Il rischio penale derivante dalla violazione delle norme antitrust

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RICCARDO SALOMONE

Difensore S.O.I. nel procedimento penale “Avastin-Lucentis”

Il rischio penale derivante dalla violazione delle norme antitrust:

il caso “Avastin-Lucentis”

(abstract della relazione tenuta)

1. L’intesa restrittiva della concorrenza e la Delibera dell’AGCM del 27/2/14

L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha affermato testualmente

che le evidenze dimostrano che Roche e Novartis, anche attraverso le controllate Roche

Italia e Novartis Farma, hanno posto in essere una concertazione pervasiva e continuata

volta a ottenere una “differenziazione” artificiosa dei farmaci Avastin e Lucentis,

manipolando la percezione dei rischi dell’uso in ambito oftalmico di Avastin. Ciò è

avvenuto con l’obiettivo di una illecita massimizzazione dei rispettivi introiti – introiti

derivanti, nel caso del gruppo Novartis, dalle vendite dirette di Lucentis e dalla

partecipazione del 33% detenuta in Roche, nel caso del gruppo Roche dalle royalties

ottenute sulle stesse tramite la propria controllata Genentech – e un’incidenza diretta

sull’equilibrio della spesa sanitaria, sia in ambito pubblico che privato. Le condotte

delle imprese citate sono da ricondurre a un’intesa unica e complessa, contraria all’art.

101, lett. c), TFUE.

Lo scenario generale in cui va considerata l’intesa. La decisione di sviluppare

due farmaci aventi il medesimo meccanismo d’azione (anti-VEGF), destinandoli ad

applicazioni terapeutiche diverse per le quali sono state ottenute distinte registrazioni in

AIC, risulta essere stata adottata da Genentech. Prosegue la decisione dichiarando che, a

valle di tale decisione di Genentech, sono stati sottoscritti accordi verticali di licenza tra

Genentech e Roche da un lato, Genentech e Novartis dall’altro, per la vendita di Avastin

e Lucentis al di fuori degli USA. A causa di eventi su cui le imprese citate non hanno

potuto esercitare alcun controllo – segnatamente, lo sviluppo da parte di ricercatori

indipendenti di applicazioni oftalmiche off-label di Avastin prima del lancio sul mercato

di Lucentis per le medesime applicazioni on-label – entrambi i farmaci si sono trovati a

competere fra di loro nel mercato dei farmaci per la cura di patologie della vista dovute

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a disordini vascolari oculari, così come definito da una domanda che si è in tal senso

manifestata coerente a livello mondiale.

I contenuti specifici dell’intesa. Le condotte delle imprese si sono ispirate ad una

concertazione orizzontale finalizzata ad impedire che le applicazioni off-label di Avastin

erodessero quelle on-label di Lucentis, dalle quali sia Roche che Novartis attendevano i

propri maggiori utili. Si tratta di condotte che, pur presupponendo l’esistenza di rapporti

verticali di licenza, si realizzano al di fuori degli stessi: basti considerare che sin dal

2007, all’interno del gruppo Novartis, si è constatato come ai sensi dell’Accordo G-N

Novartis non avesse strumenti contrattuali per contrastare gli usi di Avastin in ambito

oftalmico. Nell’ambito delle condotte orizzontali delle imprese, emerse chiaramente

dalle risultanze istruttorie, ai fini dell’applicazione dell’art. 101 TFUE risulta, sempre

secondo l’Autorità: (a) un piano condiviso volto a un’artificiosa “differenziazione” di

Avastin e Lucentis, ottenuta manipolando la percezione dei rischi dell’uso in ambito

oftalmico del primo per condizionarne la domanda. Tale manipolazione è stata

perseguita da un lato tramite la produzione e diffusione di notizie in grado d’ingenerare

preoccupazioni pubbliche sulla sicurezza degli usi intravitreali di Avastin, dall’altro con

la minimizzazione dei risultati scientifici di studi comparativi indipendenti relativi

all’equivalenza di Avastin e Lucentis in ambito oftalmico. In altri termini, in presenza di

due farmaci equivalenti sotto ogni profilo in ambito oftalmico, le due imprese hanno

artificiosamente differenziato i prodotti, svalutando le contrarie acquisizioni

scientifiche, al fine di promuovere il prodotto più costoso (Lucentis, inizialmente pari a

1.100 euro ad iniezione e poi sceso a 902 euro dal novembre 2012), dalle cui vendite

derivano profitti per entrambe le società, e impedire, o comunque limitare, l’utilizzo di

quello meno costoso (Avastin, pari a 81,64 euro per iniezione); (b) un interesse

congiunto dei gruppi Roche e Novartis relativamente alla modifica del riassunto delle

caratteristiche del prodotto (RCP) di Avastin in corso presso EMA e a un auspicato

conseguente invio di una comunicazione formale ai professionisti medici (DHCP),

provocati dalle attività di Roche – in quanto Marketing Authorisation Holder (MAH) di

Avastin, dunque unica impresa autorizzata a interventi di farmacovigilanza rispetto a

tale farmaco – e direttamente funzionali al piano di cui sopra; (c) un coordinamento

delle condotte mantenute dalle filiali italiane dei gruppi Roche e Novartis – avvenuto a

mezzo di incontri diretti e scambi di email fra i vertici delle due imprese – per la

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gestione concertata di una serie di questioni più propriamente nazionali relative alla

concorrenza tra Avastin e Lucentis in ambito oftalmico.

2. Rischi penali

A meri fini di studio, e per pura speculazione accademica, si delineano di seguito i

rischi penali che potrebbero conseguire a siffatti comportamenti.

Disastro doloso. L’art. 434 c.p. dispone che chiunque commette un fatto diretto a

cagionare un disastro è punito, se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità,

con la reclusione da uno a cinque anni. La pena è della reclusione da tre a dodici anni se

il disastro avviene.

Il reato di disastro è un delitto di comune pericolo che richiede il verificarsi di un

avvenimento grave e complesso con caratteristiche diffusive e con conseguente pericolo

per la vita o l’incolumità di persone indeterminate, anche se appartenenti a categorie

determinate di soggetti, ma non è necessario che queste persone subiscano un danno né

che si realizzi l’accadimento distruttivo di eccezionale gravità (Cass. pen., Sez. IV,

15/5/2012, n. 18678). In altre parole, è un delitto a consumazione anticipata, in quanto

la realizzazione del mero pericolo concreto del disastro è idonea a consumare il reato

mentre il verificarsi dell’evento funge da circostanza aggravante; il dolo è intenzionale

rispetto all’evento di disastro ed è eventuale rispetto al pericolo per la pubblica

incolumità (Cass. pen., Sez. IV, 11/10/2011, n. 36626).

Truffa. Chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o

ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da sei mesi a tre

anni e con la multa da euro 51 a euro 1.032. La pena è della reclusione da uno a cinque

anni e della multa da euro 309 a euro 1.549 se il fatto è commesso a danno dello Stato o

di un altro ente pubblico (art. 640 c.p.).

A tal proposito, va precisato che sussiste il reato di truffa “contrattuale”

nell’ipotesi in cui venga pagato un giusto corrispettivo a fronte della prestazione

truffaldinamente conseguita, posto che l’illecito si realizza per il solo fatto che la parte

sia addivenuta alla stipulazione del contratto, che altrimenti non avrebbe stipulato, in

ragione degli artifici e dei raggiri posti in essere dall’agente (Cass. pen., Sez. II,

6/2/2014, n. 5801). Del pari, integra gli estremi della truffa “contrattuale” la condotta di

chi ponga in essere artifizi o raggiri consistenti nel tacere o nel dissimulare fatti o

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circostanze tali che, ove conosciuti, avrebbero indotto l’altro contraente ad astenersi dal

concludere il contratto (Cass. pen., Sez. II, 4/7/2013, n. 28703).

Aggiotaggio. L’art. 501 c.p. punisce con la reclusione fino a tre anni e con la

multa da euro 516 a euro 25.822 chiunque, al fine di turbare il mercato interno dei valori

o delle merci, pubblica o altrimenti divulga notizie false, esagerate o tendenziose o

adopera altri artifici atti a cagionare un aumento o una diminuzione del prezzo delle

merci, ovvero dei valori ammessi nelle liste di borsa o negoziabili nel pubblico mercato.

La fattispecie criminosa di aggiotaggio, nel riferirsi ad “altri artifici”, contempla

comportamenti non giustificati dal punto di vista delle ordinarie regole che presiedono

all’attività d’impresa che, sebbene leciti, risultano posti in essere al fine di perpetrare

l’inganno nei confronti degli operatori di mercato (Cass. pen., Sez. V, 20/1/2009, n.

2063).

Associazione per delinquere. Ai sensi dell’art. 416 c.p., quando tre o più persone

si associano allo scopo di commettere più delitti, coloro che promuovono o

costituiscono od organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione

da tre a sette anni. Per il solo fatto di partecipare all’associazione, la pena è della

reclusione da uno a cinque anni.

Il delitto di associazione per delinquere non deve essere confuso con il concorso

di persone nel reato continuato: il criterio distintivo va individuato nel carattere

dell’accordo criminoso, che nell’indicata ipotesi di concorso si concretizza in via

meramente occasionale ed accidentale, essendo diretto alla commissione di uno o più

reati determinati – anche nell’ambito del medesimo disegno criminoso – con la

realizzazione dei quali si esaurisce l’accordo e cessa ogni motivo di allarme sociale,

mentre nel reato associativo risulta diretto all’attuazione di un più vasto programma

criminoso, per la commissione di una serie indeterminata di delitti, con la permanenza

di un vincolo associativo tra i partecipanti, anche indipendentemente e al di fuori

dell’effettiva commissione dei singoli reati programmati (Cass. pen., Sez. II, 13/1/2014,

n. 933).

Quanto alla responsabilità da reato degli enti, allorché si proceda per il delitto di

associazione per delinquere e per reati non previsti fra quelli idonei a fondare la

responsabilità del soggetto collettivo, la rilevanza di questi ultimi non può essere

indirettamente recuperata, ai fini della individuazione del profitto confiscabile, per il

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loro carattere di delitti scopo del reato associativo contestato. Inoltre, la sanzione della

confisca del profitto derivante dal reato può essere disposta solo quando la data di

commissione di quest’ultimo è successiva a quella di entrata in vigore della normativa

che introduce nel catalogo dei reati-presupposto la fattispecie per cui si procede,

risultando invece irrilevante il momento in cui il suddetto profitto è, in tutto o in parte,

effettivamente conseguito (Cass. pen., Sez. VI, 24/1/2014, n. 3635: fattispecie in cui la

Corte ha annullato il sequestro preventivo del profitto riferito al reato di associazione

per delinquere e ad illeciti ambientali, derivante da condotte realizzate prima della

entrata in vigore della normativa che ha inserito i reati in questione fra quelli idonei a

fondare la responsabilità dell’ente).

Corruzione. Il pubblico ufficiale che, per omettere o ritardare o per aver omesso o

ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto

contrario ai doveri di ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità, o ne

accetta la promessa, è punito con la reclusione da quattro a otto anni (art. 319 c.p.).

In tema di corruzione, va sottolineato che la nozione di “altra utilità”, quale

oggetto della dazione o promessa, ricomprende qualsiasi vantaggio materiale o morale,

patrimoniale o non patrimoniale, che abbia valore per il pubblico agente (Cass. pen.,

Sez. VI, 11/7/2013, n. 29789).

Finanche un parere meramente consultivo può integrare l’atto di ufficio oggetto di

mercimonio (Cass. pen., Sez. VI, 3/9/2013, n. 36212).

3. Il ruolo degli enti rappresentativi di interessi lesi dal reato nel procedimento

penale

Ai sensi dell’art. 91 c.p.p., gli enti e le associazioni senza scopo di lucro ai quali,

anteriormente alla commissione del fatto per cui si procede, sono state riconosciute, in

forza di legge, finalità di tutela degli interessi lesi dal reato, possono esercitare, in ogni

stato e grado del procedimento, i diritti e le facoltà attribuiti alla persona offesa dal reato

(es.: presentare memorie e indicare elementi di prova; chiedere al giudice del

dibattimento sia di rivolgere domande ai testimoni, periti, consulenti tecnici e alle parti

private, sia di ammettere nuovi mezzi di prova utili all’accertamento dei fatti;

richiedere, con atto motivato, al P.M. di proporre impugnazione agli effetti penali).

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Dal combinato disposto degli artt. 91, 92 e 93 c.p.p., il consenso della persona

offesa, previsto dall’art. 92, è richiesto soltanto per il caso di semplice intervento degli

enti o delle associazioni a norma dell’art. 93, il quale articolo, appunto, prevede la

possibilità di tale intervento per l’esercizio, ex art. 91, dei diritti e delle facoltà attribuiti

alla persona offesa; il consenso della persona non è invece richiesto nel caso in cui

ricorrano i presupposti per la costituzione di parte civile degli enti e delle associazioni

(Cass. pen., Sez. V, 25/1/2005, n. 2245).

4. La sentenza CEDU del 4/3/14, Grande Stevens c. Italia: spunti di riflessione

La Corte EDU, con questa sentenza sul caso Fiat-Ifil, mette in discussione il

sistema italiano in materia di abusi di mercato, sia per violazione del diritto a un equo

processo (art. 6 §1), sia per violazione del diritto a non essere giudicati o puniti due

volte (art. 4 del Protocollo n. 7). Il fatto, contestato a coloro che hanno materialmente

contribuito alla diffusione di un falso comunicato, si è incanalato nel doppio binario di

giudizio (penale e amministrativo) preveduto dalla normativa in materia di abusi di

mercato (artt. 180 e ss. TUF). La Corte EDU ha riscontrato, fra l’altro, la violazione

dell’art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU, ossia del diritto a non essere giudicati o puniti due

volte. La Corte ritiene che la procedura davanti la Consob, pur avendo ad oggetto un

illecito formalmente di tipo amministrativo, si sostanzi in un’accusa di natura penale e,

di conseguenza, che debba osservare le garanzie che l’art. 6 della Convenzione riserva

ai processi penali. Anche il riscontro di compatibilità con il principio del ne bis in idem

deriva dalla riconduzione dell’illecito amministrativo previsto dall’art. 187 ter TUF alla

matière pénale, con conseguente assimilazione del relativo procedimento a quello

vertente su una accusation en matière pénale. La Corte si sofferma sul metodo da

adottare nel test di compatibilità con l’art. 4 del Protocollo n. 7, precisando come non

interessi verificare se gli elementi costitutivi del fatto tipizzato dalle due norme siano o

meno identici, bensì solo se i fatti sussunti in esse e giudicati nei due procedimenti siano

o meno i medesimi.

Spunti di riflessione. Per quanto riguarda le situazioni in cui, analogamente al caso

in esame, vi sia una condanna definitiva nel procedimento (penale-)amministrativo e sia

ancora pendente quello penale(-criminale), simili situazioni potrebbero essere risolte

mediante un’interpretazione conforme alla Convenzione. La disposizione nazionale su

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cui operare in via interpretativa sarebbe l’art. 649 c.p.p., in cui è stabilito il divieto di un

secondo giudizio per “l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale

divenuti irrevocabili”. La disposizione è infatti suscettibile di un’interpretazione

adeguatrice alla luce di questa sentenza. L’art. 649 c.p.p. afferma un principio di

garanzia, è norma di portata generale e non certo eccezionale, e può quindi a buon

diritto essere interpretato estensivamente, nel senso di far ricomprendere nel concetto

“di sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili” anche i provvedimenti di condanna

definiti “penali” dalla Corte di Strasburgo. In definitiva, si tratta qui di attribuire

all’elemento normativo “sentenza penale” di cui all’art. 649 c.p.p. il significato indicato

dalla fonte convenzionale.