«IL SIGNORE SI È LEGATO A VOI E VI HA SCELTI» · INTRODUZIONE 1.1. Il concetto di “elezione”...

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«IL SIGNORE SI È LEGATO A VOI E VI HA SCELTI» (Dt 7,7) PISTE PER COMPRENDERE IL TEMA BIBLICO DELLA E L E Z I O N E NEL LIBRO DEL DEUTERONOMIO PADRE PIETRO BOVATI Modena – “Centro Famiglia Nazaret” – 06-04-08

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«IL SIGNORE

SI È LEGATO A VOI E VI HA SCELTI»

(Dt 7,7)

PISTE PER COMPRENDERE IL TEMA BIBLICO DELLA

E L E Z I O N E NEL LIBRO DEL DEUTERONOMIO

PADRE PIETRO BOVATI

Modena – “Centro Famiglia Nazaret” – 06-04-08

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L’ELEZIONE DEL POPOLO DI ISRAELE (Dt 7)

1. INTRODUZIONE 1.1. Il concetto di “elezione”

Il filo conduttore delle tre relazioni sarà il tema della elezione. Quella della elezione è una categoria teologica ben conosciuta. Ad esempio, il popolo ebraico

viene definito “il popolo eletto”; e i cristiani ereditano tale dimensione quando nella lettera agli Efe-sini ricordano: «Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che (...) ci ha scelti prima della creazione del mondo» (Ef 1,3-4). Anche Pietro parla di questa elezione dei cristiani, che sono gli eletti poiché sono in Cristo, l’eletto per eccellenza, Colui sul quale il Padre ha posto il suo sguar-do di compiacenza (2 Pt 1,16-17).

Però bisogna riconoscere che la elezione, che ci è familiare, è tuttavia una categoria astratta. Es-sa viene usata solamente in ambiente religioso, talvolta persino con un certo sospetto.

Per noi moderni si tratta di una categoria problematica, perché veicola l’idea di un privilegio, di una superiorità, di una priorità rispetto agli altri, di una serie di diritti esclusivi, con dei meriti che non si sa neanche fino a che punto siano giusti. Questa categoria ha creato anche tanti problemi di natura politica, in quanto chi si sente l’eletto tende a scacciare via tutti gli altri.

Da un punto di vista sociologico, la nostra idea di democrazia è antagonista all’idea di elezione, in quanto noi pensiamo che l’uguaglianza radicale tra gli uomini sia una delle conquiste recenti del mondo contemporaneo da tenere ferma come base fondamentale dei diritti umani.

Inoltre per noi moderni, oltre ad essere contrastante con la nostra idea della sociologia, l’idea di elezione sembra anche inadeguata ad esprimere l’idea di Dio, poiché Dio deve essere giusto e im-parziale, non deve fare preferenze. Ad esempio, non è giusto che Dio massacri gli Egiziani a favore di un altro gruppo. Secondo la nostra mentalità Dio deve trattare con le stessa misura di benevolen-za e di giustizia ogni gruppo, ogni persona, ogni singolo uomo, ogni singolo figlio.

Eppure, sin dall’inizio del racconto salvifico e fino al suo compimento nel racconto evangelico, la Scrittura afferma che Dio sceglie: Dio sceglie fra tanti. Dunque la Bibbia non soltanto usa il con-cetto di elezione molte volte, ma ne fa addirittura un nucleo significativo della rivelazione stessa di Dio. Allora noi dobbiamo cercare di comprenderne il senso, poiché anche il mondo pagano sostiene che il dio sceglie: sceglie i suoi eroi; allo stesso modo pure il fato designa degli uomini per dei gran-di compiti. Si tratterà di vedere se il modo in cui noi pensiamo l’elezione è un modo pagano oppure un modo che corrisponde effettivamente alla divina rivelazione.

Adesso introduciamo due concetti che possono aiutare a comprendere meglio l’idea di elezione. Infatti nella Scrittura si trovano due modi che spiegano perché Dio ha scelto tale modalità e cosa si-gnifica che uno è eletto.

1.2. L’elezione come risposta dell’uomo a Dio

Il primo modo è comprendere che, di fatto, Dio dà la sua grazia a tutti: «Dio fa piovere sui giu-sti e sugli ingiusti» (cf. Mt 5,45); Dio parla a tutti. Ma il suo rivelarsi viene riconosciuto solamente da alcuni, che lo accolgono e fanno tesoro di questo dono. Costoro vengono arricchiti, a differenza degli altri, proprio perché consentono a questa rivelazione di fare breccia nel loro cuore e di creare – proprio per tale ricezione – tutta una serie di valori spirituali e umani (una potenza, un potere, una capacità operativa) che provengono dall’accoglienza di Dio.

Pertanto la elezione non è una scelta di Dio, il quale così preferirebbe una persona rispetto ad un’altra; ma è piuttosto ciò che si determina nella storia a motivo di tale prodigio della libertà. C’è chi accoglie e c’è chi non accoglie. Ci sono diversi tipi di terreno; ci sono delle chiamate estese a tutti, ma non tutti rispondono, proprio secondo la regola del vangelo: «Molti sono i chiamati, ma

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pochi gli eletti» (cf. Mt 22,14). Ciò non perché Dio abbia riservato ad un piccolo gruppo tale espe-rienza, ma perché pochi hanno il dono e la capacità di accogliere il mistero di Dio.

Questo è un primo modo di comprendere cosa significhi l’elezione, mettendo in gioco effetti-vamente la responsabilità dell’uomo di rispondere al dono universale.

1.3. L’eletto come strumento di salvezza per tutti gli uomini

Tuttavia la Scrittura parla dell’elezione come di una specifica scelta di Dio. Ad esempio, tra tanti figli di Iesse, è Davide l’eletto; tra tutte le tribù di Giuda, è nella più piccola – ovvero quella di Manasse – dove c’è Gedeone; tra tutte le genti della terra, il popolo eletto è Israele; tra tutte le crea-ture umane, il prediletto è Gesù di Nazaret.

Quindi Dio sceglie; e alle persone scelte Egli accorda dei favori particolari. Fa vivere a queste persone delle esperienze uniche, rivestendole di luce. Dio opera tutto ciò perché ha bisogno di rive-larsi, di far vedere la sua presenza in mezzo agli uomini. Questa differenza rispetto alle altre perso-ne, ossia il fatto che si veda una persona luminosa, consente effettivamente all’uomo di fermarsi e di porsi la domanda sul perché di quella presenza, di quella luce, di quella forza, di quel potere, di quella capacità di vita, che proviene dalle persone luminose.

Dio si rivela incarnandosi in una realtà storica. Ha scelto tale mediazione, perché la mediazione esprime l’alterità. Questo è un concetto importante su cui riflettere. C’è chi è luminoso; ed allora chi vede questa luce sa di avere bisogno di andare da tale luce, perché l’alterità significa che il bene ci viene da un altro. L’uomo riceve il bene da qualcun altro; non è un prodotto che si auto-fornisce con le proprie energie. Al contrario, riceve la vita da un’altra persona. Come l’uomo riceve la vita dai propri genitori, così riceve la rivelazione di Dio da un altro, che diventa quindi il simbolo storico e concreto del fatto che ogni cosa è donata. Infatti l’eletto non è una luminosità per sé, bensì è la lu-minosità per gli altri. Ognuno è eletto per essere strumento, segno ed operatore di salvezza per la storia degli uomini.

Quindi Dio si serve degli eletti: li riveste di luce, affinché essi esprimano nel mondo la sua na-tura luminosa, la sua natura positiva, il suo desiderio di salvezza e affinché siano, nella concretezza della storia, i fratelli che aiutano i fratelli ad andare verso di Lui. Dio vuole la salvezza di tutti e, al fine di salvare tutti, sceglie alcuni uomini che sono come il simbolo di Dio nella nostra storia, fino all’incarnazione del Figlio di Dio, che diventa «la luce del mondo» (Gv 8,12), il Salvatore di tutti.

2. UN POPOLO ELETTO, SANTO E AMATO Adesso affrontiamo Deuteronomio 7. Si tratta di un testo che è inserito nella cosiddetta parte “esortativa”, “parenetica”, in cui

l’autore del Deuteronomio cerca di stimolare, con le sue parole anche insistite, l’accoglienza obbe-diente della rivelazione. Questa parte comprende Dt 5-11 ed è probabilmente la parte del libro più importante, più originale e più ricca di contenuti teologici.

Nel cuore di Dt 7 si trova esplicitato il tema dell’elezione, in particolare nei vv. 6-15: «[6]Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto (ecco

l’elezione) per essere il suo popolo privilegiato («privilegiato» è una traduzione possibile del ter-mine ebraico “segullàh”, che propriamente significa “proprietà”: dunque «per essere sua proprie-tà», «la sua personale proprietà») fra tutti i popoli che sono sulla terra.

[7]Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli –, [8]ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, il Signore vi ha fatti uscire con mano potente e vi ha riscattati liberandovi dalla condizione servile, dalla mano del faraone, re di Egitto. [9]Riconoscete dunque che il Signore vostro Dio è Dio, il Dio fedele, che mantiene la sua alleanza e benevolenza per mille generazioni, con coloro che l’amano e osservano i suoi comandamenti; [10]ma ripaga

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nella loro persona coloro che lo odiano, facendoli perire; non concede una dilazione a chi lo odia, ma nella sua stessa persona lo ripaga.

[11]Osserverai dunque i comandi, le leggi e le norme che oggi ti do, mettendole in pratica. [12]Per aver voi dato ascolto a queste norme e per averle osservate e messe in pratica, il Signore tuo Dio conserverà per te l’alleanza e la benevolenza che ha giurato ai tuoi padri. [13]Egli ti ame-rà, ti benedirà, ti moltiplicherà; benedirà il frutto del tuo seno e il frutto del tuo suolo: il tuo fru-mento, il tuo mosto e il tuo olio, i parti delle tue vacche e i nati del tuo gregge, nel paese che ha giurato ai tuoi padri di darti. [14]Tu sarai benedetto più di tutti i popoli e non ci sarà in mezzo a te né maschio né femmina sterile e neppure fra il tuo bestiame. [15]Il Signore allontanerà da te ogni infermità e non manderà su di te alcuna di quelle funeste malattie d’Egitto, che bene conoscesti, ma le manderà a quanti ti odiano».

2.1. Un popolo “separato” per Dio

Nel v. 6 si legge che la definizione di Israele è di essere un popolo «scelto da Dio». Il tema della scelta è collegato ad un altro concetto molto importante della tradizione biblica, che è il concetto di “santità”. La traduzione della CEI dice: «Voi siete un popolo consacrato al Signore»; letteralmente il testo ebraico recita: «Voi siete un popolo santo», con una terminologia che ci è familiare come cristiani.

«Popolo santo» significa “separato” dagli altri. Il concetto di santità ha diversi risvolti, di cui uno dei più importanti è certamente quello di capire che il “santo” è “separato” dalla profanità, ossia dall’uso abituale, per appartenere a Dio. Il popolo viene consacrato, viene reso santo proprio perché sottratto da ciò che è ordinario, per diventare unico. Diventa unico poiché appartiene a Dio e Dio è unico. Probabilmente la frase più celebre del Deuteronomio è “Shemàh Israel”, ovvero «Ascolta, Israele: il Signore tuo Dio è unico» (cf. Dt 6,4). Di fatto appartenere a Dio significa assumere una qualità di santità, di esclusività, di particolarità, che è proprio quella del Signore. Appartenere al Si-gnore è diventare unici nella storia. Tutto ciò per un compito naturalmente: un compito di significa-zione, un compito di rivelazione per gli altri.

2.2. Scelto perché piccolo

La domanda diventa: perché Dio ha scelto Israele? La risposta è data dal Deuteronomio: «Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti (…) perché il Si-

gnore vi ama». L’elezione è una manifestazione di amore, come nel rapporto sponsale. Infatti un uomo sceglie una donna e una donna sceglie un uomo perché lo/la ama. Il fondamento dell’elezione è il desiderio di Dio di essere in rapporto con gli uomini.

Non esiste un motivo per cui Dio sceglie questo popolo e non un altro, perché l’amore non ha motivi. Talvolta si dice che l’amore è “folle”; probabilmente è meglio affermare che l’amore è gra-tuito, è disinteressato. Non lo si capisce bene, in quanto ha degli aspetti inspiegabili ed enigmatici. Noi lo sperimentiamo quando siamo meravigliati dall’essere amati oppure quando proviamo l’esperienza straordinaria di amare una persona e di non sapere bene perché tutta la nostra passione si porta su quell’individuo particolare.

Tuttavia la Scrittura, pur non fornendo una motivazione, spiega in un certo senso il criterio della scelta di Dio. Dio ama Israele perché è l’ultimo, perché è «il più piccolo di tutti i popoli» che ci so-no sulla terra. Il fondamento dell’amore è misterioso; tuttavia lo si vede realizzato quando si riveste di tenerezza, di compassione; quando promuove la vita minacciata, poiché essere piccoli significa avere una vita debole, che può essere soffocata da forze più prepotenti.

Questo amore di Dio per il piccolo è il principio storico, è la rivelazione storica del Dio di Israe-le e del nostro Dio in tutta la storia biblica. Dio si manifesta dove c’è piccolezza: sia che si tratti della piccolezza del popolo di Israele; sia che si tratti della piccolezza della Vergine Maria; sia che si tratti dell’insignificanza di Gedeone; sia che si tratti del persona che non può partorire. Là dove c’è debolezza, miseria, povertà, Dio si manifesta.

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Ciò affinché, come afferma la lettera ai Corinzi (riprendendo le tradizioni dei profeti, in partico-lare di Geremia 9,22): «Nessuno si vanti, ma tutti si vantino nel Signore» (cf. 1 Cor 1,31; 2 Cor 10,17). Nessuno si vanti della sua forza, della sua sapienza, della sua ricchezza, ma tutti possano rendere gloria a Dio. È il Magnificat, come lode a Dio cantato dall’umile serva, dalla più piccola tra le sue creature, che si contrappone al vanto e all’autocelebrazione da parte dei potenti. Il tema della piccolezza, nelle sue varie forme, è caratteristico del Deuteronomio. Lo troveremo anche nella se-guente relazione, quando parleremo dei poveri, e poi lo vedremo in maniera assolutamente sublime nella figura di colui che muore, poiché l’uomo raggiunge la sua più straordinaria debolezza nel momento stesso del suo consegnarsi a Dio.

Questa piccolezza è l’origine: è l’incontro tra il Dio del cielo e della terra (l’Altissimo) e la cosa più piccola che esista sulla faccia della terra. Ciò determina l’alleanza: una unione inscindibile e in-dissolubile, poiché fondata sull’amore potente di Dio, che è sempre fedele.

Però è un amore che prende forma di storia. Dio agisce all’inizio per amore: elegge e salva Isra-ele dall’Egitto. Ma tale amore originario deve liberare una storia di relazione, quella che è illustrata nei vv. 9-10: «Riconoscete dunque che il Signore vostro Dio è Dio, il Dio fedele, che mantiene la sua alleanza e benevolenza per mille generazioni, con coloro che l’amano e osservano i suoi co-mandamenti» (v. 9). L’amore originario di Dio crea l’amore degli uomini; la sua fedeltà crea la fe-deltà degli uomini. Ma senza questo non c’è storia, non c’è alleanza, non c’è unione. Dio ama colo-ro che Lo amano, «ma ripaga nella loro persona coloro che lo odiano, facendoli perire; non con-cede una dilazione a chi lo odia, ma nella sua stessa persona lo ripaga» (v. 10).

È un elemento drammatico della storia dell’alleanza il fatto che tutta la storia d’amore di Dio venga consegnata agli uomini, alla loro libertà, alla loro capacità di accogliere questo amore poten-te, rendendolo storico. Tuttavia, poiché l’amore si manifesta come obbedienza e come consenso alla via dell’amore, ecco che per chi ascolta c’è la promessa: se Israele osserverà queste norme, «Dio conserverà per te l’alleanza e la benevolenza (...). Egli ti amerà, ti benedirà, ti moltiplicherà (...). Tu sarai benedetto più di tutti i popoli che sono sulla terra» (vv. 12-14). Si vede bene che qui si re-alizza la promessa di Abramo: l’uomo sterile, l’uomo profugo, l’uomo che deve abbandonare la sua terra, viene appunto investito (proprio per aver accolto Dio) della promessa di una benedizione che diventerà principio di benedizione per tutte le genti.

2.3. La responsabilità dell’uomo

L’elezione è un marchio divino; tuttavia esso è nulla senza l’uomo. Ne viene un senso di straor-dinaria responsabilità, cioè di risposta da parte della libertà dell’uomo. Quando si parla della elezio-ne da parte di Dio, se il credente è mosso da un sentimento di fiducia, di abbandono alla sua straor-dinaria fedeltà (perché Dio rimane fedele anche quando l’uomo pecca), tuttavia – e questa è la te-matica proprio del Deuteronomio – ciò deve indurre ciascuno un rinnovato senso di responsabilità per tale dono, perché chiunque è eletto deve portare a compimento la sua elezione in una storia di impegno, di libertà, di obbedienza, di osservanza dei comandamenti di Dio.

Ecco da dove nasce la parenesi, l’esortazione continua del Deuteronomio ad ascoltare, a mettere in pratica, ad obbedire, ad amare, come la sostanza stessa della elezione.

2.4. Il comandamento dell’amore a Dio

I comandamenti: bisogna osservare i comandamenti. Dio ci ha eletti e l’elezione comporta re-sponsabilità, cioè impegno.

Quali sono i comandamenti? Ci aspetteremmo dei comandamenti belli, gioiosi, facili. Invece i comandamenti sono difficili.

Secondo il vangelo il comandamento dell’amore è un «giogo leggero», perché effettivamente chi ama davvero sa che tutto è reso facile dall’amore («Il mio giogo è dolce e il mio carico leggero», Mt 11,30). Tuttavia è anche vero che gli uomini sono esseri di carne e percepiscono che ogni co-mandamento pesa su di essi come un giogo, come qualcosa di difficile.

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Comunque, quando il versante del comandamento è l’amore, gli uomini sono portati a vederne la luminosità, la bellezza. Ma, di fatto, il primo comandamento del Deuteronomio (probabilmente il vero comandamento, il primo, il principale, quello essenziale) è: «Ascolta, Israele: il Signore Dio è l’unico. Ama il Signore tuo Dio con tutto il cuore» (cf. Dt 6,4-5). Non ci sono altri comandamenti. L’amore per Dio è il vero comandamento, cioè è il modo in cui Israele porta a compimento nella sua storia l’elezione. Dove si vede che c’è l’eletto? Quando uno ama. È l’amore esclusivo, l’amore totale, l’amore perfetto, di cui il Deuteronomio si fa strumento nella complessità della nostra storia. Però con la grande prospettiva del consacrarsi a Dio, dell’amare Dio.

3. IL COMANDO DELLO STERMINIO (Dt 7,1-5) Proprio nel cap. 7, là dove si parla di tali dimensioni (ossia di elezione, di amore, di amore di

Dio e di amore dell’uomo), c’è un comando molto difficile: è il comando dello sterminio. Bisogna cercare di comprendere bene il valore di queste parole, che noi saremmo subito portati a tralasciare, passando al capitolo successivo, in quanto ci sembrano troppo lontane dalla prospettiva evangelica.

3.1. Amare solamente Dio

Una prima considerazione è che amare Dio significa non seguire altri dèi, bensì considerare a-bominio (cioè distruzione della vita, cosa orrenda e ripugnante) il dare valore sacrale, valore assolu-to, valore salvifico ad altre dimensioni che non siano il Signore. Amare Dio significa non andare dietro ad altri dèi, simulacri, realtà, istituzioni, persone, che sono seducenti e pieni di promesse, ma che sono ingannevoli, perché l’unica realtà davvero vitale per la storia uomini è solamente il Signo-re.

Allora è strano che l’amore, che è una realtà totale per l’uomo, debba coniugarsi con l’odio. An-cora una volta è una scelta: o si ama Dio e Lo si segue, o si ama mammona. Bisogna seguire Dio e odiare mammona, altrimenti significa che il nostro è un rapporto sincretistico, in cui si mescolano un po’ di Dio e un po’ di mondanità, un po’ di Dio e un po’ di Baal, un po’ di Dio e un po’ di qual-che divinità locale, che fa comodo. Dunque si vede che la scelta radicale di Dio comporta l’assunzione di un atteggiamento di preclusione, di ostilità, di confronto anche drammatico con ciò che non è Dio.

Questo è un primo approccio per comprendere ciò che si legge in questo testo e che prende for-ma nella cosiddetta “legge dello sterminio”. In realtà il termine ebraico “herém” probabilmente non significa “sterminio”, bensì piuttosto “consacrare a Dio”, “lasciare a Dio”, ossia non fare di qualco-sa una proprietà propria, ma in qualche modo votarlo alla distruzione di Dio.

Nel cap. 7 tale realtà viene rappresentata simbolicamente dalle popolazioni cananee; leggiamo l’inizio del capitolo:

«[1]Quando il Signore tuo Dio ti avrà introdotto nel paese che vai a prendere in possesso e ne avrà scacciate davanti a te molte nazioni: gli Hittiti, i Gergesei, gli Amorrei, i Perizziti, gli Evei, i Cananei e i Gebusei, sette (cifra simbolica) nazioni più grandi e più potenti di te, [2]quando il Si-gnore tuo Dio le avrà messe in tuo potere e tu le avrai sconfitte, tu le voterai allo sterminio; non fa-rai con esse alleanza né farai loro grazia. [3]Non ti imparenterai con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli, [4]perché allontanerebbero i tuoi figli dal se-guire me, per farli servire a dei stranieri, e l’ira del Signore si accenderebbe contro di voi e ben presto vi distruggerebbe. [5]Ma voi vi comporterete con loro così: demolirete i loro altari, spezze-rete le loro stele, taglierete i loro pali sacri, brucerete nel fuoco i loro idoli. [6]Tu infatti sei un po-polo consacrato al Signore tuo Dio».

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Questa legge riguarda solamente i popoli cananei: non è rivolta a tutti i popoli della terra, bensì è rivolta soltanto ai popoli cananei. Infatti ci sono altre leggi in cui Israele ha un rapporto comple-tamente diverso con le popolazioni lontane oppure con gli immigrati.

Ciò perché i Cananei sono una cifra, una specie di simbolo. È come se noi parlassimo del “tur-co” o del “moro”, ossia di popoli con un certo ricordo storico.

Innanzi tutto i popoli cananei sono un popolo numeroso e potente, mentre Israele è debole, è «il più piccolo fra tutti». La forza dei Cananei potrebbe indurre Israele a venire a patti con loro, non soltanto per paura, ma anche perché la forza ha un potere di seduzione. E questa – come ricorda il Deuteronomio – sarebbe una trappola, un inganno.

Inoltre i Cananei sono l’emblema dell’idolatria: adorano ideali completamente opposti al Signo-re, cioè alla vita. Il simbolo dell’idolatria è l’uccisione dei figli: essi sacrificano la loro vita nel loro stesso sorgere per qualche cosa che non è Dio, perché non dona la vita, ma la uccide.

Allora questa realtà deve essere assunta non tanto come una prescrizione di ordine storico, ma come un comando di natura simbolica. Ed è questa forse la svolta, l’atteggiamento intelligente della lettura dei testi, in particolare quelli dell’Antico Testamento, che a noi appaiono così pieni di vio-lenza, proprio perché non riusciamo a leggerli simbolicamente. Noi ne facciamo una lettura fonda-mentalista, come se noi dovessimo trovare oggi, nella nostra storia, qualche Cananeo da fare a pez-zi.

Invece il Cananeo rappresenta simbolicamente la figura di ciò che non si può riconoscere ed ac-cettare, distinguendo però tra il peccatore e il peccato, tra la realtà storica e tale presentazione sim-bolica. In altre parole, gli atteggiamenti di violenza che illustreremo devono essere presi alla stregua della lettura che si fa del Nuovo Testamento; ad esempio, del “Discorso della montagna”, quando il Signore insegna: «Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te. E se la tua mano destra ti è occasione di scandalo, tagliala e gettala via da te» (Mt 5,29.30). Mai nessun cristiano ha immaginato di dover strapparsi gli occhi o di tagliarsi una mano. Se il Cananeo distur-ba, allora bisogna “tagliarlo” e “gettarlo lontano da sé”: è la stessa visione.

3.2. Il rifiuto assoluto di tutto ciò che non è Dio

La Legge presenta tre imperativi. 1. Nessuna alleanza coi Cananei: non si deve venire a patti col male. Ciò perché Israele poteva

essere tentato di fare alleanze sponsali e di imparentarsi coi Cananei, poiché essi comandavano ed erano forti. I Cananei erano come gli Americani al giorno d’oggi (!), che fanno sempre le cose più grandi e più all’avanguardia. Quindi, per salvare la propria vita, Israele poteva desiderare di venire a patti con loro. Inoltre poteva pure pensare che allearsi coi Cananei fosse senza rischi, in quanto in sé Israele avrebbe continuato a fare le proprie pratiche religiose; si sarebbe solamente “sposato” con qualcuno gli dà del denaro, e nulla più.

Dunque la norma sul non venire a patti, che sono espressi col simbolo matrimoniale, indica ap-punto che è una specie di simbolo, in quanto il matrimonio è un grande simbolo: bisogna unirsi con chi è santo, con chi vive gli stessi valori. Pertanto bisogna unirsi, associarsi, fare comunione di vita con chi è divino. Come ciò venga poi tradotto nella società è tutto da inventare. Però è questa l’indicazione spirituale che viene da tale comandamento. Dunque il primo aspetto è di non fare pat-ti, di non allearsi, di non sposarsi coi Cananei.

2. Un secondo aspetto è il dover distruggere i luoghi di culto idolatrici e i simboli dell’idolatria: gli altari, le stele, i pali sacri. Dunque tutte le icone. Anche questo non deve essere preso alla lettera, poiché così si terrebbe un atteggiamento fondamentalista, che non capirebbe il senso di tali norme. Ciò che il comando del decalogo favorisce è una tradizione biblica che dà grande importanza ai se-gni del sacro. Per Israele il culto deve essere senza immagini, poiché esse invitano ad una concezio-ne materialistica di Dio e a fissarlo in una immagine di leone, di albero, di stella, ecc. Invece, se-condo la tradizione biblica, il Signore non ha nessuna immagine.

Tuttavia, ciò che è maggiormente importante in tale comandamento è percepire che l’atto della distruzione si porta su ciò che induce a peccare. Un tempo i moralisti insegnavano che bisogna evi-

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tare le cosiddette “occasioni prossime al peccato”. Questo comandamento indica di stare attenti a rinunciare e a sacrificare, a «votare allo sterminio» ciò che potrebbe indurre ad allontanarsi dal Si-gnore, per la sua forma sacrale e per la sua apparente bellezza (perché è oro e argento, perché bril-la).

3. L’ultimo punto è il più difficile e doloroso ed è espresso al v. 16 «Sterminerai dunque tutti i popoli che il Signore Dio tuo sta per consegnare a te; il tuo occhio

non li compianga; non servire i loro dèi, perché ciò è una trappola per te». Israele non deve fare alleanze; inoltre deve distruggere i luoghi sacri; infine deve distruggere i

Cananei. Quest’ultimo è il punto più difficile. Bisogna riconoscere che è difficile nella materialità del testo; anzi, è ripugnante. È assolutamente contrario al discorso del evangelico sull’amore per i nemici.

Allora ripetiamo ancora una volta, iniziando da un aspetto che può aiutare a comprendere, che questi sono testi da interpretare simbolicamente. Infatti, quando l’autore del Deuteronomio scrive questa legge, ossia circa nel VII secolo a.C., i Cananei non esistono più. È come se qualcuno oggi invitasse a distruggere tutti gli Assiri della terra: in realtà non ce n’è neanche uno! Oppure è come se venisse ordinato di distruggere e radere al suolo la città di Ninive: in realtà non esiste più! Pertan-to, proprio perché non esistono più, i Cananei possono servire come cifra, come emblema, come simbolo di quelle potenze del mondo e di quelle forze di male che sono all’opera nella storia e che devono combattute con le armi divine.

3.3. Il “giudizio” e la “guerra santa”

Il Deuteronomio utilizza due categorie che possono risultare utili per comprendere come si com-battono queste forze.

1. La prima categoria che il Deuteronomio usa è quella del giudizio. La distruzione dei Cananei viene vista come un’opera di Dio: «Sono Io che scaccio davanti a te i Cananei». Ciò perché i Cana-nei sono stati giudicati colpevoli da Dio e dunque devono essere puniti, poiché sono principio di morte nella società; sono dannosissimi. Bisogna esercitare su di loro l’atto di giustizia, che è un atto luminoso, poiché salva l’innocente e punisce il colpevole. In questo atto di giustizia Israele è come l’esecutore di giustizia, ossia è colui che è incaricato di portare a compimento il verdetto pronuncia-to dal Giudice giusto.

Ciò che è interessante è il motivo per cui viene assegnato ad Israele questo compito: perché è piccolo. Pertanto questa distruzione non significherà nella storia il prevalere del prepotente sul de-bole; bensì, al contrario, rivelerà nella storia che è il piccolo che abbatte i potenti dai troni, come segno del giudizio storico di Dio nella storia.

Quindi Israele lo fa come uno che deve compiere questa storia, senza lasciarsi commuovere, poiché bisogna non avere compassione per chi deve essere punito; altrimenti questi continuerà nella sua propria ingiustizia. E Israele lo fa assumendo le dimensioni del giudizio secondo le modalità proprie di chi non approfitta di ciò, di chi non prende l’oro, di chi non si appropria delle cose. Inve-ce compie realmente quell’atto di Dio che il Signore gli ha assegnato di compiere nella storia.

Pur non essendo forse pienamente soddisfacente, questa interpretazione fa capire meglio in qua-le senso gli Israeliti ritenevano di essere esecutori di giustizia; ma non asserivano che il Signore era con loro e pertanto essi avevano il diritto di fare ciò che pareva loro. Infatti, quando Israele divente-rà “il Cananeo”, subirà la stessa sorte. Capiterà che Israele diventerà “il Cananeo” e farà esattamen-te come «gli Hittiti, i Gergesei, gli Amorrei, i Perizziti, gli Evei, i Cananei e i Gebusei», cioè adore-rà Baal e sacrificherà i propri figli a tale divinità. In quel momento sarà un altro a diventare “esecu-tore di giustizia”; sarà un altro servo del Signore (ad esempio, i re Nabucodonosor oppure Sargon), che verrà e significherà nella storia il fatto che la ingiustizia e il male vengono distrutti dal piccolo.

2. Un secondo aspetto, collegato col primo, è la guerra santa. Questa azione viene presentata come una guerra santa. La guerra santa non è la guerra per motivi religiosi, bensì è la guerra com-battuta dal popolo santo, con i modi voluti dal Dio santo.

Come si manifesta la guerra santa?

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È sempre combattuta da un singolo o da un popolo che è inferiore rispetto a ciò che deve com-battere. Ad esempio, ci sono cinque re contro un piccolo gruppo di Israeliti; ci sono tutti i Madianiti e solamente trecento soldati di Gedeone. La guerra santa mette in gioco una sproporzione tra le for-ze e manifesta storicamente il miracoloso prevalere della debolezza. Nella guerra santa vince non chi è più forte, bensì chi è portatore di diritto, cioè l’umile, che è strumento di Dio nel fare giustizia sulla terra, un servo debole che porta la giustizia nel mondo mediante, appunto, il combattimento divino.

La guerra santa ha il suo fondamento nell’elezione del popolo santo e quindi gli umili della terra (ossia Israele) sanno di dover combattere e di dover avere il coraggio di andare incontro al Cananeo. Nei primi capitoli del libro del Deuteronomio Israele avrà paura di Canaan: vedrà le città alte e forti, con le mura che arrivano fino al cielo e deciderà di scappare; dunque non porterà a compimento questo coraggio della guerra santa.

La guerra santa è la guerra del martire, cioè di colui che va incontro a forze soverchianti, accet-tando di vincere la sua paura e ponendo la sua fiducia solamente per il Signore, soltanto nel nome del “Dio degli eserciti”, in Colui che saprà dare vita a colui che è debole. Pertanto la legge della he-rém non è una legge che invita alla violenza, bensì è il contrario: è la legge del martire, ossia è la legge di colui che osa affrontare con coraggio ciò che è nemico di Dio, per fare in modo che in que-sto combattimento si riveli davvero chi è il Potente, chi è il Signore del cielo e della terra, chi è il Dio della storia.

Ogni epoca ha le sue guerre, ogni epoca ha le sue battaglie; ogni epoca deve affrontare la batta-glia santa, la battaglia dei santi di Dio. A mano a mano che il lettore comprende tale dimensione, può comprendere che la guerra di cui parla il Signore non è contro creature di sangue e di carne bensì – come si legge nella lettera agli Efesini – è contro «i Principati e le Potestà, contro i domina-tori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti» (Ef 6,12). La lettera agli Efesini inizia con la frase: «Voi siete eletti prima della creazione del mondo» (cf. Ef 1,4). Chi è eletto deve affrontare tale combattimento contro le forze che dominano questo mondo per affermare finalmente il Dio della vita. Da qui viene che la giusta individuazione dell’avversario e le armi con cui affrontarli sono il luogo per eccellenza del discernimento spiritua-le, sapendo che, in ogni caso, ciò che bisogna custodire è l’elemento della piccolezza. È la capacità con la piccolezza di andare incontro fino all’ultimo nemico, che è quella morte stessa che deve esse-re sottoposta all’impero benefico del Dio della vita.

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L’ELEZIONE DEL POVERO NEL CODICE DEL DEUTERONOMIO (Dt 5)

L’argomento è L’elezione del povero nel codice deuteronomico, che si riaggancia alla prima

tematica poiché ciò che in Dt 7 veniva presentato come “piccolo” qui viene presentato sotto un’altra figura, ossia come una figura di ordine prevalentemente economico, nonostante che – come vedre-mo – non sia unicamente il risvolto economico che viene toccato.

1. INTRODUZIONE Il Deuteronomio accorda grande attenzione spirituale al povero; anzi lo chiama «il tuo povero».

Rivolgendosi ad Israele, Mosè dice proprio: «Il tuo povero». Con tale denominazione (che in ebrai-co ha diversi termini, che sono tradotti: povero, indigente, misero, umile) viene inteso colui che è indigente economicamente, quindi non ha risorse economiche e rischia di morire proprio per man-canza di risorse; ma anche la persona sprovveduta di risorse e difese; la persona che, forse a motivo di debolezza economica o forse per qualche altra dimensione di natura sociale, è giuridicamente sprovveduta, debole socialmente; la persona che non conta.

In questa attenzione privilegiata alle condizioni degli umili, gli storici della tradizione culturale biblica vedono un relativo e significativo progresso umanitario, marcato dal Deuteronomio nella tradizione biblica. È da segnalare che tale progresso paradossalmente avviene in un momento di grave turbamento sociale. Generalmente i turbamenti sociali creano profonde differenze economi-che (ci sono persone molte ricche e persone molto indigenti) e creano anche conflittualità tra le classi.

Invece il Deuteronomio si preoccupa non soltanto di provvedere a sanare tali differenze nella società, ma intende favorire lo spirito di fraternità. Anche il nome “fratello” è un termine tipico del Deuteronomio: «è il tuo povero», «è il tuo fratello». Così si trasformano le differenze che ogni so-cietà produce e che ogni epoca storica crea, in occasioni di solidarietà e di fattiva benevolenza; in occasioni di esplicitare nella società lo statuto del “figlio di Dio”.

2. UN DIO ATTENTO AI POVERI

2.1. Israele, un povero salvato da Dio Il fondamento di tale attenzione per i poveri non è soltanto un benevole e generico “senso di

umanità”. Invece il fondamento dell’attenzione ai poveri è di tipo teologico. Lo si vede nella sezio-ne parenetica del Deuteronomio, in Dt 10,14-19. Qui, nell’ultima sezione esortativa, l’autore del Deuteronomio, Mosè, che sta parlando, dice così:

«[14]Ecco, al Signore tuo Dio appartengono i cieli, i cieli dei cieli, la terra e quanto essa con-tiene. [15]Ma il Signore predilesse soltanto i tuoi padri, li amò (si ricorda il tema della elezione) e, dopo loro, ha scelto fra tutti i popoli la loro discendenza, cioè voi, come oggi. [16]Circoncidete dunque il vostro cuore ostinato e non indurite più la vostra nuca; [17]perché il Signore vostro Dio è il Dio degli dèi, il Signore dei signori, il Dio grande, forte e terribile, che non usa parzialità e non accetta regali, [18]rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito. [19]Amate dunque il forestiero, poiché anche voi foste forestieri nel paese d’Egitto».

L’amore di Dio per la vedova, per l’orfano, per il forestiero è il fondamento di ciò che Israele deve fare. Quindi non è un segno di benevolenza solamente umana, bensì nella tradizione biblica è piuttosto il modo con cui il “figlio di Dio” interpreta nella storia i sentimenti del Padre.

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Come Dio ama il forestiero? Come Dio provvede all’orfano e alla vedova? Lo fa tramite i suoi figli, cioè attraverso le persone scelte da Lui, che nella società diventano la modalità concreta, attra-verso la quale Dio, appunto, soccorre i poveri.

È lo spirito del Sabato. In Dt 5, nella sezione centrale del Decalogo, si trova il comandamento sul Sabato. Il comandamento sul Sabato indica che, poiché l’Israelita è stato liberato dall’Egitto, al-lora egli deve diventare nella propria casa principio di liberazione. Deve liberare coloro che sono sottoposti: i figli, i servi e persino le bestie, come simbolo di una liberazione totale che proviene da colui che è stato liberato.

Perché l’Israelita deve amare il povero? Perché egli è stato il povero amato da Dio; perché l’Israelita era orfano, vedova, forestiero; perché Dio è andato a cercare gli ultimi della terra per be-neficarli, per renderli ricchi e fecondi. È tale fondamento di somiglianza con Dio, è questo dono che Dio gli ha fatto di essere vivificato che diviene principio della storia e dovere per l’Israelita. Il Deu-teronomio cerca di inculcare tale spirito.

È lo spirito che salva, non sono le leggi: è lo spirito di benevolenza, lo spirito di attenzione, di salvaguardia e di promozione della vita attenta ai più umili.

2.2. Le categorie di poveri

Tuttavia il Deuteronomio sa che, senza delle indicazioni pratiche, lo spirito rimane astratto, ge-nerico. Persino sant’Ignazio di Loyola, all’inizio delle sue “Costituzioni”, scrive che, benché la leg-ge della carità e dell’amore debba essere quella che ispira la vita di ogni gesuita, tuttavia è saggio dare alcune indicazioni e alcune norme, in maniera tale che ci si incammini nella stessa direzione. Il Deuteronomio fa la stessa cosa. Lo spirito della benevolenza verso gli umili diventa concretezza, diventa legge. Infatti sono necessarie delle vie precise, delle indicazioni pratiche, dei suggerimenti, al fine di far capire come rendere efficace la benevolenza verso i poveri.

Tuttavia – e qui veniamo a ciò che abbiamo già iniziato ad annunciare commentando Dt 7 – le leggi vanno viste come dei simboli, delle indicazioni, dei suggerimenti da interpretare spiritualmen-te, poiché noi siamo esseri spirituali e dobbiamo capire il senso di tali norme.

Innanzi tutto il codice parla dei poveri, ma individua anche delle categorie di persone social-mente sfavorite. Prima indica le persone a cui bisogna badare: sono gli schiavi, ossia persone sotto-poste al lavoro altrui e private di quella libertà che è importante. Dunque c’è un’attenzione a questa categoria di persone.

Poi indica che ci sono dei poveri, cioè delle persone che non hanno risorse economiche, a causa da carestie, da pestilenze, da guerre, da malattie fisiche, ecc.

Poi ci sono altre categorie di persone che sono le famose persone “misere”: gli orfani e le vedo-ve, probabilmente privati anche della tutela giuridica; gli immigrati, cioè i forestieri, gli stranieri, le persone che vengono da fuori e si insediano in terra di Israele. Il termine ebraico caratteristico è la parola “gher” (al plurale “gherim”): sono gli immigrati, che possono essere degli stranieri, ma che spesso sono persino degli Israeliti, che vengono da un’altra zona di Israele, poiché hanno perso la loro terra e vengono a trovare lavoro come braccianti, come salariati, come prestatori d’opera, spes-so occasionale.

Poi ci sono i leviti, i quali nel Deuteronomio sono considerati persone economicamente svan-taggiate, in quanto – secondo la tradizione deuteronomica – il sacerdozio è fatto da una tribù che non ha terra. Dunque non ha proventi, né la fonte del reddito. I sacerdoti dipendono dalle offerte della gente. Quindi se la gente va ad un santuario ed offre un sacrificio, una parte del sacrificio va per il mantenimento dei sacerdoti. Pertanto sono persone che, se non sono oggetto di attenzione specifica da parte della comunità israelitica, rischiano di morire. Allora la figura divina per eccel-lenza in Israele, ossia il sacerdote, muore per mancanza di carità. È straordinario il fatto di collegare il povero col sacerdote, cioè di dover comprendere che la figura del divino, la figura di ciò che è più nobile, di ciò che è da riconoscere nella società come figura e manifestazione del divino, sia portata a tale livello nel Deuteronomio.

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Abbiamo fatto questo elenco poiché, innanzi tutto, leggendo il Deuteronomio, spesso si trova la frase: «E tu allora ti ricorderai della vedova, dell’orfano, dello straniero e del levita» (cf. 16,11). Il povero è posto accanto allo schiavo, lo schiavo accanto al levita, ecc. È importante comprendere ed evidenziare, alla coscienza di ogni lettore, l’attenzione molto importante che il libro ha per tali cate-gorie. Ma è importante soprattutto comprendere che si legge il Deuteronomio in maniera intelligen-te quando ci si pone la domanda su quali siano le categorie di persone sfavorite oggi.

C’è stata un’epoca in cui le vedove erano, anche nella società cristiana, una categoria speciale di attenzione privilegiata, per diversi motivi (una volta non esistevano le pensioni di reversibilità!). In-fatti, quando diventavano vedove, le donne erano immediatamente private della possibilità di so-pravvivenza, di sussistenza. Invece probabilmente oggi non è questa la categoria più svantaggiata.

Pertanto rimane interessante interrogarsi su quali siano le categorie che socialmente sono private di diritti, considerate abbandonate, di cui nessuno si occupa. Ciò richiede una creatività di carità che è molto diversa dall’occuparsi di una categoria citata espressamente dal Deuteronomio come – ad esempio – quella degli orfani. Oggi gli orfanotrofi non sono più il luogo per eccellenza della carità cristiana. Più probabilmente esistono altre categorie che lo sono diventate e sono proposte a noi; ed è qui che viene ad essere evidenziata la nostra capacità di lettura spirituale dei testi, individuando nella categoria del debole (che nel Deuteronomio sono le categorie dell’orfano, dell’immigrato, del privo di diritto) quella persona che è oggetto di carità.

Cosa si può fare per queste persone? Quali sono i provvedimenti da attivare? Il fenomeno della povertà è molto presente in Israele ed è, per Israele, un sintomo di imperfe-

zione sociale. È qualcosa da soccorrere, qualcosa da aiutare. Nel Deuteronomio non è incoraggiata la prospettiva di una povertà volontaria, come simbolo ascetico oppure come modalità di significa-zione del divino. Il povero è piuttosto visto come colui che deve essere soccorso cosicché diventi simile ad ogni Israelita ed abbia la sua stessa dignità.

Come l’amore per il povero, l’amore che soccorre, il povero si traduce in provvedimenti concre-ti?

I provvedimenti del Deuteronomio sono legati alla civiltà contadina. Pertanto si tratta di prov-vedimenti da interpretare, poiché è ben chiaro che nella civiltà moderna non si potrà agire come fa-cevano gli Ebrei con i loro campi. Dunque bisognerà trovare altre strade; ed è importante che noi che leggiamo il Deuteronomio prendiamo questi provvedimenti come suggerimenti, come degli spunti, come delle attenzioni.

Ad esempio, nel Deuteronomio si trova la famosa legge: «Non mettere la museruola al bue che trebbia» (cf. 25,4). Oggi per noi questo non ha grande senso e dunque è da interpretare. Allora «il bue che trebbia» è l’operaio che lavora e che giustamente può approfittare della ricchezza che con-tribuisce a creare. Se l’operaio sta vendemmiando con te, deve condividere con te i frutti della ven-demmia. È questo il senso. Paolo applica tale sentenza del Deuteronomio agli operatori del Vange-lo, ai missionari, poiché scrive che è giusto che il missionario goda di ciò che la comunità ha, in quanto è anche lui parte di quella comunità (1 Cor 9,7-14).

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3. DUE MODALITÀ DI AZIONE: IL DONO E IL PRESTITO I provvedimenti dei poveri sono divisi in due categorie. La prima è la categoria del dono: bisogna donare ai poveri. La seconda categoria è quella del prestito; e vedremo che il prestito è meglio del dono.

3.1 Il dono. Il dono significa condividere. Dal Deuteronomio l’Israelita è chiamato allo statuto di fraternità,

che è uno statuto di condivisione: condivisione gratuita di ciò che lo fa vivere. Quindi il ricco fa partecipe e dona una parte di ciò che è la sua ricchezza gratuitamente e senza trarne alcun vantag-gio.

Per il Deuteronomio ciò avviene nel campo, che è un grande simbolo di fonte di reddito. Chi possiede un terreno non ha un diritto esclusivo sui prodotti del terreno: secondo il Deuteronomio bi-sogna che lasci qualcosa nel campo e non deve tornare indietro a raccogliere tutto. Deve lasciare qualcosa per i poveri: se ha dimenticato un covone, deve lasciarlo, poiché passerà qualcuno e lo prenderà. Se ha raccolto molto, deve lasciare qualcosa. L’Ebreo sa che, mentre sta raccogliendo, deve avere gli occhi dietro per vedere, con amore, che dietro c’è la spigolatrice. Ossia, ciò che l’Ebreo raccoglie, ogni tanto lo lascia un po’ perdere: lascia che la sua mano si apra e faccia cadere qualcosa, così come lascia qualche grappolo d’uva nella sua vigna, affinché, passando, il povero possa nutrirsi di un grappolo d’uva, di qualche oliva, di qualche mannello del suo raccolto (Dt 24,19-22).

Addirittura la legge prevede che il viandante che ha fame possa entrare nel campo altrui e nu-trirsi. È come se il campo non dovesse essere delimitato dai muri, dalle reti e dai cani-lupo, ma fos-se di tutti quando uno è affamato, poiché la fame dà al povero il diritto di nutrirsi di ciò che Dio ha creato (Dt 23,25-26).

Si vede così che la terra nutre tutti; però con il consenso del proprietario. E le leggi di Israele – questa è un elemento interessante – non sono coercitive: non c’è dietro un giudice che sanziona, ma è come una esortazione a fare attenzione che, nel momento stesso in cui si è proprietari, si ha un dovere di attenzione, di sguardo, di benevolenza verso anche chi non è proprietario. I frutti tratti dal campo non sono solamente propri: chi ha raccolto deve poi dare una parte agli altri.

La legge interviene per invitare – ancora una volta – a condividere il raccolto e lo fa con diversi provvedimenti che suppongono sempre il consenso, la libertà, la benevolenza dell’uomo ricco. Non prevede delle sanzioni punitive, ma lascia soltanto a Dio il compito di tramutare questo atto di be-nevolenza in un luogo di benedizione. La Legge ricorda all’Israelita che, se egli condividerà col po-vero, Dio lo benedirà; ma se non condividerà col povero, diventerà povero. È minaccioso; ma a vol-te la minaccia può aiutare.

Cosa significa questa condivisione? Uno dei simboli straordinari è la “legge delle primizie” (26,1-15). Il primo raccolto (ad esempio,

le prime spighe che si raccolgono nel campo) devono essere poste in una cesta e portate al santua-rio. È un simbolo: le prime spighe d’orzo colte nel campo, le prime uve, le prime fragole, i primi fi-chi sono da portare al santuario. Non sono del proprietario del campo, ma devono essere portati al santuario e condivisi col levita e col povero, ossia con chi si nutre queste primizie.

Si tratta di un atto straordinario, poiché la primizia è il primo raccolto alla fine dell’anno. Le scorte sono esaurite e chi raccoglie pensa che, prima di dare via, ne ha bisogno lui. È il primo rac-colto e non si sa se ce ne sarà un secondo: potrebbe venire una gelata, potrebbero venire le cavallet-te oppure dei Madianiti che bruciano il raccolto. E così colui che dovrebbe raccogliere di nuovo ha già dato via la primizia e non ha più niente.

Secondo la Bibbia le primizie sono i frutti migliori della terra. Sono le cose buone e sono da condividere. Sono le cose migliori che si hanno, le più attese, in un certo senso sono le più insicure: esse devono essere donate e condivise coi poveri. È un simbolo straordinario.

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Qualcuno potrebbe obiettare di non possedere nessun campo e dunque di essere esonerato. Ov-viamente non è così, ma bisogna discernere cosa significa per noi offrire all’altro in un atto di fede e di fiducia sulla vita ciò che è più prezioso e che ci appartiene, in maniera tale che tutti siano nella gioia del primo raccolto.

Poi, quando si è finito il raccolto, non si trattiene tutto: bisogna dare la decima. Pure questo è un

valore simbolico. Bisogna dare una decima parte di tutto: una decima parte del grano, dell’olio, del-la menta e del cumino, ossia proprio di tutto (14,22). La decima parte è un valore simbolico, ma im-portante, che va destinata a chi non ha terra. Quindi la decima annuale viene riservata al levita; inol-tre ogni tre anni si fa una decima “speciale” che viene riservata a tutti i poveri (26,12ss).

Per ragioni storiche si è pensato che questa fosse una normativa ragionevole e non troppo esi-gente; sarebbero delle indicazioni su cosa si può dare, su quanta condivisione fare. Ma è logico che è lasciato al proprio spirito di poter indicare nella propria famiglia, nel proprio paese, in quel parti-colare momento storico, che cosa si può fare come generosità per condividere con gli uomini.

Inoltre ci sono le “feste”, che sono ricorrenze regolari durante l’anno, le quali rendono possibile

la condivisione delle ricchezze. Ad esempio, il ricco va al tempio ed offre un sacrificio. Offrire un sacrificio significa che si uccide un bue e che così mangiano tutti: mangiano i sacerdoti, chi ha of-ferto il sacrificio ed anche i poveri: «I poveri mangeranno e saranno saziati» (Salmo 22,27). I pove-ri mangiano la carne quando il ricco va ad offrire un sacrificio. Il ricco offre un sacrificio e lo con-divide con la sua famiglia; ma la legge indica appunto che deve condividerlo anche col povero e col forestiero che stanno alla sua porta.

È straordinario che la festa non possa essere quel luogo di vero rapporto con Dio se non include questo atto di benevolenza e di vita, dato e comunicato a coloro che sono più poveri. Si condivide il cibo, ossia si condivide la benedizione di Dio; ma si condivide anche la gioia: «Tu ti rallegrerai as-sieme al povero» (cf. 26,11). Così si consente al povero non solamente di mangiare, ma di essere contento, di bere un bicchiere di vino, in maniera tale che avvenga un simbolo straordinario di fra-ternità quando si vede il tempio, poiché tutti mangiano la stessa cosa, tutti bevono allo stesso calice e tutti godono della stessa benedizione di Dio. Questo è il grande simbolo della fraternità.

Tale spirito della legge, che è lo spirito del Sabato, si traduce nella generosità di donare: prende-re una parte di ciò che si ha e donarla gratuitamente, condividendola con gli altri.

3.2. Il prestito

C’è qualcosa di diverso, che è tematizzato in Dt 15, al cui inizio si trova la “legge del prestito”. «[1]Alla fine di ogni sette anni celebrerete l’anno di remissione (significa: “l’anno del condo-

no”). [2]Ecco la norma di questa remissione: ogni creditore che abbia diritto a una prestazione personale in pegno per un prestito fatto al suo prossimo, lascerà cadere il suo diritto: non lo esige-rà dal suo prossimo, dal suo fratello, quando si sarà proclamato l’anno di remissione per il Signo-re. [3]Potrai esigerlo dallo straniero; ma quanto al tuo diritto nei confronti di tuo fratello, lo lasce-rai cadere. [4]Del resto, non vi sarà alcun bisognoso in mezzo a voi; perché il Signore certo ti be-nedirà nel paese che il Signore tuo Dio ti dà in possesso ereditario, [5]purché tu obbedisca fedel-mente alla voce del Signore tuo Dio, avendo cura di eseguire tutti questi comandi, che oggi ti do. [6]Il Signore tuo Dio ti benedirà come ti ha promesso e tu farai prestiti a molte nazioni e non pren-derai nulla in prestito; dominerai molte nazioni mentre esse non ti domineranno» (Dt 15,1-6).

Il v. 2 riporta una frase poco chiara anche in ebraico. Sembra che significhi che chi possiede un

segno o un pegno che consente di esigere dall’altro qualcosa (forse una prestazione oppure una re-stituzione), ebbene dovrà lasciar cadere tale segno di potere. Recita il testo ebraico: «Lascerà cade-re la mano». Chi tiene in mano un segno di diritto, dovrà lasciar cadere tale diritto e «non lo esigerà dal suo prossimo, dal suo fratello».

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Al v. 3 si legge: «Potrà esigerlo dallo straniero». Bisogna fare attenzione, poiché non si tratta del “forestiero”, bensì è lo “straniero”, ossia colui che viene in Israele a commerciare e che quindi ha dei contratti di compravendita. Uno prende della merce, l’altro gli lascia una cambiale; appena sarà stata venduta la merce, la cambiale sarà saldata. La “legge del prestito” non è valida per gli stranieri, altrimenti ogni commercio sarebbe finito. Dunque dallo straniero si potrà esigere sempre la restituzione, mentre per il fratello ogni sette anni si dovrà lasciar cadere.

Non si sa bene come ciò avvenisse, poiché non abbiamo alcuna informazione storica su tali fatti. Ignoriamo fino a che punto fossero davvero osservati e normativi. Tuttavia questa è l’indicazione simbolica: bisogna periodicamente ricominciare da capo. È questo il senso. Se Israele agirà così, «il Signore tuo Dio ti benedirà come ti ha promesso e tu farai prestiti a molte nazioni e non prenderai nulla in prestito; dominerai molte nazioni mentre esse non ti domineranno» (Dt 15,6).

Perché parliamo del prestito? Perché noi abbiamo sempre l’idea, che si è venuta storicamente affermando ormai nei millenni

della storia dell’umanità, che nei confronti del povero si dà l’elemosina. L’elemosina è una pratica che pare attestata anche nel tradizione biblica, poiché ne parlano gli scritti sapienziali tardivi (Tobia, Siracide).

Tuttavia la legge di Israele non parla mai di elemosina. Tutte le disposizioni di dono viste in precedenza sono come se uno non si accorgesse: uno lascia il campo e un altro entra; si dona gene-rosamente, ecc. Non è un atto di elemosina, il quale testimonia ed attesta la superiorità sociale, ma che, soprattutto, lascia il povero nella sua condizione di fondo. La carità puntuale, così come il dono di cui parlavamo prima, non risolve il problema, poiché il povero ha sì mangiato in occasione della Pasqua; ha sì avuto l’offerta della decima, con cui sopravvive per qualche tempo; ma dopo si ritrova da capo.

Ecco allora che il Deuteronomio pone una norma straordinaria, che è quella di far in modo che l’Israelita venga dotato di ciò che lo rende come il fratello, ossia che riceva quel prestito che gli consenta – ad esempio – di iniziare effettivamente un’attività, oppure di sistemare il suo campo, di provvedere all’educazione dei figli. In tal modo la sua condizione di cittadino verrà ad essere come se lui fosse effettivamente uguale alla persona ricca. Chi ha ricevuto un prestito gestisce del denaro, ha delle attività, rinnova la sua azienda, sistema il suo campo, compera le sementi migliori, ecc. Ovvero si mette in condizione di ricrearsi una condizione di vita dignitosa e non più da povero.

Il prestito è ciò che rende il fratello capace come gli altri economicamente. È un atto nobile perché fa fiducia al prossimo. Il prestito fa fiducia alla sua capacita di trasfor-

mare questa donazione, questa anticipazione di denaro; fa credito che lui sia una persona intelligen-te, prudente, sapiente. Assieme al denaro, gli si dà stima e fiducia.

Inoltre si ha fiducia anche nella sua capacità di restituzione, cioè nella sua onestà. È sì vero che esiste il sistema del pegno, nel senso che si dà qualcosa di caro come segno della propria buona vo-lontà di restituire. Però, al di là del pegno, ciò che di fatto chi presta fa e crede è che non soltanto la persona a cui si concede il prestito sarà così intelligente da sfruttare bene questo prestito, ma che poi sarà così onesta da restituirlo.

Questi elementi sono creatori di fraternità assai di più del semplice provvedimento economico, poiché si tratta appunto del dono che si fa all’altro del rispetto e della dignità, che crea le condizioni di una vita sociale veramente responsabile.

Allora il testo esorta a prestare, in quanto la legge sul condono è una legge di generosità: se qualcuno non riesce a restituire, ebbene il debito dovrà essergli condonato. Da ciò qualcuno potreb-be dedurre di non concedere prestiti a nessuno, perché altrimenti perde tutto! La legge del Deutero-nomio è una legge che invita a prestare, affermando: «Poiché i bisognosi non mancheranno mai nel paese; perciò io ti do questo comando e ti dico: Apri generosamente la mano al tuo fratello povero e bisognoso nel tuo paese» (15,11). Poiché «ci saranno sempre poveri nel paese», si è chiamati a rinnovare ogni giorno la generosità, ad aprire non soltanto la propria mano, ma il proprio cuore; a non rendersi avidi e tristi, ma ad aprire il cuore generosamente al prossimo. Il Deuteronomio affer-

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ma che ci saranno sempre dei poveri; ma se l’Israelita si comporterà così, non ci saranno più poveri nel paese.

È una specie di contraddizione nel testo; ma non si tratta di una contraddizione del legislatore, il quale scrive che, siccome ci sono sempre dei poveri, bisogna sempre prestare; ma non si diventerà poveri, anche quando si condonerà il debito, anche quando il proprio prestito non potrà essere resti-tuito, anche se ci si troverà in condizioni difficili, poiché Dio presiede, con la sua benedizione, all’atto della generosità dell’uomo.

4. CONCLUSIONE Il Deuteronomio invita, innanzi tutto, ad aprire il cuore, cioè ad avere un sentimento, una dispo-

nibilità, un atteggiamento di generosità nei confronti dei poveri. Aprire il cuore significa pure di-ventare intelligenti, trovare le strade e i modi, concreti e precisi, attraverso i quali l’aiuto diventa segno di stima, di fiducia, di promozione dell’altro; diventa un dono che lo rende fratello. Lo rende non sottoposto, ma fratello, ossia come te, poiché questa è la legge dell’amore: «Amare l’altro come te stesso» (cf. Levitico 19,18) e renderlo te stesso.

Però l’aprire il cuore produce l’aprire della mano. Bisogna che l’esteriorità corrisponda all’apertura del cuore; bisogna che al sentimento e all’intelligenza corrispondano delle decisioni concrete, dei gesti anche coraggiosi, che fanno la sostanza della società.

È sì vero che i gesti sono continuamente ripetuti e indefiniti nella società: ci saranno sempre i poveri nella società. È un problema che non si risolverà mai con delle disposizioni o con delle leggi e neanche con dei gesti. Tuttavia non è solamente l’atto del risolvere economicamente le condizioni di una società quello che è inteso dalla legge del Deuteronomio. Ma è introdurre nella società, attra-verso questi gesti, uno spirito di rispetto per gli uomini che è il vero lievito, è il vero sale della terra che nobilita qualsiasi situazione, rendendola segno di Dio.

Quindi non si tratta della sola efficacia concreta, che pure è da ricercare, ma è lo spirito e il sen-so delle cose che nobiliterà un popolo, facendo in modo che il popolo eletto sia il popolo che più di tutti elegge i poveri come oggetto dell’attenzione della sua carità.

5. DOMANDE DAL PUBBLICO

1^ DOMANDA: Riprendiamo il discorso della legge non coercitiva, della legge che non impone, ma che interpella il cuore, affinché dal cuore si apra la mano. Perché nella sapienza del Deutero-nomio non si trova una legge coercitiva, sebbene la posta in gioco sia molto importante? Cosa può dire a noi oggi?

Il punto centrale è la modalità attraverso la quale il Deuteronomio presenta la legge. Noi siamo abituati a dire che questi testi sono dei “codici” e così immaginiamo che siano analoghi ai codici di diritto penale come quelli da Giustiniano fino a noi, nei quali, dopo ogni norma è presentata la san-zione prevista per la disubbidienza. Chiunque studia i codici biblici sa che non è così.

Innanzi tutto non si sa bene neanche chi è responsabile. Inoltre molte leggi sono presentate quasi come dei consigli o delle esortazioni; quasi come delle

parabole, dei modi di dire. Ad esempio, si legge: «Quando tu incontri un uccellino che sta covando, lascia partire la madre e prendi le uova» (cf. 22,6-7). Cosa significa tale norma? È un piccolo segno, è una specie di parabola: se si uccide la madre, le uova non potranno maturare; allora l’uomo non si nutrirà e la vita è interrotta per sempre.

Un’altra legge recita: «Non farai cuocere un capretto nel latte di sua madre» (14,21). Nessuno sa cosa significhi davvero. Ci sono molte spiegazioni; quella che appare più convincente è che, nell’atto di cuocere il capretto nel latte della madre, si manifesta una specie di enorme contraddizio-

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ne, in quanto il latte della madre dovrebbe servire per nutrire il figlio, mentre in tal modo diviene il luogo della sua propria morte. Allora diventa molto simbolico. Uno può anche applicare – come hanno identificato gli Ebrei ortodossi – una rigida dieta alimentare, nella quale se si mangia il for-maggio non si può mangiare la carne, poiché magari è la carne del figlio, mangiato assieme al for-maggio prodotto col latte della madre. Ma non è questo il senso della legge. Il senso della legge è: se una cosa serve per la vita, bisogna far sì che serva per la vita. Dunque non si può uccidere con ciò che è dato per la vita. È questo il senso.

Allora, di cosa abbiamo bisogno? Noi abbiamo bisogno di tante cose per essere aiutati. Abbia-mo bisogno soprattutto di indicazioni di senso, di parole che ci facciano riflettere. Però non si tratta sempre di cose precise, ma anche come di parabole di orientamento, come di un senso dell’esistere comunicato in una specie di proverbio. Ad esempio: «Che giova all’uomo guadagnare il mondo in-tero, se poi perde la propria anima?» (Mc 8,36). Ciò può determinare un orientamento della vita e persino una conversione.

Nel Deuteronomio si trova una presentazione del “dover essere” abbastanza complessa: è sotto forma esortativa, con un’insistenza persino ossessiva. Ci sono poi delle indicazioni concrete di at-teggiamenti, di cose che possono diventare come simboliche dell’esistere. Inoltre ci sono anche del-le leggi coercitive, che probabilmente erano lasciate ai vari responsabili della vita religiosa, della vi-ta giurisdizionale, della vita del re, ciascuno nel proprio ambito.

Oggi noi abbiamo bisogno di tutte queste cose. Talvolta abbiamo bisogno anche di cose obbli-gatorie poiché, se non fossero imposte, non le faremmo. Ad esempio, bisogna obbligare un ragazzo ad andare a scuola e non permettergli di farlo solamente se ne ha voglia. Tuttavia, se tale coercizio-ne non è legata ad una parola continua, che fa capire la bellezza dell’apprendere, del capire, dello stare assieme, del ricevere un orientamento di vita, il ragazzo sarà stato sì obbligato, ma non si sarà lavorato per la sua liberazione interiore.

2^ DOMANDA: La chiesa a cui apparteniamo, e che siamo, è la chiesa che dovrebbe privilegiare i poveri, in una solidarietà come appartenenti non soltanto ad una chiesa, ma anche ad una società civile. Recentemente tra i “peccati sociali” gravi è stato inserita anche l’evasione del fisco. È stata riconosciuta adesso, ma era grave anche prima! Tuttavia, se qualcuno afferma che pagare le tasse è bello, tutti si mettono a ridere.

Oggi come deve agire un cristiano, che vive in questa tensione quotidiana, alle luce di ciò che è stato detto nella conferenza (ossia del partecipare con gioia a portare le primizie al tempio e farne partecipi gli altri)?

Riguardo alla società civile, bisogna ammettere che anche delle leggi buone non cambiano la società, se non sono davvero accompagnate da un travaglio della cultura, che fa comprendere dall’interno il valore stesso che la legge tende a difendere pur con dei mezzi che possono risultare coercitivi. La sola coercizione non serve a niente.

Tuttavia talvolta anche qualche misura di imposizione può aiutare e questa sta nella saggezza del legislatore. Non c’è mai un dosaggio perfetto delle cose. Siamo esseri storici e quindi dobbiamo avere prudenza nell’adattare i mezzi culturali, le indicazioni di senso, le parole più programmatiche e piene di senso, a delle saggezze concrete, che reggono la vita civile, in maniera tale che, ad esem-pio, chi non paga le tasse subisca delle conseguenze. Infatti si può esortare e cercare di far capire il valore di queste cose; però, se non c’è nessuno strumento sanzionatorio, l’uomo, essendo debole, spesso cede alla tentazione.

Quindi è necessaria un’attualizzazione delle norme. Un primo lavoro che deve essere fatto è proprio focalizzare l’attenzione culturale al povero. Probabilmente sono cose radicate nel Vangelo, che noi riteniamo evidenti, così come riteniamo che, leggendo il Deuteronomio, ciò appaia e risulti straordinariamente limpido.

Tuttavia bisogna riconoscere che le religioni – compresa la nostra religione – hanno la tendenza, quasi intrinseca, ad identificare il proprio esistere con le cerimonie e con i rituali. Ad esempio, si di-

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ce che una persona è un buon cristiano poiché va a Messa la domenica. Tutte le religioni hanno tale tendenza. È di religione pagana la persona che offre il sacrificio al dio Zeus; è di religione islamica colui che digiuna durante il Ramadan e che, pregando, si rivolge verso La Mecca. In realtà tutto ciò non ha molto a che fare con Dio, così come, ad esempio, il digiuno: sono tutte cose relative.

Eppure la religione si sostanzia di queste cose. Non è scritto nei vangeli che bisogna andare a Messa alla domenica, nonostante che si tratti di una pratica utilissima, da incoraggiare e senza la quale la vita di fede illanguidisce. Invece ne è stata fatta l’essenza della religione.

Allora, dal punto di vista profetico, la prima cosa da fare è aprire gli occhi su ciò che è il cuore del Vangelo, il cuore della rivelazione biblica, ossia l’attenzione all’altro, ossia ciò su cui la storia è giudicata: «Avevo fame e mi avete dato da mangiare» (Mt 25,31-46). Il giudizio non sarà sull’essere andati a Messa la domenica oppure sull’avere fatto un pellegrinaggio! Quindi il primo elemento è rimettere davanti all’attenzione responsabile il fatto che l’altro è il nostro giudice. È la relazione fraterna ad essere il principio sul quale la nostra vita viene giudicata. Infatti, come scrive Giovanni, chi ama Dio che non vede, ma poi non guarda il fratello e lo uccide, allora è Caino. Non è figlio di Dio, ma è figlio del diavolo (1 Gv 4,19-21).

Detto ciò, ciascuno esercita quello che si può chiamare “il proprio carisma profetico”. C’è biso-gno dei profeti; c’è bisogno che ciascuno di noi tiri fuori dal proprio cuore il dono che Dio gli ha fatto di attenzione ai poveri, ai sofferenti e ai miseri. E ciascuno di noi ha alcune sensibilità (ovvia-mente nessuno le ha tutte!), poiché le sensibilità e i doni sono legati alla storia individuale, alla con-cretezza del proprio vissuto e del proprio momento storico. Pertanto non c’è chi sa tutto e chi non è buono a niente: non è così.

Un esempio è proprio quello della legalità. La nostra chiesa italiana non ha servito la legalità, poiché ha ritenuto che la legalità non fosse una cosa doverosa, in quanto si trattava di leggi dello Stato. Ad esempio, non si pagano le tasse a cominciare dai sacerdoti e dai religiosi, che spesso cre-dono di poter costruire anche senza domandare i permessi, in quanto lo fanno per Dio e per la loro famiglia religiosa. Loro lo fanno per il bene, e comunque lo Stato è ladro, ecc.

Noi ci troviamo in un paese come l’Italia, che soffre di una diffusa regressione dei principi nor-mali della legalità, in quanto le norme sono troppo spesso soggette ad “interpretazione” e quindi a trasgressione. Da dove deriva tale cultura? Perché si è diffuso così largamente nel nostro Paese il fatto che non sarebbe così importante osservare le leggi dello Stato? È sì vero che talvolta sono leg-gi discutibili e perfezionabili, ma tuttavia indicano un senso di responsabilità per il bene comune.

Da questo punto di vista, uno degli elementi assolutamente fondamentali di attualizzazione, im-portantissimo nella coscienza credente cristiana, è riscoprire nella nostra società che noi siamo dei cittadini e che, pertanto, dobbiamo rispettare le leggi dello Stato.

Esiste anche un altro settore, tanto importante quanto nuovo: è il fatto che adesso il mondo non è più il nostro paese o la nostra zona. Invece oggi ci dobbiamo confrontare con dei problemi, ossia i problemi della mondializzazione, che ci impongono una riflessione, una disamina dei problemi ed un’attenzione alle cose di natura completamente diversa. Ci sono fenomeni migratori e fenomeni di povertà talmente spaventosi, che è necessario per noi ripensare le nostre valutazioni, le nostre spese, il nostro stile di vita. Infatti ci troviamo effettivamente davanti a problemi di una gravità estrema, in cui non si tratta più del singolo povero, bensì di milioni di persone che sono destinate a morire so-lamente poiché appartenenti a determinate zone geografiche distanti da noi. Oggi non possiamo dire che non ci importa niente, in quanto comunque loro sono lontani, poiché costoro sono diventati il nostro prossimo, sono diventati i nostri fratelli che noi vediamo e conosciamo.

3^ DOMANDA: Riguardo alla questione dell’apertura del cuore e della mano: si tratta della stes-sa cosa? E da cosa dipende: dalla mente umana? Oppure è un dono di grazia dello Spirito Santo?

Apertura del cuore e apertura della mano: sono queste due dimensioni che abbiamo cercato di il-lustrare.

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Innanzi tutto il cuore: ci deve essere una disposizione dell’anima, che diventa tuttavia concre-tezza. Se si apre il cuore senza aprire la mano, allora c’è qualcosa che non funziona. Se si apre so-lamente la mano, però senza attenzione all’altro, senza comprensione, senza autentica conversione al senso di tale gesto, allora si tratta di pura efficienza burocratica, di distribuzione delle risorse, che tuttavia non ha una dimensione autentica.

Allora: è dono di grazia dello Spirito oppure scelta di libertà dell’uomo? C’è un incontro di que-sti due elementi: nella libertà perfetta dell’uomo si attua il dono di Dio. Il dono di Dio è di rendere l’uomo libero, ossia di renderlo capace di amare come Lui ama. Pertanto il massimo della libertà è anche il massimo del dono di Dio.

4^ DOMANDA: Si è parlato dell’elezione di un popolo e della singola persona. Ma tale discorso può essere riferito ad un ambito più ampio, ossia all’elezione dell’uomo. Se si pone l’uomo nell’ambito dell’universo, ci si può domandare perché solamente l’uomo viene eletto. Se si ragiona in termini universali, ci si può interrogare su perché solamente l’essere umano abbia l’elezione. Il sacrificio del Figlio di Dio è riferito solamente all’uomo? Se sì, perché?

La tradizione biblica vede l’uomo come l’eletto fra tutte le creature della terra. Però è interes-sante il fatto che la prospettiva della creazione vede l’uomo come il pastore di tutti i viventi, come il custode del giardino, come il responsabile della creazione. Pertanto effettivamente c’è una elezione “per”, ossia per delle creature che in sé non sono la finalità ultima delle cose, ma che tuttavia fanno parte del mondo che Dio ha creato e che deve essere, in qualche modo, rispettato.

Con ciò non si vuole mettere sullo stesso piano l’uomo e gli altri esseri viventi. Invece si vuole sottolineare che la creazione, così come presentata nella Bibbia, pone l’uomo assieme agli altri esse-ri viventi. In Genesi 1 l’uomo è creato il sesto giorno assieme agli altri animali, proprio per far capi-re che ha un destino di convivenza e di rispetto, nel quale egli significa l’amore di Dio per tutte le sue creature.

Nella tradizione paolina la redenzione dell’uomo, di cui l’eletto è strumento, non è solamente la redenzione dell’umanità; ma c’è come un travaglio cosmico, c’è come una salvezza dell’intera crea-zione, che viene prospettata come la realizzazione piena della salvezza stessa. Sono «i nuovi cieli e la nuova terra», che non sono solamente creati da Dio nuovi, ma sono redenti dall’opera mediatrice dell’uomo, nella sua passione per le cose.

Questa creazione è visibile e contingente; essa è sottoposta all’entropia e destinata a finire. Tut-tavia l’uomo ne è responsabile e fintanto che egli è responsabile di tale creazione, adempirà la sua elezione custodendola con grande diligenza e grande amore, come segno del dono di Dio.

5^ DOMANDA: Nell’elenco degli sfavoriti nel Deuteronomio, sono considerati tali gli schiavi, i poveri da un punto di vista economico, gli orfani, le vedove, ecc. Poi è stato lanciato l’interrogativo su quali siano le categorie di persone sfavorite oggi.

Sicuramente Lei ha riflettuto su ciò; potrebbe dirci quali sono, secondo Lei, le persone che oggi sono sfavorite?

Ci sono tantissime categorie di dimenticati. Ad esempio, una categoria di persone dimenticate è quella delle persone malate di mente. Co-

storo sono tra le condizioni di umanità più difficili, in quanto non rispondono, non si capisce cosa dicono, sono ribelli, sono persi. C’è tutto un settore di attenzione a questa forma di povertà estrema e di degenerazione – in qualche modo – della stessa natura umana, che domanda uno sforzo di intel-ligenza, di creatività operativa e di attenzione, che un tempo era dispiegata nei manicomi, mentre oggi, dopo aver chiuso i manicomi, si è trasferita sulle strade. Si tratta di una situazione di grande incapacità di far fronte a tale categoria di miseri (poiché questi malati sono miseri, barboni, abban-donati senza responsabilità), che domanda a colui che è credente e che è ricco di risorse spirituali ed intellettuali una attenzione creativa per capire cosa fare per sovvenire a questa necessità.

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L’ELEZIONE DI MOSÈ (Dt 34)

Il testo di riferimento scelto è l’ultimo capitolo del libro del Deuteronomio, ossia Dt 34. All’inizio abbiamo scelto un testo di riferimento in Dt 7, che è un passo centrale nella parte e-

sortativa, parenetica (ossia Dt 5-11). Poi abbiamo visto una pericope estratta dal “codice deutero-nomico” (Dt 12-26). Infine adesso ci occupiamo dell’ultimo capitolo del libro.

Ognuno dei testi analizzati ha una struttura ed un genere letterario che è differente dagli altri. In Dt 7 sono contenuti esortazioni, consigli, ammonizioni. Invece nel “codice” ci sono delle norme, delle normative, delle indicazioni concrete e precise. In Dt 34 c’è qualcosa di ancora diverso: è una forma più narrativa, un racconto (uno dei pochi racconti del Dt).

«[1]Poi Mosè salì dalle steppe di Moab sul monte Nebo, cima del Pisga, che è di fronte a Geri-co. Il Signore gli mostrò tutto il paese: Gàlaad fino a Dan, [2]tutto Nèftali, il paese di Efraim e di Manàsse, tutto il paese di Giuda fino al Mar Mediterraneo [3]e il Negheb, il distretto della valle di Gerico, città delle palme, fino a Zoar. [4]Il Signore gli disse: ‘Questo è il paese per il quale io ho giurato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe: Io lo darò alla tua discendenza. Te l’ho fatto vedere con i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai!’.

[5]Mosè, servo del Signore, morì in quel luogo, nel paese di Moab, secondo l’ordine del Signo-re. [6]Fu sepolto nella valle, nel paese di Moab, di fronte a Bet-Peor; nessuno fino ad oggi ha sa-puto dove sia la sua tomba. [7]Mosè aveva centoventi anni quando morì; gli occhi non gli si erano spenti e il vigore non gli era venuto meno. [8]Gli Israeliti lo piansero nelle steppe di Moab per trenta giorni; dopo, furono compiuti i giorni di pianto per il lutto di Mosè. [9]Giosuè, figlio di Nun, era pieno dello spirito di saggezza, perché Mosè aveva imposto le mani su di lui; gli Israeliti gli obbedirono e fecero quello che il Signore aveva comandato a Mosè.

[10]Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè – lui con il quale il Signore parlava faccia a faccia – [11]per tutti i segni e prodigi che il Signore lo aveva mandato a compiere nel paese di Egitto, contro il faraone, contro i suoi ministri e contro tutto il suo paese, [12]e per la mano potente e il terrore grande con cui Mosè aveva operato davanti agli occhi di tutto Israele» (Dt 34,1-12).

1. DEUTERONOMIO: UN LIBRO DI PAROLE PER RICORDARE Alcuni autori hanno ritenuto che, concludendo l’intero libro, Dt 34 potesse essere visto addirit-

tura come una sintesi teologica del libro; ma tale posizione pare francamente esagerata. Tuttavia è vero che qui sono condensate alcune frasi che permettono di tracciare una riflessione

sull’insieme del libro e non solamente sul momento conclusivo. Generalmente nella Bibbia ciò che inizia e ciò che conclude ha una valore pregnante, ossia ha un valore più denso rispetto alla narra-zione seguente o precedente.

Si può sostenere che in questo capitolo – che appunto è conclusivo – la figura di Mosè porta a compimento il ciclo narrativo che era cominciato con l’inizio del libro dell’Esodo. Il ciclo narrativo più lungo dell’intera Bibbia è proprio quello che va dall’inizio dell’Esodo alla fine del Deuterono-mio e che pertanto comprende quattro libri della Scrittura (Esodo, Levitico, Numeri, Deuterono-mio). Tale ciclo narrativo dà alla figura di Mosè un valore assolutamente particolare. Per la tradi-zione biblica Mosè è una figura unica, straordinaria, eccezionale. È un luogo di rivelazione di Dio che non ha confronti nell’intera trasmissione biblica. Nonostante che vi saranno sviluppi narrativi importanti, che riguarderanno – ad esempio – la figura di Davide, niente può essere paragonato alla figura di Mosè.

Questo lungo ciclo narrativo viene ricordato nel Deuteronomio, poiché in questo libro non acca-de niente, ma solamente tutto è fatto memoria. Un elemento caratteristico del Deuteronomio è pro-prio la preoccupazione che la gente ricordi, cioè che essa non sia toccata soltanto per un momento,

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ma ciò che è viene detto penetri dentro e abbia funzione creativa all’interno della coscienza. Infatti ricordare non è semplicemente l’avere una registrazione così come avviene, ad esempio, nei compu-ter, dove si schiaccia un pulsante e la cosa memorizzata riappare esattamente quale era prima. Quel-la umana è una memoria creativa, è una memoria che, ricordando e rievocando, reinterpreta la sto-ria, la assume, la unifica, la rende coerente col vissuto del momento. Ogni ricordo, se è vero, è crea-tivo.

In tutte le sue attività che vengono dispiegate nel Deuteronomio, Mosè ha la funzione di incul-care le cose, di farle ricordare, di inciderle nella coscienza. Per tale motivo egli ripete sempre le stesse cose, le ribadisce, le ridice da un altro punto di vista. Si tratta sempre degli stessi eventi: è sempre la liberazione dall’Egitto, è sempre l’evento del Sinai, è sempre la traversata del deserto, ecc. Ma ogni volta che ricorda tali eventi, Mosè aggiunge un particolare, una sfumatura, al fine di adattarli effettivamente e di farli diventare coscienza viva e memoria viva del suo popolo.

Ripetiamo che nel Deuteronomio non sono narrati dei racconti, ma ci sono unicamente racconti ricordati. Quello che domina nel Deuteronomio – ed è questa la sua caratteristica come libro – è il fatto che Mosè parla. È un libro di parole. “Deuteronomio” è un termine che deriva dalla tradizione greca, in particolare dalla legge sul re, che obbliga appunto il sovrano a scrivere una copia del libro; e nel testo greco si parla di una “seconda legge”, che in greco è “deuteros-nomos”. Invece nella tra-dizione ebraica il libro del Deuteronomio è chiamato “Quelle parole”, ossia con le prime parole con cui comincia il testo.

Il Deuteronomio è un libro di parole e ciò aiuta a capire che, appunto, in questo testo la figura di Mosè è diversa rispetto alla figura di Mosè presente nei libri precedenti, nei quali Mosè è il prota-gonista di un racconto. Quindi è il protagonista di azioni: è lui che viene chiamato da Dio, che va dal faraone, che si scontra con i maghi dell’epoca, che porta fuori il suo popolo attraverso il mare, che percuote la roccia per farne uscire acqua, che sazia il popolo con la manna, che discute, che conduce, che giudica, ecc. Dunque compie tantissime azioni.

Invece nel Deuteronomio Mosè parla, con lunghi discorsi esortativi. Anche il “codice”, pur es-sendo chiamato così (non è la terminologia ebraica, bensì un modo con cui noi lo leggiamo), è un codice sui generis, poiché è piuttosto un elenco di raccomandazioni, di esortazioni, di indicazioni di senso.

Mosè parla, e i lunghi discorsi che costituiscono il Deuteronomio si presentano come un discor-so testamentario, ossia come il discorso fatto da Mosè l’ultimo giorno della sua vita. Infatti la men-zione di Mosè che sta per morire è presente già fin dall’inizio. Sono le ultime volontà, gli ultimi de-sideri, le ultime raccomandazioni, l’ultimo soffio di anima che Mosè comunica alla sua gente, al suo popolo. Accade proprio come quando uno sta per morire: parlando, costui non soltanto dà alle sue parole un pathos particolare, come il pathos di colui che si sta congedando, ma dice anche l’essenziale: non si disperde, poiché sa di avere poco tempo. Ha un giorno e in questo giorno deve comunicare il senso del tutto. Ad esempio, nel vangelo secondo Giovanni i discorsi di Gesù com-presi nei capp. 13-17 sono proprio presentati come un “Deuteronomio evangelico”, ossia come le ultime parole di Gesù morente. Pertanto tali parole hanno una grande pregnanza. Non possiedono soltanto una valenza emotiva straordinaria, ma sono effettivamente come un condensato di tutto ciò che il Cristo ha potuto dispiegare durante l’intero suo lungo insegnamento.

Dunque il Deuteronomio è come un discorso testamentario. Ciò fa pensare che, in questo caso, l’immagine di Mosè sia rivisitata in tal senso, poiché, quando si pensa a Mosè, lo si vede piuttosto come un condottiero, come un uomo di azione, come un legislatore, come un giudice; e non si tiene invece conto che, in questo momento, Mosè è come un padre. Mosè è come un padre che sta par-lando ai figli, ai figli di Israele.

Secondo il Deuteronomio il compito fondamentale del padre è di parlare ai figli e di insegnare le parole. Come si legge in Dt 6 (il famoso testo dello “Shemah Israel”): «Ascolta Israele: il Signore è il tuo Dio; le parole saranno sul tuo cuore e tu le ripeterai ai tuoi figli» (cf. Dt 6,4.6). Il primo com-pito del padre è di trasmettere ciò di cui vive ai suoi propri figli. Ed è proprio ciò che Mosè fa in

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primo luogo. Mosè è come il primo dei padri, “il padre” per antonomasia, che nutre i suoi figli non con il pane materiale, ma «con ciò che esce dalla bocca di Dio», come si legge in Dt 8,3.

Mosè spiega loro il senso delle norme, proprio come si è trova in Dt 6: «Quando in avvenire tuo figlio ti domanderà: ‘Ma che cosa significano queste istruzioni?’, tu gli risponderai: ‘Eravamo schiavi in Egitto. Dio ci ha liberati e ci ha detto di osservare questo. Questa sarà la nostra giustizia nel fare queste parole’» (cf. Dt 6,20ss). Quello che Mosè insegna ai padri è ciò che lui fa, come mo-dello di ogni paterialità, poiché essere padri è parlare. Il padre deve parlare del mistero dell’origine, del dono che investe l’esistenza dell’uomo in maniera gratuita, come atto di amore e che rende la vi-ta sensata; ma che rende la vita anche responsabile. Questo è ciò che Mosè fa come padre. Egli è appunto il capostipite, è il “padre dei padri”; è colui che, in qualche modo, diventa la figura emble-matica da imitare nella tradizione che poi seguirà in Israele.

Tuttavia, facendo ciò, egli assume anche una dimensione ancora più alta. Alla fine della vita egli accompagna le sue parole, nel capitolo precedente, con una benedizione: «Ecco la benedizione con la quale Mosè, uomo di Dio, benedisse gli Israeliti prima di morire» (Dt 33,1). La benedizione del-le dodici tribù è analoga a quella che si trova in Genesi 49, con la quale Giacobbe benedice i suoi figli, ovvero le dodici tribù di Israele. Mosè fa la stessa cosa: non sono suoi figli; ma sono i suoi fi-gli spirituali, dunque egli ha funzione paterna.

Infatti la benedizione è invocare la vita su coloro che verranno dopo. È invocare dal cielo, dalla paternità divina, il dono di vita che l’uomo, morendo, non può più assistere. La benedizione è un at-to terminale, è un atto di congedo, poiché appunto la presenza della vita non potrà più avere la me-diazione della persona presente. Allora l’uomo può morire invocando una presenza, che è quella del cielo: che il cielo diventi padre, esplicitando la sua paternità.

Però benedicendo – nell’atto stesso del benedire – il padre Mosè è figura di Dio, che è il padre di Israele, poiché – come scrive il Deuteronomio – «lo ha portato come un uomo fa con suo figlio» (cf. Dt 1,31). Lo ha educato, lo ha nutrito, lo ha messo alla prova; ma, avendolo generato, lo porta fino alla pienezza della vita.

Ciò serve per introdurre questa figura di uomo morente, che paradossalmente, proprio morendo, porta a compimento la sua paternità. È una cosa che normalmente noi non pensiamo. Noi crediamo che un uomo è padre quando fa le cose. Invece, quando il Deuteronomio insegna come si può essere padri, vede che non è tanto il fare quanto è il parlare; ma, soprattutto, è il benedire, ossia è consenti-re che la vita, dopo di noi possa nuovamente essere continuata, crescere e moltiplicarsi.

Il commento al testo toccherà due punti. 1. La elezione di Mosè. In precedenza abbiamo parlato della elezione del popolo e poi della ele-

zione del povero; infine ecco la elezione di Mosè, ossia in cosa Mosè è veramente “l’eletto di Dio” e perché la sua persona è stata così opportunamente mediazione di vita per il popolo.

2. Il fatto che questo eletto muore, e muore senza vedere la terra. Meglio: la vede, ma non la può possedere. Mosè muore vedendo da lontano ciò che è l’eredità di Israele. Si tratta di un elemento indubbiamente problematico, sul quale è bene riflettere.

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2. MOSÈ L’ELETTO: «SERVO DEL SIGNORE» E «PROFETA» In Dt 34 ci sono due titoli che mostrano la qualità specifica di Mosè, ovvero la sua elezione. Il primo titolo si trova al v. 5: «Mosè, servo del Signore». È un titolo che non è frequente nel

Deuteronomio. Lo si trova qui, per diventare poi il leit-motiv del libro di Giosuè. Il secondo titolo si trova al v. 10, dove si legge: «Non è più sorto in Israele un profeta come

Mosè». Sono due titoli specifici, attribuiti a Mosè, che condensano il significato di questo personaggio,

esplicitandone lo statuto e la funzione come eletto di Dio, cioè come strumento di Dio per Israele. Sono titoli che appaiono affinché, leggendo questo testo, Israele stimi le parole di Mosè: sono le pa-role del «servo di Dio» e sono le parole del «profeta». Lo scopo è che Israele accolga ciò che Mosè ha detto come messaggio che proviene da Dio stesso.

2.1. Mosè «servo del Signore»

Il primo titolo: «servo del Signore» è un titolo che indica soprattutto la missione di Mosè, ossia il fatto che Mosè è stato strumento dell’agire di Dio. Dio si è servito di un suo “ministro”. Il termine ebraico che traduciamo con “servo” ha diversi significati, ma in questo testo sembra appunto indica-re il portavoce, il plenipotenziario, il ministro, colui che rappresenta sulla terra il sovrano supremo, invisibile e lontano, ovvero il Dio del cielo. È il servo per mezzo del quale Dio ha parlato, ha guida-to e ha operato in Israele.

Questo titolo, posto alla fine della vita di Mosè, ne consacra l’operato. Lui è stato eletto per tale funzione; ma il fatto che alla fine della vita si dica che il «servo del Signore morì» è come quando, alla morte di una persona, si dice che è morto un “santo”: lo si può affermare solamente alla fine della vita. Infatti è unicamente alla fine della vita che si può valutare se una persona ha adempiuto la missione che Dio gli aveva affidata.

Il fatto che tale titolo venga riservato in questo momento finale serve per indicare che tutta la vi-ta di Mosè è stata obbedienza. La fedeltà è durata diversi anni, in quanto l’obbedienza non è di un istante: non è del momento iniziale, quando egli risponde alla vocazione del roveto ardente. Il servi-zio dura non solamente per tanti anni, ma anche in circostanze molto difficili: davanti agli ostacoli del faraone, ma pure davanti alle ribellioni del popolo. È la realizzazione della elezione in quanto vissuta e portata a compimento. Mosè non è soltanto il legislatore, ossia colui che dà la legge agli altri, bensì è anche il primo ad essere obbediente: è il modello di Israele. È il fatto che egli, per tutta la sua vita, è stato «servo del Signore». Non ha agito come ha voluto lui, bensì ha obbedito a ciò che il Signore gli ha ordinato di operare: andare dal faraone, aprire ed attraversare il mare con Israele, di soccorrere la miseria del suo popolo.

Da questo punto di vista è opportuno instaurare un rapporto tra il titolo di «servo del Signore» applicato a Mosè ed un altro «servo del Signore», che diventerà la profezia escatologica della tradi-zione profetica di Israele: quel famoso «servo di Dio» o «servo obbediente» di cui parla il Deutero-Isaia. Anche questi è eletto e sostenuto da Dio; è riempito di spirito, come è stato riempito di spirito Mosè; porta il diritto alle nazioni; muore e viene glorificato per la sua obbedienza. Mosè è prefigu-razione di questo «servo del Signore» e naturalmente è prefigurazione di colui che noi cristiani cre-diamo essere il vero «servo del Signore», ossia Gesù di Nazaret, il quale appunto ha vissuto la sua intera vita come servizio, cioè come obbedienza a Dio e disponibilità per i fratelli.

Tuttavia il titolo «servo del Signore», cioè l’indicazione della sua obbedienza, pone sin dall’inizio un problema: perché il servo obbediente non ha ricevuto un premio adeguato?

Secondo la tradizione biblica il giusto riceve come ricompensa la vita: «Il giusto è come un al-bero piantato presso le sorgenti d’acqua, i canali: le sue foglie non appassiscono mai, dà frutto ad ogni stagione» (cf. Salmo 1,3). Dunque la sua vita si compie in assoluta pienezza. Ci si sarebbe a-spettati una vita lunga e sazia di giorni, con i figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione.

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Il nostro testo afferma che Mosè muore a 120 anni, quindi già appare longevo (v. 7). Però tale cifra potrebbe essere indicata come il limite massimo che Dio ha accordato dopo il peccato narrato in Genesi 6,1-3, quando i figli di Dio e le figlie degli uomini compiono un peccato di trasgressione dei limiti e di superbia. In questo passaggio di Genesi si legge un decreto di Dio, per cui la vita de-gli uomini sarà limitata a 120 anni. Bisogna tenere presente che le generazioni precedenti vivono molto più a lungo: anche più di 900 anni. Quindi Mosè in un certo senso Mosè porta a compimento quello che è il decreto di Dio per la vita massima degli uomini.

Si può sostenere che quella di 120 anni è una cifra piena, come quella di Eva. Ad esempio, tra i patriarchi antidiluviani Enoc vive “solamente” 365 anni: è il migliore di tutti, è amato da Dio, che lo prende, appunto, alla “giovanile” età di 365 anni. Enoc ha vissuto la vita come un anno solare, per significare il compimento (i suoi padri e i suoi figli hanno vissuto almeno 800 anni, quindi lui è morto giovane).

Affermiamo ciò perché si legge che Mosè muore vigoroso. Si potrebbe sostenere che Mosè muore “nel fiore della giovinezza”, in quanto – come il testo annota esplicitamente – ancora «gli occhi non gli si erano spenti e il vigore non gli era venuto meno» (v. 7). C’è qualcosa di una inter-ruzione forzata dell’esistenza, che applicata al «servo del Signore» pone problema.

Non soltanto: soprattutto ci si sarebbe aspettati il suo ingresso trionfante nella terra. Perché può entrare Giosuè o Caleb e non il «servo del Signore», l’uomo glorioso, luminoso, l’uomo che, quan-do parla, si vede nel suo volto la luce di Dio? Egli è l’uomo che ha sofferto, che ha espiato, che ha pregato per gli altri.

La generazione dell’esodo muore nel deserto, poiché ha rifiutato l’obbedienza: ha rifiutato la terra santa, ha adorato gli idoli, ecc. Quindi è come se Mosè fosse un peccatore: egli vive la stessa realtà del popolo peccatore. Allora non c’è più distinzione tra essere giusti ed essere ingiusti.

Quale ricompensa per il giusto? È una domanda sulla quale ritorneremo, in quanto c’è una ten-sione rivelatoria estremamente importante per la nostra fede.

Questo è il primo titolo: «servo del Signore», cioè obbediente.

2.2. Mosè «profeta» Il secondo titolo è ancora più importante ed è il titolo: «profeta». Nella Bibbia il titolo «servo del Signore» viene applicato a molti personaggi, i quali hanno avu-

to diversi incarichi ed anche diversa importanza nella storia del popolo di Dio. Ad esempio, si ap-plica spesso ai re (il re Davide spesso è chiamato «il mio servo»: è il servo di Dio per eccellenza), ma anche a dei ministri di re; persino il re Nabucodonosor, in Geremia, è chiamato da Dio «il mio servo»: «Tutti devono sottoporsi al mio servo» (cf. Ger 27,6-7). In Gs 24,29-31, pure Giosuè, alla fine della sua vita, è chiamato «servo» perché conduce Israele.

Ad un certo punto della tradizione biblica, il titolo «servo del Signore» è applicato anche ai pro-feti: Dio parla per mezzo dei suoi «servi», i profeti. Quindi anche la profezia è una di quelle funzio-ni di obbedienza che Dio ispira e che vuole che siano portate a compimento.

Applicato a Mosè, il titolo di «servo del Signore» probabilmente allude soprattutto al suo opera-re, pur non escludendo la parola. Invece certamente il titolo «profeta» colloca Mosè in una tradizio-ne che è assolutamente innovativa rispetto alle tradizioni precedenti del libro dell’Esodo o del libro dei Numeri. È sì vero che c’è il riferimento a Mosè come profeta in alcuni passaggi del libro dei Numeri, ma è il Deuteronomio che qualifica con tale titolo specifico il personaggio di Mosè.

Ciò significa che, secondo il libro del Deuteronomio, bisogna togliere dalla propria mente la fi-gura di Mosè ascrivendola esclusivamente a compiti di natura politica, in quanto è Mosè che ha por-tato alla liberazione e all’indipendenza di Israele ed è lui che ha portato la tradizione legislativa, es-sendo Mosè è l’autore della Legge sinaitica (la Torah) o giurisdizionale. È necessario piuttosto comprendere che, per il Deuteronomio, Mosè è soprattutto “l’uomo della parola”, della parola di Dio; infatti è questa la definizione del profeta.

Dunque Mosè è l’uomo della parola. Dio si fa presente parlando a Mosè. Quindi, nella storia del popolo ebraico, Mosè rappresenta la figura più alta dell’incontro di Dio con l’uomo. Noi pensiamo

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che sia una cosa normale che l’uomo ascolti Dio; invece per la Bibbia questo è un evento straordi-nario. Per la Bibbia è eccezionale che una creatura umana, di carne, possa avvicinarsi al fuoco divo-rante, al fuoco distruttivo e che, senza paura, possa inoltrarsi nel mistero, nell’abisso, senza perder-si; dunque che, restando uomo di carne, possa ascoltare Dio che parla in parole umane. Mosè è ap-punto questa persona. Dt 5 descrive proprio tale funzione di Mosè. Racconta che il popolo ha paura del fuoco e sta ai piedi del monte, che è fumante, ed è l’uomo di Dio, cioè il profeta, che entra nella nube (ossia che entra in questa specie di mistero, come perdendosi in Dio) per ascoltare ciò che Dio dice e da cui viene la vita. La preziosità di tale evento è straordinaria, poiché è così che nasce Israe-le: Israele nasce perché Mosè entra nella nube.

Il Deuteronomio aggiunge qualcosa alle tradizioni antiche: è il fatto che esso interpreta l’intera tradizione legislativa (la tradizione della Torah) come una parola profetica. Non è solamente una parola di sapienza, una normativa utile per il popolo, una questione di sapienza, anche divina: è una parola profetica. Ciò significa che viene da Dio ed è capace di toccare i cuori. Viene da Dio ed è una parola calda, efficace, performante, ossia capace di toccare il cuore e di renderlo docile alla vo-ce di Dio.

Tutto è profezia. In un certo senso, Mosè non è il legislatore a cui poi seguiranno i profeti, bensì lui stesso è portatore della Legge nella sua qualità profetica. Ciò è detto appunto in Dt 5, dove si legge che Mosè va sul monte, prende il Decalogo e lo porta al popolo. Il Decalogo è la legge di Dio nella sua interezza: «Queste sono le parole del Signore scritte sulla pietra. Non aggiunse altro» (cf. Dt 5,22). Tutta la legge è nel Decalogo.

Tuttavia Dt 5 afferma che non basta, poiché ci sono altre parole che non sono aggiunte né sono altre leggi, bensì sono l’interpretazione, l’attualizzazione, la concretizzazione di ciò che si legge nel Decalogo. È questa la funzione profetica. La funzione profetica è di far sì che la legge originaria (la legge dell’amore) trovi concretezza, attualizzazione e specificità nel momento storico in cui deve essere pronunciata. Per il Deuteronomio tale movimento di interpretazione della legge non è susse-guente, bensì è intrinseco alla legge stessa. Una legge non interpretata è una legge di morte. Soltan-to la legge resa concreta e possibile, applicata nella situazione storica, rivolta ad uomini di carne e di sangue in un momento particolare; soltanto una legge che viene da Dio e ha il colore di Dio, il tono di Dio, l’amore di Dio; soltanto una parola di legge che è assunta in forma profetica per amore; ebbene soltanto questa legge è veicolo di vita. Soltanto questo è «ciò che esce dalla bocca di Dio» e nutre il popolo credente.

Pertanto Mosè non è soltanto il capostipite dei padri, ma è anche il capostipite dei profeti. Egli è il primo dei profeti. È l’uomo che, appunto, diventa modello di ogni profezia; ed ogni profezia verrà interpretata come un entrare nella nube di Dio, ricevere le parole del Signore per poterle poi, dopo essere scesi dal monte, portare alla quotidianità degli uomini, così da farle capire e di farle accoglie-re nel loro cuore.

Questo è detto in Dt 18, nella sezione cha parla appunto dei profeti. I profeti sono gli uomini come Mosè: «Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta come me («Non è sorto in Israele nessuno come Mosè»: effettivamente nessuno è stato come Mosè; tutta-via ogni profeta è come Mosè); a lui darete ascolto. Avrai così quanto hai chiesto al Signore tuo Dio, sull’Oreb, il giorno dell’assemblea (ricorda Dt 5), dicendo: Che io non oda più la voce del mio Dio e non veda più questo grande fuoco, perché io non muoia. Il Signore mi rispose: ‘Quello che hanno detto va bene; io susciterò per loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò’» (18,15-18).

L’uomo ha paura del fuoco ed allora Dio gli manda un uomo “infuocato”: gli manda un uomo che ha avuto l’elezione, il privilegio, il dono di non avere troppa paura di Dio e così di poter entrare nella prossimità di Dio. Questo uomo è chiamato da Dio a tale compito, così da diventare, tra i fra-telli, segno della presenza di Dio in mezzo al mondo.

Questo è Mosè, che quindi è l’emblema di ogni profeta; è il profeta per eccellenza; è colui che, in un certo senso, indica quello che è il senso dell’intera storia.

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Del profeta abbiamo illustrato soprattutto il rapporto con Dio. Adesso diciamo una breve parola sul compito che egli ha verso i fratelli.

Il profeta è colui che ha ascoltato Dio, ma non per sé, bensì lo ascolta per i fratelli. Il suo è es-senzialmente un compito di mediazione. Tutto ciò che ascolta deve essere riferito agli altri. Non c’è niente che il profeta deve tenere per sé.

In Dt 5 si legge la seguente frase: «Io stavo tra il Signore e voi, per riferirvi la parola del Signo-re» (Dt 5,5). Il concetto di mediazione è un concetto di trasmissione, di “traduzione”, di applicazio-ne. È come se il profeta fosse colui che capisce Dio e, quindi, può ridirLo con parole comprensibili alla sua gente. Pertanto ciò che il profeta conosce di Dio non è per la sua beatitudine o per la sua consolazione, bensì è un dovere: il dovere di parlare.

E le parole sono la mediazione. Ad esempio, le parole sono ciò che Mosè ha dato ad Israele. So-litamente noi crediamo che il popolo sia stato liberato dal bastone; ma non è vero. Noi diamo gran-de importanza agli eventi, quali il mare che si apre, l’esercito del faraone travolto dalle acque del mare, ecc. Ma questo non libera Israele. Ciò che veramente libera Israele è la parola, accolta nella libertà. Ciò che trasforma la coscienza rendendola amorosa: questo libera! Il segno esterno è sola-mente un segno, è soltanto qualcosa che aiuta a dare credibilità alla parola, a far capire la forza della parola. Il segno è una metafora della parola. Il vero evento che salva gli uomini è il fatto che Dio parla loro, poiché li chiama alla libertà nel momento stesso in cui parla loro. Dio non impone nulla agli uomini: non li prende per mano obbligandoli e costringendoli con degli atti superiori alle loro possibilità. Invece Dio parla agli uomini, come un padre parla ai suoi figli, suscitando nell’uomo quella scintilla divina, che è appunto la libertà, la quale è la possibilità di amare senza alcuna costri-zione.

I segni di cui si parla, i segni grandiosi, i prodigi, ciò che Mosè ha fatto; ebbene non sono nulla rispetto al fatto che Dio gli «parlava faccia a faccia» (34,10). Ciò che il Deuteronomio vuole co-municare è che i segni grandi e terribili, i segni prodigiosi dell’esodo, adesso devono essere sola-mente ciò che aiuta ad andare verso Mosè e ad amare le sue parole, ad accoglierle, ad assimilarle, a farle proprie, a nutrirsene. Se ciò non avviene, tutta la liberazione non serve a niente, ma è solamen-te un atto esteriore che non ha toccato la profondità della coscienza.

Mosè ha fatto dei segni e ci saranno dei profeti che compiranno dei segni, quali Elia, Eliseo, Ge-sù di Nazaret. Ma bisogna fare attenzione, poiché il segno è profetico se fa ciò che la parola dice, se opera ciò che la parola dice. È la parola che apre le acque, è la parola che fa uscire dai sepolcri. Come dice Gesù: «Verrà il momento in cui udranno la parola e vivranno» (cf. Gv 5,28). Chi crede alla parola di Dio, di fatto vedrà i segni, cioè vedrà la vita.

Questo è il primo punto, che mostra cosa significhi l’elezione per Mosè e cosa sia il suo ruolo di profeta e la sua importanza straordinaria nella storia di Israele.

3. LA MORTE DI MOSÈ

3.1. La morte di Mosè come compimento della sua elezione Questo profeta, questo servo di Dio, questo uomo giusto, questa mediazione di Dio, muore. Egli

vede, ma non possiede: muore prima di entrare nella terra promessa. Il dono fatto a Mosè per gli altri è stato dispiegato nella vita di Mosè durante i lunghi anni del

suoi ministero ed è visto integralmente come una profezia. Adesso noi facciamo la seguente affer-mazione: questa profezia si compie, ossia Mosè muore come un profeta. L’elezione si compie in lui così: morendo senza possedere.

Nel testo sono presenti alcuni “enigmi” riguardanti questa morte. Un primo elemento, a cui abbiamo già accennato, è il fatto che Mosè muore in pieno vigore, a

differenza dei Patriarchi, afflitti da vari acciacchi (Isacco era cieco; Giacobbe era illanguidito).

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Un altro enigma riguarda la sua sepoltura. Il testo dice che Mosè «fu sepolto» (v. 6). La versione italiana traduce al passivo un verbo ebraico che è, invece, in forma attiva: «Lo seppellì»: sembre-rebbe quasi che sia Dio a seppellirlo! Ovviamente non si sa bene cosa sia davvero capitato. L’enigma sta nel fatto che Mosè viene sepolto e pianto, ma nessuno sa dove sia. È una modalità in-trigante per suggerire che la sua morte è come un mistero: è avvolta da un qualche segno che è mi-sterioso e che forse deve essere esplorato. Ma, soprattutto, non è andando alla tomba di Mosè che si compirà l’atto di devozione verso di lui, bensì è ascoltando la sua parola.

3.2. La morte del profeta

Comunque Mosè non entra nella terra, poiché è profeta. Cerchiamo di chiarire questo punto. Riguardo a Mosè che muore prima di entrare nella terra, ci sono state delle letture di tipo “giuri-

dico”, ossia legate al sistema retributivo: entra nella terra chi è giusto, mentre non vi entra chi è peccatore. E se Mosè non entra nella terra, allora deve avere compiuto qualcosa di sbagliato. Infatti si trova – soprattutto nella tradizione sacerdotale (in particolare in Nm 20 e 27) – la colpa di Mosè: alle acque di Mériba, quando Dio gli ordina di battere la roccia col bastone, il testo narra che Mosè ha qualche esitazione. Ma è abbastanza comprensibile che Mosè abbia esitato al pensiero che, toc-cando la roccia, ne scaturirà dell’acqua! Quindi, in realtà, quella di avere avuto qualche esitazione in una tale situazione non sembra essere una colpa così grave.

Dall’altro lato è “necessario” trovare una colpa in Mosè (anche in Dt 32 viene ripresa l’indicazione dello stesso episodio). Quindi sembrerebbe proprio un modo di interpretare la parabo-la dell’esodo, asserendo che tutti coloro che peccano muoiono e si salva solamente l’innocente (scherzando, possiamo ricordare che, se non è innocente Mosè, non c’è speranza proprio per nessu-no!).

Però solitamente il Deuteronomio non assume tale linea, seguendone un’altra, che illustriamo in due punti.

1. Come muore il profeta? Il profeta muore come profeta. In Dt 34 è presente un grande simbolo di chi sia veramente il profeta: il profeta è l’uomo che sa-

le sul monte, che è il luogo della visione; è il luogo dove Dio fa vedere. Cosa vede il profeta? Vede la terra, ossia vede la promessa; vede la concretezza del dono (noi diremmo che “vede il cielo”). Il profeta vede la promessa in tutta la sua estensione. Dal monte Nebo non è possibile vedere il mare; ma Mosè lo vede comunque; vede anche fino a Néftali. Cioè vede la grazia in tutta la sua pienezza. Tuttavia muore senza entrarvi, senza possederla, senza toccarla, poiché muore nella fede. Ciò av-viene in quanto egli è profeta proprio perché egli si affida, nel suo stesso morire, a ciò che Dio non può dargli finché è un essere di carne, finché c’è la storia. La promessa di Dio non è mai realizzata nella storia.

2. Questa situazione di Mosè è molto importante, poiché Israele potrebbe ingannarsi, entrando nella terra: potrebbe credere che, entrato nella terra, è entrato nella promessa. Cioè che non ci sia più niente da attendere e che non ci sia neanche più niente da domandare a Dio. Sazio dei beni, I-sraele potrebbe respingere Dio stesso.

Mosè – l’uomo da cui Israele deve imparare tutto – rimarrà nella memoria di Israele come la fi-gura del vero uomo di Dio, che sa che ogni dono non è la promessa; che sa che non si può possedere la promessa, ma solo attenderla nella fiducia radicale della bontà di Dio che si manifesterà nell’evento stesso della morte. È morendo che Mosè è veramente colui che rivela il senso dell’esistere.

3.3. La morte dell’intercessore

C’è di più. Abbiamo affermato che Mosè muore come i peccatori. Muore nel deserto, fuori della terra; ma non perché è peccatore come loro, bensì perché è solidale con loro. Nel testo del Deutero-nomio che narra dell’intercessione di Mosè nell’episodio del vitello d’oro (che è il simbolo di tutti i peccati di Israele: è il “peccato originale” di Israele), Mosè non si separa dai peccatori. Dio gli fa la

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seguente proposta: «Lasciami fare; Io distruggerò e cancellerò il loro nome sotto i cieli e farò di te una nazione più potente e più grande di loro» (Dt 9,14). Mosè rifiuta tale discorso: non si separa dai peccatori, lasciandoli alla giusta punizione, ma si espone alla collera divina, diventando inter-cessore.

L’intercessione di Mosè è profetica: è un atto di assoluta solidarietà con chi è colpevole, assu-mendone tutte le conseguenze, come segno di amore totale per il peccatore, che – proprio poiché è amore per il peccatore – ha forza redentiva. Ciò che salva Israele è l’amore di Mosè per la sua gen-te, in quanto tale amore è segno dell’amore di Dio per la sua gente e mai Egli la abbandonerà.

In Dt 1,37 e Dt 4,21-22 si narra che Mosè muore «per causa di Israele». Non come colpa, ma Mosè muore perché ha consentito a manifestare il suo amore per il popolo fino alla fine, condivi-dendo con lui tutte le sofferenze. È appunto questo amore che salva Israele.

Qui ci ricongiungiamo a ciò che avevamo accennato, ossia alla figura del “servo sofferente” di Is 53. Il “servo sofferente” muore non per le sue colpe, bensì muore per le colpe del popolo. Tutta-via, morendo per il popolo, intercede per i peccatori. Nella mitezza di questa morte, nella quale egli non apre bocca ed acconsente a morire, c’è assenso ad un disegno di Dio, che rimane misterioso; che vuole mostrare che la morte non è la fine; che la vita biologica non è la vera vita; che il posses-so della terra non è la vera promessa.

Mosè è prefigurazione di quel “servo sofferente” di Isaia, di quel servo che è Gesù, che mostra la necessità del morire, sempre enigmatico, come segno di amore solidale, di amore profetico, che salva i peccatori.

4. DOMANDE DAL PUBBLICO

1^ DOMANDA: Anche per Mosè c’è stato bisogno di una certa conversione, in quanto, all’inizio del Deuteronomio, Mosè chiede a Dio il permesso di entrare nella terra, mentre invece Dio rispon-de assolutamente no.

Normalmente noi crediamo che i santi non abbiano esitazioni. Il problema è che, per consentire

al bene di manifestarsi, bisogna manifestare le difficoltà. Un esempio è dato dai racconti di voca-zione profetica, in cui spesso sono presenti delle esitazioni, le quali mostrano proprio che non vi è sicurezza di sé oppure che non vi è interesse per la terra promessa. Invece bisogna che si possa mo-strare interesse per la terra, così come noi possiamo dire che ci interessa vivere. Bisogna che dicia-mo che ci interessa vivere, in quanto questa vita biologica che noi viviamo è il segno che Dio ci ha dato nella creazione del suo dono; quindi dobbiamo amarlo e non disprezzarlo.

Israele entra nella terra, tanto che in Dt 34 si parla di Mosè che acconsente che Giosuè entri nel-la terra. C’è una possibilità riconosciuta che la vita continui dopo Mosè come una cosa positiva. In-fatti, se fosse un male, nessuno entrerebbe nella terra. Invece Mosè addirittura impone le mani su Giosuè, ossia gli consegna la sua stessa autorità, affinché egli faccia questo (34,9).

Ciò che appare importante è che la Scrittura aiuta a comprendere che quello che è il bene non avviene semplicemente e in maniera spontanea, bensì è un luogo di combattimento, di discernimen-to, di lotta, di esitazione. Sono necessari tempi molto lunghi, prima che si determini davvero nella coscienza un atto pienamente consentito per il bene. Molte volte si comincia a fare il bene, poi si torna indietro; poi lo si fa, ma non si è ancora convinti; lo si fa, ma non si è ancora pienamente “consegnati”; lo si fa, ma più per timore delle conseguenze negative che per amore. La nostra storia è crescere in maniera tale da poter consentire l’atto supremo della consegna di sé, ossia il perdere la vita per gli altri, che è Dio in noi. Perché Dio è questo.

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2^ DOMANDA: Mosè è al servizio di Dio; ma non entra nella terra. Si è accennato al fatto che egli ha dubitato: è per questo che Dio non gli farà vedere la terra. Ecco allora l’importanza del credere: in un certo senso, Mosè non ci ha creduto.

Posta così, l’affermazione è esagerata. Il testo non afferma che Mosè non ha creduto, bensì che

“ha esitato”. È ovvio che l’importanza del credere è grandissima: tutta la Bibbia lo insegna. Tuttavia la Bib-

bia sa anche che siamo uomini e che quindi talvolta vacilliamo, che talvolta dubitiamo, che la nostra fede non è mai totalmente limpida. Se dovessimo essere giudicati radicalmente su tali difficoltà, non si salverebbe nessuno.

Allora viene incontro alla nostra debolezza il mistero dell’amore di Dio, che ogni volta ci do-manda perché dubitiamo, perché non crediamo, perché siamo persone di poca fede. È quella mano del Redentore, che consente la salvezza a Pietro che vacilla sulle acque (Mt 14,24-33). Quindi non bisogna essere troppo severi nel sostenere che chi ha dubitato è perso; altrimenti non c’è speranza. Quello che salva l’uomo è la fiducia nella misericordia di Dio.

Qualsiasi riflessione che una persona può fare sulla Scrittura e che può apparire bella ed illumi-

nante, ovviamente è preziosa. Tuttavia deve essere accompagnata da un percorso personale di chi la ascolta, ossia da ciò che chi ascolta scopre. Sant’Ignazio di Loyola esorta affinché chi propone qualche cosa di aiuto alla fede sia sobrio e non esageri troppo, poiché quello che uno trova nella propria preghiera, di fatto quello sarà ciò che è fondamentale per il suo vivere. Una persona può es-sere “messa in moto” dagli altri; però è ciò che quella persona ha fatto e ha visto ad essere fonda-mentale per lei. È questa rivelazione intima che il Signore riesce ad operare nell’intimo di ogni co-scienza. È quello che ognuno vede di Dio: è la sua vocazione, è il suo dono profetico.

Con ciò intendo che la mia speranza e il mio desiderio è che le parole di queste tre relazioni mettano in moto un cammino personale, un cammino di lettura, di meditazione, di pazienza nel do-mandare e di non spaventarsi nel non capire. Nella vita ci sono tante cose che non si comprendono: bisogna avere la pazienza di credere che, quando sarà il momento, le capiremo. Dunque bisogna an-dare avanti amando queste parole, amando questa tradizione sacra che ci è stata consegnata come un tesoro preziosissimo; amandola, perché l’amore ci permetterà di capire. Infatti è l’amore che ci fa capire ed è l’accoglienza del cuore che ci rende intelligenti e che, soprattutto, ci rende profeti. Ossia ci rende capaci non di ripetere o di ribadire le cose scritte, bensì di ridirle con parole nostre, di far fiorire quella poesia di parola e quella poesia di vita che salva il mondo.

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I N D I C E L’ELEZIONE DEL POPOLO DI ISRAELE (Dt 7) pag. 2 1. INTRODUZIONE pag. 2 1.1. Il concetto di “elezione” pag. 2 1.2. L’elezione come risposta dell’uomo a Dio pag. 2 1.3. L’eletto come strumento di salvezza per tutti gli uomini pag. 3 2. UN POPOLO ELETTO, SANTO E AMATO pag. 3 2.1. Un popolo “separato” per Dio pag. 4 2.2. Scelto perché piccolo pag. 4 2.3. La responsabilità dell’uomo pag. 5 2.4. Il comandamento dell’amore a Dio pag. 5 3. IL COMANDAMENTO DELLO STERMINIO (Dt 7,1-5) pag. 6 3.1. Amare solamente Dio pag. 6 3.2. Il rifiuto assoluto di tutto ciò che non è Dio pag. 7 3.3. Il “giudizio” e la “guerra santa” pag. 8 L’ELEZIONE DEL POVERO NEL CODICE DEL DEUTERONOMIO (Dt 5) pag. 10 1. INTRODUZIONE pag. 10 2. UN DIO ATTENTO AI POVERI pag. 10 2.1. Israele, un povero salvato da Dio pag. 10 2.2. Le categorie dei poveri pag. 11 3. DUE MODALITÀ DI AZIONE: IL DONO E IL PRESTITO pag. 13 3.1. Il dono pag. 13 3.2. Il prestito pag. 14 4. CONCLUSIONE pag. 16 5. DOMANDE DAL PUBBLICO pag. 16 L’ELEZIONE DI MOSÈ (Dt 34) pag. 20 1. DEUTERONOMIO: UN LIBRO DI PAROLE PER RICORDARE pag. 20 2. MOSÈ L’ELETTO: «SERVO DEL SIGNORE» E «PROFETA» pag. 23 2.1. Mosè «servo del Signore» pag. 23 2.2. Mosè «profeta» pag. 24 3. LA MORTE DI MOSÈ pag. 26 3.1. La morte di Mosè come compimento della sua elezione pag. 26 3.2. La morte del profeta pag. 27 3.3. La morte dell’intercessore pag. 27 4. DOMANDE DAL PUBBLICO pag. 28