno ancora fremere. E allora le chiedo: «Dimmi mamma, cosa è per te l’Immacolata Concezione? Ricordi quando mi spiegavi che l’unico sistema anticoncezionale permesso dalla chiesa era il metodo di Ogino Knaus? Ricordi come ti ascoltavo a occhi bassi senza avere il coraggio di chiedere alcunché?» Forse avrei dovuto chiederlo a papà, ma lui era quello delle grandi favole, degli eroi, dei miti e delle leggende di altre generazioni. Ricordi, papà, quando mi tenesti un’ora ad ascoltarti mentre cercavi di spiegarmi certe cose che, in verità, non ti avevo neanche mai chiesto? Potevo avere dieci anni o poco più. Non capii perché ci tenevi tanto a raccontarmi come nascono i fiori, come sono fatti internamente, come avviene l’impollinazione. Non capivo, ma ti vedevo così serio e impacciato in quelle lezioni di botanica che rimasi in silenzio per tutto il tempo con gli occhi bassi e uno strano senso di colpa per i segreti di cui venivo fatto partecipe. Ma segreti di che cosa? Non lo chiesi. E poi, ricordi? Ricordi che l’altra tua fissazione era quella di insegnarmi a usare il vocabolario? Dicevi che io avrei dovuto studiare e che per la prima volta in quella famiglia ci sarebbe stato un diplomato, forse anche un laureato. Mi dicevi: «Impara bene le parole, Salvatore. Solo così nessuno ti potrà infinocchiare nella vita.» Mio padre aveva a stento fatto le scuole elementari, e l’unico libro che conservava ancora della sua infanzia era un vocabolario illustrato per bambini. Ne era orgoglioso e più di una volta l’avevo sorpreso mentre ne sfogliava le pagine quasi leggesse un libro di avventure. E io cominciai a cercare sul vocabolario tutte le parole proibite che sentivo dire a scuola ai miei compagni. Parole oscene, pruriginose, ma di cui conoscevo già il significato: cacca, pipì, culo. Usavo il vocabolario per il solo piacere della trasgressione, non per imparare, non per curiosità.

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Forse è questo, mi dico, il momento di levarmele certe curiosità. Mi sento ridicolmente in imbarazzo; non sono più un bambino, non sono più un ragazzo. Voglio chiarire una volta per tutte la faccenda: cosa vuol dire “fornicare”? È una parola che mi ha sempre fatto sorridere. C’entrano i forni? Le formiche? Cosa è esattamente un “adulterio”? Sì, certamente lo so, ma voglio specularci attorno un po’ di più. Mi vengono in mente il delitto d’onore, il diritto romano, le disparità di trattamento fra uomini e donne, il sorriso di chi nel mio paese saluta l’amico esclamando “cornuto!” o, con maggiore enfasi affettiva, “cornutazzo!”. E lo abbraccia calorosamente scostandosi poi di quel poco che serve per accennare a una palpata sulle sue parti intime. E poi, ma temo che la risposta non stia nel vocabolario, perché quei termini sono spariti sotto l’imbarazzante, per quanto ambiguo e vago, irrompere dei cosiddetti “atti impuri”? Riascolto il brano, riascolto il caotico scorrere dei miei pensieri. Il settimo dice non ammazzare se del cielo vuoi essere degno. Guardatela oggi, questa legge di Dio, tre volte inchiodata nel legno: guardate la fine di quel nazzareno e un ladro non muore di meno. Guardate la fine di quel nazzareno e un ladro non muore di meno. «Sei morto! Ho vinto io!» «No, sei morto tu. Ho sparato io per primo…» «Non vale, non vale… con te non gioco più.» Massimo raccoglieva le sue armi e per un po' faceva l’offeso. Diceva che non stavo ai patti e che non morivo come avevamo stabilito. Io non ci provavo nessun gusto a morire, volevo essere io a ucciderlo. Questo gioco mi torna alla mente ora, come mi torna alla mente quando, per la festa dei morti, vedo tanti bambini per la strada rincorrersi con armi di plastica così perfette da sembrare vere. Quante urla di guerra su quei visi infantili! Quante premonizioni di un odio inutile che vedo esplodere ogni giorno sui notiziari del telegiornale:

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«Sparagli Piero, sparagli ora | e dopo un colpo sparagli ancora | fino a che tu non lo vedrai esangue | cadere in terra a coprire il suo sangue.» Ma cosa si diceva di questo comandamento durante il catechismo? Non ricordo che Padre Filippo si sia mai dilungato su di esso. Non ricordo alcun turbamento di fronte ai film di guerra. Nessuna di quelle paure che invece gli altri comandamenti mi incutevano. Il concetto della morte, da bambino, era associato solo alla curiosità di sapere dove si andava a finire dopo e alla dimostrazione di coraggio che volevamo darci, io e Massimo, nel tirare per la coda la carogna di qualche gatto morto trovato in campagna. La morte e la vita erano concetti distanti dalla nostra esperienza. La vita stessa non era per nulla collegata al mistero o ai tabù del darla o del reciderla con violenza. È naturale, mi dico ascoltando in poltrona questa strofa, è naturale che siano concetti troppo alti per un bambino. Ma mai, dico mai, neanche da ragazzo più cresciuto, neanche da adulto, ho incontrato un confessore che alle sue rituali domande sui peccati commessi, abbia aggiunto: «Hai ucciso?» Che strano. Che sia un comandamento inutile? Che sia sufficiente la morale naturale? Eppure tutti abbiamo ucciso. Forse non con le armi, ma sicuramente con la denigrazione, con il disprezzo, con l’allontanare chi riteniamo diverso da noi. Con il troncare le illusioni altrui. Con l’accettare il benessere che tante industrie ci offrono in un patto di scellerata ignavia per i morti, le malformazioni, le malattie professionali. Allungo la mano verso il tavolinetto che ho accanto. Ho voglia di fumare. Prendo il pacchetto delle sigarette e come se lo vedessi per la prima volta lo giro e lo rigiro per assaporare, in quest’indugio, il piacere che sto per darmi. Lo poso con ribrezzo. Sopra c’è scritto: “Il fumo uccide”. Non dire falsa testimonianza e aiutali a uccidere un uomo. Lo sanno a memoria il diritto divino, e scordano sempre il perdono: ho spergiurato su Dio e sul mio onore

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e no, non ne provo dolore. Ho spergiurato su Dio e sul mio onore e no, non ne provo dolore. «Mamma, se dico una bugia vado all’inferno?» «Certo, Salvatore. Le bugie non si dicono mai.» E io non le ho dette neanche quando il mio capoufficio voleva coinvolgermi in una testimonianza che avrebbe messo a tacere gli scandali edilizi per i quali lui era imputato. Lavoravo come geometra all’ufficio tecnico del comune e in quegli anni molti dirigenti di quell’ufficio avevano interessi e partecipazioni nelle imprese edili che avevano iniziato a violentare i più bei posti delle nostre coste. Non so se oggi avrei lo stesso coraggio. Non so se veramente si sia trattato di coraggio. Allora avevo quarant’anni ed era l’ultima occasione che mi si presentava per vivere in un mondo diverso. E quell’occasione mi si presentò, ma grondante di tanta ipocrisia e di tale vigliaccheria che, a quanto pare, mi brucia ancora dentro, se è vero che, neanche di fronte al pianto di Tito, riesco a essere veramente sincero. Parlo di coraggio e di voglia di cambiare il mondo, ma l’uno è solo un modo distorto per descrivere un ignavo e automatico svolgimento positivo di certi fatti, e l’altra è qualcosa di eternamente uguale a se stessa. Semmai sono cambiato io, sono invecchiato. Da sconfitto, tollero l’eterna boria dei potenti che muoiono e rinascono sotto altre spoglie, a ogni elezione, a ogni fondazione di circoli, a ogni rinnovo di consigli di amministrazione. E si moltiplicano, mi assediano, ridono del mio isolarsi da questo mondo fatto di inviti a cena attorno a piscine private o di strette di mani più subdole che un ricatto di mafia. Il piccolo paese della mia infanzia, Mongibellisi, è da poco diventato un comune autonomo e il capo dell’ufficio tecnico è quel mio vecchio capo servizio. Mi sento inseguito da fantasmi contro cui non posso nulla. Mi sento ridicolo quando entro in qualche bar del paese fermandomi prima sulla porta per assicurarmi di non doverlo incontrare. Non per paura, peggio, per la vigliaccheria che so ancora di avere e che mi spingerebbe a un saluto di circostanza come nulla fosse stato.

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Ma come si chiama? Come si chiamava? Mi viene in mente solo Salvuccio, forse Nuzzo, il cognome chissà. Eppure ci ho passato assieme quasi dieci anni. Mi succede spesso: quando voglio rimuovere qualcosa che mi pesa sulla coscienza la prima cosa che faccio è di cancellare dalla memoria le identità anagrafiche delle persone coinvolte. «Che ti devi prendere, Cicciuzzo?» sento dire quando entro in qualche bar. In molti, dovunque. E se non è Cicciuzzo è Iano, e se non è Iano è Pippo. E se non è Pippo… L’offerta del potente di turno è un imperativo da subire, un obbligo a una riconoscenza che un domani potrebbe sempre servire. Ma chi obbligava mia madre a mandare a Natale costosi tappeti persiani al primario dell’ospedale presso cui faceva le sue TAC periodiche, pagandole già, al di fuori del regime convenzionato, fior di quattrini? Ho cominciato la giornata con piacere ma ora rischio uno sconforto che non voglio che Maria, al suo rientro, trovi sul mio viso. Fermo la musica ed esco sulla veranda per prendere una boccata d’aria. La musica di De Andrè mi risuona ancora violentemente dentro, frenando quel desiderio di pace eterna che ricerco fra gli ulivi secolari che ho di fronte. Altre visioni. Fra gli ulivi lo vedo, come quando mi spiegava come potare quei rami. Mio padre è stato lì per tutto questo tempo, ha ascoltato anche lui, con la roncola in mano, la canzone e le illusioni della mia gioventù. «Hai visto, Salvatore» mi dice, «hai visto che il mondo è sempre lo stesso?» «Ci ho provato, papà. Ho anche perso il mio lavoro, non ricordi?» «Non barare con te stesso. Sii sincero, avresti veramente lasciato il posto da geometra al comune se tuo suocero non avesse avuto quelle vigne?» «Me lo chiedo ancora pure io…» «Lo vedi? Ci hai pure guadagnato… la tua voglia di cambiare il mondo ha finito per arricchire principalmente te.» «Papà, papà, aspetta, non andare via. Mi fai risentire la tua voce? Mi fai risentire quella filastrocca che dicevi sempre?» «Munnu è, e sempre munnu sarà.»

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«Hai ragione, papà… ma non è giusto. Lasciami l’illusione che almeno tu mi hai capito.» «Addio Salvatore». «Addio papà. Aspetta ancora un po’… ascoltiamo insieme.» Non desiderare la roba degli altri non desiderarne la sposa. Ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi che hanno una donna e qualcosa: nei letti degli altri già caldi d'amore non ho provato dolore. L'invidia di ieri non è già finita: stasera vi invidio la vita. Lo vedo gongolare di soddisfazione il caro dottor Spatuzza. Seduto alla sua scrivania, con un taccuino in mano, mi ascolta dopo la solita domanda con la quale mi tormenta ormai da mesi: «E allora, Salvatore, è questo che intendi per felicità?» Che deficiente. Gliel’ho ripetuto mille volte che non si tratta di felicità, che non è per quel motivo che spendo tutti i miei soldi in oggetti inutili che ormai, a casa, non so più neanche dove mettere. Ma niente, lui insiste a voler sapere cosa è per me la felicità. Il bello è che non lo so. So solo che non sono tutte quelle cianfrusaglie a darmela. Ho fatto male a dare retta a Maria; non caverò mai nulla da quel professore, da quel luminare in psicoanalisi che lei si è preoccupata di trovarmi. La capisco. Questa mia bulimia degli acquisti sta cominciando a mettere in crisi le nostre finanze, la nostra vita di ogni giorno, forse anche il nostro matrimonio. Nonostante abbia sia la pensione, per la verità misera, di ex dipendente comunale e quella, ben più sostanziosa, della cassa dei rappresentanti di commercio, a fine mese arrivo ad aver speso tutto in inutili gingilli cedendo alle lusinghe del piacere per il loro possesso. L’unica entrata certa con cui oggi io e Maria campiamo è solo la sua pensione, appena mille euro al mese. Ma adesso che viene la sera e il buio mi toglie il dolore dagli occhi e scivola il sole al di là delle dune

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a violentare altre notti: io nel vedere quest'uomo che muore, madre, io provo dolore. Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l'amore". Ma l’avevo veramente ascoltata questa canzone, quando avevo diciotto anni? Mi sembra di sentirla ora per la prima volta. Per la prima volta la ascolto senza rabbia, senza presunzione di eternità, senza l’illusione di capire il mondo. Per la prima volta la ascolto come di notte ascolto i miei sogni. I miei più veri ricordi. Forse questi sì che potranno veramente interessare al dottor Spatuzza. Devo ricordarmi di parlargliene. Venerdì ho la prossima seduta.

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Deuteronomio, 5 8 Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù in cielo, né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra.

Il custode del parco del Carancino Quando sono nato mia madre teneva sul comodino la fotografia di Robertino Rossellini. Diceva che così sarebbe nato un bambino bellissimo, come quel neonato di cui erano piene le pagine dei settimanali femminili. Non so se Robertino fosse stato biondo e con i capelli riccioli come quelli che poi io ebbi fino all’adolescenza. Erano gli anni del dopoguerra e sicuramente quell’immagine sul comodino era stata scelta perché richiamava prosperità e salute; un puttino con le gote gonfie, due labbra appena rosate e un incarnato di pesca. Tradizionalmente, poi, un amorino del genere non poteva che essere biondo. Io biondo lo ero realmente e con gli anni divenni sempre più un bel bambino, con un visino tondo che sbucava da una nuvoletta di capelli che si scioglieva in cascatelle a spirale fin sugli omeri. In qualche foto sembro addirittura una femminuccia. Ho il sospetto, però, che fosse sempre stata mia madre ad arricciarmi i capelli con quei boccoli che, immancabili, sono presenti in tutte le mie foto dell’epoca. Diceva che ero il suo angioletto e mi vestiva sempre con leziosi grembiulini azzurri per fare risaltare quelle venature cerulee che vedeva nei miei occhi. Sul cassettone, accanto al letto, c’erano tante immagini di santi e di madonne che galleggiavano su cieli azzurri, attorniate e sorrette da angioletti che protendevano le loro braccia infantili. Da ragazzo non ricordo di aver mai visto la fotografia di Robertino: doveva essere stata sostituita da quelle immagini votive. Mia madre è sempre stata molto religiosa e probabilmente, una volta avverati i suoi desideri, nel

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ringraziare il cielo si sentiva in imbarazzo a paragonare il proprio angelo a un bambino che, per quanto bello, era il frutto di un matrimonio troppo chiacchierato. Ammesso, poi, che la foto di Robertino sia realmente esistita. Non ho mai avuto il coraggio di chiederlo. Oggi non saprei neanche più a chi chiederlo. Mi si racconta che durante il mio primo Natale interpretai Gesù Bambino in un presepio vivente che era stato allestito nei locali della parrocchia. Avevo tre mesi e a stento stavo seduto dentro un cesto imbottito con ritagli di stoffa. Peccato che le foto di quegli anni fossero in bianco e nero: l’oro dei miei capelli oggi lo si può solo immaginare. Si vede invece chiaramente che il più delle volte dormivo beatamente, incurante dei tanti curiosi che mi si accalcavano attorno. «Tuo padre non voleva» mi raccontò lei tanti anni dopo, una volta che sfogliavamo assieme quelle foto dimenticate. «Lui le feste le passava in un’altra maniera… e non solo le feste…» Sospirava e senza che io le chiedessi oltre, accarezzando una fotografia del marito in divisa, segnandosi la fronte, disse: «Con te era tanto buono… aveva anche lui qualcosa da insegnarti. Pace all’anima sua.» Dalla mangiatoia di un presepio passai poi a sorridere a tante altre mamme attraverso una fotografia stampata sulle confezioni di non so bene quale marca di alimenti per l’infanzia. Ho sempre pensato che anche quella ostentazione della mia immagine fosse stata il frutto di un vanitoso sogno della mamma. Quella volta che guardavamo le vecchie fotografie del suo angioletto, aggiunse: «Questa è la foto che ha vinto il premio per quella pubblicità… Ne era fiero anche tuo padre. Per un anno intero abbiamo avuto gratis pappe e biscotti.» I miei genitori campavano solo con il misero stipendio di lui e mia madre non si era fatta scappare un’occasione del genere. Conservo ancora una scatola di quella pappa con la quale fui svezzato. Si chiamava “la pappa degli angeli”. Mio padre era il custode del Parco archeologico del Carancino. Vivevamo in una casetta che da una parte aveva un paio di stanze per l’alloggio e dall’altra uno stanzone lungo e buio che fungeva da antiquarium e dove venivano caoticamente conservati resti di statue, fregi e particolari architettonici rinvenuti negli scavi. La casa sorgeva isolata su un pianoro, con attorno solo campi incolti e dappertutto enormi blocchi di pietra, ora ammucchiati alla rinfusa, ora a formare

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delle torri, talvolta a limitare antichi percorsi. Erano le antiche fortificazioni a difesa della città, antiche di oltre duemila anni. Da quel pianoro si dominava tutto il territorio, la città, il mare da una parte e le terre con cui confinava dall’altra. Con i secoli parte di quel sito era poi stato utilizzato per le abitazioni e per le ville patrizie dei vari conquistatori succedutisi. Percepivo il fascino di quella storia millenaria e ascoltavo incantato le favole che mi raccontava mio padre: favole di eroi ma anche favole di boschi, folletti e divinità che un tempo abitavano quelle balze, ormai aride petraie. Qualcuna delle antiche strade, ancora visibile, era segnata da profondi solchi nella roccia, come rughe sul volto di un vecchio. Mio padre indicava quei solchi ai visitatori e ne spiegava l’origine. Faceva rinascere lunghe file di carri, muovendo il braccio a spazzare l’orizzonte dal vicino villaggio di Mongibellisi da una parte, alla grande città che si intravedeva in lontananza sul mare dall’altra. Diceva che da quelle spiagge arrivavano i nemici, su navi che avevano solcato il mare da posti lontanissimi, e in quei terreni pianeggianti avevano posto i loro accampamenti, minacciando e assediando la città. Le strade erano servite per il trasporto dei grandi massi di pietra delle mura che migliaia di soldati, operai, contadini e schiavi avevano costruito in pochi anni. Poi continuava il suo racconto e faceva percorrere quelle stesse strade alle tante persone che in altre epoche, fuggendo dalla costa, avevano cercato riparo nelle campagne, o ancora, con un sovrapporsi caotico di date ed eventi, alle tante famiglie ricche giunte in quel posto dopo la conquista definitiva della città. Rideva, dicendo che quel posto si era lentamente trasformato in un luogo di villeggiatura. Anche noi facevamo la nostra villeggiatura su quel pianoro; una villeggiatura che durò decenni, anno dopo anno, mese dopo mese, incuranti delle stagioni, del freddo, della pioggia, della solitudine dei mesi invernali. D’estate guardavo il mare da lontano. I miei compagni ci andavano ogni domenica, ma quello era il giorno di maggiore afflusso turistico e mio padre non poteva assentarsi dal lavoro per accompagnarmi. Io la domenica andavo a piedi, con mia madre, fino a Mongibellisi a sentire la messa. Il paese non era molto distante e quella passeggiata mi piaceva. Mia madre si intratteneva a parlare con qualche conoscente, si informava con il parroco di quando sarebbero iniziate le lezioni di catechismo e quindi ci avviavamo per fare ritorno a casa. Passando per

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la piazza entravamo in un negozietto che pareva scavato nella roccia; buio, con il pavimento sconnesso, tanti vecchi tavoli scuri e in fondo una fila di botti dalle quali gocciolava per terra del vino. Mia madre diceva che era una mescita e io capivo solo che era un posto per grandi. C’era sempre un vecchietto con un naso così rosso da incutermi disgusto. Mia madre lo chiamava zio Peppino, gli chiedeva quanto fosse il conto della settimana e poi sospirando tirava fuori dal borsellino un paio di soldi di carta. Oltre le ultime case, lungo la strada, abitava la signora Lucia, la mammana del paese. Aveva anche un allevamento di galline e mia madre si fermava da lei a parlare di persone che conoscevano e a comprare le uova per tutta la settimana. Era stata proprio la signora Lucia a farmi venire alla luce, nella stanza da letto della casa che era stata appena assegnata a mio padre come custode del parco archeologico. Mio fratello, sei anni dopo, nacque invece in ospedale, in città. Ma lui era debole e malato già prima di nascere. Quando arrivai all’età scolare ottenni che i capelli mi venissero almeno accorciati, lasciando visibili le orecchie e la fronte. Frequentavo una classe mista e le bambine mi facevano arrossire dalla vergogna. Il maestro, il professor Palumbo, come lo chiamavano tutti con deferenza, quando voleva punire noi maschietti ci diceva: «Siete delle femminucce, peggio, delle femminucce che prendono ancora il latte con il biberon.» La sera mia madre mi insegnava a recitare le preghiere, mi raccontava tante storie su quei santi che teneva sulla specchiera del cassettone e si preoccupava che diventassi compìto e ubbidiente. Da mio padre, invece, attraverso i racconti che faceva ai turisti, ho imparato il piacere di altre favole e di altre avventure. Sono state quelle parole rivolte ad altri, quegli sguardi furbi che lui in attesa di ammirazione rivolgeva al suo pubblico, a forgiarmi e a liberarmi dalle paure dell’infanzia. Di quell’angioletto non è rimasto più niente. Non il colore dei capelli, non la disordinata leggerezza dei boccoli, non lo sguardo di stupore con il quale scoprivo anche in una pietra un bellissimo giocattolo. I miei occhi grigi hanno da tempo perso quei riflessi azzurri che, in verità, vedeva solo mia madre. Sotto l’apparenza scandinava di quel bambino, già fin dall’adolescenza era iniziato a venir fuori quanto le leggi della natura reclamavano. Il tempo diede ragione a mio padre che non aveva

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mai compreso come fossi potuto venir fuori così delicato e diafano. In fondo, sia lui che mia madre hanno sempre avuto caratteri tipicamente mediterranei, forse più delicati in lei ma marcati e segnati dal sole e da generazioni di contadini in lui. Oggi, a un’età uguale a quella di quando lui venne a mancare, mi ritrovo con la sua stessa corporatura, tozza e grossolana, e con un viso solcato dalle rughe del tempo e delle disillusioni. Il biondo dei capelli è virato definitivamente a un cinereo color corda. All’epoca della scuola elementare mio padre mi accompagnava ogni mattina in paese con la sua bicicletta. Mi aggrappavo al manubrio, seduto sulla sbarra, e sentivo dietro di me il suo ansimare. Non parlava e quando per qualche salita si chinava in avanti col busto, venivo colto dal suo alito che sapeva ancora del vino bevuto la sera precedente. Mi lasciava nella piazza e io mi facevo coraggio per raggiungere la scuola che, a pensarci oggi, non doveva distare più di una decina di metri. Prima di entrare, mi giravo per salutarlo: lui appoggiava la bicicletta accanto all’ingresso di quella bottega che odorava di vino e sembrava essersi dimenticato di me. Lo vedevo con lo zio Peppino o con qualcun altro con cui poi spariva dentro. Quando nacque mio fratello ero in prima elementare. Lucio passava da una malattia all’altra e la mamma non poteva più dedicarsi completamente a me. Quel bambino piangeva sempre, diventava rosso e a volte lo vedevo con la boccuccia spalancata come se non riuscisse a respirare. Avevo sentito dire che era settimino e io, nelle preghiere della sera, chiedevo a Gesù di non farmi venire anche a me quella malattia. Promettevo di essere ubbidiente e di fare tutto quello che mi diceva la mamma. Dopo i compiti, il resto del pomeriggio era a mia completa disposizione. Seguivo mio padre quando arrivava qualche gruppo di turisti, vagavo attorno a quei pietroni che parevano nascondigli perfetti per i miei giochi e mi affacciavo da lontano all’imbocco delle tante gallerie che, buie e umide, si dipartivano dai contrafforti di quelle rovine. «Non ti allontanare» diceva mia madre. «Lì c’è tuo padre, stai sempre vicino a lui. Ti ricordi la storia di quei bambini che si sono perduti nelle gallerie?»

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«Ma io non ci vado nelle gallerie, mamma. C’è buio» rispondevo. «Promettimi che non vai neanche dove ci sono quei vasconi. Se cadi dentro non ti trova nessuno. Promettimelo Salvatore.» Mio padre conduceva quei plotoni di turisti per stradine e fossati che io avevo imparato a conoscere bene; gli trotterellavo attorno e sapevo già dove si sarebbe fermato e cosa avrebbe raccontato. Lui attendeva che i turisti si disponessero a cerchio e cominciava quei racconti che non mi stancavo mai di risentire. Anche d’estate aveva sempre la sua giacchetta, con i bottoni dorati e i risvolti di panno rosso, e un cappello con la visiera che si levava e rimetteva in continuazione asciugandosi la fronte dal sudore. La visita terminava sempre all’antiquarium accanto alla nostra casa. Mio padre tirava fuori una vecchia chiave arrugginita e faceva entrare i turisti in uno stanzone che pigliava luce solo da una angusta finestrella sulla parete di fondo. Era l’unica occasione che avevo per poterci entrare anche io. Era un posto che normalmente mi era vietato, era pieno di cose così importanti che non si potevano toccare: mio padre ne era il responsabile. Approfittando di quei momenti mi intrufolavo fra i turisti. Credo che da solo non avrei mai avuto il coraggio di metterci piede: il buio, tante teste di leoni feroci, minacciose maschere di terracotta e statue più alte di un uomo mi incutevano una paura irrazionale. Lentamente, a mano a mano che gli occhi si abituavano a quella luce, veniva fuori dal fondo dello stanzone, in controluce, una testa di marmo, barbuta e cattiva. Lungo il muro c’erano delle statuette di animali, sembravano giocattoli, pecorelle, mucche e cavalli. Una, molto più grande e in disparte, non riuscivo a capire cosa fosse: da lontano vedevo delle strane corna e avevo timore ad avvicinarmi; era proprio accanto al basamento di quella statua che mi guardava con occhi feroci. Mio padre raccontava con disinvoltura che quelli erano gli antichi dei che proteggevano quel luogo: quello barbuto era il più potente e importante e quelle altre statue di uomini e di donne le divinità su cui lui comandava. Prima di uscire dall’antiquarium, come prova di coraggio, mettevo la mano fra le fauci dei leoni, allineati e scolpiti su una lunga trave di pietra, e scappavo via precedendo tutto il gruppo davanti allo spiazzo di casa. I turisti ringraziavano e mio padre, con il cappello in mano, accennava a degli inchini per le offerte che qualcuno gli lasciava. Poi

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contava quei soldi, trafficava con le tasche della sua giacca, ne faceva sparire una parte e consegnandomi quanto rimaneva mi diceva: «Questi portali alla mamma.» Ricordo che una volta, in un giro con un gruppo di turisti, ci eravamo allontanati un po’ più del solito ed eravamo arrivati in una zona con tante grotte dove, lui diceva, gli antichi andavano a pregare il loro dio. Era da quelle grotte che provenivano le statue dell’antiquarium. Quel percorso non faceva parte della normale visita: richiedeva una camminata di almeno mezz’ora e mio padre lo faceva solo quando i visitatori mostravano particolare interesse per la storia di quelle statue dell’antiquarium che aveva mostrato loro. Per me fu un’avventura inaspettata. Bisognava camminare fra sterpi e superare dei valloncelli scoscesi dove era facile perdersi. Il pianoro su cui si ergevano le torri delle antiche fortificazioni si perdeva di vista, rimanendo in alto alle nostre spalle. In lontananza si stendeva una grande pianura dove mio padre indicava, quasi li vedesse, gli accampamenti dei nemici. All’improvviso ci trovammo di fronte a un costone roccioso dove si aprivano un paio di grotte. A me sembravano le grotte del presepio: c’erano lì in giro a pascolare tante pecore e lungo il percorso avevamo incontrato dei bambini che, vestiti con stracci e scalzi, con un bastone in mano, guardavano da lontano quegli animali. La storia che mio padre raccontò non era però quella della nascita di Gesù Bambino. Con le spalle a un grande arco di pietra, diceva che la città anticamente era talmente grande da arrivare fino a quelle grotte. Durante qualche guerra, in una di quelle grotte gli antichi abitanti della città avevano messo in salvo la grande statua del dio con la barba che avevamo visto nell’antiquarium. Prima di allora, infatti, la statua si trovava in un grande tempio che, molto più giù, in pianura, fuori dalle mura, sarebbe divenuto facile preda della ferocia di quei barbari. Assieme a quelle di altri dei, la statua rimase poi per sempre in quella grotta dove si andava a pregare e fare sacrifici per allontanare le disgrazie dalla città. Come la volta in cui un esercito proveniente dall’Africa ci aveva minacciato dopo aver affondato tutta la nostra flotta. I cittadini con un sacrificio di cento buoi avevano allora implorato quel burbero dio e ne avevano ottenuto un prezioso aiuto per sconfiggere e sterminare quegli africani.

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Rivedevo la statua dell’antiquarium e cominciavo a pensare che forse allora, se ci aveva aiutato, non doveva essere un dio tanto malvagio. Fremevo per ascoltare come sarebbe finita la storia. Mio padre continuò e l’apprensione per la severità di quello sguardo di pietra si smorzò in un sentimento di ammirazione per chi aveva ascoltato le nostre preghiere aiutandoci contro gli invasori. Quel dio forte e potente aveva tempestato per giorni e giorni l’accampamento nemico con fulmini e palle di fuoco contro soldati e animali. Fece piovere fiumi d’acqua da un cielo che si era rabbuiato come fosse stata notte. Molti annegarono sotto i torrenti di fango che venivano giù impetuosi dalle colline, molti furono trascinati a mare e sopraffatti da onde gigantesche. L’ira del dio sembrava non doversi più arrestare. Per completare la vendetta verso quegli africani che avevano minacciato una città così devotamente sottomessa alla sua autorità, aveva poi chiesto aiuto a una sua figlia, la dea della caccia, che proprio in quelle grotte aveva la sua dimora. Quella dea, dopo aver fatto imputridire tante carcasse di animali, le aveva disseminate lungo i torrenti e le fonti che alimentavano l’accampamento nemico. Fu il colpo di grazia: una violenta peste sterminò i pochi superstiti che erano scampati ai dardi e all’alluvione. Io ascoltavo a bocca aperta. Ho sempre avuto paura dei temporali e dei tuoni e tremavo figurandomi quella scena. Cominciò a piovere e fummo costretti a rifugiarci all’interno della grotta. Nuvole nere avevano oscurato il cielo e nel buio di quelle pareti rocciose stringevo la mano a mio padre che guardava preoccupato fuori. Per fortuna quell’improvviso temporale fu anche breve. Sulla via del ritorno i turisti parlottavano felici dell’avventura. Io non osavo chiedere nulla e risalivo per la vallata, insensibile ai graffi delle ortiche e delle spine dei rovi. La mamma ci aspettava sullo spiazzo davanti casa. Sembrava che avesse pianto. Aspettò che i turisti fossero andati via e gridò a mio padre: «Sei proprio un disgraziato! Farmi stare così in pena… non sapevo più cosa pensare… è un miracolo che siete salvi, un miracolo… qui il diluvio si stava portando via la casa e tu col bambino…» «La solita esagerata! Per un po’ d’acqua.» «Ma che ne sapevo dove eravate… eravate spariti tutti. Ho cercato nei fossati, dietro le mura… già me lo vedevo Salvatore precipitato in quei

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fossi… Dio mio, Dio mio… a te ti doveva punire, Salvatore che c’entrava?» Mio padre non diceva nulla. Io ero corso ad abbracciare la mamma spaventato per la punizione che stava per piovermi addosso. Lei mi abbracciò, bagnandomi tutto con i rivoli di acqua che le venivano giù dai capelli. «Il mio angioletto» diceva, «il mio angioletto lo ha salvato San Sebastiano… guarda…» Teneva stretta sul petto un’immaginetta di quel santo, la baciava e la mostrava a mio padre. «Ci mancava pure lui… che c’entra San Sebastiano? Salvatore è sempre stato con me e non è proprio successo nulla.» «E perché credi che non sia successo nulla? Non ho fatto altro che pregare… un’ora d’inferno… non sapevo neanche se chiamare aiuto. San Sebastiano mi ha aiutata. Mi ha sempre aiutata con Salvatore… bello come lui… bello, bello e buono.» «E finiscila una volta per tutte! Con le tue storie degli angeli, della Madonna, dei santi… non fai altro che spaventarlo ancora di più. Lascialo giocare in pace. Anzi, sai che ti dico? Domani viene con me tutto il giorno, gli insegno io a non aver paura, neanche delle gallerie buie.» Incoraggiato da quelle parole cercai di consolare mia madre: «Sì, mamma, sì… in quella grotta dove siamo stati non ho proprio avuto paura.» Lei mi diede un bacio fra i capelli, poi mi disse: «Lo so che sei un bambino coraggioso. La settimana prossima per la festa di San Sebastiano andiamo in chiesa e così lo ringrazi.» Guardava mio padre con aria di sfida. Il giorno di San Sebastiano la mamma non mi fece andare a scuola. Mi vestì con una tunica bianca, con una fascia rossa in vita e, levatemi calze e scarpe, mi disse che dovevamo portare un cero a quel santo. Anche lei era scalza e vestita di bianco. Facemmo a piedi tutto il percorso fino a Mongibellisi, prima lungo la strada di campagna, fino al bivio con la provinciale e poi, sull’asfalto, fino alla chiesa. Era il normale percorso che facevo ogni domenica per andare a messa. Ma farlo scalzo fu una sofferenza che ricordo ancora oggi. Camminavo con impaccio cercando di evitare pietre e cocci. Mi lamentavo, piagnucolavo e volevo tornare a casa.

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«Lo vuole San Sebastiano» diceva lei. «Meglio questo che finire in un burrone, cammina Salvatore… cammina, e ringrazia San Sebastiano. Chiedigli perdono anche per quello sconsiderato di tuo padre.» Alle porte del paese ci unimmo ad altri gruppi che, vestiti anche loro di bianco e scalzi, facevano la nostra stessa strada. Cantavano e pregavano. Io trattenevo a stento le lacrime. «Che bel bambino!» sentivo dire ogni tanto. «È proprio tale e quale a San Sebastiano… un santuzzo… che bei capelli!» «Viva San Sebastiano!» gridavano in coro. «Viva San Sebastiano!» ripetevano più e più volte. «Santuzzo bello» interrompendo quel coro. Tante persone conoscevano la mamma. Lei ringraziava quelli che si avvicinavano per farmi una carezza fra i capelli e mi incitava a ripetere il grido «Viva San Sebastiano!» Al ritorno zoppicavo. Sentivo di avere qualche ferita sulla pianta dei piedi ma avevo capito che questa era la punizione che mi meritavo per qualche disubbidienza che evidentemente dovevo aver commesso quella volta della grotta. Per la stanchezza e per la vergogna quasi non guardavo più dove mettevo i piedi. Arrivai a casa con le lacrime che mi sgorgavano silenziose e con i piedi sanguinanti. Per tutta la settimana dovetti saltare la scuola e passai le giornate con impacchi e pediluvi. La mamma sembrava avermi perdonato. Il sabato era giorno di catechismo. In genere mi accompagnava la mamma: di pomeriggio, a quell’ora, mio fratello Lucio riusciva finalmente a dormire e lei poteva assentarsi da casa. Qualche volta per dare una mano veniva a trovarci la nonna che abitava in città. Vedevo mio padre che passeggiava nervosamente per casa; non capivo perché si mostrava così irritato con la mamma. In fondo le diceva solo di volermi accompagnare lui, in bicicletta: «L’accompagno io Salvatore, a quest’ora non viene più nessuno per le visite, e con la bicicletta ci metto niente…» Era sempre la solita risposta della mamma: «Non ti basta il catechismo che gli insegni con tutte le tue stupidaggini? E magari vai anche a salutare lo zio Peppino, vero? Ci penso io a Salvatore… io e Padre Filippo.»

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Un giorno Padre Filippo ci parlò di Dio e di come aveva creato in sei giorni tutto il mondo, il cielo, il mare, gli animali, l’uomo. Avevamo un libretto dove la figura di Dio che volava fra le nuvole occupava tutta la pagina. Aveva la barba bianca e un grande mantello rosso fuoco. Quando ci raccontò la storia del diluvio universale non potei non pensare a quel barbuto di marmo che era nell’antiquarium e a quell’improvviso acquazzone che ci aveva colto durante la visita alle grotte. A cena chiesi a mio padre: «Ma il Dio che dice Padre Filippo è più potente di quello che fai vedere tu ai turisti?» Mio padre arricciando il naso mi guardò spaesato. Mia madre, con rabbia, cominciò a sbraitargli contro: «Ecco cosa hai fatto! Sei contento? Sei un disgraziato… un incosciente… Ma Dio ti deve punire, non si rovina così un bambino… e se non credi in Dio vattene con le tue statuette, ma da solo… fatti maledire anche da loro.» Con una manata mio padre rovesciò il piatto per terra. Il rumore dei cocci fece svegliare mio fratello che iniziò a strillare. Mio padre urlava più forte: «Credi che sono una bestia? Una bestia sei tu che vede e sente solo quello che… Padre Filippo, certo… ci parlo io con Padre Filippo…» «Tu non parli con nessuno!» «Vai, vai… vai a cullare quell’altro che piange. Avrà paura dell’orco anche lui.» Io non sapevo dove guardare, volevo andare a tranquillizzare mio fratello, volevo ripulire il pavimento dai cocci, volevo chiedere scusa per padre Filippo, ma rimanevo paralizzato con gli occhi spauriti e le guance rosse. Mio padre, in piedi, agitava i pugni e scuoteva la tavola. Aspettavo da un momento all’altro che gettasse tutto per terra. Invece lo vidi afferrare la bottiglia di vino e uscire di casa sbattendo la porta. Mia madre gli urlò dietro: «Eccolo il tuo dio… consolati con quello, che tanto non sai fare altro.» L’indomani era domenica. Mio padre non era in casa. La mamma prese mio fratello in braccio e andammo, come nulla fosse successo, in chiesa. Per tutto il resto della giornata non vidi mio padre. La mamma si era premurata solamente di affiggere sul cancello degli scavi un cartello che diceva “Chiuso” e io non osavo chiedere nulla. Solo dopo cena, dandomi un piatto con del pane e del formaggio, mi disse: «Vai nell’antiquarium, portalo a tuo padre.»

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Mio fratello cresceva con difficoltà. Vedevo mia madre preoccupata per quella malattia che non voleva passare: diceva che non doveva prendere freddo perché i suoi polmoni erano delicati. Lei lo allattava al seno, ma Lucio, con una tosse nervosa e persistente, spesso rigurgitava tutto. Era inverno e il medico aveva detto che doveva fare le iniezioni. La mamma aveva chiesto aiuto alla signora Lucia, la mammana, e quella signora veniva ogni pomeriggio a casa: la vedevo arrivare e scappavo a nascondermi fuori, fra i pietroni, per paura che toccasse anche a me. Le iniezioni non fecero effetto e Lucio peggiorava sempre più. Un giorno venne la nonna dalla città e si sistemò con un lettino nella camera dove dormivo io. La mamma aveva portato Lucio in ospedale e la notte rimaneva sempre con lui. Quando con papà la andammo a trovare, da una sedia accanto al lettino di Lucio mi sorrise invitandomi ad avvicinarmi. Avevo uno strano senso di vergogna, di colpa, di timore che si fosse dimenticata di me e rimasi impalato sulla soglia come quando facevo i capricci. Fu la prima volta che vidi mio padre piangere. La domenica successiva tornai in ospedale con la nonna. Prendemmo la corriera, al bivio con la strada provinciale, e per tutto il viaggio lei mi disse che dovevo fare il bambino grande, che la mamma mi voleva bene e che mi aspettava. «Dai un bacio al fratellino» mi disse la mamma. Mi indicava quel bambino che sembrava essere diventato più piccolo di come lo ricordavo. Era così piccolo che non aveva neanche la forza di piangere. Sembrava che dormisse. «Vieni Salvatore, la nonna rimane a fare compagnia a Lucio… noi dobbiamo andare… vieni con me.» Accanto all’ospedale c’era una chiesa costruita da poco. Entrammo e mia madre mi fece inginocchiare davanti a un gigantesco crocifisso di legno con un Cristo dalle braccia e gambe così grosse e storte che sembravano quelle che facevo io quando Padre Filippo ci lasciava soli a disegnare. «Diciamo una preghiera per tuo fratello» disse la mamma, «Gesù lo sa che sei tanto buono e se gli chiedi di farlo guarire ti accontenta subito subito.»

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Tornai a casa e ogni sera chiedevo a mio padre: «Quando torna la mamma? Mi ha detto che Gesù farà guarire il mio fratellino… mi ha detto che la sera devo dire la preghiera del Padre Nostro…» Quando dicevo quella preghiera rivedevo il volto soddisfatto della mamma; la ripetevo più volte ma pensavo che forse lei si era sbagliata a portarmi, quel pomeriggio, in chiesa davanti al crocifisso. Padre Filippo ci aveva spiegato che quello era il figlio di Dio… non Dio. Certamente era buono, gentile e ci voleva tanto bene, ma non era Dio. E perché era morto in quel modo? Perché Dio, suo padre, non era riuscito a salvarlo? Mi ripromettevo di chiederlo alla mamma quando l’avrei rivista. Le avrei chiesto di riportarmi in quella chiesa e di farmi vedere il vero Dio. A lui avrei veramente potuto chiedere tutto, come lo chiedevo nel Padre Nostro. Solo lui era veramente forte e poteva fare tutto quello che gli chiedevo. Anche se non era riuscito a salvare suo figlio ero sicuro che con mio fratello ce l’avrebbe fatta. Nessuno mi riaccompagnò più in ospedale. La mamma tornò a casa con la nonna e papà la mattina non metteva più la sua divisa da custode. Venivano tanti turisti e lui li indirizzava fra quei ruderi lasciandoli liberi di girare da soli; poi spariva lungo la strada, tornava solo a pranzo e non diceva niente. Mi ero convinto che andasse a trovare mio fratello. A scuola mi accompagnava, a piedi, la mamma. Avrei voluto parlarle, chiederle se Dio aveva sentito le mie preghiere e se papà riportava a casa il fratellino. Lei per strada mi stringeva la mano e quando mi lasciava con il maestro mi piombava addosso il silenzio di tutta la classe. Un giorno, tornando a casa, ci sedemmo sotto un albero. Con una voce che non era più la sua mi disse: «Gesù ha ascoltato le tue preghiere… tuo fratello ora è per sempre con lui, e ti guarda e sorride…» Indicò in alto il cielo e non riuscì a trattenere le lacrime. «Mamma, dov’è Lucio?» «In cielo con Gesù.» «Ma allora… allora non lo posso vedere più?» «No, Salvatore… no. Anche lui è diventato un angioletto.» Rimuginai su quelle parole per tutto il pomeriggio. Era nuvolo e girando con noia attorno alla casa alzavo lo sguardo al cielo. Attendevo che il vento portasse via quei nuvoloni per guardare oltre. Pensavo a

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Gesù, agli angeli, a San Sebastiano… ma sapevo che loro non avrebbero mai potuto fare quello che mi aveva detto la mamma. Forse Dio non mi aveva ascoltato. Perché la mamma mi aveva portato a pregare davanti a quel crocifisso? Perché non mi aveva fatto vedere Dio? Risentii quelle parole: «Padre nostro che sei nei cieli…» Ma quell’uomo con le braccia spalancate sulla croce non era il padre… quella non era la sua statua. Solo il Dio padre, il Dio che aveva creato tutta la terra in sei giorni, avrebbe potuto salvare mio fratello, non Gesù che era morto lui stesso, non gli angeli così piccoli e capricciosi più di me, non San Sebastiano che voleva solo punire le mie disubbidienze. La porta dell’antiquarium era socchiusa. Senza volerlo provai a spingerla ed entrai. Vedevo le bocche dei leoni vicino all’ingresso, ebbi paura anche solo a sfiorarle e rimasi lì impietrito. Lentamente dal fondo della sala, da quel buio che mi impediva di andare oltre, prese forma la grande statua di marmo. Il dio barbuto e arcigno mi guardava da lontano. Quasi fosse un’altra statua, mio padre era lì accanto. Piangeva. Fine anteprimaContinua...