Il sussurro di Vico Pensiero di Tina Cacciaglia

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Nel Palazzo San Severo a Napoli, la bellissima nobildonna Maria d'Avalos venne uccisa dal marito, il principe Carlo Gesualdo, insieme all'amante: era la notte tra il 16 e il 17 ottobre del 1590. Si narra che il suo fantasma vaghi ancora nell’oscurità delle notti napoletane. La vita di Adriana s'incrocia con l'antica storia della nobildonna Maria d'Avalos e del suo amante e con quella contemporanea di Elena, una collega di studi trovata morta con in gola della saggina di cui sono fatte le scope delle streghe. Adriana si addentra in una Napoli a lei sconosciuta, nei rioni appartenenti alla camorra, e assieme al fidanzato, un tormentato Commissario di Polizia, inizia una indagine che la porterà a scoprire una vera e propria città nella città, immersa in antiche tradizioni, incarnate da personaggi come Costanzo 'o Scartellato, che parla con i morti del Cimitero delle Fontanelle, o Maria 'a Putecara, che legge le carte e scaccia il malocchio. Scheda libro: http://bit.ly/1on87px

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Il sussurro di Vico Pensiero

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Titolo: Il sussurro di Vico Pensiero Autore: Tina Cacciaglia Questo romanzo è un’opera di fantasia: nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il prodotto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi riferimento a fatti, luoghi o persone è puramente casuale. Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattamento, totali o parziali, con qualsiasi mezzo, anche copie fotostatiche e microfilm, sono riservati.

© 2013 Runa Editrice via Misurina 4, 35035 Mestrino (PD) www.runaeditrice.it - [email protected]

ISBN 978-88-97674-10-8 PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA Copyright 2013 Runa Editrice

Stampato per conto di Runa Editrice nel mese di maggio 2013 da Projectimage, Mestrino (PD) su carta ecologica certificata FSC

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Tina Cacciaglia

Il sussurro di

Vico Pensiero

RUNA EDITRICE

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Prefazione

Le chiavi della città celata:

istruzioni per l’uso

Napoli è la più misteriosa città d’Europa,

è la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia.

(...) Non è una città: è un mondo. Il mondo antico, precristiano, rimasto intatto alla superficie del mondo

moderno. Curzio Malaparte (1949)

«Ma sono a Napoli? Napoli esiste?». Tra i tanti viaggiatori

illustri che hanno visitato la città, Jean-Paul Sartre si chiedeva se fosse capitato o meno in una realtà separata. La perplessi-tà espressa da Sartre è la stessa di Goethe, Dumas, De Sa-de… che, trafitti dall’insolito humus partenopeo, ne hanno poi lasciato ampie tracce nei loro taccuini e nelle storie che hanno raccontato. Napoli non si rivela mai subito, e certa-mente non per il motivo – come pure affermava il filosofo francese – che «è una città che si vergogna di se stessa», ma perché è una capitale antica che serba e tiene ancora oggi in-sieme più livelli architettonici e di coscienza, e i suoi abitanti, spesso inconsapevolmente, continuano a essere profonda-mente radicati al proprio retroterra plurimillenario.

Il cuore di Napoli è apollineo; la sua anima, invece, è dio-nisiaca. I due princìpi apparentemente opposti si fondono e

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si manifestano nell’archetipo della mitica fondatrice dalle cui membra spiaggiate senza vita è germogliato il primo inse-diamento urbano: la Sirena Parthenope, la vergine psico-pompa (conduttrice di anime) ponte tra i mondi, metà donna e metà uccello prima che venisse demonizzata dagli uomini di Chiesa, che l’hanno fatta inabissare nei flutti e bollata con l’ingrato marchio di “acchiappa uomini” pisciforme. Da qui, dalla genesi, le medesime radici antiche perdurano e a tratti affiorano e, mostrandosi, qualificano lo spirito della città. Perciò, su Napoli aleggia un’aura di mistero: la morte viene esorcizzata dalla stessa morte, e la vita trionfa a suon di can-ti; in superficie si avverte la dimensione parallela dell’im-mensa cavità su cui poggia, e si assaporano i flussi magnetici che provengono dagli antri del sottosuolo; le leggende si amalgamano con la storia, sangui si sciolgono a decine e pie-tre donano fertilità.

Il principio pulsante di Napoli si nasconde sotto la polve-re secolare di veli e veli stratificati, e affiora con l’aspetto di tradizioni che i suoi residenti hanno preservato. È quello che comunemente s’intende con la parola superstizione quando si vuole indicare – non senza una certa spocchia “illuminista” – la natura irrazionale del popolino incolto che si affida alla sorte per sconfiggere la malasorte. Ma è una errata interpre-tazione, specie se si vuole mettere il vocabolo in rapporto con Napoli: qui, molto più che altrove, la superstizione è ciò che è superstite, ciò che è sopravvissuto “sano e salvo” allo scorrere dei secoli. È altresì evidente che molte tradizioni si sono trasformate – come la purezza della lingua –, che è an-data smarrita l’autentica natura delle cose, e che, a sfavore del contenuto, il più delle volte è scampata solamente la forma esteriore. I gesti, le parole, i modi di dire, alcune espressioni

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arcaiche declamate con l’articolo greco ’o, certe formule apo-tropaiche a prima vista senza senso – poiché trasfigurate dal-la “nuova” religione che ne ha invertito il significato origina-rio –, arricchiscono la materia folcloristica partenopea la quale, però, così racchiusa senza una interpretazione “alta”, subisce un grave oltraggio giacché questa è la maniera più subdola per uccidere i popoli: ingabbiare la loro anima in un museo.

Con tutte le sue contraddizioni di chiari e di scuri, di luci e di ombre che si sovrappongono o si contrastano, Napoli è viva. Eppure, solamente alcuni abitanti lo avvertono, come lo intuiscono soltanto alcuni ospiti occasionali che, acco-standosi senza pregiudizi alla magia evocata dalla città, si sen-tono proiettati in una dimensione “altra”, e ne vengono ghermiti. E questa condizione di confine – caratteristica di tutte le metropoli liminali, come Praga – la si percepisce be-ne tra le parole del romanzo di Tina Cacciaglia che s’adden-trano tra quei misteri di Napoli avvelenati da una parte della sua anima ammalata e ferita. Nel labirinto di strade che ci fa percorrere l’autrice – l’antica agorà della Napoli greco-romana, Piazza San Domenico Maggiore, Piazza del Gesù... –, e nei luoghi sacri alla pietas e alla morte – come il Cimitero delle Fontanelle –, si respirano odore di eterno, profumo di cre-denze e di intrugli inesplicabili da fattucchiera che si intrec-ciano alle consuete apparizioni di munacielli, belle ‘mbriane e fantasmi, che fanno tutt’uno con la realtà del Centro storico, e non solo.

A metà tra un libro di mistery e uno di misteri autentici, “Il sussurro di Vico Pensiero”, con una fascinazione, conduce per mano il lettore all’interno dell’enigma paradossale delle credenze religiose partenopee, tra i suoi incantamenti, nei

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culti negati – e comunque officiati – delle capuzzelle o anime pezzentelle, nelle pratiche oscure della fatturazione e delle car-tomanti, nell’intimità di coloro che Matilde Serao denunciava come «il cancro delle famiglie borghesi», le Sibille dei poveri che rifilavano speranze e sogni a poco prezzo: gli Assistiti. E, con misurata consapevolezza narrativa, l’autrice lascia che siano le mura stesse dei palazzi a raccontare le vicende di cui sono state testimoni, integrando l’eco delle voci dei vicoli a quelle dei protagonisti della torbida e inquietante vicenda.

Il romanzo di Tina Cacciaglia è un giallo insolito. Si rac-conta di un garbuglio amoroso e di un’indagine che toccano argomenti impalpabili e impensabili. La trama attraversa i culti della morte che si allacciano alla vita. Si ama, con la pas-sione di un sortilegio. E si muore, con la saggina in bocca. Innamorata delle proprie radici, tuttavia, è la stessa autrice a ricordare ai lettori che si tratta di una fiction: «A Napoli – scrive – si è sempre morti di camorra, di fame o di colera, al massimo di terremoto, ma di superstizione no. A Napoli la superstizione ha sempre e solo aiutato a vivere».

Per rintracciare una delle chiavi di accesso ai tanti segreti che la città nasconde, ogni tanto sarebbe bene rammentarlo.

Maurizio Ponticello

Napoli, 29 aprile 2013

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Capitolo 1

«Buonasera». La voce si perse nell’ingresso dell’apparta-

mento immerso nell’oscurità. Elena stava per accendere la luce quando Adriana, sorpre-

sa, le chiese: «Chi hai salutato?». «La casa, lo faccio sempre, altrimenti si dispiace». «La casa si dispiace?». «No», rise Elena, «la ‘mbriana. Non lo sai che quando entri

in una casa vuota devi sempre salutare?». «E perché?». «Se no la ‘mbriana si offende e la fortuna esce e se ne va.

Andiamo in cucina, ti faccio un caffè e poi ti trovo le foto-copie».

Mentre Elena armeggiava con la moka, Adriana si guardò intorno. Era la prima volta che saliva in casa dell'amica.

Il bilocale, nonostante fosse un fitto per studenti, era qua-si carino, con mobili decorosi e con i balconi che, affaccian-do sulla strada universitaria, facevano entrare il rumore del traffico e il vociare dei ragazzi. Dentro regnava la confusio-ne: abbandonati sul piano di cottura, nel lavello e sul tavolo, giacevano piatti e altre stoviglie con i loro resti oramai secchi. Briciole non ben definite, molliche di pane e batuffoli di pol-vere erano sparsi ovunque sul pavimento.

Dopo aver fatto posto sul tavolo, Elena vi poggiò le taz-zine con il caffè.

«Intanto che bevi, vado di là a prendere le fotocopie.

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Ci vorrà del tempo, non mi ricordo dove le ho messe, te-nere le cose a posto non è il mio forte. Ma le ho, giuro che le ho. Vedi che ci dovrebbe essere qualche rivista accanto al fri-gorifero». Nel dirlo si girò verso la parete e lo sguardo corse all’orologio che vi era appeso. «Cavolo, sono le otto e devo ancora mettere un poco d’ordine in giro. Sai, ho invitato un amico a cena. Un tipo che per me comincia a essere un po’ speciale. Ti racconterò, per adesso incrocia solo le dita. Guarda che macello sta qua terra!».

«Posso aiutarti, se mi dai la scopa, mentre tu cerchi i fogli, comincio a spazzare».

«Non esiste proprio», rispose quasi scandalizzata Elena, poi sorrise. «Ma tu non sai un bel nulla! Di sera non si spaz-za, se no con la polvere porti via la fortuna».

«Come intendi fare allora con tutto questo?», Adriana al-largò le braccia fissando lo sporco sul pavimento.

«Così», rise Elena spingendo con il piede una pallina di polvere sotto il mobile della cucina.

Adriana si unì alla risata. «Non ti facevo un tipo superstizioso». «Invece lo sono, non in ogni cosa, ma alla fortuna ci ten-

go. Dio sa se ne abbiamo bisogno, e non intendo sfidarla. E poi ricorda il titolo della mia tesi: La sopravvivenza degli antichi riti nel popolo napoletano contemporaneo».

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Capitolo 2

Aveva appena sfilato la chiave dalla toppa che Adriana gli

disse: «Saluta la casa». «Come?», chiese Carlo sovrappensiero. Si girò e vide che

la bocca della ragazza vibrava di una risata trattenuta. «Devi salutare la tua casa quando entri, se no la fortuna se

ne va. Me lo ha detto una collega dell’università. È una che ha tutti trenta e studia superstizioni e antichi riti. Se lo dice lei sarà vero».

«Allora, buonasera casa. Va bene o devo anche continuare la conversazione, chiedendole se i muri hanno scricchiolato e le tubature gorgogliato?».

«Stupido, basta un buonasera o un buongiorno, forse an-che solo un ciao».

Sotto la doccia il commissario di polizia Carlo Lofrate tentava di lavare via la giornata: il volto del pensionato scip-pato e malmenato, il clandestino trovato al porto in fin di vi-ta nel vano sottostante il rimorchio del tir, gli occhi pieni di odio del ragazzo del corteo che lanciava un sampietrino ver-so le forze dell’ordine. Carlo lo aveva sentito, il sibilo di quel sasso che fendendo l’aria era caduto a pochi passi dai suoi piedi. Come se lui fosse il nemico.

Strinse le spalle e s’insaponò di nuovo i capelli. Si era abi-tuato alla gente, a quelli che si scansavano al suo passaggio e che abbassavano gli occhi per sfuggire alle domande: Avete visto? Avete sentito? Volete testimoniare?

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Era lui il nemico. Ma di chi? Di quegli stessi che gli paga-vano lo stipendio e che lui aveva giurato di proteggere. Era una strana beffa a cui cercava di non pensare mai.

Lavorare in quella città balorda, dove il nemico era la po-lizia, acquistava senso solo se pensava alla sua ragazza, Adriana, che ora era di là a preparare la cena, o ai figli che forse un giorno sarebbero nati. Sentiva che lavorava per loro e per le persone come la signora Anita, la nonna di Adriana. Perché potessero andare a ritirare la pensione senza dover rischiare di essere picchiati, come il vecchietto di oggi che piangeva l’umiliazione subita più dei mille euro svaniti.

«È pronto, a tavola...» «Un attimo, finisco di asciugarmi». «Ho una grossa novità», disse Adriana, e la forchetta di

Carlo si fermò a mezz’aria. «Ho la data della seduta di lau-rea».

«Caspita, e quand’è?», chiese Carlo riprendendo a mangia-re. «Devo controllare i turni per tenermi libero».

«Il 30 novembre alle quattordici, nell’Aula Magna di So-ciologia. Primo piano, la porta in fondo al corridoio a sinistra salendo».

«Che precisione. Quanti siete?». «Sarà una seduta molto lunga, siamo in dodici. Sai, anche

Elena si laurea con me, è stata velocissima a finire la tesi e...» «Elena?». «Ma sì, te ne ho appena parlato. La collega di Matera che

studia le superstizioni, bravissima, tutti trenta. Una mitica. Oggi sono stata a casa sua. Penso che la inviterò a cena una di queste sere. Ti va?».

«Fa’ come vuoi, solo avvisami che mi metto in tiro».

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Capitolo 3

Al commissario Lofrate piaceva intingere il pennello nel

barattolo di plastica verde di crema da barba finché non tira-va su una schiuma morbida e appena gonfia. La stendeva sul viso con movimenti circolari, mentre con gli occhi scrutava la pelle: il punto nero, le occhiaie da notte in bianco, le sottili linee che tra alcuni anni sarebbero diventate rughe.

Pennello, barattolo, schiuma, era questo il gesto che ogni mattina aveva visto compiere da suo padre per anni e che ora lui eseguiva identico, come l’anello successivo di una catena. Come se nel ripeterlo, ancora e ancora, il padre perduto gli sembrasse tuttora lì con lui.

Ma quello era anche il momento della critica spietata a se stesso e al mondo. Davanti allo specchio Lofrate non menti-va mai.

Riconosceva di essere cambiato in quell’ultimo anno, e non solo d’umore. Il carattere gli si era smussato e sempre più spesso si ritrovava la bocca atteggiata al sorriso. Anche la cura nel vestirsi era mutata, specie per le cravatte: via le solite regimental e spazio alla gamma dei colori, agli accostamenti azzardati. Nonna Anita lo apprezzava.

E a lui piaceva che la vecchia signora annuisse approvan-do le sue scelte. Soprattutto quella di amare la nipote, di aver scelto Adriana tra le altre ragazze.

Perciò decise, visto che nel pomeriggio con Adriana sa-rebbe andato a trovare Anita alla clinica, avrebbe indossato

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l’abito blu giocando con un abbinamento bizzarro. Sì, avreb-be optato per la cravatta a fascioni rossi e amaranto.

«Attì, un bel caffè, di quelli che fai tu, mi raccomando». «Come ordinate, commissario. Il giornale sta là». Il solito bar, il solito barista, il solito caffè, il solito giorna-

le, le solite notizie. «Novità?», chiese Attilio mentre pigiava con forza la mi-

scela con il pestello. «Solito: l’assessore inquisito, il governo che promette e il

sindaco che gli sta dietro, poi scippi e rapine. Aspetta, aspet-ta: c’è una cosa nuova. Sta scritto che ieri sera a Spaccanapoli hanno trovato un gallo senza testa inchiodato sul portone della chiesa a piazza del Gesù».

«Sarà un avvertimento della malavita». «E sì! I mammasantissima che mandano a dire: Ti tiro il

collo come a un pollo. Non è da loro. Piuttosto mi fa pensare a qualcosa di sacrilego, che so, alle messe nere».

«Ma quelle sono cose che si fanno a Torino, o in Liguria. Da noi non si usa. È una moda che qui non c’è», sentenziò Attilio.

«Che ti devo dire, sarà arrivata. La globalizzazione è que-sto, Attì: tu tieni un guaio e me lo mandi pure a me».

Lofrate appoggiò i settanta centesimi sul bancone e si av-viò verso il commissariato Vomero, dove l’attendeva un ven-ditore ambulante sorpreso senza licenza.

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Capitolo 4

Era martedì e la nipote sarebbe venuta a trovarla. Non che stia mai sola, si disse sorridendo Anita. I suoi ca-

ri, figli, nuore e nipoti, venivano a turno e venivano tutti, ri-empiendo ogni giorno della settimana. Da quando l’ictus l’aveva costretta all’immobilità non mancavano mai, ogni giorno, almeno un paio d’ore con loro.

Spostarsi solo con la sedia a rotelle era stato duro da sop-portare, ma con il tempo era riuscita ad accettarlo. Così co-me aveva superato il dolore per la morte di Doriano, il suo ultimo amico. Il dottore Doriano Poma era passato a miglior vita lasciandola unica sopravvissuta di un’epoca, e sola depo-sitaria dei loro ricordi. Ad Anita, però, non piaceva ricordare, non sopportava che la mente tentasse di restituire ai giorni passati tutta la fragranza di quando erano nuovi.

Per fortuna era martedì e la malinconia andava via, scac-ciata dalla promessa dell’arrivo di Adriana. La nipote tanto simile a lei.

Sorrise all’infermiera e chiese di essere sollevata sui cusci-ni e di essere aiutata a indossare il coprispalle lilla che aveva avuto in regalo per il suo compleanno. Ottantasette anni. Tentò d’immaginare quella cifra come singoli anni in fila uno accanto all’altro, come tanti numeri uno ripetuti ottantasette volte. Era mostruoso. Mannaggia, si ripeté, quanti sono.

La porta si aprì e rivelò il viso incorniciato di riccioli biondi di Adriana. Il fidanzato la seguiva reggendo una pian-

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tina di erica rosa. «Ciao, nonna», salutarono e Carlo continuò: «Questa dove

la poggio? Sul comodino va bene?». «Grazie. Sì, mettila accanto a me. Qualche volta portatemi

non solo piante e fiori come ai morti, ma anche dei dolci, dei cioccolatini».

«Sono veleno per te, e lo sai, perciò non tentare di cor-romperci. Ho saputo la data della laurea. Verrai vero, non-na?».

«Sicuro. Non mi perderei quella giornata per nulla al mondo. Anche perché non so se per l’altra data importante della tua vita ci sarò ancora».

«Nonna!». «Signora Anita, ma che dite!». «La verità, ragazzi, io ho compiuto ottantasette anni e se

non vi sbrigate la Vecchia arriverà prima di voi». Il commissario vide negli occhi dell’anziana l’ansia di sa-

pere tutto in ordine prima della fine; le strinse le mani: «Cer-cheremo di fare le cose in fretta, lo prometto. Le nostre noz-ze non sarebbero le stesse senza nonna Anita».

«In fretta, ma bene. La mia nipotina ha diritto a un ma-trimonio con tutti i crismi. Però adesso parliamo della lau-rea».

Adriana raccontò alla nonna ogni particolare, dalla rilega-tura della tesi che aveva voluto color blu con le lettere in oro, alle raccomandazioni che il relatore le aveva fatto. Infine, cambiando argomento: «Nonna, lo sapevi che si salutano le case vuote quando si entra? L’hai mai sentita dire questa co-sa?».

«Certamente, mi ricordo di una cameriera che avevamo in casa nel dopoguerra che lo faceva anche quando si ritirava la

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sera nella sua camera. Comunque sono idiozie, superstizioni ridicole. Abitudini antiche, che sono rimaste in alcuni ambiti sociali».

«Elena, la mia amica, invece, ci sta attenta e non spazza nemmeno i pavimenti di sera».

«E magari ha anche il sacchetto con il sale dietro la por-ta», concluse Anita.

Risero, e Carlo, ricordata la notizia letta al mattino sul giornale, la raccontò. «Attilio, il barista, supponeva che fosse un avvertimento della camorra, io invece penso che il gallo senza testa e inchiodato sul portone della chiesa del Gesù sia più legato a qualche rito magico».

Anita capì che Carlo aspettava un suo parere. La vecchiaia spesso è arteriosclerosi, poche volte maturità e raramente saggezza, e l’anziana signora sapeva che, sebbene la sopran-nominassero la Lucida e la sua intelligenza non fosse stata in-taccata dagli anni, non rientrava nel gruppo dei vecchi saggi e non aveva risposta. «Non lo so», disse scuotendo la testa. «Come ho detto, non ci ho mai creduto. Sono vissuta in un ambiente che non ha mai fatto caso a queste chiacchiere da popolino, è così che venivano chiamate. Però, se ti fa piacere, posso informarmi. Qui ci sono molte persone anziane e tan-te di loro ne avranno da raccontare di queste cose».

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