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Francesco Fioretti Il libro segreto di Dante Newton Compton editori Trentaduesimo_Dante_DANTE/MOSAICO 17/05/11 12:23 Pagina 1

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Francesco Fioretti

Il libro segreto di Dante

Newton Compton editori

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Prima edizione: maggio 2011© 2011 Newton Compton editori s.r.l.

Roma, Casella postale 6214

ISBN 978-88-541-2985-6

www.newtoncompton.com

Realizzazione a cura di Corpotre, RomaStampato nel maggio 2011 da Puntoweb s.r.l., Ariccia (Roma)su carta PamoSuper della Cartiera Arctic Paper Mochenwangen

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13 settembre 1321

A metà dei miei giorni me ne andrò alle porte degli in-feri. Chissà perché proprio allora gli vennero in mente così,mentre appoggiava un piede a terra tastando cautamenteil suolo, quelle parole misteriose che aveva scritto il con-sigliere di Acaz di Giuda, il più grande tra i profeti del-l’era antica... Forse succede a tutti prima o poi, nel belmezzo di una vita, a trentacinque anni, quanti ne avevaanche lui: che si possa essere presi da un inesplicabilesenso di vuoto, come quando si danza sull’orlo del-l’abisso. Capita soprattutto se si è smarrita la via, e si ar-ranca irrequieti tra le spire malsane della solitudine, chetutto all’improvviso paia insulso, vanitas vanitatum, per-sino il fatto di essere dove si è, se si era partiti con altreaspirazioni. Se si vuole essere onesti con se stessi occorreammettere un mezzo naufragio, altrimenti si rischia diaggrapparsi a illusioni scadute, di crearsi un alibi per il

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fallimento, di proseguire il viaggio cullandosi tra le men-zogne poco rassicuranti di una falsa coscienza... Magari è solo un attimo quello in cui si percepisce l’in-ganno e si avverte, sopra di sé, il silenzio insopportabiledei cieli. Ebbe la strana sensazione, lì al buio, che davanti ai suoipiedi dovesse da un momento all’altro spalancarsi il ba-ratro. Il senso della vita degli altri, il senso della sua, lìdov’era, e le storie di tutti in quell’attimo gli parvero nonpiù importanti delle generazioni d’erbacce che si avvi-cendano nei prati. Avesse dovuto chiuderla così, si do-mandò quale fosse stato il significato di quell’incongruasequenza di fatti minimi che era stato il suo viaggio... Tuttavia non ebbe tempo d’indugiare a lungo su queipensieri. Forse perché aveva dovuto smontare dal suocavallo, e adesso lo conduceva tirandolo per le briglie. Eperché doveva stare molto attento a come avanzava, apiedi, molto lentamente e a fatica, nell’oscurità assolutadella foresta in cui si era perduto. Non aveva idea dicome fosse finito in quella selva inestricabile, grovigliodi sottobosco in cui rimaneva a ogni passo impigliato alleedere, ai rovi, agli agrifogli, che gli avevano lacerato i cal-zoni e il mantello. Sanguinava il braccio che aveva libero,e con cui cercava alla cieca di pararsi dai rami spinosi. Avolte sembrava che gli sterpi, spezzandosi, e i ciottoli,franando, pronunciassero un crepitio incomprensibile di

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consonanti, come il becero insulto d’un rauco giudiceinfernale. «Colpa tua»: gli parve persino di udire questeparole, in un rimbrotto di sterpaglie calpestate. E certoera solo la voce d’una coscienza inquieta, che suole tor-turare il torturato dalla sorte presentandogli le avversitàcome una punizione, e la punizione come l’effetto di unpeccato, qual esso sia. In verità non c’era colpa alcuna nell’esser finito lì comeun ladro braccato, nel seguire vie impervie per non ca-dere nelle mani di nemici ignoti, forse solo immaginari,e magari pronti a fargli pagare i presunti debiti di unaltro. La provincia d’Italia è così, una terra molto fati-cosa, una guerra di tutti contro tutti. Adesso lì, nelbosco, le fronde dei frassini erano talmente fitte che ne-anche un raggio di sole penetrava attraverso il fogliame.Nel buio avvertiva solo il nervosismo del cavallo. L’ariaera calda, immobile, la sua gola secca. Era sporco di terrae di sangue, e la sua sete era incolmabile. Cadde ancora una volta – più d’una era già caduto – eogni volta rialzarsi era più difficile. Si sforzava di mante-nere costante la rotta: se avesse proseguito sempre in unasola direzione, se non altro ne sarebbe uscito. Anche iboschi finiscono prima o poi, il peggio sarebbe stato in-vece girare a vuoto. E tuttavia quella gli parve, se ne fosseuscito vivo, un’esperienza carica di sovrasensi, così comecapita a volte, vivendo, che si proceda a tentoni, e che ci

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si armi nell’oscurità del cammino di un destino provvi-sorio; e ci si augura, procedendo senza sapere nulla, diuscire prima o poi alla luce, di ritrovare la via. Così è laselva del mondo. Ma faceva molta fatica a mantenersi su un percorso ret-tilineo: percepiva soltanto l’inizio di una salita, la forestaera in una valle, e dunque forse, procedendo verso la cre-sta del colle avrebbe ritrovato il sole e la strada che avevasmarrito, o comunque sarebbe cominciata la discesadell’ultimo tratto d’Appennino. Bisognava rimettersi inpiedi, non perdere la speranza della luce. Si rialzò, ma in-ciampò subito tra polloni freschi di carpini a ceppaia, ecadde, di nuovo, come corpo morto... Le ciglia allora glisi bagnarono di disperazione. Perché nella caduta, questavolta, aveva lasciato andare la briglia e aveva perso il ca-vallo, che non vedeva più. Chiuse gli occhi, e tentò di calmare l’agitazione.

Tra le lacrime che inumidivano i suoi occhi gli parve al-lora di percepire un bagliore, il lembo d’una veste biancache strisciava verso l’alto lungo il tronco d’un acero: unangelo, forse, o un fantasma femminile. Si asciugò gliocchi, alzò lo sguardo e vide che invece era semplice-mente una lama di luce che feriva le chiome impenetra-bili della foresta. L’anima gli si dilatò, come un fiume chediventa lago. Si appoggiò con la mano su un ginocchio e

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si rimise in piedi, fece ancora dei passi. La salita era piùripida e gli alberi si diradavano. Si disse: «È fatta». An-cora un passo e sbucò oltre il margine del bosco, che fi-niva su una landa deserta di terra rossa screpolata; ilpaesaggio gli parve irreale: un colle brullo dietro la cuicima si intuiva la luce di un sole nascente.E in lontananza, su quella terra riarsa vide la lettera elle,una grande elle maiuscola dal pelo maculato: era la Lynx,certo, la riconobbe... oppure un leopardo accovacciatoche si leccava una spalla? Si fermò spaventato e si chiesedove mai fosse finito. La terribile apparizione animalescaera ancora lì, immobile, e adesso lo fissava. Fu certo chesi trattasse di una visione demoniaca; era una figura can-giante, che mantenendo la posa a elle, stava assumendole fattezze del grande Leo: sì, era già il superbo leonedalla folta criniera, che si alzò imponente sulle quattrozampe, facendo tremare l’aria intorno. Pensò che la elledovesse essere un marchio luciferino, la cifra del re d’In-ferno. Spesso il Maligno assume le fattezze di animali chenon sono animali, tant’è che cambiano aspetto comeProteo l’informe: infatti ora la bestia si stava già tramu-tando nella Lupa, una lupa famelica, magrissima, vorace,che un attimo dopo la metamorfosi lo puntò. Una bestiaorribile ed enorme, che cominciava ad avanzare sba-vando verso di lui. Era rimasto immobile, pronto a scappare verso la fore-

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sta. Poi la lupa aveva iniziato a correre nella sua dire-zione, ma lui era come paralizzato e non riusciva a muo-versi. Si accorse del cane da caccia, il Vertragus, un veltroagilissimo? un levriero?... sbucato da chissà dove. S’eramesso a inseguire la lupa e adesso tutte e due le bestie sistavano avvicinando di corsa. Ma sembrava che il suocorpo non gli obbedisse più, che la sua anima se ne fosseseparata, e il pensiero di fuggire non si trasformava innessun movimento delle gambe. La lupa gli era già quasiaddosso. In preda al panico, pensò che fosse arrivata lafine, ma poi vide la terra che si ritirava terrorizzata. Videil suolo aprirsi davanti ai suoi piedi in una voragine senzafondo, la lupa sprofondarvi, con il veltro alle costole: giùgiù, fino al cuore magmatico della terra che la inghiottivanell’abisso da cui era stata sputata fuori.

Riaprì gli occhi, sudato, ancora in preda all’agitazioneper la scena terribile appena sognata, tanto che trovò per-sino rassicurante il fatto di risvegliarsi lì, nel buio ancorafitto della foresta infestata da veri lupi, nel posto in cui eracaduto l’ultima volta e dove s’era assopito. “Forse gli in-cubi servono a questo”, si disse, “a ritrovare familiare larealtà più opprimente del giorno che ci attende”. La stan-chezza doveva averlo vinto e gli aveva chiuso gli occhi.Aveva completamente perso la cognizione del tempo. Lotranquillizzò sentire il nitrito, lì vicino, del suo cavallo.

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Che cosa aveva sognato, poi? La scena del primo cantodella Commedia, che aveva riletto prima di partire: laLynx, il Leo, la Lupa, i tre simboli della lussuria, della su-perbia, dell’avidità, che nella selva oscura impedisconoa Dante la via verso la luce. Mai però aveva prestato at-tenzione a quel che il sogno adesso gli aveva rivelato: iloro nomi iniziavano tutti per elle, le tre bestie sarebberopotute essere altrettante manifestazioni dell’invidiaprima, di Lucifero che le ha partorite e a cui il Vertragus,il veltro, le rispedirà. Giunto a Ravenna, avrebbe raccon-tato il sogno a Dante Alighieri in persona, e insieme neavrebbero riso. Finalmente quello che era diventato ilpiù grande poeta del tempo gli avrebbe parlato, e luiavrebbe potuto chiedergli di persona tutto ciò che desi-derava sapere e manifestargli tutti i suoi interrogativi sulmagnifico poema che stava scrivendo. Gli avrebbe chie-sto a chi alludeva con il misterioso veltro del primo cantodella Commedia, e a chi poi con l’altro vendicatore, ilCinquecento diece e cinque, il DXV. Forse un dux, un con-dottiero, gli pareva di capire anagrammando le letterelatine del numero, l’enigmatico messo divino annunciatoalla fine del Purgatorio. C’erano tante cose da chiedere. Doveva solo proseguirein quelle tenebre, uscire dalla selva oscura, ritrovare lastrada verso il mare, verso l’alba, verso l’antica capitaledell’Occidente. Si guardò intorno, vide spuntare tra i

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rami alti degli alberi la luna prossima al tramonto. Levolse le spalle e proseguì nella direzione opposta, riaf-ferrando le briglie del suo cavallo. In direzione oppostaal tramonto, verso l’Adriatico, il mare da cui sorge il sole:adesso sapeva dove andare. Fortunatamente dopo pochipassi intravide un sentiero che fendeva il sottobosco, an-cora troppo impervio per percorrerlo a cavallo, ma al ter-mine del quale si trovò su uno sterrato più ampio.Rimontò sulla sua cavalcatura e corse a briglie sciolte inuna direzione che era a metà tra la stella polare e Venere,che brillava luminosa all’orizzonte, lì dove presto sa-rebbe sorto il sole. Lucifero, la stella del mattino, scòrta del sole nascente.Arrivò al galoppo sulla cresta dell’ultima collina primadel litorale, si fermò a far riposare il suo destriero e a cu-rarsi le verruche col lattice d’euforbia. Davanti a lui siapriva la pianura, con le mura illuminate, di una città sul-l’Adriatico che adesso si vedeva in lontananza. Il sole co-minciò ad affacciarsi proprio allora, un punto rosso sullimite estremo del mare a sud-est. Non c’era foschia, elo vide lentamente salire fino a diventare una palla difuoco appoggiata all’orizzonte. Lo aveva ammirato tra-montare sul Tirreno, qualche anno prima, ma mai sor-gere dal mare. “Alla gente che vive da queste parti”,pensò, “deve sembrare una cosa consueta, eppure è unascena che riempie di nuova energia. La natura si sveglia,

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gli uccelli iniziano a cantare tutti insieme, il giorno co-mincia in pochi attimi: è l’emozione dell’inizio, nella suaintensità più pura... Chissà se il poeta, negli ultimi anniha respirato quest’annuncio di nuova vita, se ancora sisveglia presto per non perdersi spettacoli come questo,adesso che vive qui, in riva all’Adriatico, dove il Po di-scende per trovare pace per sé e i suoi affluenti stanchidi Lombardia”. Si stese sotto un pino a riposare, prima di riprendere ilcammino.

Che fosse stata proprio quella la prima alba in cuiDante non avrebbe più riaperto gli occhi – quegli occhiche erano stati così sensibili a ogni minima vibrazionedella luce – lo seppe solo quando finalmente arrivò a Ra-venna e stava cercando la sua locanda alle vecchie casedei Traversari, nei pressi di San Vitale. Era entrato dallaPorta Cesarea infilandosi nella guaita di Sant’Agata Mag-giore, aveva attraversato un paio di ponti su ciò che re-stava dei canali dell’antica laguna, letti limacciosi di fiumidivenuti secche cloache, da cui esalava aspro lezzo di pu-trefazione: “il sepolcro a cielo aperto”, aveva pensato,“dell’Impero antico”. Era poi sbucato nella piazza dellachiesa della Resurrezione e aveva sentito un banditorecomunale fare il nome dell’altissimo poeta. Così avevaappreso che la salma di Dante Alighieri, cinta d’alloro e

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ornata come s’addice a uomo di tale grandezza, per vo-lere esplicito di messer Guido Novello da Polenta, si-gnore della città, sarebbe stata portata in processionedalla sua dimora ravignana fino alla chiesa dei Frati Mi-nori, dove l’indomani si sarebbe svolta la cerimonia fu-nebre. Un tuffo al cuore. Si era ritirato sotto un portico, tra-scinandosi dietro il cavallo, per nascondere le lacrime. Illungo viaggio che aveva fatto per arrivare fin lì, per par-lare con lui, l’unico che avrebbe potuto aiutarlo: tuttoinutile. Non avrebbe mai potuto nemmeno raccontarglidi come quella dell’immenso poema stava diventando lagrammatica dei suoi sogni.

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Si decise a entrare soltanto poco prima del tramonto,quando la folla s’era sciolta e l’andirivieni era terminato.La chiesa che a Ravenna qualcuno chiamava ancora diSan Pier Maggiore, e che adesso era dei frati di San Fran-cesco, era immersa in una quieta penombra irrorata d’in-censo. Erano accese solo poche torce alle pareti, tra gliaffreschi ingrigiti di nerofumo. Non c’era quasi più nessuno: soltanto una sorella diSanto Stefano degli Ulivi a vegliare sulla salma collocatadavanti all’altare. Lui sapeva bene chi fosse quella donna:Antonia, di sicuro, la figlia di Dante e di Gemma, entratain monastero col nome di suor Beatrice. Ormai nessunaltro sostava vicino al letto funebre, qualche fedele an-cora a pregare, in ginocchio, in fondo alla chiesa, e quat-tro armigeri del Polentano a due a due ai lati dell’altare,i quali, ora che la situazione era tranquilla, si erano sedutia riposare sui seggi di legno dei Frati Minori. Tra la po-polazione c’era anche chi credeva che Dante, all’Inferno,ci fosse andato davvero in carne e ossa, quand’era vivo,

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e correva la diceria che fosse dotato di poteri sopranna-turali: la superstizione avrebbe anche potuto portare adatti di profanazione, a prender pezzi di stoffa o persinobrandelli di carne del morto come amuleti, per scongiu-rare la malasorte, come accadeva coi santi. Quattro mi-litari evidentemente bastavano a tener lontane quellecrudeli manifestazioni di follia plebea.Rimase fermo alle spalle della figlia, che pregava ingi-nocchiata ai piedi del padre. Il poeta era lì, mani in crocesul petto, ferita bianca sul vestito nero. Lo salutò in cuorsuo. «Grazie di tutto, maestro», gli disse. Lo immaginòcamminare un po’ curvo come lo aveva visto tempo ad-dietro, avanzare a passi lenti verso la luce accecante incui pian piano lo vedeva dissolversi. Era passato in que-sto mondo, e il mondo non sarebbe stato più lo stesso. Sentì proprio in quell’istante la monaca singhiozzare edovette mordersi le labbra per non mettersi a piangereanche lui. Antonia si alzò in lacrime, rimase un attimoferma, poi si avviò in fretta, nascondendo il volto, versola porta che conduceva alla sagrestia, dietro la quale sparì.Allora si avvicinò lentamente al morto, e lo osservò. Videche aveva il volto sereno, appena un po’ accigliato, comequando era assorto nei suoi pensieri. Era magro e leguance, scavate in due solchi ai lati della bocca, facevanorisaltare, più di quanto ricordasse, le larghe mandibole.La fronte alta, che gli sembrò gigantesca, era coronata

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d’alloro. Notò che aveva le labbra nere, e questa circo-stanza lo inquietò. Di cosa era morto? In giro si dicevadella malaria delle paludi di Comacchio, mentre si recavaa Venezia per conto del Polenta. Come il suo amico d’untempo, Guido Cavalcanti, il destino aveva voluto che fos-sero accomunati dalla stessa morte: i veleni dell’aria,quando erano sopravvissuti a quelli della politica. Da medico, era abituato a vedere volti senza vita, corpiabbandonati dall’anima, e quasi non ne aveva più paura.Ma adesso gli si stringeva il cuore, come se si fosse spentadi colpo una parte importante del suo mondo, oscurataper sempre una zona ampia dell’universo in cui viveva.Le labbra nere gli parvero però indizio d’altra sorta diveleni che quelli dell’aria. Si ricordò d’un tale che eramorto intossicato, di cui a Bologna, col suo maestro aver-roista, aveva fatto l’autopsia. Gli tornò in mente il climada società segreta, da setta iniziatica, che avvolgeva que-gli esperimenti ispirati dai trattati arabi, e in odore d’ere-sia. C’era il gusto del proibito, il fascino insieme dellascoperta e della profanazione. Non riuscì a resistere allacuriosità, all’impulso di ripetere quell’antica esperienza.Sbirciò intorno a sé per vedere se qualcuno lo stesseguardando e gli parve di no. Allora prese una mano delpoeta e ne esaminò attentamente il palmo e le unghie.Poi, vinta un’iniziale ripugnanza, cominciò ad aprirgli labocca, con l’intenzione di osservargli la lingua, quando

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alle sue spalle si levò un urlo: «Cosa fa quello lì? Ehi, uo-mini di guardia!». «Blasfemia!», urlò un’altra voce, «blasfemia!». Un ar-migero gli fu subito addosso allontanandolo dal volto diDante. Un altro si precipitò ad afferrarlo per i piedi, eun terzo gli sferrò un pugno mentre cercava di spiegare. «Un mago, uno stregone!», diceva qualcuno, e gli si eragià formato intorno un piccolo crocchio di gente, curiosae vogliosa di menar le mani. «Al rogo, al rogo!». Riuscì a dire: «Per carità!», e a malapena a scongiurare:«Fatemi parlare con Iacopo Alighieri, suo figlio, possospiegargli tutto...». L’uomo che aveva di fronte aveva giàpreso la rincorsa e la mira per un secondo pugno, meglioassestato del primo. Fortunatamente, richiamata da quelvocio, ricomparve Antonia e chiese alle guardie cosastesse accadendo. Così la vide in faccia, per quanto in parte coperta dalvelo, e anche nella confusione del momento notò la suabellezza. Era ancora molto giovane, gli occhi verdi lucididi pianto e lo sguardo profondo, vivace, che lo scrutava,e dava segno d’aver capito al volo che da lui non c’eraniente da temere: «Chi siete voi, signore, cosa volete?»…

(Continua in libreria…)

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