Il Senzanome

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Elena Nanni, fantasy young adults. Pur di vincere una scommessa, la diciassettenne Zoe Hope è disposta a entrare nella decadente e terrificante Ghostville, infestata dal fantasma del trapassato Conte Andrei Ealupul. Ma proprio mentre la sta esplorando, improvvisamente qualcuno cade dentro all'armadio della camera da letto del Conte. Lo sconosciuto dice di non avere nome, la prende per mano e la trascina via dalla realtà, dal tempo e dallo spazio, portandola in una stanzetta circolare e dal soffitto molto alto. Sulle pareti sono incastonate migliaia e migliaia di porte, tutte diverse l'una dall'altra, e tutte conducono in un mondo differente. Tra orribili mostri che la inseguono per i vicoli di un enorme labirinto, rose vanitose, statue viventi, una maschera ingannevole, una tetra lanterna parlante a guardia della sua palude, un drago in attesa della principessa e il fantasma di un amico, Zoe sarà costretta a vincere il folle gioco del dio Senzanome. E se dovesse perdere...

Transcript of Il Senzanome

In uscita il 27/2/2015 (14,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine febbraio e inizio marzo 2015

(5,99 euro)

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ELENA NANNI

IL SENZANOME

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IL SENZANOME Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-862-6 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Febbraio 2015 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

A te, se desideri scalare l’universo insieme a me. Elena Nanni

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PROLOGO

Oh… cos’è questa luce improvvisa? Sei forse stato tu a sollevare la mia copertina? Ah, non avevi mai visto un libro parlante in vita tua, vero? E scom-metto che una storia come la mia non te la sei mai neppure sognata. Cos’è quello sguardo accigliato? Bada che non stai parlando con un giornaletto qualunque: io sono uno dei volumi più preziosi che mai potrai trovare in questa biblioteca… anche se non mi piace vantar-mene. Tuttavia, ormai che mi sono svegliato, puoi anche sederti in una di quelle comode poltrone vicine al fuoco, sfogliarmi con cura e ascoltare la mia storia. Sai, così come ogni essere umano ha un pro-prio carattere, ogni libro ha una propria voce, unica e inimitabile. Dunque, prima di cominciare mi preme porti una domanda: hai mai sentito parlare della leggenda di Colui Che Estingue? No? Allora sarà necessario partire dall’inizio, esattamente sessantacinque milioni di anni fa. La lancetta dell’orologio comincia a girare all’indietro. Presto, lascia ch’io ti prenda per mano e ti guidi sugli infiniti numeri del tempo; quando arriverà il momento opportuno, ci aggrapperemo alla lancetta e ci lasceremo cadere sulla prima, impor-tantissima pagina di questa storia. Non hai paura di conoscere la verità, vero? Certo che no! Solo il lettore più coraggioso e assetato di conoscenza si metterebbe a leggere le mie parole proibite.

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Bene, siamo arrivati… ma aspetta un momento; sei davvero sicuro di voler leggere questa storia? Perché se arrivi alla mia fine, non sa-rai mai più lo stesso. Ecco, sapevo che saresti stato un ascoltatore perfetto! Intrepido, cu-rioso, pronto ad assimilare ogni concetto e a trasformarlo in una di-namica combinazione di immagini e suoni. Be’, basta trastullarci con i convenevoli. Gira pagina e comincia il tuo viaggio alla scoperta del dio senza nome.

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1. LE ORIGINI DI UN DIO

Eccoci giunti all’inizio di tutto: sessantacinque milioni di anni fa. Ai giorni d’oggi tutti sanno quale creatura dominasse la Terra, ancora giovane e incontaminata; ma quasi nessuno sa spiegare chiaramente cosa successe di così terribile per portare all’estinzione l’intera spe-cie delle lucertole giganti. C’è chi dà la colpa a un enorme meteorite, chi a un brusco cambia-mento del clima, chi a piante velenose, chi alla mole stessa dei retti-li. Non tutti ci credono, ma esiste una teoria alternativa. Oggi viene chiamato Colui Che Estingue, o l’Esecutore, ma nessuna informazione su di lui, neanche la più misera, è stata reperibile fino alla comparsa dell’uomo sapiens e del neanderthaliano, quarantami-la anni fa. Grazie alle pitture paleolitiche del neo artista, si può rico-struire la vaga e imprecisa storia di una creatura particolare, comple-tamente distaccata dal mondo umano e animale. Cosa facesse esattamente quella creatura, e quale aspetto avesse, non è ben chiaro ancora adesso. Forse si è solo trattato di un bisonte disegnato particolarmente male, o magari della prima rappresentazione di una nuvola. Il disegno non si lascia capire e ogni individuo ci vede quello che vuole, ma le molteplici apparizioni di questa creatura poco chiara in diverse zone del globo hanno dato origine alla sua leggenda. Non si parla solo di un semplice mito; l’aura mistica e arcana che circonda l’origine e la verità dietro quei disegni, ha soffiato sulla scintilla di angoscia che è caratteristica di certi superstiziosi.

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È diventato il culto di Colui Che Estingue, ovvero una divinità dalla forma approssimativa che, apparentemente, è nata insieme all’universo. Essendo spesso collegato alla scomparsa di una specie sulla Terra, sia essa flora o fauna, col tempo si è sviluppata la credenza che l’obbiettivo di questo essere sia distruggere chi o cosa non deve più andare avanti. Quali siano i motivi di tali decisioni non è noto a nes-suno. Nel corso della storia sono stati ritrovati diversi documenti relativi alla sua esistenza e, sebbene ogni popolo gli attribuisca forme e po-teri diversi, tutti, probabilmente per qualche motivo, non gli hanno mai dato un nome. Nei testi degli antichi canti, nei poemi, nelle favole, nei miti e nelle preghiere a lui dedicati è diventato un “senza nome”: una sorta di giudice imparziale che dorme un sonno profondo, lungo e ininterrot-to. Si sveglia solo quando è la vita stessa a chiamarlo, quando l’eco dell’evoluzione risuona così forte da destare il suo pesante dormire. Di lui si racconta che possa trasformarsi in qualsiasi cosa: animale, pianta, persona… in un vulcano in eruzione o in una gigantesca onda marina, in un folle tornado o in un violento terremoto. Si crede an-che che non sia immortale, ma che solo una cosa sia in grado di uc-ciderlo… ovviamente ogni etnia ha una propria versione su questo. C’è chi parla di una croce d’argento puro piantata nel petto, chi di una corona spinata di rose bianche posta sul capo; qualcuno ritiene che l’odore dello zolfo sia in grado di addormentarlo definitivamen-te, e qualcun altro è convinto che la fiammella di una candela lo spaventi a morte. Be’, sicuramente la verità è una sola, ma il mondo è troppo grande e la mente degli uomini troppo fantasiosa per cercare, nel bel mezzo di tutte quelle voci fasulle, la fonte sincera. Sarebbe stupido nonché ingenuo chiamarlo “Dio”, ma è questo ciò che sembra. Non un dio benevolo né uno maligno, ma qualcosa al di là, come potrebbe esserlo il tempo.

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Recentemente qualche testa speranzosa ha avanzato un’ipotesi: Co-lui Che Estingue può concedere una seconda possibilità. Perfino in certi testi antichi si fa riferimento a una sorta di prova proposta dall’Esecutore alla specie destinata a estinguersi. Con quale criterio e che tipo di prova scelga non è dato saperlo, ma in questo caso, forse, ci si vuol riferire alla razza umana. Seppure addormentato per la maggior parte del tempo, l’Esecutore rimane una possibile minaccia per la vostra specie, poiché l’incarnazione di una volontà arcana va sempre oltre alla compren-sione umana. Be’, questo lo dicono i sostenitori dello Iudicismo, una religione dedicata a Colui Che Estingue, nata praticamente insieme alle sue prime rappresentazioni paleolitiche e sopravvissuta fino a oggi grazie alla paura, all’angoscia, alla mente semplice di chi vuol dare tutta la colpa a un dio apocalittico. Ma come funziona lo Iudicismo? Consiste nella credenza della rassegnazione e del rispetto, ovvero che ormai siamo tutti spacciati e quindi non dobbiamo peggiorare le cose compiendo altro male nel mondo. In seguito a un attacco di furioso orgoglio, i credenti hanno inventa-to una regola secondo la quale gli adepti e i fedeli devono possedere il Marchio Del Protetto: un simbolo impresso a fuoco sulla pelle. Si presenta con un cerchio interrotto nella sua parte inferiore; lo spa-zio vuoto viene tagliato perfettamente a metà da una riga verticale con un grosso punto sulla cima. Un largo semicerchio abbraccia la stanghetta e il cerchio interrotto. Sopra quest’ultimo cadono perpen-dicolarmente tre linee di diversa lunghezza. Si tratta di un simbolo che rappresenta l’essere umano protetto dal giudizio di Colui Che Estingue. Gli uomini lo portano sulla fronte, con le tre linee rivolte verso l’alto; le donne invece sulla nuca, con le linee rivolte verso il basso. A vederlo così, dolorosamente arrossato e spesso sulla pelle, ha più l’aria di un simbolo malvagio che di una sacra protezione… a ogni modo, è stato concepito proprio per salvare l’individuo che lo porta; una specie di assicurazione sulla vita.

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Gli Iudicisti credono fermamente che quello sia il simbolo dell’Esecutore, come per Gesù Cristo è la Croce, e per questo si so-no convinti che, quando arriverà il turno della razza umana, il Mar-chio Del Protetto potrà sicuramente salvarli. Come pensino di poter scampare a un’apocalisse, non riesco a com-prenderlo nemmeno io. Forse credono in un qualche “luogo di sal-vezza” per i seguaci dell’Esecutore, un paradiso o un intero mondo tutto per loro, come premio per essere stati gli unici furbi a venerar-lo. Be’, diciamocela tutta: gli Iudicisti sono presuntuosi, egocentrici e completamente svitati… però rispettano la natura e il loro prossimo, non fanno alcun tipo di sacrificio al loro dio e non intendono obbli-gare nessuno a seguire il loro credo. Ammirevoli, non trovi? Ecco, penso di averti detto le cose più importanti riguardanti Colui Che Estingue e il livello di intimorita venerazione con cui una parte dell’umanità lo ha accolto. In verità, nessuno potrebbe mai capire quanto pericoloso egli può essere, senza aver provato il suo gioco dell’ultima opportunità. In quanto custode dei fatti accaduti, io conosco l’unica persona che sia mai stata scelta, tra tutti gli esseri umani, per salvare la sua razza. Una storia incredibile, che potrebbe spalancare le porte verso nuove scoperte e nuovi mondi… angoli della mente che voi esseri umani non sapevate neanche di avere, strane creature feroci che fanno la guardia a vecchi emblemi di pietra, rose vanitose, lanterne parlanti, draghi innamorati e scale per l’universo… be’, ovviamente mi fa-rebbe piacere passare questo mio piccolo, minuscolo patrimonio nar-rativo a un lettore meraviglioso come te. Se hai voglia di ascoltarmi, cominceremo dall’inizio…

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2. IL RISVEGLIO

Le palpebre si sollevarono. Tutto era confuso e sfocato… come un dipinto fresco che cola e si scioglie. I primi respiri che fece furono affannati, come se fino a quel mo-mento avesse trattenuto il fiato sott’acqua. Batté più volte le ciglia per schiarirsi l’iride, che lentamente si terse dal torbido del sonno e mise a fuoco il mondo circostante. Vide una stanza circolare, stretta e alta… così alta che il soffitto si perdeva sopra le stelle. Era freddo il pavimento sul quale si adagiava; un pavimento decora-to a scacchi bianchi e neri, lucido come marmo. Sui suoi occhi indugiava una luce tenue e malinconica, un pallido bagliore che calava lentamente dall’alto; cereo tendaggio senza pe-so. Nella stanza altro non vi era se non una sfilza di porte, tutte di-verse e tutte curiose. Alzò dunque il viso, per cominciare a ricordarsi del suo corpo. Sol-levò le mani davanti agli occhi; erano allungate, le dita fini come i ramoscelli di una betulla. La sua pelle era candida, soffice e imma-colata. Si toccò esitante il volto con quelle mani; liscio e imberbe, le guance stranamente fredde e il naso dritto, le labbra morbide e tre-manti. Fu in quel momento che rammentò di avere delle emozioni; frammenti che potevano rivelarsi taglienti, come la paura, oppure onde cullanti, come la serenità. I suoi occhi color dell’argento si spalancarono quando ricordò; era lì per un motivo, un compito ben preciso che, lo sentiva nel sangue, doveva portare a termine a costo della vita.

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Posò le mani sul freddo pavimento a scacchi, impresse spinta nei muscoli delle gambe, che cominciarono a tremare, e si mise in gi-nocchio. Stare dritti era difficile; il controllo dei muscoli era ancora un procedimento complesso, non li utilizzava da tanto, tanto tempo. Nelle orecchie ronzava un silenzio innaturale, quasi inquietante. Quella strana stanza non poteva appartenere ai suoi piani. Doveva uscire e cercare. Non appena fece forza sulla gamba sinistra il polpaccio venne scos-so da tremori di protesta; il suo corpo ancora intorpidito era incapace di obbedire al complesso cervello, che già si era messo in moto. Di fatto, aveva appena guadagnato la posizione eretta che già le ginoc-chia cedettero sotto il peso, e tutta la massa inesperta crollò di nuovo sul pavimento. Con una certa quantità di pazienza avrebbe convinto i muscoli a mettersi all’opera. Meglio, perciò, cominciare dalle basi.

* * * “Paragrafo quattro: Lo Iudicismo, religione molto antica e gelosa-mente protetta dai suoi fedeli, illustra chiaramente la credenza se-condo la quale l’uomo e la Terra, in un giorno ancora ignoto, subi-ranno il giudizio del Dicaiose, più comunemente noto come ‘l’Esecutore…’” «Bah, quante cavolate!» sbottò spazientita Zoe Hope chiudendo con un tonfo il pesante libro della materia che meno amava. La sua migliore amica, Katie Holmes, sorrise comprensiva e chiuse la propria copia del testo con un gesto molto meno violento e se lo strinse al petto mentre si fermavano davanti al semaforo. «A te Religione non piace proprio, vero Zoy?» Zoe sbuffò così forte da sollevarsi la frangetta dagli occhi: «Figurati! Tutto un mucchio di favole pessimiste e sentimentali per impaurire e rammollire il popolo ignorante» sentenziò con decisio-ne, raddrizzando la schiena e sollevando il mento.

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«Katie, tu non la pensi forse come me?» aggiunse quasi minaccio-samente. Katie scoppiò a ridere e il segnalatore del semaforo brillò di verde. «Tu sei troppo feroce nei confronti della religione, Zoy» sorrise la ragazza mentre le due cominciavano ad attraversare la strada «cerca di vedere il loro credo coi loro occhi.» «Ci ho provato, e sai che cosa ho visto? Un sacco di fesserie» rispo-se acida Zoe «insomma, hanno paura e venerano un mucchio di fu-mo imparruccato che batte il martelletto e dice “la seduta è conclusa, morirete tutti”… oh, per l’amor del cielo, siamo nel ventunesimo secolo!» Katie rise di nuovo; alle loro spalle il semaforo scattò sul rosso. «È il loro modo di aggrapparsi alla speranza, di trovare sicurezza dalla paura e dall’ignoranza» ribatté saggiamente Katie mentre sali-vano sul marciapiede affollato. «Sarà come dici. Ma tu? Tu cosa pensi davvero, Katy?» Prima di rispondere, Katie guardò il cielo che svettava sopra i palaz-zi della loro piccola, movimentata città. «Non lo so, Zoy. Non ho la presunzione di decidere se un Dio esiste o no. Me ne sono sempre lavata le mani. Tanto, anche se lo sapessi, che cambiamento potrebbe portare nella mia vita?» Zoe scoccò uno sguardo severo alla migliore amica, poi disse, con voce dura: «Dio non esiste. Non è mai esistito e mai, mai esisterà.» In città è facile che nascano dicerie e pettegolezzi su persone, luo-ghi, cose… nella piccola città di Ghostville, incastrata in un angoli-no a nord dell’Inghilterra, regnava la leggenda urbana su una certa villa famosa, abbandonata ormai da secoli. La dimora del tra-trapassato conte Andrei Ealupul, natio della Transilvania, un tempo era l’edificio più sontuoso, ricco e vasto di tutto il paese. Generazione dopo generazione, gli eredi della villa avevano abban-donato la piccola città e lasciato la casa in pasto al tempo e alle er-bacce, probabilmente per beata ignoranza sulla sua bellezza estetica,

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o forse per semplice incuria sulla ricchezza storica che essa rappre-sentava. Be’, puoi immaginare come i residenti di via 31 October prendesse-ro a male la presenza di una casa così vecchia, e quanta voglia aves-sero di chiedere al Comune di buttarla giù. Molti di loro, tuttavia, avevano più paura della leggenda che gravava su quella villa che del quadro estetico, lugubre e decadente, nel qua-le figurava. Inaccessibile, nascosta da un cancello di ferro battuto alto circa cin-que metri, affiancato da due colonne minacciose sormontate da due statue di drago minuziosamente scolpite nel marmo nero… la prima impressione che si aveva della villa non era poi così allegra. Era stato il suo padrone a chiamarla Ghostville, il cui nome svettava in arrugginite lettere incise alla sommità cancello d’ingresso, tra i due draghi di marmo. Grazie allo status sociale del conte e all’importanza che possedeva la sua nobile famiglia, la città venne presto chiamata con lo stesso nome della sua amata villa. I cittadini di Ghostville, tuttavia, non provavano alcun attaccamento storico per quella vecchia casa degli orrori. Anzi, più ci giravano al-la larga, meno rabbrividivano. Ed era a causa di questo che la giova-ne figlia del bibliotecario di quartiere, Zoe Hope, veniva considerata l’impavida, sfortunata vicina del numero 106, il numero di Ghostvil-le. Dal canto suo, Zoe non provava alcun risentimento verso la villa, né alcun immotivato timore. Ci aveva fatto l’abitudine, dovendo passa-re tutte le mattine davanti alla cancellata dell’infernale villa per rag-giungere la solitaria fermata dell’autobus posta pochi metri più a-vanti. A scuola era conosciuta come “la vicina del demonio”, e i compagni più coraggiosi trovavano sempre il tempo di chiederle i dettagli sull’aspetto esteriore della spiritica residenza. Ovviamente, a causa del tempo, la villa e le sue mura non erano più così sicure da poter ospitare qualcuno sotto il loro tetto, quindi nes-sun essere umano vi aveva più messo piede già da molto, molto

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tempo. Questo fu il motivo principale per cui Zoe venne trascinata in una certa faccenda di scommessa sul coraggio. Zoe varcò la soglia della sua aula, già gremita di studenti che chiac-chieravano, ripassavano e sbadigliavano. Andò a sedersi al suo po-sto, appoggiò la borsa dei libri ai piedi del banco e si stiracchiò a dovere. Quasi immediatamente due dei suoi compagni le si avvicina-rono e la accerchiarono; i loro sguardi brillavano in modo innatura-le… ed erano appena le otto di mattina. «Buongiorno Hope» le sorrise Emily Adams sedendosi sul bordo del banco. «Emily, lo sai che non mi piace questa formalità. Non sono mica un insegnante» sbuffò Zoe. «Hai ragione, Zoy. Qui siamo tra amici, quindi possiamo parlare di cose che sarebbe proibito dire a un professore» attaccò il fratello di Emily, Tom Adams. Il suo tono punzecchiò l’innata curiosità di Zoe, quando normalmen-te una studentessa più saggia avrebbe declinato a prescindere dalla richiesta. «E di quali cose proibite volete parlarmi?» chiese allora, ammiccan-do ai due fratelli. «Cosa? Vuoi andare subito al punto?» brontolò Tom «così non c’è gusto!» «Ah, non rompere!» lo zittì la sorella «tra poco suonerà la campanel-la, e se arriva Il Gamberone siamo tutti fregati…» Il Gamberone era il soprannome di uno dei professori. «Va bene, allora…» Fu così che, per cinquanta dollari belli fruscianti, i due fratelli A-dams proposero a Zoe di dimostrare che non aveva alcuna paura di entrare nella casa degli orrori. Non appena lo venne a sapere, Katie replicò con un “che stupidaggine” in un tono che diceva chiaramente “chiunque accetti una proposta simile è solo uno scemo squinterna-to”. Due minuti dopo Zoe accettò la scommessa con baldanzosa si-curezza.

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All’ultima ora di lezione, mentre il professor Lewis indicava sulla cartina le nazioni che erano rimaste coinvolte nella Seconda Guerra Mondiale, Katie si sporse in avanti sul banco e bisbigliò alla schiena di Zoe: «Ma sei matta?» Zoe inclinò la testa, ma non rispose. «Non puoi andarci davvero! È pericoloso…» «Katy…» Zoe scrutò la migliore amica con la coda dell’occhio «va tutto bene. Non è niente di particolarmente pericoloso.» «Invece sì!» Il professore si voltò verso la classe, si spinse gli occhiali su per il naso e tornò a picchiettare la cartina con la sua lunga bacchetta di metallo. Katie si allungò più in avanti e proseguì in un sussurro: «Nessuno entra più lì dentro da secoli… vuoi rischiare di morire schiacciata?» La campanella trillò improvvisamente. Gli studenti si alzarono dai banchi con un rombo di sedie che grattavano sul pavimento. «Per non parlare del fatto che l’ingresso è sbarrato dal cancello» ri-prese testardamente Katie inseguendo l’amica fuori dall’aula «com-pletamente barricata. Neanche uno scalatore riuscirebbe mai…» «Katy, è solo una vecchia casa con una bruttissima reputazione. Ci abito accanto da dieci anni, so perfettamente come entrare senza farmi male, quindi smettila di preoccuparti.» La faccenda era chiusa. Avrebbe vinto quei soldi, pericolo o no. Era infatti con quei cinquanta che aveva intenzione di comprarsi la nuo-va felpa dei Red Dream, il suo gruppo musicale preferito. Il pomeriggio lo dedicò tranquillamente allo studio, così pacifica e sicura di sé che sembrava avesse intenzione di esplorare un parco giochi. Erano appena scoccate le sette, quando finalmente la porta dell’ingresso si aprì con uno scatto e il padre varcò la soglia, il brac-cio sinistro carico di libri, il destro che reggeva due buste della spe-sa. Zoe gli corse incontro e lo abbracciò. «Bentornato! Hai fatto tardi, eh?»

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«Colpa della fila che c’era al supermarket. Una coda di dieci perso-ne! Da impiccarsi…» si lamentò il padre, posando i voluminosi libri sulla scarpiera e lasciandosi portare via le buste dalla figlia. Zoe cominciò a sistemare barattoli, pacchetti e confezioni nella di-spensa mentre il padre si slacciava le scarpe. «Com’è andata a scuola, fantasmina?» «Papà… solo la mamma mi prendeva in giro a quel modo.» Il volto stanco ma allegro del padre fece capolino dall’ingresso del corridoio. «Embè? Se la mamma fosse qui, si sarebbe fatta quattro risate e a-vrebbe preparato una cioccolata calda a tutti.» Zoe chiuse l’anta della dispensa, fece una pausa, poi rispose con vo-ce bassa: «Già, se solo fosse qui.» Un paio di mani calde e gentili le strinsero le spalle. «Tesoro…» «Quando torna? Quand’è che torna dalla Svizzera?» Il padre si grattò il folto ciuffo di ondulati capelli color miele, si ag-giustò i sottili occhiali rettangolari sul lungo naso e batté qualche colpetto sulla schiena della figlia, che era così simile alla madre nei lineamenti, così simile a lui nell’intelligenza e nell’amore per la scienza. «La mamma ha molto da fare in Svizzera. Ma ormai è quasi finita, vedrai che entro l’autunno sarà già a casa.» Zoe si voltò faccia a faccia con il padre. Era un uomo alto e magro, aveva un bel viso allungato e due splendidi occhi azzurri. La fronte spaziosa faceva capolino tra le ciocche sinuose dei suoi capelli bion-dissimi. «Sono già due anni che è via. Ho paura…» Zoe esitò, si strinse le mani al cuore e proseguì: «Ho paura di dimenticarmela, papà… ho paura di non ricordare più il suo profumo, o la sua voce…» Il padre scostò un ciuffo dagli occhi umidi della figlia.

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«Non succederà mai, e sai perché? L’amore che ci lega alla mamma è la rilegatura più forte ch’io stesso abbia mai visto. Niente, niente può consumarla. Neanche il tempo.» Zoe si strofinò un polso sugli occhi e inclinò le sopracciglia. «Papà… hai fatto di nuovo una metafora sui libri.» Il padre batté le palpebre un paio di volte, spalancò la bocca e si schiaffò una mano sulla fronte. «La rilegatura dei libri! Non è possibile, non me ne rendo conto!» Zoe scosse la testa, esasperata. «Diventerai matto a furia di rinchiuderti tra quegli scaffali polvero-si.» Con un gesto che equivaleva a “lo so, purtroppo” il padre uscì dalla cucina per concedersi una doccia rinfrescante. La ragazza si posizio-nò di fronte allo specchio rettangolare appeso nell’ingresso. Sua madre era di origine rumena e aveva perso il cognome quando si era sposata con Arthur Hope, ma aveva deciso di donare alla figlia il nome dell’adorata nonna. Zoe somigliava davvero molto alla madre: piccola di statura e sotti-le, la pelle simile a rosea porcellana, i capelli lisci e di quel partico-lare fulvo ramato, divisi in due corti e vaporosi codini. Sotto la fran-gia sbarazzina spiccavano i grandi occhioni verde menta, colmi di tenacia e sicurezza di sé. Uno specchio perfetto per l’animo corag-gioso di Zoe. La fanciulla allungò le dita sottili verso quell’immagine residua del-la madre… ormai troppo incorporea.

* * * Doveva aver dormito davvero per un lunghissimo tempo, glielo fa-cevano capire i suoi muscoli rigidi come pezzi di legno. Ma nelle ul-time ore le sue gambe si erano già riscaldate a dovere, tanto da per-mettergli di muoversi per l’intera stanza. All’improvviso qualcosa attirò la sua attenzione, e si fermò barcol-lando per guardare; i lucidi scacchi bianchi e neri riflettevano la sua

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figura. Così non andava bene. Non era ancora sufficientemente simi-le agli uomini. Non poteva rischiare di mostrare anche solo una pic-cola parte del suo vero aspetto: doveva mascherarsi e nascondersi con cura. Perché se anche solo uno fra loro avesse visto… Quindi ecco: chiuse gli occhi, fece un giro completo sulle caviglie insicure e riaprì le palpebre. Adesso c’era qualcosa di liscio sul suo corpo, le mani e i piedi erano coperti, una specie di sacco vuoto pendeva dietro alla nuca e la sua intera figura era protetta da quella nuova pelle. Osservò il proprio aspetto nel riflesso del pavimento; sì, così andava decisamente meglio. Poteva scendere tranquillamente sulla Terra senza il rischio di farsi riconoscere e nominare il Ro-ghnain, o giocatore, degli uomini. Allora si lisciò il colletto, allacciò le cinghie, spolverò le ginocchia, strinse per bene i lacci degli stivali e alzò il mento guardandosi in-torno. Nella sua stanza del risveglio tutto era silenzio. Per uscire da quello spazio stretto e bicromatico era necessario pas-sare per una delle tante porte presenti. Alcune erano alte, altre bas-sissime, qualcuna a forma di arco inflesso o a sesto acuto, tutte fatte di un materiale diverso dall’altro. Si avvicinò alle pareti circolari e osservò da vicino le strane serratu-re che contrassegnavano ogni porta. Nessuna chiave normale avreb-be potuto aprire anche solo una di quelle toppe, ma la sua mente lo sapeva già. Sfiorò con le dita affusolate le maniglie di bronzo, di rame, d’oro, d’argento e d’avorio… posò i palmi sulle superfici di legno grezzo, di pietra viva, di ferro battuto, di gesso… e mentre toccava quei materiali inventati dalla natura e dall’uomo, ricordò i loro nomi. Girò tutta la stanza circolare, ispezionando ogni porta e cercando di ricordare più cose possibili man mano che le toccava, perché le invenzioni degli uomini avevano sempre stuzzicato la sua curiosità. Non era facile neanche tenere il conto di ogni porta; per via delle loro minute dimensioni alcune erano incassate nella parete una sopra l’altra. Un essere umano si sarebbe messo le mani nei ca-pelli per la disperazione… ma per i suoi occhi imparziali tutto era fonte di analisi e conoscenza.

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La porta che avrebbe varcato doveva essere puramente casuale, così come l’uomo o la donna che avrebbe scelto per la sua prova. Se in quel momento avesse aperto una porta diversa, questa sarebbe di-ventata tutta un’altra storia. Si chinò davanti a una porticina alta forse ottanta centimetri, fatta di marmo nero e consunto, tutta ricoperta di lunghi rampicanti verdi. La maniglia era una zucca di Halloween modellata perfettamente con oro lucido come miele, il ghigno dentellato e gli occhi triangola-ri splendevano dall’interno di chissà quale luce aranciata. Certamente sembrava interessante… ma spesso l’apparenza inganna. La serratura aveva la forma di una testa umana vista di profilo… ma dov’era la chiave? Si frugò addosso e incontrò una sottile protuberanza sul fondo della tasca destra dell’abito; vi infilò una mano e col pollice e l’indice af-ferrò una piccola chiave, d’oro puro come la maniglia. L’estremità aveva la forma di un profilo umano; sembrava calzare perfettamente con la toppa della porticina. Vi infilò la chiave e girò fino a udire lo scatto della serratura. Oltre la soglia vi era… l’oscurità. Un buio impalpabile e profondo come un pozzo, una voragine che sembrava condurre nell’ignoto più spaventoso. Contro il freddo pa-vimento a scacchi le sue ginocchia stavano cominciando a perdere sensibilità, la luce soffusa e malinconica della stanza aveva impigri-to i suoi occhi… non era più tempo di restare nella culla. Senza preoccuparsi di come avrebbe fatto ritorno, si chinò per bene e strisciò in avanti, fino a sporgere con la testa e le spalle sopra il vuoto infinito oltre alla porticina. L’odore che invadeva quell’oscurità era strano, ma la sua mente sveglia gli fornì subito la risposta, senza indugi: fiori di arancio e terriccio caldo. Allungò una mano curiosa nella tenebra evanescente, ma non incontrò alcun tipo di ostacolo; se avesse lasciato la stanzetta circolare, niente avrebbe potuto fermare il suo corpo che precipitava… precipitava e si schiantava al suolo.

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Si allungò ancora più all’esterno e si chiese se un suolo effettiva-mente esistesse, ma il suo ginocchio destro scivolò sul bordo della soglia… con un singulto di terrore cadde in avanti. L’aria che gli venne improvvisamente incontro e gli schiaffeggiò la faccia era fredda come un pezzo di ghiaccio, l’odore del buio gli riempì le narici fin quasi a fargli esplodere il petto. Non poteva fermarsi, non sapeva come fare, non vi erano appigli in quel vuoto roteante che non finiva mai. Si rivoltò più volte come un uccello che ha perso l’uso delle ali, sba-tacchiato dal vento sempre più aggressivo… stava prendendo troppa velocità, il suo cuore non avrebbe retto… lo schianto con l’ipotetico suolo l’avrebbe ucciso. Fu allora che l’odore dell’aria cambiò. Stava forse per raggiungere l’uscita da quell’oblio?

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3. INDAGINE A GHOSTVILLE

Era quasi scoccata la mezzanotte quando i compagni di Zoe inviaro-no il loro segnale di via libera. Perlopiù la cattivissima fama della villa era sufficiente per tenere a debita distanza chiunque, ma il poliziotto di pattuglia non era certo così suggestionabile da evitare una via col malocchio. Fu dunque necessario attendere che il buon uomo s’illudesse che nel quartiere tutto filasse liscio. Il cellulare di Zoe vibrò sulla scrivania. Era meglio sbrigarsi a usci-re; il poliziotto poteva sempre decidere di fare dietrofront e passeg-giare davanti alla sua finestra. Svelta e silenziosa, la ragazza s’infilò i suoi jeans alla coscia, una canottiera bianca, un paio di calze al ginocchio e le scarpe più co-mode che aveva. Da ultimo s’infilò una scatola di fiammiferi in ta-sca, prima di accostarsi alla finestra. Fortunatamente la camera di Zoe si affacciava su uno spicchio del praticello che circondava la casa. Non che l’erbetta potesse nascon-derla dagli occhi importuni della ronda… ma i folti cespugli di rose che adornavano quella zona potevano sicuramente essere d’aiuto. A mezzanotte e cinque Zoe sollevò delicatamente il vetro della fine-stra, si arrampicò sul cornicione di cemento e rimase appollaiata su quei pochi centimetri polverosi, a osservare il terso cielo estivo. Un venticello che pareva sussurrare le scivolò tra i lisci capelli color rame; respirò a fondo l’odore di terriccio caldo e di fiori un po’ sciupati che impregnava l’aria, stagnante ma piacevole.

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Qualcuno mormorò il suo nome oltre il cancelletto della casa. Zoe piegò le ginocchia e si lasciò cadere morbidamente sulla tiepida er-ba. Quell’anno l’estate si preannunciava molto torrida; lo suggeriva l’affannosa temperatura, già innaturalmente alta ai primi di giugno. La ragazza si girò verso la sua mite casa di mattoni rossi. «Buonanotte papà» mormorò con affetto, alzandosi poi in piedi e spazzandosi le ginocchia dai residui di terra. I passi delle sue scarpe erano solo un ovattato fruscio nella tranquil-lità del quartiere addormentato, ma il cancello fece più rumore quando lo aprì con la chiave in uno stridere di cardini. Un gruppo di cinque ragazzi la stava aspettando proprio davanti alla tenebrosa villa. Zoe riconobbe quattro dei suoi compagni di classe. I fratelli Tom e Emily Adams, coloro che per primi avevano proposto la scommessa. Con loro stava a braccia incrociate Brian Hillman, una sorta di imbronciata guardia del corpo. Appoggiato alla cancel-lata della villa la aspettava Yonemura Koichi, colui che Zoe aveva sempre creduto essere il secchione orientale della classe… per que-sto trovarlo lì, in mezzo a tutti quei fuorilegge, fu una strana novità. Ma le sorprese non erano ancora finite; accanto a Yonemura, con a-ria più contrariata che mai, stava nientemeno che Katie. «‘Sera» disse Zoe, ignorando con diplomazia il severo broncio dell’amica. Emily si fece avanti e le batté un paio di volte sulla spalla. «È tutto pronto, Hope.» Zoe storse il naso in una smorfia infastidita; non le andava che la gente la chiamasse per cognome. Tom la prese per una spalla e la spinse da parte. «Senti… ma Holmes?» e si indicò alle spalle con un cenno del volto. Zoe incrociò per un istante lo sguardo colmo di disapprovazione di Katie. «Non sapevo che sarebbe venuta anche lei» bisbigliò poi in risposta. «Non ha intenzione di fare la spia, vero?» insistette Tom, sospettoso. Ancora una volta Zoe guardò l’amica negli occhi, prima di replicare: «Non sarebbe da lei. È solo preoccupata.»

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Tom le diede una pacca sulla schiena con aria complice. «Qui tutti siamo preoccupati per te, Hope.» “Ancora peggio” pensò Zoe avvicinandosi al cancello. Yonemura le porse una videocamera grande come un pacchetto di sigarette. «Appena superi il cancello, accendila e mettila in modalità “notte”. È l’ultimo modello, quindi non dovresti avere problemi neanche con il buio all’interno» si schiarì la voce «comunque, se non dovesse da-re il massimo, scegli la modalità “nebbia”.» Zoe si fece passare la cordicina intorno al collo e infilò la videoca-mera sotto la maglietta, pensando che l’amore dei giapponesi per la super tecnologia non era poi una caratteristica da prendere sotto-gamba. Emily sollevò il suo cellulare. «Ti diamo un’ora.» «Se dovessimo accorgerci che ci stai mettendo troppo, ti chiamo io al cellulare» riprese Tom, battendole ancora sulla schiena. «E se non dovessi rispondere, manderemo Brian a cercarti» concluse Emily dando un colpetto col gomito nel fianco del silenzioso eroe. Katie si assicurò di sbuffare a voce alta, invece Zoe ringraziò per l’attenta organizzazione dei complici con un sonoro e amichevole cinque. «Il conto alla rovescia parte… ora!» annunciò Emily. Con un ultimo sguardo di scusa rivolto a Katie, Zoe si allontanò dal gruppo, alla sola fioca luce del lampione aranciato sul ciglio del marciapiede. Fece pochi metri seguendo la linea tetra del cancello guardiano e infine si fermò davanti alle folte, selvatiche siepi, che impedivano l’accesso là dove la cancellata terminava. Erano figlie dei secoli, alte e dalle foglie spesse che nascondevano rami carichi di appuntite spine. Zoe non aveva paura di graffi e sangue. Mise un piede sul muretto poco più alto delle sue ginocchia, si issò su di esso e afferrò a mani nude i rami della siepe più vicina. La sua pelle in-contrò subito una spina resistente, che non si spezzò al primo colpo ma penetrò a fondo nel palmo. Stringendo i denti, si spinse con le gambe e si arrampicò sopra la verde avversaria.

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Cercando continuamente appigli con la punta delle scarpe, Zoe scalò mano a mano l’alta siepe frondosa fino a raggiungerne la cima, che era più sottile e sprovvista di grosse spine. Vincitrice del primo round contro la casa degli orrori, piegò un gi-nocchio e si lasciò cadere dall’altra parte della muraglia di siepi. Il tonfo fu piuttosto morbido, attutito da un terreno irregolare ma rico-perto di altissima erba spettinata. L’abbandono e la desolazione della villa erano sensazioni quasi pal-pabili: ovunque la ragazza posasse gli occhi vedeva solo erba, mura in devastazione, aiuole distrutte da antiche intemperie, terriccio compatto come roccia e ombre più scure della notte, dall’odore sel-vaggio. Tirò fuori la videocamera dalla maglietta e la accese: con un leggero vibrare, apparve l’immagine nell’obiettivo e lo schermo si illuminò. Eseguì l’operazione consigliatale da Yonemura, poi lasciò penzolare la videocamera dal collo; si pulì i palmi insanguinati e incrostati di terra sui jeans e si accinse a fare un giro del prato esterno. La luce del lampione sulla strada a stento filtrava tra le foglie delle siepi, lasciando il parco immerso nella più cupa e tremolante pe-nombra. Zoe si avvicinò al vialetto d’accesso, un sentiero largo al-meno quattro metri lastricato secondo la tecnologia dei tempi che furono, tempestato di fili d’erba che erano riusciti a spaccare le pie-truzze. Il lungo sentiero affondava fin nelle profondità del parco in-selvatichito e terminava dinanzi a una maestosa scalinata di marmo annerito; essa conduceva con perseverante solennità, nonostante i secoli ne avessero smangiucchiato i gradini, al portone imponente e minaccioso della nobile, decadente villa. Non si diresse subito al portone principale: troppo facile. Per con-servare l’adrenalina, si avvicinò tranquillamente a una bella e ricca fontana nel centro del giardino. Doveva misurare l’altezza di quattro metri e mezzo e la larghezza di tre. Completamente modellata col bronzo, ormai inattiva e rovinata dal tempo, svettava tuttavia sul via-letto d’accesso in un solenne trionfo di minuzia di particolari e ag-gressività scolpita. Zoe si avvicinò all’impressionante scultura che

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sorgeva dal centro della vasca vuota e vi girò attorno per dare una visione a trecentosessanta gradi alla videocamera, per poi fare qual-che passo indietro e sollevare il collo. Il soggetto che catturava immediatamente l’occhio era l’enorme lupo bronzeo, le lunghe zampe anteriori posate sul picco di una brulla montagna innevata. Il pelo della collottola era gonfio di orgoglio, le orecchie puntate in avanti come quelle di un husky, la bocca lieve-mente aperta a lasciare penzoloni la lingua. Zoe ne ammirò i più piccoli particolari, a cominciare dall’andamento della folta pelliccia, rappresentata pelo per pelo, fino a terminare con il taglio obliquo dell’occhio e con la morbida piega della lingua appoggiata contro i canini inferiori. Accanto al superbo animale non rimaneva certo in ombra l’uomo col mantello, che dominava la scena con il suo sguardo nobile e magne-tico. Doveva trattarsi del famoso conte Andrei Ealupul, ritratto dall’artista in tutto il suo trapassato splendore. I capelli pettinati con cura all’indietro erano stati resi con la stessa minuzia del pelo del lupo, le sopracciglia curvavano ampiamente sopra lo sguardo pene-trante, dando all’alta e spaziosa fronte un cipiglio più misterioso che rabbioso. Il mento a punta e le guance alte erano tipiche dei transil-vani di sangue nobile, il naso lungo e diritto dava un tocco rapace al volto. L’aristocratico conte indossava degli alti stivali col tacco chiusi da numerose fibbie, stretti pantaloni dall’aria pesante e un lungo mantello col collo alto, ben chiuso sul petto e ancora svolaz-zante in un vento inesistente. Zoe osservò il gesto che compiva la mano destra del conte: posata con fare amichevole sulla grossa groppa del lupo, come se fosse stato naturale per quell’uomo fare amicizia con creature selvagge dei boschi primordiali. Probabilmente un tempo l’acqua zampillava direttamente dalle fauci del lupo e dalla mano sinistra del conte, la quale era rivolta con il palmo verso l’alto, come se il suo proprietario volesse sostenere il cielo. Zoe si soffermò ancora una volta ad ammirare i magnifici particolari della bronzea coppia, che raccontavano in un immobile sussurro tut-

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ta la misteriosa destrezza del loro scultore… ma il tempo delle belle statuine era finito. Voltò le spalle alla grande, arida fontana e si di-resse con passo deciso verso la spettrale scalinata d’ingresso. Lei non era né una pavida superstiziosa né una ragazza facilmente con-dizionabile… ma quel luogo avrebbe messo i brividi anche a un leo-ne. Lo scricchiolio continuo della ghiaia sotto alle scarpe accompagnava il tenue sospiro del vento… così tenue che pareva un suono umano. «Ma dai…» borbottò la ragazza corrucciandosi. Mollò un calcio a un ramo secco e lo ascoltò schiantarsi contro il primo gradino della scalinata. Non successe niente di particolare, tranne che… no, era solo un gio-co della sua fantasia. Controllò che la videocamera fosse ben puntata in avanti, si strinse forte i lacci dei codini, prese un bel respiro e si accinse a salire la scalinata. Che il vento avesse soffiato più forte? Che l’aria stessa fosse diven-tata più fredda? «Smettila, stupida» mugugnò a bassa voce, contenta che nessuno po-tesse vederla mentre parlava da sola… offendendosi, per giunta. Il rumore delle suole sui vecchi gradini era secco come quello di un osso spezzato, la polvere si alzava in piccole nuvolette a ogni passo. Giunta finalmente in cima, si fermò per riprendere fiato, ma non tro-vò il coraggio di guardarsi alle spalle. Tutto, da quando aveva messo piede in quel giardino, le appariva irreale e pericoloso. Picchiettò con l’indice l’angolo della videocamera. «Aprite bene gli occhi, voi fifoni che mandate una fanciulla incontro ai fantasmi.» Appoggiò i palmi delle mani sulla ruvida superficie del portone, sbuffò per la fatica e spinse con tutta la forza che aveva nelle brac-cia. I cardini antichi stridettero, ma l’uscio si spalancò senza ecces-siva resistenza. Zoe aveva quasi sperato che fosse chiuso a chiave, ma ormai non aveva più scuse per abbandonare l’esplorazione. Entrò nel salone d’ingresso.

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“Mmmh… c’è troppo buio anche per la tecnologia di Koichi” fu la prima impressione della ragazza non appena si gettò un’occhiata in-torno. Le sagome che potevano appartenere ai mobili erano indistinguibili, il vitreo bagliore di un gigantesco candelabro rimaneva sospeso nell’oscurità dell’alto soffitto… niente era chiaro, in quel mondo bu-io dall’antico odore. Zoe mosse qualche cauto passo avanti, e quasi subito avvertì una serie di scricchiolii provenire da sotto le sue scar-pe; residui di vetri e legnetti, sullo sfondo di un pavimento di ebano mangiato dalle tarme. La ragazza proseguì. «Come potete notare, qui non si vede proprio un tubo» disse rivolta alla videocamera, attraversando il salone e raggiungendo un grande camino in pietra, ampiamente annerito e scheggiato. Smosse col piede un mucchietto di vecchia cenere che ancora cam-peggiava nella nicchia del focolare. «Non so cosa ci aspettavamo tutti…» si allontanò e uscì dal salone, entrando nella grande sala da pranzo «…ma qui non c’è davvero niente di che.» Sbuffò delusa, girando attorno al lungo tavolo e alle sedie intagliate con cura. «Quello che posso dirvi guardando da vicino…» e prese in mano un calice d’oro «…è che qui ci viveva un signorotto più ricco del Sin-daco. Il conte si trattava fin troppo bene.» Passò oltre la sala da pranzo e percorse un cupo corridoio pieno di scricchiolii sinistri. L’odore era quello della muffa e di polvere am-mucchiata da secoli; lo stesso pavimento era uno spesso strato di su-diciume induritosi. Presto Zoe raggiunse un’altra porta; era un vecchio studio? I cardini si lamentarono rugginosamente, uno spiffero d’aria gelida le pizzicò le spalle. «Che brutto posto…» mormorò senza quasi accorgersene, entrando nella stanza più spettrale che avesse mai visto.

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Osservò con una punta d’angoscia i vetri rotti sparsi sul pavimento, opaco per la polvere. Una piuma d’oca era ancora infilata dentro a un vecchio calamaio, là sullo scrittoio rivolto verso la finestra. Con un brivido lungo la schiena, Zoe immaginò il perlaceo, serioso fantasma del conte che si sedeva al suo scrittoio e intingeva la piuma nel calamaio ormai vuoto… Era possibile morire senza rendersene conto? Che i fantasmi fossero gente morta la quale non aveva preso coscienza del proprio trapas-so? “Se continuo a pensare a queste storie da brivido…” si disse nervo-sa la ragazza, ispirando e sospirando per calmare i battiti del cuore. Si avvicinò al vecchio scrittoio e ne osservò da vicino la nobile fat-tura. Quello era un lavoro da artigiani raffinati. Vi erano dei begli intagli nel legno lungo i vertici, smangiucchiati ma ancora ben defi-niti. Zoe strizzò gli occhi nel tentativo di riconoscere la sagoma del-lo stemma che spiccava al centro del vertice più lungo, ma il buio era troppo denso in quella stanza. Zoe si guardò attorno… sì! Fortunatamente su uno dei ripiani della bella, grande libreria, alcune candele erano sopravvissute ai secoli. Ne prese una; era solo un mozzicone, tutto sciolto e di colore grigio pallido. Faceva un odore terribile, ma sempre meglio che diventare ciechi. La ragazza si frugò rapidamente in tasca, estrasse la scatola di fiammiferi e con molta attenzione accese il frammento di candela. La luce che scivolò sopra i mobili della stanza era incerta e tremo-lante, come quella di un piccolo fuoco fatuo… I brividi morsero la nuca di Zoe, che trattenne il fiato quando il ri-flesso della candela fece brillare i vetri rotti come tante goccioline di pioggia. “I fantasmi non esistono, stupida…” pensò con forza, alzando co-raggiosamente lo sguardo e avvicinandosi allo scrittoio. La luce danzante della candela accarezzava il legno antico, traendo-ne ombre di palissandro e qualche riflesso dorato; Zoe si avvicinò al grosso stemma, probabilmente impresso a fuoco su ordine del conte.

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Pareva… la testa di un lupo. Sì, era decisamente la testa stilizzata di un lupo, il marchio di riconoscimento della famiglia Ealupul. Sul collo dell’animale, contornata da una cornice molto elaborata, spic-cava la lettera E. Zoe conosceva la leggenda che aveva contribuito a dare una pessima fama al conte; una favola più che inverosimile, un mito da racconta-re ai bambini che non volevano andare a letto… una storia a cui era impossibile credere. Si avvicinò a un fascio di documenti sparsi sul pavimento. Alcuni erano macchiati di logoro inchiostro, coi bordi bruciacchiati e uno spesso strato di polvere a fare da pellicola. Ne scrollò un paio e lesse a lume di candela una lettera del conte, indirizzata a… «Viorel?» mormorò la ragazza battendo le palpebre. No… non era possibile… era solo una semplice coincidenza. Come poteva il cognome nubile di sua madre comparire in una lettera del conte? Lo scandalo che secoli prima aveva reso famosa dama Suzana Vio-rel, l’ava della madre di Zoe, lo conoscevano molto bene tutti i vec-chi del paese… possibile che fosse stato proprio il conte Ealupul ad aver rovinato la reputazione della nobile Suzana? La ragazza si mise una mano nei capelli, tirandosi indietro il ciuffo, «Se la mia ava ha davvero avuto qualche legame con un aristocrati-co come il conte, deve averne passate di tutti i colori…» L’occhio le cadde sulle spigolose parole ammantate di polvere e sbiadite dai secoli; Mia cara Suzana ti porgo con orgoglio i miei ossequi per il tuo recente matrimonio, e offro a te e al tuo valente sposo tutta la mia benedizione. Rimembra come sia raro, in questi difficili tempi, trovare il vero amore e la giusta persona con cui trascorrere tutta la vita, ordunque sii felice della tua fortuna, mia cara. I nostri nobili genitori non hanno approvato la tua scelta, ma io ho parlato per difenderti e per darti tutto il mio sostegno… non lasciar-

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ti ostacolare dal loro giudizio, e non portare loro rancore, te ne prego: essi desiderano solo il nostro benessere. Ora, devo parlarti di una cosa molto importante, quindi assicurati di essere sola e lontana da occhi indiscreti. Mia cara Suzana, ricorderai certamente il mio esperimento relativo al Patto del Mor-to, risalente a sei mesi fa. Invero, questa notte ho il dovere morale di riprovarci. Conosco i nuovi doveri di una giovine sposa, e non è mia intenzione coinvol-gerti oltremodo perché sarebbe troppo… SBAM Zoe trasalì e le carte le caddero di mano, scivolando sul pavimento e sollevando una nube tossica di polvere. “Cos’è stato?!” pensò con orrore balzando in piedi. Nella villa non avrebbe dovuto esserci anima viva, a parte lei… era-no secoli che un essere umano non vi metteva piede, no? Cosa dia-mine poteva aver provocato un rumore tanto forte, nella desolazione assoluta? “Un cane randagio?” pensò con la gola stretta, uscendo in punta di piedi dallo studio del conte “un gatto magari… un pipistrello che ha fatto cadere qualcosa…” O forse… un fantasma. Zoe si bloccò dinanzi alla porta delle stanze private del conte. Era proprio da dietro a quell’uscio che aveva sentito lo schianto. Il cuo-re, che già da prima aveva preso a batterle forte nel petto, ora le o-stacolava il respiro lanciandosi con violenza contro la gola. “I fantasmi non esistono” si ripeté mille volte mentre posava le dita sulla maniglia dorata “non esistono, stupida. Non troverai nessun fantasma dietro a questa porta…” Ruotò la maniglia, pregando silenziosamente che l’uscio fosse chiu-so a chiave. Un clic metallico le disse che si era sbagliata.

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“Il conte è morto…” pensò strizzando gli occhi, spingendo la porta. Udì il grido arrugginito dei cardini. “E morto deve restare!” Fine anteprima.Continua...