Il sangue dei Martiri è seme di nuovi cristiani Aprile 2016... · mo che suor Faustina Kowalska fu...

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La festa della Divina Mi- sericordia è stata istitui- ta ufficialmente da Gio- vanni Paolo II nel 1992 che la fissò per tutta la Chiesa nella prima do- menica dopo Pasqua, la cosiddetta “Domenica in albis”. Il card. Franciszek Ma- charski con la Lettera Pastorale per la Quaresi- ma (1985) ha introdotto la festa nella diocesi di Cracovia e seguendo il suo esempio, negli anni successivi, lo hanno fat- to i vescovi di altre dioce- si in Polonia. Il culto del- la Divina Misericordia nella prima domenica dopo Pasqua nel santua- rio di Cracovia - Lagie- wniki era già presente nel 1944. La partecipa- zione alle funzioni era così numerosa che la Congregazione ha otte- nuto l'indulgenza plena- ria, concessa nel 1951 per sette anni dal card. Adam Sapieha. Dalle pagine del Diario sappia- mo che suor Faustina Kowalska fu la prima a celebrare individualmen- te questa festa con il permesso del confesso- re. Gesù, secondo le visioni avute da suor Faustina e annotate nel Diario, par- lò per la prima volta del desiderio di istituire que- sta festa a suor Faustina a Płock nel 1931, quando le trasmetteva la sua volontà per quanto riguardava il quadro: "Io desidero che vi sia una festa della Miseri- cordia. Voglio che l'immagi- ne, che dipingerai con il pennello, venga solenne- mente benedetta nella pri- ma domenica dopo Pa- squa; questa domenica deve essere la festa della Misericordia". Negli anni successivi Gesù è ritorna- to a fare questa richiesta addirittura in 14 apparizio- ni definendo con precisio- ne il giorno della festa nel calendario liturgico della Chiesa, la causa e lo scopo della sua istituzione, il mo- do di prepararla e di celebrarla come pure le grazie ad essa legate. La scelta della prima domenica dopo Pasqua ha un suo profondo senso teologico: indica lo stretto legame tra il mistero pasquale della Redenzione e la festa della Mi- sericordia, cosa che ha notato anche suor Faustina: "Ora vedo che l'opera del- la Redenzione è collegata con l'opera della Misericordia richiesta dal Signore". Questo legame è sottolineato ulterior- mente dalla novena che precede la festa e che inizia il Venerdì Santo. Gesù ha spiegato la ragione per cui ha chiesto l'istituzione della festa: "Le anime peri- scono, nonostante la Mia dolorosa Pas- sione (...). Se non adoreranno la Mia mi- sericordia, periranno per sempre". La preparazione alla festa deve essere una novena, che consiste nella recita, comin- ciando dal Venerdì Santo, della coronci- na alla Divina Misericordia. Questa nove- na è stata desiderata da Gesù ed Egli ha detto a proposito di essa che "elargirà grazie di ogni genere". Per quanto riguarda il modo di celebrare la festa Gesù ha espresso due desideri: - che il quadro della Misericordia sia quel giorno solennemente benedetto e pubbli- camente, cioè liturgicamente, venerato; - che i sacerdoti parlino alle anime di questa grande e insondabile misericordia Divina e in tal modo risveglino nei fedeli la fiducia. "Sì, - ha detto Gesù - la prima do- menica dopo Pasqua è la festa della Misericordia, ma deve esserci anche l'azione ed esigo il culto della Mia misericordia con la solenne celebrazione di questa fe- sta e col culto all'immagine che è stata dipinta". II DOMENICA DI PASQUA II DOMENICA DI PASQUA II DOMENICA DI PASQUA Il sangue dei Martiri è seme di nuovi cristiani APRILE 2016, anno V TEMPO PASQUALE ORE 17.45 VESPRI DEL GIORNO

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La festa della Divina Mi-sericordia è stata istitui-ta ufficialmente da Gio-vanni Paolo II nel 1992 che la fissò per tutta la Chiesa nella prima do-menica dopo Pasqua, la cosiddetta “Domenica in albis”. Il card. Franciszek Ma-charski con la Lettera Pastorale per la Quaresi-ma (1985) ha introdotto la festa nella diocesi di Cracovia e seguendo il suo esempio, negli anni successivi, lo hanno fat-to i vescovi di altre dioce-si in Polonia. Il culto del-la Divina Misericordia nella prima domenica dopo Pasqua nel santua-rio di Cracovia - Lagie-wniki era già presente nel 1944. La partecipa-zione alle funzioni era così numerosa che la Congregazione ha otte-nuto l'indulgenza plena-ria, concessa nel 1951 per sette anni dal card. Adam Sapieha. Dalle pagine del Diario sappia-mo che suor Faustina Kowalska fu la prima a celebrare individualmen-te questa festa con il permesso del confesso-re. Gesù, secondo le visioni avute da suor Faustina e annotate nel Diario, par-lò per la prima volta del desiderio di istituire que-

sta festa a suor Faustina a Płock nel 1931, quando le trasmetteva la sua volontà per quanto riguardava il quadro: "Io desidero che vi sia una festa della Miseri-

cordia. Voglio che l'immagi-ne, che dipingerai con il pennello, venga solenne-mente benedetta nella pri-ma domenica dopo Pa-squa; questa domenica deve essere la festa della Misericordia". Negli anni successivi Gesù è ritorna-to a fare questa richiesta addirittura in 14 apparizio-ni definendo con precisio-ne il giorno della festa nel calendario liturgico della

Chiesa, la causa e lo scopo della sua istituzione, il mo-do di prepararla e di celebrarla come pure le grazie ad essa legate. La scelta della prima domenica dopo Pasqua ha un suo profondo senso teologico: indica lo stretto legame tra il mistero pasquale della Redenzione e la festa della Mi-

sericordia, cosa che ha notato anche suor Faustina: "Ora vedo che l'opera del-la Redenzione è collegata con l'opera della Misericordia richiesta dal Signore". Questo legame è sottolineato ulterior-mente dalla novena che precede la festa e che inizia il Venerdì Santo. Gesù ha spiegato la ragione per cui ha chiesto l'istituzione della festa: "Le anime peri-scono, nonostante la Mia dolorosa Pas-sione (...). Se non adoreranno la Mia mi-sericordia, periranno per sempre". La preparazione alla festa deve essere una novena, che consiste nella recita, comin-ciando dal Venerdì Santo, della coronci-na alla Divina Misericordia. Questa nove-na è stata desiderata da Gesù ed Egli ha detto a proposito di essa che "elargirà grazie di ogni genere". Per quanto riguarda il modo di celebrare la festa Gesù ha espresso due desideri: - che il quadro della Misericordia sia quel giorno solennemente benedetto e pubbli-

camente, cioè liturgicamente, venerato; - che i sacerdoti parlino alle anime di questa grande e insondabile misericordia Divina e in tal modo risveglino nei fedeli la fiducia. "Sì, - ha detto Gesù - la prima do-menica dopo Pasqua è la festa della Misericordia, ma deve esserci anche l'azione ed esigo il culto della Mia misericordia con la solenne celebrazione di questa fe-sta e col culto all'immagine che è stata dipinta".

II DOMENICA DI PASQUAII DOMENICA DI PASQUAII DOMENICA DI PASQUA

Il sangue dei Martiri è seme di nuovi cristiani

APRILE 2016, anno V

TEMPO PASQUALE ORE 17.45

VESPRI DEL GIORNO

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Fratelli e Figli di Roma e del mondo! Risuoni ancora una volta, nel corso dei secoli e sulla faccia della terra, in quest’anno di grazia 1964, terzo del Concilio Ecumenico Vaticano secondo, da questa Città, che segna l’incontro della civiltà umana col disegno divino sulla salute del mondo, risuoni l’annuncio potente e beato: Cristo è risorto. Quel Gesù, che nacque a Betlem da Maria Vergine, che fu vaticinato dai Profeti e fu Maestro in mezzo al popolo d’Israele, che fu da alcuni riconosciuto ed amato, da molti respinto, e poi esecrato, condan-nato, crocifisso, e morì e fu sepolto, è risorto, è veramente risorto, al mattino del terzo giorno; ha ripreso vita vera, nuova, soprannaturale, vincendo per sempre la grande nemica, la morte. È risorto. Come possiamo noi fare echeggiare nel mondo una tale notizia? Fratelli e Figli: ascoltate. Noi siamo testimoni di questo fatto. Siamo la voce, che si perpetua di anno in anno nella storia, siamo la voce che si diffonde in cerchi sempre più larghi nel mondo, siamo la vo-ce che ripete la testimonianza irrefragabile di coloro che primi lo videro con i propri occhi e lo tocca-rono con le loro mani e avvertirono la novità e la realtà del fatto trionfante sugli schemi d’ogni natu-rale esperienza; siamo i tra- smettitori, da una generazione all’altra, da un popolo all’altro, del messaggio di vita della risurrezione di Cristo. Siamo la voce della Chiesa, per questo fon-data, per questo diffusa nell’umanità, per questo militante, per questo vivente e speran- te, per questo pronta a confermare col proprio sangue la propria parola. È il messaggio della fede, che, come tromba d’angelo, squilla ancor oggi nel cielo e sulla terra: è risorto. Il Cristo è risorto. Ora, Fratelli e Figli, ascoltate ancora. Il fatto della risurrezione di Cristo riguarda, sì, la sua storia, ch’è il Vangelo, riguarda la sua vita, che si è manifestata umana e divina, vivente nella Persona del Verbo di Dio; ma riguarda noi altresì. In Gesù Cristo si rea- lizza un disegno di Dio; il mistero, celato per secoli, della reden- zione dell’umanità, è rivelato; in Cri-sto noi siamo salvati. In Cri- sto si concentrano i nostri destini, in Cristo si risolvono i nostri drammi, in Cristo si spiegano i nostri dolori, in Cristo si profilano le nostre speranze. Non è un fatto isolato la risurrezione del Signore, è un fatto che riguarda tutta l’umanità; da Cristo si estende al mondo; ha un’importanza cosmica. Ed è meraviglioso: quel prodigioso avvenimento si ri-verbera sopra ogni uomo venuto a questo mondo con effetti diversi e drammatici; investe tutto l’albero genealogico dell’umanità; Cristo è il nuovo Adamo, che infonde nella fragile, nella mortale cir-colazione della vita umana naturale un principio vitale nuovo; ineffabile, ma reale, un principio di pu-rificante rigenerazione, un germe di immortalità, un rapporto di comunione esistenziale con Lui, Cri-sto, fino a partecipare con Lui, nel flusso del suo Spirito santo, alla vita stessa dell’infinito Iddio, che in virtù sempre di Cristo possiamo chiamare beatamente Padre nostro. Bisogna molto riflettere su questo valore universale della risurrezione di Cristo; deriva da questo valo-re il senso del dramma umano, la, soluzione del problema del male, la genesi d’una nuova forma di vita, che si chiama appunto il Cristianesimo. Ricordate il canto del diacono all’inizio della cerimonia di questa notte, un canto ch’è il poema più alto sui destini umani; appena si riferisce alla sua sorgente, cioè alla risurrezione di Cristo, per distendersi subito in immense e incomparabili effusioni sulla storia della salvezza, ch’è la storia alla quale tutti siamo inevitabilmente interessati. Scoperta questa nostra solidarietà con la risurrezione del Signore, sgorgano da sé molte conseguenze, tutte grandi, tutte am-mirabili, di cui una è questa: la restaurazione - potremmo forse dire la risurrezione - del senso religio-so nella coscienza degli uomini.

E’ risorto

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Sul fatto reale della risurrezione di Cristo si fonda la religione, che da Lui prende il nome e la vita; ed è tale la luce, la forza, la felicità, la santità che scaturiscono dalla fede accesa da Lui nel mondo, che la reli-gione cristiana offre non solo pienezza di pace e di gaudio a chi di cuore la professa, ma irradia intorno a sé un invito, sveglia un desiderio, genera un’inquietudine, presenta un bersaglio, che terranno desto per sempre il problema religioso nel mondo. Dovremmo Noi ricordare, in questo momento, la crisi del senso religioso, che si è prodotta in tanti uomini del nostro tempo, per motivi che avrebbero dovuto invece svegliarlo; i motivi derivanti dal progresso cul-turale, scientifico, tecnico, sociale, i quali hanno inebriato la coscienza dell’uomo moderno, generando la persuasione, che sta mutandosi in delusione, di poter lui essere a se stesso maestro e salvatore, di non aver d’altri bisogno per risolvere i problemi fondamentali e tuttora oscuri, sempre più oscuri della sua vita, e d’essere lui capace di saziare l’insaziabile sete di conoscenza, di esistenza, di felicità e di amore, che gli nasce e gli cresce dentro man mano che si approfondisce e si allarga il suo dominio sulla natura che lo circonda. Sappiamo quali sono le condizioni degli animi attraversati da questa esperienza caratteristica del nostro tempo; esasperati gli uni nella negazione accecata da scientismo invecchiato, inquieti altri, apatici molti e alienati e quasi rassegnati a che la vita manchi di senso e di scopo; impensieriti altri non pochi, fra i più riflessivi, per il decadere di quel senso religioso, che è alla base delle più solide e più genuine costruzioni dello spirito umano. Qualunque sia la posizione nei riguardi della religione, di voi, uomini d’oggi che Ci ascoltate, Noi rivolgia-mo a tutti dal punto vertice, in cui Ci pone la Pasqua cristiana, l’invito ad accogliere il messaggio di luce, che viene al mondo dalla risurre-zione di Cristo: questo è tale avveni- mento da costituire al tempo stesso argomento per credere in Lui ed oggetto da credere di Lui; è all’apice dell’umana ragione, che cer- ca e vuol vedere e vuol sapere; ed è all’inizio della soverchiante cer- tezza della verità religiosa accet-tata per fede, che inonda lo spirito della forza e della soavità della Parola di Dio. Oggi l’uomo ha bisogno di riavere, collaudato dalla maturità critica del pensiero moderno e dall’esperienza agitata dell’evoluzione sociale, un concetto giusto e fermo su di sé, sulla propria vita. Ha bisogno d’una luce che da se stesso trovare non può. Chi di voi ha assistito al rito sim- bolico e gentile, estremamente espressivo, che ha rallegrato la veglia dei fedeli, deve risentire l’eco crescente del triplice annuncio all’accensione del candido cero: «Lumen Christi»: ecco il lume di Cri- sto! La luce splende nelle tene-bre, proclama il prologo del Vangelo di Giovanni. Bisogna avere la sa-pienza, il coraggio e la gioia di rispon- dere: Deo gratias! Grazie, o Dio, che nella Pasqua di Cristo hai acceso una luce provvidenziale nell’oscurità del panorama umano e cosmico. Ogni religione ha in sé bagliori di luce, che non bisogna né disprezzare né spegnere, anche se essi non sono sufficienti a dare all’uomo la chiarezza di cui ha bisogno, e non valgono a raggiungere il miracolo della luce cristiana, che fa coincidere la verità con la vita; ma ogni religione ci solleva alla trascendenza dell’Essere, senza di cui non è ragione per l’esistere, per il ragionare, per l’operare responsabile, per lo sperare senza illusione. Ogni religione è alba di fede; e noi l’attendiamo a migliore aurora, all’ottimo splen-dore della sapienza cristiana. . Ma a chi non ha religione o a chi l’avversa Noi rivolgeremo preghiera di non condannarsi da sé al peso di dogmi irrazionali, alle contraddizioni del dubbio senza pace e dell’assurdo senza scampo, o allE maledizioni della disperazione e del nulla. Forse non pochi di voi hanno della religio-ne concetti imprecisi e ripugnanti; forse pensano della fede ciò che precisamente non è: offesa al pensie-ro, catena al progresso, umiliazione dell’uomo, tristezza alla vita. Forse alcuni di voi sono più avidi e perciò inconsciamente più atti a cogliere il lampo della luce, perché, se non dormono nell’ignavia e nell’ignoranza, l’oscurità del loro ateismo dilata le loro pupille verso un affannoso sforzo di decifrare al bu-io il dove e il perché delle cose.

Giubileo della Parrocchia 5 Giugno al Divino Amore

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Noi non daremo oggi della luce pasquale che un solo raggio, per tutti quelli che lo vogliono acco-gliere, come augurio, come dono, come segno almeno della Nostra somma dilezione, ma special-mente per voi cristiani, per voi fedeli cattolici, che siete già aperti a questa fulgurazione. È il rag-gio primo della Pasqua, cioè della vita risorta in Cristo e in noi che cristiani vogliamo essere; ed è la gioia. Il cristianesimo è gioia. La fede è gioia. La grazia è gioia. Ricordate questo, o uomini, figli e fratelli ed amici. Cristo è la gioia, la vera gioia del mondo. La vita cristiana, sì, è austera; essa conosce il dolore e la rinuncia, esige la penitenza, fa proprio il sacrificio, accetta la croce e, quando occorre, affronta la sofferenza e la morte. Ma nella sua e-spressione risolutiva la vita cristiana è beatitudine. Ricordate il discorso-programma di Cristo, ap-punto sulle beatitudini. Così che essa è sostanzialmente positiva; essa è liberatrice, purificatrice, trasformatrice: tutto in essa si riduce a bene, tutto perciò a felicità nella vita cristiana. Essa è u-mana. Essa è più che umana, pervasa com’è da una presenza viva e ineffabile, lo Spirito consola-tore, lo Spirito di Cristo, che la conforta, la sorregge, la abilita a cose superiori, la dispone a cre-dere, a sperare, ad amare. È sovranamente ottimista. È creativa. È felice oggi, in attesa d’una piena felicità domani. Perché sostiamo su questo aspetto della festa pasquale? Perché risolviamo la vita religiosa in feli-cità umana? È facile intendere. Perché vogliamo a tutti augurare di sperimentare il cristianesimo, il quale altro non è che la derivazione del mistero pasquale, nei suoi termini veri, che sono quelli della soluzione e della soddisfazione dei pro-blemi umani! A voi, perciò, che soffrite, specialmente, auguriamo la buona Pasqua; a voi che ancora avete fame e sete di giustizia, a voi che lavorate, a voi che faticate, sia buona e consolatrice la Pa-squa. A voi giovani, che avete l’istinto della felicità, auguriamo che ne sappiate scoprire la sorgente, al di là dello schermo sensibile, al di là del piacere, al di là del successo, nella realtà profonda della vita, che solo Cristo disve- la. A voi, cristiani, specialmente, affinché sappiate gustare ciò che possedete, e affinché possiate dare al mondo l’apologia, di cui oggi esso ha bisogno, quella della vera gioia, mandiamo l’augurio pasquale. E mentre lo allarghiamo a Roma, alla Chiesa, ai fratelli ancora da noi separati, ai credenti in Dio, e anche a quelli che tuttora non cre-dono o non credono più, e mentre abbiamo un pensiero di cordiale commiserazione per le vit- time delle sventure, di cui questa notte è venuta notizia, diamo a tutta l’umanità, diamo al mondo, come testimoni della verità e della vita, la Nostra Benedizione Apostolica.

Beato Paolo VI, 29 Marzo 1964

ll Pellegrinaggio giubilare FARFA 21 MAGGIO 2016

LA CONFESSIONE Confessio laudis Confessio vitae Confessio fidei

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INTRODUZIONE a. la vita

Per indicare la visita al malato l'ebraico usa a volte il verbo raah, che significa "vedere" (cf. 2Re 8,29; 9,16; Sal 41,7), ma questo “andare a vedere il ma-lato” significa più in profondità “ascoltare” il malato stesso, lasciare che sia lui a guidare il rapporto, non fa-re nulla di più di quanto egli consente, attenersi al qua-dro relazionale che egli pre-senta. Il malato è il mae-stro! È lui che ha un magistero al cui ascolto il visita-tore è chiamato a mettersi. Ecco allora due domande essenziali per colui che si reca a visitare un malato: per-ché visitare un malato? Comevisitare un mala-to? L'at-to di “visitare/vedere” implica apprezzamento, conside-razione, provvidenza, conoscenza. Essere visti/visita-ti deve cioè significare un essere apprezzati, stimati e considerati, avere valore per qualcuno. E il malato po-trà co-gliere, nell'interesse e nella cura che gli ha mo-strato il visitatore, un segno della sollecitudine e della cura che il Si-gnore stesso ha per lui. b. la Parola

L'atto di visitare i malati è attestato, seppur raramen-te, nelle Scritture: Ioas, re di Israele, visita Eliseo, ma-lato della malattia che lo condurrà alla morte (cf. 2Re 13,14); Acazia, re di Giuda, va a trovare Ioram, re di Israele, che è malato (cf. 2Re 8,29; 9,16; 2Cr 22,6); il profeta Isaia visita il re Ezechia (cf. Is 38,1; 2Re 20,1).

Più interessanti sono, però, le testimonianze presen-ti nel libro di Giobbe e nei Salmi. Lì è attestata l'usan-za del-la visita al malato da parte di amici (cf. Gb 2,11- 13), parenti (cf. Gb 42,11), conoscenti (cf. Sal 41): si tratta sempre di persone che hanno con il malato rap-porti di conoscenza, amicizia o parentela, ma che ven-gono sentite dal malato come ostili. Nell'Antico Te- stamento manca la testimo-nianza della buona riuscita del rapporto dei visitatori con il malato: essi restano ir- rimediabilmente lontani dal malato. Questo aspetto "fal- limentare" rende interessante e provocatorio accostar-si alla testimonianza di Giobbe e dei Salmi.

Il libro di Giobbe è anche la storia di amici che di-ventano nemici mentre compio- no il pietoso atto di an-dare a trovare il malato. E la storia di persone che vo-gliono con-solare (cf. Gb 2,11) e che vengo- no bollate come “consolatori stucchevol i ” (Gb 16,2), “raffazzonatori di menzo-gne” (Gb 13,4), “medici da nul- la” (Gb 13,4). Essi compio-no i gesti rituali del lutto e del do-lore (cf. Gb 2,12-13), sembrano amici sinceri, ma in verità falliscono l'incontro con il malato.

Gli amici di Giobbe sbaglia- no non semplicemente per-ché non comprendono che il capezzale di un mala-to non è il luogo adatto a una lezione di teologia, ma soprattutto perché vanno da lui pieni di certezze, di sapere e di potere. Essi “sanno” che la malattia di un uomo nasconde qualche colpa commessa di cui essa sa-rebbe la punizione: secon-do loro, Giobbe dovrà pentir-si, confessare la colpa, e così sarà guarito. In questo mo-do, essi fanno di una vittima un colpevole. Presumo-no di “sapere” ciò di cui il malato ha bisogno meglio del malato stesso e sono convinti di posse-dere i requisi-ti per consolarlo efficacemente. Presentandosi come sal-vatori essi innescano un triangolo perverso in cui fanno del malato una vittima divenendo i suoi persecutori, e diventano a loro volta i bersagli delle accuse del mala-to. I due attori del dramma, visitatori e malato, entra-no in un complesso rapporto in cui rivestono entrambi, di volta in volta, le vesti del persecutore e della vitti-ma, e questo a partire dalla pretesa iniziale dei visitato-ri di essere dei salvatori. Ponendo se stessi come coloro che “possono” aiutare e consolare il “povero Giobbe”, si ergono a suoi salvatori diventando, nell'atto stesso, i suoi persecutori. Insomma, quando si esercita quella delicata arte che è la visi-ta al malato, occorre entrarenella coscienza che non si ha potere sul malato. Non bastano le buone intenzioni per compiere in modo ade-guato la visita a un malato, anzi, queste intenzioni pos-sono essere pericolose proprio nella loro ottusa bontà. Il rischio è di non incontrare colui che si visita, di es-sere rafforzati dalla sua debolezza e gratificati dal ge-sto “buono” che si sta compiendo.

Nella situazione di solitudine e impotenza in cui spes-so si trova, il malato chiede, a chi gli si fa vicino, di es-sere ascoltato; chiede di essere accettato nella sua situa-zione, anche se ciò che è, fa o dice non dovesse incon-trare l'ap-provazione dei visitatori. Dice Giobbe: “Per il malato c'è la lealtà degli amici, anche se rinnega l'On-nipotente” (Gb 6,14; cf. 19,21). “Ascoltate la mia pa-rola, sia questa la consolazione che mi date” (Gb 21,2;cf. 13,6). Ascoltare è lasciar essere presente l'altro e vistare il malato significa riconoscere e rispettare il suo spazio, guardandosi bene dall'occuparlo. Nel salmo 41 si parla di persone che visitano un ma-lato e della reazione del malato di fronte a loro: egli li sente co-me presenze ostili (cf. vv. 5-10). Li sente co-me nemici perché ritengono mortale la sua

VISITARE GLI INFERMI

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malattia, perché non lasciano speranza a colui che sta lottando contro la morte, perché attendono solo la sua morte. Chi viene a visitarmi dice parole false, raccoglie cattiverie nel suo cuore e, uscito, sparla nelle piazze. Contro di me mormorano i miei nemici, contro di me enumerano le mie sventure: "L'ha colpito un male incurabile, non si alzerà più dal letto in cui giace" (Sal 41,7-9).

Agli occhi del malato essi dicono il falso: si tratta del-le parole di circostanza, inconsistenti, permeate da falso ottimismo, vacuamente rassicuranti, che pronunciano davanti a lui quando lo vanno a trovare, mentre fuori, nelle piazze, con le altre persone dicono tutt'altro cir-ca la sua situazione. O almeno il malato intuisce, sospet-ta questa doppiezza. Egli si sente oggetto di discorso, in balia di altri: il suo dolore e il suo dramma restano estranei agli altri. Infatti, il declino delle forze, l'impo-tenza, la distanza incolmabile fra il malato e i sani, può produrre in lui la tenta-zione di rendere gli altri, per il solo fatto che sono sani, responsabili del suo male. Nel-la malattia si manifestano spesso alterazioni psichiche, squilibri, turbe che accompagnano il malato nel suo cal-vario e che inficiano i rapporti con il suo entourage. c. la vita nuova

Nonostante questa testimonianza biblica lucida e im-pietosa sull'atto di visitare i malati, il passo di Siraci-de 7,35 afferma: “Non esitare nel visitare gli ammala-ti, perché per questo sarai ama- to”. Ovvero, visitando il ma-lato, l'uomo attua il coman- do di amare il prossimo (cf. Lv 19,18) ed è a sua volta riamato (cf. Sir 7,35b). Que-sto testo deuterocanonico va situato nel momento iniziale della tradizione giudaica delle opere di miseri-cordia che si svilupperà nel rabbi- nismo e di cui abbia-mo eco nelle opere di misericordia menzionate in Mt 25,31-46. Nella letteratura postbiblica è sentito co-me particolar-mente importante il compito di visitare i malati. Ha detto rabbi Aqiva (morto nel 135 d.C.): “Se qualcuno non visita un malato, è come se versas- se san-gue”; e ancora: “Chi visita un malato gli toglie un ses-santesimo del suo dolo-re”.

Il testo di Matteo 25,31- 46 risente del radicamento giudaico, ma l'aspetto innovativo e sconcertante che esso presenta è che Cristo, il Giudice veniente nella glo-ria alla fine dei tempi, il Re davanti a cui saranno radu-nate tutte le genti, si identifica con il malato, e non con il visitatore, come ci si potrebbe aspettare. Dunque, nella visita al malato si è di fronte a una persona la cui dignità deve essere riconosciuta.

Inoltre, il malato riveste una sacramentalità cristica: l'espressione “il malato sacramento di Cristo” significa che il malato chiede al visitatore di entrare in una di-mensione di spoliazione, di impotenza e di povertà, di-mensione nella quale soltanto può avvenire l'incontrodurante il quale sarà il malato stesso, nella sua impoten-za e nella sua povertà, a condurre il visitatore alla so-miglianza con il Cristo che “da ricco che era si fece po-vero”(2Cor 8,9).

Nel passo di Atti 28,7-10 Luca narra di quando Pao-lo fu accolto, nell'isola di Malta, in casa di un certo Pu-blio: “Avvenne che il padre di Publio dovette metter-si a letto colpito da febbri e da dissenteria; Paolo lo an-dò a visitare e dopo aver pregato gli impose le mani e lo guarì” (vv. 8-9).

Il testo presenta una struttura articolata nel modo seguente: visita-preghiera-imposizione delle mani, che si ritro-va, mutata in visita-preghiera-unzione con olio, in Giacomo 5,14-15: “Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel no-me del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e, se ha commesso pec-cati, gli saranno perdonati”.

Qui emerge la dimensione ecclesiale della visita al malato: essa non è un'opera isolata, un atto individua-le, ma espressione del corpo comunitario in cui ogni membro ha cura delle altre membra, specialmente le più deboli (cf. 1Cor 12,12-27). Per questo la visita al malato può essere intesa come culto esistenziale: “Da-vanti a Dio, il Padre, culto puro e senza macchia è que-sto: visitare le vedove e gli orfani nella loro sventura” (Gc 1,27).

In un antico testo cristiano la visita al malato è as-sociata a quella alla vedova, all'orfano e al povero: “I presbite-ri ... facciano visita a tutti i malati, senza tra-scurare la vedova, l'orfano e il povero”. Essa si inseri-sce in un coerente atteggiamento di fondo in cui “io” vivo “grazie all'altro”, “per l'altro” e “con l'altro”. Co-me gli incontri di Gesù con malati si collocano nel quadro della sua pro-esistenza, così al credente è chiesto di vivere non per sé, ma per gli altri, con gli altri, gra-zie agli altri, soprattutto coloro che sono nel bisogno.

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SANTI E CARITA’ Aethiopum semper servus: all’epoca sua si chiamavano “etiopi” tutti i neri. E lui, dicendosi “semper servus”, si

impegna a vivere solo per loro. Cioè per i neri d’Africa, portati schiavi nell’America meridionale. Questo è il pro-

gramma che s’impone Pietro Claver nell’aprile 1622 a Cartagena (Nueva Granada, detta poi Colombia) nel

compiere la “professione definitiva”, l’atto che segna per sempre la sua piena appartenenza alla Compagnia di

Gesù. Nato presso Barcellona, è entrato da ragazzo nel collegio dei gesuiti. All’università diretta da loro, nella

capitale catalana, ha poi fatto gli studi umanistici, pronunciando i primi voti nel 1604.

Nel 1605-1608 ha studiato filosofia a Palma di Maiorca. E qui lo hanno aiutato le “lezioni” del portinaio Alfonso

Rodriguez: è un mercante di Segovia che, perduta la famiglia, presta lietamente l’umile servizio al collegio dei

gesuiti. Ma col tempo il suo stanzino diventa un’altra aula, e lui un maestro di spiritualità, consultato da sapien-

ti e potenti e soprattutto dai giovani allievi come Pietro Claver. Che esce da quella portineria orientato.

Inizia gli studi di teologia a Barcellona e li completa a Cartagena di Colombia (dove diventa sacerdote nel

1616). Qui sbarcano migliaia di schiavi neri, quasi tutti giovani: ma invecchiano e muoiono presto per la fatica

e i maltrattamenti; e per l’abbandono quando sono invalidi. Tra questa umanità la Compagnia di Gesù ha man-

dato i suoi missionari. Unitosi a loro, Pietro Claver conosce il mondo della soffe-

renza e della disperazione; discerne la volontà di Dio, che il portinaio di Maiorca

gli insegnava a cercare: Dio vuole che egli serva gli schiavi con tutte le sue

forze, ogni giorno della sua vita.

Così si ritrova a vivere la loro soffe- renza, e a combatterla. Sta con loro per nu-

trire e per curare, imperturbabile ed efficiente anche nelle situazioni più disgu-

stose. A questa gente che non ha nulla, che non è nulla, insieme al soccorso

offre il rispetto. Si sforza di risveglia- re in ognuno il senso della sua dignità, sen-

za il quale non potrebbe parlare di Dio e del suo amore. Impara la lingua

dell’Angola, parlata da molti di loro, e crea un’équipe di interpreti per le altre

lingue. Ma si fa capire anche col suo modo di vivere, che è quello degli schia-

vi più sfortunati: basta guardarlo per dargli fiducia, credere in lui, confidarsi

(e per questo gli si attribuisce il do- no della “lettura delle anime”). Basta guar-

darlo per capire e condividere la devozione che egli predica per Cristo soffe-

rente.

Poi si ammala, forse di peste. So- pravvive, ma senza più forze, trascinandosi

allo stesso modo dei vecchi schiavi. Deve sopportare i maltrattamenti del suo

infermiere: un nero. Anche in queste cose bisogna scorgere la volontà di Dio. Muore a 74 anni e verrà canoniz-

zato nel 1888, con Alfonso Rodriguez, il fratello portinaio di Maiorca.

AVVISO AVVISO AVVISO A motivo della Prima Comunione

Domenica 1 Maggio S,Messa ore 12.00 Domenica 8 Maggio S:Messa ore 12.00

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“Va’ e fa’ lo stesso!”. Ecco, che cosa ci sentiremo dire da Gesù in questa pagina del Vangelo. Prima però assaporiamo personalmente, da soli, il contenuto, leggendo attentamente il testo e, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, valutiamo le nostre prime impressioni. Senz’altro capi-remo già da soli il senso dell’espressione: “Va’ e fa’ lo stesso!”. E se osiamo dirgli: “Ma per-ché debbo fare così?”, Gesù ci risponderà: “Per amare Dio con tutto il cuore, ... e il prossimo tuo come te stesso” (vv. 25-28); e se, sentendo che l’impegno dev’essere continuo e che tante volte si fa duro, gli chiediamo: “Ma come fare per mantenerci in situazione in modo da essere sempre capaci di farlo?”, egli ci risponderà: “Cercando di essere sempre in ascolto della mia parola e di impegnarvi a viverla” (vv. 38-42). Tale il senso fondamentale della pri-ma e terza parte di questa pagina evangelica; mentre nella seconda (vv. 29-37) Gesù, nar-rando la Parabola del Buon Samaritano, ci indica come vivere in pienezza l’amore di Dio e del prossimo, insegnandoci a essere anche noi, come lui, dei “buoni samaritani”. Siamo di fronte a una pagina di Vangelo che mette in evidenza uno degli aspetti più signifi-cativi della vita cristiana come imitazione di Gesù. Come si rivela Gesù? Quello che Gesù insegna l’ha vissuto in pienezza. Chi più di lui ha amato il Padre e il prossi-mo? Per tre volte al giorno, egli recitava l’atto di fede del suo popolo: “Ascolta, Israele, il Si-gnore nostro Dio è l’unico Signore; perciò amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze”. E che Gesù si sia impegnato a vivere questo ce lo dice lui stesso: “Il Padre ha tanto amato il mondo da mandare l’unico suo Figlio, perché chiunque crede in lui, abbia la vita eterna” (Gv 3,16). Gesù si sente dono agli uomini dell’amore del Padre e per essere perfettamente in sintonia con i sentimenti del Padre per-ché si dona sino alla fine. Dice infatti: “Per questo il Padre mi ama, perché io faccio dono della mia vita... Io sono il Buon Pastore e il Buon Pastore dà la vita per le sue pecore” (Gv 10,17.18), ed è “perché il mondo sappia che io amo il Padre, che agisco come il Padre mi ha comandato” (Gv 14,31). In queste sue parole si sente l’amore di Gesù per il Padre e il suo intenso amore per tutti gli uomini di cui vuole rendersi prossimo. È lui infatti il Buon Samaritano. Il racconto parabolico lo descrive in modo meraviglioso. Entrando come Figlio di Dio nella nostra storia, egli ha vo-luto rendersi in tutto simile a noi, ha voluto sentirsi nostro fratello e “non si vergogna di chiamarsi fratello” (Eb 2,11). L’immagine del Buon Samaritano riflette meravigliosamente la sua immagine. L’hanno capito assai bene vari Padri della Chiesa. Basta citarne due. Origene scrive: “Questo Samaritano non discende da Gerusalemme a Gerico, come il sacerdote e il levita, e se discende, discende per salvare il moribondo e vegliare su di lui. A lui i Giudei hanno detto: «Tu sei un samaritano e un posseduto dal demonio»; e Gesù, mentre ha nega-to di essere posseduto dal demonio, non ha voluto negare di essere samaritano, in quanto sapeva di essere buon «guardiano» (significato della parola «samaritano»)”. E sant’Agostino spiega: “All’uomo che giaceva in tali condizioni portò aiuto il nostro Samaritano, cioè Gesù, che i Giudei chiamarono Samaritano, che significa «custode»; egli che mosso da misericor-dia, discendeva per quella via, cioè si è incarnato per morire lui giusto per i nostri peccati, sollevò da terra l’uomo giacente”. È Gesù, buon Samaritano, che ci rialza quando abbiamo la disgrazia di cadere nel male e che ci riporta a nuova vita e, come Buon Pastore, continua-mente ci è accanto per guidarci nel cammino della vita. Ma basta leggere in continuità il Vangelo per vedere il perché si avvicina ai peccatori, ai malati, agli indemoniati e, persino, ai morti. E una volta risorto ci dice che “sarà sempre con noi sino alla fine del mondo” (Mt 28,20), come nostro “custode”. Gesù è sempre riuscito a essere così perché, come uomo, è vissuto in continuo ascolto della “Parola di Dio” e in continua contemplazione del Padre: egli ha sempre fatto quello che ha visto fare dal Padre (Gv 5,19) e ha comunicato quello che ha udito dal Padre: “Io non ho parlato da me stesso, ma il Padre che mi ha mandato, mi ha ordinato quello che devo dire e annunciare. E io so che il suo comandamento è vita eterna. Le cose dunque che vi dico, le dico così come il Padre le ha dette a me” (Gv 12,49-50).

Ritiro spirituale:IL BUON SAMARITANO

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E, come uomo, è vissuto anche in continuo ascolto della “Parola di Dio” racchiusa nell’Antico Testa-mento. Quante volte nei Vangeli si richiama a quanto hanno detto di lui Mosè e i profeti. E, leggendo il racconto delle “Tentazioni nel deserto” (Lc 4,1-13) si rimane impressionati nel costatare che egli legge e ascolta soprattutto quelle parole che lo aprono agli altri, che lo rendono “Buon Samaritano”. Non accetta di cambiare le pietre in pane, perché non è venuto per servire se stesso, ma per essere servo in mezzo agli altri (vedi Lc 22,27), cioè per donarsi totalmente agli altri. Dice infatti: “Si deve compie-re in me quanto è scritto nella legge di Mosè, nei profeti e nei Salmi”: il Cristo deve donarsi totalmen-te perché “nel suo nome siano predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati” (Lc 24,44-47). Ognuno continui da solo a leggere i Vangeli e si accorgerà come da ogni pagina si sprigio-na il suo intenso amore per il Padre e il prossimo. Gesù e noi Fissiamo ora il nostro sguardo su Gesù e diciamogli anche noi: “Signore, che cosa devo fare per eredi-tare la vita eterna”. Gesù ci risponderà: “Che cosa hai studiato nel catechismo”. Se gli rispondiamo: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore... e il prossimo tuo come te stesso”, sentiremo anche noi dirci: “Fa’ questo e vivrai!”. E se osiamo aggiungere: “Ma chi è il mio prossimo?”, ci accorgeremo che Gesù evade la nostra domanda, perché se metto l’accento sul “mio”, esprimo un amore che ac-centra, un amore egoista, non necessariamente un “amore che si dona”, come invece è l’amore del Padre e di Gesù. Comunque il Signore non ci lascia senza risposta e, per aiutarci a capire quello che dobbiamo fare per immergerci nell’amore del Padre, per vivere in sintonia con il Padre, la cui “tenerezza si espande su tutte le creature” (Sal 145,9), ci racconta la cosiddetta “Parabola del Buon Samaritano”, nella quale egli si rivela a noi come rivelazione dell’amore del Padre e come colui che per mettere sempre l’amore del Padre al primo posto, “si fa prossimo di tutti”. Mettiamoci dunque in attento ascolto di Gesù, perché la parabola è una vera radiografia della nostra vita. E iniziamo parlando di quel Samaritano che pure scendeva da Gerusalemme a Gerico. Per gli im-mediati ascoltatori di Gesù quel Samaritano era un eretico, un emarginato dalla comunità culturale di Israele, un nemico, anzi: il simbolo dell’impurità, della persona incapace di una vera comunione con Dio. E invece Gesù racconta che era proprio un samaritano colui che appena vide quell’uomo che i banditi avevano lasciato lì mezzo morto sulla strada “ne ebbe compassione, gli si fece vicino, gli fasciò le ferite versandovi sopra olio e vino, lo curò, sulla sua cavalcatura lo portò in una locanda e si prese cura di lui”. Sono tutte azioni di una istantaneità impressionante, che per dar loro senso bisogna sa-per leggere in fretta, per esprimere al massimo l’intensità della compassione che colmava il cuore di quel Samaritano. “Appena lo ha visto”: non è rimasto soprappensiero neppure un istante; non ha ba-dato ai suoi interessi particolari; non si è chiesto se era un connazionale o uno straniero, se aveva o no soldi in banca per rimborsargli le spese; non badò a ciò che lo divideva da lui. Per lui era un uomo che soffriva; la sua compassione (e in questa parola si sente affiorare con forza l’immagine di Gesù; solo di lui e del Padre si usa nei vangeli la parola “compassione”), la sua compassione lo immedesimò immediatamente nelle sofferenze di quell’uomo che giaceva sulla strada e fece quel che avrebbe desi-derato che altri facessero a lui se si trovasse nella stessa situazione; per lui era un suo simile e per questo si fece prossimo, cioè si avvicinò a lui e lo aiutò. E non si limitò a questo: si assunse le spese del suo futuro. Il suo non fu proprio un aiuto dato di sfuggita, ma un aiuto dato guardando il futuro di quella persona... Gesù non poteva dipingere meglio se stesso. È qui che noi dobbiamo chiederci: perché gli altri non seppero farsi prossimo? La risposta non è diffici-le. Quando entra la bramosia del denaro (vedi Lc 4,14), la Parola di Dio, soprattutto il comandamento di “amare Dio con tutto il cuore... e il prossimo come se stessi”, non trova spazio nell’uomo e lo rende incapace di aiutare chi soffre. Così pure non trova spazio in coloro che nella società vogliono mante-nere le distanze, fare forza su ciò che li divide dagli altri. Tali sono, nel primo caso, i ladroni o i banditi e, nel secondo caso, il sacerdote e il levita. Costoro non se la sentono di sporcarsi le mani con uno che è lì mezzo morto sulla strada. Per loro vale solo la prima parte del comandamento: amare Dio; Dio al di sopra di tutto. È questo che essi debbono vivere e insegnare. Ma come fanno a essere sicuri di amare Dio? Quale criterio possono avere per dire che davvero ama-no Dio, se non si rendono “prossimo” degli altri? Secondo Paolo è l’amore del prossimo e solo questo il vero criterio per essere sicuro che ho in me il vero amore di Dio. Gesù ce lo ha dimostrato. Egli per amare il Padre ha dato la sua vita per noi, si è fatto prossimo. E Paolo ne ha tratto le conclusioni quando per due volte non cita la prima parte del comandamento, ma solo la seconda: “Amerai il pros-simo tuo come te stesso”; e subito aggiunge che in questa sola parola “è la pienezza della leg-ge” (vedi Rm 13,8 e Gal 5,14). Per “amare Dio con tutto il cuore” bisogna farsi “prossimo degli altri”, come fa Marta, ma perché il do-narsi agli altri sia sempre ben motivato bisogna saper “ascoltare la Parola” con attenzione come fa Maria ai piedi di Gesù. Si è veri discepoli solo quando questi due atteggiamenti si armonizzano a vi-cenda. Il solo ascolto o il solo fare non basta. Il fare deve nascere dall’ascolto della Parola. Così infatti si è presentato a noi Gesù.

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