Raccolta di giurisprudenza - Persona e mercato | a cura di … · 2014-01-14 · C. Il risarcimento...

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1 RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE Indice A. La responsabilità precontrattuale: la svolta giurisprudenziale e le resistenze dottrinali a. Regole di validità e regole di comportamento Cass., sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26725 (Pres. Carbone, Rel. Rordorf) b. Il Caso CIR Fininvest c. I mercati finanziari e l’offerta pubblica di acquisto Cass., sez. I,11 luglio 2012, n. 14400 (Pres. Fioretti, Rel. Rordorf) B. I danni endo-familiari Cass., sez. I, 15 settembre 2011, n. 18853 (Pres. Luccioli; Rel. Felicetti) Cass., 10 aprile 2012, n. 5652 (Pres. Luccioli, Rel. Campanile) C. Il risarcimento del danno per violazione della normativa antitrust Cass., 2 febbraio 2007, n. 2305 (Pres. Vittoria, Rel. Spirito) D. La responsabilità da contatto sociale a. Responsabilità medica Cass., sez. III, 22 gennaio 1999, n. 589 (Pres. Bile; Rel. Segreto) b. Minore autolesionista Cass., sez. III, 18 novembre 2005, n. 24456 (Pres. Giuliano; Rel. Trifone) c. Banca per pagamento di assegno a soggetto non legittimato Cass., sez. un., 26 giugno 2007, n. 14712 (Pres. Carbone, Rel. Rordorf) d. Mediazione tipica Cass., sez. III, 14 luglio 2009, n. 16382 (Pres. Petti, Rel. Spagna Musso) e. Responsabilità dell’ex datore di lavoro per informazioni inesatte fornite all’ex dipendente Cass., sez. III, 21 luglio 2011, n. 15992 (Pres. Filadoro; Rel. Carluccio) f. Responsabilità precontrattuale Cass., sez. I, 20 dicembre 2011, n. 27648 (Pres. Rovelli; Rel. Ceccherini) g. Responsabilità omissiva Cass., sez. III, 25 gennaio 2011, n. 1737 (Pres. Amatucci; Rel. Urban) E. Il danno ingiusto Cass., sez. un., 22 luglio 1999, n. 500 (Pres. Zucconi Galli Fonseca, Rel. Preden) F. Il fatto ed il nesso di causalità (a cura di F. Mazza). a. In generale

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RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE Indice

A. La responsabilità precontrattuale: la svolta giurisprudenziale e le resistenze dottrinali a. Regole di validità e regole di comportamento

� Cass., sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26725 (Pres. Carbone, Rel. Rordorf)

b. Il Caso CIR Fininvest c. I mercati finanziari e l’offerta pubblica di acquisto

� Cass., sez. I,11 luglio 2012, n. 14400 (Pres. Fioretti, Rel. Rordorf)

B. I danni endo-familiari � Cass., sez. I, 15 settembre 2011, n. 18853 (Pres. Luccioli; Rel. Felicetti) � Cass., 10 aprile 2012, n. 5652 (Pres. Luccioli, Rel. Campanile)

C. Il risarcimento del danno per violazione della normativa antitrust

� Cass., 2 febbraio 2007, n. 2305 (Pres. Vittoria, Rel. Spirito)

D. La responsabilità da contatto sociale a. Responsabilità medica

� Cass., sez. III, 22 gennaio 1999, n. 589 (Pres. Bile; Rel. Segreto) b. Minore autolesionista

� Cass., sez. III, 18 novembre 2005, n. 24456 (Pres. Giuliano; Rel. Trifone)

c. Banca per pagamento di assegno a soggetto non legittimato � Cass., sez. un., 26 giugno 2007, n. 14712 (Pres. Carbone, Rel.

Rordorf) d. Mediazione tipica

� Cass., sez. III, 14 luglio 2009, n. 16382 (Pres. Petti, Rel. Spagna Musso)

e. Responsabilità dell’ex datore di lavoro per informazioni inesatte fornite all’ex dipendente

� Cass., sez. III, 21 luglio 2011, n. 15992 (Pres. Filadoro; Rel. Carluccio)

f. Responsabilità precontrattuale � Cass., sez. I, 20 dicembre 2011, n. 27648 (Pres. Rovelli; Rel.

Ceccherini) g. Responsabilità omissiva

� Cass., sez. III, 25 gennaio 2011, n. 1737 (Pres. Amatucci; Rel. Urban)

E. Il danno ingiusto

� Cass., sez. un., 22 luglio 1999, n. 500 (Pres. Zucconi Galli Fonseca, Rel. Preden)

F. Il fatto ed il nesso di causalità (a cura di F. Mazza). a. In generale

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� Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 581 (Pres. Carbone, Rel. Segreto) b. L’onere della prova

� Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 577 (Pres. Carbone, Rel. Segreto) � Cass., sez. un., 09 giugno 2011, n. 12686 (Pres. Filadoro, Rel.

Barreca) � Cass., sez. un., 14 giugno 2011, n. 12961 (Pres. Preden, Rel. Segreto) � Cass., sez. III, 21, luglio, 2011, n. 15991 (Pres. Preden, Rel.

Travaglino) c. L’oggetto della prova d. Il danno da perdita di chance

� Cass., sez. un., 14 giugno 2011, n. 12961 (Pres. Preden, Rel. Segreto) e. La rilevanza delle concause naturali

� Cass., sez. III, 16 gennaio 2009, n. 975 (Pres. Vittoria, Rel. Calabrese)

� Cass., sez. un., 09 giugno 2011, n. 12686 (Pres. Filadoro, Rel. Barreca)

� Cass., sez. un., 14 giugno 2011, n. 12961 (Pres. Preden, Rel. Segreto) � Cass., sez. III, 21, luglio, 2011, n. 15991 (Pres. Preden, Rel.

Travaglino

G. Il danno patrimoniale � Cass., 11 gennaio 2008, n. 581 (Pres. Carbone, Rel. Segreto)

H. Il danno non patrimoniale

� Cass., 11 novembre 2008, n. 26972, (Pres. Carbone, Rel. Preden) � Cass., 7 giungo 2011, n. 12408, (Pres. Preden, Rel. Amatucci

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A. LA RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE : LA SVOLTA GIURISPRUDENZIALE E LE

RESISTENZE DOTTRINALI Regole di validità e regole di comportamento

� Cass., sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26725 (Pres. Carbone, Rel. Rordorf) 1.4. Si deve certamente convenire - ed anche l'impugnata sentenza d'altronde ne conviene - sul fatto che le norme dettate dalla citata L. n. 1 del 1991, art. 6 (al pari di quelle che le hanno poi sostituite) hanno carattere imperativo: nel senso che esse, essendo dettate non solo nell'interesse del singolo contraente di volta in volta implicato ma anche nell'interesse generale all'integrità dei mercati finanziari (come è ora reso esplicito dalla formulazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 21, lett. a, ma poteva ben ricavarsi in via d'interpretazione sistematica già nel vigore della legislazione precedente), si impongono inderogabilmente alla volontà delle parti contraenti. Questo rilievo, tuttavia, non è da solo sufficiente a dimostrare che la violazione di una o più tra dette norme comporta la nullità dei contratti stipulati dall'intermediario col cliente. E' ovvio che la loro violazione non può essere, sul piano giuridico, priva di conseguenze - e se ne dirà - ma non è detto che la conseguenza sia necessariamente la nullità del contratto. Innanzitutto, è evidente che il legislatore - il quale certo avrebbe potuto farlo e che, nella medesima legge, non ha esitato ad altro proposito a farlo - non ha espressamente stabilito che il mancato rispetto delle citate disposizioni interferisce con la fase genetica del contratto e produce l'effetto radicale della nullità invocata dai ricorrenti. Non si tratta quindi certamente di uno di quei casi di nullità stabiliti dalla legge ai quali allude l'art. 1418 c.c., comma 3. Neppure i casi di nullità contemplati dal comma 2 dell'articolo da ultimo citato, però, sono invocabili nella situazione in esame. E' vero che tra questi casi figura anche quello della mancanza di uno dei requisiti indicatidall'art. 1325, e che il primo di tali requisiti è l'accordo delle parti. Ma, ove pure si voglia ammettere che nella fase prenegoziale la violazione dei doveri di comportamento dell'intermediario sopra ricordati siano idonei ad influire sul consenso della controparte contrattuale, inquinandolo, appare arduo sostenere che sol per questo il consenso manca del tutto; ed i vizi del consenso - se pur di essi si possa parlare - non determinano la nullità del contratto, bensì solo la sua annullabilità, qualora ricorrano le condizioni previste dall'art. 1427 c.c. e segg.. Resta però da considerare l'ipotesi che, in casi come quello di cui qui si discute, la nullità possa dipendere dall'applicazione della disposizione dettata dal comma 1 del citato art. 1418: che si possa, cioè, predicare la nullità (c.d. virtuale) del contratto perchè contrario a norme imperative, tali essendo appunto le norme dettate dalla L. n. 1 del 1991, art. 6. 1.5. La domanda che si è appena formulata ha ricevuto già una motivata risposta negativa nella menzionatasentenza n. 19024 del 2005, pronunciata dalla prima sezione di questa corte, la quale, dopo aver affermato che la nullità del contratto per contrarietà a norme imperative postula violazioni attinenti ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale, relativi alla struttura o al contenuto del contratto, ha escluso che l'illegittimità della condotta tenuta nel corso delle trattative prenegoziali ovvero nella fase dell'esecuzione del contratto stesso possa esser causa di nullità, indipendentemente dalla natura delle norme con le quali siffatta condotta contrasti, a meno che questa sanzione non sia espressamente prevista. Donde la conclusione che nè l'inosservanza degli obblighi informativi stabiliti dalla L. n. 1 del 1991, art. 6, nè la violazione da parte dell'intermediario del divieto di effettuare operazioni con o per conto del cliente qualora abbia un interesse conflittuale (a meno che non abbia comunicato per iscritto la natura e l'estensione del suo interesse nell'operazione ed il cliente abbia preventivamente ed espressamente acconsentito per iscritto all'operazione) sono idonee a cagionare nullità.

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L'ordinanza di rimessione chiama ora le sezioni unite a valutare se tali affermazioni, e l'impianto argomentativo ad esse sotteso, debbano o meno esser tenute ferme, anche alla luce di un esame sistematico che tenga conto di orientamenti giurisprudenziali manifestati da questa stessa corte in campi diversi, nonchè delle tendenze legislative emerse in questo ed in altri settori, dai quali potrebbero eventualmente scaturire indicazioni di segno contrario a quelle espresse in subjecta materia dalla sentenza n. 19024 del 2005. 1.6. Il cardine intorno al quale ruota la sentenza da ultimo citata è costituito dalla riaffermazione della tradizionale distinzione tra norme di comportamento dei contraenti e norme di validità del contratto: la violazione delle prime, tanto nella fase prenegoziale quanto in quella attuativa del rapporto, ove non sia altrimenti stabilito dalla legge, genera responsabilità e può esser causa di risoluzione del contratto, ove si traduca in una forma di non corretto adempimento del generale dovere di protezione e degli specifici obblighi di prestazione gravanti sul contraente, ma non incide sulla genesi dell'atto negoziale, quanto meno nel senso che non è idonea a provocarne la nullità. Che tale distinzione, sovente ribadita anche dalla dottrina, sia fortemente radicata nei principi del codice civile è difficilmente contestabile. Per persuadersene è sufficiente considerare come dal fondamentale dovere che grava su ogni contraente di comportarsi secondo correttezza e buona fede - immanente all'intero sistema giuridico, in quanto riconducibile al dovere di solidarietà fondato sull'art. 2 Cost., e sottostante a quasi tutti i precetti legali di comportamento delle parti di un rapporto negoziale (ivi compresi quelli qui in esame) - il codice civile faccia discendere conseguenze che possono, a determinate condizioni, anche riflettersi sulla sopravvivenza dell'atto (come nel caso dell'annullamento per dolo o violenza, della rescissione per lesione enorme o della risoluzione per inadempimento) e che in ogni caso comportano responsabilità risarcitoria (contrattuale o precontrattuale), ma che, per ciò stesso, non sono evidentemente mai considerate tali da determinare la nullità radicale del contratto (semmai eventualmente annullabile, rescindibile o risolubile), ancorchè l'obbligo di comportarsi con correttezza e buona fede abbia indiscutibilmente carattere imperativo. E questo anche perchè il suaccennato dovere di buona fede, ed i doveri di comportamento in generale, sono troppo immancabilmente legati alle circostanze del caso concreto per poter assurgere, in via di principio, a requisiti di validità che la certezza dei rapporti impone di verificare secondo regole predefinite. L'assunto secondo il quale, nella moderna legislazione (anche per incidenza della normativa europea), la distinzione tra norme di validità e norme di comportamento starebbe tuttavia sbiadendo e sarebbe in atto un fenomeno di trascinamento del principio di buona fede sul terreno del giudizio di validità dell'atto non è sufficiente a dimostrare il già avvenuto sradicamento dell'anzidetto principio nel sistema del codice civile. E' possibile che una tendenza evolutiva in tal senso sia effettivamente presente in diversi settori della legislazione speciale, ma - a parte la considerazione che molte delle disposizioni invocate a sostegno di questo assunto sono posteriori ai fatti di causa, e non varrebbero quindi a dimostrare che già a quell'epoca il legislatore avesse abbandonato la tradizionale distinzione cui s'è fatto cenno - un conto è una tendenza altro conto è un'acquisizione. E va pur detto che il carattere sempre più frammentario e sempre meno sistematico della moderna legislazione impone molta cautela nel dedurre da singole norme settoriali l'esistenza di nuovi principi per predicarne il valore generale e per postularne l'applicabilità anche in settori ed in casi diversi da quelli espressamente contemplati da singole e ben determinate disposizioni. D'altronde, non si è mai dubitato che il legislatore possa isolare specifiche fattispecie comportamentali, elevando la relativa proibizione al rango di norma di validità dell'atto, ma ciò fa ricadere quelle fattispecie nella già ricordata previsione del terzo (non già del comma 1) del citato art. 1418 c.c.. Si tratta pur sempre, in altri termini, di disposizioni particolari, che, a fronte della già ricordata impostazione del codice, nulla consente di elevare a principio generale e di farne applicazione in settori nei quali analoghe previsioni non figurano, tanto meno quando - come nel caso in esame - l'invocata nullità dovrebbe rientrare nella peculiare categoria delle cosiddette nullità di protezione, ossìa nullità di carattere relativo, che già di per sè si pongono come speciali.

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I mercati finanziari e l’offerta pubblica di acquisto

� Cass., sez. I,11 luglio 2012, n. 14400 (Pres. Fioretti, Rel. Rordorf) 3.3. Muovendo da tali premesse, appare difficile, in via di principio, negare che l'inadempimento dell'obbligo di promuovere un'offerta pubblica di acquisto sia idoneo a determinare la responsabilità dell'inadempiente nei confronti di coloro cui l'inadempimento abbia recato danno. La circostanza che l'ordinamento, come s'è visto, abbia predisposto anche un sistema di sanzioni civili, consistente nella sterilizzazione del voto e nell'obbligo di rivendita entro l'anno delle azioni eccedenti la soglia del 30% del capitale, non basta di per sé sola ad escludere l'applicazione dei principi generali vigenti in tema di inadempimento e risarcimento del danno. Quelle sanzioni hanno, in primo luogo, una valenza deterrente, giacché unitamente alle sanzioni penali ed amministrative cui pure dianzi s'è fatto cenno mirano a scoraggiare l'acquisizione di un controllo azionario che, ove l'obbligo di offerta pubblica non sia rispettato, rischierebbe di rivelarsi per l'acquirente inutile ed addirittura svantaggioso. Ma è evidente che il diritto al risarcimento del danno spettante a chi abbia visto illegittimamente pregiudicato un interesse soggettivo tutelato dalla normativa, pur se di fatto può anch'esso concorrere ad esercitare una funzione deterrente, si pone su un piano diverso; perché è nel risarcimento e non nelle sanzioni che la lesione di quell'interesse trova riparo. Se taluno, incurante del rischio d'incorrere nelle sanzioni sopra menzionate, o confidando nella possibilità di eluderle in qualche modo, viola l'obbligo di promuovere l'offerta pubblica, pur versando in una situazione che glie lo imporrebbe, non v'è dunque ragione per negare il diritto al risarcimento in favore di coloro nei confronti dei quali la prestazione inadempiuta avrebbe dovuto essere resa. Né la circostanza che, come prima accennato, quell'obbligo possa non esser suscettibile di esecuzione forzata in forma specifica basta a precludere l'esistenza del diritto al risarcimento del danno. Questo, naturalmente, non impedisce che, in determinate situazioni, l'applicazione delle sanzioni cui s'è fatto cenno, ed in particolare l'obbligo di alienazione azionaria previsto dal citato art. 110, possa in concreto avere dei riflessi anche sulla posizione soggettiva degli azionisti che si sono visti in precedenza negare l'offerta di acquisto cui avrebbero avuto diritto, e che, per le conseguenti vicende del mercato, il pregiudizio da essi sofferto ne possa magari risultare ridotto o eliso. Ma è questione di fatto, da affrontare e risolvere in base all'andamento di ciascuna singola vicenda, senza che se ne possa ricavare un'incompatibilità di ordine logico tra la pretesa risarcitoria degli azionisti orbati dell'offerta e l'attuazione delle misure previste dal menzionato art. 110. 3.4. Si osserva però nell'impugnata sentenza, e lo ribadiscono con ampie argomentazioni le controricorrenti, che la sterilizzazione del diritto di voto e la necessità di rivendere entro l'anno le azioni acquistate oltre la soglia del 30% comportano (o dovrebbero di regola comportare) l'impossibilità per l'acquirente di conseguire l'effettivo controllo della società quotata; il che farebbe venir meno la ragione per la quale il legislatore ha voluto, attraverso la prescrizione dell'obbligo di offerta pubblica rivolta agli altri azionisti, assicurare anche a costoro una qualche partecipazione al premio di maggioranza cui dianzi s'è fatto cenno. Richiedere un risarcimento per il mancato conseguimento di tale premio, in una siffatta situazione, si tradurrebbe perciò nella pretesa di un indebito arricchimento. Pur se indubbiamente suggestiva, tale obiezione non persuade. Non è l'effettivo conseguimento del controllo della società a costituire il presupposto perché sorgano l'obbligo di promuovere l'offerta pubblica ed il correlativo diritto degli interessati a vedersela proporre, bensì il mero fatto che taluno abbia acquistato azioni in misura superiore all'anzidetta soglia del 30%, in presenza delle condizioni indicate nel citato art. 106, ed abbia pagato per tali azioni un prezzo superiore a quello corrente di mercato. Come s'è già ricordato, nella sua discrezionalità il legislatore ha ritenuto che di questo maggior prezzo anche gli altri azionisti debbano potere (almeno in qualche misura) beneficiare, e ciò si realizza appunto dando loro

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l'opportunità di vendere le azioni di cui sono titolari a condizioni migliori di quelle che il mercato altrimenti consentirebbe. Non vi è corrispettività tra acquisizione del controllo azionario, da parte dell'acquirente delle azioni tenuto all'offerta pubblica, e diritto di exit per i soci di minoranza, perché in una società quotata la possibilità di dismettere (come anche di riacquisire) la qualità di socio comperando o vendendo azioni sul mercato in qualsiasi momento è da considerare normale. Quel che rileva è il prezzo al quale l'azionista può vendere le proprie azioni: la maggiorazione di tale prezzo, per effetto dell'offerta pubblica obbligatoria, è, come detto, conseguenza unicamente del surplus pagato dall'offerente per acquistare un pacchetto azionario che, al momento in cui l'acquisto avviene, il legislatore presume idoneo al conseguimento del controllo. Le circostanze sopravvenute che possano eventualmente aver frustrato lo scopo di un tale acquisto - salvo eventualmente per i profili di quantificazione del danno di cui si parlerà dopo – non hanno perciò alcun rilievo. 3.5. S'è già osservato che quello previsto dal citato art. 106 del tuf non è un obbligo che discenda da un contratto intercorso tra l'acquirente della partecipazione sociale e gli azionisti di minoranza della società, bensì un obbligo a contrarre con loro, a determinate condizioni, se lo vorranno. Sarebbe però errato dedurne che dal relativo inadempimento derivi una responsabilità di tipo precontrattuale, che secondo la tradizionale (benché controversa) impostazione della giurisprudenza avrebbe natura aquiliana; e sarebbe arbitrario ricondurre tale responsabilità alla previsione dell'art. 1337 c.c., non foss'altro perché, in una fattispecie di questo tipo, non si danno né le trattative né la formazione del contratto cui detta norma allude. Come è stato già affermato altre volte da questa corte (si veda, in particolare, la pronuncia di Cass., sez. un., 26 giugno 2007, n. 14712), la responsabilità nella quale incorre "il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta" (art. 1218 c.c.) può dirsi contrattuale non soltanto nel caso in cui l'obbligo di prestazione derivi propriamente da un contratto, nell'accezione che ne dà il successivo art. 1321 c.c., ma anche in ogni altra ipotesi in cui essa dipenda dall'inesatto adempimento di un'obbligazione preesistente, quale che ne sia la fonte. In tale contesto la qualificazione "contrattuale" non vale a circoscriverne la portata entro i limiti che il significato letterale di detta espressione potrebbe altrimenti suggerire, ma, in un quadro sistematico peraltro connotato da un graduale avvicinamento dei due tradizionali tipi di responsabilità, essa può discendere anche dalla violazione di obblighi nascenti da situazioni (anche non di contratto, bensì) di semplice contatto sociale, ogni qual volta l'ordinamento imponga ad un soggetto di tenere, in tali situazioni, un determinato comportamento. Ne deriva che la distinzione tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale sta essenzialmente nel fatto che quest'ultima consegue dalla violazione di un dovere primario di non ledere ingiustamente la sfera di interessi altrui, onde essa nasce con la stessa obbligazione risarcitoria, laddove quella contrattuale presuppone l'inadempimento di uno specifico obbligo giuridico già preesistente e volontariamente assunto nei confronti di un determinato soggetto o di una determinata cerchia di soggetti. In quest'ottica deve esser letta anche la disposizione dell'art. 1173 c.c., che classifica le obbligazioni in base alla loro fonte ed espressamente distingue le obbligazioni da contratto (da intendersi nella più ampia accezione sopra indicata) da quelle da fatto illecito. Si potrebbe in verità anche sostenere - ed è stato sostenuto che la nozione di obbligazione contrattuale contenuta in detto articolo ha una valenza più ristretta, e che le obbligazioni derivanti dalla violazione di specifiche norme o principi giuridici preesistenti ricadono nell'ulteriore categoria degli altri atti o fatti idonei a produrre obbligazioni in conformità dell'ordinamento giuridico, cui pure la medesima norma allude. Piuttosto che obbligazioni di natura contrattuale le si dovrebbe insomma definire obbligazioni ex lege, ma la questione sembra avere un valore essenzialmente terminologico, giacché in linea generale il regime cui sono soggette le obbligazioni ex lege non si discosta da quello delle obbligazioni contrattuali in senso stretto. Se si aderisce a tale impostazione - e non sì ha qui motivo per non farlo è agevole intendere come la responsabilità per inadempimento dell'obbligo di promuovere l'offerta pubblica

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d'acquisto, di cui si sta discutendo, sia da ricondurre non già al generale principio del neminem laedere, bensì nell'alveo della responsabilità da contratto (o eventualmente ex lege), nell'ampia accezione dianzi richiamata: perché essa deriva dalla violazione di un obbligo preesistente, che la legge fa scaturire da un comportamento volontario (l'acquisto di azioni di società quotata che porta a detenere una partecipazione superiore alla soglia prevista dalle legge) con cui taluno entra in contatto con una cerchia ben definita di soggetti (gli azionisti di minoranza) nell'interesse specifico dei quali la prestazione rimasta inadempiuta (consistente nel promuovere l'offerta) era dovuta. 3.6. L'azionista di minoranza che si sia visto illegittimamente privato della possibilità di aderire ad un'offerta di acquisto delle sue azioni offerta in realtà non proposta - ha quindi il diritto di ottenere il risarcimento del danno subito. Danno che, peraltro, pare arbitrario far coincidere in modo necessario ed automatico con il risultato economico della vendita azionaria che si sarebbe verificata se l'offerta vi fosse stata e fosse stata accettata, perché un conto è la possibilità di stipulare un contratto altro conto è l'averlo effettivamente stipulato. La lesione subita, in simili casi, consiste nell'aver perso una possibilità (o, come potrebbe anche dirsi con terminologia forse più vicina al mondo dei mercati finanziari, un'opzione d'acquisto) che l'offerta pubblica avrebbe dovuto assicurare e che, proprio in quanto l'offerta non v'è stata, non è mai invece venuta ad esistenza. Sitratta, per le ragioni già ampiamente illustrate, non di una mera aspettativa di fatto, ma di un interesse giuridicamente protetto che ha ad oggetto un'entità patrimoniale a sé stante, suscettibile di autonoma valutazione economica , fermo restando che grava sul danneggiato l'onere di provare gli elementi in base ai quali possa riconoscersi a quell'opzione un valore economico effettivo, in relazione ai diversi fattori che possono aver influenzato l'andamento della quotazione di borsa delle azioni di cui si discute nel periodo considerato, tenendo conto dei criteri di determinazione del prezzo dell'offerta pubblica obbligatoria che avrebbe dovuto esser promossa. Giova solo ribadire, anche richiamando quanto già sopra osservato, che poiché le sanzioni civili di cui s'è detto ed in particolare l'obbligo di rivendita azionaria stabilito dal citato art. 110 hanno la medesima radice causale del diritto al risarcimento del danno spettante agli azionisti di minoranza, defraudati dell'offerta pubblica di acquisto dei loro titoli, è almeno astrattamente possibile ipotizzare un'incidenza di quegli eventi successivi sul valore di borsa dei titoli rimasti nel portafoglio di detti azionisti, in termini di compensatio lucri cum danno ove se ne diano le condizioni. La valutazione della sufficienza delle prove offerte e la concreta individuazione del danno risarcibile competono, ovviamente, al giudice di merito. 3.7. Sulla base delle considerazioni svolte è allora possibile enunciare il seguente principio di diritto: "In caso di violazione dell'obbligo di offerta pubblica di acquisto della totalità delle azioni di una società quotata in un mercato regolamentato da parte di chi, in conseguenza di acquisti azionari, sia venuto a detenere una partecipazione superiore al 30% del capitale sociale, compete agli azionisti cui l'offerta avrebbe dovuto esser rivolta il diritto di ottenere il risarcimento del danno patrimoniale da essi sofferto, ove dimostrino di aver perso una possibilità di guadagno a causa della mancata promozione di detta offerta."

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B. I DANNI ENDO-FAMILIARI

� Cass., sez. I, 15 settembre 2011, n. 18853 (Pres. Luccioli; Rel. Felicetti) 2.1. Con il primo motivo si denuncia insufficiente e/o illogica e/o contraddittoria motivazione su fatto controverso e decisivo per il giudizio. Si deduce al riguardo che la Corte di appello, dopo avere affermato di condividere la tesi secondo la quale le regole che disciplinano la materia familiare non costituiscono un sistema chiuso, che impedisca alla violazione degli obblighi nascenti dal matrimonio di comportare l'applicabilità delle norme generali in tema di responsabilità aquiliana, ha poi affermato che nel caso di specie mancherebbe il presupposto per il diritto al risarcimento. Tale mancanza emergerebbe dall'avere la ricorrente "in un primo tempo proposto domanda di separazione con addebito, successivamente abbandonando la procedura per addivenire alla separazione consensuale". Secondo la ricorrente detta motivazione sarebbe incongrua, non comprendendosi in che cosa consista quel "presupposto", nè perchè mancherebbe la prova di esso. Con il secondo motivo si denuncia la violazione o falsa applicazione di norme di diritto (artt. 2043 - 2059 - 151 cod. civ.). Si deduce al riguardo che la Corte d'appello avrebbe errato nel ritenere non risarcibile il danno ove non vi sia, come nella specie, una pronuncia di addebito in sede di separazione. Il diritto al risarcimento, infatti, trova fondamento nel caso di specie nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto e sarebbe indipendente dalla pronuncia di addebito in sede di separazione personale. Avrebbe pertanto errato la Corte d'appello nel ritenere che l'abbandono della domanda di addebito presupporrebbe la volontà, da parte dei coniugi, di non accertare la causa della crisi coniugale, "così erroneamente trasponendo in un giudizio risarcitorio le regole e i limiti specificamente, ad altro fine, dettati dall'art. 151 cod. civ.". Regole e limiti validi per la pronuncia di separazione con addebito e comportanti il divieto di mutamento del titolo, ma non la proponibilità di una domanda di risarcimento, come quella proposta dalla ricorrente. L'addebito, infatti, comporta conseguenze del tutto peculiari e limitate, e in certi casi può essere anche privo di conseguenze pratiche, come lo sarebbe stato nel caso di specie per la ricorrente la quale, rinunciando al giudizio di separazione, non aveva espresso alcuna rinuncia al diritto al risarcimento dei danni. L'azione di risarcimento pertanto, secondo la ricorrente, era comunque esercitabile, in relazione ad una condotta dell'altro coniuge posta in essere nella consapevolezza della sua attitudine a recarle pregiudizio, in quanto contraria ai doveri nascenti dal matrimonio e produttiva di un danno ingiusto. Ciò troverebbe conferma sia nei principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 9801 del 2005, circa la concorrente rilevanza di determinati comportamenti sia ai fini della separazione o della cessazione del vincolo coniugale e delle pertinenti statuizioni di natura patrimoniale, sia quale fatto generatore di responsabilità aquiliana; sia nella dottrina la quale ha evidenziato la frequente sussistenza, nella disciplina codicistica e della legislazione speciale, di tutele concorrenti con l'azione risarcitoria. Il motivo si conclude con il seguente quesito: "Posto che la ricorrente ha proposto domanda giudiziale nei confronti del coniuge al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti per effetto dei di lui comportamenti violativi dei doveri nascenti dal matrimonio e lesivi di diritti assoluti e costituzionalmente protetti (salute, immagine, riservatezza, relazioni sociali, dignità del coniuge, ecc.) affermi la Corte il principio che la mancanza di addebito in sede di separazione per mutuo consenso non è preclusiva di separata azione per il risarcimento dei danni prodotti dalla violazione dei doveri nascenti dal matrimonio e riguardanti diritti costituzionalmente protetti". 2.2. Deve premettersi che la "ratio" della decisione impugnata va ravvisata nella statuizione in essa contenuta secondo la quale la domanda di risarcimento proposta in relazione alla violazione di un dovere nascente dal matrimonio "non può trovare accoglimento" in mancanza della pronuncia di

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addebito in sede di giudizio di separazione. In relazione a tale "ratio" va esaminato con precedenza il secondo motivo. 2.3. In proposito deve muoversi dai principi già affermati da questa Corte nella sentenza 10 maggio 2005, n. 9801, ai quali la stessa sentenza impugnata si richiama condividendoli. Secondo quella sentenza i doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio non sono di carattere esclusivamente morale ma hanno natura giuridica, come si desume dal riferimento contenuto nell'art. 143 cod. civ., alle nozioni di dovere, di obbligo e di diritto e dall'espresso riconoscimento nell'art. 160 cod. civ., della loro inderogabilità, nonchè dalle conseguenze di ordine giuridico che l'ordinamento fa derivare dalla loro violazione, cosicchè deve ritenersi che l'interesse di ciascun coniuge nei confronti dell'altro alla loro osservanza abbia valenza di diritto soggettivo. Ne deriva che la violazione di quei doveri non trova necessariamente la propria sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, quali la sospensione del diritto all'assistenza morale e materiale nel caso di allontanamento senza giusta causa dalla residenza familiare ai sensi dell'art. 146 cod. civ., l'addebito della separazione, con i suoi riflessi in tema di perdita del diritto all'assegno e dei diritti successori, il divorzio e il relativo assegno, con gl'istituti connessi. Discende infatti dalla natura giuridica degli obblighi su detti che il comportamento di un coniuge non soltanto può costituire causa di separazione o di divorzio, ma può anche, ove ne sussistano tutti i presupposti secondo le regole generali, integrare gli estremi di un illecito civile. In proposito si è rilevato che la separazione e il divorzio costituiscono strumenti accordati dall'ordinamento per porre rimedio a situazioni di impossibilità di prosecuzione della convivenza o di definitiva dissoluzione del vincolo; che l'assegno di separazione e di divorzio hanno funzione assistenziale e non risarcitoria; che la perdita del diritto all'assegno di separazione a causa dell'addebito può trovare applicazione soltanto in via eventuale, in quanto colpisce solo il coniuge che ne avrebbe diritto e non quello che deve corrisponderlo. La natura, la funzione ed i limiti di ciascuno dei su detti istituti rendono evidente che essi sono strutturalmente compatibili con la tutela generale dei diritti, tanto più se costituzionalmente garantiti, non escludendo la rilevanza che un determinato comportamento può rivestire ai fini della separazione o della cessazione del vincolo coniugale e delle conseguenti statuizioni di natura patrimoniale la concorrente rilevanza dello stesso comportamento quale fatto generatore di responsabilità aquiliana. Anche nell'ambito della famiglia i diritti inviolabili della persona rimangono infatti tali, cosicchè la loro lesione da parte di altro componente della famiglia può costituire presupposto di responsabilità civile. Fermo restando che la mera violazione dei doveri matrimoniali, o anche la pronuncia di addebito della separazione, non possono di per sè ed automaticamente integrare una responsabilità risarcitoria, dovendo, in particolare, quanto ai danni non patrimoniali, riscontrarsi la concomitante esistenza di tutti i presupposti ai quali l'art. 2059 cod. civ., riconnette detta responsabilità, secondo i principi da ultimo affermati nella sentenza 11 novembre 2008, n. 26972 delle Sezioni Unite, la quale ha ricondotto sotto la categoria e la disciplina dei danni non patrimoniali tutti i danni risarcibili non aventi contenuto economico e, quindi, entrambi i tipi di danno in relazione ai quali è stata formulata la domanda dell'odierna ricorrente. 2.4. Dovrà pertanto considerarsi al riguardo - in conformità da quanto statuito in detta sentenza delle Sezioni Unite - che l'art. 2059 cod. civ., non prevede un'autonoma fattispecie di illecito, distinta da quella di cui all'art. 2043, ma si limita a disciplinare i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali di ogni tipo, sul presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito richiesti dall'art. 2043 cod. civ.: e cioè la condotta illecita, l'ingiusta lesione di interessi tutelati dall'ordinamento, il nesso causale tra la prima e la seconda, la sussistenza di un concreto pregiudizio patito dal titolare dell'interesse leso. L'unica differenza tra il danno non patrimoniale e quello patrimoniale consiste pertanto nel fatto che quest'ultimo è risarcibile in tutti i casi in cui ricorrano gli elementi di un fatto illecito, mentre il primo lo è nei soli casi previsti dalla legge. Cioè, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 cod. civ.: a) quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato: in tal caso la vittima avrà diritto

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al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall'ordinamento, ancorchè privo di rilevanza costituzionale; b) quando ricorra una delle fattispecie in cui la legge espressamente consente il ristoro del danno non patrimoniale anche al di fuori di una ipotesi di reato: in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione dei soli interessi della persona che il legislatore ha inteso tutelare attraverso la norma attributiva del diritto al risarcimento; c) quando, al di fuori delle due ipotesi precedenti, il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di tali interessi, che, al contrario delle prime due ipotesi, non sono individuati "ex ante" dalla legge, ma dovranno essere selezionati caso per caso dal giudice. In tale ultima ipotesi il danno non patrimoniale sarà risarcibile ove ricorrano contestualmente le seguenti condizioni: a) che l'interesse leso (e non il pregiudizio sofferto) abbia rilevanza costituzionale; b) che la lesione dell'interesse sia grave, nel senso che l'offesa superi una soglia minima di tollerabilità, come impone il dovere di solidarietà di cui all'art. 2 Cost.; c) che il danno non sia futile, ma abbia una consistenza che possa considerarsi giuridicamente rilevante. 2.5. Con specifico riferimento al caso di specie, in cui la condotta illecita in relazione alla quale è chiesto il risarcimento del danno è costituita dalla violazione del dovere di fedeltà nascente dal matrimonio, va specificamente osservato quanto segue. Nel vigente diritto di famiglia, contrassegnato dal diritto di ciascun coniuge, a prescindere dalla volontà o da colpe dell'altro, di separarsi e divorziare, in attuazione di un diritto individuale di libertà riconducibile all'art. 2 Cost., ciascun coniuge può legittimamente far cessare il proprio obbligo di fedeltà proponendo domanda di separazione ovvero, ove ne sussistano i presupposti, direttamente di divorzio. Con il matrimonio, infatti, secondo la concezione normativamente sancita del legislatore, i coniugi non si concedono un irrevocabile, reciproco ed esclusivo "ius in corpus" - da intendersi come comprensivo della correlativa sfera affettiva - valevole per tutta la vita, al quale possa corrispondere un "diritto inviolabile" di ognuno nei confronti dell'altro, potendo far cessare ciascuno i doveri relativi in ogni momento con un atto unilaterale di volontà espresso nelle forme di legge. Nell'ottica di tale assetto normativo, se l'obbligo di fedeltà viene violato in costanza di convivenza matrimoniale, la sanzione tipica prevista dall'ordinamento è costituita dall'addebito con le relative conseguenze giuridiche, ove la relativa violazione si ponga come causa determinante della separazione fra i coniugi, non essendo detta violazione idonea e sufficiente di per sè a integrare una responsabilità risarcitoria del coniuge che l'abbia compiuta, nè tanto meno del terzo, che al su detto obbligo è del tutto estraneo. In particolare, quanto alla responsabilità per danni non patrimoniali - ai quali è limitato il tema del decidere - sulla base dei principi già sopra esposti, perchè possa sussistere una responsabilità risarcitoria, accertata la violazione del dovere di fedeltà, al di fuori dell'ipotesi di reato dovrà accertarsi anche la lesione, in conseguenza di detta violazione:, di un diritto costituzionalmente protetto. Sarà inoltre necessaria la prova del nesso di causalità fra detta violazione ed il danno, che per essere a detto fine rilevante non può consistere nella sola sofferenza psichica causata dall'infedeltà e dalla percezione dell'offesa che ne deriva - obbiettivamente insita nella violazione dell'obbligo di fedeltà - di per sè non risarcibile costituendo pregiudizio derivante da violazione di legge ordinaria, ma deve concretizzarsi nella compromissione di un interesse costituzionalmente protetto. Evenienza che può verificarsi in casi e contesti del tutto particolari, ove si dimostri che l'infedeltà, per le sue modalità e in relazione alla specificità della fattispecie, abbia dato luogo a lesione della salute del coniuge (lesione che dovrà essere dimostrata anche sotto il profilo del nesso di causalità). Ovvero ove l'infedeltà per le sue modalità abbia trasmodato in comportamenti che, oltrepassando i limiti dell'offesa di per sè insita nella violazione dell'obbligo in questione, si siano concretizzati in atti specificamente lesivi della dignità della persona, costituente bene costituzionalmente protetto.

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2.6. In relazione ai su detti principi, deve darsi risposta positiva al quesito posto dalla ricorrente, con il quale si è chiesto a questa Corte di affermare che la mancanza di addebito della separazione non è preclusiva di separata azione per il risarcimento dei danni prodotti dalla violazione dei doveri nascenti dal matrimonio e riguardanti diritti costituzionalmente protetti. Deve infatti ritenersi incompatibile con i principi sopra enunciati l'affermazione della sentenza impugnata (che ne costituisce la "ratio decidendi") censurata con il motivo, secondo la quale la prova della colpevole violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, ai fini dell'esperibilità dell'azione di risarcimento, sarebbe preclusa ove i coniugi, come nel caso di specie, siano addivenuti a separazione consensuale, rinunciando il coniuge interessato alla pronuncia di addebito, dovendosi tale rinuncia interpretare come rinuncia all'accertamento delle cause della crisi del matrimonio, in quanto giudizialmente accertabili solo nel giudizio di separazione con specifica domanda di addebito. Tale statuizione viene erroneamente collegata alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale la dichiarazione di addebito della separazione può essere richiesta e adottata solo nell'ambito del giudizio di separazione, dovendosi escludere l'esperibilità di domande di addebito fuori da tale giudizio (ex multis Cass. sez. un. 4 dicembre 2001, n. 15279; 29 marzo 2005, n. 6625). Quella giurisprudenza pone a fondamento del su detto principio la statuizione dell'art. 151 cod. civ., comma 2, che attribuisce espressamente la cognizione della domanda di addebito al giudice della separazione. Ma ai fini che qui interessano va rilevato che l'art. 151 cod. civ., attribuisce al giudice della separazione la cognizione sulla violazione dei doveri nascenti dal matrimonio unicamente in relazione alla pronuncia sull'addebito, che in essi trova la "causa petendi". Cioè in relazione a quello specifico "petitum", costituito dalle conseguenze giuridiche che si collegano alla pronuncia di addebito e che sono, per il coniuge a carico del quale venga presa, l'esclusione del diritto al mantenimento (con salvezza del solo credito alimentare ove ne ricorrano i requisiti) e la perdita della qualità di erede riservatario e di erede legittimo, con salvezza del diritto ad un assegno vitalizio in caso di godimento degli alimenti al momento dell'apertura della successione (artt. 156, 548 e 585 cod. civ.). "Petitum" al quale si può non avere interesse, avendo invece interesse, sussistendone i presupposti, al diritto al risarcimento. Non essendo rinvenibile una norma di diritto positivo, nè essendo rinvenibili ragioni di ordine sistematico che rendano la pronuncia sull'addebito (inidonea di per sè a dare fondamento all'azione di risarcimento) pregiudiziale rispetto alla domanda di risarcimento, una volta affermato - come sopra si è fatto - che la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio non trova necessariamente la propria sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, ma, ove ne sussistano i presupposti secondo le regole generali, può integrare gli estremi di un illecito civile, la relativa azione deve ritenersi del tutto autonoma rispetto alla domanda di separazione e di addebito ed esperibile a prescindere da dette domande, ben potendo la medesima "causa petendi" dare luogo a una pluralità di azioni autonome contrassegnate ciascuna da un diverso "petitum". Ne deriva, inoltre, che ove nel giudizio di separazione non sia stato domandato l'addebito, o si sia rinunciato alla pronuncia di addebito, il giudicato si forma, coprendo il dedotto e il deducibile, unicamente in relazione al "petitum" azionato e non sussiste pertanto alcuna preclusione all'esperimento dell'azione di risarcimento per violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, così come nessuna preclusione si forma in caso di separazione consensuale. Ciò trova ulteriore conferma sistematica per un verso nella considerazione che, come sopra si è osservato con specifico riferimento alla violazione dell'obbligo di fedeltà, diverse sono anche la rilevanza e le caratteristiche fattuali che tale violazione può avere ai fini dell'addebitabilità della separazione rispetto a quelle che deve avere per dare fondamento ad un'azione di risarcimento. Per altro verso, nella considerazione che sarebbe del tutto al di fuori della logica del sistema subordinare - risultato al quale condurrebbe la "ratio" della decisione impugnata - alla dichiarazione di addebito il risarcimento del danno per violazione di obblighi nascenti dal matrimonio ove tale violazione costituisca reato e abbia dato luogo a condanna penale.

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Il secondo motivo del ricorso va pertanto accolto - dichiarandosi assorbito il primo - e la sentenza va cassata con rinvio anche per le spese alla Corte d'appello di Genova in diversa composizione che farà applicazione del principio secondo il quale: "I doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio hanno natura giuridica e la loro violazione non trova necessariamente sanzione unicamente nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, quale l'addebito della separazione, discendendo dalla natura giuridica degli obblighi su detti che la relativa violazione, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi dell'illecito civile e dare luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell'art. 2059 cod. civ., senza che la mancanza di pronuncia di addebito in sede di separazione sia preclusiva dell'azione di risarcimento relativa a detti danni".

� Cass., 10 aprile 2012, n. 5652 (Pres. Luccioli, Rel. Campanile) 4.7 - Le questioni che la presente vicenda pone, per le numerose implicazioni giuridiche, meriterebbero ampia disamina, inserendosi esse nella più vasta problematica della responsabilità aquiliana nei rapporti familiari che negli ultimi anni è stata interessata da una vasta rielaborazione sotto il profilo della tutela dei diritti fondamentali della persona; l'esame, tuttavia, dovrà essere, nel rispetto dell'economia del presente giudizio, limitato agli aspetti enucleati nei quesiti di diritto validamente proposti. 4.8 - Viene in primo luogo in considerazione la tesi secondo cui il riconoscimento della paternità, o, come sembra di capire, quanto meno la proposizione della relativa domanda, costituiscano il presupposto della responsabilità aquiliana scaturente dalla violazione dei doveri inerenti al rapporto di filiazione. Tale assunto è all'evidenza infondato, in quanto contrastante con il principio, costantemente affermato da questa Corte, secondo cui l'obbligo del genitore naturale di concorrere nel mantenimento del figlio insorge con la nascita dello stesso, ancorchè la procreazione sia stata successivamente accertata con sentenza (Cass., 20 dicembre 2011, n. 27653; Cass., 3 novembre 2006. n. 23596), atteso che la sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento e quindi, ai sensi dell'art. 261 c.c., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ai sensi dell'art. 148 c.c., ricollegandosi tale obbligazione allo status genitoriale e assumendo, di conseguenza, efficacia retroattiva (Cass., 17 dicembre 2007, n. 26576 pari decorrenza, dalla nascita del figlio (Cass., 11 luglio 2006, n. 15756; Cass., 14 maggio 2003, n. 7386; Cass., 14 febbraio 2003, n. 2196). La sussistenza di tale obbligo, raccordata alla consapevolezza del concepimento, come sopra evidenziata, esclude la fondatezza della tesi secondo cui la responsabilità del D. dovrebbe escludersi in assenza di specifiche richieste provenienti dalla S. o dal figlio. Prescindendo dal rilievo inerente all'inutilità di richieste successive dopo un rifiuto iniziale espresso in termini categorici, soccorre il principio secondo cui l'obbligo dei genitori di mantenere i figli (artt. 147 e 148 c.c.) sussiste per il solo fatto di averli generati e prescinde da qualsivoglia domanda, sicchè nell'ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l'obbligo dell'altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori (Cass., 2 febbraio 2006, n. 2328). 4.9 - Quanto alla dedotta insussistenza di un diritto al risarcimento del danno, per violazione del complesso dei doveri facenti capo al genitore naturale, e limitati nella presente vicenda al periodo compreso fra il raggiungimento, da parte del figlio, della maggiore età ed il conseguimento dell'autosufficienza sul piano economico, premesso che la relativa liquidazione, costituendo questione di merito, non può essere sindacata in questa sede, non essendosi per altro validamente prospettati, come sopra evidenziato, vizi motivazionali, deve ribadirsi come la violazione di

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obblighi cui corrispondono, nel destinatario, diritti primari della persona, costituzionalmente garantiti, comporta la sussistenza di un illecito civile certamente riconducibile nelle previsioni dell'art. 2043 c.c. e segg.. Nell'ambito di un vasto orientamento, formatosi sia in dottrina, che nella giurisprudenza, tanto di merito (Trib. Venezia, 30 giugno 2004; Corte app. Bologna, 10 febbraio 2004), quanto di legittimità (Cass., 7 giugno 2000, n. 7713; Cass., 10 maggio 2005, n. 9801, fino alla recente Cass., 15 settembre 2011, n. 18853), è stato, da tempo enucleata la nozione di illecito endofamiliare, in virtù della quale la violazione dei relativi doveri non trova necessariamente sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, discendendo dalla natura giuridica degli obblighi suddetti che la relativa violazione, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi dell'illecito civile e dare luogo ad un'autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell'art. 2059 c.c.. Il riferimento del ricorrente alla nota decisione delle Sezioni unite di questa Corte n. 26972 del 2008, proponendone una lettura riduttiva e fondata su un rilevo di carattere nominalistico, non coglie nel segno, essendosi al contrario con essa ribadito come, al di là del ricorso a varie figure di danno, diversamente denominate per meri fini descrittivi, debba affermarsi, in base a un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., la risarcibilità del pregiudizio di natura non patrimoniale, quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale. Non può dubitarsi, con riferimento al caso di specie, come il disinteresse dimostrato da un genitore nei confronti di un figlio, manifestatosi per lunghi anni e connotato, quindi, dalla violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione, determini un vulnus, dalle conseguenze di entità rimarchevole ed anche, purtroppo, ineliminabili, a quei diritti che, scaturendo dal rapporto di filiazione, trovano nella carta costituzionale (in part., artt. 2 e 30), e nelle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento un elevato grado di riconoscimento e di tutela.

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C. IL RISARCIMENTO DEL DANNO PER VIOLAZIONE DELLA NORMATIVA ANTITRUST

� Cass., 2 febbraio 2007, n. 2305 (Pres. Vittoria, Rel. Spirito) 2.1 - I tre motivi sopra esposti possono essere riassunti in due categorie concettuali: la prima, tendente a negare l'esistenza di un diritto soggettivo leso, nonchè del nesso causale tra la dichiarata illegittimità dell'intesa ed il danno lamentato nell'azione risarcitoria esperita; la seconda, tendente a dimostrare l'errore commesso dal giudice nella valutazione della prova allegata. La soluzione dei quesiti necessita di una premessa comune, che tenga conto, soprattutto, delle progressive conclusioni alle quali sono pervenute la giurisprudenza comunitaria e quella nazionale in tema di rapporti tra quelli che vengono definiti i contratti a monte ed i contratti a valle. Tenendo presente che questa Corte ha già ripetutamente affrontato le problematiche concernenti l'azione di risarcimento concretamente esercitata nella causa in trattazione, benchè soltanto marginalmente affrontando le problematiche oggi poste. 2.2 - La sentenza alla quale fa riferimento la ricorrente (Cass. 9 dicembre 2002, n. 17475, resa in una fattispecie analoga a quella ora trattata) muove secondo un'argomentazione che può essere così riassunta: a) la "prospettiva privilegiata dell'impresa", che caratterizzerebbe l'impianto della L. n. 287 del 1990 sotto il profilo dell'individuazione delle condotte ritenute illecite, si riflette anche sotto il profilo dei rimedi sanzionatori previstidall'art. 33, comma 2, legge stessa, ossia le azioni di nullità e di risarcimento; b) nullità delle intese sarebbe difficilmente configurabile una legittimazione ad agire in capo ai consumatori, "non potendo in alcun modo reagire su di essi l'esistenza in sè delle "intese", le quali - come strumento tecnico operativo - risultano concepite, in quanto tali, solo in funzione di chi appunto (le imprese) le possa concludere, e le abbia nel concreto concluse, ed apparendo, invece, al riguardo, il possibile ruolo del consumatore finale, chiamato piuttosto ad esaurirsi nella sollecitazione dell'esercizio dei loro poteri da parte degli organi individuati dalla stessa L. n. 287 del 1990 in quella che si rivela la sua componente più propriamente pubblicistica". Tuttavia, ad avviso della sentenza in commento, l'esclusione del consumatore dal novero dei soggetti destinatari della tutela antitrust non era tale da determinare "l'irrisarcibilità assoluta di ogni e qualsiasi delle eventuali ricadute estreme di quelle intese vietate dal legislatore in sede di L. n. 287 del 1990", che si verificano allorchè il consumatore realizza la forma tipica di accesso al mercato che gli è propria, entrando in contatto con la singola impresa professionista. In presenza, infatti, di una condotta dell'impresa connotata dal requisito dell'antigiuridicità (in quanto lesiva di uno specifico diritto soggettivo vantato dal consumatore) quest'ultimo avrebbe avuto la legittimazione ad esperire un'ordinaria azione di responsabilità (a conclusioni non dissimili era già pervenuta Cass. 4 marzo 1999, n. 1811, ritenendo che gli artt. 85 e 86 del Trattato istitutivo della Comunità Europea avrebbero come desti-natari diretti gli imprenditori commerciali, i quali soli sarebbero legittimati ad avvalersene e non l'utente singolo, che potrebbe trame un vantaggio in via meramente riflessa ed indiretta). Siffatta decisione fu bersaglio di aspra critica da parte della prevalente dottrina, la quale, predicando la legittimazione del consumatore finale nell'azione dell'art. 33 in trattazione, comma 2, pose in evidenza che l'aumento del costo della polizza assicurativa ed il conseguente prezzo sovraconcorrenziale praticato al consumatore finale non erano da considerarsi "ricadute estreme" delle intese poste in essere dalle imprese. Esse erano, bensì, la conseguenza diretta, immediata e voluta dalle imprese partecipanti all'intesa stessa, il naturale sviluppo di quest'ultima; così come, per altro verso, chi si sobbarcava a pagare quel prezzo costituiva la vittima designata e diretta della condotta illecita. 2.3 - Per altro verso, la sentenza di legittimità in commento sembrava non tener conto della giurisprudenza comunitaria in materia (Corte giust. 20 settembre 2001, causa C-453/99), Couragre c. Crehan), la quale (senza rinnegare la regola che, in assenza di specifiche possibilità di ricorso,

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attribuisce ai soli giudici nazionali il compito di assicurare ai singoli la tutela giurisdizionale delle norme di diritto comunitario aventi efficacia diretta) aveva sottolineato che la piena efficacia dell'art. 81 del Trattato sarebbe messa in discussione se sussistessero preclusioni alla richiesta di risarcimento del danno, trattandosi di un diritto che rafforza "il carattere operativo delle regole di concorrenza, comunitarie ed è tale da scoraggiare gli accordi o le pratiche, spesso dissimulate, che possono restringere o falsare il gioco della concorrenza". In quest'ottica, secondo la Corte di giustizia, "le azioni di risarcimento del danno possono contribuire sostanzialmente al mantenimento di un'effettiva concorrenza nella Comunità". Fu a seguito di queste argomentazioni che la 3^ sezione civile di questa Corte pervenne ad un ripensamento sul tema della legittimazione e, con ordinanza n. 15538 del 17 ottobre 2003, rimise la questione, ritenuta di massima di particolare importanza, alle sezioni unite della Corte stessa. L'ordinanza, facendo riferimento ai suggerimenti della dottrina, rilevò: che la mancanza, nella L. n. 287 del 1990, di una specifica disciplina della legittimazione è significativa del fatto che l'ambito dei soggetti che possono ricevere pregiudizio è, a priori, di difficile definizione; che possibili legittimati sono i concorrenti delle imprese che hanno posto in essere la pratica restrittiva della concorrenza, i loro fornitori ed il consumatore finale, costretto a pagare un prezzo sovraconcorrenziale; che l'azione dei consumatori assume un ruolo nell'ottica di maggiore efficienza nella repressione delle pratiche concorrenziali; che il problema dei soggetti legittimati deve essere impostato in termini concreti, facendo applicazione caso per caso delle norme generali in materia di illecito e di nesso di causalità e considerando che il comportamento anticoncorrenziale è astrattamente idoneo a propagarsi "secondo lo schema della reazione a catena". 2.4 - Investite, dunque, della questione, le sezioni unite, con la sentenza n. 2207 del 4 febbraio 2005, definitivamente riconobbero al consumatore finale la legittimazione ad agire per il risarcimento del danno innanzi alla Corte d'appello, in esercizio del diritto previsto dalla L. n. 287 del 1990, art. 33, comma 2. Attrassero, dunque, nell'alveo della normativa antitrust l'azione risarcitoria che la sentenza n. 17475 del 2002 aveva pur riconosciuto al consumatore finale, ma in via ordinaria ed al di fuori di quelle disposizioni, che erano state ritenute di stretta pertinenza dell'imprenditore. In questa occasione furono svolte alcune considerazioni che giovano anche alla soluzione dei quesiti oggi posti dalla ricorrente. Risulta, soprattutto, affermato: che oggetto immediato della tutela della legge non è il pregiudizio del concorrente, ancorchè questo possa essere riparato dalla repressione dell'intesa, bensì un più generale bene giuridico; che l'ampia tutela accordata dalla legge nazionale antitrust, in armonia con il Trattato, non ignora la plurioffensività possibile del comportamento vietato, in quanto un'intesa vietata può ledere anche il patrimonio del singolo, concorrente o meno dell'autore o degli autori della intesa; che la legge in questione non è la legge degli imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti del mercato, ovvero di chiunque abbia un interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere; che la legge non ignora, nella materia dell'intesa, l'interesse del consumatore al punto da prevedere un'ipotesi in cui esso, alla cui difesa l'ideologia antitrust è funzionale, può essere tutelato per un "periodo limitato" addirittura da un allentamento del divieto del più classico comportamento anticoncorrenziale; che il consumatore, quale acquirente finale del prodotto offerto al mercato, chiude la filiera che inizia con la produzione del bene, sicchè la funzione illecita di un'intesa si realizza per l'appunto con la sostituzione del suo diritto di scelta effettiva tra prodotti in concorrenza con una scelta apparente, quale che sia lo strumento che conclude tale percorso illecito; che a detto strumento non si può attribuire un rilievo giuridico diverso da quello dell'intesa che va a strutturare, giacchè il suo collegamento funzionale con la volontà anticompetitiva a monte lo rende rispetto ad essa non scindibile. A conclusione di questa disamina, giova ricordare che alcuni spunti ispiratori della sentenza delle sezioni unite in commento sono già rinvenibili in Cass. 1 febbraio 1999, n. 827, alla quale, in particolare, si deve l'affermazione che la L. n. 287 del 1990, art. 2, nello stabilire la nullità delle

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intese, non ha inteso dar rilevanza esclusivamente all'eventuale negozio giuridico originario postosi all'origine della successiva sequenza comportamentale, ma a tutta la più complessiva situazione (anche successiva al negozio originario) che, in quanto tale, realizzi un ostacolo al gioco della concorrenza. 3.1 - L'indagine finora svolta consente già di fornire la risposta al primo dei quesiti posti dalla ricorrente, sotto i diversi profili del diritto che in concreto l'assicurato lamenta essere stato leso e del nesso causale intercorrente tra l'intesa illecita ed il danno lamentato dall'assicurato. Quanto al primo profilo, la ricorrente censura la mancata individuazione, da parte della sentenza impugnata, del diritto violato, che viene visto come indispensabile presupposto per il riconoscimento della tutela aquiliana in concreto sperimentata (natura di responsabilità sulla quale nessuna delle parti pone alcun dubbio). A tal riguardo è necessario ricordare che da tempo la giurisprudenza ha riconsiderato la tradizionale interpretazione del concetto di danno ingiusto, formatasi dopo l'entrata in vigore del codice civile del 1942, la quale riteneva che l'art. 2043 c.c. prevedesse l'obbligo del risarcimento del danno quale sanzione per una condotta qualificata come illecita, sia perchè contrassegnata dalla colpa del suo autore, sia perchè lesiva di una posizione giuridica della vittima tutelata erga omnes da altra norma primaria. Peraltro, l'ingiustizia menzionata da quella norma veniva ritenuta mal riferita al danno, dovendo piuttosto essere considerata attributo della condotta, ed identificata con l'illiceità, da intendersi nel duplice senso suindicato. Secondo questa concezione, dunque, la responsabilità aquiliana postulava che il danno inferto presentasse la duplice caratteristica di essere contra ius, ossia lesivo di un diritto soggettivo, e non iure, ossia derivante da un comportamento non giustificato da altra norma. In senso contrario, aderendo ai rilievi critici che la dottrina assolutamente prevalente aveva mosso a quelle affermazioni, si è successivamente rilevato, per un verso, che non emerge dal tenore letterale dell'art. 2043 c.c.che oggetto della tutela risarcitoria sia esclusivamente il diritto soggettivo, e, per altro verso, che la scissione della formula danno ingiusto, per riferire l'aggettivazione alla condotta, costituisce indubbia forzatura della lettera della norma, secondo la quale l'ingiustizia è requisito del danno. In altri termini, è stato posto in evidenza che nella disposizione in esame risulta netta la centralità del danno, del quale viene previsto il risarcimento qualora esso sia ingiusto, mentre la colpevolezza della condotta (in quanto contrassegnata da dolo o colpa) viene riservata all'imputabilità della responsabilità. L'area della risarcibilità non è, quindi, definita da altre norme recanti divieti e, pertanto, costitutive di diritti (con conseguente tipicità dell'illecito in quanto fatto lesivo di ben determinate situazioni ritenute dal legislatore meritevoli di tutela), bensì da una clausola generale, espressa dalla formula danno ingiusto, in virtù della quale è risarcibile il danno che presenta le caratteristiche dell'ingiustizia, e cioè il danno arrecato non iure, ossia inferto in difetto di una causa di giustificazione, che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l'ordinamento. Ne consegue che la norma sulla responsabilità aquiliana non è norma (secondaria), volta a sanzionare una condotta vietata da altre norme (primarie), bensì norma (primaria) volta ad apprestare una riparazione del danno ingiustamente sofferto da un soggetto per effetto dell'attività altrui. Sicchè, ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana non assume rilievo determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, poichè la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione alla ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante (per questi concetti, cfr. soprattutto Cass. sez. un. 22 luglio 1999, n. 500, la quale, per giungere all'affermazione della risarcibilità degli interessi legittimi, traccia la più moderna teoria sul danno). Se, dunque, la tutela aquiliana è attuabile ogni qual volta si verifichi la lesione di un interesse rilevante per l'ordinamento, è agevole, nella fattispecie in esame, rilevare che l'interesse in concreto vantato è quello ultraindividuale alla libertà contrattuale, concretantesi nel diritto a godere dei

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benefici della competizione commerciale, costituenti la colonna portante del meccanismo negoziale e della legge della domanda e dell'offerta. Interesse, questo, tutelato al massimo livello dalla legislazione comunitaria e, soprattutto, dall'art. 41 Cost., del quale (come ricorda la già citata Cass. sez. un. n. 2207 del 2005) la L. n. 287 del 1990 costituisce specifica applicazione (l'art. 1 così recita: "Le disposizioni della presente legge in attuazione dell'art. 41 Cost. a tutela e garanzia del diritto di iniziativa economica, si applicano alle intese, agli abusi di posizione dominante e alle concentrazioni di imprese"). Risulta in questi termini respinta la tesi della ricorrente, che censura la sentenza per avere omesso di identificare il diritto soggettivo leso ed il comportamento ingiusto posto in essere dalla compagnia. 3.2 - Passando all'indagine relativa al nesso causale tra comportamento e danno ingiusto, s'è già visto che la sentenza delle sezioni unite n. 2207 del 2005 ha risolto il problema del rapporto tra l'intesa illecita ed i contratti a valle (i Folgevertrage) nel senso dell'inscindibilità di questi ultimi rispetto alla volontà anticoncorrenziale residente a monte, la quale trova, appunto, il suo momento di realizzazione massima nella necessitata ed inconsapevole adesione del consumatore finale. Essa ha pure individuato il consumatore come colui che, acquistando il prodotto, chiude la filiera che inizia con la produzione del bene (in questo caso, è l'assicurato che s'avvale del servizio assicurativo ideato e proposto a monte dalla compagnia). S'è visto pure che altra giurisprudenza ha attribuito al comportamento anticoncorrenziale l'astratta idoneità a propagarsi secondo lo schema della reazione a catena. Non si può, a tal proposito, che concordare con quella dottrina che rileva come, in siffatto scenario, il contratto a consumo finisce col simboleggiare la parte visibile ad occhio nudo dell'iceberg che mette al sacco il meccanismo autoequilibratore su cui poggiano gli architravi del libero mercato, la cui base sommersa è individuabile nel pactum sceleris che anima i competitori collusi, costituente causa remota del danno patito dagli acquirenti dei beni e servizi offerti dall'impresa. In altri termini, il contratto finale tra imprenditore e consumatore costituisce il compimento stesso dell'intesa anticompetitiva tra imprenditori, la sua realizzazione finale, il suo senso pregnante. Sicchè, teorizzare, come fa la ricorrente, la profonda cesura tra contratto a monte e contratto a valle, per derivarne che, in via generale, la prova dell'uno non può mai costituire anche prova dell'altro, significa negare l'intero assetto, comunitario e nazionale, della normativa antitrust, la quale (giova ribadirlo) è posta a tutela non solo dell'imprenditore, ma di tutti i partecipanti al mercato. Il che, in conclusione, consente di affermare che il giudice può desumere il legame eziologico tra comportamento anticoncorrenziale e danno lamentato attraverso presunzioni probabilistiche che si fondino sul rapporto di sequenza costante tra antecedente e dato consequenziale. 3.3 - Ed anche a questo riguardo occorre sintetizzare i progressi ai quali è pervenuta la giurisprudenza di questa Corte, dietro lo stimolo della più recente dottrina, nelle sue applicazioni in campo sia penale che civile. Si è, in primo luogo, premesso che il nesso di causalità è elemento strutturale dell'illecito, che corre, su di un piano strettamente oggettivo e secondo una ricostruzione di tipo sillogistico, tra un comportamento (dell'autore del fatto) astrattamente considerato (e non ancora qualificabile come damnum iniuria datum) e l'evento dannoso. Nell'individuazione di tale relazione primaria tra condotta ed evento si prescinde in prima istanza da ogni valutazione di prevedibilità, tanto soggettiva quanto aggettivata, da parte dell'autore del fatto, essendo il concetto di previsione insito nella fattispecie della colpa (elemento qualificativo del momento soggettivo dell'illecito, elemento di analisi collocato in un momento successivo della ricostruzione della fattispecie). A questo punto il nesso di causalità materiale tra condotta ed evento è quello per cui ogni comportamento antecedente (prossimo, intermedio, remoto) che abbia generato, o anche soltanto contribuito a generare tale obbiettiva relazione col fatto, deve considerarsi causa dell'evento stesso; mentre il nesso di causalità giuridica è quello per cui i fatti sopravvenuti, idonei di per sè soli a determinare l'evento, interrompono il nesso con tutti gli antecedenti causali.

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La valutazione del nesso di causalità giuridica - tanto sotto il profilo della dipendenza dell'evento dai suoi antecedenti fattuali, quanto sotto quello della individuazione del nuovo fatto interveniente - si compie secondo criteri o di probabilità scientifica, se esaustivi, o di logica aristotelica, se appare non praticabile o insufficiente il ricorso a leggi scientifiche di copertura. In termini assolutamente sintetici (rispetto ad un vasto e complesso dibattito) è possibile affermare che l'originario criterio statistico, posto alla base del sillogismo causale, è stato soppiantato da quello dell'alta probabilità logica, nel senso che quest'ultima consiste nel grado di credenza razionale nel verificarsi di un evento, atteso che la statistica mal si attaglia all'analisi di accadimenti individuali, che postulano un apprezzamento logico di tutte le circostanze del caso concreto, con particolare riferimento alle circostanze differenziali rispetto alla situazione astratta cui si riferisce un dato statistico (per questi concetti, cfr. soprattutto Cass. sez. un. penali 10 luglio 2002, n. 30328, imp. Franzese, e Cass. civ. 18 aprile 2005, n. 7997). Attraverso siffatto ragionamento probabilistico è possibile, dunque, che il giudice individui l'intesa illecita come condotta preparatoria rispetto alla condotta finale, costituita dall'aumento di polizza, e che configuri il danno nel maggior esborso a carico dell'assicurato, la cui ingiustizia sia prodotta (nei sensi sopra esposti) dalla lesione all'interesse giuridicamente protetto ad un mercato liberamente competitivo. D'altronde bisogna ragionare sul fatto che il danno lamentato si atteggia sotto forma di perdita di chance, ossia della possibilità di ottenere migliori condizioni di polizza nel caso in cui il mercato assicurativo non fosse stato alterato dalla condotta anticoncorrenziale. Danno in relazione alla cui sussistenza la giurisprudenza ammette, in maniera consolidata, la prova secondo un calcolo probabilistico o per presunzioni (si vedano in proposito i vari precedenti in tema di privazione della possibilità di vincere un concorso per violazione da parte del datore di lavoro dell'obbligo di osservare i criteri di correttezza e buona fede nelle relative procedure, tra cui Cass. 18 gennaio 2006, n. 852). In quest'ordine di idee, dunque, deve essere respinta quella parte di ricorso che nega nella fattispecie in esame, la configurabilità del nesso eziologico e, della sentenza, va considerato indenne da vizi il punto nel quale s'è deciso che, rientrando nel campo di una normale consecuzione di un effetto ad un fatto, un aumento delle tariffe costituisca il risultato di un'intesa anticoncorrenziale, quale quella accertata. 4.1 - Il problema si sposta ora sull'onere probatorio a carico dell'attore nella sequenza temporale e causale della quale s'è detto. Nel quadro di un'ordinaria azione aquiliana e nella logica sopra descritta, all'assicurato sarà sufficiente allegare l'accertamento dell'intesa concorrenziale da parte dell'Autorità garante (come condotta preparatoria) e la polizza contratta (come condotta finale), individuando il danno nella maggior somma pagata (rispetto a quella che avrebbe pagato se il mercato assicurativo non fosse stato viziato nella sua competitività) e la relativa ingiustizia nei termini (già specificati) di lesione del proprio interesse alla trasparenza e competitività del mercato stesso. In quest'ordine di idee non ha senso pretendere (come fa la ricorrente) la produzione della polizza relativa all'anno precedente per dimostrare l'aumento del premio: qui non si tratta di verificare l'aumento subito dallo specifico contratto (potrebbe, infatti, trattarsi della prima annualità di polizza, o di un premio determinato in base a pregressi incidenti, o comunque influenzato da una serie di particolari fattori), bensì di accertare gli effetti che l'intesa ha svolto sull'aumento dei prezzi del mercato assicurativo, in generale, ed, in particolare, sullo specifico premio pagato. D'altro canto, non può omettersi di rilevare in proposito che la ricorrente, per assolvere all'onere di completa contestazione, avrebbe potuto essa stessa esibire la polizza, della quale, come altra parte contraente, è in possesso e che ritiene rilevante per la propria difesa. Quanto, poi, al nesso causale, il giudice potrà accertarne l'esistenza (anche ciè è stato già chiarito) in termini probabilistici o presuntivi, ma - questo è il punto nodale rispetto al quale la critica formulata nel ricorso si manifesta fondata - dovrà consentire all'assicuratore di provare contro le presunzioni o

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contro la sequenza probabilistica posta a base del ragionamento che fa derivare il danno dall'intesa illecita. Si intende con questo dire che il giudice non può omettere di valutare tutti gli elementi di prova offerti dall'assicuratore per contrastare le presunzioni, o per dimostrare che la sequenza causale percorsa risulta spezzata da uno o più fatti diversi che da soli sono stati idonei a procurare il danno, oppure, ancora, per accertare che quei fatti, insieme con l'intesa illecita, abbiano assunto il carattere di equivalenti (e, dunque, concorrenti) causali nella produzione del danno. Accertamenti e valutazioni che il giudice può svolgere attraverso tutti gli strumenti offertigli dal rito, non escluso l'espletamento della consulenza tecnica, ma che nella specie non risultano affatto svolti. L'assicuratore aveva, invero, allegato una serie di documentate circostanze (cfr. supra nella parte espositiva dei motivi di ricorso) tendenti proprio alla suddetta prova. Circostanze che la sentenza impugnata non ha tenuto in alcun conto, essendosi essa esclusivamente ed acriticamente adagiata sul mero contenuto del provvedimento amministrativo, quasi ad avallare l'aberrante tesi che il danno sia in re ipsa. Tesi tanto più insostenibile se si tiene conto del fatto che il provvedimento antitrust in questione (e le pronunzie dei giudici amministrativi che lo hanno confermato) si limita all'accertamento dell'illiceità dello scambio di informazioni, ponendo in termini di mera potenzialità l'alterazione del gioco concorrenziale e, dunque, l'aumento dei prezzi praticati al consumatore finale. 4.2 - Venendo, infine, al quantum oggetto di liquidazione risarcitoria, sicuramente il giudice, una volta accertata la ricorrenza di un'ipotesi di responsabilità aquiliana (e, dunque, l'esistenza di un danno ingiusto), può procedere alla liquidazione equitativa di cui all'art. 1226 c.c.. Quello in esame sembra un caso di scuola in cui il danno (ossia la maggior somma pagata rispetto al premio assicurativo che sarebbe stato pagato in assenza di pratica concordata) non può essere provato nel suo preciso ammontare o, comunque, la sua prova è altamente difficile. Correttamente il giudice, dunque, lo ha liquidato sotto forma di una percentuale del premio effettivamente pagato. Tale percentuale è stata, però, calcolata sul premio lordo, ossia comprensivo di imposte ed oneri vari (ossia di somme che non vengono incassate dall'assicuratore), mentre avrebbe dovuto essere calcolata sul premio al netto di quegli accessori. Anche su quest'ultimo punto deve essere, pertanto, accolto il rilievo della ricorrente. 5. - In conclusione, la sentenza deve essere parzialmente cassata in relazione ai primi tre motivi sopra esaminati ed il giudice del rinvio dovrà adeguarsi al seguente principio di diritto: L'azione risarcitoria, proposta dall'assicurato - ai sensi della L. n. 287 del 1990, art. 33, comma 2 (Norme per la tutela della concorrenza e del mercato) - nei confronti dell'assicuratore che sia stato sottoposto a sanzione dall'Autorità Garante per aver partecipato ad un'intesa anticoncorrenziale, tende alla tutela dell'interesse giuridicamente protetto (dalla normativa comunitaria, dalla Costituzione e dalla legislazione nazionale) a godere dei benefici della libera competizione commerciale (interesse che può essere direttamente leso da comportamenti anticompetitivi posti in essere a monte dalle imprese), nonchè alla riparazione del danno ingiusto, consistente nell'aver pagato un premio di polizza superiore a quello che l'assicurato stesso avrebbe pagato in condizioni di libero mercato. In siffatta azione l'assicurato ha l'onere di allegare la polizza assicurativa contratta (quale condotta finale del preteso danneggiante) e l'accertamento, in sede amministrativa, dell'intesa anticoncorrenziale (quale condotta preparatoria), ed il giudice potrà desumere l'esistenza del nesso causale tra quest'ultima ed il danno lamentato anche attraverso criteri di alta probabilità logica o per il tramite di presunzioni, senza però omettere di valutare gli elementi di prova offerti dall'assicuratore che tenda a provare contro le presunzioni o a dimostrare l'intervento di fattori causali diversi, che siano stati da soli idonei a produrre il danno, o che abbiano, comunque, concorso a produrlo. Accertata, dunque, l'esistenza di un danno risarcibile, il giudice potrà procedere in via equitativa alla relativa liquidazione, determinando l'importo risarcitorio in una percentuale del premio pagato, al netto delle imposte e degli oneri vari.

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D. LA RESPONSABILITÀ DA CONTATTO SOCIALE Responsabilità medica

� Cass., sez. III, 22 gennaio 1999, n. 589 (Pres. Bile; Rel. Segreto) 6.1. Un recente, ma sempre più consistente, orientamento della dottrina ha ritenuto che nei confronti del medico, dipendente ospedaliero, si configurerebbe pur sempre una responsabilità contrattuale nascente da "un'obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto", in quanto poiché sicuramente sul medico gravano gli obblighi di cura impostigli dall'arte che professa, il vincolo con il paziente esiste, nonostante non dia adito ad un obbligo di prestazione, e la violazione di esso si configura come culpa in non faciendo, la quale dà origine a responsabilità contrattuale. 6.2. La soluzione merita di essere condivisa. Va subito rilevato che non si può criticare la definizione come "contrattuale" della responsabilità del medico dipendente di struttura sanitaria, limitandosi ad invocare la rigidità del catalogo delle fonti ex art. 1173 c.c., che non consentirebbe obbligazioni contrattuali in assenza di contratto. Infatti la più recente ed autorevole dottrina ha rilevato che l'art. 1173 c.c., stabilendo che le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito o da altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico, consente di inserire tra le fonti principi, soprattutto di rango costituzionale ( tra cui, con specifico riguardo alla fattispecie, Può annoverarsi il diritto alla salute), Che trascendono singole proposizioni legislative. Suggerita dall'ipotesi legislativamente prevista di efficacia di taluni contratti nulli (art. 2126, c.1, 2332, c.2 e 3, c.c., art. 3 c. 2 l. n. 756-1964), ma allargata altresì a comprendere i casi di rapporti che nella previsione legale sono di origine contrattuale e tuttavia in concreto vengono costituiti senza una base negoziale e talvolta grazie al semplice "contatto sociale" (secondo un'espressione che risale agli scrittori tedeschi), si fa riferimento, in questi casi al "rapporto contrattuale di fatto o da contatto sociale". Con questa espressione si riassume una duplice veduta del fenomeno, riguardato sia in ragione della fonte (il fatto idoneo a produrre l'obbligazione in conformità dell'ordinamento - art. 1173 c.c.-) sia in ragione del rapporto che ne scaturisce (e diviene allora assorbente la considerazione del rapporto, che si atteggia ed è disciplinato secondo lo schema dell'obbligazione da contratto). La categoria mette in luce una possibile dissociazione tra la fonte - individuata secondo lo schema dell'art. 1173 - e l'obbligazione che ne scaturisce. Quest'ultima può essere sottoposta alle regole proprie dell'obbligazione contrattuale, pur se il fatto generatore non è il contratto. In questa prospettiva, quindi, si ammette che le obbligazioni possano sorgere da rapporti contrattuali di fatto, nei casi in cui taluni soggetti entrano in contatto, senza che tale contatto riproduca le note ipotesi negoziali, e pur tuttavia ad esso si ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi che sono emersi o sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso. In questi casi non può esservi (solo) responsabilità aquiliana, poiché questa non nasce dalla violazione di obblighi ma dalla lesione di situazioni giuridiche soggettive altrui (è infatti ormai acquisito che, nell'ambito dell'art. 2043 c.c., l'ingiustizia non si riferisce al fatto, ma al danno); quando ricorre la violazione di obblighi, la responsabilità è necessariamente contrattuale, poiché il soggetto non ha fatto (culpa in non faciendo) ciò a cui era tenuto in forza di un precedente vinculum iuris, secondo lo schema caratteristico della responsabilità contrattuale. Un'eco di questa impostazione sembra ravvisarsi in Cass., sez. I, 1.10.1994, n. 7989, secondo cui la responsabilità extracontrattuale ricorre solo quando la pretesa risarcitoria venga formulata nei confronti di un soggetto autore di un danno ingiusto non legato all'attore da alcun rapporto giuridico

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precedente, o comunque indipendentemente da tale eventuale rapporto, mentre, se a fondamento della pretesa venga enunciato l'inadempimento di un'obbligazione volontariamente contratta, ovvero anche derivante dalla legge, è ipotizzabile unicamente una responsabilità contrattuale. 6.3. Quanto sopra detto si verifica per l'operatore di una professione cd. protetta (cioè una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione da parte dello Stato, art. 348 c.p.), in particolare se detta professione abbia ad oggetto beni costituzionalmente garantiti, come avviene per la professione medica (che è il caso della fattispecie in esame), che incide sul bene della salute, tutelato dall'art. 32 Cost.. Invero a questo tipo di operatore professionale la coscienza sociale, prima ancora che l'ordinamento giuridico, non si limita a chiedere un non facere e cioè il puro rispetto della sfera giuridica di colui che gli si rivolge fidando nella sua professionalità, ma giustappunto quel facere nel quale si manifesta la perizia che ne deve contrassegnare l'attività in ogni momento (l'abilitazione all'attività, rilasciatagli dall'ordinamento, infatti, prescinde dal punto fattuale se detta attività sarà conseguenza di un contratto o meno). In altri termini la prestazione (usando il termine in modo generico) sanitaria del medico nei confronti del paziente non può che essere sempre la stessa, vi sia o meno alla base un contratto d'opera professionale tra i due. ciè è dovuto al fatto che, trattandosi dell'esercizio di un servizio di pubblica necessità, che non può svolgersi senza una speciale abilitazione dello Stato, da parte di soggetti di cui il "pubblico è obbligato per legge a valersi" (art. 359 c.p.), e quindi trattandosi di una professione protetta, l'esercizio di detto servizio non può essere diverso a seconda se esista o meno un contratto. La pur confermata assenza di un contratto, e quindi di un obbligo di prestazione in capo al sanitario dipendente nei confronti del paziente, non è in grado di neutralizzare la professionalità (secondo determinati standard accertati dall'ordinamento su quel soggetto), che qualifica ab origine l'opera di quest'ultimo, e che si traduce in obblighi di comportamento nei confronti di chi su tale professionalità ha fatto affidamento, entrando in "contatto" con lui. Proprio gli aspetti pubblicistici, che connotano l'esercizio di detta attività, comportano che esso non possa non essere unico da parte del singolo professionista, senza possibilità di distinguere se alla prestazione sanitaria egli sia tenuto contrattualmente o meno. L'esistenza di un contratto potrà essere rilevante solo al fine di stabilire se il medico sia obbligato alla prestazione della sua attività sanitaria ( salve le ipotesi in cui detta attività è obbligatoria per legge, ad es. art. 593 c.p., Cass. pen. 10.4.1978,n. 4003, Soccardo). In assenza di dette ipotesi di vincolo, il paziente non potrà pretendere la prestazione sanitaria dal medico, ma se il medico in ogni caso interviene (ad esempio perché a tanto tenuto nei confronti dell'ente ospedaliero, come nella fattispecie) l'esercizio della sua attività sanitaria (e quindi il rapporto paziente medico) non potrà essere differente nel contenuto da quello che abbia come fonte un comune contratto tra paziente e medico. Da tutto ciò consegue che la responsabilità dell'ente gestore del servizio ospedaliero e quella del medico dipendente hanno entrambe radice nell'esecuzione non diligente o errata della prestazione sanitaria da parte del medico, per cui, accertata la stessa, risulta contestualmente accertata la responsabilità a contenuto contrattuale di entrambi (qualificazione che discende non dalla fonte dell'obbligazione, ma dal contenuto del rapporto). 7.1. Questa soluzione della questione ovviamente produce i suoi effetti sui veri nodi della responsabilità del medico e cioè il grado della colpa e la ripartizione dell'onere probatorio. Si è sottolineato che sotto il profilo sistematico le norme sulla diligenza (art. 1176 c.c.) sono previste per tutti i tipi di obbligazioni e non autorizzano ad individuare materie distinte, per cui il concetto di colpa è unitario. Dottrina e giurisprudenza tendono, quindi, a ritenere che detto concetto sia quello previsto dall'art. 1176 c.c., che impone di valutare la colpa con riguardo alla natura dell'attività esercitata. Pertanto la responsabilità del medico per i danni causati al paziente postula la violazione dei doveri inerenti al suo svolgimento, tra i quali quello della diligenza, che va a sua volta valutato con

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riguardo alla natura dell'attività e che in rapporto alla professione di medico chirurgo implica scrupolosa attenzione ed adeguata preparazione professionale (Cass. 12.8.1995,n. 8845). Infatti il medico chirurgo nell'adempimento delle obbligazioni inerenti alla propria attività professionale è tenuto ad una diligenza che non è solo quella del buon padre di famiglia, come richiesto dall'art. 1176, c.1°, ma è quella specifica del debitore qualificato, come indicato dall'art. 1176, c. 2°, la quale comporta il rispetto di tutte le regole e gli accorgimenti che nel loro insieme costituiscono la conoscenza della professione medica. Il richiamo alla diligenza ha, in questi casi, la funzione di ricondurre la responsabilità alla violazione di obblighi specifici derivanti da regole disciplinari precise. In altri termini sta a significare applicazione di regole tecniche all'esecuzione dell'obbligo, e quindi diventa un criterio oggettivo e generale e non soggettivo. Ciò comporta, come è stato rilevato dalla dottrina, che la diligenza assume nella fattispecie un duplice significato: parametro di imputazione del mancato adempimento e criterio di determinazione del contenuto dell'obbligazione. 7.2. Nella diligenza è quindi compresa anche la perizia da intendersi come conoscenza ed attuazione delle regole tecniche proprie di una determinata arte o professione. Comunemente si dice che trattasi di una diligentia in abstracto, ma ciò solo per escludere che trattisi di diligentia quam in suis, e cioè della diligenza che normalmente adotta quel determinato debitore. Per il resto il grado di diligenza, per quanto in termini astratti ed oggettivi, deve essere apprezzato in relazione alle circostanze concrete e tra queste, quanto alla responsabilità professionale del medico, rientrano anche le dotazioni della struttura ospedaliera in cui lo stesso opera. In relazione a dette strutture tecniche va valutata la diligenza e quindi la perizia che al medico devono richiedersi, delle quali è anche espressione la scelta di effettuare in sede solo gli interventi che possono essere ivi eseguiti, disponendo per il resto il trasferimento del paziente in altra sede, ove ciò sia tecnicamente possibile e non esponga il paziente stesso a più gravi inconvenienti. Minore autolesionista

� Cass., sez. III, 18 novembre 2005, n. 24456 (Pres. Giuliano; Rel. Trifone) In tema di danno cagionato dall'alunno a se stesso, le Sezioni Unite di questa Corte, intervenute a dirimere un contrasto giurisprudenziale sulla questione, con la sentenza n. 9346/2002 hanno stabilito che la responsabilità dell'istituto scolastico e dell'insegnante non ha natura extracontrattuale, bensì contrattuale, atteso, quanto all'istituto scolastico, che l'accoglimento della domanda di iscrizione, con la conseguente ammissione dell'allievo alla scuola, determina l'instaurazione di un vincolo negoziale, dal quale sorge a carico dell'istituto l'obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l'incolumità dell'allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni, anche al fine di evitare che l'allievo procuri danno a se stesso; e che -quanto al precettore dipendente dell'istituto scolastico- tra insegnante ed allievo si instaura, per contatto sociale, un rapporto giuridico, nell'ambito del quale l'insegnante assume, nel quadro del complessivo obbligo di istruire ed educare, anche uno specifico obbligo di protezione e vigilanza, onde evitare che l'allievo si procuri da solo un danno alla persona. Ne deriva che, nelle controversie instaurate per il risarcimento del danno da cd, autolesione nei confronti dell'istituto scolastico e dell'insegnante è applicabile il regime probatorio desumibile dall'art. 1218 cod. civ., sicché, mentre l'attore deve provare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, sull'altra parte incombe l'onere di dimostrare che l'evento dannoso è stato determinato da causa non imputabile né alla scuola, né all'insegnante.

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Banca per pagamento di assegno a soggetto non legittimato

� Cass., sez. un., 26 giugno 2007, n. 14712 (Pres. Carbone, Rel. Rordorf) 4.4. Reputano le sezioni unite che alla responsabilità di cui si discute debba essere senz'altro riconosciuta natura contrattuale, benchè non sia necessario a tal fine postulare che la banca negoziatrice operi in veste di mandataria della banca sulla quale grava l'obbligazione cartolare di pagamento. 4.4.1. E' opinione ormai quasi unanimemente condivisa dagli studiosi quella secondo cui la responsabilità nella quale incorre "il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta" (art. 1218 c.c.) può dirsi contrattuale non soltanto nel caso in cui l'obbligo di prestazione derivi propriamente da un contratto, nell'accezione che ne da il successivo art. 1321 c.c., ma anche in ogni altra ipotesi in cui essa dipenda dall'inesatto adempimento di un'obbligazione preesistente, quale che ne sia la fonte. In tale contesto la qualificazione "contrattuale" è stata definita da autorevole dottrina come una sineddoche (quella figura retorica che consiste nell'indicare una parte per il tutto), giustificata dal fatto che questo tipo di responsabilità più frequentemente ricorre in presenza di vincoli contrattuali inadempiuti, ma senza che ciò valga a circoscriverne la portata entro i limiti che il significato letterale di detta espressione potrebbe altrimenti suggerire. Pur non senza qualche incertezza, in un quadro sistematico peraltro connotato da un graduale avvicinamento dei due tradizionali tipi di responsabilità, anche la giurisprudenza ha in più occasioni mostrato di aderire a siffatta concezione della responsabilità contrattuale, ritenendo che essa possa discendere anche dalla violazione di obblighi nascenti da situazioni (non già di contratto, bensì) di semplice contatto sociale, ogni qual volta l'ordinamento imponga ad un soggetto di tenere, in tali situazioni, un determinato comportamento. Così, ad esempio, è stato attribuito carattere contrattuale non soltanto all'obbligazione di risarcimento gravante sull'ente ospedaliero per i danni subiti da un privato a causa della non diligente esecuzione della prestazione medica da parte di un medico operante nell'ospedale, ma anche all'obbligazione del medico stesso nei confronti del paziente, quantunque non fondata sul contratto ma sul solo contatto sociale, poichè a questo si ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire la tutela degli interessi che si manifestano e sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso (cfr. Cass. n. 9085 del 2006, Cass. n. 12362 del 2006, Cass. n. 10297 del 2004, Cass. n. 589 del 1999 ed altre conformi); e natura contrattuale è stata riconosciuta anche alla responsabilità del sorvegliante dell'incapace, per i danni che quest'ultimo cagioni a se stesso in conseguenza della violazione degli obblighi di protezione ai quali il sorvegliante è tenuto, sul presupposto che quegli obblighi derivino da un rapporto giuridico contrattuale che tra tali soggetti si instaura per contatto sociale qualificato (cfr. Cass. n. 11245 del 2003). Ne deriva che la distinzione tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale sta essenzialmente nel fatto che quest'ultima consegue dalla violazione di un dovere primario di non ledere ingiustamente la sfera di interessi altrui, onde essa nasce con la stessa obbligazione risarcitoria, laddove quella contrattuale presuppone l'inadempimento di uno specifico obbligo giuridico già preesistente e volontariamente assunto nei confronti di un determinato soggetto (o di una determinata cerchia di soggetti). In quest'ottica deve esser letta anche la disposizione dell'art. 1173 c.c. che classifica le obbligazioni in base alla loro fonte ed espressamente distingue le obbligazioni da contratto (da intendersi nella più ampia accezione sopra indicata) da quelle da fatto illecito. Si potrebbe in verità anche sostenere - ed è stato sostenuto - che la nozione di obbligazione contrattuale contenuta in detto articolo ha una valenza più ristretta, e che le obbligazioni derivanti dalla violazione di specifiche norme o principi giuridici preesistenti ricadono nell'ulteriore categoria degli altri atti o fatti idonei a produrre obbligazioni in conformità dell'ordinamento giuridico, cui pure la medesima norma allude. Piuttosto che obbligazioni di natura contrattuale le si dovrebbe insomma definire obbligazioni ex lege.

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La questione sembra avere, in verità, un valore essenzialmente classificatorio, giacchè in linea generale il regime cui sono soggette tali obbligazioni ex lege non si discosta da quello delle obbligazioni contrattuali in senso stretto. Ma, comunque, tenuto conto del carattere assai vago della definizione adoperata per individuare siffatta ulteriore categoria di obbligazioni (essendosi peraltro i redattori del vigente codice civile espressamente rifiutati sia di ripetere la preesistente espressione di obbligazioni derivanti dalla legge, sul presupposto che tutte le obbligazioni si fondano sulla legge, sia di evocare le antiche figure del quasi contratto e del quasi delitto, prive di un reale contenuto determinato), e considerate le difficoltà in cui la stessa dottrina si è sempre trovata nell'interpretare questa espressione normativa (che taluno non ha esitato a definire "sgangherata"), appare probabilmente preferibile circoscriverne la portata alle sole obbligazioni che con sicurezza ne costituiscono la base storica: quelle integranti la cosiddetta responsabilità da fatto lecito - in primis la responsabilità derivante dalla gestione di affari altrui o dall'arricchimento privo di causa - la quale nè presuppone l'inesatto adempimento di un obbligo precedente (di fonte legale o contrattuale che sia) nè dipende da comportamenti illeciti in danno altrui. 4.4.2. Da tali premesse si ricava la natura contrattuale della responsabilità della banca negoziatrice di assegni bancari (o circolari), la quale abbia pagato detti assegni in violazione delle specifiche regole poste dalla L. assegno, art. 43, comma 1, nei confronti di tutti i soggetti nel cui interesse quelle regole sono dettate e che, per la violazione di esse, abbiano sofferto un danno: prima di tutti il prenditore, ma eventualmente anche colui che ha apposto sul titolo la clausola di non trasferibilità, o colui che abbia visto in tal modo indebitamente utilizzata la provvista costituita presso la banca trattarla (o emittente), nonchè, se del caso, questa stessa banca. Induce a ciò la considerazione che quelle regole di circolazione e di pagamento dell'assegno munito di clausola di non trasferibilità, pur certamente svolgendo anche un'indiretta funzione di rafforzamento dell'interesse generale alla regolare circolazione dei titoli di credito, appaiono essenzialmente volte a tutelare i diritti di coloro che alla circolazione di quello specifico titolo sono interessati: ciascuno dei quali ha ragione di confidare sul fatto che l'assegno verrà pagato solo con le modalità e nei termini che la legge prevede, la cui concreta attuazione, proprio per questo, è rimessa ad un banchiere, ossia ad un soggetto dotato di specifica professionalità a questo riguardo. Ed è appena il caso di aggiungere che tale professionalità del banchiere si riflette necessariamente sull'intera gamma delle attività da lui svolte nell'esercizio dell'impresa bancaria, e quindi sui rapporti che in quelle attività sono radicati: giacchè per lo più si tratta di rapporti, per così dire, asimmetrici, per la corretta attuazione dei quali il banchiere dispone di strumenti e di competenze che normalmente gli altri soggetti interessati non hanno. Dal che appunto dipende, per un verso, l'affidamento di tutti gli interessati nel puntuale espletamento, da parte del banchiere, dei compiti inerenti al servizio bancario e, per altro verso, la specifica responsabilità in cui il banchiere medesimo incorre nei confronti di coloro che con lui entrano in contatto per avvalersi di quel servizio, ove, viceversa, egli non osservi le regole al riguardo prescritte dalla legge. La previsione del citato art. 43, comma 2, in virtù della quale colui che paga malamente l'assegno non trasferibile ne assume responsabilità, letta in combinazione con le norme dettate dal comma precedente in ordine ai soggetti in favore dei quali l'assegno deve essere pagato, sta appunto a significare che la responsabilità del banchiere dipende dalla violazione di quelle norme. E' bensì vero che l'ordinamento conosce anche casi di responsabilità aquiliana contemplati da norme specifiche, che costituiscono attuazione del principio generale posto dall'art. 2043 c.c., ma deve pur sempre trattarsi di situazioni nelle quali la responsabilità si manifesta primariamente nell'obbligo risarcitoria. Qui, invece, in capo al banchiere presso cui l'assegno non trasferibile è posto all'incasso sorge, prima d'ogni altro, un obbligo professionale - derivante dalla sua stessa funzione, in considerazione della quale la legge stabilisce, appunto, che l'assegno possa esser girato per l'incasso solo ad un banchiere - di far sì che il titolo sia introdotto nel circuito di pagamento bancario in conformità alle regole che ne presidiano la circolazione e l'incasso. E la responsabilità deriva

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appunto dalla violazione di un siffatto obbligo di protezione, che opera nei confronti di tutti i soggetti interessati alla regolare circolazione del titolo ed al buon fine della sottostante operazione: obbligo preesistente, specifico e volontariamente assunto. Il che, per le ragioni dianzi chiarite, necessariamente conduce fuori dall'ambito della responsabilità aquiliana, non permette di configurare un caso di responsabilità ex lege (intesa come responsabilità da atto lecito) e porta invece a concludere per la natura (lato sensu) contrattuale della responsabilità ricadente sulla banca a norma della L. assegno, citato art. 43, comma 2. Mediazione tipica

� Cass., sez. III, 14 luglio 2009, n. 16382 (Pres. Petti, Rel. Spagna Musso) Occorre in proposito osservare, anche sulla base, in parte, di quanto recentemente affermato da questa Corte (in particolare le sentenze nn. 24333/2008 e 19066/2006) che, oltre alla mediazione c.d. ordinaria o tipica di cui all'art. 1754 c.c., consistente in un attività giuridica in senso stretto, è configurabile una "mediazione" di tipo contrattuale che risulta correttamente riconducibile, più che ad "una mediazione negoziale atipica", al contratto di mandato. Accanto, infatti, all'ipotesi delineata dall'art. 1754 c.c., i disposti di cui agli artt. 1756 e 1761 c.c., supportano l'eventuale configurazione di un vero e proprio rapporto di mandato ex art. 1703 c.c.. La previsione tipica di cui all'art. 1754 c.c., individuando nel mediatore "colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legalo ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione di dipendenza o di rappresentanza", pone in rilevo tre aspetti: a) l'attività di mediazione prescinde da un sottostante obbligo a carico del mediatore stesso, perchè posta in essere in mancanza di un apposito titolo (costituente rapporto subordinato o collaborativo); b) "la messa in relazione" delle parti ai fini della conclusione di un affare è dunque qualificabile come di tipo non negoziale ma giuridica in senso stretto; c) detta attività si collega al disposto di cui all'art. 1173 c.c., in tema di fonti delle obbligazioni, e, specificamente, al derivare queste ultime, oltre che da contratto, da fatto illecito, o fatto, da "ogni altro atto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico" (nel senso, quindi, che l'attività del mediatore è dallo stesso legislatore individuata come fonte del rapporto obbligatorio nel cui ambito sorge il diritto di credito alla provvigione di cui all'art. 1756 c.c.). Appare preferibile ritenere l'attività in oggetto (per quanto "di regola" previsto nel codice civile) quale giuridica in senso stretto e non negoziale, non solo perchè, riconducendosi all'antica distinzione tra atto e negozio, gli effetti della stessa sono specificamente predeterminati dallo stesso legislatore (con particolare riferimento a detta provvigione) ma soprattutto perchè non vi è alla base della stessa un contratto (rectius: regolamento di interessi "preventivamente" concordalo dal mediatore con una o più parti); ciò comporta che il mediatore, sempre per quanto configurato nell'art. 1754 c.c., acquista il diritto alla provvigione (a condizione della conclusione dell'affare) non in virtù di un negozio posto in essere ai sensi dell'art. 1322 c.c., (in tema di autonomia contrattuale) ed i cui effetti si producono ex art. 1372 c.c. ("il contratto ha forza di legge tra le parti", nel senso che l'efficacia contrattuale è giuridicamente vincolante) bensì sulla base di un mero comportamento (la messa in relazione di due o più parti) che il legislatore riconosce per ciò solo fonte di un rapporto obbligatorio e dei connessi effetti giuridici. Ciò non toglie, per come già esposto, che l'attività del c.d. mediatore possa essere svolta anche sulla base di un contratto di mandato. Per definizione, l'affidamento di un incarico "col quale una parte si obbliga a compiere uno più atti giuridici per conto dell'altra" da luogo al contratto di mandato ex art. 1703 c.c., (oltre che ad alcune particolari figure di contratto, quali la commissione, la spedizione e l'agenzia di cui rispettivamente agli artt. 1731, 1737 e 1742 c.c., in cui il nucleo essenziale degli interessi dei soggetti contraenti, caratterizzato da un'attività giuridica posta in essere da una parte per conto dell'altra, con

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presunzione di onerosità, e individuante la causa, è analogo a quello tipizzante il mandato stesso ed è altresì specificato; nella commissione: acquisto o vendita di beni per conto del committente e in nome del commissionario; nella spedizione: conclusione di un contratto di trasporto in nome proprio e per conto del mandante; nell'agenzia: promozione, in modo stabile, per la conclusione di contratti in una zona determinata). Ne deriva, come spesso avviene nella prassi (e come è facile rinvenire nei contratti standard di mediazione immobiliare, ove appunto si indica, nella maggior parte dei casi, un mandato o un incarico a vendere o ad acquistare beni immobili), che il mediatore in molti casi agisca non sulla base di un comportamento di mera messa in contatto tra due o più soggetti per la conclusione di un affare (attività giuridica in senso stretto che prescinde da un sottostante titolo giuridico) ma proprio perchè "incaricato" da una o più parti ai fini della conclusione dell'affare (generalmente in ordine all'acquisto o alla vendita di un immobile); in tal caso risulta evidente che l'attività del mediatore - mandatario è conseguenziale all'adempimento di un obbligo di tipo contrattuale (e dunque, ex art. 1173 c.c., questa volta riconducibile al contratto come fonte di obbligazioni). Tale diversa, duplice qualificazione giuridica dell'attività del mediatore si rinviene, al di là di detta prassi e da un punto di vista formale, non solo, nell'ambito della disciplina codicistica della mediazione, all'art. 1754 c.c. (diritto al rimborso delle spese nei confronti della persona per "incarico" della quale sono state eseguite, anche se l'affare non è concluso) e all'art. 1756 c.c., (incarico al mediatore da una delle parti di rappresentarla negli atti relativi all'esecuzione del contratto concluso con il suo intervento), ma anche nella L. n. 39 del 1989, (recante "modifiche ed integrazioni alla L. 21 marzo 1958, n. 253, concernente la disciplina della professione di mediatore"), istitutiva del ruolo professionale degli agenti di affari in mediazione; in quest'ultima, in particolare, rilevano l'art. 2, punto 2 ("il ruolo è distinto in tre sezioni: una per gli agenti immobiliari, una per gli agenti merceologici ed una per gli agenti muniti di mandato a titolo onerose, salvo ulteriori distinzioni in relazione a specifiche attività di mediazione da stabilire con il regolamento di cui all'art. 11"), l'art. 2, punto 4 ("l'iscrizione al ruolo deve essere richiesta anche se l'attività viene esercitata in modo occasionale o discontinuo, da coloro che svolgono, su mandato a titolo oneroso, attività per la conclusione di affari relativi ad immobili o ad aziende"), l'art. 5, punto 4 ("il mediatore che per l'esercizio della propria attività si avvalga di moduli o formulari, nei quali sono indicate le condizioni del contratto, deve preventivamente depositare copia presso la Commissione di cui all'art. 7"). Del resto, come già detto, è la stessa giurisprudenza della Corte a prospettare la possibilità che tra mediatore ed una delle parti intercorra un rapporto di tipo

contrattuale (da ultimo, Cass. n. 8374/2009), salvo poi a verificare la compatibilità di questo con la mediazione con senso tipico. Ciò posto, è ovvio che per il mediatore, a seconda se agisca senza mandato sulla base della generale previsione di cui all'art. 1754 c.c., oppure quale incaricato-mandatario, muti il regime della sua responsabilità. Nel primo caso il mediatore pur compiendo, come detto, un'attività giuridica in senso stretto, è comunque tenuto all'obbligo di comportarsi in buona fede, in virtù della clausola generale di correttezza di cui all'art. 1175 c.c., (sull'estensione della regola della buona fede in senso oggettivo a tutte la fonti delle obbligazioni ex art. 1173 c.c., ivi compreso l'atto giuridico non negoziale, Cass. n. 5140/2005), estrinsecantesi, in specie, nell'obbligo di una corretta informazione, tra cui la comunicazione di tutte le circostanze a lui note o conoscibili sulla base della diligenza qualificata di cui all'art. 1176 c.c., comma 2, vertendosi senz'altro in tema di attività professionale per come ulteriormente ribadito dalla citata L. n. 39 del 1989. Tale obbligo di correttezza sussiste a favore di entrambe le parti, messe in contatto ai fini della conclusione dell'affare, quale comprensivo di qualunque operazione di tipo economico - giuridico (sulla posizione di "neutralità" ed "imparzialità" nei confronti delle parti che concludono l'affare, tra le altre, Cass. n. 12106/2003, Cass. n. 13184/2007, la quale sottolinea la posizione di "terzietà" del mediatore rispetto ai contraenti posti in contratto in ciò differenziandolo dall'agente di commercio,

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nonchè Cass. n. 6959/2000, che sottolinea come carattere essenziale della figura giuridica del mediatore, ai sensi dell'art. 1754 c.c., è appunto la sua imparzialità, intesa come assenza di ogni vincolo di mandato, di prestazione d'opera, di preposizione institoria e di qualsiasi altro rapporto che renda riferibile al dominus l'attività dell'intermediario, per cui nel caso di specie la S.C. ha escluso il requisito dell'imparzialità ritenendo sussistente un mandato costituito dall'affidamento dell'incarico di trattare la vendita dell'immobile in norme e per conto del preponente). In particolare, egli è tenuto a comunicare: l'eventuale stato di insolvenza di una delle parti, l'esistenza di iscrizioni o pignoramenti sul bene, oggetto della conclusione dell'affare, la sussistenza di circostanze in base alle quali le parti avrebbero concluso il contratto con un diverso contenuto, l'esistenza di prelazioni ed opzioni (su tali punti, tra le altre, Cass. n. 5938/1993). Inoltre, se, prima facie, la responsabilità del mediatore non mandatario appare agevolmente di natura extracontrattuale, risulta preferibile, riguardando la stessa una figura professionale, applicare la più recente previsione giurisprudenziale di legittimità della responsabilità "da contatto sociale" (su cui, tra le altre, Cass. S.U. n. 577/2008; Cass. n. 12362/2006 e Cass. n. 9085/2006, con specifico riferimento al medico ed alle sue prestazioni prescindenti da un rapporto contrattuale); infatti, tale situazione è riscontrabile nei confronti dell'operatore di una professione sottoposta a specifici requisiti formali ed abilitativi, come nel caso di specie in cui è prevista l'iscrizione ad un apposito ruolo, ed a favore di quanti, utenti-consumatori, fanno particolare affidamento nella stessa per le sue caratteristiche (si pensi, ad esempio, alle c.d. agenzie immobiliari dalle particolari connotazioni professionali ed imprenditoriali). Da tale configurazione di responsabilità a carico del mediatore, che opera ai sensi dell'art. 1754 c.c., in caso di contenzioso tra il mediatore stesso e le parti, deriva sia che e il primo che deve dimostrare di aver fatto tutto il possibile, in base alla richiamata diligenza ex art. 1176 c.c., comma 2, nell'adempimento degli obblighi di correttezza ed informazione a suo carico (mentre spetta alle seconde fornire prova esclusivamente dell'avvenuto contatto ai fini della conclusione dell'affare), sia che il termine di prescrizione per far valere in giudizio detta responsabilità del mediatore è quello ordinario decennale (e non quello quinquennale della responsabilità ex art. 2043 c.c.). Ancora, per quanto già esposto, è evidente che l'attore che agisce per ottenere la provvigione di una mediazione da lui effettuata ha l'onere di dimostrare di non aver agito in posizione di mandatario di una delle parti. Nel secondo caso, vale a dure dell'attribuzione al professionista - mediatore di un incarico, e quindi, per quanto esposto, della sussistenza di un mandato, anche eventualmente con poteri rappresentativi mediante procura in ordine alla spendita del nome (mediante sottoscrizione dei relativi moduli di contratto standard in uso presso i mediatori o le c.d. agenzie immobiliari a veste societaria, erroneamente qualificati come "contratto di mediazione" o "conferimento incarico di mediazione per la vendita di un immobile"), le conseguenze sul piano giuridico sono ben diverse rispetto alla figura, tipica, ordinaria o tradizionale che dir si voglia, della mediazioneex art. 1754 c.c.. Responsabilità dell’ex datore di lavoro per informazioni inesatte fornite all’ex dipendente

� Cass., sez. III, 21 luglio 2011, n. 15992 (Pres. Filadoro; Rel. Carluccio) 6.2. Naturalmente, non può ipotizzarsi la responsabilità contrattuale derivante dal rapporto di lavoro con il Comune, visto che, nella specie, la richiesta di informazioni sul proprio stato contributivo proveniva da un ex dipendente (per un'ipotesi di responsabilità contrattuale dell'ente pubblico per aver indotto in errore il dipendente, e per il rilievo dell'affidamento in esso riposto dall'amministrato, Cass. 14 novembre 2008, n. 27154; la specificazione della responsabilità contrattuale si trova in motivazione).

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6.2.1. Alla luce degli approdi della giurisprudenza e della dottrina in ordine ai rapporti tra cittadino e amministrazione, potrebbe ipotizzarsi, invece, la generale responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 cod. civ.. Tuttavia, ritiene il Collegio, che prima ancora del generale principio del neminem ledere, valevole per tutti i cittadini nei confronti dell'amministrazione pubblica, rilevi quella responsabilità che giurisprudenza e dottrina qualificano da "contatto sociale", venendo in rilievo una richiesta di informazioni che, in quanto rivolta da un ex dipendente ad un ex datore di lavoro, si connota per una vicinanza qualificata giuridicamente da obblighi e aspettative che trovano la loro origine nel pregresso vincolo contrattuale. 6.3. La responsabilità da contatto sociale - elaborata sul terreno civilistico dalla dottrina, sulla scorta di quella tedesca, e fatta propria da oltre un decennio dalla giurisprudenza di legittimità - si caratterizza come responsabilità per inadempimento senza obblighi di prestazione contrattualmente assunti, in fattispecie di danno di difficile inquadramento sistematico, "ai confini tra contratto e torto". Vengono ricondotte ipotesi in cui la responsabilità extracontrattuale appare insufficiente, in quanto generica responsabilità del "chiunque", e nelle quali manca il fulcro del rapporto obbligatorio, costituito dalla prestazione vincolante. Fonte della prestazione risarcitoria non è nè la violazione del principio del neminem ledere, nè l'inadempimento della prestazione contrattualmente assunta, ma la lesione di obblighi di protezione, di comportamento, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi esposti a pericolo in occasione del contatto stesso. Il rapporto che scaturisce dal "contatto" è ricondotto allo schema della obbligazione da contratto. 6.3.1. La giurisprudenza di legittimità ha ravvisato responsabilità da contatto sociale: in capo al medico, dipendente da struttura sanitaria, nei confronti del paziente; nel caso dell'insegnante, dipendente dall'istituto scolastico, nei confronti dello studente, per il danno cagionato dall'alunno a se stesso. Il dato caratterizzante, comune alle due fattispecie, (rispetto alle quali l'applicazione del principio è costante, a partire, rispettivamente, da Cass. 22 gennaio 1999, n. 589 e da Sez, Un. 27 giugno 2002, n. 9346) è, oltre all'assenza di un contratto tra presunto danneggiante e danneggiato, la particolare "qualità dell'attività" svolta dal possibile danneggiante; potrebbe dirsi, proprio per gli echi pubblicistici legati alla destinazione dell'attività, la "qualità della funzione" svolta dal danneggiate, alla quale l'ordinamento giuridico collega obblighi di comportamento, anche a tutela di valori costituzionali (artt. 32, 33 e 34 Cost.). Da un lato, l'esercizio di una professione cosiddetta protetta, per aver bisogno di una speciale abilitazione all'esercizio, con obblighi di comportamento nei confronti di chi su tale professionalità ha fatto affidamento, entrando in contatto con lui. Dall'altro, il complessivo obbligo di istruire ed educare dell'insegnante, cui si collega lo specifico obbligo di protezione e vigilanza del discente per evitare che si procuri da solo un danno alla persona. 6.4. Nel caso di danno conseguente a inesatte informazioni (nella specie previdenziali), attinenti al rapporto di lavoro, fornite, a richiesta, dall'ex datore di lavoro al lavoratore, è assente il vincolo contrattuale attuale. E' presente, però, la particolare funzione qualificata svolta dal datore di lavoro, naturalmente riferibile ai propri dipendenti e non alla generalità, rispetto a informazioni in suo possesso attinenti al rapporto di lavoro che non sia più attuale. L'obbligo di comportamento trova il proprio fondamento nel pregresso rapporto contrattuale ed è a tutela dell'affidamento che l'ex dipendente ripone nell'ex datore di lavoro, quale detentore qualificato delle informazioni relative ad un rapporto contrattuale ormai concluso, in un contesto che ha sullo sfondo la tutela costituzionale apprestata al lavoro (art. 35 Cost.). E' ravvisatole, quindi, la responsabilità da contatto, con il conseguente regime probatorio desumibile dall'art. 1218 cod. civ., secondo il quale, mentre l'attore deve provare che il danno si è verificato per effetto del contatto, sull'altra parte incombe l'onere di dimostrare che l'evento dannoso è stato determinato da causa a sè non imputabile.

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Responsabilità precontrattuale

� Cass., sez. I, 20 dicembre 2011, n. 27648 (Pres. Rovelli; Rel. Ceccherini) 8. Con il secondo motivo del suo ricorso incidentale, il ministero censura, per violazione dell'art. 1337 c.c. e per vizio di motivazione, l'accertamento della sua responsabilità precontrattuale. Le trattative, alle quali fa riferimento l'art. 1337 c.c., si erano concluse con la stipulazione di una convenzione il 25 settembre 1981, e il C. non aveva mai sostenuto l'inosservanza da parte della pubblica amministrazione dei principi di lealtà e correttezza nella fase delle trattative che hanno preceduto tale convenzione. Non era configurabile una culpa in contrahendo per la mancata registrazione del decreto ministeriale di approvazione della convenzione. I due motivi sono intrinsecamente collegati, e possono essere esaminati insieme. Essi sono infondati. La domanda di accertamento della responsabilità precontrattuale è validamente proposta sulla base della rappresentazione di elementi di fatto idonei a dimostrare la lesione della buona fede tenuta dalla parte nel corso della vicenda, e con ciò dell'obbligo sancito dall'art. 1337 c.c.. La citata disposizione, infatti, delinea completamente la fattispecie sostanziale tutelata, costituita dal rapporto particolare che con la trattativa s'istituisce tra le parti, alle quali è normativamente imposto un obbligo di comportamento in buona fede; una fattispecie, pertanto, ben distinta dalla responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., in cui la lesione precede l'instaurazione di un qualsiasi rapporto particolare tra le parti. La violazione di quest'obbligo particolare, dunque, costituisce un caso di responsabilità compreso tra quelli indicati dall'art. 1173 c.c.. Sulla base di queste premesse, l'interpretazione della domanda, compiuta dal giudice di merito, appare giuridicamente corretta e immune da censure. Quanto alla mancata allegazione del profilo della colpa, va ricordato che questa corte è da tempo pervenuta a qualificare la responsabilità da contatto sociale in termini di responsabilità contrattuale, nella quale, conseguentemente, il danneggiato deve dimostrare - oltre al danno sofferto - solo la condotta antigiuridica, e non anche la colpa (tra le molte, in particolare, Cass. 22 gennaio 1999 n. 589, e Sez. un. 26 giugno 2007 n. 14712). Come si è già osservato, la responsabilità precontrattuale, nella quale v'è certamente un contatto sociale qualificato dallo stesso legislatore, con la previsione specifica di un obbligo di buona fede, presenta tutti gli elementi dell'art. 1173 c.c., sicchè deve ritenersi che l'attore, il quale intenda far valere tale responsabilità, abbia l'onere di provare solo l'antigiuridicità del comportamento (la violazione dell'obbligo di buona fede) e il danno. Il motivo, pertanto, deve essere rigettato in base al principio che, in tema di responsabilità precontrattuale, la parte che agisca in giudizio per il risarcimento del danno subito ha l'onere di allegare, e occorrendo provare, oltre al danno, l'avvenuta lesione della sua buona fede, ma non anche l'elemento soggettivo dell'autore dell'illecito, versandosi - come nel caso di responsabilità da contatto sociale, di cui costituisce una figura normativamente qualificata - in una delle ipotesi previste nell'art. 1173 c.c.. Responsabilità omissiva

� Cass., sez. III, 25 gennaio 2011, n. 1737 (Pres. Amatucci; Rel. Urban) Più recentemente s'è peraltro chiarito che nell'ordinamento giuridico vigente, pur non esistendo a carico di ciascun consociato un generale dovere di attivarsi al fine d'impedire eventi di danno, vi sono molteplici situazioni dalle quali possono nascere, per i soggetti che vi sono coinvolti, doveri e regole di azione, la cui inosservanza integra la nozione di omissione imputabile e la conseguente

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responsabilità civile (Cass., n. 21645/05) e che, in relazione alla responsabilità per danni da illecito omissivo, l'obbligo giuridico di impedire il verificarsi di un evento dannoso può sorgere in capo ad un soggetto non soltanto quando una norma o specifici rapporti gli impongano di attivarsi per impedire l'evento, ma anche quando tale obbligo possa derivare in base a principi desumibili dall'ordinamento positivo, non espresso quindi in forme specifiche, con conseguente dovere di agire e di comportamento attivo e configurabilità di responsabilità per omissione (Cass., n. 1211/06). Non si è così inteso infrangere il principio secondo il quale il precetto dell'alterum non laedere non implica un incondizionato e generale dovere di attivarsi a protezione dei diritti dei terzi esposti ad un pericolo di lesione, ma solo che esistono specifiche situazioni che esigono il compimento di una determinata attività a tutela di un diritto altrui (Cass., n. 14484/04) e che tra tali situazioni ben può rientrare quella della consapevolezza del pericolo cui è esposto un altro soggetto (così Cass., n. 22588/04, in riferimento ad un caso nel quale il proprietario di un'azienda agricola era stato ritenuto responsabile per i danni alla persona subiti dal suo "uomo di fiducia" che aveva l'incarico, durante la vendemmia, di sovrintendere alla raccolta dell'uva e alla pesatura della stessa presso la cantina sociale, per non avergli fornito un idoneo mezzo di trasporto, diverso dal trattore, per i continui spostamenti resi necessari da questa attività). Ovviamente, non indipendentemente da qualsiasi "contatto sociale", anche solo occasionale, fra il responsabile ed il danneggiato, ma tutte le volte che il dovere di solidarietà sia adeguatamente qualificato secondo la coscienza sociale del momento storico. Così come, invero, il contatto negoziale è talora idoneo ad ingenerare obblighi di protezione anche nei confronti dei terzi, analogamente quello sociale può consentire l'individuazione del soggetto in capo al quale si rende attuale il dovere di attivarsi per evitare danno a terzi. L'attività doverosa può essere, secondo le circostanze, anche solo informativa (come, ad esempio, in caso di prestito grazioso di un oggetto pericoloso), ovvero concretarsi nel dovere di assicurarsi che il terzo - che a titolo di cortesia si stia adoperando nell'interesse di altro soggetto, manovrando in sua presenza un oggetto pericoloso di cui il soggetto interessato conosca la pericolosità - abbia adottato le precauzioni idonee per la corretta esecuzione della manovra, o che queste siano state comunque poste in essere. La sentenza impugnata, nel legare l'obbligo giuridico dei fratelli P. di adoperarsi per prevenire ogni conseguenza dannosa della attività svolta dal M., al fatto che essi fossero presenti ai fatti, che fossero consapevoli della rischiosità delle operazioni che venivano compiute e che fossero i beneficiari dell'intervento svolto sulla macchina agricola, non fa altro che applicare in modo coerente e corretto i principi sopra enunciati, nel senso che pur non esistendo uno specifico obbligo di intervento dettata da una singola norma o da un autonomo accordo tra le parti, esisteva tuttavia un generico obbligo di intervento nell'assicurarsi che fossero state adottate tutte le precauzioni previste per la corretta esecuzione della manovra.

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E. IL DANNO INGIUSTO

� Cass., sez. un., 22 luglio 1999, n. 500 (Pres. Zucconi Galli Fonseca, Rel. Preden)

Si conferma, quindi, la già avvertita esigenza di affrontare alla radice il problema, compiendo una scelta tra le due contrapposte letture dell'art. 2043 c.c., incentrate sulla diversa qualificazione del "danno ingiusto". 7. Una indiretta sollecitazione nel suindicato senso si può cogliere, d'altra parte, anche nelle già ricordate pronunce con le quali la Corte costituzionale non ha mancato di rilevare come la tesi che vuole non risarcibili i danni patrimoniali cagionati dall'esercizio illegittimo della funzione pubblica a posizioni di interesse legittimo, in base ad una delle possibili interpretazioni dell'art. 2043 c.c., determina l'insorgere di un problema di indubbia gravità, che richiede "prudenti soluzioni normative, non solo nella disciplina sostanziale ma anche nel regolamento delle competenze giurisdizionali" (sent. n. 35-89), "e nelle scelte tra misure risarcitorie, indennitarie, reintegrative in forma specifica e ripristinatorie, ed infine nella delimitazione delle utilità economiche suscettibili di ristoro patrimoniale nei confronti della P.A." (ord. n. 165-98). Il monito, o l'invito, ancorché riferito al legislatore, non può infatti non coinvolgere anche questa S.C., poiché anche alla giurisprudenza di legittimità è consentito di intervenire con efficacia nella dibattuta questione, nell'esercizio del suo potere di interpretare le norme, procedendo a riconsiderare la tradizionale interpretazione del concetto di "danno ingiusto". 8. È noto che l'opinione tradizionale, formatasi dopo l'entrata in vigore del codice civile del 1942, secondo la quale la responsabilità aquiliana si configura come sanzione di un illecito, si fonda sulle seguenti affermazioni: l'art. 2043 c.c. prevede l'obbligo del risarcimento del danno quale sanzione per una condotta che si qualifica come illecita, sia perché contrassegnata dalla colpa del suo autore, sia perché lesiva di una posizione giuridica della vittima tutelata erga omnes da altra norma primaria; l'ingiustizia menzionata dall'art. 2043 c.c. è male riferita al danno, dovendo piuttosto essere considerata attribuito della condotta, ed identificata con l'illiceità, da intendersi nel duplice senso suindicato; la responsabilità acquiliana (*) postula quindi che il danno inferto presenti la duplice caratteristica di essere contra ius, e cioè lesivo di un diritto soggettivo (assoluto), e non iure, e cioè derivante da un comportamento non giustificato da altra norma. In senso contrario, aderendo ai rilievi critici che la dottrina assolutamente prevalente ha mosso alle suindicate affermazioni, può tuttavia osservarsi, per un verso, che non emerge dal tenore letterale dell'art. 2043 c.c. che oggetto della tutela risarcitoria sia esclusivamente il diritto soggettivo (e tantomeno il diritto assoluto, come ha convenuto la giurisprudenza di questa S.C. con la sentenza n. 174-71, con orientamento divenuto poi costante); per altro verso, che la scissione della formula "danno ingiusto", per riferire l'aggettivazione alla condotta, costituisce indubbia forzatura della lettera della norma, secondo la quale l'ingiustizia è requisito del danno. Non può negarsi che nella disposizione in esame risulta netta la centralità del danno, del quale viene previsto il risarcimento qualora sia "ingiusto", mentre la colpevolezza della condotta (in quanto contrassegnata da dolo o colpa) attiene all'imputabilità della responsabilità. L'area della risarcibilità non è quindi definita da altre norme recanti divieti e quindi costitutive di diritti (con conseguente tipicità dell'illecito in quanto fatto lesivo di ben determinate situazioni ritenute dal legislatore meritevoli di tutela), bensì da una clausola generale, espressa dalla formula "danno ingiusto", in virtù della quale è risarcibile il danno che presenta le caratteristiche dell'ingiustizia, e cioè il danno arrecato non iure, da ravvisarsi nel danno inferto in difetto di una causa di giustificazione (non iure), che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l'ordinamento (altra opinione ricollega l'ingiustizia del danno alla violazione del limite costituzionale di solidarietà, desumibile dagli artt. 2 e 41, comma 2, Cost., in riferimento a preesistenti situazioni del soggetto danneggiato giuridicamente rilevanti, e sotto tale ultimo profilo le tesi sostanzialmente convergono).

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Ne consegue che la norma sulla responsabilità aquiliana non è norma (secondaria), volta a sanzionare una condotta vietata da altre norme (primarie), bensì norma (primaria) volta ad apprestare una riparazione del danno ingiustamente sofferto da un soggetto per effetto dell'attività altrui. In definitiva, ai fini della configurabilità della responsabilità acquiliana (*) non assume rilievo determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, poiché la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione alla ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante. Quali siano gli interessi meritevoli di tutela non è possibile stabilirlo a priori: caratteristica del fatto illecito delineato dall'art. 2043 c.c., inteso nei sensi suindicati come norma primaria di protezione, è infatti la sua atipicità. Compito del giudice, chiamato ad attuare la tutela ex art. 2043 c.c., è quindi quello di procedere ad una selezione degli interessi giuridicamente rilevanti, poiché solo la lesione di un interesse siffatto può dare luogo ad un "danno ingiusto", ed a tanto provvederà istituendo un giudizio di comparazione degli interessi in conflitto, e cioè dell'interesse effettivo del soggetto che si afferma danneggiato, e dell'interesse che il comportamento lesivo dell'autore del fatto è volto a perseguire, al fine di accertare se il sacrificio dell'interesse del soggetto danneggiato trovi o meno giustificazione nella realizzazione del contrapposto interesse dell'autore della condotta, in ragione della sua prevalenza. Comparazione e valutazione che, è bene precisarlo, non sono rimesse alla discrezionalità del giudice, ma che vanno condotte alla stregua del diritto positivo, al fine di accertare se, e con quale consistenza ed intensità, l'ordinamento assicura tutela all'interesse del danneggiato, con disposizioni specifiche (così risolvendo in radice il conflitto, come avviene nel caso di interesse protetto nella forma del diritto soggettivo, soprattutto quando si tratta di diritti costituzionalmente garantiti o di diritti della personalità), ovvero comunque lo prende in considerazione sotto altri profili (diversi dalla tutela risarcitoria), manifestando così una esigenza di protezione (nel qual caso la composizione del conflitto con il contrapposto interesse è affidata alla decisione del giudice, che dovrà stabilire se si è verificata una rottura del "giusto" equilibrio intersoggettivo, e provvedere a ristabilirlo mediante il risarcimento). In particolare, nel caso (che qui interessa) di conflitto tra interesse individuale perseguito dal privato ed interesse ultraindividuale perseguito dalla P.A., la soluzione non è senz'altro determinata dalla diversa qualità dei contrapposti interessi, poiché la prevalenza dell'interesse ultraindividuale, con correlativo sacrificio di quello individuale, può verificarsi soltanto se l'azione amministrativa è conforme ai principi di legalità e di buona amministrazione, e non anche quando è contraria a tali principi (ed è contrassegnata, oltre che da illegittimità, anche dal dolo o dalla colpa, come più avanti si vedrà). 9. Una volta stabilito che la normativa sulla responsabilità aquiliana ha funzione di riparazione del "danno ingiusto", e che è ingiusto il danno che l'ordinamento non può tollerare che rimanga a carico della vittima, ma che va trasferito sull'autore del fatto, in quanto lesivo di interessi giuridicamente rilevanti, quale che sia la loro qualificazione formale, ed in particolare senza che assuma rilievo determinante la loro qualificazione in termini di diritto soggettivo, risulta superata in radice, per il venir meno del suo presupposto formale, la tesi che nega la risarcibilità degli interessi legittimi quale corollario della tradizionale lettura dell'art. 2043 c.c. La lesione di un interesse legittimo, al pari di quella di un diritto soggettivo o di altro interesse (non di mero fatto ma) giuridicamente rilevante, rientra infatti nella fattispecie della responsabilità aquiliana solo ai fini della qualificazione del danno come ingiusto.

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F. IL FATTO E IL NESSO DI CAUSALITÀ

La prova del nesso di causalità nella recente giurisprudenza di legittimità

La sentenza Franzese [Cass., Sez. Un., 11 settembre 2002, n. 30328 ] elabora per la prima volta un quadro compiuto delle regole in materia di causalità del reato: conferma una volta per tutte l’impiego delle leggi scientifiche e del giudizio controfattuale, riconosce l’esistenza di un unico e unitario paradigma oggettivo di imputazione dell’evento, ma soprattutto elabora il criterio della probabilità logica prossima alla certezza o elevato grado di credibilità razionale (in base al quale il nesso eziologico non solo deve essere giustificato mediante una legge scientifica di copertura, ma deve anche risultare sussistente secondo un elevato grado di credibilità razionale, mediante i riscontri probatori del caso concreto).

La certezza processuale s’intende raggiunta una volta riscontrata una probabilità logica prossima alla certezza: (…) all'esito del ragionamento probatorio, la decisione giudiziale deve essere in grado di giustificare la logica conclusione che, tenendosi l'azione doverosa omessa, il singolo evento lesivo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe inevitabilmente verificato, ma (nel quando) in epoca significativamente posteriore o (per come) con minore intensità lesiva. Se tale elevato grado di credibilità razionale non viene raggiunto, permane un ragionevole dubbio, e quindi il nesso deve considerarsi non accertato e l’imputato assolto, in base al principio in dubio pro reo.

Nell’ambito della responsabilità civile, dal 2008 in poi, la prova del nesso di causalità muta radicalmente: in occasione della pubblica udienza in materia di danni derivanti da emotrasfusioni, le S.U. delineano un vero e proprio decalogo in materia causale, il quale dà avvio a una continua rivisitazione della disciplina di questo elemento dell’illecito.

Di seguito sono riportate le sentenze di legittimità più significative che, dal 2008 ad oggi, hanno segnato l’evoluzione giurisprudenziale di questa tematica.

Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 581

E’ la più importante sentenza emanata finora in materia di nesso di causalità civile.

1) Si riconosce e conferma la dibattuta distinzione tra causalità materiale e causalità giuridica.

Per causalità materiale si intende la concatenazione causale volta a collegare l’evento dannoso alla condotta del danneggiante (art. 2043 c.c.), mentre è definita causalità giuridica la connessione tra

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il danno- evento e i pregiudizi (danno-conseguenza), che siano conseguenza immediata e diretta del fatto dannoso (art. 1223c.c.).

(…)Si è consolidata nella cultura giuridica contemporanea l'idea, sviluppata soprattutto in tema di nesso causale, che esistono due momenti diversi del giudizio aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilità (per la quale la problematica causale, detta causalità materiale o di fatto, presenta rilevanti analogie con quella penale, artt. 40 e 41 c.p., ed il danno rileva solo come evento lesivo) e la determinazione dell'intero danno cagionato, che costituisce l'oggetto dell'obbligazione risarcitoria.

A questo secondo momento va riferita la regola dell'art. 1223 (richiamato dall'art. 2056 ce), per il quale il risarcimento deve comprendere le perdite "che siano conseguenza immediata e diretta" del fatto lesivo (ed. causalità giuridica) (…). Secondo l'opinione assolutamente prevalente, occorre distinguere nettamente, da un lato, il nesso che deve sussistere tra comportamento ed evento perche' possa configurarsi, a monte, una responsabilità' "strutturale" (Haftungsbegrùndende Kausalitàt) e, dall'altro, il nesso che, collegando l'evento al danno, consente l'individuazione delle singole conseguenze dannose, con la precipua funzione di delimitare, a valle, i confini di una (già' accertata) responsabilità' risarcitoria (Haftungsausfullende Kausalitàt).

Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalente, tale distinzione è ravvisabile, rispettivamente, nel primo e nel secondo comma dell'art. 1227: il primo comma attiene al contributo eziologico del debitore nella produzione dell'evento dannoso, il secondo comma attiene al rapporto evento- danno conseguenza, rendendo irrisarcibili alcuni danni.

(…) Il "danno" rileva così sotto due profili diversi: come evento lesivo e come insieme di conseguenze risarcibili, retto il primo dalla causalità materiale ed il secondo da quella giuridica.

2) Si sancisce l’applicabilità alla prova del nesso di causalità nella responsabilità civile delle regole penali e dei principi penalistici:

. si applicano le norme di cui agli art. 40- 41 c.p.

Ai fini della causalità materiale nell'ambito della responsabilità aquiliana la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, in applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 c.p.,ritengono che un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non).

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. il giudice deve valutare i fatti alla stregua della teoria della condicio sine qua non (o teoria dell’equivalenza), fondata sull’art. 40 c.p. : in base a tale teoria una condotta umana si considera causa di un dato evento, quando costituisce una delle condizioni necessarie alla verificazione di tale fatto, ovvero quando, eliminata la condotta, risulta che l’evento non si sarebbe verificato. Tale teoria è in parte corretta dalla teoria della causalità umana in ambito penale (un dato fatto è imputabile al soggetto agente quando non è eccezionale, ossia quando rientra nel novero di quegli eventi dominabili dall’uomo), e dalla teoria della causalità adeguata o regolarità causale in ambito civile (un dato fatto è addebitabile al soggetto agente quando risulta tipicamente adeguato alla produzione dell’evento, secondo un giudizio prognostico ex ante e in base all’id quod plerumque accidit); entrambe le teorie si fondano sull’art. 41, 2 c.p. (definito principio di causalità efficiente).

Il rigore del principio dell'equivalenza delle cause, posto dall'art. 41 c.p, in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dal secondo comma dell'art. 41 c.p., in base al quale l'evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all'autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti,ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto (Cass. 19.12.2006, n. 27168; Cass. 8.9.2006, n. 19297; Cass. 10.3.2006, n. 5254; Cass. 15.1.1996, n. 268).

. lo schema logico del ragionamento giudiziale deve seguire il metodo del giudizio controfattuale: è il metodo conoscitivo mediante cui si accerta la natura condizionante di un dato fattore; il metodo consiste nel processo di eliminazione ipotetica del fattore X (es. la condotta del danneggiante) dal novero degli eventi realmente accaduti che compongono una data concatenazione causale, al fine di verificare il suo carattere di condicio sine qua non. Tale giudizio risponde alle seguenti domande: l’evento dannoso si sarebbe verificato in assenza della condotta del soggetto agente (in caso di condotta attiva illecita)? Ovvero, l’evento dannoso si sarebbe verificato se il danneggiante avesse posto in essere l’azione doverosa omessa (in caso di omissione illecita)?

L'accertamento del rapporto di causalità ipotetica passa attraverso l'enunciato "controfattuale" che pone al posto dell'omissione il comportamento alternativo dovuto, onde verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato.

. Il giudice deve usare gli strumenti della teoria della regolarità causale e delle leggi scientifiche di copertura (probabilità statistica o pascaliana): la spiegazione di una data sequenza di eventi deve avvenire mediante la sussunzione degli accadimento sotto leggi scientifiche di copertura, che in base alla giurisprudenza maggioritaria possono consistere in una generalizzata regola di esperienza, o in una legge dotata di validità scientifica [Cass., Sez. Un., 11 settembre 2002, n. 30328]; un dato

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evento rileva se prevedibile ex ante (principio di regolarità causale) in base alla migliore scienza ed esperienza (la S.C. parla di prevedibilità obiettiva dell’evento di danno).

La prevedibilità obbiettiva va esaminata in astratto e non in concreto ed il metro di valutazione da adottare non è quello della conoscenza dell'uomo medio ma delle migliori conoscenze scientifiche del momento (poiché non si tratta di accertare l'elemento soggettivo, ma il nesso causale).

In altri termini ciò che rileva è che l'evento sia prevedibile non da parte dell'agente, ma (per così dire) da parte delle regole statistiche e/o scientifiche, dalla quale prevedibilità discende da parte delle stesse un giudizio di non improbabilità dell'evento. Il principio della regolarità causale diviene la misura della relazione probabilistica in astratto (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra comportamento ed evento dannoso (nesso causale).

. criterio della probabilità logica o baconiana: il giudizio causale si svolge in due fasi, in quanto la spiegazione di un dato evento mediante le leggi scientifiche è una ricostruzione astratta (solitamente determinata in base a regole probabilistiche), la quale non basta a provare l’esistenza del nesso di causalità. E’ quindi necessario che tale ipotesi astratta sia verificata dal giudice mediante il riscontro probatorio nel caso concreto, in modo da escludere possibili decorsi causali alternativi.

Detto standard di "certezza probabilistica" in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa- statistica delle frequenze di classi di eventi (ed. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (ed. probabilità logica o baconiana). Nello schema generale della probabilità come relazione logica va determinata l'attendibilità dell'ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (ed. evidence and inference nei sistemi anglosassoni).

3) Si afferma che l’unica distinzione rilevante tra processo penale e civile consiste nello standard probatorio richiesto: ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio" (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell'evidenza o "del più probabile che non".

In assenza di norme civili che specificamente regolino il rapporto causale, ancora occorre far riferimento ai principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p., con la particolarità che in questo caso il nesso eziologico andrà valutato non tra la condotta del soggetto chiamato a rispondere, ma tra l'elemento individuato dal criterio di imputazione e l'evento dannoso. In altri termini, mentre nella responsabilità penale il

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rapporto eziologico ha sempre come punto di riferimento iniziale la condotta dell'agente, in tema di responsabilità civile extracontrattuale il punto di partenza del segmento causale rilevante può essere anche altro, se in questi termini la norma fissa il criterio di imputazione, ma le regole per ritenere sussistente, concorrente, insussistente o interrotto il nesso causale tra tale elemento e l'evento dannoso, in assenza di altre disposizioni normative, rimangono quelle fissate dagli artt. 40 e 41 c.p.(…).

Il criterio della preponderanza dell’evidenza (o del più probabile che non) richiede l’impiego del già visto metodo della probabilità logica o baconiana (verifica dell’ipotesi causale sia mediante leggi di copertura, sia mediante il riscontro probatorio del caso concreto), e sancisce che all’esito di tale giudizio la sussistenza del nesso eziologico tra la condotta del soggetto agente e l’evento di danno deve risultare come più probabile che non (e non come certo oltre ogni ragionevole dubbio): basta una probabilità del 50% plus unum.

L’ONERE DELLA PROVA

La ripartizione dell’onere probatorio è controversa nella responsabilità professionale, in particolar modo nella responsabilità medica, definita come responsabilità da contatto sociale (e dunque latu sensu contrattuale) dalla pronuncia Cass., 22 gennaio 1999, n. 589.

Fondamentale in materia la pronuncia Cass., Sez. Un., 30 ottobre 2001, n. 13533, in cui le Sezioni Unite stabiliscono l’omogeneità del regime probatorio per tutti i rimedi ex. art. 1453 c.c.: il creditore-attore che, in caso di inadempimento, voglia agire per chiedere la risoluzione del contratto, l’adempimento o il risarcimento del danno dovrà dimostrare il titolo e limitarsi ad allegare l’inadempimento; il debitore-convenuto potrà dimostrare l’adempimento o l’impossibilità sopravvenuta (il principio non si applica alle obbligazioni negative).

Fino al 2008 la prova del nesso di causalità resta a carico dell’attore-creditore che agisce per ottenere il risarcimento del danno.

Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 577

. Si conferma l’abbandono della distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato, che se può avere una funzione descrittiva, è dogmaticamente superata, quanto meno in tema di riparto dell’onere probatorio dalla predetta sentenza delle S.U. 13533/ 2001. La valutazione dell’obbligazione professionale (nel caso di specie dell’obbligazione del medico) non può incidere in alcun modo sulla ripartizione dell’onere della prova.

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. Si inverte l’onere della prova del nesso di causalità a favore del paziente-creditore: l’attore deve provare il titolo, il danno e allegare un inadempimento qualificato (ossia astrattamente idoneo a produrre il danno); spetta al professionista-debitore dimostrare l’insussistenza del nesso causale o che l’inadempimento non c’è stato.

Sentenze Preden, Cass. civ., sez. III, 09 giugno 2011, n. 12686 e Cass.civ. sez. III, 14 giugno 2011, n. 12961

In entrambe le pronunce la Cassazione addossa la prova del nesso di causalità al danneggiato.

. Nella prima sentenza [Cass. civ., sez. III, 09 giugno 2011, n. 12686] il principio è semplicemente accennato nell’obiter dictum.

E’ configurabile il nesso causale tra il comportamento omissivo del medico ed il pregiudizio subito dal paziente qualora attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si ritenga che l'opera del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il danno verificatosi; l'onere della prova relativa grava sul danneggiato, indipendentemente dalla difficoltà dell'intervento medico-chirurgico (cfr. Cass. 11 maggio 2009 n. 10743); tuttavia, il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (…).

. Nella sentenza Cass. civ. sez. III, 14 giugno 2011, n. 12961 la sezione III si sofferma sulla ripartizione dell’onere probatorio nella responsabilità contrattuale: la Corte afferma che l’oggetto del risarcimento (in ipotesi di richiesta di risarcimento di un danno da inadempimento) non è l’inadempimento, ma il danno; data questa premessa, si stabilisce che per dimostrare fatti che costituiscono fondamento della propria pretesa il debitore dovrà dimostrare il titolo, allegare l’inadempimento e dimostrare sia il danno, che il nesso di causalità.

In tema di risarcimento del danno patrimoniale da inadempimento, non è l'inadempimento in sè che è oggetto di risarcimento, ma il danno conseguente.

Ciò comporta che deve essere in concreto fornita la dimostrazione dell'esistenza del pregiudizio lamentato e il diretto nesso causale dall'inadempimento (Cass. 20/11/2007, n. 24140 Cass. 15/05/2007, n. 11189; Cass. 10/01/2007, n. 238; Cass. 04/07/2006, n. 15274).

Mentre sul creditore della prestazione non grava l'onere della prova dell'inadempimento, dovendo il debitore provare - a fronte dell'allegazione di inadempimento del creditore - che egli ha esattamente adempiuto, giusto quanto si

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ricava dalla struttura dell'art. 1453 c.c. (Cass. S.u. n. 13533/2001), invece la prova del danno lamentato e del nesso causale tra lo stesso e l'inadempimento, così allegato, grava sull'attore secondo i principi generali di cui all'art. 2697 c.c.

(…) E’ configurabile il nesso causale tra il comportamento omissivo del medico ed il pregiudizio subito dal paziente qualora attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si ritenga che l'opera del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il danno verificatosi; l'onere della prova relativa grava sul danneggiato, indipendentemente dalla difficoltà dell'intervento medico-chirurgico (cfr. Cass. 11 maggio 2009 n. 10743)(…).

La Corte nell’affermare suddetta regola equipara la responsabilità medica alle altre responsabilità professionali.

L'inadempimento del professionista (consistente anche nell'errore o omissione di diagnosi): in relazione alla propria obbligazione, e la conseguente responsabilità dell'ente presso il quale egli presta la propria opera, deve essere valutato alla stregua del dovere di diligenza particolarmente qualificato inerente lo svolgimento della sua attività professionale; sicchè è configurabile un nesso causale tra il suo comportamento, anche omissivo, ed il pregiudizio subito da un paziente qualora, attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si ritenga che l'opera del professionista, se correttamente e prontamente svolta, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il danno verificatosi (Cass. 23/09/2004, n. 19133).

Sentenza Preden, Cass. civ., sez. III, 21, luglio, 2011, n. 15991

Il criterio risulta instabile : è infatti smentito dalla seguente pronuncia (sempre Preden), di poco successiva, in cui la Corte afferma che l’attore deve limitarsi ad allegare l’idoneità della condotta (commissiva od omissiva) alla produzione dell’evento di danno; in questo caso si addossa al debitore/danneggiante l’eventuale prova positiva dell’intervento di una causa non imputabile (al debitore).

Eventuali incertezze andranno risolte mediante il criterio dell’onere della prova (art. 2697 c.c.).

Nella responsabilità contrattuale (o, comunque, nella responsabilità per inadempimento ex art. 1218 c.c.) il giudice, in ossequio alla diversa distribuzione degli oneri probatori, esaminerà, da un lato, l'allegazione, da parte del creditore/danneggiato, dell'idoneità della condotta (commissiva od omissiva) alla produzione dell'evento di danno, dall'altro, la eventuale prova positiva, fornita dal debitore/danneggiante, della causa non imputabile, e cioè di un fatto sufficientemente certo che inequivocabilmente escluda in radice il nesso eziologico (causa non imputabile).

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L’onere della prova nei restanti settori della responsabilità professionale

L’inversione della prova del nesso di causalità è una questione che la giurisprudenza di legittimità tende a circoscrivere al settore della responsabilità medica.

Nelle altre ipotesi di responsabilità professionale la Corte non si è mai posta il problema di un’eventuale inversione dell’onere probatorio del nesso eziologico.

Si vedano soprattutto le fattispecie di responsabilità dell’avvocato:

Cass., civ., sez. III, 29 settembre 2009 n. 20828

Il cliente non può limitarsi a dedurre l'astratta possibilità della riforma in appello di tale pronuncia in senso a lui favorevole, ma deve dimostrare l'erroneità della pronuncia in questione, oppure produrre nuovi documenti o altri mezzi di prova idonei a fornire la ragionevole certezza che il gravame, se proposto, sarebbe stato accolto, secondo il criterio del più probabile che non (…).

Cass., civ., sez. II, 27 maggio 2009, n. 12354

In tema di responsabilità civile del professionista, il cliente è tenuto a provare non solo di aver sofferto un danno, ma anche che questo è stato causato dall’insufficiente o inadeguata attività del professionista; pertanto - poiché l’art. 1223 c.c. postula la dimostrazione dell’esistenza concreta di un danno, consistente in una diminuzione patrimoniale - la responsabilità dell’avvocato per la mancata comunicazione al cliente dell’avvenuto deposito di una pronuncia sfavorevole - con conseguente preclusione della possibilità di proporre impugnazione - può essere affermata solo se il cliente dimostri che l’impugnazione, ove proposta, avrebbe avuto concrete possibilità di essere accolta.

[Lo stesso avviene, come accennato sopra, anche nella già trattata sentenza Preden, Cassazione civile sez. III, 14 giugno 2011, n. 12961: la pronuncia dichiara di applicare all’ambito della responsabilità medica il regime probatorio previsto per le altre forme di responsabilità.]

L’OGGETTO DELLA PROVA

L’altro nodo cruciale della prova del nesso di causalità consiste nell’individuazione esatta di cosa dobbiamo provare (l’oggetto della prova).

Concorrono alla risposta i già menzionati principi espressi dalla pronuncia Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 581.

Nel determinare cosa bisogna provare, lo studio del nesso di causalità si intreccia inevitabilmente con altre due tematiche:

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1) il danno da perdita di chance

2) la rilevanza delle concause naturali

1) la prova del nesso di causalità varia a seconda che ci troviamo in un caso di danno diretto o in un caso di danno da perdita di chance1?

2) nella prova del nesso di causalità incide l’intervento di fattori estranei alla condotta del soggetto danneggiante, che sono intervenuti nella verificazione dell’evento e possono aver aumentato la probabilità di verificazione o l’entità del danno provocato alla vittima (è il problema delle c.d. concause naturali)? Il danneggiante deve rispondere per tutto il danno provocato al danneggiato, o solo per quella porzione che sia stata effettivamente cagionata dalla propria condotta? In altre parole, il risarcimento deve essere proporzionale al danno effettivamente cagionato dal soggetto agente?

1) IL DANNO DA PERDITA DI CHANCE

Il danno da perdita di chance consiste nella perdita della possibilità di conseguire un qualsivoglia risultato utile ( Cass., 18 marzo 2003, n. 3999).

La giurisprudenza consolidata (Cass. civ., 4 marzo 2004, n. 4400; Cass. civ., sez. III 16 ottobre 2007, n. 21619 ; Cass. civ., sez. III, 19 febbraio 2009, n. 4052; Cass. civ., sez. III, 11 maggio 2010, n. 11353) definisce il danno da perdita di chance, come concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene o risultato (Cass. civ., 4 marzo 2004, n. 4400).

La sentenza Cass. civ., 4 marzo 2004, n. 4400 riconosce espressamente la chance, non come mera aspettativa di fatto, ma come un’entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione, perciò la sua perdita (intesa come perdita della possibilità di conseguire un vantaggio) configura un danno concreto e attuale.

Proprio in quanto bene a sé stante concreto e attuale, il danno da perdita di chance deve essere commisurato in base alla mera possibilità di ottenere il bene finale, e non in relazione alla perdita dello stesso: la chance deve essere cioè valutata e quantificata come un sacrificio della possibilità di conseguire il bene finale, inteso come un bene autonomo e distinto.

La chance è un bene autonomo, dunque la sua richiesta di risarcimento e la domanda di risarcimento per il danno diretto sono ontologicamente diverse tra loro.

1 Il danno da perdita di chance è definito come un bene giuridicamente ed economicamente a sé stante, consistente nella perdita di una concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un dato bene x; si definisce come danno diretto la lesione diretta del bene giuridico x, a seguito della condotta illecita del soggetto agente.

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La S.C. in questa sentenza accoglie espressamente la concezione ontologica della chance, contrapponendosi invece a quella parte della dottrina che identifica la perdita di un’occasione favorevole con la descrizione di una sequenza causale, il cui il nesso sia fondato su livelli meno rigorosi di attendibilità (tesi eziologica del danno da perdita di chance)2 .

In questa pronuncia la chance è definita come danno emergente

Siffatto danno... non va commisurato alla perdita del risultato, ma alla mera possibilità di conseguirlo.

Anche la pronuncia Cass. civ., sez. III 16 ottobre 2007, n. 21619 accoglie la concezione ontologica del danno da perdita di chance.

Cass. civ., sez. III 16 ottobre 2007, n. 21619

In una diversa dimensione, sempre nell'orbita del sottosistema civilistico, la causalità da perdita di chance, attestata tout court sul versante della mera possibilità di conseguimento di un diverso risultato (…), da intendersi, rettamente, non come mancato conseguimento di un risultato soltanto possibile, bensì come sacrificio della possibilità di conseguirlo, intesa tale aspettativa (…) come "bene", come diritto attuale, autonomo e diverso rispetto a quello alla salute.

Fino al 2007 il danno da perdita di chance è considerato dalla giurisprudenza prevalente danno emergente.

Nel 2009 la pronuncia Cass. civ., sez. III, 19 febbario 2009, n. 4052 cataloga espressamente il danno da perdita di chance come danno da lucro cessante, posizione che appare maggioritaria nella giurisprudenza più recente.

Cass. civ., sez. III, 19 febbario 2009, n. 4052

L’accoglimento della domanda di risarcimento del danno da lucro cessante o da perdita di chance esige la prova, anche presuntiva, dell’esistenza di elementi oggettivi e certi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità e non di mera potenzialità, l’esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile (…).

2 La tesi eziologica nega che la chance sia un bene giuridico autonomo, e ritiene che tale istituto configuri semplicemente una

tipologia di nesso causale di cui si richiede un accertamento più blando, attestato su uno standard di probabilità inferiore. Il danno da perdita di chance e il danno diretto sono considerati come diverse gradazioni dello stesso pregiudizio: modificare la richiesta di risarcimento del danno diretto in richiesta di risarcimento del danno da perdita di chance (e viceversa) non comporta alcuna mutatio libelli.

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Cass. civ., sez. III, 11 maggio 2010, n. 11353

La pronuncia Cass. civ., sez. III, 11 maggio 2010, n. 11353 stabilisce determinati punti fermi, che prevengano un’espansione a macchia d’olio della risarcibilità del danno da perdita di chance e scongiurino la tacita tutela di semplici aspettative di fatto:

. la chance è intesa in tale pronuncia come un’entità patrimoniale, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione;

. il danno da perdita di chance è considerato danno da lucro cessante;

. si subordina il riconoscimento del danno da perdita di chance alla soddisfazione di una prova rigorosa: la prova anche presuntiva di elementi oggettivi e certi da cui desumere in termini di certezza o di elevata probabilità(…),e non di mera potenzialità, l’esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile.

Sentenza Preden, Cass., civ. sez. III, 14 giugno 2011, n. 12961: la chance come tecnica risarcitoria.

In questo caso di responsabilità medica la sezione III propone una terza concezione della chance, difforme dalle tesi ontologica ed eziologica:

. la chance è considerata come una semplice tecnica risarcitoria nelle situazioni caratterizzate dal più probabile che non, ma anche da una non eliminabile porzione di incertezza;

. è utilizzata per ripartire il costo del danno proporzionalmente all’efficienza causale della colpa del paziente e dei fattori di rischio preesistenti.

E’ infatti concepita come una tecnica risarcitoria, che comporta la riduzione dell’originaria richiesta del risarcimento del danno diretto (l’intero pregiudizio), e quindi non determina una mutatio libelli.

Le conseguenze processuali sono rilevantissime: quando l’attore si duole di un danno diretto, il giudice può anche d’ufficio (pur in assenza di un’esplicita richiesta in tal senso della parte) valutare la domanda di risarcimento della perdita di chance, operando una riduzione della richiesta di ristoro dell’intero pregiudizio.

Corollario dei principi sopra affermati è il seguente: la pronuncia ritiene che la domanda di risarcimento del danno da perdita di chance non sia ontologicamente distinta dalla domanda di

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risarcimento del danno diretto in quanto il danno da perdita di chance e il danno diretto sono considerati come due diverse gradazioni del medesimo pregiudizio.

Nella fattispecie la questione in termini di perdita di chance, inteso come risultato utile possibile, va ritenuta non affetta da inammissibilità, conseguente alla novità della stessa in questa sede di legittimità.

Infatti può superarsi la tesi secondo cui esito positivo probabile e possibilità di tale esito costituiscano oggetto di pretese risarcitorie diverse ed accedere ad un risultato per cui la probabilità di esito favorevole dell'intervento medico e la sua sola possibilità non non siano che gradazioni di una stessa affermazione di pregiudizio, risentito a causa dell'omissione colposa del comportamento dovuto.

Ciò comporta optare, nelle situazioni caratterizzate dal più probabile che non, ma anche da una non eliminabile porzione di incertezza, per una applicazione generalizzata degli esiti della tecnica risarcitoria della chance e quindi nel senso di distribuire il peso del danno tra le parti in misura proporzionale all'apporto causale della colpa e dei fattori di rischio presenti nel paziente (cfr. Cass. 16.1.2009, n. 975).

Ritenuta la richiesta del risarcimento del danno da perdita di chance come riduzione dell'originaria domanda di risarcimento dell'intero pregiudizio assunto, da una parte essa non determina una mutatio libelli e dall'altra tale riduzione può essere effettuata direttamente anche dal giudice, pur in difetto di esplicita richiesta della parte in tal senso riduttiva (cfr. Cass. 21/02/2007, n. 4003).

2) LA RILEVANZA DELLE CONCAUSE NATURALI

E’ controverso se le concause naturali3 possano essere considerate giuridicamente irrilevanti, così da addossare al convenuto il rischio e quindi anche il costo della loro incidenza nell’eziologia dell’evento, o se la parte di danno che è cagionata da tali fattori naturali debba essere sottratta all’obbligazione risarcitoria gravante sul danneggiante, tenuto a pagare quindi solo per il danno da lui effettivamente prodotto.

La Cassazione nelle pronunce più risalenti (Cass. civ., 25 ottobre 1974, n. 3133) ha riconosciuto la rilevanza delle concause naturali; in particolare nella pronuncia Cass. civ., 25 ottobre 1974, n. 3133 è riconosciuta la rilevanza giuridica delle concause meramente naturali dell’evento di danno. La Corte ha portato a sostegno della propria posizione evidenti ragioni equitative e ragioni

3 Sono definiti come concause naturali quei fattori estranei alla condotta del soggetto danneggiante, che sono intervenuti nella

verificazione dell’evento e possono aver aumentato la probabilità di verificazione o l’entità del danno provocato alla vittima.

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logico-giuridiche, che hanno indotto a calibrare il risarcimento in misura proporzionale all’effettivo apporto causale del danneggiante.

Dagli anni ‘90 in poi, la Corte muta orientamento e afferma l’irrilevanza delle concause naturali ; le sentenze appartenenti a tale filone girusprudenziale ritengono infatti di applicare l’art. 40 c.p. e il principio di causalità efficiente di cui all’art. 41 c.p., considerati incompatibili con i principi espressi dalla risalente pronuncia del 1974.

La Corte adotta la c.d. regola dell’ all or nothing: se gli eventuali fattori naturali che hanno inciso sull’evento costituiscono causa efficiente (ovvero sono tali da cagionare l’evento di danno, indipendentemente dall’apporto del comportamento umano imputabile), allora l’autore dell’azione o dell’omissione resta sollevato, per intero da ogni responsabilità (…), senza che in caso contrario la sua piena responsabilità (…) possa essere ridotta in misura proporzionale alla minore gravità della sua colpa; secondo questa impostazione non può infatti valutarsi come rilevante il concorso tra una causa imputabile e una naturale, poiché soltanto in caso di fattori causali imputabili si può comparare l’incidenza eziologica delle varie concause (Cass. civ., 01 febbraio 1991, n. 981).

Revirement della pronuncia Cass., civ. sez. III, 16 gennaio 2009, n. 975

Il filone giurisprudenziale descritto permane incontrastato fino al 2009, quando la sentenza Cass., civ. sez. III, 16 gennaio 2009, n. 975 segna un punto di svolta: recupera la tesi della causalità proporzionale e cita come supporto argomentativo la precedente pronuncia del 1974, scavalcando anni di giurisprudenza contraria.

. La Corte risolve il concorso tra il caso fortuito (coincidente nella fattispecie in questione con la preesistente patologia del paziente deceduto) e la causa umana (corrispondente all’errore medico), affidando al giudice il compito di determinare la porzione del danno rapportabile all’uno o all’altra , eventualmente secondo equità, ex art. 1226 c.c.: nell’accertamento della causalità materiale il giudice deve stabilire, anche mediante equità, quale sia il reale contributo causale di ogni fattore e, in base a queste valutazioni, deve attribuire al convenuto solo la porzione di danno che sia stata effettivamente cagionata dalla sua condotta.

. La pronuncia in esame aderisce, così, a un modello causale cd. equitativo-proporzionale, che volge con decisione al superamento della rigida regola dell’all-or nothing in termini di giustizia sostanziale.

Qualora la morte del paziente sia riconducibile, sotto il profilo eziologico, alla concomitanza della condotta del sanitario e del fattore naturale rappresentato dalla situazione patologica del soggetto deceduto (la quale non sia legata all'anzidetta condotta da un nesso dipendenza causale), il giudice deve procedere, eventualmente anche con criteri equitativi, alla valutazione della diversa efficienza delle varie

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concause, onde attribuire all'autore della condotta dannosa la parte di responsabilità correlativa, così da lasciare a carico del danneggiato il peso del danno alla cui produzione ha concorso a determinare il suo stato personale.

Le sentenze Preden Cass., civ., sez. III, 09 giugno 2011, n. 12686, Cass., civ. sez. III, 14 giugno 2011, n. 12961, e Cass., civ. sez. III, 21 luglio 2011, n. 15991:

la nuova attenzione all’effettivo ruolo eziologico della condotta del danneggiante

In poco più di un mese la sezione III civile della Corte di Cassazione emana tre diverse pronunce in materia di causalità proporzionale.

Procediamo in ordine cronologico.

Cass., civ., sez. III, 09 giugno 2011, n. 12686

La pronuncia Cass., civ., sez. III, 09 giugno 2011, n. 12686 risolve la questione della causalità alla stregua dell’orientamento dell’all or nothing: per accertare il nesso eziologico tra la condotta del convenuto e l’evento dannoso è necessario rispettare lo standard probatorio della preponderanza dell’evidenza, e non si ritengono rilevanti eventuali incertezze residue; o la concausa naturale è stata da sola sufficiente alla produzione dell’evento dannoso, interrompendo il nesso causale ed escludendo la responsabilità del convenuto, o non ha alcuna rilevanza ai fini del giudizio di responsabilità.

Inoltre, nell'effettuare i detti accertamenti, occorre fare applicazione dei principi di questa Corte in tema di causalità e concorso di cause in caso di condotta omissiva dei sanitari chiamati a rispondere in sede civile: è configurabile il nesso causale tra il comportamento omissivo del medico ed il pregiudizio subito dal paziente qualora attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si ritenga che l'opera del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il danno verificatosi; l'onere della prova relativa grava sul danneggiato, indipendentemente dalla difficoltà dell'intervento medico-chirurgico (cfr. Cass. 11 maggio 2009 n. 10743); tuttavia, il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base della quale, all’interno della serie causale, occorre dare rilievo solo a quegli eventi che appaiono- ad una valutazione ex ante- del tutto inverosimili, ferma restando peraltro la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell’accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” ( cfr. Cass. S.U. 11

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gennaio n. 576, nonché tra le altre, Cass. 11 maggio 2009 n. 19741; 8 luglio 2010, n. 16123).

Cass., civ. sez. III, 14 giugno 2011, n. 12961

Qualche giorno dopo, abbiamo visto che la già citata sentenza Preden n. 12961 considera la chance come una mera tecnica risarcitoria; mediante l’impiego della chance si riconosce al convenuto un risarcimento, che sia proporzionale all’apporto causale della sua condotta (il fine è sempre quello di ottenere un frazionamento della responsabilità).

Ciò comporta optare, nelle situazioni caratterizzate dal più probabile che non, ma anche da una non eliminabile porzione di incertezza, per una applicazione generalizzata degli esiti della tecnica risarcitoria della chance e quindi nel senso di distribuire il peso del danno tra le parti in misura proporzionale all'apporto causale della colpa e dei fattori di rischio presenti nel paziente (cfr. Cass. 16.1.2009, n. 975).

Cass., civ. sez. III, 21 luglio 2011, n. 15991

Infine, a poco più di un mese di distanza, un’altra sentenza Preden [Cass., civ. sez. III, 21 luglio 2011, n. 15991] riforma ulteriormente la materia del risarcimento proporzionale.

. La Corte si oppone alla causalità proporzionale, ponendosi espressamente in contrasto con i principi indicati dalla pronuncia n. 975 del 2009. L’accertamento della causalità di fatto dovrà perciò essere liberato da ogni ipotesi di causalità proporzionale in salsa equitativa, e verificato mediante lo strumento del giudizio controfattuale, sulla base delle consolidate regole degli artt. 40- 41 c.p., e del principio condizionalistico temperato dal criterio di regolarità causale.

In base ai principi di cui agli art. 40 e 41 c.p., "qualora le condizioni ambientali od i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile dell'uomo siano sufficienti a determinare l'evento di danno indipendentemente dal comportamento medesimo, l'autore dell'azione o della omissione resta sollevato, per intero, da ogni responsabilità dell'evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza causale; qualora, invece, quelle condizioni non possano dar luogo, senza l'apporto umano, all'evento di danno, l'autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità, non potendo in tal caso operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani

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colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile". A tale orientamento il collegio intende tornare a dare ulteriore continuità, sia pur con le precisazioni che seguono.

Non pare condivisibile, in punto di diritto, il criterio - pur espressamente indicato da Cass. 975/09 al giudice del rinvio (…). Tale regola operazionale in tema di causalità civile non sembra legittimamente predicabile nè sotto il profilo morfologico nè sotto quello funzionale.

. Ove residui incertezza circa la prova di un dato fatto, la questione andrà risolta mediante il principio dell’onere della prova: in caso di responsabilità aquiliana, il giudice di merito valuterà comparativamente le prove addotte da ciascuna delle parti; in tal caso l'onere della prova grava comunque sul danneggiato (pur legittimando, caso per caso, tanto ragionamenti presuntivi, quanto la regola della prossimità e disponibilità della fonte di prova). In caso di responsabilità ex art. 1218 c.c., caratterizzata da una diversa ripartizione degli oneri probatori, il giudice dovrà valutare, (…) da un lato, l'allegazione, da parte del creditore/danneggiato, dell'idoneità della condotta alla produzione dell'evento di danno, dall'altro, la eventuale prova positiva, fornita dal debitore/ danneggiante, della causa non imputabile.

. Lo standard probatorio è quello della preponderanza dell’evidenza. La pronuncia ne rivede però il significato: la locuzione “più probabile che non” non si traduce con la regola (rigorosa) del 50% plus unum, bensì indica la necessità di effettuare una compiuta valutazione dell’evidenza probabile, ottenuta mediante una specifica analisi della fattispecie concreta.

Questa Corte regolatrice ha difatti avuto modo di affermare (Cass. 21619/07; Cass. ss. uu. 576/2008 nonché, nella sostanza, Cass. 4400/04) come la disomogenea morfologia e la disarmonica funzione del torto civile rispetto al reato consenta - e addirittura imponga - l'adozione di un diverso criterio di analisi della causalità materiale, quello, cioè, della probabilità relativa, criterio altrimenti definito del "più probabile che non", rettamente inteso come analisi specifica e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo processo - nella sua dimensione di "unicità" non ripetibile), della singola vicenda di danno, della singola condotta causalmente efficiente alla produzione dell'evento, tutte a loro volta permeate di una non ripetibile unicità (di talché la conseguente svalutazione della regola statistica e sovente di quella scientifica non appare un metagiuridico cedimento ad ideali aneliti riparatori cui dar respiro tout court in seno al processo, quanto piuttosto una attenta valorizzazione e valutazione della specificità del caso concreto, onde la concorrenza di cause di diversa incidenza probabilistica non conduca ipso facto alla aberrante regola del 50% plus unum, bensì alla compiuta valutazione dell'evidenza del probabile).

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. In sede di causalità giuridica si ammette la possibilità di valutare l’eventuale incidenza di fattori naturali ed esterni rispetto alla condotta del convenuto. Questa seconda fase di giudizio, infatti, costituisce un momento probatorio diverso, in cui il giudice deve analizzare le conseguenze dannose risarcibili, distinguendo quelle che sono conseguenza immediata e diretta della condotta illecita, mediante una valutazione differenziale, che tenga conto anche della situazione pregressa del danneggiato e della situazione che si sarebbe verificata in assenza dell’illecito: in questa sede, secondo la S.C., il giudice deve evitare che situazioni diverse siano sottoposte a soluzioni risarcitorie uguali.

La Sezione III, argomentando la necessità di un tale metodo di giudizio, rileva come i pregiudizi tutti (pecuniari e non) che sono giudicati come risarcibili in seguito a valutazioni di causalità giuridica (in quanto discendenti dal fatto lesivo su di un piano rigorosamente naturalistico), devono essere definiti alla luce dell'inquadramento classico della nozione di danno contra ius, e quindi sulla base del confronto fra le condizioni del danneggiato precedenti l'illecito, quelle successive alla lesione e quelle che si sarebbero verificate se non fosse intervenuto l'evento dannoso. La Corte valuta come conseguenze pregiudizievoli solo quei danni che risultano da una valutazione differenziale tra la situazione del danneggiato anteriore al danno, e la situazione successiva allo stesso.

Diversa tematica risulta quella dei limiti della responsabilità del danneggiante/debitore sul piano della causalità giuridica, segnatamente nell'ipotesi di aggravamento di una patologia pregressa del paziente quale conseguenza della prestazione sanitaria.

Diversa questione risulta, in altri termini, quella per cui, ascritta, sul piano probabilistico, alla condotta del sanitario la responsabilità della determinazione dell'evento (tanto in termini di causalità ordinaria quanto di causalità da perdita di chance) sotto il profilo della causalità (o della concausalità) materiale, l'eventuale compresenza di concause naturali possa poi risultare oggetto di selezione dei pregiudizi risarcibili: se e quale sia, cioè, la misura e la rilevanza delle singole conseguenze direttamente riconducibili, o meno, al fatto lesivo della salute del paziente.

La misura della sua eventuale incidenza sull'obbligazione risarcitoria andrà (…) esaminata, con il necessario rigore operazionale, in un momento successivo e in un contesto probatorio diverso, volta che, accertata la causalità materiale (secondo una delle due dimensioni di analisi della causalità civile, quella ordinaria e quella da chance perduta), l'analisi del giudice di merito si concentri - come richiesto, nella sostanza, dall'odierno ricorrente, in parte qua, tanto con il primo quanto con il secondo motivo, che espressamente discorre ed evoca il concetto di causalità giuridica - sulle conseguenze dannose risarcibili (dirette e immediate, ex art. 1223) del fatto lesivo ormai definitivamente imputato al convenuto a titolo di piena responsabilità.

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Non è precluso, in altri termini, al giudicante - una volta esaurita la fase dell'accertamento della responsabilità secondo la scansione diacronica del previo accertamento del nesso causale (secondo un giudizio probabilistico di tipo oggettivo) e della successiva indagine sulla colpa (destinata ad una valutazione in termini di prevedibilità soggettiva pur se rapportata a standards ordinari di condotta attesane la dimensione "normativa" del relativo giudizio) - di procedere a risarcire i pregiudizi tutti (pecuniari e non) che sono seguiti al fatto lesivo su di un piano rigorosamente naturalistico, pregiudizi legittimamente destinati a determinarsi, secondo l'inquadramento classico della nozione di danno contra ius sulla base del confronto fra le condizioni del danneggiato precedenti l'illecito, quelle successive alla lesione e quelle che si sarebbero verificate se non fosse intervenuto l'evento dannoso.

Emerge chiara, in tal guisa, la distinzione, non solo concettuale, tra l'imputazione dell'evento di danno - e, pertanto, della responsabilità civile - e l'imputazione funzionale alla individuazione/quantificazione delle singole conseguenze pregiudizievoli (…).

La questione può così approdare ad appagante soluzione - del tutto conforme al diritto, sia positivo che giurisprudenziale - volta che essa postuli l'analisi (da condurre con rigoroso rispetto delle evidenze probatorie del caso concreto) delle conseguenze dannose dell'evento in termini di se e di quanto di differenze in negativo che il fatto lesivo - ormai definitivamente imputato al debitore - abbia cagionato in capo alla vittima, tenuto conto delle sue condizioni precedenti all'evento pregiudizievole e degli stati in cui si sarebbe venuto a trovare se l'evento in parola non fosse intervenuto.

Così individuata e risolta la problematica degli stati pregressi del danneggiato, è peraltro necessario che il giudice del merito (…) distingua tra le varie, possibili ipotesi di conseguenze dannose irrisarcibili, dovendosi sterilizzare il rischio che situazioni inter se distantibus e fra loro del tutto dissonanti possano viceversa risultare oggetto di trattamento e soluzioni risarcitorie omogenee.

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G. IL RISARCIMENTO DEL DANNO PATRIMONIALE

� Cass., 11 gennaio 2008, n. 581 (Pres. Carbone, Rel. Segreto) 8.1. Inquadrata, quindi, la responsabilità del Ministero nell'ambito della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., da omessa vigilanza, va ora esaminata la questione del nesso causale in siffatto tipo di responsabilità. Osserva preliminarmente questa Corte che l'insufficienza del tradizionale recepimento in sede civile dell'elaborazione penalistica in tema di nesso causale è emersa con chiarezza nelle concezioni moderne della responsabilità civile, che costruiscono la struttura della responsabilità aquiliana intorno al danno ingiusto, anzichè al "fatto illecito", divenuto "fatto dannoso". In effetti, mentre ai fini della sanzione penale si imputa al reo il fatto-reato (il cui elemento materiale è appunto costituito da condotta, nesso causale, ed evento naturalistico o giuridico), ai fini della responsabilità civile ciò che si imputa è il danno e non il fatto in quanto tale. E tuttavia un "fatto" è pur sempre necessario perchè la responsabilità sorga, giacchè l'imputazione del danno presuppone l'esistenza di una delle fattispecie normative di cui all'art. 2043 c.c. e segg., le quali tutte si risolvono nella descrizione di un nesso, che leghi storicamente un evento o ad una condotta o a cose o a fatti di altra natura, che si trovino in una particolare relazione con il soggetto chiamato a rispondere. Il "danno" rileva così sotto due profili diversi: come evento lesivo e come insieme di conseguenze risarcibili, retto il primo dalla causalità materiale ed il secondo da quella giuridica. Il danno oggetto dell'obbligazione risarcitoria aquiliana è quindi esclusivamente il danno conseguenza del fatto lesivo (di cui è un elemento l'evento lesivo). Se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno-conseguenza, non vi è l'obbligazione risarcitoria. 8.2. Proprio in conseguenza di ciò si è consolidata nella cultura giuridica contemporanea l'idea, sviluppata soprattutto in tema di nesso causale, che esistono due momenti diversi del giudizio aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilità (per la quale la problematica causale, detta causalità materiale o di fatto, presenta rilevanti analogie con quella penale, artt. 40 e 41 c.p., ed il danno rileva solo come evento lesivo) e la determinazione dell'intero danno cagionato, che costituisce l'oggetto dell'obbligazione risarcitoria. A questo secondo momento va riferita la regola dell'art. 1223 c.c., (richiamato dall'art. 2056 c.c.), per il quale il risarcimento deve comprendere le perdite "che siano conseguenza immediata e diretta" del fatto lesivo (ed. causalità giuridica), per cui esattamente si è dubitato che la norma attenga al nesso causale e non piuttosto alla determinazione del quantum del risarcimento, selezionando le conseguenze dannose risarcibili. Secondo l'opinione assolutamente prevalente, occorre distinguere nettamente, da un lato, il nesso che deve sussistere tra comportamento ed evento perchè possa configurarsi, a monte, una responsabilità "strutturale" (Haftungsbegrundende Kausalitat) e, dall'altro, il nesso che, collegando l'evento al danno, consente l'individuazione delle singole conseguenze dannose, con la precipua funzione di delimitare, a valle, i confini di una (già accertata) responsabilità risarcitoria (Haftungsausfullende Kausalitat). Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalente, tale distinzione è ravvisabile, rispettivamente, nel primo enell'art. 1227 c.c., comma 2: il comma 1, attiene al contributo eziologico del debitore nella produzione dell'evento dannoso, il secondo comma attiene al rapporto evento- danno conseguenza, rendendo irrisarcibili alcuni danni. Nel macrosistema civilistico l'unico profilo dedicato al nesso eziologico, è previsto dall'art. 2043 c.c., dove l'imputaizione del "fatto doloso o

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colposo" è addebitata a chi "cagiona ad altri un danno ingiusto", o, come afferma l'art. 1382, Code Napoleon "qui cause au autrui un dommage". Un'analoga disposizione, sul danno ingiusto e non sul danno da risarcire, non è richiesta in tema di responsabilità ed. contrattuale o da inadempimento, perchè in tal caso il soggetto responsabile è, per lo più, il contraente rimasto inadempiente, o il debitore che non ha effettuato la prestazione dovuta. E questo è uno dei motivi per cui la stessa giurisprudenza di legittimità partendo dall'ovvio presupposto di non dover identificare il soggetto responsabile del fatto dannoso, si è limitata a dettare una serie di soluzioni pratiche, caso per caso, senza dover optare per una precisa scelta di campo, tesa a coniugare il "risarcimento del danno", cui è dedicatol'art. 1223 c.c., con il rapporto di causalità. Solo in alcune ipotesi particolari, in cui l'inadempimento dell'obbligazione era imputabile al fatto illecito del terzo, il problema della causalità è stato affrontato dalla giurisprudenza, sia sotto il profilo del rapporto tra comportamento ed evento dannoso sia sotto quello tra evento dannoso e conseguenze risarcibili. Il sistema di valutazione e determinazione dei danni, siano essi contrattuali o extracontrattuali, in virtù del rinvio operato dall'art. 2056 c.c., è composto dagli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c., e, in tema di responsabilità da inadempimento, anche dalla disposizione dell'art. 1225 c.c.. A queste norme si deve aggiungere il principio ricavabile dall'art. 1221 c.c., che si fonda sul giudizio ipotetico di differenza tra la situazione quale sarebbe stata senza il verificarsi del fatto dannoso e quella effettivamente avvenuta. 8.3. Ai fini della causalità materiale nell'ambito della responsabilità aquiliana la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, in applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 c.p., ritengono che un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non). Il rigore del principio dell'equivalenza delle cause, posto dall'art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dal secondo comma dell'art. 41 c.p., in base al quale l'evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all'autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti,ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto (Cass. 19.12.2006, n. 27168; Cass. 8.9.2006, n. 19297;Cass. 10.3.2006, n. 5254; Cass. 15.1.1996, n. 268). Nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l'evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quella similare della ed. regolarità causale (ex multis: Cass. 1.3.2007; n. 4791; Cass. 6.7.2006, n. 15384; Cass. 27.9.2006, n. 21020; Cass. 3.12.2002, n. 17152; Cass. 10.5.2000 n. 5962). 8.4. Quindi, per la teoria della regolarità causale, ampiamente utilizzata anche negli ordinamenti di common law, ciascuno è responsabile soltanto delle conseguenze della sua condotta, attiva o omissiva, che appaiono sufficientemente prevedibili al momento nel quale ha agito, escludendosi in tal modo la responsabilità per tutte le conseguenze assolutamente atipiche o imprevedibili. Sulle modalità con le quali si deve compiere il giudizio di adeguatezza, se cioè con valutazione ex ante, al momento della condotta, o ex post, al momento del verificarsi delle conseguenze dannose, si è interrogata la dottrina tedesca ben più di quella italiana, giungendo alle prevalenti conclusioni secondo le quali la valutazione della prevedibilità obiettiva deve compiersi ex ante, nel momento in cui la condotta è stata posta in essere, operandosi una "prognosi postuma", nel senso che si deve accertare se, al momento in cui è avvenuta l'azione, era del tutto imprevedibile che ne sarebbe potuta discendere una data conseguenza. La teoria della regolarità causale, pur essendo la più seguita dalla giurisprudenza, sia civile che penale, non è andata esente da critiche da parte della dottrina italiana, che non ha mancato di sottolineare che il giudizio di causalità adeguata, ove venisse compiuto con valutazione ex ante verrebbe a coincidere con il giudizio di accertamento

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della sussistenza dell'elemento soggettivo. Ma la censura non pare condivisibile, in quanto tale prevedibilità obbiettiva va esaminata in astratto e non in concreto ed il metro di valutazione da adottare non è quello della conoscenza dell'uomo medio ma delle migliori conoscenze scientifiche del momento (poichè non si tratta di accertare l'elemento soggettivo, ma il nesso causale). In altri termini ciò che rileva è che l'evento sia prevedibile non da parte dell'agente, ma (per così dire) da parte delle regole statistiche e/o scientifiche, dalla quale prevedibilità discende da parte delle stesse un giudizio di non improbabilità dell'evento. Il principio della regolarità causale diviene la misura della relazione probabilistica in astratto (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra comportamento ed evento dannoso (nesso causale) da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale andrà più propriamente ad iscriversi entro l'elemento soggettivo (la colpevolezza) dell'illecito. Inoltre se l'accertamento della prevedibilità dell'evento, ai fini della regolarità causale fosse effettuato ex post, il nesso causale sarebbe rimesso alla variabile del tempo intercorrente tra il fatto dannoso ed il suo accertamento, nel senso che quanto maggiore è quel tempo tanto maggiore è la possibilità di sviluppo delle conoscenze scientifiche e quindi dell'accertamento positivo del nesso causale (con la conseguenza illogica che della lunghezza del processo, segnatamente nelle fattispecie a responsabilità oggettiva, potrebbe giovarsi l'attore, sul quale grava l'onere della prova del nesso causale). 8.5. Nell'imputazione per omissione colposa il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta omissiva del comportamento dovuto (Cass. n. 20328 del 2006; Cass. n. 21894 del 2004; Cass. n. 6516 del 2004; Cass. 22/10/2003, n. 15789): rilievo che si traduce a volte nell'affermazione dell'esigenza, per l'imputazione della responsabilità, che il danno sia una concretizzazione del rischio, che la norma di condotta violata tendeva a prevenire. E' questa l'ipotesi per la quale in parte della dottrina si parla anche di mancanza di nesso causale di antigiuridicità e che effettivamente non sembra estranea ad una corretta impostazione del problema causale, anche se nei soli limiti di supporto argomentativo ed orientativo nell'applicazione della regola di cui all'art. 40 c.p., comma 2. Poichè l'omissione di un certo comportamento, rileva, quale condizione determinativa del processo causale dell'evento dannoso, soltanto quando si tratti di omissione di un comportamento imposto da una norma giuridica specifica (omissione specifica), ovvero, in relazione al configurarsi della posizione del soggetto cui si addebita l'omissione, siccome implicante l'esistenza a suo carico di particolari obblighi di prevenzione dell'evento poi verificatosi e, quindi, di un generico dovere di intervento (omissione generica) in funzione dell'impedimento di quell'evento, il giudizio relativo alla sussistenza del nesso causale non può limitarsi alla mera valutazione della materialità fattuale, bensì postula la preventiva individuazione dell'obbligo specifico o generico di tenere la condotta omessa in capo al soggetto. L'individuazione di tale obbligo si connota come preliminare per l'apprezzamento di una condotta omissiva sul piano della causalità, nel senso che, se prima non si individua, in relazione al comportamento che non risulti tenuto, il dovere generico o specifico che lo imponeva, non è possibile apprezzare l'omissione del comportamento sul piano causale. La causalità nell'omissione non può essere di ordine strettamente materiale, poichè ex nihilo nihil fit. Anche coloro (corrente minoritaria) che sostengono la causalità materiale nell'omissione e non la causalità normativa (basata sull'equiparazione disposta dall'art. 40 c.p.) fanno coincidere l'omissione con una condizione negativa perchè l'evento potesse realizzarsi. La causalità è tuttavia accettabile attraverso un giudizio ipotetico: l'azione ipotizzata, ma omessa, avrebbe impedito l'evento? In altri termini non può riconoscersi la responsabilità per omissione quando il comportamento omesso, ove anche fosse stato tenuto, non avrebbe comunque impedito l'evento prospettato: la responsabilità non sorge non perchè non vi sia stato un comportamento antigiuridico (l'omissione di un comportamento dovuto è di per sè un comportamento antigiuridico), ma perchè quell'omissione non è causa del danno lamentato.

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Il Giudice pertanto è tenuto ad accertare se l'evento sia ricollegabile all'omissione (causalità omissiva) nel senso che esso non si sarebbe verificato se (causalità ipotetica) l'agente avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli, con esclusione di fattori alternativi. L'accertamento del rapporto di causalità ipotetica passa attraverso l'enunciato "controfattuale" che pone al posto dell'omissione il comportamento alternativo dovuto, onde verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato. 8.6. Si deve quindi ritenere che i principi generali che regolano la causalità di fatto sono anche in materia civile quelli delineati dagli artt. 40 e 41 c.p., e dalla "regolarità causale", in assenza di altre norme nell'ordinamento in tema di nesso eziologico ed integrando essi principi di tipo logico e conformi a massime di esperienza. Tanto vale certamente allorchè all'inizio della catena causale è posta una condotta omissiva o commissiva, secondo la norma generale di cui all'art. 2043 c.c.. Nè può costituire valida obbiezione la pur esatta considerazione delle profonde differenze morfologiche e funzionali tra accertamento dell'illecito civile ed accertamento dell'illecito penale, essendo il primo fondato sull'atipicità dell'illecito, essendo possibili ipotesi di responsabilità oggettiva ed essendo diverso il sistema probatorio. La dottrina, che sostiene tale linea interpretativa, finisce per giungere alla conclusione che non può definirsi in modo unitario il nesso di causalità materiale in civile, potendo avere tante sfaccettature quante l'atipicità dell'illecito. Altra parte della dottrina, sulla base delle stesse considerazioni, ha finito per dissolvere ogni questione sulla causalità materiale in una questione di causalità giuridica (in diversa accezione da quella sopra esposta, con riferimento all'art. 1223 c.c.), per cui un certo danno è addebitato ad un soggetto chiamato a risponderne ed il legame "causale" tra responsabile e danno è tutto normativo. 8.7. Ritengono queste S.U. che le suddette considerazioni non sono decisive ai fini di un radicale mutamento di indirizzo, dovendosi solo specificare che l'applicazione dei principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p., temperati dalla " regolarità causale", ai fini della ricostruzione del nesso eziologico va adeguata alle peculiarità delle singole fattispecie normative di responsabilità civile. Il diverso regime probatorio attiene alla fase di accertamento giudiziale, che è successiva al verificarsi ontologico del fatto dannoso e che può anche mancare. Di questo si vedrà più ampiamente in seguito. E' vero che la responsabilità civile orbita intorno alla figura del danneggiato, mentre quella penale intorno alla figura dell'autore del reato, ma come è stato acutamente rilevato, un responsabile è pur sempre necessario, se non si vuole trasformare la responsabilità civile in un'assicurazione contro i danni, peraltro in assenza di premio. L'atipicità dell'illecito attiene all'evento dannoso, ma non al rapporto eziologico tra lo stesso e l'elemento che se ne assume generatore, individuato sulla base del criterio di imputazione. E' vero, altresì, che, contrariamente alla responsabilità penale, il criterio di imputazione della responsabilità civile non sempre è una condotta colpevole; ciò comporta solo una varietà di tali criteri di imputazione, ma da una parte non elimina la necessità del nesso di causalità di fatto e dall'altra non modifica le regole giuridico-logiche che presiedono all'esistenza del rapporto eziologico. Il problema si sposta sul criterio di imputazione e sulle figure (tipiche) di responsabilità oggettiva. E' esatto che tale criterio di imputazione è segnato spesso da un'allocazione del costo del danno a carico di un soggetto che non necessariamente è autore di una condotta colpevole (come avviene generalmente e come è previsto dalla clausola generale di cui all'art. 2043 c.c., secondo il principio classico, per cui non vi è responsabilità senza colpa: "ohne schuld keine haftung), ma ha una determinata esposizione a rischio ovvero costituisce per l'ordinamento un soggetto più idoneo a sopportare il costo del danno (dando attuazione, anche sul terreno dell'illecito, al principio di solidarietà accolto dalla nostra Costituzione) ovvero è il soggetto che aveva la possibilità della cost-benefit analysis, per cui deve sopportarne la responsabilità, per essersi trovato, prima del suo

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verificarsi, nella situazione più adeguata per evitarlo nel modo più conveniente, sicchè il verificarsi del danno discende da un'opzione per il medesimo, assunta in alternativa alla decisione contraria. Sennonchè il criterio di imputazione nella fattispecie (con le ragioni che lo ispirano) serve solo ad indicare quale è la sequenza causale da esaminare e può anche costituire un supporto argomentativo ed orientativo nell'applicazione delle regole proprie del nesso eziologico, ma non vale a costituire autonomi principi della causalità. Sostenere il contrario implica riportare sul piano della causalità elementi che gli sono estranei e che riguardano il criterio di imputazione della responsabilità o l'ingiustizia del danno. 8.8. Un rapporto causale concepito allo stato puro tende all'infinito. La responsabilità oggettiva non può essere pura assenza o irrilevanza dei criteri soggettivi di imputazione, bensì sostituzione di questi con altri di natura oggettiva, i quali svolgono nei confronti del rapporto di causalità la medesima funzione che da sempre è propria dei criteri soggettivi di imputazione nei fatti illeciti. Mentre nella responsabilità per colpa quest'ultima si asside su un nesso causale tra evento e condotta ai fini della qualificazione di quest'ultima in funzione della responsabilità, nella responsabilità oggettiva sono i criteri di imputazione ad individuare il segmento della sequenza causale, tendenzialmente infinita, alla quale fare riferimento ai fini della responsabilità. Anzi, a ben vedere, sono decisivi nella sfera giuridica "da fare responsabile". Ciò perchè nella fattispecie di responsabilità oggettiva il nesso causale non si identifica nel rapporto eziologico tra evento e condotta di un agente candidato alla responsabilità, bensì o si riferisce alla condotta di altri o addirittura non coincide con una condotta, bensì con una concatenazione tra fatti di altra natura, inidonea a risolvere la questione della responsabilità. Tale questione la norma di volta in volta risolve mediante qualcosa di ulteriore, che è costituito da una qualificazione, espressiva appunto del criterio di imputazione. Esso in questo caso non si limita a stabilire quale segmento di una certa catena causale debba ritenersi rilevante ai fini della responsabilità, ma addirittura serve ad individuare la catena causale alla quale fare riferimento e, attraverso tale riferimento, la sfera soggettiva sulla quale deve gravare il costo del danno. 8.9. Sennonchè detto ciò, ai fini dell'individuazione del soggetto chiamato alla responsabilità dal criterio di imputazione, un nesso causale è pur sempre necessario tra l'evento dannoso e, di volta in volta, la condotta del soggetto responsabile (in ipotesi di responsabilità per colpa) o la condotta di altri (ad es. art. 2049 c.c.) o i fatti di altra natura considerati dalla specifica norma (ad es. artt. 2051, 2052 c.c., art. 2054 c.c., comma 4), posti all'inizio della serie causale. Rimane il problema di quando e come rilevi giuridicamente tale "concatenazione causale" tra la condotta di altri e l'evento ovvero tra il fatto di altra natura e l'evento (di cui debba rispondere il soggetto gravato della responsabilità oggettiva). In assenza di norme civili che specificamente regolino il rapporto causale, ancora occorre far riferimento ai principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p., con la particolarità che in questo caso il nesso eziologico andrà valutato non tra la condotta del soggetto chiamato a rispondere, ma tra l'elemento individuato dal criterio di imputazione e l'evento dannoso. In altri termini, mentre nella responsabilità penale il rapporto eziologico ha sempre come punto di riferimento iniziale la condotta dell'agente, in tema di responsabilità civile extracontrattuale il punto di partenza del segmento causale rilevante può essere anche altro, se in questi termini la norma fissa il criterio di imputazione, ma le regole per ritenere sussistente, concorrente, insussistente o interrotto il nesso causale tra tale elemento e l'evento dannoso, in assenza di altre disposizioni normative, rimangono quelle fissate dagli artt. 40 e 41 c.p.. Il rischio o il pericolo, considerati eventualmente dalla ratio dello specifico paradigma normativo ai fini dell'allocazione del costo del danno, possono sorreggere la motivazione che porta ad accertare la causalità di fatto, ma restano categorie di mero supporto che da sole non valgono a costruire autonomamente una teoria della causalità nell'illecito civile. 8.10. Essendo questi i principi che regolano il procedimento logico-giuridico ai fini della ricostruzione del nesso causale, ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio"

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(cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell'evidenza o "del più probabile che non", stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l'equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti, come rilevato da attenta dottrina che ha esaminato l'identità di tali standars delle prove in tutti gli ordinamenti occidentali, con la predetta differenza tra processo civile e penale (in questo senso vedansi: la recentissima Cass. 16.10.2007, n. 21619; Cass. 18.4.2007, n. 9238; Cass. 5.9.2006, n. 19047; Cass. 4.3.2004, n. 4400; Cass. 21.1.2000 n. 632). Anche la Corte di Giustizia CE è indirizzata ad accettare che la causalità non possa che poggiarsi su logiche di tipo probabilistico (CGCE, 13/07/2006, n. 295, ha ritenuto sussistere la violazione delle norme sulla concorrenza in danno del consumatore se "appaia sufficientemente probabile" che l'intesa tra compagnie assicurative possa avere un'influenza sulla vendita delle polizze della detta assicurazione; Corte giustizia CE, 15/02/2005, n. 12, sempre in tema di tutela della concorrenza, ha ritenuto che "occorre postulare le varie concatenazioni causa-effetto, al fine di accogliere quelle maggiormente probabili"). Detto standard di "certezza probabilistica" in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa - statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana). Nello schema generale della probabilità come relazione logica va determinata l'attendibilità dell'ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (c.d. evidence and inference nei sistemi anglosassoni). 8.11. Le considerazioni sopra esposte, maturate in relazione alla problematica del nesso di causalità, portano ad enunciare il seguente principio di diritto per la decisione del caso concreto, attinente alla responsabilità del Ministero della Sanità (oggi della Salute) da omessa vigilanza, correttamente applicato dalla sentenza impugnata: "Premesso che sul Ministero gravava un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia di impiego di sangue umano per uso terapeutico (emotrasfusioni o preparazione di emoderivati) anche strumentale alle funzioni di programmazione e coordinamento in materia sanitaria, affinchè fosse utilizzato sangue non infetto e proveniente da donatori conformi agli standars di esclusione di rischi, il giudice, accertata l'omissione di tali attività, accertata, altresì, con riferimento all'epoca di produzione del preparato, la conoscenza oggettiva ai più alti livelli scientifici della possibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto ed accertata - infine - l'esistenza di una patologia da virus HIV o HBV o HCV in soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell'insorgenza della malattia, e che, per converso, la condotta doverosa del Ministero, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito la versificazione dell'evento".

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H. Il danno non patrimoniale

� Cass., 11 novembre 2008, n. 26972, (Pres. Carbone, Rel. Preden)

2.2. Queste Sezioni unite condividono e fanno propria la lettura, costituzionalmente orientata, data

dalle sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 all'art. 2059 c.c., e la completano nei termini seguenti. 2.3. Il danno non patrimoniale di cui parla, nella rubrica e nel testo, l'art. 2059 c.c., si identifica con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica. Il suo risarcimento postula la verifica della sussistenza degli elementi nei quali si articola l'illecito civile extracontrattuale definito dall'art. 2043 c.c.. L'art. 2059 c.c., non delinea una distinta fattispecie di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma consente la riparazione anche dei danni non patrimoniali, nei casi determinati dalla legge, nel presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della struttura dell'illecito civile, che si ricavano dall'art. 2043 c.c. (e da altre norme, quali quelle che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva), elementi che consistono nella condotta, nel nesso causale tra condotta ed evento di danno, connotato quest'ultimo dall'ingiustizia, determinata dalla lesione, non giustificata, di interessi meritevoli di tutela, e nel danno che ne consegue (danno-conseguenza, secondo opinione ormai consolidata: Corte cost. n. 372/1994; S.U. n. 576, 581, 582, 584/2008). 2.4. L'art. 2059 c.c., è norma di rinvio. Il rinvio è alle leggi che determinano i casi di risarcibilità del danno non patrimoniale. L'ambito della risarcibilità del danno non patrimoniale si ricava dall'individuazione delle norme che prevedono siffatta tutela. 2.5. Si tratta, in primo luogo, dell'art. 185 c.p., che prevede la risarcibilità del danno patrimoniale conseguente a reato ("Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui"). 2.6. Altri casi di risarcimento anche dei danni non patrimoniali sono previsti da leggi ordinarie in relazione alla compromissione di valori personali (L. n. 117 del 1998, art. 2: danni derivanti dalla privazione della libertà personale cagionati dall'esercizio di funzioni giudiziarie; L. n. 675 del 1996, art. 29, comma 9: impiego di modalità illecite nella raccolta di dati personali; D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44, comma 7: adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi; L. n. 89 del 2001, art. 2: mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo). 2.7. Al di fuori dei casi determinati dalla legge, in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili, la tutela è estesa ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione. Per effetto di tale estensione, va ricondotto nell'ambito dell'art. 2059 c.c., il danno da lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost.) denominato danno biologico, del quale è data, dal D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139, specifica definizione normativa (sent. n. 15022/2005; n. 23918/2006). In precedenza, come è noto, la tutela del danno biologico era invece apprestata grazie al collegamento tra l'art. 2043 c.c. e l'art. 32 Cost. (come ritenuto da Corte Cost. n. 184/1986), per sottrarla al limite posto dall'art. 2059 c.c., norma nella quale avrebbe ben potuto sin dall'origine trovare collocazione (come ritenuto dalla successiva sentenza della Corte n. 372/1994 per il danno biologico fisico o psichico sofferto dal congiunto della vittima primaria). Trova adeguata collocazione nella norma anche la tutela riconosciuta ai soggetti che abbiano visto

lesi i diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.) (sent. n. 8827 e n. 8828/2003,

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concernenti la fattispecie del danno da perdita o compromissione del rapporto parentale nel caso di morte o di procurata grave invalidità del congiunto). Eguale sorte spetta al danno conseguente alla violazione del diritto alla reputazione, all'immagine, al nome, alla riservatezza, diritti inviolabili della persona incisa nella sua dignità, preservata dagli artt. 2 e 3 Cost. (sent. n. 25157/2008). 2.8. La rilettura costituzionalmente orientata dell'art. 2959 c.c., come norma deputata alla tutela risarcitoria del danno non patrimoniale inteso nella sua più ampia accezione, riporta il sistema della responsabilità aquiliana nell'ambito della bipolarità prevista dal vigente codice civile tra danno

patrimoniale (art. 2043 c.c.) e danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.) (sent. n. 8827/2003; n. 15027/2005; n. 23918/2006). Sul piano della struttura dell'illecito, articolata negli elementi costituiti dalla condotta, dal nesso causale tra questa e l'evento dannoso, e dal danno che da quello consegue (danno-conseguenza), le due ipotesi risarcitorie si differenziano in punto di evento dannoso, e cioè di lesione dell'interesse protetto. Sotto tale aspetto, il risarcimento del danno patrimoniale da fatto illecito è connotato da atipicità, postulando l'ingiustizia del danno di cui all'art. 2043 c.c., la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante (sent. 500/1999), mentre quello del danno non patrimoniale è connotato da tipicità, perchè tale danno è risarcibile solo nei casi determinati dalla legge e nei casi in cui sia cagionato da un evento di danno consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona (sent. n. 15027/2005; n. 23918/2006). 2.9. La risarcibilità del danno non patrimoniale postula, sul piano dell'ingiustizia del danno, la selezione degli interessi dalla cui lesione consegue il danno. Selezione che avviene a livello normativo, negli specifici casi determinati dalla legge, o in via di interpretazione da parte del giudice, chiamato ad individuare la sussistenza, alla stregua della Costituzione, di uno specifico diritto inviolabile della persona necessariamente presidiato dalla minima tutela risarcitoria. 2.10. Nell'ipotesi in cui il fatto illecito si configuri (anche solo astrattamente: S.U. n. 6651/1982) come reato, è risarcibile il danno non patrimoniale, sofferto dalla persona offesa e dagli ulteriori

eventuali danneggiati (nel caso di illecito plurioffensivo: sent. n. 4186/1998; S.U. n. 9556/2002), nella sua più ampia accezione di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica. La limitazione alla tradizionale figura del c.d. danno morale soggettivo transeunte va definitivamente superata. La figura, recepita per lungo tempo dalla pratica giurisprudenziale, aveva fondamento normativo assai dubbio, poichè nè l'art. 2059 c.c., nè l'art. 185 c.p., parlano di danno morale, e tantomeno lo dicono rilevante solo se sia transitorio, ed era carente anche sul piano della adeguatezza della tutela, poichè la sofferenza morale cagionata dal reato non è necessariamente transeunte, ben potendo l'effetto penoso protrarsi anche per lungo tempo (lo riconosceva quella giurisprudenza che, nel caso di morte del soggetto danneggiato nel corso del processo, commisurava il risarcimento sia del danno biologico che di quello morale, postulandone la permanenza, al tempo di vita effettiva: n. 19057/2003; n. 3806/2004; n. 21683/2005). Va conseguentemente affermato che, nell'ambito della categoria generale del danno non patrimoniale, la formula "danno morale" non individua una autonoma sottocategoria di danno, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sè considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento. In ragione della ampia accezione del danno non patrimoniale, in presenza del reato è risarcibile non soltanto il danno non patrimoniale conseguente alla lesione di diritti costituzionalmente inviolabili (come avverrà, nel caso del reato di lesioni colpose, ove si configuri danno biologico per la vittima, o nel caso di uccisione o lesione grave di congiunto, determinante la perdita o la compromissione

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del rapporto parentale), ma anche quello conseguente alla lesione di interessi inerenti la persona non presidiati da siffatti diritti, ma meritevoli di tutela in base all'ordinamento (secondo il criterio dell'ingiustizia ex art. 2043 c.c.), poichè la tipicità, in questo caso, non è determinata soltanto dal rango dell'interesse protetto, ma in ragione della scelta del legislatore di dire risarcibili i danni non patrimoniali cagionati da reato. Scelta che comunque implica la considerazione della rilevanza dell'interesse leso, desumibile dalla predisposizione della tutela penale. 2.11. Negli altri casi determinati dalla legge la selezione degli interessi è già compiuta dal legislatore. Va notato che, nei casi previsti da leggi vigenti richiamati in precedenza, il risarcimento è collegato alla lesione di diritti inviolabili della persona: alla libertà personale, alla riservatezza, a non subire discriminazioni. Non può tuttavia ritenersi precluso al legislatore ampliare il catalogo dei casi determinati dalla legge ordinaria prevedendo la tutela risarcitoria non patrimoniale anche in relazione ad interessi inerenti la persona non aventi il rango costituzionale di diritti inviolabili, privilegiandone taluno rispetto agli altri (Corte Cost. n. 87/1979). Situazione che non ricorre in relazione ai diritti predicati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, ratificata con la L. n. 88 del 1955, quale risulta dai vari Protocolli susseguitisi, ai quali non spetta il rango di diritti costituzionalmente protetti, poichè la Convenzione, pur essendo dotata di una natura che la distingue dagli obblighi nascenti da altri Trattati internazionali, non assume, in forza dell'art. 11 Cost., il rango di fonte costituzionale, nè può essere parificata, a tali fini, all'efficacia del diritto comunitario nell'ordinamento interno (Corte Cost. n. 348/2007). 2.12. Fuori dai casi determinati dalla legge è data tutela risarcitoria al danno non patrimoniale solo se sia accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona: deve sussistere una ingiustizia costituzionalmente qualificata. 2.13. In tali ipotesi non emergono, nell'ambito della categoria generale "danno non patrimoniale", distinte sottocategorie, ma si concretizzano soltanto specifici casi determinati dalla legge, al massimo livello costituito dalla Costituzione, di riparazione del danno non patrimoniale. E' solo a fini descrittivi che, in dette ipotesi, come avviene, ad esempio, nel caso di lesione del diritto alla salute (art. 32 Cost.), si impiega un nome, parlando di danno biologico. Ci si riferisce in tal modo ad una figura che ha avuto espresso riconoscimento normativo nel D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139, recante il Codice delle assicurazioni private, che individuano il danno biologico nella "lesione temporanea o permanente all'integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di reddito", e ne danno una definizione suscettiva di generale applicazione, in quanto recepisce i risultati ormai definitivamente acquisiti di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. Ed è ancora a fini descrittivi che, nel caso di lesione dei diritti della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.), si utilizza la sintetica definizione di danno da perdita del rapporto parentale. In tal senso, e cioè come mera sintesi descrittiva, vanno intese le distinte denominazioni (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale) adottate dalle sentenze gemelle del 2003, e recepite dallasentenza, n. 233/2003 della Corte Costituzionale. Le menzionate sentenze, d'altra parte, avevano avuto cura di precisare che non era proficuo ritagliare all'interno della generale categoria del danno non patrimoniale specifiche figure di danno,

etichettandole in vario modo (n. 8828/2003), e di rilevare che la lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., doveva essere riguardata non già come occasione di incremento delle poste di danno (e mai come strumento di duplicazione del risarcimento degli stessi pregiudizi), ma

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come mezzo per colmare le lacune della tutela risarcitoria della persona (n. 8827/2003). Considerazioni che le Sezioni unite condividono. 2.14. Il catalogo dei casi in tal modo determinati non costituisce numero chiuso. La tutela non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma, in virtù dell'apertura dell'art. 2 Cost., ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all'interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l'ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana. 3. Si pone ora la questione se, nell'ambito della tutela risarcitoria del danno non patrimoniale, possa inserirsi, come categoria autonoma, il c.d. danno esistenziale. 3.1. Secondo una tesi elaborata in dottrina nei primi anni '90 il danno esistenziale era inteso come pregiudizio non patrimoniale, distinto dal danno biologico (all'epoca risarcito nell'ambito dell'art. 2043 c.c., in collegamento con l'art. 32 Cost.), in assenza di lesione dell'integrità psicofisica, e dal c.d. danno morale soggettivo (unico danno non patrimoniale risarcibile, in presenza di reato, secondo la tradizionale lettura restrittiva dell'art. 2059 c.c., in collegamento all'art. 185 c.p.), in quanto non attinente alla sfera interiore del sentire, ma alla sfera del fare non reddituale del soggetto. Tale figura di danno nasceva dal dichiarato intento di ampliare la tutela risarcitoria per i pregiudizi di natura non patrimoniale incidenti sulla persona, svincolandola dai limiti dell'art. 2059 c.c., e seguendo la via, già percorsa per il danno biologico, di operare nell'ambito dell'art. 2043 c.c., inteso come norma regolatrice del risarcimento non solo del danno patrimoniale, ma anche di quello non patrimoniale concernente la persona. Si affermava che, nel caso in cui il fatto illecito limita le attività realizzatrici della persona umana, obbligandola ad adottare nella vita di tutti i giorni comportamenti diversi da quelli passati, si realizza un nuovo tipo di danno (rispetto al danno morale soggettivo ed al danno biologico) definito con l'espressione "danno esistenziale". Il pregiudizio era individuato nella alterazione della vita di relazione, nella perdita della qualità della vita, nella compromissione della dimensione esistenziale della persona. Pregiudizi diversi dal patimento intimo, costituente danno morale soggettivo, perchè non consistenti in una sofferenza, ma nel non poter più fare secondo i modi precedentemente adottati, e non integranti danno biologico, in assenza di lesione all'integrità psicofisica. 3.2. Va rilevato che, già nel quadro dell'art. 2043 c.c., nel quale veniva inserito, la nuova figura di danno si risolveva nella descrizione di un pregiudizio di tipo esistenziale (il peggioramento della qualità della vita, l'alterazione del fare non reddituale), non accompagnata dalla necessaria individuazione, ai fini del requisito dell'ingiustizia del danno, di quale fosse l'interesse giuridicamente rilevante leso dal fatto illecito, e l'insussistenza della lesione di un interesse siffatto era ostativa all'ammissione a risarcimento. Di siffatta carenza, non percepita dalla giurisprudenza di merito, mostratasi favorevole ad erogare tutela risarcitoria al danno così descritto (danno-conseguenza) senza svolgere indagini sull'ingiustizia del danno (per lesione dell'interesse), è stata invece avvertita questa Corte, in varie pronunce precedenti alle sentenze gemelle del 2003.

La sentenza n. 7713/2000, pur discorrendo di danno esistenziale, ed impiegando il collegamento tra art. 2043 c.c., e norme della Costituzione (nella specie gli artt. 29 e 30), analogamente a quanto all'epoca avveniva per il danno biologico, ravvisò il fondamento della tutela nella lesione del diritto costituzionalmente protetto del figlio all'educazione ed all'istruzione, integrante danno-evento. La decisione non sorregge quindi la tesi che vede il danno esistenziale come categoria generale e lo dice risarcibile indipendentemente dall'accertata lesione di un interesse rilevante.

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La menzione del danno esistenziale si rinviene anche nella sentenza n. 4783/2001, che ha definito esistenziale la sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche (e quindi in presenza di reato), alle quali era seguita dopo breve tempo la morte, ed era rimasta lucida durante l'agonia, e riconosciuto il risarcimento del danno agli eredi della vittima. La decisione non conforta la teoria del danno esistenziale. Nel quadro di una costante giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall'evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per le perdita della vita (sent. n. 1704/1997, n. 491/1999, n. 13336/1999, n. 887/2002, n. 517/2006), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile (sent. n. 6404/1998, n. 9620/2003, n. 4754/2004, n. 15404/2004), ed a questo lo commisura, la sentenza persegue lo scopo di riconoscere il risarcimento, a diverso titolo, delle sofferenze coscientemente patite in quel breve intervallo. Viene qui in considerazione il tema della risarcibilità della sofferenza psichica, di massima intensità anche se di durata contenuta, nel caso di morte che segua le lesioni dopo breve tempo. Sofferenza che, non essendo suscettibile di degenerare in danno biologico, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, non può che essere risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione. Nè, d'altra parte, può in questa sede essere rimeditato il richiamato indirizzo giurisprudenziale, non essendosi manifestato in questa Corte un argomentato dissenso. In tema di danno da irragionevole durata del processo (L. n. 89 del 2001, art. 2) la sentenza n. 15449/2002, ha espressamente negato la distinta risarcibilità del pregiudizio esistenziale, in quanto costituente solo una "voce" del danno non patrimoniale, risarcibile per espressa previsione di legge. Altre decisioni hanno riconosciuto, nell'ambito del rapporto di lavoro (e quindi in tema di responsabilità contrattuale, ponendo questione sulla quale si tornerà più avanti), il danno esistenziale da mancato godimento del riposo settimanale (sent. n. 9009/2001) e da

demansionamento (sent. n. 8904/2003), ravvisando nei detti casi la lesione di diritti fondamentali del lavoratore, e quindi ricollegando la risarcibilità ad una ingiustizia costituzionalmente qualificata. Al danno esistenziale era dato ampio spazio dai giudici di pace, in relazione alle più fantasiose, ed a volte risibili, prospettazioni di pregiudizi suscettivi di alterare il modo di esistere delle persone: la rottura del tacco di una scarpa da sposa, l'errato taglio di capelli, l'attesa stressante in aeroporto, il disservizio di un ufficio pubblico, l'invio di contravvenzioni illegittime, la morte dell'animale di affezione, il maltrattamento di animali, il mancato godimento della partita di calcio per televisione determinato dal black-out elettrico. In tal modo si risarcivano pregiudizi di dubbia serietà, a prescindere dall'individuazione dell'interesse leso, e quindi del requisito dell'ingiustizia. 3.3. Questi erano dunque i termini nei quali viveva, nelle opinioni della dottrina e nelle applicazioni della giurisprudenza, la figura del danno esistenziale.

Dopo che le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 hanno fissato il principio, condiviso da queste Sezioni unite, secondo cui, in virtù di una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., unica norma disciplinante il risarcimento del danno non patrimoniale, la tutela risarcitoria di questo danno è data, oltre che nei casi determinati dalla legge, solo nel caso di lesione di specifici diritti inviolabili della persona, e cioè in presenza di una ingiustizia costituzionalmente qualificata, di danno esistenziale come autonoma categoria di danno non è più dato discorrere. 3.4. Come si è ricordato, la figura del danno esistenziale era stata proposta nel dichiarato intento di supplire ad un vuoto di tutela, che ormai più non sussiste. 3.4.1. In presenza di reato, superato il tradizionale orientamento che limitava il risarcimento al solo danno morale soggettivo, identificato con il patema d'animo transeunte, ed affermata la risarcibilità del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, anche il pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare (ma sarebbe meglio dire: nella sofferenza morale determinata dal non poter fare) è risarcibile.

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La tutela risarcitoria sarà riconosciuta se il pregiudizio sia conseguenza della lesione almeno di un interesse giuridicamente protetto, desunto dall'ordinamento positivo, ivi comprese le convenzioni internazionali (come la già citata Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, ratificata con la L. n. 88 del 1955), e cioè purchè sussista il requisito dell'ingiustizia generica secondo l'art. 2043 c.c.. E la previsione della tutela penale costituisce sicuro indice della rilevanza dell'interesse leso. 3.4.2. In assenza di reato, e al di fuori dei casi determinati dalla legge, pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili purchè conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona. Ipotesi che si realizza, ad esempio, nel caso dello sconvolgimento della vita familiare provocato dalla perdita di congiunto (c.d. danno da perdita del rapporto parentale), poichè il pregiudizio di tipo esistenziale consegue alla lesione dei diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.). In questo caso, vengono in considerazione pregiudizi che, in quanto attengono all'esistenza della persona, per comodità di sintesi possono essere descritti e definiti come esistenziali, senza che tuttavia possa configurarsi una autonoma categoria di danno. Altri pregiudizi di tipo esistenziale attinenti alla sfera relazionale della persona, ma non conseguenti a lesione psicofisica, e quindi non rientranti nell'ambito del danno biologico (comprensivo, secondo giurisprudenza ormai consolidata, sia del c.d. "danno estetico" che del c.d. "danno alla vita di relazione"), saranno risarcibili purchè siano conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona diverso dal diritto alla integrità psicofisica. Ipotesi che si verifica nel caso (esaminato dalla sentenza n. 6607/1986) dell'illecito che, cagionando ad una persona coniugata l'impossibilità di rapporti sessuali è immediatamente e direttamente lesivo del diritto dell'altro coniuge a tali rapporti, quale diritto-dovere reciproco, inerente alla persona, strutturante, insieme agli altri diritti-doveri reciproci, il rapporto di coniugio. Nella fattispecie il pregiudizio è conseguente alla violazione dei diritti inviolabili della famiglia spettanti al coniuge del soggetto leso nella sua integrità psicofisica. 3.5. Il pregiudizio di tipo esistenziale, per quanto si è detto, è quindi risarcibile solo entro il limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata dell'evento di danno. Se non si riscontra lesione di diritti costituzionalmente inviolabili della persona non è data tutela risarcitoria. Per superare tale limitazione, è stata prospettata la tesi secondo cui la rilevanza costituzionale non deve attenere all'interesse leso, bensì al pregiudizio sofferto. Si sostiene che, incidendo il pregiudizio di tipo esistenziale, consistente nell'alterazione del fare non reddituale, sulla sfera della persona, per ciò soltanto ad esso va riconosciuta rilevanza costituzionale, senza necessità di indagare la natura dell'interesse leso e la consistenza della sua tutela costituzionale. La tesi pretende di vagliare la rilevanza costituzionale con riferimento al tipo di pregiudizio, cioè al danno-conseguenza, e non al diritto leso, cioè all'evento dannoso, in tal modo confonde il piano del pregiudizio da riparare con quello dell'ingiustizia da dimostrare, e va disattesa. Essa si risolve sostanzialmente nell'abrogazione surrettizia dell'art. 2059 c.c., nella sua lettura costituzionalmente orientata, perchè cancella la persistente limitazione della tutela risarcitoria (al di fuori dei casi determinati dalla legge) ai casi in cui il danno non patrimoniale sia conseguenza della lesione di un diritto inviolabile della persona, e cioè in presenza di ingiustizia costituzionalmente qualificata dell'evento dannoso. 3.6. Ulteriore tentativo di superamento dei limiti segnati dalla lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., è incentrato sull'assunto secondo cui il danno esistenziale non si identifica con la lesione di un bene costituzionalmente protetto, ma può scaturire dalla lesione di qualsiasi bene giuridicamente rilevante. La tesi è inaccettabile, in quanto si risolve nel ricondurre il preteso danno sotto la disciplina dell'art. 2043 c.c., dove il risarcimento è dato purchè sia leso un interesse genericamente rilevante per l'ordinamento, contraddicendo l'affermato principio della tipicità del danno non patrimoniale. E non è prospettabile illegittimità costituzionale dell'art. 2059 c.c., come rinvigorito da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003, in quanto non ammette a risarcimento, al di fuori dei casi previsti dalla legge (reato ed ipotesi tipiche), i pregiudizi non patrimoniali conseguenti alla lesione non di

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diritti inviolabili, ma di interessi genericamente rilevanti, poichè la tutela risarcitoria minima ed insopprimibile vale soltanto per la lesione dei diritti inviolabili (Corte Cost. n. 87/1979). 3.7. Il superamento dei limiti alla tutela risarcitoria dei danni non patrimoniali, che permangono, nei termini suesposti, anche dopo la rilettura conforme a Costituzione dell'art. 2059 c.c., può derivare da una norma comunitaria che preveda il risarcimento del danno non patrimoniale senza porre limiti, in ragione della prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno. Va ricordato che l'effetto connesso alla vigenza di norma comunitaria è quello non già di caducare, nell'accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale (Corte cost. n. 170/1984; S.U. n. 1512/1998; Cass. n. 4466/2005). 3.8. Queste Sezioni unite, con la sentenza n. 6572/2006, trattando il tema del riparto degli oneri probatori in tema di riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale biologico o esistenziale da demansionamento o dequalificazione, nell'ambito del rapporto di lavoro, hanno definito il danno esistenziale, come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo

esterno. La pronuncia è stata seguita da altre sentenze (n. 4260/2007; n. 5221/2007; n. 11278/2007; n. 26561/2007). Non sembra tuttavia che tali decisioni, che si muovono nell'ambito della affermata natura contrattuale della responsabilità del datore di lavoro (così ponendo la più ampia questione della risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento di obbligazioni, che sarà trattata più avanti e positivamente risolta), confortino la tesi di quanti configurano il danno esistenziale come autonoma categoria, destinata ad assumere rilievo anche al di fuori dell'ambito del rapporto di lavoro. Le menzionate sentenze individuano specifici pregiudizi di tipo esistenziale da violazioni di obblighi contrattuali nell'ambito del rapporto di lavoro. In particolare, dalla violazione dell'obbligo dell'imprenditore di tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore (art. 2087 c.c.). Vengono in considerazione diritti della persona del lavoratore che, già tutelati dal codice del 1942, sono assurti in virtù della Costituzione, grazie all'art. 32 Cost., quanto alla tutela dell'integrità fisica, ed agli artt. 1, 2, 4 e 35 Cost., quanto alla tutela della dignità personale del lavoratore, a diritti inviolabili, la cui lesione da luogo a risarcimento dei pregiudizi non patrimoniali, di tipo esistenziale, da inadempimento contrattuale. Si verte, in sostanza, in una ipotesi di risarcimento di danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista. 3.9. Palesemente non meritevoli dalla tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, sono i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale, ai quali ha prestato invece tutela la giustizia di prossimità. Non vale, per dirli risarcibili, invocare diritti del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità: in definitiva il diritto ad essere felici. Al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale. In tal senso, per difetto dell'ingiustizia costituzionalmente qualificata, è stato correttamente negato il risarcimento ad una persona che si affermava "stressata" per effetto dell'istallazione di un lampione a ridosso del proprio appartamento per la compromissione della serenità e sicurezza, sul rilievo che i menzionati interessi non sono presidiati da diritti di rango costituzionale (sent. n. 3284/2008). E per eguale ragione non è stato ammesso a risarcimento il pregiudizio sofferto per la perdita di un animale (un cavallo da corsa) incidendo la lesione su un rapporto, tra l'uomo e l'animale, privo, nell'attuale assetto dell'ordinamento, di copertura costituzionale (sent. n. 14846/2007).

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3.10. Il risarcimento di pretesi danni esistenziali è stato frequentemente richiesto ai giudici di pace ed ha dato luogo alla proliferazione delle c.d. liti bagatellari. Con tale formula si individuano le cause risarcitorie in cui il danno consequenziale è futile o irrisorio, ovvero, pur essendo oggettivamente serio, è tuttavia, secondo la coscienza sociale, insignificante o irrilevante per il livello raggiunto. In entrambi i casi deve sussistere la lesione dell'interesse in termini di ingiustizia costituzionalmente qualificata, restando diversamente esclusa in radice (al dei fuori dei casi previsti dalla legge) l'invocabilità dell'art. 2059 c.c.. La differenza tra i due casi è data dal fatto che nel primo, nell'ambito dell'area del danno-conseguenza del quale è richiesto il ristoro è allegato un pregiudizio esistenziale futile, non serio (non poter più urlare allo stadio, fumare o bere alcolici), mentre nel secondo è l'offesa arrecata che è priva di gravità, per non essere stato inciso il diritto oltre una soglia minima: come avviene nel caso del graffio superficiale dell'epidermide, del mal di testa per una sola mattinata conseguente ai fumi emessi da una fabbrica, dal disagio di poche ore cagionato dall'impossibilità di uscire di casa per l'esecuzione di lavori stradali di pari durata (in quest'ultimo caso non è leso un diritto inviolabile, non spettando tale rango al diritto alla libera circolazione di cui all'art. 16 Cost., che può essere limitato per varie ragioni). 3.11. La gravità dell'offesa costituisce requisito ulteriore per l'ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili. Il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. La lesione deve eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza. Il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile. Pregiudizi connotati da futilità ogni persona inserita nel complesso contesto sociale li deve accettare in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone (art. 2 Cost.). Entrambi i requisiti devono essere accertati dal giudice secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico (criterio sovente utilizzato in materia di lavoro, sent. n. 17208/2002; n. 9266/2005, o disciplinare, S.U. n. 16265/2002). 3.12. I limiti fissati dall'art. 2059 c.c., non possono essere ignorati dal giudice di pace nelle cause di valore non superiore ad euro millecento, in cui decide secondo equità. La norma, nella lettura costituzionalmente orientata accolta da queste Sezioni unite, in quanto pone le regole generali della tutela risarcitoria non patrimoniale, costituisce principio informatore della materia in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, che il giudice di pace, nelle questioni da decidere secondo equità, deve osservare (Corte Cost. n. 206/2004). 3.13. In conclusione, deve ribadirsi che il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate. In particolare, non può farsi riferimento ad una generica sottocategoria denominata "danno esistenziale", perchè attraverso questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell'atipicità, sia pure attraverso l'individuazione della apparente tipica figura categoriale del danno esistenziale, in cui tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini della risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal legislatore ordinario nè è necessitata dall'interpretazione costituzionale dell'art. 2059 c.c., che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specifici valori della persona presidiati da diritti inviolabili secondo Costituzione (principi enunciati dalle sentenze n. 15022/2005, n. 11761/2006, n. 23918/2006, che queste Sezioni unite fanno propri). 3.14. Le considerazioni svolte valgono a dare risposta negativa a tutti i quesiti, in quanto postulanti la sussistenza della autonoma categoria del danno esistenziale. 4. Il danno non patrimoniale conseguente all'inadempimento delle obbligazioni, secondo l'opinione prevalente in dottrina ed in giurisprudenza, non era ritenuto risarcibile.

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L'ostacolo era ravvisato nella mancanza, nella disciplina della responsabilità contrattuale, di una norma analoga all'art. 2059 c.c., dettato in materia di fatti illeciti. Per aggirare l'ostacolo, nel caso in cui oltre all'inadempimento fosse configurabile lesione del principio del neminem laedere, la giurisprudenza aveva elaborato la teoria del cumulo delle azioni,

contrattuale ed extracontrattuale (sent. n. 2975/1968, seguita dalla n. 8656/1996, nel caso del

trasportato che abbia subito lesioni nell'esecuzione del contratto di trasporto; sent. n. 8331/2001, in materia di tutela del lavoratore). A parte il suo dubbio fondamento dogmatico (contestato in dottrina), la tesi non risolveva la questione del risarcimento del danno non patrimoniale in senso lato, poichè lo riconduceva, in relazione all'azione extracontrattuale, entro i ristretti limiti dell'art. 2059 c.c., in collegamento con l'art. 185 c.p., sicchè il risarcimento era condizionato alla qualificazione del fatto illecito come reato ed era comunque ristretto al solo danno morale soggettivo. Dalle strettoie dell'art. 2059 c.c., si sottraeva il danno biologico, azionato in sede di responsabilità aquiliana, grazie al suo inserimento nell'art. 2043 c.c. (Corte Cost. n. 184/1986). 4.1. L'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., consente ora di affermare che anche nella materia della responsabilità contrattuale è dato il risarcimento dei danni non patrimoniali. Dal principio del necessario riconoscimento, per i diritti inviolabili della persona, della minima tutela costituita dal risarcimento, consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporta l'obbligo di risarcire tale danno, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale. Se l'inadempimento dell'obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata nell'azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all'espediente del cumulo di azioni. 4.2. Che interessi di natura non patrimoniale possano assumere rilevanza nell'ambito delle obbligazioni contrattuali, è confermato dalla previsione dell'art. 1174 c.c., secondo cui la prestazione che forma oggetto dell'obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere ad un interesse, anche non patrimoniale, del creditore. L'individuazione, in relazione alla specifica ipotesi contrattuale, degli interessi compresi nell'area del contratto che, oltre a quelli a contenuto patrimoniale, presentino carattere non patrimoniale, va condotta accertando la causa concreta del negozio, da intendersi come sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare, al di là del modello, anche tipico, adoperato; sintesi, e dunque ragione concreta, della dinamica contrattuale (come condivisibilmente affermato dalla sentenza n. 10490/2006). 4.3. Vengono in considerazione, anzitutto, i c.d. contratti di protezione, quali sono quelli che si concludono nel settore sanitario. In questi gli interessi da realizzare attengono alla sfera della salute in senso ampio, di guisa che l'inadempimento del debitore è suscettivo di ledere diritti inviolabili della persona cagionando pregiudizi non patrimoniali. In tal senso si esprime una cospicua giurisprudenza di questa Corte, che ha avuto modo di inquadrare nell'ambito della responsabilità contrattuale la responsabilità del medico e della struttura sanitaria (sent. n. 589/1999 e successive conformi, che, quanto alla struttura, hanno applicato il principio della responsabilità da contatto sociale qualificato), e di riconoscere tutela, oltre al paziente, a soggetti terzi, ai quali si estendono gli effetti protettivi del contratto, e quindi, oltre alla gestante, al nascituro, subordinatamente alla nascita (sent. n. 11503/1003; n. 5881/2000); ed al padre, nel caso di omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata (sent. n. 6735/2002; n. 14488/2004; n. 20320/2005). I suindicati soggetti, a seconda dei casi, avevano subito la lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost., comma 1), sotto il profilo del danno biologico sia fisico che psichico (sent. n.

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1511/2007); del diritto inviolabile all'autodeterminazione (art. 32 Cost., comma 2, e art. 13 Cost.), come nel caso della gestante che, per errore diagnostico, non era stata posta in condizione di decidere se interrompere la gravidanza (sent. n. 6735/2002 e conformi citate), e nei casi di violazione dell'obbligo del consenso informato (sent. n. 544/2006); dei diritti propri della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.), come nel caso di cui alle sentenze n. 6735/2002 e conformi citate. 4.4. Costituisce contratto di protezione anche quello che intercorre tra l'allievo e l'istituto scolastico.

In esso, che trova la sua fonte nel contatto sociale (S.U. n. 9346/2002; sent. n. 8067/2007), tra gli interessi non patrimoniali da realizzare rientra quello alla integrità fisica dell'allievo, con conseguente risarcibilità del danno non patrimoniale da autolesione (sentenze citate). 4.5. L'esigenza di accertare se, in concreto, il contratto tenda alla realizzazione anche di interessi non patrimoniali, eventualmente presidiati da diritti inviolabili della persona, viene meno nel caso in cui l'inserimento di interessi siffatti nel rapporto sia opera della legge. E' questo il caso del contratto di lavoro. L'art. 2087 c.c. ("L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro"), inserendo nell'area del rapporto di lavoro interessi non suscettivi di valutazione economica (l'integrità fisica e la personalità morale) già implicava che, nel caso in cui l'inadempimento avesse provocato la loro lesione, era dovuto il risarcimento del danno non patrimoniale. Il presidio dei detti interessi della persona ad opera della Costituzione, che li ha elevati a diritti inviolabili, ha poi rinforzato la tutela. Con la conseguenza che la loro lesione è suscettiva di dare luogo al risarcimento dei danni conseguenza, sotto il profilo della lesione dell'integrità psicofisica (art. 32 Cost.) secondo le modalità del danno biologico, o della lesione della dignità personale del lavoratore (artt. 2, 4, 32 Cost.), come avviene nel caso dei pregiudizi alla professionalità da dequalificazione, che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall'impresa. Nell'ipotesi da ultimo considerata si parla, nella giurisprudenza di questa Corte (sent. n. 6572/2006), di danno esistenziale. Definizione che ha valenza prevalentemente nominalistica, poichè i danni- conseguenza non patrimoniali che vengono in considerazione altro non sono che pregiudizi attinenti alla svolgimento della vita professionale del lavoratore, e quindi danni di tipo esistenziale, ammessi a risarcimento in virtù della lesione, in ambito di responsabilità contrattuale, di diritti inviolabili e quindi di ingiustizia costituzionalmente qualificata. 4.6. Quanto al contratto di trasporto, la tutela dell'integrità fisica del trasportato è compresa tra le obbligazioni del vettore, che risponde dei sinistri che colpiscono la persona del viaggiatore durante il viaggio (art. 1681 c.c.). Il vettore è quindi obbligato a risarcire a titolo di responsabilità contrattuale il danno biologico riportato nel sinistro dal viaggiatore. Ove ricorra ipotesi di inadempimento-reato (lesioni colpose), varranno i principi enunciati con riferimento all'ipotesi del danno non patrimoniale da reato, anche in relazione all'ipotesi dell'illecito plurioffensivo, e sarà dato il risarcimento del danno non patrimoniale nella sua ampia accezione. 4.7. Nell'ambito della responsabilità contrattuale il risarcimento sarà regolato dalle norme dettate in materia, da leggere in senso costituzionalmente orientato. L'art. 1218 c.c., nella parte in cui dispone che il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, non può quindi essere riferito al solo danno patrimoniale, ma deve ritenersi comprensivo del danno non patrimoniale, qualora l'inadempimento abbia determinato lesione di diritti inviolabili della persona. Ed eguale più ampio contenuto va individuato nell'art. 1223 c.c., secondo cui il risarcimento del danno per l'inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta, riconducendo tra le perdite e le mancate utilità anche i pregiudizi non patrimoniali determinati dalla lesione dei menzionati diritti.

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D'altra parte, la tutela risarcitoria dei diritti inviolabili, lesi dall'inadempimento di obbligazioni, sarà soggetta al limite di cui all'art. 1225 c.c. (non operante in materia di responsabilità da fatto illecito, in difetto di richiamo nell'art. 2056 c.c.), restando, al di fuori dei casi di dolo, limitato il risarcimento al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui l'obbligazione è sorta. Il rango costituzionale dei diritti suscettivi di lesione rende nulli i patti di esonero o limitazione della responsabilità, ai sensi dell'art. 1229 c.c., comma 2 (E' nullo qualsiasi patto preventivo di esonero o di limitazione della responsabilità per i casi in cui il fatto del debitore o dei suoi ausiliari costituisca violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico). Varranno le specifiche regole del settore circa l'onere della prova (come precisati da Sez. Un. n. 13533/2001), e la prescrizione. 4.8. Il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre. Si è già precisato che il danno non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c., identificandosi con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria non suscettiva di suddivisione in sottocategorie. Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno. E' compito del giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione. 4.9. Viene in primo luogo in considerazione, nell'ipotesi in cui l'illecito configuri reato, la sofferenza morale. Definitivamente accantonata la figura del c.d. danno morale soggettivo, la sofferenza morale, senza ulteriori connotazioni in termini di durata, integra pregiudizio non patrimoniale. Deve tuttavia trattarsi di sofferenza soggettiva in sè considerata, non come componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale. Ricorre il primo caso ove sia allegato il turbamento dell'animo, il dolore intimo sofferti, ad esempio, dalla persona diffamata o lesa nella identità personale, senza lamentare degenerazioni patologiche della sofferenza. Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra nell'area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente. Determina quindi duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale nei suindicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà) del primo. Esclusa la praticabilità di tale operazione, dovrà il giudice, qualora si avvalga delle note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza. Egualmente determina duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale, nella sua rinnovata configurazione, e del danno da perdita del rapporto parentale, poichè la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l'esistenza del soggetto che l'ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ed unitariamente ristorato. Possono costituire solo "voci" del danno biologico nel suo aspetto dinamico, nel quale, per consolidata opinione, è ormai assorbito il c.d. danno alla vita di relazione, i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell'integrità psicofisica, sicchè darebbe luogo a duplicazione la loro distinta riparazione. Certamente incluso nel danno biologico, se derivante da lesione dell'integrità psicofisica, è il pregiudizio da perdita o compromissione della sessualità, del quale non può, a pena di incorrere in duplicazione risarcitoria, darsi separato indennizzo (diversamente da quanto affermato dalla sentenza n. 2311/2007, che lo eleva a danno esistenziale autonomo).

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Ed egualmente si avrebbe duplicazione nel caso in cui il pregiudizio consistente nella alterazione fisica di tipo estetico fosse liquidato separatamente e non come "voce" del danno biologico, che il c.d. danno estetico pacificamente incorpora. Il giudice potrà invece correttamente riconoscere e liquidare il solo danno morale, a ristoro della sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l'agonia in consapevole attesa della fine. Viene così evitato il vuoto di tutela determinato dalla giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall'evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per la perdita della vita (sent. n. 1704/1997 e successive conformi), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile, al quale lo commisura (sent. n. 6404/1998 e successive conformi). Una sofferenza psichica siffatta, di massima intensità anche se di durata contenuta, non essendo suscettibile, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, di degenerare in patologia e dare luogo a danno biologico, va risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione. 4.10. Il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili

della persona, costituisce danno conseguenza (Cass. n. 8827 e n. 8828/2003; n. 16004/2003), che deve essere allegato e provato. Va disattesa, infatti, la tesi che identifica il danno con l'evento dannoso, parlando di "danno evento". La tesi, enunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 184/1986, è stata infatti superata dalla successiva sentenza n. 372/1994, seguita da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003. E del pari da respingere è la variante costituita dall'affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perchè la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo. Per quanto concerne i mezzi di prova, per il danno biologico la vigente normativa (D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139) richiede l'accertamento medico-legale. Si tratta del mezzo di indagine al quale correntemente si ricorre, ma la norma non lo eleva a strumento esclusivo e necessario. Così come è nei poteri del giudice disattendere, motivatamente, le opinioni del consulente tecnico, del pari il giudice potrà non disporre l'accertamento medico-legale, non solo nel caso in cui l'indagine diretta sulla persona non sia possibile (perchè deceduta o per altre cause), ma anche quando lo ritenga, motivatamente, superfluo, e porre a fondamento della sua decisione tutti gli altri elementi utili acquisiti al processo (documenti, testimonianze), avvalersi delle nozioni di comune esperienza e delle presunzioni. Per gli altri pregiudizi non patrimoniali potrà farsi ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva. Attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l'unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (v., tra le tante, sent. n. 9834/2002). Il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto.

� Cass., 7 giungo 2011, n. 12408, (Pres. Preden, Rel. Amatucci Col secondo motivo sono dedotte violazione o falsa applicazione degli artt. 1223, 1226, 1227 e 2056 c.c., nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in punto di liquidazione del danno. Si duole in particolare il ricorrente:

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a) che la corte d'appello, "in accoglimento dell'appello incidentale del R., si sia discostata dai parametri di liquidazione del danno generalmente adottati (ossia le cd. tabelle di Milano) in favore del criterio di calcolo del punto unico nazionale"; b) che nulla sia stato riconosciuto per danno "esistenziale". c) che, in punto di liquidazione del danno patrimoniale da danno emergente, la corte d'appello abbia immotivatamente riconosciuto solo le spese mediche documentate escludendo gli esborsi futuri e, quanto al lucro cessante, che non abbia considerato i presumibili incrementi futuri dei guadagni che sarebbero derivati dalla perduta capacità lavorativa. Sostiene, infine, che il riconoscimento del risarcimento del danno in misura superiore ad Euro 516.000,00 (n.d.e.: equivalenti al massimale di un miliardo di lire già versato) "non potrà che determinare la condanna della compagnia al pagamento degli interessi legali sul massimale dalla data di scadenza del termine di 60 giorni dalla costituzione in mora fino alla data del pagamento". 3.1.- Va premesso che, se si verificasse quanto appena prospettato, si renderebbero applicabili i principi enunciati, tra le altre, da Cass. 8 luglio 2003, n 10715 e 13 ottobre 2009, n. 21628, in senso conforme all'assunto del ricorrente. La doglianza (sub 3b) relativa al mancato riconoscimento del danno cd. "esistenziale" quale autonoma voce di danno è infondata alla luce di quanto chiarito da Cass., sez. un., 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974 e 26975, cui s'è uniformata la giurisprudenza successiva. Quelle relative alla liquidazione del danno patrimoniale emergente (di cui sub 3c) sono infondate poichè - a parte l'erronea affermazione della corte d'appello che le spese future non integrano un danno emergente (prime tre righe di pag. 21 della sentenza, che va sul punto corretta) - le ulteriori osservazioni della corte territoriale nel senso che l'appellante non aveva documentato ulteriori prevedibili interventi (le spese relative ai quali avrebbero potuto essere eventualmente richieste in separata sede) e che pensione di invalidità ed indennità di accompagnamento aliunde percepite erano già sufficienti a fronteggiare i costi da affrontare per un accompagnatore, integrano apprezzamenti di fatto tali da escludere la stessa sussistenza del danno patrimoniale intesa come conseguenza pregiudizievole di un evento effettivamente incidente sul patrimonio del danneggiato. E' invece fondata quella relativa alla liquidazione del lucro cessante da mancato reddito da lavoro, determinato in Euro 338.400, al lordo della quota del 25% da detrarre, "sulla base del reddito percepito dal danneggiato nel '91, senza tenere conto di eventuali successivi incrementi incerti nell'an e nel quantum" (così la sentenza impugnata a pag. 21). La motivazione è effettivamente insufficiente ad escludere, sulla base delle nozioni di comune esperienza delle quali il giudice deve tener conto in quanto integranti una regola di giudizio (Cass. 28 ottobre 2010, n. 22022), che fosse possibile il ricorso alla presunzione in ordine all'incremento nel futuro dei guadagni di un agente di commercio di 24 anni. 3.2.- Va a questo punto esaminato il motivo di censura sub 3a. La corte d'appello ha affermato: "le cd. tabelle milanesi non costituiscono criterio codificato per la liquidazione del danno biologico, pur venendo applicate in diversi tribunali. In particolare questa corte drappello non le utilizza, facendosi carico delle differenze oggettive riscontrabili tra le condizioni di vita a Milano e quelle locali, ditalchè reputa maggiormente equo il criterio del calcolo di punto unico nazionale, elaborato attraverso la comparazione delle liquidazioni espresse da numerosi tribunali, equamente distribuiti tra nord, centro, sud e isole" (così la sentenza impugnata, a pag. 19, primo capoverso). Ha conseguentemente liquidato il danno biologico, in relazione all'epoca del fatto, nella sua interezza, in L. 604.000.000 (a fronte della somma di L. 932.875.000 che sarebbe risultata dall'applicazione delle tabelle milanesi), riconoscendo al danneggiato L. 453.000.000 (pari al 75%) e liquidando il danno morale spettantegli in 1/3 del predetto importo, dunque in L. 151.000.000. 3.2.1.- Conviene prendere le mosse dal preliminare rilievo che l'osservazione della giurisprudenza di merito mostra marcate disparità non solo nei valori liquidati a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale da lesione dell'integrità psicofisica (e, a favore dei congiunti, da morte), ma anche nel metodo utilizzato per la liquidazione.

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Taluni uffici giudiziari si avvalgono, infatti, del criterio equitativo puro, altri liquidano il danno in esame col sistema "a punto", prevalentemente ricavato dalla media delle precedenti decisioni pronunciate in materia; alcuni liquidano unitariamente il danno non patrimoniale ed altri distinguono più voci; taluni pongono un tetto massimo ed uno minimo alla personalizzazione del risarcimento, altri non lo fanno. Pure sul piano dei valori tabellari di punto si registrano divergenze assai accentuate, che di fatto danno luogo ad una giurisprudenza per zone, difficilmente compatibile con l'idea stessa dell'equità, nel senso che sarà appresso chiarito: accade, ad esempio, che ad un giovane macroleso invalido all'80% si possa riconoscere, in base alle diverse tabelle in uso ed indipendentemente dalla personalizzazione, un risarcimento che oscilla tra i 430.000 ed i 700.000 Euro; che per la morte di un figlio la forbice possa variare da 30.000 a 300.000 Euro; che alcuni tribunali attribuiscano maggior peso alla morte di un figlio rispetto a quella della moglie e che altri facciano il contrario. Si tratta di un fenomeno che, incidendo sui fondamentali diritti della persona, vulnera elementari principi di eguaglianza, mina la fiducia dei cittadini nell'amministrazione della giustizia, lede la certezza del diritto, affida in larga misura al caso l'entità dell'aspettativa risarcitoria, ostacola le conciliazioni e le composizioni transattive in sede stragiudiziale, alimenta per converso le liti, non di rado fomentando domande pretestuose (anche in seguito a scelte mirate: cosiddetto "forum shopping") o resistenze strumentali. E' noto che gli artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni private (di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209) dettano criteri per la liquidazione del danno biologico per lesioni da sinistri stradali, rispettivamente, di non lieve e di lieve entità, queste ultime concernenti i postumi pari o inferiori al 9% della complessiva validità dell'individuo; e che, mentre l'art. 139 ha ricevuto attuazione ed è stato, talora, analogicamente applicato alle lesioni derivate anche da cause diverse dalla circolazione stradale, non è stata per contro mai emanata la pur prevista "specifica tabella unica su tutto il territorio della Repubblica", che avrebbe dovuto indicare (ex art. 138, comma 1, D.Lgs. cit.) sia le "menomazioni all'integrità psicofisica comprese tra dieci e cento punti" che il "valore pecuniario da attribuire ad ogni singolo punto di invalidità, comprensiva dei coefficienti di variazione corrispondenti all'età del soggetto leso". Nella perdurante mancanza di riferimenti normativi per le invalidità dal 10 al 100% e considerato che il legislatore ha comunque già espresso, quanto meno per le lesioni da sinistri stradali, la chiara opzione per una tabella unica da applicare su tutto il territorio nazionale, la Corte di cassazione ritiene che sia suo specifico compito, al fine di garantire l'uniforme interpretazione del diritto (che contempla anche l'art. 1226 cod. civ., relativo alla valutazione equitativa del danno), fornire ai giudici di merito l'indicazione di un unico valore medio di riferimento da porre a base del risarcimento del danno alla persona, quale che sia la latitudine in cui si radica la controversia. Ciò sulla base delle considerazioni che seguono. 3.2.2.- Vanno anzitutto ribaditi i principi secondo i quali la liquidazione equitativa del danno può ritenersi sufficientemente motivata - ed è pertanto insuscettibile di sindacato in sede di legittimità - allorquando il giudice dia l'indicazione di congrue, anche se sommarie, ragioni del processo logico seguito; e che essa è invece censurabile se sia stato liquidato un importo manifestamente simbolico o non correlato alla effettiva natura od entità del danno; o quando nella sentenza di merito non si dia conto del criterio utilizzato, o la relativa valutazione risulti incongrua rispetto al caso concreto, o la determinazione del danno sia palesemente sproporzionata per difetto o per eccesso. Ma equità non vuoi dire arbitrio, perchè quest'ultimo, non scaturendo da un processo logico-deduttivo, non potrebbe mai essere sorretto da adeguata motivazione. Affermare allora che la liquidazione equitativa è insindacabile a condizione che risulti congruamente motivata equivale ad ammettere che dell'equità possa darsi una giustificazione razionale a posteriori. Di conseguenza, il controllo in sede di legittimità del giudizio equitativo esige che preliminarmente si stabilisca quale sia la nozione di "equità" recepita dall'ordinamento nell'art. 1226 cod. civ.. Il concetto di equità ricorre in numerose norme del codice civile:

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oltre al già ricordato art. 1226 - che, come l'art. 2056, consente la liquidazione equitativa del danno quando non sia possibile provarne il preciso ammontare - l'art. 1374 include l'equità tra le fonti di integrazione del contratto, l'art. 1450 consente la riduzione ad equità del contratto per evitarne la rescissione, l'ultimo comma dell'art. 1467 permette la riduzione ad equità del contratto risolubile per eccessiva onerosità sopravvenuta, gli artt. 1733, 1748 e 1755 cod. civ. consentono di fissare secondo equità la misura della provvigione dovuta al commissionario all'agente ed al mediatore, gli artt. 2045 e 2047 attribuiscono alla vittima di illeciti causati in stato di necessità o dall'incapace il diritto ad un'equa indennità, gli artt. 2263 e 2500 quater fissano secondo equità la ripartizione dei guadagni e delle perdite nei confronti del socio d'opera nella società semplice e la quota spettante al socio d'opera nel caso di fusione societaria. Il principio di equità è altresì richiamato da numerose, ulteriori disposizioni: così, l'art. 2, comma 2, lettera e), del menzionato codice del consumo riconosce il diritto "all'equità nei rapporti contrattuali" come diritto fondamentale del consumatore; il D.Lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, art. 7, comma 1, (sul ritardo di pagamento nelle transazioni commerciali) commina la sanzione della nullità all'accordo sulla data del pagamento o sulle conseguenze del ritardato pagamento che risulti "gravemente iniquo" in danno del creditore; l'art. 493 cod. nav. prevede l'erogazione di un indennizzo equitativo a chi abbia effettuato il salvataggio di persone in mare. Dalle previsioni che precedono scaturisce un concetto di equità che racchiude in sè due caratteristiche. La prima è l'essere essa uno strumento di adattamento della legge al caso concreto. La norma giuridica infatti, in quanto astratta, non può mai prevedere tutte le ipotesi concretamente verificabili: il che si designa con la tradizionale affermazione secondo la quale l'equità sarebbe la regola del caso concreto, individuata non attraverso un'interpretazione o estrapolazione del testo della legge, ma dello spirito di quest'ultima, inteso quale regola di adeguatezza della fattispecie astratta al caso sub iudice. Ma l'adattamento dell'ordinamento al caso concreto, attraverso la creazione di una regola ad hoc in difetto della quale pretese meritevoli di tutela resterebbero insoddisfatte (com'è per gli artt. 1226, 1374 e 2056 cod. civ.) non esaurisce il senso ed il contenuto della nozione di equità. Essa - ed è la caratteristica che viene qui specificamente in rilievo - ha anche la funzione di garantire l'intima coerenza dell'ordinamento, assicurando che casi uguali non siano trattati in modo diseguale, o viceversa: sotto questo profilo l'equità vale ad eliminare le disparità di trattamento e le ingiustizie. Alla nozione di equità è quindi consustanziale non solo l'idea di adeguatezza, ma anche quella di proporzione. Lo attestano inequivocamente, tra gli altri, gli artt. 1450, 1467, 1733, 1748, 1755, 2045, 2047, 2263 e 2500 quater cod. civ.; che consentono tutti di ristabilire un equilibrio turbato, quindi una "proporzione" tra pretese contrapposte. Così intesa, l'equità costituisce strumento di eguaglianza, attuativo del precetto di cui all'art. 3 Cost., perchè consente di trattare i casi dissimili in modo dissimile, ed i casi analoghi in modo analogo, in quanto tutti ricadenti sotto la disciplina della medesima norma o dello stesso principio. Equità, in definitiva, non vuoi dire soltanto "regola del caso concreto", ma anche "parità di trattamento". Se, dunque, in casi uguali non è realizzata la parità di trattamento, neppure può dirsi correttamente attuata l'equità, essendo la disuguaglianza chiaro sintomo della inappropriatezza della regola applicata. Ciè è tanto più vero quando, come nel caso del danno non patrimoniale, ontologicamente difetti, per la diversità tra l'interesse leso (ad esempio, la salute o l'integrità morale) e lo strumento compensativo (il denaro), la possibilità di una sicura commisurazione della liquidazione al pregiudizio areddituale subito dal danneggiato; e tuttavia i diritti lesi si presentino uguali per tutti, sicchè solo un'uniformità pecuniaria di base può valere ad assicurare una tendenziale uguaglianza di trattamento, ad un tempo sintomo e garanzia dell'adeguatezza della regola equitativa applicata nel singolo caso, salva la flessibilità imposta dalla considerazione del particulare.

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3.2.3.-. La regola della proporzione, intesa quale parità di trattamento, è già stata affermata in numerose occasioni sia dalla Corte costituzionale che dalla Corte di cassazione, con riferimento alla liquidazione del danno biologico. Nella motivazione della sentenza 14 luglio 1986, n. 184, la Consulta chiarì che nella liquidazione del danno alla salute il giudice deve combinare due elementi: da un lato una "uniformità pecuniaria di base", la quale assicuri che lo stesso tipo di lesione non sia valutato in maniera del tutto diversa da soggetto a soggetto; dall'altro elasticità e flessibilità, per adeguare la liquidazione all'effettiva incidenza della menomazione sulle attività della vita quotidiana. Il criterio della compresenza di uniformità e flessibilità è stato condiviso da questa Corte, la quale ha ripetutamente affermato che nella liquidazione del danno biologico il giudice del merito deve innanzitutto individuare un parametro uniforme per tutti, e poi adattare quantitativamente o qualitativamente tale parametro alle circostanze del caso concreto. In definitiva la liquidazione equitativa dei danni alla persona deve evitare due estremi: da un lato, che i criteri di liquidazione siano rigidamente fissati in astratto e sia sottratta al giudice qualsiasi seria possibilità di adattare i criteri legali alle circostanze del caso concreto (in questo modo l'ordinamento garantirebbe sì la massima uguaglianza, oltre che la prevedibilità delle decisioni, ma impedirebbe nello stesso tempo un'adeguata personalizzazione del risarcimento); - dall'altro, che il giudizio di equità sia completamente affidato alla intuizione soggettiva del giudice, al di fuori di qualsiasi criterio generale valido per tutti i danneggiati a parità di lesioni (sarebbe, infatti, bensì teoricamente assicurata un'adeguata personalizzazione del risarcimento, ma verrebbe meno la parità di trattamento e, con essa, la prevedibilità dell'esito del giudizio, costituente uno dei più efficaci disincentivi alle liti giudiziarie). Il conseguimento di una ragionevole equità nella liquidazione del danno deve perciò ubbidire a due principi che, essendo tendenzialmente contrapposti (la fissazione di criteri generali e la loro adattabilità al caso concreto), non possono essere applicati in modo "puro". Il contemperamento delle due esigenze di cui si è detto richiede sistemi di liquidazione che associno all'uniformità pecuniaria di base del risarcimento ampi poteri equitativi del giudice, eventualmente entro limiti minimi e massimi, necessari al fine di adattare la misura del risarcimento alle circostanze del caso concreto. Non sarebbe infatti possibile ritenere rispettata la regola di uguaglianza per il solo fatto che i criteri standard per la liquidazione del danno non patrimoniale risultino uniformi per le controversie decise dal medesimo ufficio giudiziario o dal medesimo giudice; e costituirebbe una contradictio in adiecto l'affermare che l'equità in linea di principio esige (anche) parità di trattamento e l'accettare poi che tale parità possa appagarsi di un'uniformità solo locale. La circostanza che lesioni della stessa entità, patite da persone della stessa età e con conseguenze identiche, siano liquidate - come sopra s'è rilevato - in modo fortemente difforme non può ritenersi una mera circostanza di fatto, come tale indeducibile al cospetto della Corte di cassazione e da questa incensurabile; deve, al contrario, apprezzarsi come violazione della regola di equità, per come sopra ricostruita, in quanto tale soggetta al giudizio di legittimità: come l'"equità-adeguatezza" costituisce esclusivo appannaggio del giudice di merito quale organo giudicante chiamato ad apprezzare tutte le peculiarità del caso concreto, sicchè quell'apprezzamento è incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivato, così spetta alla Corte di cassazione stabilire quali siano i criteri generali cui i giudici di merito devono attenersi nel loro delicato ufficio per far sì, da un lato, che l'equità non rischi di trasmodare in involontario arbitrio e, dall'altro, che cessi finalmente l'insopportabile disparità di trattamento tra cittadino e cittadino. E' dunque possibile affermare che: a) intesa l'equità anche come parità di trattamento, non può essere sottratta al sindacato in sede di legittimità la corretta applicazione da parte del giudice del merito delle regole di equità di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c., come sopra ricostruite;

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b) il rispetto dei principi di adeguatezza e di proporzione di cui si è detto presuppone l'adozione di un parametro di liquidazione uniforme, che possa essere modulato a seconda delle circostanze del caso concreto; c) poichè, ai sensi dell'art. 65 dell'Ordinamento giudiziario approvato con R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, è compito della Corte di cassazione assicurare l'esatta osservanza, "l'uniforme interpretazione della legge" e "l'unità del diritto oggettivo nazionale", non esula dai suoi poteri-doveri quello di dettare i criteri necessari affinchè sia garantita l'interpretazione uniforme delle menzionate disposizioni normative, riguardate come affermative anche del principio della parità di trattamento. La correttezza della conclusione in ordine al potere della Corte di dettare valori medi di riferimento per la stima del danno alla persona a seguito dell'operata interpretazione dell'art. 1226 cod. civ. è avallata dall'art. 3 Cost. che, imponendo la parità di trattamento tra i cittadini, non consente interpretazioni della legge che quella parità violino proprio in materia di diritti fondamentali; dall'art. 32 Cost. che, proclamando solennemente la inviolabilità del diritto alla salute, non sarebbe coerentemente applicato se il ristoro del danno derivato dalla sua lesione ubbidisse a diversi criteri in relazione alla localizzazione del giudice competente; dal novellato art. 111 Cost., comma 2, volta che la prevedibilità delle decisioni giudiziarie, garantita dall'esistenza di un minimo comune denominatore dell'equità risarcitoria, è il principale strumento in grado di deflazionare il contenzioso, smorzando da un lato appetiti indebiti, dall'altro resistenze ingiustificate. Questa Corte del resto, nella parte in cui ha ammesso, sia pure sotto il profilo del vizio di motivazione, che la liquidazione equitativa compiuta dal giudice di merito possa essere sindacata se incongrua e quindi "sproporzionata" rispetto al caso concreto, ha in qualche modo già riconosciuto quanto si è venuti fin qui dicendo; che, cioè, l'equità è anche "proporzione" e che non possono essere accettate liquidazioni equitative che si discostino da un minimo comune denominatore dell'equità risarcitoria (cfr., tra le tante, Cass. 12 dicembre 2008, n. 21191; 28 novembre 2008, n. 28407; 29 settembre 2005, n. 19171; 3 agosto 2005, n. 16225; 23 febbraio 2005, n. 3766; 21 maggio 1996, n. 4671). 3.2.4.- Va dunque stabilito quale il comune denominatore sia e, prim'ancora, se per i danni alla salute che abbiano causato soltanto postumi temporanei, ovvero postumi permanenti pari o inferiori al 9% della complessiva validità dell'individuo, si debba o no operare l'applicazione analogica dell'art. 139 del codice delle assicurazioni, dettato per il ristoro dei danni alla persona causati da sinistri stradali. Tre linee di pensiero si contendono il campo. La prima, favorevole all'applicazione analogica, si basa sul rilievo che tra lesioni derivanti dalla circolazione stradale e lesioni derivanti da altre cause non v'è altra differenza che il mezzo col quale le lesioni sono state inferte; e proclama tale differenza giuridicamente irrilevante, salva la valutazione di conformità della disposizione citata alla Costituzione nella parte in cui pone un tetto alla personalizzazione del danno e rende potenzialmente inadeguata la somma complessivamente riconoscibile a titolo di risarcimento (la Corte costituzionale, investita dal giudice di pace di Torino della relativa questione di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 2, 3, 24 e 76 Cost., l'ha dichiarata manifestamente inammissibile con ordinanza 28 aprile 2011, n. 157 per ravvisate carenze di prospettazione da parte del giudice di pace a quo). La seconda, contraria all'applicazione analogica, fa leva sulla collocazione della disposizione nel "Codice delle assicurazioni private" e, in particolare, nel "Titolo X: Assicurazione obbligatoria per i veicoli a motore e i natanti", e sulla ratio legis, volta a dare una risposta settoriale al problema della liquidazione del danno biologico al fine del contenimento dei premi assicurativi, specie se si considera che, nel campo della r.c.a., i costi complessivamente affrontati dalle società di assicurazione per l'indennizzo delle cosiddette micropermanenti sono di gran lunga superiori a quelli sopportati per i risarcimenti da lesioni comportanti postumi più gravi. La terza linea di pensiero si fonda sul riferimento del codice delle assicurazioni al solo danno "biologico", sicchè resterebbero comunque estranei all'ambito applicativo della disposizione in commento i pregiudizi di carattere non patrimoniale consistenti nelle sofferenze fisiche o psichiche

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patite dalla vittima (il "vecchio" danno morale), che sarebbero indennizzabili, anche in ambito di r.c.a., mediante il riconoscimento di una somma ulteriore a titolo di personalizzazione del risarcimento. La corretta soluzione è la seconda, fondata su considerazioni che questa Corte considera preclusive di un'applicazione analogica: per i postumi di lieve entità non connessi alla circolazione varranno dunque i criteri di cui al paragrafo successivo, indipendentemente dalla gravita dei postumi (inferiori o superiori al 9%), e non quelli posti dall'art. 139 del codice delle assicurazioni. Quanto ai postumi di lieve entità derivati invece da lesioni verificatesi per sinistri stradali, il citato art. 139 va applicato in linea coi principi enunciati dalle Sezioni unite del 2008, le quali (al paragrafo 4.9 delle sentenze più volte citate) hanno affermato: che costituisce componente del danno biologico "ogni sofferenza fisica o psichica per sua natura intrinseca"; che determina dunque duplicazione del risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale inteso come turbamento dell'animo e dolore intimo; che il giudice che si avvalga delle note tabelle dovrà procedere ad un'adeguata personalizzazione del risarcimento al fine di indennizzare le sofferenze fisiche o psichiche patite dal soggetto leso. Ora, l'art. 139, comma 2, cod. assic., stabilendo che "per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente all'integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medicolegale che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato ...", ha avuto riguardo ad una concezione del danno biologico anteriore alle citate sentenze del 2008, nel quale il limite della personalizzazione - costituente la modalità attraverso la quale, secondo le Sezioni unite, è possibile riconoscere le varie "voci del danno biologico nel suo aspetto dinamico" - è fissato dalla legge: e lo è in misura non superiore ad un quinto. Quante volte, dunque, la lesione derivi dalla circolazione di veicoli a motore e di natanti, il danno non patrimoniale da micro permanente non potrà che essere liquidato, per tutti i pregiudizi areddituali che derivino dalla lesione del diritto alla salute, entro i limiti stabiliti dalla legge mediante il rinvio al decreto annualmente emanato dal Ministro delle attività produttive (ex art. 139, comma 5), salvo l'aumento da parte del giudice, "in misura non superiore ad un quinto, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato" (art. 139, comma 3). Solo entro tali limiti il collegio ritiene di poter condividere il principio enunciato da Cass. 17 settembre 2010, n. 19816, che ha accolto il ricorso in un caso nel quale il risarcimento del danno "morale" era stato negato sul presupposto che la tabella normativa non ne prevede la liquidazione. 3.2.5.- In un sistema caratterizzato da divergenti applicazioni del concetto di equità, la Corte di cassazione è dunque chiamata ad effettuare un'opzione tra i tanti criteri concretamente adottati dalla giurisprudenza. Criteri che si pongono tutti su un piano di pari dignità concettuale e che costituiscono il frutto degli spontanei, lodevoli e spesso assai faticosi sforzi dei giudici di merito volti al perseguimento, in ambito necessariamente locale, degli stessi scopi che si intende ora realizzare sul piano nazionale. Il criterio della media aritmetica, al quale vien fatto immediatamente di pensare e che in teoria consentirebbe di indicare come equo un valore rispetto al quale le liquidazioni previgenti presentano il minore scostamento in termini assoluti, trova molteplici e determinanti controindicazioni. La prima è che la media sarebbe arbitrariamente effettuata tra valori con pesi ponderali assai diversi. Ignoto sostanzialmente essendo il numero delle precedenti decisioni alle quali ciascun ufficio giudiziario ha fatto riferimento per elaborare le proprie tabelle, sta il fatto che ogni ufficio ha un suo proprio organico di magistrati, che il numero dei casi decisi è profondamente diverso tra i vari tribunali, che gli ambiti territoriali dei vari circondari e distretti presentano marcatissime differenze, così come il numero degli abitanti e quello degli avvocati in ognuno di essi operanti. Sarebbe, così, privo di qualsiasi senso logico fare una media, considerando paritetica l'incidenza dei valori indicati in ciascuna tabella, fra quelle elaborate da tribunali cui siano addetti poche decine di giudici e quelle adottate presso uffici giudiziari dove operino diverse centinaia di magistrati.

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Difettano, del pari, indici di sicura attendibilità al fine dell'attribuzione di pesi ponderali diversificati. La seconda controindicazione è insita nel rilievo che una media è possibile solo tra valori aritmetici e non anche tra criteri di liquidazione, spesso non omogenei. La terza controindicazione è costituita dalla inopportunità che la Corte di legittimità contrapponga una propria scelta a quella già effettuata dai giudici di merito di ben sessanta tribunali, anche di grandi dimensioni (come, ad esempio, Napoli) che, al di là delle diversità delle condizioni economiche e sociali dei diversi contesti territoriali, hanno posto a base del calcolo medio i valori di riferimento per la liquidazione del danno alla persona adottati dal Tribunale di Milano, dei quali è dunque già nei fatti riconosciuta una sorta di vocazione nazionale. Essi costituiranno d'ora innanzi, per la giurisprudenza di questa Corte, il valore da ritenersi "equo", e cioè quello in grado di garantire la parità di trattamento e da applicare in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad alimentarne o ridurne l'entità. Consta, d'altronde, che anche delle menzionate diversità l'Osservatorio sulla giustizia civile del Tribunale di Milano ha tenuto conto allorchè, a seguito di un dibattito al quale hanno partecipato giudici ed avvocati (taluni anche fiduciari di importanti compagnie assicurative), il 25 giugno 2009 ha adottato la nuova tabella, significativamente denominata - in ossequio ai principi enunciati dalle sezioni unite del 2008, dunque considerati, in una alle conseguenze macroeconomiche delle decisioni assunte, in termini di costi e benefici sia sociali che assicurativi - non più "Tabella per la liquidazione del danno biologico", bensì "Tabella per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da lesione all'integrità psico-fisica", di recente aggiornata (il 23.3.2011) in riferimento alle variazioni del costo della vita accertate dall'I.S.T.A.T. nel periodo 1.1.2009 - 1.1.2011. Sono stati contestualmente approvati i nuovi "Criteri orientativi per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da lesione all'integrità psico-fisica e dalla perdita/grave lesione del rapporto parentale", ai quali pure occorrerà fare riferimento, anche per quanto attiene alla personalizzazione del risarcimento. 3.2.6.- Va qui chiarito che l'avere assunto, con operazione di natura sostanzialmente ricognitiva, la tabella milanese a parametro in linea generale attestante la conformità della valutazione equitativa del danno in parola alle disposizioni di cui all'art. 1226 c.c. e art. 2056 c.c., comma 1, non comporterà la ricorribilità in cassazione, per violazione di legge, delle sentenze d'appello che abbiano liquidato il danno in base a diverse tabelle per il solo fatto che non sia stata applicata la tabella di Milano e che la liquidazione sarebbe stata di maggiore entità se fosse stata effettuata sulla base dei valori da quella indicati. Perchè il ricorso non sia dichiarato inammissibile per la novità della questione posta non sarà infatti sufficiente che in appello sia stata prospettata l'inadeguatezza della liquidazione operata dal primo giudice, ma occorrerà che il ricorrente si sia specificamente doluto in secondo grado, sotto il profilo della violazione di legge, della mancata liquidazione del danno in base ai valori delle tabelle elaborate a Milano; e che, inoltre, nei giudizi svoltisi in luoghi diversi da quelli nei quali le tabelle milanesi sono comunemente adottate, quelle tabelle abbia anche versato in atti. In tanto, dunque, la violazione della regala, iuris potrà essere fatta valere in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 3, in quanto la questione sia stata specificamente posta nel giudizio di merito (come accaduto nel caso di specie).