Nullità delle intese anticoncorrenziali ed effetti sui contratti a...

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Silvia Simone Nullità delle intese anticoncorrenziali ed effetti sui contratti a valle Tesi di Dottorato Dottorato di ricerca Consumatori e mercato XVII Ciclo Coordinatore: Ch.ma Prof.ssa L. Rossi Carleo Direttore di ricerca: Ch.mo Prof. M. Sandulli Facoltà di Economia “Federico Caffè” Università degli Studi “Roma Tre” Roma, 2005

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Silvia Simone

Nullità delle intese anticoncorrenziali ed effetti sui contratti a valle

Tesi di Dottorato

Dottorato di ricerca Consumatori e mercato

XVII Ciclo

Coordinatore: Ch.ma Prof.ssa L. Rossi Carleo

Direttore di ricerca: Ch.mo Prof. M. Sandulli

Facoltà di Economia “Federico Caffè” Università degli Studi “Roma Tre”

Roma, 2005

II

INDICE

Premessa: struttura e scopo dell’indagine ..........................................1 Capitolo I – Regolazione del mercato e teoria generale del

contratto: termini del problema...................................18

1. Intese anticoncorrenziali ed effetti sui contratti a valle: logica di un intervento ..............................................................................................................

............................................................................................................................... 18

2. Analisi del contesto e rilevanza del problema: dalla fiera al dominio delle multinazionali........................................................................................... 27

3. Contratti dei consumatori e contratti d’impresa: la disciplina della contrattazione diseguale quale sottosistema della disciplina della concorrenza e del mercato................................................................................. 44

4. Violazione delle norme antitrust e tutela dei consumatori ................................ 50

5. Le intese nel diritto antitrust .............................................................................. 57 5.1. La nozione di intesa ................................................................................... 57 5.2. La nullità delle intese anticoncorrenziali ................................................... 71 5.3. L’autorizzazione in deroga ......................................................................... 78 5.4. L’invalidità successiva delle intese............................................................ 85

6. Il Regolamento n. 1/2003: profili generali della riforma................................... 87

Capitolo II – Nullità delle intese antitrust e contratti a valle:

analisi crit ica delle ricostruzioni................................. 93

1. Premessa ............................................................................................................ 93

2. Intese illecite e nullità dei contratti a valle ........................................................ 96

2.1. L’invalidità derivata e relative critiche ...................................................... 99

2.2. L’illiceità della causa ............................................................................... 106

2.2.1. Critiche........................................................................................... 109

III

2.3. L’illiceità dell’oggetto.............................................................................. 111

2.3.1. Critiche........................................................................................... 111

2.4. La nullità virtuale dei contratti a valle dell’intesa

anticoncorrenziale .................................................................................... 112

2.4.1. Critiche alla tesi della nullità virtuale per contrasto con la

norma imperativa di cui all’art. 2 della legge antitrust ................ 114

2.5. L’invalidità del contratto a valle come ipotesi di nullità di

protezione................................................................................................. 119

2.6. Nullità ed abuso di posizione dominante ................................................. 126

2.6.1. Critica.................................................................................................... 134

3. La validità dei contratti a valle ........................................................................ 136

3.1. Linee generali........................................................................................... 136

3.2. I rimedi diversi dalla nullità: le tesi ......................................................... 142

3.3. L’utilità del richiamo alla figura della annullabilità: esiti ed

obiezioni................................................................................................... 144

3.4. Una tesi minoritaria: la rescindibilità ed il diritto alla correzione

del contratto.............................................................................................. 150

3.5. L’illecito anticoncorrenziale ed il risarcimento del danno in via

extra-contrattuale: una questione ancora aperta....................................... 155

3.5.1. Il rimedio aquiliano e la selezione degli interessi rilevanti nel diritto antitrust .......................................................................... 155

3.5.2. L’ingiustizia del danno ................................................................... 172 3.5.3. L’elemento soggettivo, il nesso di causalità e la

quantificazione del danno ............................................................... 175

Capitolo III – Concorrenza e mercato: prospettive evolutive.......... 184

1. La possibilità di una ricostruzione alternativa ................................................. 184 1.1. Il contratto a valle come elemento costitutivo della fattispecie

anticoncorrenziale .................................................................................... 187 2. Le recenti aperture della giurisprudenza amministrativa ................................. 199

IV

3. La sentenza 4 febbraio 2005, n. 2207 delle SS. UU. della Corte di Cassazione .............................................................................................................

......................................................................................................................... 210 3.1. Osservazioni critiche................................................................................ 224

4. Considerazioni conclusive ............................................................................... 244

Riferimenti bibliografici ...................................................................................... 249

1

Premessa

Struttura e scopo dell’indagine

L’indagine muove dall’interrogativo - non risolto positivamente dal legislatore e

non ancora sciolto nei suoi nodi cruciali da giurisprudenza e dottrina - relativo agli

effetti che l’accertata esistenza di un’intesa anticoncorrenziale esplica sui contratti

(successivamente) conclusi da ciascuna impresa aderente al patto illecito nel

rispettivo mercato di riferimento1.

L’analisi, in particolare, viene svolta inquadrando la problematica nell’attuale

contesto normativo che, anche alla stregua delle recenti novità di derivazione

comunitaria, ha indotto ed imposto un ripensamento critico del regime delle

invalidità e dei rimedi risarcitori, quali concepiti e costruiti dal codice civile2.

1 A questo proposito, nei termini più generali, “mercato” è qualsiasi ambito entro il quale si realizza l’incontro tra domanda ed offerta di beni e servizi e lo scambio di essi attraverso il meccanismo del prezzo, determinato appunto da tale incontro: gli operatori decidono in autonomia e singolarmente i propri comportamenti, in particolare i prezzi e le quantità di vendita e di acquisto, tale per cui la performance complessiva del mercato, in termini di prezzi e quantità globali, è la risultante delle innumerevoli decisioni decentrate assunte dagli attori che vi operano e delle loro interazioni. Il termine “concorrenza”, può assumere due significati ed entrambi presuppongono la nozione di mercato enunciata: di essi uno è riferito alla condotta delle imprese, l’altro a una particolare conformazione strutturale del mercato. La prima accezione è quella che richiama la rivalità, la competizione e la lotta tra le imprese, che attuano comportamenti indipendenti al f ine di incrementare la propria posizione sul mercato, a scapito delle rivali. La seconda, invece, è costituita dalla situazione caratterizzata da un numero elevato di operatori sul mercato, ognuno dei quali offre una quota talmente ridotta del medesimo prodotto o servizio da non essere in grado di influenzare singolarmente il livello del prezzo a seguito di una variazione della quantità offerta. Per la polisemia del termine “mercato” si veda, in particolare, M.R. FERRARESE, Diritto e mercato, Torino, 1992, p. 17 ss., che ordina la varietà di accezioni in quattro categorie: a) mercato come luogo; b) mercato come ideologia; c) mercato come paradigma di azione sociale; d) mercato come istituzione (p. 20); M. LIBERTINI, Il mercato: i modelli di organizzazione, in Tratt. dir. comm. dir. pubbl. ec., a cura di F. Galgano, III, Padova, 1979, p. 361 s., così riassume i caratteri del modello dell’economia di mercato: a) libero mercato dei fattori produttivi (materie prime, capitale e lavoro); b) libertà di iniziativa economica privata; c) organizzazione dell’impresa privata secondo il principio della sovranità del capitale; d) libero gioco della concorrenza; e) sovranità del consumatore. 2 Opportuno il richiamo, a riguardo, alle parole di N. IRTI, Il diritto della transizione, in L’ordine giuridico del mercato, Roma-Bari, 2004, p. 154, il quale pone in risalto il fatto che “il regime del mercato (o, se si vuole, il mercato come statuto giuridico della concorrenza e delle relazioni di scambio) si va costruendo fuori dal codice civile”. Sui micro-sistemi che si giustappongono al

2

Il percorso volto all’individuazione delle conseguenze che, in termini rimediali,

l’illiceità di un comportamento collusivo sotto il profilo antitrust esplica sulle

operazioni negoziali a valle, deve infatti inevitabilmente misurarsi con l’evoluzione

che la disciplina normativa e le categorie concettuali della patologia negoziale hanno

subito di recente e con l’esigenza crescente di ricondurre rapporti negoziali

strutturalmente sperequati quali quelli imprenditore- consumatore entro una logica

sostanzialmente paritaria ed equilibrata.

L’impegno dell’analisi è dunque rivolto in primo luogo a considerare in chiave di

convergenza ed implicazione reciproca l’interesse pubblico a garantire e dunque a

tutelare la libera concorrenzialità del mercato da meccanismi distorsivi quali le

intese antitrust e l’interesse privato, sotteso al singolo atto di scambio, alla luce dei

medesimi principi di correttezza, trasparenza, ragionevolezza ed eguaglianza

sostanziale tra le parti3.

“sistema codice” si veda, dello stesso Autore, Leggi speciali (dal mono-sistema al poli-sistema), in Riv. dir. civ., 1979, I, p. 141 ss.; L’età della decodificazione, Milano, 1979; nonché I cinquant’anni del codice civile, in Riv. crit. dir. priv., 1992, I, p. 227 ss. L’irruzione delle leggi speciali, quale fonte sempre più rilevante nel diritto dei contratti ed il conseguente fenomeno di decodificazione e di instaurazione di microsistemi extracodicistici, è evidenziato altresì da V. ROPPO, Il contratto del duemila, Torino, 2002, pp. 9-11, il quale, nel richiamare le leggi speciali “di ultima generazione” (tra cui la legge in tema di: cessione dei crediti d’impresa, legge 21 febbraio 1991, n. 52; contratti negoziati fuori dei locali commerciali, d.lgs. 15 gennaio 1992, n. 50; contratti bancari e di credito al consumo, d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385; viaggi, vacanze e circuiti “tutto compreso”, d.lgs. 17 marzo 1995, n. 111; contratti di assicurazione vita, d.lgs. 1995, n. 174, e di assicurazione danni, d.lgs. n. 175/1995; contratti relativi alla prestazione di servizi finanziari, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58; contratti per la vendita di multiproprietà, d.lgs. 9 novembre 1998, n. 427; contratti di subfornitura, legge 18 giugno 1998, n. 192; contratti a distanza, d.lgs. 22 maggio 1999, n. 185; indicazione dei prezzi offerti ai consumatori, d. lgs. 25 febbraio 2000, n. 84), ne evidenzia, quali tratti comuni, la derivazione comunitaria e in particolare l’obiettivo ultimo di regolazione del mercato e la vocazione marcatamente settoriale. L’Autore, a quest’ultimo proposito, registra nelle stesse pagine la nuova centralità dei tipi contrattuali a scapito del “contratto in genere” e la crescente difficoltà a ricostruire, in questo quadro di frammentazione sempre più spinta, una significativa unitarietà della figura contrattuale. Negli stessi termini anche G. CHINÈ, Il consumatore, in Diritto privato europeo, a cura di N. Lipari, vol. I, Padova, 1997, p. 164 ss. 3 La convergenza tra interesse pubblico e privato è ravvisabile, secondo L. MENGONI, Forma giuridica e materia economica , in Diritto e valori, Bologna, 1985, p. 169, già nello stesso art. 41 Cost., poiché “il riconoscimento costituzionale della libertà di iniziativa economica privata non ha semplicemente il significato di garanzia di una posizione di libertà individuale contrapposta all’autorità dello Stato, ma esprime una valutazione obiettiva di tale libertà come mezzo attraverso il quale l’azione privata concorre con l’azione pubblica a determinare l’organizzazione economica complessiva del Paese, così che la posizione dei privati e la posizione dello Stato non sono fra loro contrastanti, l’una derogatrice all’altra, ma convergenti, nel risultato ultimo, verso i medesimi fini”. Nella stessa direzione, G. VETTORI , Le asimmetrie informative fra regole di validità e regole di responsabilità, in Riv. dir. priv., 2003, p. 251, il quale - richiamandosi espressamente alla sentenza

3

Lo sforzo viene svolto in particolare tenendo in debito conto (secondo le linee

ricostruttive formulate nel Capitolo I) le trasformazioni dimensionali e strutturali che

in questi ultimi anni hanno riguardato i protagonisti della scena economica.

L’impulso del diritto comunitario - che non costituisce più “altro” rispetto al

nostro ordinamento, rappresentandone a tutti gli effetti una importante componente

organica e strutturale 4 (come espressamente riconosciuto a fini interpretativi

dall’art.1, comma 4, della legge n. 287/905) - ed il carattere fortemente globalizzato

Courage della Corte di Giustizia CE, 20 settembre 2001, causa C-453/99, in Foro it., 2002, IV, p. 76 ss., con nota di A. PALMIERI e R. PARDOLESI, Intesa illecita e risarcimento a favore di una parte “chi è causa del suo mal… si lagni e chieda i danni - afferma che, poiché le libertà economiche di iniziativa, di concorrenza e di contratto sono strettamente connesse, è sempre più difficile pensare di poter valutare il contenuto di un contratto inteso come affare isolato. Ogni atto di autonomia patrimoniale, aggiunge l’Autore, è un fatto economico inserito nell’economia generale della nazione e spetta “alla costituzione economica trasformare l’ordine spontaneo e stabilire i presupposti per realizzare la giustizia contrattuale in concreto. Ne deriva con chiarezza che il diritto dei contratti e le regole di concorrenza attuano in modo complementare l’ordine giuridico realizzato da tale contesto in un certo momento storico, e sono fra loro istituti strettamente connessi che possono arricchirsi a vicenda”. Per una posizione diversa si veda A. PALMIERI e R. PARDOLESI, Intesa illecita e risarcimento a favore di una parte “chi è causa del suo mal… si lagni e chieda i danni, cit., p. 76 ss. 4 In argomento si rinvia, tra i numerosi contributi, a G. TESAURO, Diritto comunitario, Padova, 1998; R. ADAM, Il diritto comunitario nell’ordinamento giuridico italiano, in Il diritto privato dell’Unione europea, a cura di A. Tizzano, Trattato di diritto privato , diretto da M. Bessone, XXVI, Torino, 2000, p. 77 ss.; N. SCANNICCHIO, Il diritto privato europeo nel sistema delle fonti, in Diritto privato europeo, op. cit., p. 58 ss. Per quanto concerne specificamente la normativa antitrust, è poi appena il caso di ricordare che l’unica disciplina, che per lungo tempo ha regolato con una qualche consistenza ed incisività la materia nel nostro paese, è stata proprio quella di fonte comunitaria. Gli artt. 81 e seguenti (ex artt. 85 ss.) del Trattato CE hanno infatti introdotto nel nostro ordinamento il primo corpo di norme volto a regolare in modo organico e coerente quella materia, ispirandosi ad avanzati modelli stranieri. 5 L’art. 1, comma 4, della legge antitrust dispone che, “L’interpretazione delle norme contenute nel presente titolo è effettuata in base ai principi dell’ordinamento delle Comunità europee in materia di disciplina della concorrenza”. Il richiamo ai principi comunitari è finalizzato a realizzare l’uniforme applicazione nel mercato unico della disciplina antitrust, ove la sostanziale identità della legge n. 287/1990 rispetto alle norme comunitarie sulla concorrenza facilita questo compito, ulteriormente agevolato dalla prossima attuazione del Regolamento n. 1/2003 (sulla cosiddetta “modernizzazione”). Si è notato inoltre [cfr. M.V. BENEDETTELLI, Sul rapporto fra diritto comunitario e diritto italiano della concorrenza (riflessioni in margine al disegno di legge n. 3755 ed al regolamento comunitario sulle concentrazioni), in Foro it., 1990, IV, p. 237], che il richiamo ai principi di diritto comunitario costituisce una “norma di interpretazione autentica”, operante attraverso il rinvio ai principi desumibili dal diritto di un altro ordinamento, principi che si sostanziano nella garanzia di una concorrenza leale non falsata (cfr. Corte di Giustizia, sentenza 14 febbraio 1978, United Brands, in Racc., 1978, pp. 207 ss.), nella realizzazione dell’integrazione del mercato (cfr. Corte di Giustizia, sentenza 17 luglio 1996, Consten e Grundig, in Racc., 1966, pp. 457 ss.), e nella funzionalizzazione dei poteri statali agli obiettivi della Comunità. In forza di tale interpretazione autentica, la prevalenza del diritto comunitario deve ritenersi operante anche rispetto all’utilizzo di eventuali nozioni di diritto interno; ciò varrebbe, in particolare, non solo per le “nozioni essenziali” della disciplina antitrust, ma anche per le nozioni “strumentali” all’attuazione della legge (così, M.V. BENEDETTELLI, op. cit., p. 238). Sulla scorta di una diversa lettura, alcuni autori hanno concluso che l’art. 1, comma 4, debba

4

del mercato, richiedono infatti di affrontare il tema tenendo ben presenti sia le

trasformazioni che la disciplina generale del contratto è andata subendo per effetto

dell’ondata normativa europea, che i limiti positivi progressivamente imposti

all’esercizio dell’autonomia privata in un’ottica di regolazione degli scambi a livello

macroeconomico.

essere considerata una norma applicabile ad nutum, che nessun obbligo impone agli organi nazionali e che riguarda le sole nozioni di carattere tecnico richiamate al Titolo I della legge n. 287/1990, non definite dall’ordinamento ovvero definite ma con diversi contenuti e finalità (A. GUARINO, Sul rapporto tra la nuova legge antitrust e la disciplina comunitaria della concorrenza , in Contr. e Impr., 1991, p. 654). In origine la scelta operata dal legislatore, nell’assoluta mancanza di una tradizione antitrust nell’ordinamento italiano, si legava alla necessità di consentire alle autorità preposte all’applicazione della disciplina di far riferimento ad un corpo di principi già consolidatisi nell’esperienza comunitaria, costituendo essenziale fonte di ispirazione per risolvere problemi di politica della concorrenza già risolti in ambito comunitario. La mancanze di un “retroterra giurisprudenziale” in Italia al momento dell’entrata in vigore della legge n. 287/1990, ha posto quindi il diritto antitrust interno in rapporto di complementarietà rispetto a quello comunitario. Data la scelta per il modello della barriera unica - ossia della netta separazione tra campo di applicazione del diritto comunitario e quello del diritto nazionale (v. S. SPOLIDORO, Rapporto fra diritto della concorrenza comunitario e diritto italiano, p. 20) - diviene infatti fondamentale che lo scrutinio in base al diritto comunitario e quello di diritto interno producano risultati tendenzialmente analoghi per le medesime fattispecie (F. DENOZZA, Quadr., 1992, p. 650). Quanto all’ampiezza di significato da attribuire al termine “principi comunitari”, sembra ormai pacifico che si debba fare riferimento non soltanto alle norme di legge rilevanti, ma anche, e soprattutto, alla elaborazione giurisprudenziale della Corte di Giustizia e della Commissione. Non è peraltro mancato chi ha rigettato l’opportunità di una tale comunitarizzazione del diritto nazionale, sulla scorta della considerazione che le due discipline tutelano interessi diversi e che in tal modo si avrebbe una completa soggezione della disciplina interna ai principi di un altro ordinamento “sul cui sviluppo ed applicazione gli organi dello stato non avrebbero alcun controllo” (in questi termini, A. GUARINO, op. cit., p. 654); si è inoltre rilevato che il diritto comunitario è “massimamente giurisprudenziale” e che un rinvio rigoroso al rispetto dei suoi principi avvicinerebbe il nostro sistema ad un sistema di common law. Ciò costringerebbe l’interprete italiano ad un continuo adeguamento agli eventuali mutamenti della giurisprudenza comunitaria (R. ALESSI - G. OLIVERI, La disciplina della concorrenza e del mercato: commento alla legge 10 ottobre 1990, n. 287 ed al Regolamento CEE n. 4064/89 del 21 dicembre 1989, Torino 1991, p. 14). Nella prassi applicativa dell’Autorità garante i principi comunitari sono stati richiamati per l’interpretazione di concetti come quello di “impresa”; per la definizione di posizione dominante; per l’individuazione dei criteri per la determinazione dei confini del mercato rilevante; per circoscrivere l’ambito applicativo dell’art. 8 della legge n. 287/1990, e per la valutazione delle restrizioni accessorie. Per altri aspetti, al contrario, l’applicazione della legge nazionale si è discostata, seppure parzialmente, dai principi seguiti in ambito comunitario. Ad esempio, con riguardo alle intese (di cui principalmente ci occuperemo in questa sede), sebbene la nozione accolta nel diritto interno sia corrispondente a quella fornita dalla Commissione e dalle corti, diversa è la valutazione in termini di restrittività doffertadall’Autorità garante. Mentre gli organi comunitari applicano il divieto di cui al comma 1 dell’art. 81 con una certa severità, preservando lo spazio di competenza del regime autorizzatorio previsto al comma 3, l’Autorità garante sembra invece seguire un approccio maggiormente orientato verso una rule of reason, effettuando nell’ambito dell’art. 2 (e non dell’art. 4) della legge n. 287/1990, l’eventuale bilanciamento tra i contrapposti effetti dell’operazione. Dall’orientamento comunitario l’Autorità si è discostata, almeno nel primo periodo di applicazione della legge, anche con riferimento alla definizione ed alla valutazione delle imprese comuni ed al trattamento delle operazioni infragruppo.

5

La presenza di un’illecita collusione tra le imprese operanti in un dato settore,

deve essere infatti considerata da un lato quale esito di un comportamento idoneo a

compromettere il generale equilibrio di mercato, e dall’altro quale sintomo ed indice

di un abusivo esercizio del potere negoziale ed economico di cui le singole aderenti

al pactum dispongono, perpetrato e concretizzato nella successiva stipulazione di

contratti a valle6.

Un corretto inquadramento della tematica sollecita quindi alla ricerca di un livello

adeguato di regolamentazione dell’autonomia privata cui attingere per realizzare

tanto gli obiettivi di riequilibrio sostanziale dei rapporti privatistici quanto i fini più

ampi che la normativa antitrust si propone 7.

La solidaristica preoccupazione di garantire adeguata protezione a chi si trovi a

concludere un contratto, sostanzialmente “non contrattato” e “non scelto” (o scelto

“apparentemente”, per mutuare il lessico di una recente quanto determinante

pronuncia del giudice di legittimità)8, con un’impresa che ha illecitamente abusato

del libero esercizio dell’iniziativa economica, pur costituzionalmente riconosciutole,

chiama infatti alla costruzione di rimedi che sappiano garantire la certezza degli

scambi e la stabilità del mercato - oltre a correggerne i malfunzionamenti - al

contempo non menomando l’interesse del contraente debole al mantenimento del

rapporto9.

6 In questo senso, M. SIRAGUSA (A. FRIGNANI - V. MELI), Abuso di posizione dominante, in Diritto antitrust italiano, a cura di A. Frignani, R. Pardolesi, A. Patroni Griffi e L.C. Ubertazzi, Bologna, 1993, vol. II, p. 325 ss., nonché D. MESSINETTI, Abuso del diritto, in Enc. dir., (aggiornamento), vol. II, Milano, 1998, p. 1 ss., specie p. 10. 7 La questione, paga all’idea che il mercato non sia espressione di un ordo naturalis, ma piuttosto il risultato di regolamentazioni giuridiche, e dunque locus artificialis, pone peraltro il problema di stabilire, dinanzi al fenomeno della globalizzazione e al dominio sempre più vasto della Tecnica, quale sia il livello adeguato di intervento normativo concretamente auspicabile. 8 Mi riferisco alla ormai già nota sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, 4 febbraio 2005, n. 2207, intervenuta nel corso della stesura del presente Lavoro ed alla quale si dedicherà ampio spazio nel Capitolo III. 9 G. OPPO, Diritto dell’impresa e morale sociale, in Riv. dir. civ., 1992, I, p. 15 ss., osserva che: “E’ comunemente riconosciuto che la libertà di iniziativa non è un valore meramente economico ma è anche un valore della persona: l’esercizio della libertà di iniziativa è dunque svolgimento della personalità, come è svolgimento della personalità il lavoro, presidiato non solo da libertà ma da diritto. Impresa e lavoro sono altresì modi di adempimento del dovere (art. 4 Cost.) di concorrere con la propria attività al progresso materiale o spirituale della società. In questa prospettiva è accettabile, e compatibile con il principio di uguaglianza, che la concorrenza non sia difesa contro l’affermazione naturale della personalità di chi opera nell’impresa e per l’impresa, non sia difesa contro la creatività

6

L’interesse pubblico alla tutela del mercato, che passa necessariamente per la

tutela dei soggetti di volta in volta contrattualmente più deboli (non solo il

consumatore, dunque, ma anche il professionista), impone quindi di calibrare la

scelta e la disciplina del rimedio all’interesse sotteso al contratto a valle e su cui il

rimedio stesso va ad incidere10, secondo l’approccio funzionale caro al recente trend

normativo di derivazione comunitaria, concentrato non più sul singolo atto ma sulla

complessiva attività economica dell’impresa di cui il contratto rappresenta il

principale strumento e di cui costituisce un singolo momento11.

Difatti, da un esame dell’attuale quadro normativo emerge che il fine di edificare

e garantire un mercato unico libero e concorrenziale viene sempre più spesso

perseguito attraverso interventi positivi volti a conformare il contenuto minimo del

contratto in quanto strumento cardine degli scambi12.

dell’imprenditore e il suo successo sul mercato; e sia invece difesa contro comportamenti diversi, diretti o idonei a togliere spazio all’affermazione della personalità altrui in ciò che questa affermazione significa per i singoli e in ciò che apporta alla collettività e all’arricchimento dello stesso ambiente sociale. In questo senso e in questo ambito, mantenere, anche con sacrificio di certi comportamenti per sé in regola con il principio di iniziativa, un’area di concorrenza non tanto come arena di una gara da combattere per il mercato quanto come spazio preservato alla compresenza, all’azione, alla creatività, insomma al realizzarsi della personalità dei consociati, ha valore che sovrasta l’ispirazione economicistica e anche alla rigidità della logica giuridica. In questo senso può sembrare che al vertice del diritto dell’impresa abbia trovato posto, con la normativa antitrust, quella conciliazione tra valori individuali e collettivi che è l’essenza stessa della morale sociale” (p. 36). 10 Conferma del rilievo privatistico del diritto antitrust (e delle posizioni giuridiche soggettive suscettibili di essere lese da condotte illecite), proviene da ultimo dal Regolamento n. 1/2003 (c.d. di “modernizzazione”) e dall’attribuzione ai giudici nazionali del potere di applicare, parallelamente alla Commissione, l’art. 81 (che vieta le intese anticoncorrenziali) nella sua interezza (compreso il par. 3), enunciando tra l’altro espressamente che la previsione punta a tutelare la concorrenza sul mercato (cfr, Considerando 9) e l’efficiente allocazione delle risorse. Sul concetto generale di rimedio, si veda A. DI MAJO, Il regime delle restituzioni contrattuali nel diritto comparato ed europeo, in Il contratto e le tutele. Prospettive di diritto europeo, a cura di S. Mazzamuto, Torino, 2002, p. 199 ss e V. ROPPO, Il contratto, Milano, 2001, p. 726. 11 Il nuovo diritto dei contratti, infatti, si pone come momento di rottura nella cosiddetta teoria generale del contratto - fondata su un soggetto protagonista sempre uguale a se stesso, dunque astratto e generale, la “parte” - sorretta da una funzione contrattuale collegata al singolo atto anziché alla complessiva attività posta in essere. Del resto, il metodo è ormai consolidato, avendo il legislatore adottato da tempo e nei più disparati settori una tecnica normativa volta a disciplinare secondo una prospettiva di questo tipo la fase che precede la stipulazione di un contratto, sia di consumo che tra soggetti entrambi professionisti (si veda ad esempio la disciplina in tema di contratti bancari, di intermediazione finanziaria o di credito al consumo, di pubblicità ingannevole e comparativa e via di seguito). Per un’analisi sul tema, si rinvia a G. VETTORI , Materiali e commenti sul nuovo diritto dei contratti, Padova, 1999. 12 Evidenzia S. TOLONE, L’ordine della Legge ed il mercato. La congruità nello scambio contrattuale, Torino, 2003, p. 10, che con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, istitutivo dell’Unione europea, e del successivo Trattato di Amsterdam (ratificato in Italia con legge 16 giugno

7

Simile considerazione assume valore specie ove si consideri che la restrizione al

funzionamento del gioco concorrenziale attuata attraverso l’intesa - la cui

consistenza legittima l’intervento sanzionatorio dell’Autorità garante della

concorrenza e del mercato13 - costituisce essa stessa espressione della gravità

dell’abuso che, esercitato collettivamente dalle imprese in una fase che precede la

stipulazione dei contratti, si traduce poi nell’esercizio da parte della singola impresa

di un alterato ed incrementato potere economico e negoziale a scapito della

controparte contrattuale.

L’illiceità dell’intesa, va pertanto assunta quale indice di valutazione del grado di

meritevolezza degli interessi individuali sottesi al successivo atto di scambio, come

prova presunta di un abuso negoziale da parte del soggetto più forte che impone un

1998, n. 209), nonché con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e l’evolversi dei lavori della Convenzione europea, si sono intensificate le riflessioni relative al rapporto diritto-mercato, sollecitate dai riferimenti contenuti nei Trattati stessi al principio dell’adozione “di una politica economica (…) condotta conformemente al principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”. A riguardo, anche G. VETTORI , Le asimmetrie informative fra regole di validità e regole di responsabilità, op. cit., p. 241 ss., in specie pp. 243-246, focalizza l’attenzione sulla circostanza che, soprattutto a seguito dell’Atto unico europeo, si sia affidato al contratto il compito di provvedere alla trasmissione delle informazioni indispensabili per il corretto funzionamento del mercato e per l’equilibrio dei rapporti negoziali. A riguardo, si veda anche M. DE POLI, Asimmetrie informative e rapporti contrattuali, Padova, 2002, pp. 348 ss., 459 ss. Una diversa lettura della normativa comunitaria a tutela del consumatore è offerta da C. CORAPI, Integrazione giuridica europea e regolazione del mercato. La disciplina dei contratti di consumo nel sistema del diritto della concorrenza, in Eur. dir. priv., 2002, pp. 718-719. 13 In merito al ruolo di crescente importanza che le Authorities, preposte al “governo” di diversi settori di mercato, vanno assumendo nell’attuale assetto normativo quali fonti eteronome del contratto, si vedano, per tutti, le considerazioni di M. ORLANDI, Autonomia privata e Autorità indipendenti, in Riv. dir. priv., 2003, p. 271 ss.; F. MACARIO, Autorità indipendenti, regolazione del mercato e controllo di vessatorietà delle condizioni contrattuali, ivi, p. 295 ss.; E. DEL PRATO, Autorità indipendenti, norme imperative e diritto dei contratti: spunti, ivi, 2001, p. 515 ss.; G. GITTI, Autorità indipendenti, contrattazione collettiva, singoli contratti, ivi, p. 255 ss.; G. DE NOVA, Le fonti di disciplina del contratto e le Autorità indipendenti, ivi, p. 5 ss.; ID., Provvedimenti delle Autorità indipendenti e disciplina dei contratti, Relazione al Convegno nazionale di studi di Alba, Authorities, mercato, contratto e tutela dei diritti, 18 novembre 2000, in Le Società, 2001, p. 519 ss.; A.R. TASSONE, Situazioni giuridiche soggettive e decisioni delle Amministrazioni indipendenti, in Dir. amm., 2002, p. 181 ss.; U. BRECCIA, Prospettive nel diritto dei contratti, in Riv. crit. dir. priv., 2001, p. 183 ss.; P. SIRENA, Attività di regolazione, clausole contrattuali abusive e sindacato giudiziario, Annuario 2002, Milano, 2003, p. 239 ss.; V. ROPPO, Sulla posizione e sul ruolo istituzionale delle nuove Autorità indipendenti, in Pol. dir., 2000, p. 159 s.; G. CARRIERO, Autonomia privata e disciplina del mercato. Il credito al consumo , in Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, vol. XXXI, Torino, 2002, p. 118 ss.; G. CIAN, Gli interventi dell’Autorità regolatoria sul contratto, in Rass. giur. Enel, 1997, p. 327 ss.

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intervento riequilibratore il quale, correggendo il regolamento contrattuale, ripristini

al tempo stesso il virtuoso funzionamento del gioco concorrenziale14.

Per un corretto inquadramento del problema degli effetti sui contratti a valle, si

deve quindi muovere dal considerare, in particolare, che la definizione del

regolamento contrattuale squilibrato non avviene all’interno dei confini strettamente

negoziali (cioè del patto stipulato tra la singola impresa e la controparte), ma in un

momento antecedente ed attraverso l’intervento di più soggetti. L’abusivo esercizio

del potere contrattuale ed economico di cui l’impresa è portatrice rileva infatti in due

fasi: 1) al momento della stipulazione dell’intesa che, datane la consistenza,

giudicata illecita in quanto anticoncorrenziale e non ricadente nell’esenzione di cui

all’art. 4 della legge n. 287/90; 2) con la successiva stipulazione del contratto a valle.

14 Il legame tra funzionamento del mercato e tutela del contraente debole (tradizionalmente identificato con il consumatore ma, attualmente, in fase di progressiva e crescente “oggettivazione”), è ravvisabile tra l’altro nella diffusa convinzione che la concorrenza, intesa come processo dinamico, oltre a razionalizzare l’allocazione delle risorse, ad evitare le concentrazioni permanenti di potere economico, a favorire l’accesso ai mercati di nuovi operatori, spinge le imprese ad un continuo aumento della quantità, varietà, qualità ed innovazione di prodotti e servizi e ad un costante ribasso dei prezzi verso il prezzo di costo, accrescendo le possibilità di scelta dei consumatori. La concorrenza si configura quindi come uno strumento efficace oltre che di “democrazia economica”, anche di salvaguardia degli interessi generali della collettività e dei consumatori. In merito a questi ultimi, in particolare, pare opportuno evidenziare che nel diritto della concorrenza il termine “consumatore” non è riferito solo agli utenti finali ma, più in generale, a tutti gli acquirenti dei prodotti o servizi oggetto dell’intesa e dunque comprensivo anche degli utilizzatori intermedi, e quindi anche degli imprenditori. A riguardo si veda P. CASSINIS e P. FATTORI, Disciplina antitrust, funzionamento del mercato e interessi dei consumatori, in I Contratti, n. 4/2001, p. 421. Sul tema specifico della tutela dei consumatori, si veda pure C.M. MAZZONI, I controlli sulle attività economiche, in AA. VV., La costituzione economica, in Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. ec., diretto da F. Galgano, vol. I, Padova, 1977, p. 322 ss., il quale osserva che “Proprio per la indissolubilità del vincolo che collega il momento della produzione al momento del consumo, un piano di organici provvedimenti a favore del consumatore non può non comprendere - ed avere come immediato fine - il controllo delle attività che al consumatore sono dirette. Di qui l’esigenza di elaborare strumenti giuridici con i quali articolare e rendere effettivo il controllo. In questa prospettiva si collocano ormai tutte le analisi dedicate alla difesa del consumatore”. L’Autore individua poi almeno quattro categorie di soggetti che dovrebbero essere preposti al controllo di tali attività: “Se si escludono le forme di self-government, i soggetti che esercitano il controllo possono identificarsi: a) nel legislatore, b) nella magistratura, c) nella pubblica amministrazione, d) in altri organismi di natura privata, come le associazioni di consumatori, i sindacati, i partiti, i gruppi spontanei e così via. (…) Confine e direttive del controllo si debbono ricercare nel dettato costituzionale. In questa prospettiva, le prime indicazioni sono offerte dall’art. 41 Cost. che, nei suoi tre commi, può considerarsi la norma fondamentale alla quale occorre far riferimento per individuare le direttive costituzionali del controllo delle attività private. (…) Nel suo ampio contenuto, pertanto, debbono ricomprendersi tra i primi oggetti del controllo che essa precisa le attività d’impresa destinate al pubblico dei consumatori”.

9

Simile premessa di inquadramento sistematico pare nella specie opportuna ai fini

della lettura critica delle soluzioni sinora proposte dalla dottrina e dalla

giurisprudenza le quali (a modesto avviso di Chi scrive), incentrate su un approccio

parcellizzante di stampo formalistico e legato ad un sistema di contrattazioni

individuali, hanno variamente e rispettivamente ricondotto la soluzione del problema

alle tradizionali categorie concettuali della nullità e dell’annullabilità, del

collegamento negoziale, della rescissione per lesione e della risarcibilità del danno

per illecito extracontrattuale, non considerando pienamente né le peculiarità del

diritto della concorrenza e dell’approccio che questa disciplina fa proprio, né

l’evoluzione che le fattispecie generali del diritto civile hanno conosciuto di

recente15.

Istituti del diritto privato comune, quindi, i quali, attirati all’interno della

disciplina giuridica del mercato, ricevono un diverso trattamento normativo ed

assumono una conformazione a tratti divergente da quella codicistica16, rispondendo

15 V. ZENO-ZENCOVICH, Diritto europeo dei contratti (verso la distinzione tra “contratti commerciali” e “contratti dei consumatori”), in Giur. it., 1993, IV, p. 57, sottolinea, a proposito della trasformazione che la disciplina contrattuale sta subendo sulla scia della affermazione di nuovi mercati aperti e transnazionali e soprattutto in relazione all’impatto che la normativa di derivazione comunitaria ha esercitato ed esercita sul nostro sistema normativo, che “quello di cui occorre prendere atto è che è in corso una vasta modifica non di questo o di quell’aspetto del diritto dei contratti, ma dell’intera materia in tutti i suoi momenti. Il mutamento è determinato non da una riforma legislativa votata dal nostro Parlamento, né da una generale revisione del codice civile, bensì dalla prepotente pressione del diritto comunitario che impone ai legislatori nazionali di adeguare e uniformare il proprio ordinamento alle Direttive della Comunità”. Il fenomeno a cui assistiamo, sottolinea C. CORAPI, Integrazione giuridica europea e regolazione del mercato. La disciplina dei contratti di consumo nel sistema del diritto della concorrenza, op. cit., p. 713, è quello di una “nuova crisi dell’idea di Codice, diversa da quella determinata fino a due decenni addietro dal proliferare della legislazione speciale, e definita efficacemente in termini di decodificazione. Allora la perdita di spazi regolativi da parte dello strumento codicistico si consumava all’interno del sis tema statuale (…). Oggi la crisi del codice manifesta la crisi del potere statuale, e l’affermazione di politiche legislative sopranazionali fortemente tributarie di una filosofia liberale, non in contrasto con quella cui il codice civile si è ispirato, ma ugualmente foriera, in ragione delle sue dimensioni spaziali non territoriali, della sopravvenuta insufficienza regolativa dello strumento unitario”. Anche F. DI MARZIO, Verso il nuovo diritto dei contratti (note sulla contrattazione diseguale), in Riv. dir. priv., 2002, p. 722, nota 5, osserva che “come ogni fenomeno dell’età moderna, anche la ridefinizione del diritto contrattuale, fondandosi su esigenze inedite e aprendosi ad aspettative mai prima concepite, si manifesta come un movimento di rottura rispetto al passato”. 16 Diversi autori sembrano non dubitare della ormai perduta capacità unificante delle categorie tradizionali del codice civile, specie di quella contrattuale: “Se si considera, infatti, il ‘contratto’ quale veicolo delle infinite relazioni intercorrenti tra imprese di grandi dimensioni e consumatori distinti per categorie, esso viene ad assumere il significato di mezzo di attuazione dell’ordine giuridico del mercato, ben distante da quello di strumento dei rapporti tra ‘privati’, secondo le

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alle esigenze di ultra-territorialità che l’odierna estensione spaziale dell’economia

degli scambi e la scelta di sistema operata nei Trattati europei impongono 17.

L’esame critico delle tesi dottrinali e giurisprudenziali prospettate sull’argomento

(riportate analiticamente e criticamente nel Capitolo II) assume in particolare come

fine il superamento delle rigide fattispecie cui queste sembrano ancora rifarsi,

guardando all’approccio economicistico e pragmatico che le corti comunitarie e

statunitensi privilegiano nell’analisi antitrust, alla ricerca dello strumento

giuridicamente ed economicamente più efficiente e funzionale in vista della tutela

disposizioni degli artt. 1321 ss. c.c.”, così M. BARELA, Teoria della concorrenza e libertà del consumatore: l’insegnamento di Tullio Ascarelli, in Rass. dir. civ., n. 4/2004, pp. 959-960. In un contributo significativamente destinato ad una Enciclopedia, Contratto: per una voce, in Riv. dir. priv., 2000, p. 633, G. DE NOVA, scrive della fine del contratto come figura generale, e della necessità - non meramente linguistica, ma concettuale - di sostituire la vecchia categoria unificante del contratto con diverse e molteplici categorie contrattuali (fra imprenditori, fra privati, con i consumatori, della Pubblica Amministrazione, e via dicendo). Di qui è breve il passo verso l’affermazione conclusiva, per la quale le norme sul contratto in genere sono “norme senza fattispecie” (p. 659). Nello stesso senso, anche N. IRTI, Il diritto della transizione, cit., pp. 115-116: “l’unità del diritto privato, faticosamente raggiunta nel 1942 intorno al concetto di impresa, ci appare minacciata, o già vulnerata, dalla distinzione tra rapporti civili e rapporti commerciali, designando i primi gli scambi dell’economia individuale, e gli altri scambi, meccanicamente anonimi e ripetitivi, fra imprese e masse di consumatori. Distinzione, che pur dovrebbe suggerire la revisione della teoria del contratto e dell’interpretazione e dei vizi del consenso e della responsabilità civile”. Come sottolineato, tra i numerosi contributi a riguardo, anche da F. BOCCHINI, Nozione di consumatore e modelli economici, in AA. VV., Diritto dei consumatori e nuove tecnologie, vol. I, Gli scambi, Torino, 2003, p. 25, “l’intera disciplina sui contratti, consegnata dalla tradizione ed espressa dal codice civile, è pensata ed organizzata in funzione della unità del soggetto di diritto (il corsivo è dell’Autore), senza alcuna rilevanza delle qualità socio-economiche dei singoli soggetti o delle circostanze di fatto che incidono sul potere contrattuale delle singole parti”. Tuttavia, “l’osservazione delle dinamiche commerciali mostra come il potere contrattuale si conforma alla collocazione economica dei singoli operatori”, così rivelando de facto una sostanziale asimmetria di potere economico e dunque negoziale dei soggetti coinvolti nello scambio. 17 Come osserva N. IRTI, La concorrenza come statuto normativo, in La concorrenza come statuto normativo, a cura di N. Lipari p. 63, a proposito del tema che ci riguarda, afferma che “la concorrenza diviene a mano a mano, da problema di diritto interno, problema di diritto spaziale, cioè de-localizzato e de-storicizzato”, da cui scaturiscono problematiche interazioni tra geo-economia e geo-diritto, non ancora composti dal legislatore e ripresi diffusamente dall’Autore in Norme e luoghi. Problemi di geo-diritto, Roma-Bari, 2001; ID., Le categorie giuridiche della globalizzazione, in Riv. dir. civ., 2002, I, p. 625 ss.; N. IRTI - E. SEVERINO, Le domande del giurista e le risposte del filosofo (un dialogo su diritto e tecnica), in Contr. e impr., 2000, p. 665 ss. Sul tema si vedano anche F. GALGANO, Diritto ed economia alle soglie del nuovo millennio, in Contr. e impr., 2000, p. 189 ss.; L. MENGONI, Diritto e tecnica, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2001, p. 1 ss.; A. FALZEA, Nuove tecnologie e diritto, in New technologies e ricerca strategica nei trasporti, Messina, 2001, p. 73 ss.

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dei valori e degli interessi di cui il nostro ordinamento si è fatto attualmente

portatore18.

La scelta metodologica parte dunque dalla considerazione circa l’opportunità di

misurarsi con la questione delle conseguenze che il contratto conseguente all’intesa

subisce per la presenza di un’intesa illecita a monte, superando l’approccio a cascata

proposto da alcuni autori e leggendo il contratto a valle quale momento di una

complessiva operazione economica che, abbracciando e comprendendo l’intesa

stessa, rivela chiaramente la presenza di una disparità di forze di cui l’ordinamento

non può tollerare la persistenza 19.

Alla luce di tali elementi, l’analisi procede lungo un esame dei vari rimedi

astrattamente accordabili al consumatore ed al professionis ta controparti

dell’impresa collusa, esaminandone l’attuale conformazione, le differenze in termini

di costi e benefici, cercando di individuare lo strumento maggiormente adeguato alla

fattispecie.

L’obiettivo specifico è di delineare i contorni del rimedio ritenuto più efficiente

che, senza apriorismi dogmatici né pericolosi automatismi, consenta di ricondurre ad

un equilibrio di giustizia sostanziale (ad esempio attraverso la possibilità di

rinegoziare o di sostituire il contenuto di singole clausole o di un apposito intervento

integrativo giudiziale) il rapporto negoziale già previamente distorto dalla presenza

di un’illecita concordanza di comportamenti, al fine di correggerne le distorsioni e di

garantire il corretto e trasparente svolgimento di quelle operazioni economiche di cui

18 Simile esigenza è enunciata, altresì, da G. VETTORI , Le asimmetrie informative…, cit., p. 252, secondo il quale, di fronte ad anomalie e tutele prese in esame da una pluralità di indici normativi diversi (regole di validità, regole di responsabilità, regole di concorrenza interne e comunitarie), occorre superare rigidi formalismi partendo dalle azioni esperibili che si giustificano non per la corrispondenza a schemi precostituiti, ma in base alla soddisfazione del concreto interesse generale, collettivo o individuale sotteso alle norme. 19 La consapevolezza - dettata dall’opportunità di incrementare il punto di vista funzionale che si ispira agli interessi in gioco - che il contratto spesso non sia più, nell’odierna dinamica degli scambi, soltanto un atto singolo, atto di autonomia singolare, ma espressione di un’attività, di un ciclo ripetitivo, organizzato, coincidente con l’attività di impresa, è rilevato da P. PERLINGIERI, Equilibrio delle posizioni contrattuali ed autonomia privata. Sintesi di un convegno, in Il diritto dei contratti tra persona e mercato, Napoli, 2003, p. 465, nonché da A. JANNARELLI, La disciplina dell’atto e dell’attività: i contratti tra imprese e tra imprese e consumatori, in Diritto privato europeo, op. cit., vol. II, p. 589 ss.

12

il singolo contratto a valle costituisce un momento temporalmente e logicamente ma

non “geograficamente” distinto20.

Particolare attenzione viene quindi dedicata allo strumento della nullità di

protezione, necessariamente parzia le e relativa, e l’ipotesi di ricorrere in via

analogica, anche per i contratti preceduti dalla stipulazione di un’intesa

anticoncorrenziale, al rimedio dalla dottrina ritenuto oggi maggiormente idoneo a

tutelare il contraente più debole nei rapporti negoziali sperequati, soprattutto in

settori, quali quello di specie, in cui più stretta è l’interrelazione tra interessi generali

e particolari21.

20 Il problema è riconosciuto, tra gli altri, da R. PARDOLESI, Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, in Foro it. 2004, I, p. 473, secondo il quale la nullità “è sanzione che mira a privare l’impresa dei frutti dell’illecito; e alimenta qualche interrogativo proprio perché appare, talora, inadeguata rispetto all’obiettivo. Per converso, il rimedio appare normalmente poco utile dal punto di vista di chi, nel ruolo di controparte, abbia subito l’altrui pressione anticompetitiva. In effetti, il ricatto per la vittima del fruit contract non alligna nel terreno dell’invalidità negoziale. Il contratto diventa mero elemento di una fattispecie di responsabilità aquiliana”. 21 Esempi di questo tipo di nullità, sono, tra i tanti, la nullità ex art. 127 T.U. bancario in materia di credito al consumo; ex artt. 18 e 20, comma 3, del d. lgs. n. 415/1996 in tema di servizi di investimento nel settore dei valori mobiliari, nonché da ultimo l’art. 1519-octies cod. civ., introdotto dal d. lgs. 2 febbraio 2002, n. 24, in materia di vendita dei beni di consumo, e l’art. 7 del d. lgs. 9 ottobre 2002, n. 231 sulle transazioni commerciali. Tra i numerosissimi contributi in tema di nullità, si ricordi V. ROPPO, Il contratto e le fonti del diritto, in Il contratto del duemila, op. cit., pp. 15-16, il quale sottolinea che le leggi di ultima generazione si caratterizzano per un impiego quanto mai “esuberante e movimentato” della nullità del contratto: “fioriscono nullità sempre nuove, sia nel senso di nullità che si ricollegano a fattispecie che si fa fatica a ricondurre alle tradizionali cause di nullità; sia nel senso di nullità assoggettate a trattamenti assai divaricati dal generale regime codicistico del contratto nullo. Gli artt. 1418-1424 cod. civ. sembrano oramai disegnare un paradigma residuale, di fronte alla proliferazione delle nullità speciali; e ciascuna di queste sembra andare per conto proprio, sicché dall’insieme di esse non si riescono neppure a enucleare le linee di un coerente paradigma alternativo”. Si tratta, prosegue l’Autore, di invalidità che, nate nel solco della legislazione posta a tutela del consumatore, presentano una incredibile forza espansiva, accompagnata tuttavia da una più contenuta “distruttività” rispetto alle invalidità di diritto comune. Nel tentativo di individuare la concreta rilevanza attuale del concetto di “autonomia privata”, inoltre, è stato di recente ribadito che la recente legislazione privatistica, anche attraverso l’introduzione di “figure di nullità del contratto improntate a tecniche di prevenzione di squilibri contrattuali operanti mediante l’imposizione di limiti all’autonomia privata”, intende regolare il “mercato mediante restrizioni dell’autonomia privata ordinate a tutela della concorrenza e a garanzia della correttezza e della trasparenza delle operazioni commerciali, cioè delle condizioni che qualificano il mercato come istituzione di utilità sociale” (così L. MENGONI, Autonomia privata e Costituzione, in Banca, borsa e tit. di cred., 1997, I, p. 19 s.). Secondo M. MELI, Autonomia privata, sistema delle invalidità e disciplina delle intese anticoncorrenziali, Milano, 2001, p. 6, la nullità, quale tipo di sanzione prescelta dal legislatore al fine di garantire la piena concorrenzialità del mercato, rappresenta uno strumento assolutamente in linea col sistema, “da semp re pronto ad operare un collegamento tra autonomia privata e scelte (nella specie economiche) di fondo, riassumibili nella formula dei principi fondamentali dell’ordinamento”. Su questa linea, come osserva G. AFFERNI, Le intese restrittive anteriori alla legge antitrust: legge retroattiva o nullità speciale? (Ancora su Cass., Sez. I, 1°

13

Specifico riguardo viene inoltre riservato alla tesi (cui è dedicato il Capitolo III) -

recentemente formulata dalla dottrina e suffragata nelle linee astratte tanto dalla

giurisprudenza amministrativa quanto da quella ordinaria di legittimità - che

propone una ricostruzione del problema muovendo da un’ottica attenta all’approccio

empirico ed economicistico del diritto antitrust (nazionale, comunitario e

statunitense), guardando al mercato ed al contratto a valle non come due realtà

distinte e separate, ma come legate da un nesso inscindibile che ne accomunerebbe

le sorti22.

Lo stato di reciproca tensione che si coglie tra queste due fasi non esclude infatti

il pregio del tentativo (almeno in linea teorica) operato dall’osservatore intento ad

interpretarne i fenomeni di interazione di un effettuare “salto”, al fine di colmare la

divisione di piani tra i due termini del confronto - per come il tema è stato sinora

affrontato - attraverso uno sforzo ricostruttivo teso ad interpretare il microcosmo

contrattuale ed il macrocosmo del mercato come due realtà ontologicamente

compenetrate e non disgiunte, avvolte dallo stesso universo degli scambi che,

febbraio 1999, n. 827), in Giur. it., 2000, p. 941, si attesta, accogliendo la tesi della nullità sopravvenuta, anche la Corte di Cassazione nella citata pronuncia. Più diffusamente, sul tema delle “nuove nullità” si veda G. PASSAGNOLI, Nullità speciali, Milano, 1995. 22 L’imprescindibilità di un ripensamento critico in merito all’esercizio dell’autonomia negoziale alla luce della disciplina del mercato è stata ripetutamente segnalata da L. RAISER, Il compito del diritto privato. Saggi di diritto privato e di diritto dell’economia di tre decenni , traduzione a cura di M. Graziadei, Milano, 1990. In particolare, con riguardo all’argomento in esame, si veda il saggio Funzione del contratto e libertà contrattuale, p. 71 ss. L’obiettivo di garantire il pieno funzionamento del mercato anche per mezzo dello strumento negoziale è evidenziato da P. PERLINGIERI, Equilibrio delle posizioni contrattuali ed autonomia privata, op. cit., p. 467 ss., per il quale è “necessario trovare una disciplina del contratto che sia compatibile con la libertà di mercato, non intesa però come libertà incondizionata. Il mercato è non soltanto un insieme di regole economiche, ma uno statuto normativo. (…) Questo mercato è tale perché è conformato in un certo modo, perché ci sono certe regole. Le quali finiscono con l’incidere sui contratti e ad un tempo questi ultimi rappresentano una componente essenziale della regolamentazione del mercato. In questa prospettiva, anche la stessa distinzione tra interessi pubblici e privati pare superata. Tutto ciò implica il controllo di meritevolezza sugli atti di autonomia: questi devono svolgersi nel contesto dei valori dell’ordinamento (anche quelli dettati dall’esigenza di garantire una libera concorrenza, e quindi un mercato corretto, tendenzialmente meno imperfetto possibile)”. In questo senso, anche F. BOCCHINI, Nozione di consumatore e modelli economici, in Diritto dei consumatori e nuove tecnologie, Torino, 2003, op. cit., Gli scambi, p. 26, secondo cui è constatazione diffusa che il mercato sia la “risultante” della convergenza, in un determinato settore e con riguardo alla commercializzazione di singoli prodotti, “così di una pluralità di operatori come della presenza di regole della gara”. Sul tema, N. IRTI, Persona e mercato, in Riv. dir. civ., 1995, I, p. 289 ss., ed ora anche ne L’ordine giuridico del mercato, op. cit., p. 97 ss.; G. AMATO, Il mercato nella Costituzione, in Quad. cost., 1992, p. 12 ss.; A. PACE, Libertà “del” mercato e “nel” mercato, in Pol. Dir., 1992, p. 327 ss.

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anonimo e spersonalizzato, richiede regole chiare e funzionali alla sua stessa

esistenza 23.

L’intersezione e la combinata necessità di garantire contestualmente la

realizzazione di interessi pubblici (ma pur sempre di rilevanza individuale) - quale

la libertà e concorrenzialità del mercato enunciata nei Trattati comunitari24 - e la

tutela di ineludibili interessi privati sottesi allo scambio25, conferma infatti il pregio

23 “Affinché un mercato funzioni, occorre la funzionalità degli strumenti”, così N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, cit., p. 47. 24 Come evidenzia N. IRTI, La concorrenza come statuto normativo, op. cit., pp. 62-63, il metodo competitivo non appartiene alla nostra tradizione culturale, la libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost. esprimendo solo una dimensione verticale, e non orizzontale e dunque designando la garanzia di un agire individuale, non la disciplina di relazioni tra soggetti economici: “il metodo competitivo ci proviene dai Trattati europei, le norme dei quali sono considerate capaci di prevalere anche sulle norme costituzionali, salvo l’estremo limite dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona umana. (…) Il metodo competitivo, non rimanendo più tra le norme legislative ordinarie (quali sono le norme del codice civile), ma elevandosi a decisione di sistema, guadagna la funzione di principio generale dell’ordinamento”. A questo riguardo, l’attenzione deve essere riportata in primo luogo sull’art. 4 (ex art. 3A) del Trattato C.E., introdotto dal Trattato di Maastricht sull’Unione europea del 7 febbraio 1992, che sancisce il noto principio secondo cui “l’azione degli Stati membri e della Comunità comprende (…) l’adozione di una politica economica (…) condotta conformemente ai principi di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”. Principio ripreso poi specificamente dall’art. 98 (ex art. 102A) del Trattato C.E., secondo cui “gli Stati membri e la Comunità agiscono nel rispetto dei principi di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”. Si può dunque dire, riprendendo le parole di A. TIZZANO, Le dimensioni internazionali della concorrenza, in La concorrenza tra economia e diritto, cit., p. 99, che l’art. 4 esprime “un principio di rango costituzionale dell’Unione Europea”. Nello stesso senso, si veda anche G. GIOIA, Vecchie intese e nuove nullità, in Giust. civ., 2000, II, p. 15, secondo la quale è “attraverso la legislazione di provenienza comunitaria, tutta extracodicistica, (che) si realizza un perfezionamento della tutela della concorrenza”. In ogni caso, ricorda M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, in Riv. dir. comm., 2002, I, pp. 440-441, il fatto che l’art. 117 Cost., comma 2, lett. E), preveda - a seguito della modifica del Titolo V della Costituzione, attuata con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 - la tutela della concorrenza come materia di rilevanza costituzionale riservata alla competenza statale, ne implica il riconoscimento quale attività “costituzionalmente doverosa” per lo Stato. Sull’opportunità di rileggere le disposizioni costituzionali alla luce di quelle comunitarie, è pure G. GHIDINI, Monopolio e concorrenza, in Enc. dir., op. cit. In senso contrario, P. MARCHETTI, Boicottaggio e rifiuto di contrattare, cit., p. 70 ss., secondo il quale l’art. 41 Cost., non prendendo posizione in merito alla forma che l’economia di mercato deve assumere, legittimerebbe ogni atteggiarsi della concorrenza, purchè prodotto dalla stessa . Per una rilettura dell’art. 2596 cod. civ. alla stregua del principio di libera concorrenza, v. M. LIBERTINI, Limiti contrattuali della concorrenza, in Le nuove leggi civ. comm., 1989, II, p. 323. Più in generale, sull’inquadramento del diritto antitrust nel sistema costituzionale, si rinvia a R. NIRO, Profili costituzionali della disciplina antitrust, Padova, 1994; C. PICCIOLI, Contributo all’individuazione del fondamento costituzionale della normativa a tutela della concorrenza (c.d. legge antitrust), in Riv. trim. dir. pubbl., 1996, p. 29 ss., e M. PINNARÒ, Diritto di iniziativa economica e libertà di concorrenza. Di taluni eclissi e pleonasmi, nella legge antitrust n. 287 del 10 ottobre 1990, in Giur. comm., 1993, I, p. 430 ss. 25 Come ritiene anche S. BASTIANON, L’abuso di posizione dominante, Milano, 2001, p. 311, è ormai pacificamente riconosciuta l’operatività del diritto antitrust non solo in ambito pubblicistico, ma

15

di queste ultime soluzioni interpretative, che accostano il problema dell’interazione

tra distorsione del mercato e realtà negoziale sottostante “leggendo” l’intesa antitrust

ed il contratto a valle come due momenti di una medesima ed unitaria operazione

economica (non dunque “un alto” ed “un basso”, ma “un prima” e “un dopo”).

Il superamento della rigida divisione tra fase precontrattuale e successiva fase

propriamente negoziale (che altera, tra l’altro, e sfuma la divisione tra regole di

responsabilità e regole di validità26), dettata dal carattere diffusamente

anche in ambito privatistico, con la conseguente idoneità dello stesso a generare posizioni giuridiche di vantaggio in capo ai singoli. Secondo altra autorevole dottrina, infatti (cfr. A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per la violazione della normativa antitrust, Milano, 1996, p. 108), ogni indagine “deve oggi muovere dalla premessa che la normativa antimonopolistica generata dall’ordinamento comunitario non è una disciplina avente esclusivamente contenuto pubblicistico, ma è idonea a creare, come di fatto crea, diritti soggettivi in capo ai privati”. L’intersezione tra interessi propriamente pubblici e privati - che sarà ancor più accentuata a seguito della prossima attuazione del Regolamento n.1/2003 - è riconosciuta, altresì, dalla Corte di Giustizia (cfr., sentenza 30 gennaio 1974, causa 127/73, BRT/Sabam, in Racc., 1974, p. 51). 26 A riguardo, sia consentito sin d’ora rinviare a G. D’AMICO, Regole di validità e principio di correttezza nella formazione del contratto, Napoli, 1996; ID., Regole di validità e regole di comportamento nella formazione del contratto, in Riv. dir. civ., 2002, p. 38 ss.; V. ROPPO, Il contratto del duemila, cit., pp. 46-48; G. VETTORI , Le asimmetrie informative fra regole di validità e regole di responsabilità, op. ult. cit., p. 241 ss., il quale rileva come la rigida separazione fra regole di validità - “che delimitano il rilievo delle figure volte ad eliminare gli effetti” - e regole di responsabilità - “che valutano i contegni al solo fine di un’azione di danni” - pensata per un sistema economico e giuridico incentrato sul codice civile e sull’unità del soggetto e del contratto e che, sino agli anni ottanta, costituiva uno dei postulati della disciplina generale del contratto, è stata fortemente incisa dal nuovo assetto dei rapporti nati dall’adesione all’Unione europea e dalla conseguente uniformazione del diritto dei contratti. Il richiamo della buona fede negli artt. 1469-bis e 1469-ter cod. civ. quale segno di una normativa “pronta a contaminare il giudizio di validità con parametri che la tradizione colloca nella sfera dei giudizi sui comportamenti”, sottolinea come il nuovo legislatore consideri, in molte ipotesi, obblighi informativi e vincoli di trasparenza non più come elementi rilevanti sul terreno della responsabilità (precontrattuale), ma quali fattori capaci di incidere senz’altro sulla validità del contratto. Con riguardo alla disciplina dei contratti del consumatore, in particolare, la contaminazione si accentua richiamando l’art. 1469-quater, comma 4, cod. civ., nel quale si mescolano, al fine di valutare la vessatorietà della clausola, elementi strutturali ed elementi procedimentali, poiché il giudizio di validità - tradizionalmente riferito alla struttura della fattispecie contrattuale - dipende qui, invece, da elementi che attengono a modalità di comportamento delle parti, estranee alla struttura del contratto. A ciò si aggiunge, quale ulteriore esempio della detta commistione, il diffuso ricorso al meccanismo della nullità virtuale: la violazione delle regole di trasparenza e degli obblighi informativi, di natura imperativa, si estende in forza del principio di cui all’art. 1418, comma 1, cod. civ., anche alle ipotesi non espressamente contemplate, così allargando il raggio della nullità derivante dalla violazione di regole di comportamento (così, V. ROPPO, Contratti di diritto comune, contratto del consumatore, contratto con asimmetria di potere contrattuale: genesi e sviluppi di un nuovo paradigma, in Il contratto del duemila, cit., pp. 46-50). La presenza di un’interferenza fra regole di validità e regole di responsabilità viene ravvisata già negli artt. 1337-1338 del codice ove la disciplina sui vizi del volere interferisce con quella sulla responsabilità precontrattuale (in questo senso, V. ROPPO, op. ult. cit., p. 46; V.G. VISINTINI, La reticenza nella formazione del contratto, Padova, 1972, p. 91 ss.; G. VETTORI , Anomalie e tutele nei rapporti di distribuzione fra imprese. Diritto dei contratti e regole di concorrenza, Milano, 1983, pp. 112 e 114;

16

standardizzato degli scambi - come confermato in primis dall’ampia normativa a

tutela del consumatore - non esclude infatti la possibilità teorica (supportata dal dato

normativo) di intendere il torto concorrenziale come singola componente di una più

vasta operazione, che precede la conclusione del contratto a valle e rispetto al quale

il legislatore ha già espresso - con la sanzione della nullità di cui al comma 3

dell’art. 2 della legge n. 287/9027 - un giudizio di disvalore in termini di illiceità.

Nel dipanarsi delle diverse ricostruzioni offerte un ruolo emblematico viene

quindi riconosciuto alla recente sentenza n. 2207/05 delle Sezioni Unite, con cui il

Collegio di legittimità ha autorevolmente chiarito alcuni punti ancora oscuri in

merito alla ratio della disciplina antitrust nazionale, alla legittimazione attiva circa la

proposizione dell’azione di cui all’art. 33 della medesima legge ed ai suoi limiti

soggettivi. Diversi snodi di primaria importanza ed utilità vengono inoltre

individuati, nella pronuncia della Suprema Corte, al fine della soluzione della

questione che ci occupa e, nella specie, del rimedio civilistico maggiomente

adeguato, in un’ottica funzionale, alla tutela della controparte a valle dell’impresa

partecipe dell’infrazione antitrust a monte.

M. MANTOVANI, Vizi incompleti del contratto e rimedio risarcitorio, Torino, 1995, p. 187 ss.). L’indirizzo è altresì confermato dalla giurisprudenza che, accogliendo le suggestioni dottrinali, tende a spostare la funzione del principio di buona fede sul diverso terreno del giudizio di validità del contratto (cfr. Cass. n. 3362/1989 e, da ultimo, Cass. n. 10926/1998, che dichiara la nullità della clausola del contratto di leasing che trasferisce a carico dell’utilizzatore il rischio della mancata consegna del bene, semplicemente “perché viola il principio dell’esecuzione del contratto secondo buona fede”). Questa consapevolezza è poi rafforzata da un’attenta analisi della nuova legislazione e trova esplicita conferma in aree di attività ove l’autonomia e il raffronto fra atto e comportamento è evidente, come nella normativa antitrust “che fa saltare le simmetrie del passato fra fattispecie di validità e di responsabilità e induce a ripensare tali costruzioni”. In questi termini, G. VETTORI , Le asimmetrie informative…, cit., p. 249 e, sul tema specifico, ID., Anomalie e tutele…, cit., p. 43 ss.; G. GUIZZI, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, in Riv. dir. comm., 1999, I, p. 67 ss.; ID., Congruità dello scambio e contratti di credito (Ancora una breve riflessione intorno ai rapporti tra mercato e teoria del contratto), in Squilibrio e usura nei contratti, a cura di G. Vettori, Padova, 2002, p. 437 ss.; V. ROPPO, op. ult. cit., p. 49, il quale cita il campo delle intese anticoncorrenziali contemplate dall’art. 2 della legge antitrust quale ambito nel quale fioriscono nullità dipendenti - contro lo schema tradizionale - da variabili esterne al contratto. Nel senso che la possibilità che un medesimo fatto materiale possa rilevare sia come fattispecie generatrice di responsabilità aquiliana che come fattispecie integrante gli estremi di una violazione contrattuale dando luogo ad una pluralità di pretese e senza che, peraltro, l’instaurarsi della relazione contrattuale valga ad assorbire la possibilità di avvalersi del più generale rimedio risarcitorio di cui all’art . 2043 cod. civ., si veda A. DI MAJO, Delle obbligazioni in generale, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1988, p. 230 ss.

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Di questi e di altri temi legati alla mutevole intersezione (ed interazione) tra

profili della teoria generale del contratto e regolazione dei mercati si tenterà quindi,

nelle pagine che seguono, un’accurata trattazione.

27 E’ d’uopo richiamare sin d’ora il disposto della norma, ai sensi del quale “le intese vietate sono nulle ad ogni effetto”.

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CAPITOLO I

REGOLAZIONE DEL MERCATO E TEORIA GENERALE DEL

CONTRATTO: TERMINI DEL PROBLEMA

1. Intese anticoncorrenziali ed effetti sui contratti a valle:

logica di un intervento

Il tema di studio, avente ad oggetto l’analisi degli effetti che l’accertata nullità di

un’intesa anticoncorrenziale esplica sui contratti a valle, si presenta estremamente

complesso e problematico, avuto riguardo sia alle considerazioni di carattere

strettamente dogmatico che alle conseguenze di rilevanza pratica cui la

prospettazione di una tesi tendenzialmente conclusiva sull’argomento

inevitabilmente conduce1.

1 La questione costituisce un esempio emblematico di interferenza ed interazione tra disciplina del mercato e diritto dei contratti, la cui problematicità emerge in particolar modo dal carattere di specialità della nullità antitrust e del relativo regime applicativo rispetto alla categoria generale disciplinata dagli artt. 1418 ss. cod. civ. (profilo, questo, che verrà trattato più ampiamente infra), nonchè dalle recenti tendenze evoluzioniste di matrice comunitaria le quali, già da tempo e con particolare riguardo al settore della consumer protection, hanno imposto un ripensamento critico ed un’attenta meditazione attorno alle figure dogmatiche e normative fissate dalla tradizione civilistica. La problematicità della questione, secondo quanto rileva G. GUIZZI, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, op. cit., p. 69, è accentuata dalla mancanza di una riflessione organica sul tema delle interrelazioni tra diritto dei contratti e regole di mercato. In particolare, afferma l’Autore, “si è avvertita l’assenza di specifiche indagini tese a determinare la misura in cui la violazione dei principi di comportamento, che, per essere destinati a garantire l’esistenza di un regime di libera concorrenza, si preoccupano di assicurare al mercato efficienza e funzionalità, possa condizionare il libero esplicarsi dell’autonomia negoziale, intaccando la validità degli atti in cui si manifesta”. Sull’argomento, si ricordi che la Corte di Giustizia ha in varie occasioni affermato che, a seguito dell’accertamento dell’anticoncorrenzialità di un’intesa, le ricadute sui contratti stipulati dagli utenti finali con le imprese in attuazione della collusione a monte sono regolate non dal Trattato CE, ma dai singoli diritti statali afferenti alla materia di obbligazioni e contratti (cfr. sentenza 14 dicembre 1983, causa 319/82, in Foro it., Rep., 1986, voce Comunità europee, n. 134, e, per esteso, in Giur. dir. ind., 1984, p. 932).

19

L’espresso riconoscimento, sancito dall’art. 2, comma 3, della legge 10 ottobre n.

2872 (“Norme per la tutela della concorrenza e del mercato”), della nullità di intese

antitrust (“Le intese vietate sono nulle ad ogni effetto”), infatti, se da un lato rende

manifesta la scelta del legislatore di circoscrivere la pur ampia libertà di

autoregolamentazione riconosciuta ad ogni soggetto di diritto, dall’altro solleva -

attesa la mancanza di una disciplina positiva in materia e le peculiarità che

l’invalidità anticoncorrenziale presenta - profonde incertezze circa la possibilità di

estendere, oltre il ristretto ambito descritto dalla fattispecie normativa, il giudizio di

disvalore espresso dal legislatore verso le forme di concertazione anticoncorrenziale

previste dall’art. 23.

A riguardo, la legge nazionale non chiarisce infatti in alcun modo quali

conseguenze comporta, dal punto di vista civilistico, la violazione delle norme

antitrust sugli atti negoziali conclusi da ciascuna delle imprese colluse.

Ad aggravare la lacuna normativa si aggiunge tra l’altro la mancata attribuzione

all’Autorità garante della concorrenza e del mercato - preposta al compito di

assicurare e tutelare l’effettivo funzionamento del meccanismo concorrenziale - del

potere di ottenere, attraverso mezzi di coazione, l’osservanza del provvedimento con

cui le imprese vengono diffidate dall’uniformare la propria condotta commerciale

agli accordi vietati e dall’utilizzare quei moduli negoziali di cui sia stata accertata la

abusività.

Né si riconosce all’Autorità indipendente il potere autoritativo di impedire

l’esecuzione dei contratti già conclusi prima dell’accertamento della compiuta

violazione dei divieti di cui agli artt. 2 e 3 della legge n. 287/90, o di rimuovere gli

2 La legge è riportata in G.U. 13 ottobre 1990, n. 240. 3 La questione è stata affrontata inizialmente con riguardo ai soli contratti in cui si concreta un abuso di posizione dominante dll’art. i cui all’art.3 della legge antitrust, il quale ben può assumere consistenza negoziale e rispetto al quale, si è affermato, si verificherebbe una violazione diretta della norma imperativa di cui all’art. 3, derivandone così de plano la nullità del contratto ai sensi dell’art. 1418, comma 1, cod. civ. A riguardo, A. MIRONE, Standardizzazione dei contratti bancari e tutela della concorrenza, Torino, 2003, pp. 68-70, considera il silenzio del legislatore in materia di contratti a valle di un’intesa - diversamente dalla fattispecie di abuso di posizione dominante che vale tipicamente a salvaguardare la posizione dei consumatori “in alcune situazioni limite di annullamento delle logiche di mercato” - il frutto di una consapevole scelta normativa, coerente con la ratio del divieto di cui all’art. 2, il quale mira a garantire il mantenimento dell’autonomia strategica delle imprese tutelando gli utenti finali solo in via indiretta.

20

effetti dei contratti già eseguiti, tali misure non potendo identificarsi con la facoltà di

imporre alle imprese l’eventuale sospensione, per un periodo massimo di trenta

giorni, dello svolgimento delle rispettive attività.

L’unico rimedio utile riconosciuto al Garante consiste infatti nel potere - previsto

dall’art. 15, come modificato dall’art. 11 della legge 5 marzo 2001, n. 57 - di

comminare, nei casi di infrazione grave, una sanzione amministrativa pecuniaria 4.

Le ingiustificate carenze dispositive dell’apparato sanzionatorio conferito

all’autorità di settore, paiono poi ancora meno comprensibili ove si consideri il

contrasto che si viene così a creare tra la soluzione (omissiva) del legislatore italiano

e l’indirizzo interpretativo adottato a livello comunitario.

In quest’ultimo ambito, infatti - ancorché ciò non sia espressamente previsto - è

pacifico che la Commissione possa adottare misure positive volte ad eliminare gli

effetti di comportamenti anticoncorrenziali, ad esempio incidendo sui singoli

contratti stipulati dalle imprese coi loro clienti, obbligandole a rinegoziarne il

contenuto e prevedendo, in ogni caso, la possibilità per il contraente più debole di

recedere dal contratto5.

4 Per un’analisi del sistema sanzionatorio contemplato dall’art. 15 della legge antitrust e nel senso dell’impossibilità per l’Autorità italiana di prescrivere comportamenti positivi alle imprese autrici dell’infrazione al fine di ripristinare condizioni di concorrenza sul mercato, si veda P. AQUILANTI, Poteri dell’Autorità in materia di intese restrittive della libertà di concorrenza e abuso di posizione dominante, in Diritto antitrust italiano, op. cit., vol. II, p. 877 ss. 5 A questo proposito può essere richiamata in particolare, quale esempio emblematico, la decisione Astra della Commissione 93/50/CEE, del 23 dicembre 1992, in G.U.C.E., n. L 20 del 28 gennaio 1993, p. 23, relativa ad un procedimento avviato in forza dell’art. 81 (ex art. 85) del Trattato CEE, in cui la Commissione ha espressamente riconosciuto l’alternativa della “rinegoziazione dei termini del contratto” o del “recesso salvo preavviso” a beneficio dei clienti di una delle imprese coinvolte nell’intesa. La lacuna nella disciplina nazionale si ravvisa pure dal confronto con il criterio seguito dall’ordinamento interno di alcuni Stati membri, quali quello tedesco e quello spagnolo. Il GWB tedesco, secondo quanto sostiene parte della dottrina, riconoscendo al § 19 all’Autorità competente il potere di regolare la sorte delle pattuizioni in qualche modo dipendenti o collegate ai cartelli diretti alla fissazione di prezzi o di condizioni contrattuali uniformi, sembra infatti offrire a quest’ultima qualche spazio per pronunciarsi anche sulla sorte dei contratti a valle. Sul punto - come rileva M. NEGRI, Risarcimento del danno da illecito antitrust e foro per la tutela del consumatore (la Cassazione non dilegua i dubbi nella vicenda RC auto), nota a Cass. 9 dicembre 2002, n. 17475, in Corr. giur. n. 6/2003, p. 753, nota 26, a questo proposito - la dottrina tedesca è solita distinguere tra Folgevertrage, ovvero gli accordi anticoncorrenziali conclusi dai membri di un cartello e, sulla base di questo, con soggetti terzi (ad esempio contratti di fornitura conclusi con i propri acquirenti che riproducano le condizioni contrattuali oggetto dell’intesa), e Ausfuhrungsvertrage, mediante i quali si rafforza o si porta ad effetto l’intesa vietata (ad esempio i contratti per l’adesione di terzi al cartello vietato). Solo questi ultimi, afferma l’Autrice, sarebbero certamente travolti dalla nullità dell’intesa.

21

Queste ragioni hanno quindi indotto la dottrina nazionale a domandarsi

preliminarmente se la lacuna normativa sia davvero da intendere quale consapevole

scelta legislativa di impedire che il giudizio di riprovazione espresso tramite la

norma dell’art. 2 possa estendersi al contenuto del regolamento contrattuale

sottostante, oppure se la circostanza che i contratti siano posti in essere nel quadro di

una politica di mercato volta ad alterarne le condizioni di concorrenza (e nella

prospettiva di restaurare la piena competizione), non assuma rilievo discriminante,

essendo sufficiente il semplice ricorso allo strumentario generale delineato dal

codice civile in materia di invalidità negoziale (ossia agli artt. 1418 cod. civ. ss.).

La problematicità della questione emerge in tutta la sua evidenza soprattutto ove

si consideri che le intese illecite - il cui contenuto si giustifica in ragione

dell’interesse delle imprese aderenti a regolare i loro reciproci rapporti attraverso la

determinazione congiunta e concordata delle modalità di esercizio della rispettiva

attività - generalmente non incidono in maniera diretta ed immediata sulla

funzionalità ed efficienza del mercato considerato6.

La concretizzazione degli effetti anticoncorrenziali cui la stipulazione

dell’accordo collusivo a monte mira, resta infatti per lo più affidata ai singoli e

ripetuti atti realizzati in conformità alle norme d’azione reciprocamente concordate

da ciascuna aderente nell’esercizio della propria attività commerciale.

Sull’argomento si veda anche M. MELI, Il sistema sanzionatorio delle intese restrittive della concorrenza nell’ordinamento tedesco, in Riv. crit. dir. priv., 1997, p. 259. Nella stessa prospettiva dell’ordinamento tedesco, si consideri inoltre, ancora più chiaramente, la legge antitrust spagnola (Ley 16/1989), la quale attribuisce al competente Tribunal de Defensa de la Competencia, (art. 9), una volta accertata l’esistenza della fattispecie vietata, il potere di condannare le imprese responsabili al pagamento di sanzioni pecuniarie amministrative e di imporre a costoro le misure positive idonee a rimuoverne gli effetti, inoltre assegnando al Collegio il potere di assumere misure cautelari volte a prevenirne la produzione. 6 Il problema è emerso, a livello giurisprudenziale, soltanto nel 1998 in relazione all’adozione da parte di aziende ed istituti di credito aderenti all’ABI di norme bancarie uniformi (n.b.u.) fissate da quest’ultima - sanzionate dalla competente Banca d’Italia per contrasto con l’art. 2 della legge antitrust - ed alla conseguente attività negoziale. Il problema, come vedremo più diffusamente nel corso della trattazione, è stato poi incidentalmente affrontato dal Tribunale di Genova, 21 maggio 1996, in Banca, borsa e tit. di cred., 1998, II, p. 97 ss., il quale non ha preso esplicita posizione a riguardo. Diversamente, il Tribunale di Alba, con sentenza del 12 gennaio 1995, in Giur. it., 1996, I, p. 212 ss., si è pronunciato per la piena validità del contratto a valle, mentre il Tribunale di Roma, con sentenza del 12 settembre 1997, n. 4071, ha affermato la tendenziale nullità, circoscritta alle singole clausole riproduttive delle n.b.u., in applicazione dell’art. 1419 cod. civ.

22

Caratteristica tipica degli accordi anticoncorrenziali, infatti, consiste, ancor più

che nel costituire un rapporto giuridico vincolante tra le imprese colluse più o meno

coercibile, nel presentarsi quali fonti di regole di condotta per le aderenti, finalizzate

a conformare secondo direttive uniformi i successivi rapporti di ognuna con la

clientela a valle7.

Il che rende evidente che gli effetti distorsivi dell’infrazione antitrust -

conseguenti ad un’alterazione collettiva delle condizioni di competizione a monte -

non si esauriscono nella semplice realizzazione dell’intesa, al contrario traducendosi

e propagandosi nella posizione di forza negoziale ed economica di cui una delle parti

della successiva attività negoziale gode e di cui individualmente abusa8.

7 Per questa ragione in queste ipotesi, almeno ove abbiano vera e propria natura negoziale, si tende ad inquadrare le intese antitrust nell’alveo dei contratti-quadro o normativi. A riguardo, un’attenta analisi della natura delle intese anticoncorrenziali è riscontrabile già nelle pagine di T. ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, Milano, 1960, il quale riconduceva i cartelli tra imprenditori ai “contratti innominati normativi”, attesa la mancanza all’epoca dell’Autore di una disciplina specifica in materia ed avuto riguardo al carattere vincolante dell’accordo tra i partecipanti, volto a regolare il contegno di costoro nello svolgimento delle rispettive attività. Si tratta, inoltre, di contratti aventi natura plurilaterale, interessando generalmente più di due soggetti, e caratterizzati da una identità giuridica delle prestazioni poste a carico di ciascun partecipante - il quale dunque rinunzia consapevolmente ad una porzione della propria indipendenza sul mercato - pur nella contrapposizione degli interessi sottesi. Ciò vale a distinguere questi accordi dai normali contratti di scambio, in cui agli interessi contrapposti delle parti corrispondono sempre prestazioni diverse ed in reciproca correlazione. Il contratto di cartello, in quanto contratto plurilaterale, è poi definito dall’Autore quale “contratto di organizzazione”, poichè, diversamente dai contratti di scambio, costituisce lo “strumento tipico per la disciplina interna dei rapporti di gruppo”, attraverso cui “tutti coloro che appartengono ad una determinata categoria possono nel diritto privato organizzarsi per il raggiungimento di un fine unico”. Le intese anticoncorrenziali, per il rapporto di diretta proporzionalità tra il numero di imprese partecipanti ed il grado di incidenza sul mercato del comportamento concordato, si presentano poi normalmente quali contratti aperti, che consentono cioè l’adesione di volta in volta di nuovi soggetti. Lega il naturale ripercuotersi dell’intesa sulla successiva attività negoziale alla stessa struttura dell’illecito anticoncorrenziale anche G. GIOIA, Vecchie intese e nuove nullità, cit., p. 12, secondo la quale il contratto associativo - cui gli accordi antitrust si avvicinano per conformazione - “non dà vantaggi immediati ad alcuna delle parti, ma attraverso la successiva attuazione, finisce indirettamente con l’avvantaggiare tutte le parti. In questo caso, la funzione del contratto non si esaurisce con l’esecuzione delle obbligazioni delle parti, la quale costituisce, invece, la premessa d’una attività ulteriore, la cui realizzazione rappresenta la finalità del contratto e l’interesse delle parti”. 8 Valga sin d’ora richia mare alcuni tra i più significativi contributi sull’argomento, dei quali si darà ampio conto nel Capitolo II. Tra questi, L.C. UBERTAZZI, Concorrenza e norme bancarie uniformi, Milano, 1986, in specie p. 98 ss.; A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per la violazione della normativa antitrust, Milano, 1996, specie p. 339 ss.; G. ROSSI, Effetti della violazione di norme antitrust sui contratti tra imprese e clienti: un caso relativo alle norme bancarie uniformi, in Giur. it., 1996, I, 2, pp. 212 ss. (nota a Tribunale di Alba, 12 gennaio 1995); F. PARRELLA, Disciplina antitrust nazionale e comunitaria, nullità sopravvenuta, nullità derivata e nullità virtuale delle clausole dei contratti bancari a valle, in Diritto della banca e del mercato

23

Il contratto, infatti, rappresenta un “ponte”, il “mezzo di trasmissione” attraverso

cui l’illecito anticoncorrenziale si infrange sulla realtà economica sottostante, ovvero

lo strumento principale attraverso il quale le imprese colluse agiscono effettivamente

sul mercato alterandone il funzionamento.

Per questa ragione è su quest’ultimo, quale anello intermedio di un complessivo

comportamento unilateralmente orientato a distorcere i meccanismi di una sana e

leale competizione, che si intende focalizzare l’attenzione 9, specie in considerazione

della natura “bifronte” del tramite negoziale, attraverso il quale passano quegli

strumenti di riequilibrio in grado di ripristinare la dinamica concorrenziale10.

finanziario, 1996, p. 507 ss.; A. BERTOLOTTI, Illegittimità di norme bancarie uniformi (NBU) per contrasto con regole antitrust ed effetti sui “contratti a valle”: una ipotesi di soluzione a un problema dibattuto, in Giur. it., 1997, IV, p. 345 ss. Spunti sulla problematica in esame si rinvengono anche in G. OPPO, Diritto dell’impresa e morale sociale, op. cit., p. 25 ss.; ID., Costituzione e diritto privato nella “tutela della concorrenza”, ivi, 1993, II, p. 543 ss.; N. SALANITRO, Disciplina antitrust e contratti bancari, in Banca, borsa e tit. di cred., 1995, II, p. 420 ss.; D. SARTI, Osservazioni su norme bancarie uniformi, diritto antitrust e clausole di modifica unilaterale del rapporto, ivi, 1998, p. 103 ss. Riflessioni analoghe sono state condotte, in maniera peraltro scarna, con riguardo al contratto a valle attraverso il quale l’impresa abusa della propria posizione dominante. Tra questi si segnalano in particolare, G. PASETTI, Impresa dominante e rescissione, in Riv. dir. civ., 1971, I, p. 351 ss. e G. VETTORI , Anomalie e tutele nei rapporti di distribuzione fra imprese. Diritto dei contratti e regole di concorrenza, op. cit., p. 200 ss., i quali affrontano l’argomento prima dell’entrata in vigore della legge antitrust e con riguardo alla violazione dell’art. 86 del Trattato CEE; G. OPPO, op. ult. cit., p. 552; A. FRIGNANI (M. SIRAGUSA e V. MELI), Abuso di posizione dominante, in Diritto antitrust, cit., p. 310 ss.; G. SELVAGGI, Abuso di posizione dominante, in Giur. it., 1992, IV, p. 134 ss.; G. PASSAGNOLI, Le nullità speciali, op. cit., pp. 44 ss., 150 ss., 235 ss.; G. ROSSI, op. ult. cit., p. 220. 9 Il contratto costituisce, riprendendo le parole di P. BARCELLONA, Intervento statale e autonomia privata nella disciplina dei rapporti economici, Milano, 1969, p. 331, lo “strumento attraverso il quale principalmente i privati giocano sul mercato”. 10 In questo senso anche A. ALBANESE, Violazione di norme imperative e nullità del contratto, Milano, 2003. Come evidenzia L. MENGONI, Autonomia privata e Costituzione, op. cit., p. 14 “poiché la tutela della libertà di contratto è insieme uno strumento di protezione del mercato, fondamento costituzionale di questi limiti legali non è soltanto il secondo, ma anche il terzo comma dell’art. 41, riletto nel senso che i fini sociali ai quali la legge deve indirizzare l’attività economica, includono anzitutto il corretto funzionamento del mercato in condizioni uniformi di concorrenza”. In merito al ruolo che il contratto assume nel più vasto quadro della regolamentazione del mercato, si veda anche F. GALGANO, Diritto ed economia alle soglie del nuovo millennio, in Contr. e impr., 2000, p. 189 ss., il quale evidenzia come il contratto costituisca oggi il principale strumento di innovazione giuridica: “Il contratto prende il posto della legge in molti settori della vita sociale. Si spinge fino a sostituirsi ai pubblici poteri nella protezione di interessi generali, propri dell’intera collettività, quale l’interesse dei consumatori” (p. 197). Tale fenomeno, rileva l’Autore, è riconducibile in particolare alla “inettitudine della legge alla innovazione giuridica”, riconducibile a “due caratteri dell’economia contemporanea, la quale è, innanzitutto, una economia meta-nazionale, in antitesi con il carattere nazionale dei sistemi legislativi, ed è, in secondo luogo, una economia in continua trasformazione, la quale reclama flessibili strumenti di adeguamento del diritto ai mutamenti della realtà, in antitesi con la rigidità delle leggi” (pp. 197-198). Ciò spiegherebbe per quale ragione la scena giuridica del nostro

24

Intervenire sul contratto a valle e sulla vicenda negoziale che da esso scaturisce,

azzerando (o comunque limitando) l’influenza che su di esso esplica l’intesa

anticoncorrenziale, significa infatti non solo riequilibrare un rapporto geneticamente

asimmetrico, ma anche introdurre meccanismi sanzionatori indiretti idonei a

disincentivare le imprese indipendenti operanti in un dato mercato a definire

concordemente standard comportamentali illeciti11.

La stessa presenza di una disciplina antitrust nel nostro ordinamento esprime

infatti il principio secondo il quale la competizione tra operatori - effettiva o

potenziale - rappresenta lo strumento più adeguato non solo per garantire agli

acquirenti beni e servizi a prezzi convenienti e nella qualità e quantità desiderate, ma

anche per disciplinare i comportamenti delle imprese là dove il potere di mercato

tende a concentrarsi, più o meno naturalmente, nelle mani di alcuni soggetti a

scapito di altri12.

tempo sia dominata dalla circolazione internazionale dei modelli contrattuali uniformi i quali, privi di nazionalità, assumono la peculiare funzione “di realizzare l’unità del diritto entro l’unità dei mercati” (p. 199). 11 Contra, F. FERRO-LUZZI, Prolegomeni in tema di mercato concorrenziale e “aurea aequitas” (ovvero delle convergenze parallele)”, in Foro it., 2004, I, p. 478, il quale ritiene coerente col sistema l’assoluta impermeabilità del contenuto del contratto e della sua disciplina alla normativa anticoncorrenziale: “in ambito contrattuale, gli strumenti di tutela offerti dal sistema codicistico sono indirizzati alla tutela della libera, piena, consapevole, determinazione negoziale, in altri termini sono finalizzati alla sussistenza di un rapporto equo. Il sistema di controllo legislativamente previsto, allora, verte sulla procedura attraverso la quale si forma la volontà della parte, mentre la tutela a valle di un contratto posto in essere da un’impresa partecipante ad un’intesa presupporrebbe un sistema che non è proprio del nostro ordinamento: un sistema impostato sui rimedi contro uno scambio che sebbene libero e consapevole fuoriesca dagli usuali parametri mercantili”. L’assunto induce l’Autore ad affermare - peraltro in maniera non condivisibile in quanto dimentica delle sostanziali trasformazioni di derivazione comunitaria in tema di equilibrio sostanziale del contenuto negoziale - che il contraente a valle con un’impresa partecipante ad un’intesa illecita, si determina sempre liberamente a contrarre, “con la conseguenza che la circostanza che le condizioni di cui all’accordo siano meno o più favorevoli di quelle che avrebbe ottenuto in assenza dell’intesa in discorso risulta essere circostanza irrilevante per il sistema”. Nello stesso senso, si veda anche C. CORAPI, Integrazione giuridica europea e regolazione del mercato. La disciplina dei contratti di consumo nel sistema del diritto della concorrenza, op. cit., 2002, pp. 718-719. 12 In proposito, il primo Presidente dell’Antitrust, F. SAJA, L’Autorità garante della concorrenza e del mercato: prime esperienze e prospettive di applicazione della legge, in Giur. comm.,1991, p. 455, commentando il ruolo della legge n. 287/1990 nel nostro ordinamento, osservava che la disciplina della concorrenza possiede una “peculiarità (…) che la proietta al di là del campo strettamente economico in cui d’abitudine essa viene circoscritta. Tale disciplina incide invero anche sul piano sociale, non solo perché dà attuazione ad una libertà prevista dalla Costituzione, ma perché è anche protesa profondamente verso la tutela del consumatore: il quale trova sì la sua diretta protezione in altra normativa, per lui esclusivamente dettata, ma indirettamente è tutelato da quella in oggetto per gli effetti che una libera concorrenza e la regolarità del mercato possono produrre nei confronti

25

Ciò rende evidente l’importanza di individuare strumenti di intervento che,

tutelando la parte contrattualmente debole, siano in grado di correggere il

regolamento contrattuale e contestualmente di ripristinare la piena concorrenzialità

del mercato13, in questo modo riconducendo il contratto nel mercato e dunque dentro

il corretto meccanismo di selezione delle offerte.

L’intersezione tra profili legati, rispettivamente, alla teoria generale del contratto

ed alla regolazione del mercato accresce quindi l’interesse ed al tempo stesso la

problematicità dell’argomento, la cui attualità ed il cui rilievo, confermati dal

succedersi di numerose quanto divergenti pronunce giurisprudenziali14, nasce

dell’intera collettività sul binomio prezzo-qualità”. Come ricorda inoltre G. GIOIA, Vecchie intese e nuove nullità, cit., p. 16, la libertà di concorrenza si concreta nella libertà di accedere al mercato e di uscirvi, non anche di rimanervi, poiché è la stessa libertà di competere tra più operatori a poter determinare la sconfitta di uno di essi e la conseguente legittima estromissione dallo scenario della gara. Per questa ragione è necessario ostacolare e sanzionare tutti quei comportamenti collusivi che, alterando il naturale confronto tra le imprese, ne distorcono anche il meccanismo di fisiologica selezione. 13 Il sistema di mercato a struttura concorrenziale è infatti considerato, in maniera pressoché incontestata, quale fattore in grado di soddisfare finalità di giustizia distributiva e di efficienza allocativa. Discusso è, invece, se di fronte a comportamenti anticoncorrenziali debba sempre attivarsi la risposta dell’ordinamento; discusso è, in altri termini, se l’ordinamento debba intervenire già dinanzi a comportamenti in grado di determinare trasferimenti di ricchezza dai consumatori alle imprese, benché a “costo zero” per la collettività (che significherebbe riconoscere al diritto antitrust essenzialmente il ruolo di normativa volta a perseguire un ideale di giustizia distributiva), oppure solo in caso di iniziative in cui a tale effetto si colleghi anche distruzione di ricchezza, e dunque come tale generatrici di inefficienze per la società nel suo complesso (secondo la nota tesi della Scuola di Chicago). Sul punto, tra gli innumerevoli contributi di dottrina giuridica ed economica, si rinvia a F. DENOZZA, Antitrust, Bologna, 1988; C. OSTI, Antitrust e oligopolio, Bologna, 1995 e, tra gli economisti, F. GOBBO, Il mercato e la tutela della concorrenza, Bologna, 1997. Circa la necessità di definire strumenti correttivi idonei ad agire sia all’interno della vicenda contrattuale che nel più vasto mercato, non sembra inoltre fuori luogo richiamare le parole di P. BARCELLONA, Programmazione e soggetto privato, in Aspetti privatistici della programmazione, I, Atti della Tavola Rotonda tenuta a Macerata, 22-24 maggio 1970, Milano, p. 96, secondo il quale “l’esperienza ha dimostrato ampiamente che il mercato non costituisce lo strumento per l’autoregolazione degli interessi, per l’equa soddisfazione dei bisogni di ciascuno, giacchè nell’ambito del mercato stesso sussistono e si riproducono poteri e istituzioni che esercitano una funzione di condizionamento e di eteroregolazione dei comportamenti individuali; poteri, cioè, che si pongono in una posizione di sovranità rispetto ad altri soggetti privati. Si pone così il problema della protezione del privato dai pericoli e dalle sopraffazioni dell’autoritarismo economico di altri soggetti privati”. Il funzionamento, pur perfetto, “dell’economia, l’efficienza produttiva e l’incremento del reddito nazionale non garantiscono di per sé la giustizia sociale”, così L. RAISER, Il compito del diritto privato. Saggi di diritto privato e di diritto dell’economia di tre decenni, cit., p. 44. La configurazione di strumenti di intervento forti ed incisivi che, depurando i contratti a valle dei riflessi dell’illecito concorrenziale esercitino la propria azione benefica sul più vasto mercato, si rivela inoltre opportuna a fronte della condivisa insufficienza dei poteri di azione e coazione, estremamente contenuti, conferiti all’Autorità Antitrust. 14 Per un esame analitico delle divergenti interpretazioni fornite sul punto, rispettivamente, dalla giurisprudenza e dalla dottrina, si rinvia al Capitolo II.

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appunto dalla necessità di esaminare quali conseguenze - da un punto di vista

strettamente civilistico - patisce il regolamento pattizio e quale protezione debba

accordarsi alla parte debole di un rapporto sperequato che si inserisca in un più

ampio quadro comportamentale volto, dal lato della controparte imprenditoriale, ad

alterare le condizioni di concorrenza del mercato di riferimento.

La complessità del tema nasce quindi dalla esigenza di combinare interessi

pubblici ed interessi di rilievo individuale, nel considerare unitamente il giudizio di

valore espresso dal legislatore con riferimento agli accordi anticoncorrenziali a

monte con l’atteggiamento di sfavore, espresso dal sistema nel suo insieme, nei

confronti di quegli assetti sinallagmatici (a valle) caratterizzati da una sproporzione

tra le rispettive attribuzioni non giustificabile alla luce dell’economia complessiva

del rapporto, ma alla stregua di un abuso del soggetto più forte15.

L’avvicinamento del diritto dei contratti ad un corpus normativo diretto alla

regolazione del mercato (quale il diritto della concorrenza), richiede quindi un

ripensamento della sua funzione ed una maggiore attenzione alla valenza che

assumono le scelte d’impresa in quanto vicende giuridiche ed economiche non

circoscritte, ma suscettibili di produrre effetti esterni (le c.d. esternalità nel

linguaggio dell’economia) di varia natura, talvolta destinati ad avere ricadute su

rapporti negoziali facenti capo anche a soggetti non direttamente coinvolti nelle

strategie collusive.

L’intimo ed al tempo stesso problematico legame che intercorre tra queste due

realtà spiega, quindi, le incertezze che si manifestano nel ricostruire il rilievo e le

ripercussioni che l’accertamento di un accordo anticoncorrenziale genera sui

15 Che la posizione di debolezza in cui si trova la controparte dell’impresa collusa debba essere letta alla stregua non soltanto della disciplina antitrust ma, altresì, di altre disposizioni normative - quali quelle riguardanti la fenomenologia dei contratti d’impresa, che definiscono e individuano gli interessi protetti dei consumatori nell’ambito dei rapporti negoziali finalizzati all’acquisto di beni e servizi - è riconosciuto espressamente da G. GUIZZI, Struttura concorrenziale del mercato e tutela dei consumatori. Una relazione ancora da esplorare, in Foro it., 2004, pp. 481-482. L’Autore, in particolare, ritiene che le suddette disposizioni, in quanto volte a delineare le condizioni di rapporti che si formano necessariamente sul mercato e a definire le garanzie di consapevolezza delle scelte di chi al mercato si rivolge, costituiscono anch’esse, a tutti gli effetti, parte integrante del suo statuto normativo. Per il rilievo che la simmetria tra le figure dell’imprenditore e del consumatore evidenzia l’identità dei fenomeni che li concernono, e dunque gli interessi di cui gli stessi sono portatori, si veda L. SAMBUCCI, I contratti dell’impresa, Milano, 2002, p. 128 ss.

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regolamenti negoziali sottostanti, nella duplice e contestuale necessità - avvertita

tanto dalla dottrina quanto dalla giurisprudenza - di garantire adeguata tutela ai

soggetti che di quelle contrattazioni rappresentano la parte più debole e, al tempo

stesso, la stabilità del mercato.

2. Analisi del contesto e rilevanza del problema:

dalla fiera al dominio delle multinazionali

Ai fini di una migliore comprensione del problema, sembra opportuno focalizzare

preliminarmente l’attenzione su taluni dati ed alcune nozioni che assumeranno

rilievo nel corso della trattazione.

Da un punto di vista “ambientale” l’elemento sui cui si ritiene di dover riflettere,

a sottolineare le conseguenze che il prendere posizione circa i termini

dell’interferenza tra regole del mercato e disciplina negoziale comporta, ruota

innanzitutto attorno alle sostanziali trasformazioni che la società degli scambi ha

conosciuto negli ultimi tempi.

Il sistema di relazioni che caratterizza la nostra epoca ha infatti visto mutare

profondamente, grazie all’impiego delle moderne tecnologie dell’informazione ed

alla definizione di spazi dell’economia di dimensioni globali, sia la natura dei

soggetti che interagiscono sul mercato, sia i modi di svolgimento dell’attività

negoziale 16.

16 A questo riguardo, si vedano anche le considerazioni di V. ROPPO, Il contratto del duemila, op. cit., pp. 5-7, il quale sottolinea che da un’analisi delle conseguenze istituzionali della globalizzazione emerge come i processi di produzione normativa siano caratterizzate da un crescente di un nuovo attore: le grandi compagnie multi- o trans-nazionali. Il diritto vivente che regola le odierne transazioni economiche, ma anche le micro-transazioni di massa su beni o servizi di consumo non scaturisce più, in prevalenza, da leggi dello Stato, “ma in misura crescente s’identifica in corpi di regole prodotte dalle stesse imprese che di quelle operazioni e transazioni sono le protagoniste”. Norme create “a colpi di contratto”, “a colpi di schemi contrattuali sempre pronti ad essere modificati, in un processo di adeguamento serrato e veloce, secondo le mutevoli esigenze delle imprese predisponenti”. Alla esaltazione della forza normativa del contratto, la globalizza zione, peraltro, aggiunge profili di indubbio indebolimento, poiché “il contratto dell’economia e della società globalizzate è un contratto in cui l’esigenza della flessibilità fa premio sui valori della certezza e della stabilità. (…) In breve: una figura di contratto sempre meno tributaria all’idea di

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Il singolo operatore commerciale, difatti, cede sempre più spesso il passo alle

grandi multinazionali e ad entità complesse ed articolate le quali, all’incerto ed

imprevedibile dipanarsi di una corretta gara preferiscono la definizione di standard

comportamentali certi, prevedibili ed uniformi17.

Alla competizione leale, destinata a premiare l’imprenditore più meritevole

(quello che Tullio Ascarelli indicava come il “soggetto economicamente più

vincolo, alla sacertà del pacta sunt servanda , alla metafora della forza di legge; dunque una figura di contratto sempre meno aderente al paradigma della norma, per come tradizionalmente la possediamo”. In merito alla circostanza che la produzione del diritto non sia più una prerogativa esclusiva dei soggetti giuridici ufficiali e che trovi spesso come propri co-autori soggetti privati, M.R. FERRARESE, Le istituzioni della globalizzazione. Diritto e diritti nella società transnazionale, Bologna, 2000, p. 133 ss., parla di fenomeni di “co-titolarità del diritto”. Nello stesso senso si veda altresì G. ROBILANT , Ordini statici e ordini dinamici nella società complessa, in Il pensiero di Friederich von Hayek, a cura di Clerico e Rizzello, Torino, 2000, vol. II, p. 220. Simili considerazioni inducono, tra l’altro, ad abbandonare definitivamente il tradizionale modello di concorrenza perfetta il quale, fondato sull’esistenza di un mercato in cui opera un numero elevatissimo di piccole imprese nessuna delle quali in grado di influire con il proprio comportamento sulla condotta delle altre e sul regime complessivo dei prezzi, confidava nella capacità del mercato di assestarsi, senza alcun intervento dall’esterno, su una posizione di pieno equilibrio. 16 A questo proposito G. GUIZZI, Struttura concorrenziale del mercato e tutela dei consumatori. Una relazione ancora da esplorare, cit., p. 482, sottolinea che, nella misura in cui si accentua il fenomeno della standardizzazione del contratto, la circostanza che questo costituisca un regolamento di interessi non già negoziato ma unilateralmente predisposto dall’impresa, fa sì che la garanzia della correttezza della sua formazione non possa più cogliersi - come era nella logica del codice - nell’imposizione di doveri di comportamento interni ad una trattativa ormai insussistente, spostandosi essa su un piano diverso: un piano che non può essere altro che quello della correttezza del comportamento dell’impresa sul mercato. In tal senso, si vedano anche A.M. AZZARO, I contratti non negoziati, Napoli, 2000; R. ALESSI, Diritto europeo dei contratti e regole dello scambio, in Europa e dir. priv., 2000, p. 970 ss., specie p. 996; L. SAMBUCCI, Il contratto dell’impresa , op. cit., p. 256 ss. La condotta delle imprese diretta a provocare un’alterazione della struttura concorrenziale del mercato e delle dinamiche che ne caratterizzano il normale funzionamento, “sub specie intesa”, configura infatti una modalità d’azione certamente difforme dallo standard comportamentale deontologicamente corretto, non fosse altro perché si tratta di condotte finalizzate, attraverso l’eliminazione del confronto, ad impedire a chi si colloca in posizione di controparte contrattuale di orientarsi liberamente nella scelta tra alternative diverse. Simili pratiche, pertanto, contraggono ulteriormente quella che nel peculiare contesto della contrattazione standardizzata costituisce l’ultimo baluardo di una già ridotta autonomia negoziale: la libertà di scelta. Nel senso che le condotte integranti le fattispecie vietate dalla legge antitrust siano da considerare sempre come non rispettose dei principi di correttezza professionale, tanto da poter integrare fatti rilevanti anche nell’ottica del giudizio di concorrenza sleale, cfr. G.M. BERRUTI, La concorrenza sleale nel mercato. Giurisdizione ordinaria e normativa antitrust, Milano, 2002. 17 Con la definizione di comportamenti convergenti, le imprese colluse, infatti, riducono (talvolta sino ad azzerarlo) il rischio insito in qualunque leale competizione, sottraendosi al principio della lotta ed al conseguente pericolo della sconfitta. Violando le norme a tutela della concorrenza, pertanto, le imprese si sottraggono alla scelta operata dal potere politico di “immergere” i poteri economici nell’incognita del conflitto, così esponendoli alla minaccia dell’insuccesso. In questi termini, N. IRTI, La concorrenza come statuto normativo, cit., p. 62 e p. 66.

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degno”)18, si sostituiscono, prendendo il sopravvento, accordi collusivi finalizzati

alla preventiva ripartizione del mercato, mentre al principio che guarda al prezzo

quale punto di incontro e di perfetto equilibrio tra curva della domanda e dell’offerta

prevale la logica della determinazione congiunta e concordata.

L’innegabile trasformazione dei protagonisti del mercato fa sì, come osservato

dal Commissario europeo Van Miert, che “il comportamento anticoncorrenziale

(…) non tiene conto delle frontiere. Nell’emergere di imprese multinazionali di

sempre maggiori dimensioni (…) è insito il pericolo che esse – sia a livello

unilaterale che in collusione con altre imprese – possono avere la tentazione di

adottare misure restrittive della concorrenza o abusare del proprio potere su tali

mercati globali. Se siffatto comportamento anticoncorrenziale non viene sottoposto

a controllo, non è esagerato affermare che molti dei vantaggi raggiunti in termini

d’apertura dei mercati internazionali potrebbero risultare vanificati”.

A fronte di questa situazione, come vedremo, sempre maggiore importanza

assume quindi la cooperazione bilaterale ma soprattutto multilaterale tra gli Stati

(specie con riguardo alle operazioni di concentrazione), che consente di applicare a

livello mondiale un insieme basilare di regole di concorrenza comuni, esigenza

questa cui ha dato in parte risposta la riforma attuata con il Regolamento CE n.

1/2003 di modernizzazione delle norme per l’applicazione degli articoli 81 e 82 del

Trattato, oggetto di specifica analisi (par. 6, Capitolo I)19.

Alle metamorfosi soggettive si aggiunge inoltre una peculiare connotazione

dell’attività negoziale, la quale, abbandonando i rassicuranti contorni dell’agire

individuale, sembra oggi lasciare il passo all’anonima, spersonalizzata ed uniforme

contrattazione di massa, inseguendo l’allargarsi della dimensione dell’economia e

18 “All’interesse dell’imprenditore ad appropriarsi della probabilità di guadagno corrisponde il pubblico interesse a che i consumatori non siano fuorviati nella loro scelta, sì che il premio del successo vada effettivamente a chi dal pubblico dei consumatori ne è giudicato più degno e sia perciò promossa la produzione e lo smercio di quanto effettivamente preferito dal mercato”, così T. ASCARELLI, Teoria della concorrenza e interesse del consumatore, op. cit., p. 74. 19 In merito si vedano: G.M. BERRUTI, La nuova cooperazione attiva tra Istituzioni comunitarie, Antitrust nazionali e giudici nel Regolamento comunitario n. 1/2003, in Corr. giur., n. 1/2004, p. 115 ss.; D. IELO, L’internazionalizzazione del controllo antitrust: dalla Rete Internazionale della concorrenza al Regolamento n. 1/2003, in Dir. e formaz., n. 12/2003, p. 1693 ss.

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della tecnica e con questa intrecciandosi a rispondere agli imperativi di pura

razionalità e strenua celerità dell’odierno capitalismo.

Dinanzi allo smisurato aumento delle dimensioni dei mercati e del numero degli

scambi che in essi hanno quotidianamente luogo, ed alla complessità della struttura

dei mercati stessi, l’esigenza della semplificazione diventa quindi irrinunciabile.

L’uso di schemi uniformi per tutti gli operatori economici di un determinato

settore ha infatti la finalità di facilitare e snellire il funzionamento dei meccanismi

del mercato concorrenziale, agevolando il confronto che i consumatori sono

chiamati ad effettuare, all’interno di un contesto informativo trasparente, tra i

prodotti offerti in un determinato settore20.

E tuttavia, l’adozione di comportamenti uniformi nelle decisioni e strategie

commerciali può avere per effetto l’appiattimento dell’offerta sul mercato di un

determinato bene, l’uniformazione dei prodotti (anche negoziali), con la conseguente

limitazione della libertà di scelta dei consumatori, ed è, pertanto, sanzionabile (con

la nullità) anche quando sia posta in essere mediante strumenti di per sé leciti.

E’ in questo quadro che le infrazioni anticoncorrenziali, lungi dal rimanere al di

sopra e al di fuori delle relazioni negoziali sottostanti esaurendo sul mercato la

propria forza distorsiva, penetrano invece in maniera decisiva e diffusa nel tessuto

pattizio, alterandone gli elementi essenziali (tra cui, e prima di ogni altro, il

prezzo)21.

La distorsione che a livello macroeconomico si verifica a seguito dell’intervenuta

convergenza di comportamenti concertati tra le imprese operanti in un dato mercato,

idonea ad alterarne in misura consistente il grado di competitività, va infatti di

regola traducendosi, sul piano individuale, nella fissazione di condizioni sperequate

20 Ampie considerazioni ed una vasta bibliografia sul punto si ritrovano in M. BARELA, Teoria della concorrenza e libertà del consumatore: l’insegnamento di Tullio Ascarelli, op. cit., p. 909 ss. 21 “La giustizia del prezzo è nella legalità della sua formazione: in ciò che venditori e compratori abbiano osservato le regole della gara”, così N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, Roma-Bari, 2004, p. 101. Ciò implica, pertanto, che ove le imprese assumano comportamenti contrastanti con i principi della lotta concorrenziale incidenti sul meccanismo di formazione del prezzo, anche la giustizia di questo viene ad essere menomata, così richiedendo l’introduzione di strumenti di riequilibrio tali da ricondurlo alla legalità.

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nei singoli contratti che, uniformi e standardizzati, ogni impresa va a stipulare con la

propria clientela 22.

Il rilievo, del resto, è confermato pure dal dato normativo il quale, all’art. 2 della

legge n. 287/90, nel prevedere in via esemplificativa i comportamenti in cui

tipicamente si concretizzano le intese anticoncorrenziali, richiama le attività di

concertazione tipicamente consistenti nel “fissare direttamente o indirettamente i

prezzi d’acquisto o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali”23 (lett. a), ovvero

nel “subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri

contraenti di prestazioni supplementari che, per loro natura o secondo gli usi

commerciali, non abbiano alcun rapporto con l’oggetto dei contratti stessi” (lett. b,

che prevede il cosiddetto tye-in)24.

22 Già T. ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, op. cit., p. 32 ss. - pur precisando che l’art. 41 Cost. “parte dalla premessa di finalità sociali del sistema economico e dalla negazione che queste finalità possano essere automaticamente raggiunte col solo gioco della concorrenza” - sottolineava come gli accordi anticoncorrenziali finiscano col risolversi in un “grave e fondamentale problema dell’economia mo derna”, eliminando una competizione che si svolge a favore del progresso tecnico e dell’abbassamento di costi. In termini analoghi anche G. GHIDINI, I limiti negoziali alla concorrenza, in Trattato di diritto commerciale, diretto da F. Galgano, Milano, 1981, vol. IV, p. 27. Qualche accenno al fatto che gli accordi limitativi della concorrenza vadano contro l’interesse del consumatore e degli utenti, si rinviene anche in F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1954, vol. III, p. 14 ss. 23 Tra le intese tradizionalmente considerate come le più restrittive, la prassi dell’Autorità annovera in particolar modo quelle relative ai prezzi, ritenute intrinsecamente anticompetitive. A riguardo si è infatti affermato che “una dettagliata analisi dei mercati e delle posizioni delle parti non pare strettamente necessaria, sia per un principio di economia del procedimento, sia e soprattutto sulla base del principio di razionalità degli agenti, per il quale due o più imprese ben difficilmente tenterebbero di eliminare ogni forma di concorrenza tra loro se non si aspettassero che questo comportamento determinasse un aumento dei loro extra -profitti” (così provv. AGCM, Latte artificiale per neonati, in Boll., n. 9/2000). Sul punto, tuttavia, è opportuno dare conto di un orientamento più rigoroso della Corte di Cassazione, la quale, con riferimento ad un’intesa orizzontale ed in riforma di una sentenza della Corte di Appello di Venezia, ha affermato che “la distorsione, reale o potenziale, per essere individuata, impone che se ne accerti in modo rigoroso il riflesso sul mercato nazionale o su di una parte rilevante, come la legge stabilisce. (…) L’affermazione della nullità dell’intesa da parte del giudice ordinario richiede l’accertamento di tale consistenza e l’adeguata motivazione sul punto” (Cass. 1° febbraio 1999, n. 827, in Foro it., 1999, I, p. 831 ss.). 24 Le pratiche di gemellaggio, ovvero quelle tecniche attraverso le quali un’impresa cerca di estendere il potere detenuto in un determinato mercato su un secondo mercato, subordinando la vendita del proprio prodotto (cosiddetto prodotto legante) all’acquisto di un altro prodotto (cosiddetto prodotto legato), ovvero all’accettazione di prestazioni supplementari, rappresentano uno degli aspetti più dibattuti, soprattutto a livello dottrinale, dell’intera politica antitrust. Alla base del disfavore con cui si è soliti guardare le pratiche di gemellaggio, vi è, in particolare, la cosiddetta teoria della leva , in base alla quale l’impresa che detiene un rilevante potere sul mercato del prodotto A potrebbe estendere siffatto potere anche sul mercato del prodotto B semplicemente subordinando la vendita del

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Anche il dettato della norma pare quindi confermare che l’illecito antitrust non

circoscrive il suo ambito di incidenza - per quanto ciò possa essere astrattamente

immaginato - a profili legati esclusivamente alla regolazione del mercato, al

contrario entrando, modificandone le condizioni sia economiche che normative, nei

contratti successivamente stipulati da professionisti o consumatori con l’impresa

collusa.

Questa considerazione vale soprattutto nei settori in cui - come confermato dagli

ultimi provvedimenti dell’Autorità garante - p iù accentuato è il rischio di collusioni

anticoncorrenziali, quali quello bancario ed assicurativo, in cui l’offerta delle

primo prodotto all’acquisto del secondo. Ricostruito in questi termini, il gemellaggio presenta marcati tratti di anticoncorrenzialità, in quanto “sfocia, da un lato, nel costringere i clienti ad accettare un prodotto che non desiderano acquistare altrove; dall’altro, - ed è in ciò che consiste il suo effetto anticompetitivo specifico - costituisce un mezzo per escludere i concorrenti dall’accesso ad un mercato che, normalmente, sarebbe loro accessibile. Allorché consiste nel subordinare la vendita di un bene utensile durevole all’acquisto, per il suo funzionamento, di beni di consumo provenienti dal venditore, la pratica comporta, inoltre, una discriminazione tra acquirenti secondo l’uso più o meno intenso che essi fanno del bene acquistato, nella misura in cui il prezzo dei beni di consumo forniti dal produttore incorpora un sovrapprezzo rispetto al prezzo al quale essi potrebbero essere acquistati sul mercato”, così A. FRIGNANI - M. WAELBROECK, op. cit., p. 553. A questa impostazione concettuale si è replicato, su entrambe le sponde dell’Atlantico, con la cosiddetta teoria dell’invarianza (o fixed sum argument), in base alla quale si sostiene che colui che detiene un certo potere su un determinato mercato non può accrescerlo modificando il modo con cui il profitto viene estratto. Infatti “ove siano necessari due prodotti per fornire un servizio (…), chi monopolizzi l’un bene può estrarre il profitto massimo (corrispondente a quello ritraibile dall’intero servizio) senza bisogno di trapiantare la sua situazione di forza sul versante del prodotto complementare. Se mai, egli dovrà preoccuparsi di minimizzare i costi di quest’ultimo; e sarà, pertanto, interessato a che la sua commercia lizzazione avvenga in condizioni altamente competitive. Ciò perché il consumatore non si cura dei costi separati dei prodotti, ma di quello unitario del servizio: com’esso sia allocato tra le sue differenti componenti, non ha per lui importanza alcuna”, così R. PARDOLESI, Analisi economica della legislazione antitrust italiana, in Foro it., V, 1, 1993, p. 293. Perché la pratica legante possa essere considerata illecita, inoltre, occorre che tra i due prodotti venduti congiuntamente non sussista alcuna connessione (o “rapporto”, come dispone l’art. 2, lett. e) in materia di intese). Simile valutazione, peraltro, rileva A. FRIGNANI, op. cit., 1993, p. 397, risulta tutt’altro che agevole, atteso che “una qualche connessione c’è sempre, soprattutto se misurata secondo gli usi”, come dispongono gli artt. 2, lett. e), e 3, lett. d), della legge antitrust. Variazione della pratica descritta è il c.d. bundling , per effetto del quale il venditore offre due o più prodotti sul mercato sia separatamente che unitamente, applicando in quest’ultima ipotesi una riduzione del prezzo. In questo caso, ponendo particolare attenzione a quello tra i prodotti maggiormente richiesti, si ritiene che, fin quando il consumatore può acquistare i beni separatamente, la pratica sfugga al divieto, in quanto la condotta è da considerare illecita soltanto allorché l’acquisto di un prodotto sia subordinato all’acquisto dell’altro prodotto.

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imprese, non essendo costituita da beni fisici oggetto di scambi negoziali, è

rappresentata in primo luogo proprio dalle relazioni contrattuali con la clientela 25.

Pur non escludendosi che anche nei settori propriamente industriali le scelte

contrattuali siano dotate di particolare valore strategico, si osserva infatti che è

soprattutto nell’ambito bancario e creditizio, come pure in quello assicurativo, che la

caratterizzazione delle condizioni generali di contratto viene a costituire per le

imprese (almeno potenzialmente) la primaria fonte di differenziazione competitiva26.

L’attenzione, a questo proposito, cade in primo luogo sulla clausola determinativa

del prezzo, il quale, in linea generale, non si commisura più né in via esclusiva né

prevalente al bene o al servizio rendendosi valutabile in quanto tale dai potenziali

interessati, bensì alla specificità delle clausole contrattuali, per loro natura sottratte,

soprattutto nella contrattazione di massa, alla piena conoscenza da parte dei soggetti

acquirenti.

In altri termini, il prezzo reale finisce per correlarsi sempre meno alla prestazione

nella sua oggettività, legandosi sempre più al contenuto specifico e concreto del

contratto, ossia a quel dato, per lo più invisibile ai terzi, costituito dal complessivo

25 Attenta analisi circa la natura illecita di intese stipulate tra istituti bancari e creditizi, volte alla fissazione di condizioni generali di contratto standardizzate, è svolta da A. MIRONE, Standardizzazione dei contratti bancari e tutela della concorrenza, op. cit., il quale distingue rispettivamente tra standardizzazione delle clausole “salienti”, standardizzazione “unidimensionale”, abusiva e neutrale, differenziando le conseguenze, in termini di restrizione del grado di concorrenzialità del mercato, che l’imposizione delle medesime condizioni di volta in volta comporta. 26 Secondo G. FLORIDIA, Condizioni bancarie uniformi e tutela del risparmiatore, in AA.VV., La concorrenza bancaria, a cura di L.C. Ubertazzi, Milano, 1985, p. 184, “l’intermediazione finanziaria, in tutte le operazioni attive e passive nelle quali si concretizza, si sviluppa mediante un insieme di negoziazioni e di atti giuridici la cui qualità è rappresentata appunto dalla natura delle condizioni praticate. Sotto questo profilo risulta davvero inaccettabile trasferire nel settore bancario la giustificazione che gli apologeti della contrattazione standardizzata hanno addotto per esaltare gli effetti benefici non solo dal punto di vista della organizzazione aziendale bensì anche dal punto di vista esterno all’azienda della dinamica concorrenziale; costoro, come è noto, attribuiscono alla pratica delle condizioni generali che siano divenute uniformi in un intero settore il merito di creare trasparenza di mercato e quindi di favorire una scelta più consapevole dei consumatori, sul presupposto che questi, ormai liberati da ogni preoccupazione sulle condizioni alle quali è possibile effettuare l’acquisto, sarebbero meglio in grado di valutare le due componenti principali della selezione, è cioè la qualità del prodotto e del servizio”. Sull’equiparazione tra standardizzazione contrattuale e di prodotto, si veda A. MIRONE, op. cit., p. 124, il quale sottolinea che l’uniformazione dei prodotti “fisici” determina un risparmio nei costi di produzione in modo non dissimile da quanto accade con l’uniformazione vessatoria delle relazioni contrattuali, “attraverso la quale si esternalizzano i rischi - ed i conseguenti oneri economici - attinenti alle vicende patologiche (e non) del rapporto”.

34

“trattamento” giuridico dell’operazione economica che si rinviene appunto nelle

clausole negoziali, nei formulari e nelle condizioni generali di contratto predisposte

da uno dei contraenti.

Il prezzo nominale, assunto isolatamente, cessa infatti di assolvere alla sua

semplice e fisiologica funzione di informare adeguatamente e di orientare

razionalmente le forze agenti sul mercato, non rappresentando necessariamente il

bene o servizio più conveniente, posta la sua variabilità in dipendenza dello

specifico “pacchetto” di regole pattizie destinate a disciplinare la relazione

contrattuale27.

E’ invece il contratto stesso, inteso come insieme di clausole e condizioni

negoziali stabilite dal contraente più forte e non più semplice strumento di

circolazione di beni preesistenti, a divenire “bene” a sua volta, singolo momento in

cui quanto definito a monte collegialmente si attua individualmente nella realtà di

mercato.

Per questa ragione, l’eventualità di un abuso da parte dell’impresa non deve

essere valutata avuto riguardo alla sola clausola di determinazione del corrispettivo,

ma anche ed in special modo attraverso una valutazione complessiva dello statuto

normativo del contratto, in cui surrettiziamente entra il contenuto dell’intesa.

Per questo motivo, tra l’altro, da più parti è stata avanzata in passato la proposta

di estendere, sull’esempio di altri ordinamenti giuridici, l’applicazione del diritto

antitrust alle condizioni generali di contratto28 e a svolgere un’analisi combinata -

come implicitamente disposto dalla norma dell’art. 2 citato - circa i relativi profili

normativi ed economici.

27 Considerazioni di questo tipo si rinvengono, altresì, in G. VETTORI , Le asimmetrie informative…, cit., p. 242, il quale sottolinea, in particolare, che la mutata funzione del corrispettivo - non più indice di convergenza degli interessi e parametro di equilibrio delle posizioni negoziali delle parti - costituisce un fattore di opacità ed una vera e propria barriera informativa sul mercato che limita la libertà di concorrenza e la libertà di contratto. Sul valore giuridico di queste libertà economiche, ID., Carta europea e diritto dei privati, in Persona e mercato, Padova, 2002, p. 51 ss. 28 Cfr. L.C. UBERTAZZI, Concorrenza e norme bancarie uniformi, op. cit., p. 104, il quale riteneva opportuno - prima dell’entrata in vigore della legge 6 febbraio 1996 n. 52 attuativa della direttiva 93/13/CE relativa alle clausole abusive nei contratti con i consumatori - seguire in materia di contratti standard gli esempi di ordinamenti giuridici “più evoluti” quale quello tedesco che, per controllare questi contratti, attivano contemporaneamente la normativa generale antitrust e la disciplina specifica in materia di condizioni generali di contratto.

35

Sebbene infatti la standardizzazione dei modelli contrattuali - diffusa non solo

all’interno dell’attività della singola impresa, ma di interi settori economici e

caratterizzante in generale l’attività negoziale delle moderne società capitalistiche in

cui la produzione e distribuzione dei beni e servizi è fortemente massificata29 - s i

presti ad avvantaggiare il cliente- utente sia sul piano indiretto del minor prezzo

d’offerta del bene 30 o servizio sia dal punto di vista informativo - rendendo più

facilmente comprensibili e confrontabili le offerte sul mercato31 - si ritiene

opportuno sottoporre il fenomeno ad un controllo più esteso e pervasivo 32.

29 La circostanza che l’analisi relativa alle conseguenze che il singolo contratto a valle debba essere svolta non isolatamente, ma tenendo ben presente che l’accordo si inserisce nel contesto complessivo della contrattazione bancaria uniforme, è sottolineato da F. PARRELLA, Disciplina antitrust nazionale e comunitaria, nullità sopravvenuta, nullità derivata e nullità virtuale delle clausole dei contratti bancari a valle, cit., p. 519, il quale, anche per questa ragione, critica la più volte menzionata sentenza del Tribunale di Alba, 12 gennaio 1995. 30 Come rileva N. SALANITRO, Disciplina antitrust e norme bancarie, cit., p. 419, nessuno nega che la predisposizione uniforme dei testi contrattuali presenti dei vantaggi che per i clienti possono essere anche di natura economica, nella misura in cui si riducono i costi della formazione dei contratti e la loro traslazione sugli stessi clienti. Tuttavia, perché la normativa antitrust non venga ad essere violata, è necessario che alla uniformizzazione di alcune clausole faccia da contrappeso, attraverso un esame dei comportamenti fattuali sul mercato, un effettivo grado di differenziazione dei prodotti offerti dalle singole imprese. Con riguardo al caso analizzato dall’Autore, in particolare, si rammenta che la Banca d’Italia, con provvedimento 3 dicembre 1994, n. 12, pur lasciando impregiudicata la questione della nullità o meno delle clausole dei contratti bancari riproduttive delle N.B.U. contrastanti con la normativa antitrust, aveva censurato, in quanto lesive del principio di libera concorrenza, quelle che: “a) stabiliscono le date di decorrenza della valuta e le cadenze di capitalizzazione degli interessi; b) regolano la compensazione volontaria a favore della banca; c) stabiliscono esoneri di responsabilità a favore della banca; d) stabiliscono termini di decadenza; e) fissano termini o modalità per l’esercizio di facoltà o per l’adempimento di obblighi; f) prevedono il rinnovo negoziale tacito alla scadenza; g) modificano (in senso sfavorevole al cliente) la disciplina stabilita dal codice civile relativamente alla restrizione dell’azione di regresso e all’opponibilità delle eccezioni da parte del fideiussore”. Sul tema si veda anche F. PARRELLA, op. ult. cit. 31 Si è infatti ritenuto a questo proposito che “un certo grado di uniformità dei contratti riguardanti prodotti bancari e finanziari può agevolare il confronto e quindi la scelta da parte della clientela delle prestazioni più convenienti” (lettera circolare della Banca d’Italia 21 marzo 1995). Ancor più esplicitamente nel provvedimento n. 12/1994, la Banca d’Italia ha ribadito che “tale uniformità è da valutare positivamente se favorisce il confronto e agevola il consumatore nella scelta dell’impresa che offre le condizioni economiche più vantaggiose. L’offerta di uno stesso prodotto o servizio bancario regolato da contratti tra loro ampiamente diversi per forma e struttura potrebbe infatti rendere più difficoltosa la loro valutazione sostanziale e quindi la scelta da parte della clientela delle prestazioni più convenienti”. Per questa ragione, sottolinea G. GALASSO, Contratti bancari uniformi e regole di concorrenza nei provvedimenti della Banca d’Italia, in Riv. dir. dell’impr., 1995, p. 567 ss., le condizioni uniformi hanno trovato la loro sede naturale nella sfera di quelle categorie di intese che possono, in presenza di determinate circostanze, beneficiare dell’esenzione ex art. 4 della legge antitrust. L’utilità delle condizioni generali di contratto, del resto, si coglie in ciò, che “l’aderente, il cliente, il consumatore, l’utente, è un soggetto inserito nella dinamica della velocità: svolge la sua vita in ambiti relazionali caratterizzati dalla rapidità del desiderio, della scelta, della decisione”, così F. DI MARZIO, op. ult. cit., p. 727; “Egli è per definizione un uomo che ha fretta”, così G. GORLA,

36

I benefici che l’uniformazione del regolamento negoziale è in grado di apportare

vengono infatti spesso compromessi dal suo sostanziale risolversi in un’imposizione

unilaterale del contenuto contrattuale al cliente, per interessi di cui l’imprenditore è

portatore non più solo o non tanto come singolo, ma come parte di un gruppo o

dell’intera categoria cui volontariamente aderisce33.

Nella misura in cui il contratto è sempre più standardizzato, predisposto e non

negoziato, il dovere di correttezza si trasferisce quindi dal piano delle trattative -

ormai appiattite sulla scelta di un’impersonale adesione o rifiuto a quanto

unilateralmente ed uniformemente stabilito - a quello del comportamento

dell’impresa sul mercato34.

La circostanza che la realtà degli scambi abbia visto mutare così profondamente

non solo l’estensione delle relazioni ma, ancora prima, la stessa fisionomia dei

soggetti interagenti sulla scena - non più confinati nell’imprenditore singolo, ma

estesi alla potenza prevaricatrice delle multinazionali, delle associazioni di

Condizioni generali di contratto e contratti conclusi mediante formulari nel diritto italiano, in Riv. Dir. Comm., 1964, I, p. 114. 32 In questo senso, S. FORTUNATO, I contratti bancari: dalla trasparenza delle condizioni contrattuali alla disciplina delle clausole abusive, in Dir. della banca e del mercato finanz., 1996, p. 14 ss. 33 Cfr. provv. AGCM: 2 luglio 1993, Ania, in Boll., n. 15-16/93; 27 settembre 2000, Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri, in Boll., n. 39/00; 29 luglio 2004, Anfima, in Boll., n. 27/04. La necessità di una valutazione in termini antitrust discende in particolare dal fatto che l’obiettivo della standardizzazione delle condizioni di contratto - che l’impresa persegue in risposta alle esigenze di semplificazione delle procedure di contrattazione relative alle operazioni bancarie di massa - è in realtà conseguibile autonomamente da ciascuna impresa. A rigore, infatti, non è necessario che le condizioni generali siano uniformi per tutte le imprese che operano in un determinato settore economico. Per questa ragione, rileva F. PARRELLA, op. ult. cit., p. 514, la Banca d’Italia da un lato ha vietato all’ABI di raccomandare tout court alle proprie associate l’adozione delle N.B.U., e d’altro canto ha disposto la soppressione di quelle N.B.U. che, concorrendo a definire l’oggetto del contratto e non essendo giustificate né da esigenze tecniche di funzionamento del servizio offerto né dall’economia complessiva del rapporto, devono essere rimesse all’autonoma determinazione di ciascuna banca con la propria clientela, sì da salvaguardare una concorrenza effettiva tra le imprese bancarie, destinata a ripercuotersi beneficamente anche sul piano dei rapporti contrattuali tra banca e cliente in termini di crescita del livello di correttezza delle banche già nella fase di determinazione del regolamento contrattuale. 34 In questo senso G. GUIZZI, Struttura concorrenziale del mercato e tutela dei consumatori. una relazione ancora da esplorare, cit., p. 482. “Tramontata è l’idea romantica di contratto”, “Lo scambio seriale dei beni testimonia la perdita irreversibile della negoziazione nell’esperienza quotidiana. L’impressione è che la contrattazione si sia dislocata prima e oltre il contratto”, così F. DE MARZIO, op. ult. cit., p. 727.

37

categoria35 e dei gruppi dall’identità transnazionale - richiede pertanto di riferire

l’analisi ad un contesto più esteso e con lo sguardo rivolto all’intero mercato.

Abbandonando la prospettiva del singolo contratto e procedendo ad una

valutazione complessiva del fenomeno della contrattazione standardizzata, ci si

avvede infatti che il singolo atto a valle posto in essere da ciascuna impresa collusa

non è indifferente dal punto di vista antitrust, concorrendo anch’esso, insieme a tutti

gli analoghi atti compiuti dalle altre imprese aderenti all’infrazione

antimonopolistica, alla realizzazione cumulativa dell’effetto anticonconcorrenziale

vietato.

La verifica della validità o comunque dei riflessi che il regolamento pattizio a

valle subisce deve allora essere compiuta in una prospettiva che, trascendendo il

microcosmo del singolo contratto, ne valuti la liceità e la validità calandolo

all’interno del fenomeno complessivo ed unitario della contrattazione uniforme.

Esaminando il contratto impresa-cliente in un’ottica esclusivamente atomistica,

infatti, si finirebbe erroneamente per affermare che: 1) il contratto, da solo, non ha

ad oggetto né produce l’effetto di restringere in maniera consistente la concorrenza

35 A riguardo, P. FATTORI e M. TODINO, La disciplina della concorrenza in Italia , Bologna, 2004, p. 68, sottolineano che il ricorso alle associazioni di imprese per porre in essere un coordinamento illecito delle condotte commerciali è un fenomeno molto ricorrente, sia perché la concertazione, specie quando il numero di imprese coinvolte è elevato, può essere raggiunta più facilmente attraverso un organismo comune, sia perché l’azione in forma associata garantisce una sorta di “scudo” che consente alle singole imprese di attenuare la propria responsabilità diretta. Lo schermo istituzionale della associazione di categoria si presta quindi, attesa la sua naturale funzione meramente associativa, a dissimulare rapporti fra le imprese con finalità anticoncorrenziali. In sede nazionale, peraltro, nonostante le facilitazioni di ordine probatorio che l’Autorità incontra nell’accertare la restrittività di un atto anticoncorrenziale imputabile ad un organismo comune, problemi non secondari emergono dal punto di vista sanzionatorio. Le associazioni di imprese, infatti, non solo non generano un fatturato in senso tecnico su cui calcolare la sanzione ai sensi dell’art. 15, comma 1, della legge n. 287/90, ma generano di regola disponibilità finanziarie molto limitate e non è previsto che i singoli associati rispondano in solido con l’associazione per il pagamento. Per questo è accaduto che, al fine di garantire piena efficacia alle sanzioni irrogate, singole imprese affiliate siano state chiamate a rispondere delle condotte dell’associazione, o perché le condotte delle une e dell’altra non erano chiaramente distinguibili, oppure perché l’associazione non aveva svolto una funzione propulsiva rilevante (cfr. provv. AGCM, 9 ottobre 1997, Associazione Vendomusica/Case discografiche multinazionali e altri, in Boll., n. 49/97). Al contrario, l’infrazione è imputata solo all’associazione ove essa svolga un ruolo attivo ed indipendente tale da impedire alle singole associate di adottare comportamenti autonomi (cfr. provv. AGCM, 3 febbraio 2000, Inaz Paghe/Associazione nazionale consulenti del lavoro, in Boll., n. 5/00).

38

fra le imprese colluse su un dato mercato36; b) l’impresa non detiene singolarmente,

su tale mercato né su una parte rilevante di esso, una posizione di dominanza di cui

poter abusare.

Diversamente, inserendo l’analisi in un contesto più ampio, si assume la giusta

prospettiva alla cui stregua valutare se, con riguardo ai primi, sia effettivamente

possibile ragionare in termini di nullità in via derivata o per vizio autonomo, oppure

escludere radicalmente l’ipotesi invalidativa ricercando conseguenze in termini

rimediali di altra natura.

Da queste considerazioni pare inoltre chiaro che l’argomento che ci occupa

richiama inevitabilmente la più ampia tematica del rapporto tra mercato e diritto, tra

regole dello scambio e disciplina generale del contratto che, non più concepibili

come in passato in termini di alternatività esclusiva, impongono una riflessione ed

un esame congiunto dei fenomeni collusivi anticoncorrenziali i quali, come chiarito,

pur assumendo rilievo immediato sotto un profilo di disciplina del mercato,

36 In termini di diritto antitrust, deve ricordarsi che la valutazione di anticoncorrenzialità di un singolo patto, di natura negoziale o semplicemente comportamentale, discende da una considerazione estesa al contesto ambientale in cui esso si colloca. La circostanza che un singolo atto appaia di per sé innocuo, non esclude infatti il sindacato dell’Autorità garante ove esso concorra con altri atti della stessa natura a determinare il c.d. “effetto di blocco”. A titolo di esempio, si citi la recente sentenza del Tar del Lazio n. 8368 del 3 settembre 2004, in cui il Collegio afferma in primo luogo, con riguardo ai tariffari relativi all’attività di amministratore di condominio, che “ciascun tariffario costituisce singolarmente un’intesa che restringe in maniera consistente la concorrenza sul mercato tenuto conto che i geometri iscritti all’albo e le associazioni di categoria coprono una parte considerevole del mercato”. A ciò il Collegio aggiunge inoltre che “l’adozione di tariffari riguardanti il prezzo del servizio da parte di associazioni che riuniscono una larga parte degli operatori del settore dà luogo ad intese che restringono in modo consistente la concorrenza, in quanto ciascun singolo tariffario, indipendentemente dal numero degli operatori che interessa, concorre a determinare un effetto complessivo e cumulativo di limitazione del comportamento degli amministratori condominiali professionisti nella fissazione dei prezzi nei vari ambiti locali nei quali operano gli aderenti alle associazioni”. La legittimità del provvedimento antitrust viene quindi riconosciuta alla stregua del fatto che esso “non sanziona una unica intesa restrittiva della concorrenza tra i singoli soggetti collettivi coinvolti nel procedimento, ma piuttosto considera come singole intese restrittive i comportamenti di ciascuno di tali soggetti, in quanto preordinati alla fissazione degli onorari minimi per le prestazioni degli associati con effetto di comprimere su uno dei più qualificanti elementi dell’attività svolta”. In senso conforme anche i provv. AGCM: 2 luglio 1993, Ania, cit.; 14 dicembre 1994, Tariffe amministratori di condomini, in Boll., n. 50/94; 27 marzo 1997, Associazione italiana editori, in Boll., n. 13/97; 9 ottobre 1997, Associazione Vendomusica/Case discografiche multinazionali-Federazione industriale musicale italiana, cit.; 3 febbraio 2000, Inaz Paghe/Associazione nazionale consulenti del lavoro, cit.

39

involgono altresì i singoli regolamenti negoziali che da quelle stesse intese

scaturiscono in via più o meno diretta37.

Come appare di immediato rilievo, infatti, il problema delle connessioni e dei

condizionamenti reciproci tra disciplina del contratto e violazione delle norme di

regolazione del mercato, lungi dall’esaurirsi in una questione di collocazione

sistematica dell’argomento oggetto di indagine nell’ambito delle categorie

codicistiche della tradizione, si presenta decisamente più ampio, involgendo profili

di intersezione e di ineliminabile commistione tra realizzazione di interessi pubblici

e protezione di interessi particolari, richiedendo di verificare con quali modalità ed

in quale misura la violazione dei principi di comportamento tesi ad informare

l’economia di mercato può condizionare il libero esplicarsi dell’autonomia negoziale

dei soggetti operanti in tale contesto, intaccando la validità degli atti in cui tale

autonomia si manifesta.

Alla luce dei recenti mutamenti di derivazione comunitaria, infatti, si potrebbe

affermare, formulando il giudizio in termini non perentori, che la delimitazione della

sfera di autonomia riconosciuta ai privati dalla norma dell’art. 41 Cost. è la risposta

ad una esigenza di strutturazione del mercato, in tal modo rimandando alla istanza di

definizione, nei suoi lineamenti essenziali, della cornice giuridica entro cui è

consentito alle relazioni tra privati di dispiegarsi liberamente. Difatti, il mondo reale degli scambi difficilmente ed assai raramente vede il

concorso di tutte quelle cond izioni che, secondo il paradigma teorico, assicurano il

dispiegarsi della concorrenza e, dunque, il raggiungimento di quell’equilibrio cui si

lega il miglior soddisfacimento degli interessi in campo, in particolare dei

consumatori, quali acquirenti finali dei prodotti e dei servizi offerti.

In altre parole, nel mondo reale, sono molteplici i fattori che possono condurre al

fallimento del mercato, tra cui primeggia soprattutto la crescente asimmetria di

37 L’ostacolo principale consiste quindi, in primo luogo, nello stabilire, con riferimento ad un determinato momento storico, quale sia il limite entro cui l’intervento legislativo è legittimato ad incidere sugli atti negoziali attraverso i quali le parti regolamentano liberamente i propri interessi: “Il problema dell’autonomia privata finisce infatti per confondersi, al livello del diritto privato, con il più generale problema dei rapporti tra stato e cittadini, della dialettica autorità-libertà: esso è, in sostanza,

40

potere economico e negoziale tra i soggetti che operano, rispettivamente, in veste di

venditori ovvero di acquirenti.

A fronte di questa realtà effettuale, così distante dal modello ispirato al mercato

concorrenziale, nelle varie esperienze giuridiche è emerso da tempo il problema

della salvaguardia dell’equilibrio contrattuale, della “giustezza” del contenuto

negoziale in termini di giustizia sostanziale.

A ben vedere, a questa specifica problematica hanno inteso fornire una prima

risposta di ordine generale gli importanti strumenti di intervento già ricompresi nella

nostra disciplina codicistica in materia di contratti, tra cui, in primo luogo, la

clausola generale di buona fede.

Tali strumenti correttivi, tuttavia, sono stati chiamati ad intervenire

contemporaneamente su due fronti sensibilmente diversi tra loro. Da una parte,

infatti, gli strumenti codicistici della tradizione sono stati impiegati sul versante

rappresentato dalle carenze che impediscono al mercato di funzionare con efficienza

e che pregiudicano il conseguimento di un risultato equilibrato all’interno di

contratti che altrimenti sarebbero “completi”, con tale termine indicandosi i contratti

che normalmente si inseriscono nel mercato ed in cui ciascuno dei contraenti orienta

le proprie scelte sulla base di dati esterni assunti oggettivamente.

I medesimi strumenti correttivi presenti nel codice sono stati però impiegati

anche con riguardo a contratti inseriti in un ambiente in cui il mercato invece è già

decisamente compromesso, a fronte di accordi negoziali scientemente impiegati in

alternativa al mercato38 ed in cui le scelte effettuate da ciascun contraente sono

direttamente condizionate dalle azioni delle controparti in interazioni strategiche.

un problema sociale e politico, più ancora che giuridico”, in questi termini F. GAZZONI, Equità e autonomia privata, 1970, p. 188. 38 La stipulazione di intese anticoncorrenziali, come mette in luce N. IRTI, La concorrenza come statuto normativo, in La concorrenza tra economia e diritto, op. cit., p. 60, escludendo di per sé la possibilità ed i connessi rischi della lotta fra competitori - che costituisce “l’essenza propria del metodo competitivo”- altera altresì il meccanismo di scelta attraverso cui i destinatari del leale competere esprimono la loro preferenza in merito all’offerta maggiormente rispondente alle proprie esigenze. Pertanto, impedendo il leale confronto tra gli imprenditori operanti in un determinato mercato, l’intesa illecita distorce il criterio selettivo che, attraverso la scelta dei soggetti cui si indirizzano le proposte concorrenti, premia le imprese più meritevoli, garantendone la persistenza o l’ingresso al mercato.

41

La differenza tra le due categorie di contratti permette quindi di cogliere con

maggiore chiarezza la progressiva inadeguatezza dello strumentario contenuto nella

nostra codificazione destinato a correggere gli squilibri contrattuali.

Infatti, anche a voler ammettere che tali strumenti siano efficienti ed adeguati

nella correzione degli squilibri legati alla presenza di disparità di potere negoziale

tra le parti della singola contrattazione, devesi poi riconoscere come l’equilibrio

ristabilito sia comunque destinato a rimanere circoscritto alla singola operazione

contrattuale. Ma la correzione del singolo specifico contratto costituisce una risposta

debole ed inadeguata là dove lo squilibrio da combattere è dovuto ad un fenomeno

come le intese anticoncorrenziali, i cui effetti negativi si traducono in un mancato

funzionamento del gioco concorrenziale che poi si riflette in termini negativi

sull’intero sistema.

Gli strumenti offerti dal nostro codice civile, pensati per una realtà degli scambi

ben diversa e lontana dalla attuale 39, possono quindi continuare ad intervenire in

misura episodica su ipotesi in cui il contratto rivela una patologia sociale, non anche

in relazioni negoziali standardizzate fisiologicamente caratterizzate da una disparità

sostanziale tra le parti.

Perché si possa garantire l’effettività della competizione nei vari mercati è quindi

necessario che tale libertà negoziale venga contenuta entro gli argini della legalità,

39 Come ricorda N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, op. cit., p. 106-107, “il linguaggio legislativo evoca, non gli scambi anonimi del mercato, ma la relazione negoziale tra soggetti determinati, l’uno dei quali cade in errore o subisce violenza o inganno. Si tratta ormai di sciogliersi da questa logica (che sarà pur sempre efficace nei negozi individuali e solitari, dove conserva rilievo l’identità delle parti), e di elaborare una tutela del consenso negli scambi del mercato”. Particolarmente significative, sul punto in esame, le parole di F. DI MARZIO, op. ult. cit., p. 725, secondo il quale “La vicenda prima legislativa poi dottrinale e giurisprudenziale dei contratti seriali evidenzia da sessant’anni l’estrema difficoltà e infine l’incapacità del politico e del tecnico di restituire credibilità e legittimazione al contratto come meccanismo di uno scambio economico basato sulla libertà di autodeterminazione. L’intangibilità del contratto e la sua preservazione dall’intervento del pubblico potere hanno favorito l’attuazione della sperata libertà di autodeterminazione. L’intangibilità del contratto e la sua preservazione dall’intervento del pubblico potere hanno favorito l’attuazione della sperata libertà di tutti in prepotenza di alcuni e soggezione di altri. Hanno inoltre determinato la divaricazione tra governo del mercato e governo degli atti di autonomia privata”.

42

ben potendo al contrario essere esercitata in senso anticoncorrenziale, ossia nella

direzione di frenare o eliminare la concorrenza40.

Al profilo più propriamente repressivo deve però aggiungersi anche un intervento

di natura propulsiva, atteso che il semplice riconoscimento (o ripristino) dei principi

di libertà contrattuale non garantisce, di per sé, la fioritura di quelle iniziative che

sono auspicabili perché possa dirsi operante un principio di concorrenza effettiva41.

Aderendo a quanto sapientemente osservato da autorevole dottrina, può infatti

concludersi che nel nostro ordinamento il “bene giuridico” concorrenza assume

rilievo in una triplice veste, ovvero come libertà di concorrenza, come tutela della

concorrenza e come promozione della concorrenza 42, profili questi che, seppure

distinti, si integrano e completano a vicenda.

40 Come evidenzia M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, in Riv. dir. comm., 2002, I, p. 433 ss., si può riconoscere facilmente che fra libertà contrattuale e libertà di iniziativa economica (e quindi di fare concorrenza), da un lato, e concorrenza effettiva, dall’altro, non vi è corrispondenza biunivoca, dovendosi altresì distinguere tra libertà di concorrenza e tutela della concorrenza. In questo senso, può affermarsi che “dove c’è la concorrenza c’è il mercato, ma non viceversa, e che il mercato è propedeutico alla concorrenza”, così F. GOBBO, Il mercato e la tutela della concorrenza, op. cit., p. 13. 41 Come osserva M. LIBERTINI, op. ult. cit., p. 434, infatti, l’insufficienza del semplice riconoscimento della libertà di iniziativa economica all’instaurazione di un mercato effettivamente concorrenziale, può essere confermata dall’abolizione dei vecchi monopoli legali che, lontana dall’aver garantito una situazione di libera competizione, ha quasi sempre richiesto l’avvio di un’attività amministrativa di promozione della concorrenza, ovvero di una regolazione tendenzialmente provvisoria ed “asimmetrica” - caratterizzata da obblighi specifici a carico dei soli ex-monopolisti - in funzione pro-concorrenziale. 42 Si rileva, che il profilo della promozione della concorrenza è espressamente riconosciuto ed elevato a principio generale dalla legge 14 novembre 1995, n. 481 (“Norme per la concorrenza e la regolazione dei servizi di pubblica utilità. Istituzione delle Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità”, pubblicata in G.U. 18 novembre 1995, n. 270), la quale sancisce che “le disposizioni della presente legge hanno la finalità di garantire la promozione della concorrenza e dell’efficienza nel settore dei servizi di pubblica utilità (…), promovendo la tutela degli interessi di utenti e consumatori, tenuto conto della normativa comunitaria in materia e degli indirizzi di politica generale formulati dal Governo. Il sistema tariffario deve altresì armonizzare gli obiettivi economico-finanziari dei soggetti esercenti il servizio con gli obiettivi generali di carattere sociale, di tutela ambientale e di uso efficiente delle risorse”(art. 1, comma 1); “le disposizioni del presente articolo costituiscono principi generali cui si ispira la normativa relativa alle Autorità” (art. 2, comma 2). In questa direzione, si veda I. MUSU, Il valore della concorrenza nella teoria economica, in La concorrenza tra economia e diritto, cit., p. 5, secondo il quale “la concorrenza non va solo promossa e tutelata con regole, ossia con leggi e regolamenti amministrativi, ma con politiche, ossia con la creazione di un ambiente favorevole. Regole e politiche sono entrambe necessarie per promuovere la concorrenza”.

43

Perché sia garantita la competizione effettiva tra le imprese operanti sul mercato,

difatti, non è sufficiente la semplice libertà di iniziativa economica e di concorrenza,

occorrendo a tal fine una politica attiva di sostegno della dinamica concorrenziale 43.

Quest’ultima, in effetti, può valersi sia di strumenti incentivanti - quali

sovvenzioni e regolazioni amministrative proconcorrenziali - che di strumenti

repressivi - quali norme e sanzioni antitrust44.

L’idea di base è quindi che la concorrenza debba essere valutata come processo,

ossia come insieme di regole di comportamento che regolano dall’esterno le

condizioni della interazione tra chi opera nell’economia, piuttosto che per i risultati

di tale rapporto. Ciò, del resto, è certamente in armonia con l’esigenza che la

concorrenza diventi un vero e proprio valore che, assorbito ed abbracciato dalla

cultura di una società, possa tradursi in leggi, regolamenti ed istituzioni efficaci45.

43 Questo legame è ravvisato da N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, cit., pp. 99-100, il quale afferma che “la libertà di iniziativa economica non è soltanto libertà di promuovere o non promuovere un’attività industriale o commerciale o finanziaria, ma anche libertà di accesso , libertà di entrare in un certo campo di affari e di competere con altri. Di qui la connessione, insieme storica e logica, tra libertà di iniziativa economica e disciplina della concorrenza”. Così pure F. MESSINEO, Il contratto in genere, in Trattato di dir. civ. e comm., diretto da A. Cicu e F. Messineo, Milano, 1973, p. 42 s., secondo il quale “la libertà (o autonomia) contrattuale (o, in più larga accezione, negoziale) dipende concettualmente (e ne è la principale articolazione) dalla cosiddetta autonomia privata (che, a sua volta, è il riflesso della libertà economica)”. 44 La rilevanza costituzionale del principio concorrenziale è peraltro confermata dalla sua stessa collocazione accanto alle altre materie attribuite alla competenza esclusiva dello Stato in materia di politica economica (moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari, sistema valutario e contabile, perequazione delle risorse finanziarie) elencate all’interno del medesimo art. 117, comma 2, lett. e), della Costituzione. In altre parole, la contestuale collocazione nel medesimo precetto costituzionale di alcune parole-chiave dell’economia (moneta, tutela della concorrenza, tutela del risparmio e mercati finanziari), suggeriscono di qualificare la tutela della concorrenza come una delle leve della politica economica statale: in quanto strumento di politica economica, la tutela della concorrenza non può quindi essere intesa soltanto in senso statico, come garanzia di interventi di regolazione e ripristino di un equilibrio perduto, ma anche in quell’accezione dinamica, ben nota al diritto comunitario, che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali. In un contesto di ripartizione in senso federalistico della competenza, rispettivamente, dello Stato e delle Regioni, gli interventi dell’autorità nazionale a tutela e promozione della concorrenza sono dunque legittimi nella misura in cui perseguono finalità che attengono allo sviluppo dell’intero paese. L’intervento statale, in altri termini, si giustifica per la sua rilevanza macroeconomica: appartengono invece alla competenza legislativa concorrente e residuale delle regioni gli interventi incentrati sulla realtà produttiva locale. 45 I. MUSU, Il valore della concorrenza nella teoria economica, cit., p. 26, ritiene infatti che “la concorrenza è un valore strumentale all’affermazione di altri valori fondamentali quali l’incentivo all’innovazione, la responsabilità, la lealtà verso i contraenti, l’esercizio del diritto di iniziativa economica, che sono valori essenziali non meno importanti dell’altruismo e della solidarietà per dare alla persona opportunità e dignità nel suo vivere sociale”.

44

La stretta interrelazione sussistente tra disciplina giuridica del mercato e teoria

generale del contratto - che verrà in luce dall’indagine - presuppone quindi una

riflessione complessiva intorno alle categorie concettuali della tradizione civilistica,

al fine di chiarire quali ripercussioni il riconoscimento di una sempre più penetrante

ed incisiva tutela dei valori propri dell’economia di mercato esplichi sugli atti in cui

l’autonomia privata si esprime e concretizza46.

3. Contratti dei consumatori e contratti d’impresa:

la disciplina della contrattazione diseguale quale sottosistema della disciplina della concorrenza e del mercato

La penetrazione di istanze di giustizia contrattuale nel diritto del mercato, trova

significative conferme nella vasta normativa di derivazione comunitaria a tutela del

consumatore, normativa che ha ormai la consistenza di un vero e proprio corpus

complesso ed articolato e che ha segnato in senso fortemente innovativo

l’evoluzione del diritto contrattuale 47.

46 Sul nesso tra contratto e mercato, si rinvia, tra i numerosi contributi, a N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, cit., p. 41 ss.; G. OPPO, Impresa e mercato, in Riv. dir. civ., 2001, I, p. 423; P. PERLINGIERI , Nuovi profili del contratto, in Riv. crit. dir. priv., 2001, p. 225; A. GENTILI, I principi del diritto contrattuale europeo: verso una nuova nozione di contratto?, in Riv. dir. priv., 2001, p. 25; N. LIPARI , Diritto e mercato della concorrenza, in Riv. dir. comm., 2000, I, p. 315; U. MATTEI, Il nuovo diritto europeo dei contratti, tra efficienza ed eguaglianza. Regole dispositive, inderogabili e coercitive, in Riv. crit. dir. priv., 1999, p. 611; G. GUIZZI, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, op. cit., p. 67. 47 In questa direzione si muove, innanzitutto, la disciplina in materia di clausole vessatorie di cui agli artt. 1469-bis ss. cod. civ., la quale dirige verso i contratti conclusi tra professionista e consumatore connotati da un significativo squilibrio normativo, il rimedio dell’inefficacia. Simile considerazione ha determinato in parte della dottrina - si veda, ad esempio, V. ZENO-ZENCOVICH, Diritto europeo dei contratti (verso la distinzione tra “contratti commerciali” e “contratti dei consumatori”), cit., il convincimento che vi sia ormai spazio sufficiente per accreditare - ad onta dell’unificazione della disciplina contrattuale avutasi nel 1942 a seguito dell’assorbimento del codice di commercio in quello civile - la distinzione tra “contratti commerciali” e “contratti dei consumatori”: “il processo che si è avviato (…) è quello della creazione di regole distinte a seconda che una delle parti sia o non sia un consumatore. E’ dunque la qualità del soggetto (o, se si vuole, il suo status) a determinare la norma applicabile ai rapporti negoziali”. Coglie la portata innovativa della novella al codice civile anche N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, Roma-Bari, 1998, p. 100, rilevando che “gli artt. 1469-bis/1469-sexies non si lasceranno ridurre docilmente a diritto eccezionale (…). E’ piuttosto da credere che da questo corpo estraneo partiranno impuls i di carattere sistematico, dapprima incerti, poi ambiziosi e prepotenti, per i quali uscirà ridisegnata l’intera disciplina dei contratti”.

45

La fitta normativa a tutela del consumatore ha infatti introdotto nel quadro della

disciplina comune, elementi di forte dissonanza, moltiplicandosi regole e rimedi che

mirano a garantire imperativamente un certo equilibrio del contratto48 e che,

inizialmente circoscritte al solo ambito definito dai contratti dei consumatori, mostra

una forza espansiva tale da aver indotto la dottrina più accorta ad attribuire a questo

nuovo modello contrattuale la consistenza di un “nuovo paradigma”49.

48 Significativo impulso all’evoluzione normativa in questa direzione è stato fornito, in primo luogo, dalla Costituzione, consacrando i valori di uguaglianza e solidarietà ed ancorando all’utilità sociale prerogative legate ad istanze individuali quali l’iniziativa economica privata e la proprietà. A questo riguardo, la Corte Costituzionale, con sentenza del 23 aprile 1965, n. 30, in Giur. civ., 1965, p. 300, ha espressamente riconosciuto il “principio della doverosa tutela delle posizioni economiche più deboli” - espresso in “svariate norme costituzionali” - che deve indurre a “ritenere che ogni legge intesa a realizzare questa soddisfi un interesse che la stessa Carta costituzionale considera attinente all’ordinata vita della collettività e, quindi, di carattere generale”. 49 Come evidenziato da F.D. BUSNELLI, Note in tema di buona fede ed equità, in Riv. dir. priv., 2001, I, p. 552, infatti, la recente legislazione mostra un comune impegno nella protezione dei “contraenti deboli” dalla possibile iniquità dei rapporti negoziali ed il controllo di equità consiste in una valutazione della eventuale abusività della condotta del “contraente forte” espletata alla stregua della regola della buona fede. Di condizioni di cui sia accertata l’abusività parla l’art. 1469-sexies cod. civ.; secondo l’art. 9 della legge n. 192/1998 in materia di subfornitura industriale “l’abuso può consistere…nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie”; commette delitto di usura, ai sensi dell’art. 644, comma 1, cod. pen., chi esige interessi “sproporzionati” dal contraente che “si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria” (art. 1, comma 1, legge n. 108/1996). “Il giudizio di buona fede” - osserva C. CASTRONOVO, L’avventura delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv., 1986, p. 29 - è “indicativo di un intervento anche incisivo sul contratto, intervento che, pur condotto da un potere alieno alle parti, tuttavia non è autoritario perché si limita a filtrare valori sociali entro la forma giuridica”. A riguardo, si veda anche M. NUZZO, I contratti del consumatore tra legislazione speciale e disciplina generale del contratto, in Rass. dir. civ., n. 2/1998, p. 308 ss., ove l’Autore ricorda che già agli inizi degli anni Settanta, dunque ancor prima della elaborazione della vasta normativa in materia di consumer protection, era cominciata in dottrina una riflessione sulle ipotesi nelle quali l’ordinamento interviene a riequilibrare la disuguaglianza delle posizioni dei contraenti al momento della conclusione del contratto. Ciò, in particolare, attraverso tecniche volte all’eliminazione della clausola pregiudizievole e conservando per il resto il contratto, integrato - nelle ipotesi riconducibili alla clausola generale dell’art. 1339 cod. civ. -, con le norme imperative contrastanti con la clausola incriminata, ovvero con le norme dispositive applicabili in presenza di lacune del regolamento negoziale. Il tentativo, aggiunge l’Autore, ha avuto il suo più significativo sviluppo con riferimento ai contratti di massa, il cui diffondersi, indotto dalla crescente presenza di fenomeni di aggregazione e di razionalizzazione dell’attività produttiva e del mercato, si risolve nell’offerta di condizioni generali uniformi da parte di tutti gli operatori di un dato settore economico e nel conseguente indebolimento della posizione dell’aderente, il quale si trova spesso nell’alternativa tra subire il regolamento predisposto dalla controparte o rinunciare all’utilizzazione del bene o servizio. La reazione della dottrina italiana, sulla scia delle elaborazioni della dottrina tedesca, fu inizialmente nel senso di avvalorare, tra i criteri utilizzabili per una correzione giudiziale del regolamento contrattuale, quello volto ad escludere da quest’ultimo le clausole contrastanti con il principio di buona fede (così, ad esempio, M. COSTANTINO, Regole di gioco e tutela del più debole nell’applicazione del programma contrattuale, in Riv. dir. civ., 1972, p. 97 e A. DI MAJO, Il controllo giudiziale delle condizioni generali di contratto, in Riv. dir. comm., 1970, p. 192 ss.). Successivamente, si preferì assumere a

46

La tendenza dell’equilibrio negoziale ad assumere i contorni di un vero e proprio

principio generale è difatti riconducibile alle stesse caratteristiche che l’attività di

impresa - sviluppata attorno alla figura della multinazionale - presenta nella odierna

realtà degli scambi.

Come già evidenziato nel par. 2, infatti, l’attuale controparte del fruitore del bene

o servizio offerto - inizialmente coincidente con la sola figura del consumatore

quale soggetto debole sul quale si era principalmente appuntata l’attenzione del

legislatore - è l’impresa che, lungi dal presentarsi sul mercato uti singula, mutua ed

amplifica il proprio potere contrattuale dalla categoria di appartenenza.

Nel mercato, si sottolinea, in misura crescente “rileva la forza contrattuale della

categoria di appartenenza, determinatrice di comportamenti monolitici ed

impermeabili ad ogni intervento esterno di singoli privati, consumatori e non”50.

parametro di giudizio i principi ordinanti del sistema riassunti nel concetto di ordine pubblico, tramite il quale, riconosciuta l’immediata efficacia precettiva dell’art. 41, comma 2, Cost., si riconosceva al giudice ordinario il potere di dichiarare la nullità delle clausole vessatorie. Valutato il rischio che la dichiarazione di nullità della singola clausola si ripercuotesse, ex art. 1419, comma 1, cod. civ. sulla validità dell’intero contratto, si preferì dunque affermare che per stabilire se il contratto, pur strutturalmente perfetto, persegue interessi meritevoli di tutela, è necessario accertare se l’interesse soddisfatto è compatibile con la tutela degli altri interessi la cui realizzazione è assunta dall’ordinamento quale proprio obiettivo. E’ in particolare in quegli anni che il dibattito della dottrina comincia ad interessarsi del tema della nullità parziale e dei suoi limiti di applicabilità in relazione alla natura dell’interesse protetto e sulla nullità relativa quale riflesso della necessità di una tutela differenziata dei contraenti appartenenti a differenti categorie economico-sociali. A questo proposito si vedano P. BARCELLONA, Intervento statale e autonomia privata nella disciplina dei rapporti economici, Milano, 1969, pp. 17 ss., 21 ss., 224 ss.; G. PASSAGNOLI, Nullità speciali, op. cit., pp. 61 ss. e 176 ss. 50 Le parole riportate sono di F. BOCCHINI, Nozione di consumatore e modelli economici, cit., pp. 41-42, il quale evidenzia come la tutela del fruitore di prodotti dell’impresa è generalizzata, e perciò non condizionata dal ricorrere della qualifica di consumatore, allorché sia rivolta, in particolare, al soddisfacimento di esigenze legate alla: 1) protezione di situazioni esistenziali della persona umana; 2) garanzia di trasparenza del mercato; 3) tutela verso imprese che si avvalgono della forza economica della categoria professionale di appartenenza”. In quest’ultima direzione, il soggetto che accede ai prodotti di una di queste imprese è tutelato nella mera dimensione oggettiva di fruitore degli stessi, quale mero “cliente” di un istituto bancario (art. 116 del D. lgs. n. 385/1993) o nell’acquisto di prodotti finanziari (art. 23 D. lgs. n. 58/1998); come “contraente” nei contratti di assicurazione sulla vita (art. 109 D. lgs. n. 17/1995), quale “acquirente” di pacchetti turistici (art. 5 D. lgs. n. 111/1995). La tutela accordata al fruitore dei prodotti dell’impresa, aggiunge l’Autore, si giustifica dunque con la valutazione operata dalla legge di una sua istituzionale debolezza rispetto ai ceti bancario, finanziario e assicurativo, cioè ai poteri forti dell’economia capitalistica. La forza si esprime, quindi, in una standardizzazione di moduli e formulari “di secondo grado”, ovvero di categoria, che la singola impresa si limita ad utilizzare. Pertanto, quello che si impone è di garantire adeguata e generalizzata tutela ai fruitori (consumatori ed imprenditori) contro un potere economico in grado di conformare e dunque di orientare - e, aggiungerei, distorcere - il mercato.

47

Non più radicata in un connotato sociale, la normativa di protezione si presta

quindi ad essere applicata a tutti gli operatori che, nelle articolazioni del mercato e

dunque nello svolgimento di relazioni negoziali, rivestono la medesima posizione

asimmetrica rispetto alla grande impresa, soprattutto ove quest’ultima si affacci al

mercato in vesti più o meno apertamente collusive 51.

Il dato unificante dei contratti la cui disciplina si inserisce a pieno titolo

nell’alveo di questo nuovo “paradigma” contrattuale, non si identifica dunque più,

riduttivamente, in una rigida categorizzazione socio-economica delle parti

contraenti: l’elemento comune va invece ricercato in un elemento più generale,

rappresentato da ciò che una volta si sarebbe definito come “debolezza” e che ormai

diffusamente si indica quale “asimmetria di potere contrattuale”.

Il predominio dell’attività economica dell’impresa predisponente e la circostanza

che l’atto di scambio si inserisca in una trama di relazioni economiche che lo

sottendono ed indirizzano - così accentuando in maniera esponenziale la posizione

di debolezza in cui si situa la controparte - sollecita la riconduzione della generale

problematica dell’equilibrio sostanziale tra le parti all’interno della più vasta

articolazione del mercato.

Come osserva un’autorevole dottrina, “l’equità del contratto è la sua aderenza al

mercato, la giustizia contrattuale è la sua adeguatezza al mercato, le prestazioni

sono proporzionate se la loro misura riflette il mercato. Non può avvenire che uno

scambio sia giusto perché contraddice al mercato, o ingiusto perché collegato al

mercato. Perché il contratto si adegui al mercato, bisogna d’altronde che il mercato

esista e funzioni. La lotta per la giustizia contrattuale è la lotta per il funzionamento

del mercato. E’ la lotta per la concorrenza (…). Lottare per la giustizia contrattuale

significa lottare per il mercato, cioè per la concorrenza e poi lottare contro le

51 La qualifica di “consumatore”, infatti, si allarga a quella di “cliente” o “contraente” soprattutto nei settori a forte concentrazione economica, ove il grande capitale riesce a gestire ed indirizzare modelli e comportamenti giuridici uniformi, escludendo ab origine la possibilità di una qualunque individualizzante interazione con i fruitori dei relativi prodotti. In questi comparti, proprio in ragione dei modelli economici sussistenti, è quindi necessario assicurare protezione alla totalità dei fruitori dei singoli prodotti. Quanto più marcato è il grado di concentrazione del capitale, e dunque l’uniformità del mercato del prodotto e dei relativi modelli contrattuali, tanto più la legge dilata la

48

circostanze che possono menomare, nell’operatore, la sua capacità di accedere al

mercato (…)”52.

Proprio nel mercato, infatti, l’esperienza evidenzia che la progressiva dilatazione

delle imprese di produzione e distribuzione - in primo luogo attraverso la

stipulazione di intese e cartelli, oppure mediante operazioni concentrative - ne

potenzia l’influenza, generando la formazione di imprese satelliti o collegate, che

operano secondo pratiche commerciali e negoziali definite preliminarmente dalle

imprese capogruppo e da queste imposte.

Lo stesso evolvere ed articolarsi dei rapporti di mercato - con l’emergere, da un

lato, di una intermediazione sempre più accentuata e diffusa nella collocazione dei

prodotti e, dall’altro, con il crescere della forza del capitale commerciale su quello

industriale attraverso la distribuzione di massa - finisce dunque per riproporre anche

con riguardo ai soggetti professionisti i medesimi problemi di tutela che avevano

fatto da sfondo alla vasta normativa in materia di consumer protection53.

In tal modo, la sensibilità emersa in funzione di soggetti considerati

istituzionalmente deboli quali i consumatori - il cui status era considerato dalla

legge quale sintomo qualificato di uno squilibrio contrattuale -, tende

progressivamente ad estendersi in favore di quanti si presentino deboli nei rapporti

di mercato54.

fascia dei soggetti protetti che entrano in contatto con l’impresa, indipendentemente dalla possibilità di ricondurli alla nozione di “consumatore”. 52 Così R. SACCO - G. DE NOVA, Il contratto, Torino, 2004, terza ed., p. 26. 53 A questo riguardo, G. BERTOLO, Status di consumatore, libertà d’impresa e tutela del contraente aderente, in Giur. it., n. 1/2003, p. 207, nell’interrogarsi in merito alla estensibilità della nozione di consumatore e dunque della disciplina dettata dagli artt. 1469-bis ss. cod. civ. anche ad imprenditori e professionisti, evidenzia, confermando le affermazioni di V. BUONOCORE, Contrattazione d’impresa e nuove categorie contrattuali, Milano, 2000, p. 40, che nella contrattazione per adesione, in cui si sostanzia gran parte della odierna attività negoziale privata, non intercorre alcuna differenza tra l’iter formativo del vincolo contrattuale tra imprenditore-predisponente e consumatore-aderente e quello in cui le parti siano imprese. In entrambe le ipotesi, afferma l’Autore, i presupposti sono i medesimi: predisposizione unilaterale del regolamento contrattuale da parte dell’imprenditore ed adesione incondizionata della controparte. 54 Il dato è confermato, tra l’altro, dalla circostanza che, ad esempio, l’applicabilità della disciplina in materia di contratti del consumatore di cui agli artt. 1469-bis ss. del cod. civ. sia stata riconosciuta anche con riguardo alle persone giuridiche e agli enti in generale. In via esemplificativa si veda, in altro ambito, l’ordinanza 24 luglio 2001, n. 10086, con cui la Corte di Cassazione ha ritenuto che la disciplina fosse applicabile al contratto concluso dall’amministratore del condominio - ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti - con il

49

Le nuove discipline, infatti, presentano un’area di incidenza tendenzialmente

molto più estesa che in passato, non delimitata in senso merceologico55.

Superata la nota obiezione che limita la possibilità di un sindacato debole56 sul

contenuto del contratto - limitato al solo profilo normativo, intangibile restando

l’assetto economico delle prestazioni definito liberamente dalle parti - si deve

prendere dunque atto della generalizzata tendenza ad estendere il controllo

giudiziale anche a profili di questo secondo tipo, per quanto inseriti in contratti

conclusi in condizioni di fisiologica asimmetria.

L’obiettivo del legislatore è, infatti, in via generale quello di scongiurare, o

quanto meno di arginare, il prepotere della parte economicamente e contrattualmente

forte e di assicurare adeguata protezione all’altra, debole57.

professionista, ritenendo che l’amministratore agisca quale mandatario con rappresentanza dei vari condomini, i quali devono quindi essere considerati consumatori, in quanto persone fisiche operanti per scopi estranei ad attività imprenditoriale o professionale. 55 Secondo V. ROPPO, Il contratto del duemila, cit., p. 42 ss., che, diversamente dalla recente legislazione di derivazione comunitaria, il modello tradizionale di controllo sull’equilibrio economico del contratto era incentrato sulla previsione e sulla precisa quantificazione dei prezzi imposti. Questo sindacato, inoltre, era circoscritto entro singole zone delle contrattazioni tra privati, i cui confini coincidevano con i mercati di particolari beni o servizi, oggetto della manovra di politica economica. Il riferimento è in particolare al mercato delle locazioni abitative, al mercato dei farmaci, al mercato delle assicurazioni r.c. auto ed ai relativi contratti. 56 L’espressione è mutuata dalla nota pronuncia del Consiglio di Stato, sez. VI, 23 aprile 2002, n. 2199, in Corr. giur., n. 4/2003, p. 491 ss., con nota di M. NEGRI, Configurazione “debole” (nel caso assicurazioni R.C.A.) del controllo giurisdizionale sui provvedimenti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato?, con cui il Collegio ha chiarito la natura ed i limiti del giudizio del giudice amministrativo sui provvedimenti dell’Autorità garante. Afferma infatti l’Organo giudicante che “il sindacato del giudice amministrativo sull’attività discrezionale di natura tecnica, esercitata dall’Autorità antitrust, sia un sindacato di tipo debole, che non consente un potere sostitutivo del giudice tale da sovrapporre all’operato dell’Autorità la propria valutazione tecnica opinabile o il proprio modello logico di attuazione del concetto indeterminato . Il giudice deve, quindi, verificare direttamente i fatti posti a fondamento di tali provvedimenti ed esercita un sindacato di legittimità sull’individuazione del parametro normativo da parte dell’Autorità e sul raffronto con i fatti accertati. In tale ultimo ambito il G. A. può censurare le valutazioni tecniche, compreso il giudizio tecnico finale, che, attraverso un controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza tecnica, appaiono inattendibili”. Diversamente, il sindacato sulle sanzioni pecuniarie si atteggerebbe come controllo “pieno” e di merito. 57 “Ecco dunque l’orizzonte del diritto contrattuale della contemporaneità, tutto segnato dalla disuguaglianza delle parti come presupposto indefettibile di disciplina. Al diritto eguale dell’età borghese, costruito sul primato incondizionato dell’idea di autonomia privata e sulla dichiarata eguaglianza delle soggettività negozianti, si è progressivamente avvicendato il dirit to diseguale della tarda modernità neocapitalistica, costruito all’opposto sull’affermazione in concreto dell’autonomia provata di tutte le parti e sulla presa d’atto della disuguaglianza delle une rispetto alle altre”, così F. DI MARZIO, Verso il nuovo diritto dei contratti (note sulla contrattazione diseguale), op. cit., p. 724. “La eguaglianza sostanziale viene attuata (…) attraverso la disparità giuridica; cioè attribuendo

50

Questi possono quindi ritenersi, per sommi capi, i contorni generali del contesto

“ambientale” entro cui si inserisce il tema oggetto della presente indagine, la cui

trattazione richiede peraltro di fornire, seppure brevemente e nei punti essenziali,

alcune delucidazioni in ordine al fenomeno che di queste stesse operazioni negoziali

costituisce in qualche modo “l’antecedente”: le intese anticoncorrenziali.

4. Violazione delle norme antitrust

e tutela dei consumatori Una questione ancora fortemente dibattuta e condizionante l’esito delle soluzioni

offerte in ordine ai mezzi di tutela riconosciuti a quanti siano risultati lesi a valle

dalla commissione di un’infrazione anticoncorrenziale - e della quale è pertanto

opportuno delineare i lineamenti generali - attiene alla selezione degli interessi

rilevanti nel diritto della concorrenza e dunque dei soggetti legittimati ad esperire i

relativi strumenti di protezione.

Il contrasto interpretativo che si è creato sul punto è nella specie collegato al

diverso contenuto che di volta in volta si è ritenuto di dover attribuire al

generalissimo disposto dell’art. 41 della Costituzione e conseguentemente alla legge

antitrust nazionale, che di quella norma ha fatto un proprio baluardo costitutivo.

Le ragioni di tale divario ricostruttivo (storicamente di natura ideologica), in

particolare, sono da ricondurre al fatto che la legge n. 287/90 non enuncia in maniera

chiara ed evidente la propria ratio complessiva (tanto da aver lungamente diviso la

migliore dottrina), non definendo, nonostante l’espresso richiamo all’art. 41 Cost., le

proprie finalità.

Per questo motivo, a chi attribuisce rilievo esclusivo alla pura logica d’impresa

che esclude qualunque rilievo immediato e diretto degli interessi dei consumatori, si

alterna una diversa interpretazione della legge antitrust, secondo la quale, attraverso

posizioni giuridiche privilegiate ai soggetti che sono sostanzialmente più deboli”, P. BARCELLONA, Intervento statale e autonomia privata nella disciplina dei rapporti economici, op. cit., p. 240.

51

una lettura rigorosa e sistematica delle norme sostanziali, si ritiene possibile

ravvisare in quella disciplina anche obiettivi di tutela di natura diversa.

Sul punto, si fa riferimento in modo particolare al disposto degli artt. 2 e 4 in

materia di intese58, nei quali si ritiene possibile rinvenire numerosi indici di

rilevanza dell’interesse del consumatore (intendendo per tale, in assenza di

specificazioni normative, il cliente in senso lato dell’impresa, cioè colui che acquista

beni e servizi a scopo professionale o non professionale)59, suscettibile di aprire il

varco ad una diversa valutazione circa lo spirito di fondo, rispettivamente, dei divieti

e delle autorizzazioni ivi contemplate.

Nella specie, si afferma che soprattutto l’art. 4, comma 1, nell’attribuire

all’Autorità garante della concorrenza e del mercato il potere di autorizzare le intese

restrittive della concorrenza che “diano luogo a miglioramenti delle condizioni di

offerta sul mercato i quali abbiano effetti tali da comportare un sostanziale

beneficio per i consumatori”, implicitamente attribuisca rilevanza all’obiettivo del

miglioramento del livello di benessere dei consumatori, elevandolo a scopo finale

della disciplina antitrust e rispetto al quale l’obiettivo della salvaguardia di un

mercato concorrenziale si porrebbe quindi quale mezzo al fine60.

Il dato viene inferito in particolare dalla constatazione che l’art. 4, comma 1,

contiene, a distanza di circa un trentennio dall’approvazione del Trattato di Roma,

58 L’art. 4, infatti, che disciplina le ipotesi in cui l’Autorità Garante può provvedere ad una temporanea deroga al divieto di intese illecite ex art. 2, prevede appunto la possibilità di esentare in via provvisoria accordi altrimenti nulli i quali, ancorché produttivi di effetti restrittivi sulla concorrenza, siano compensati da guadagni di efficienza. Tra le condizioni richieste a questo fine, due di segno positivo e due di segno negativo, si annovera infatti (come già evidenziato nel Capitolo I con riguardo alle esenzioni in deroga) il “sostanziale beneficio per i consumatori”, consumatori i quali (come già puntualizzato in Premessa) comprendono non solo gli utenti finali, ma più in generale tutti gli acquirenti dei prodotti o servizi oggetto dell’intesa e dunque anche gli utilizzatori intermedi. Interpreta estensivamente la nozione di “consumatore”, come equivalente di “utilizzatore” e comprensiva quindi anche della clientela imprenditoriale della banca, C. PIOVERA, L’incidenza della legge antitrust italiana (n. 287 del 1990) sul settore bancario: profili esegetici, in Giur. it., 1992, IV, p. 193. 59 L’assunto è confermato dalle citate decisioni 10 ottobre 1994, n. 11 e 8 agosto 1994, n. 10, adottate dalla Banca d’Italia nei confronti dell’ABI, in merito, rispettivamente, all’accordo Bancomat ed agli accordi interbancari relativi ai servizi Ri. Ba, R.I.D., incasso bollette Sip e Italgas, cassette di sicurezza e depositi a custodia chiusi: decisioni nelle quali i termini “consumatori” e “clientela” sono usati indifferentemente come sinonimi. 60 In questo senso, F. PARRELLA, Disciplina antitrust nazionale e comunitaria, nullità sopravvenuta, nullità derivata e nullità virtuale delle clausole dei contratti bancari a valle, cit., p. 531.

52

una significativa inclinazione verso la tutela del consumatore quasi del tutto assente

nella corrispondente norma comunitaria (art. 85, comma 3 - ora 81, comma 3 - del

Trattato).

Questa deviazione dalla disciplina comunitaria, si afferma, evidenzierebbe

l’intenzione del legislatore italiano di affidare alla disciplina antitrust la funzione

primaria, ancorché mediata, di realizzare la tutela del consumatore61.

Stesso percorso argomentativo viene inoltre suggerito con riferimento all’art. 3,

ove è evidente il rilievo giuridico dell’interesse di chi subisce l’abuso, sino a

diventare in alcuni casi, il danno al consumatore, elemento esplicito della fattispecie

(art. 3, lett. b).

61 La rilevanza e la considerazione delle esigenze dei consumatori, secondo A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 97 ss., si ravviserebbe già con riferimento allo Sherman Act statunitense, sul cui modello sono state elaborate le teorie antitrust di diverse nazioni (cfr. a riguardo G. BERNINI, Un secolo di filosofia antitrust. Il modello statunitense, la disciplina comunitaria e la normativa italiana, Bologna, 1991, pp. 17 ss. e 295 ss.). L’Autore, in proposito, afferma che “sembra emergere che il valore prevalente posto a base della legislazione fosse costituito dalla protezione dell’interesse dei consumatori, ed in particolare del benessere che loro deriva in presenza di un regime concorrenziale (…). Dal dibattito parlamentare emerge infatti con una certa chiarezza che la principale preoccupazione che ispirava il legislatore dello Sherman Act era la protezione dei consumatori nei confronti dello strapotere delle grandi imprese, ed in particolare la protezione del loro diritto a pagare per ogni prestazione un prezzo più vicino possibile al prezzo concorrenziale, senza subire il potere di mercato delle imprese stesse: protezione del diritto del consumatore, dunque, a non vedersi sottrarre ingiustamente parte della propria ricchezza”. Gli strumenti legislativi finalizzati al perseguimento del descritto obiettivo, peraltro, sono stati migliorati e raffinati dalla legislazione antitrust successiva, ovvero, rispettivamente, dal Federal Trade Commission Act, dal Clayton Act del 1914 e dal Celler-Kefauver Antimerger Act del 1950. Originariamente, infatti, lo Sherman Act non aveva previsto la presenza di un’autorità amministrativa di controllo, affidando il compito di applicare e far rispettare la normativa antitrust al Department of Justice ed alle Corti. Soltanto successivamente, con l’introduzione del Federal Trade Commission Act, venne loro affiancato un apposito organismo amministrativo, preposto sia a vietare i metodi concorrenziali sleali (tra cui rientravano le violazioni dello Sherman Act), sia ad applicare concretamente le disposizioni del Clayton Act. La Federal Trade Commission non ha infatti alcun potere di irrogare direttamente sanzioni (di carattere amministrativo, penale o civile, neppure a titolo risarcitorio) per la violazione delle predette normative, potendo solamente ordinare con apposito provvedimento (cease and desist order) al presunto responsabile della violazione, di cessare immediatamente il comportamento ritenuto illecito. L’unica sanzione automaticamente conseguente ai provvedimenti della Commissione è di carattere amministrativo e viene irrogata nell’ipotesi in cui il destinatario di un cease and desist order ometta o ritardi nel conformarsi al provvedimento. La Commissione ha poi diverse importanti funzioni nell’ambito del sistema applicativo della disciplina per la tutela della concorrenza - le quali, peraltro, non hanno alcun riflesso particolare sull’impianto sanzionatorio della disciplina - quale quella di dettare astratte regole di comportamento al fine di agevolare il compito interpretativo degli operatori. Tali funzioni, peraltro, non hanno alcun riflesso particolare sull’impianto sanzionatorio della disciplina.

53

La rilevanza dell’interesse dei consumatori troverebbe in questo caso sicura

conferma nell’elencazione esemplificativa delle intese e degli abusi vietati, la

maggior parte dei quali contempla ipotesi in cui viene tutelata la posizione del

cliente-consumatore, di cui l’Autorità deve tener conto nell’esercizio dei suoi

poteri62.

A non diverse conclusioni si giunge con riferimento all’art. 6, il quale stabilisce i

criteri di valutazione delle operazioni di concentrazione. La riduzione durevole e

sostanziale della concorrenza - che impone all’Autorità di vietare l’operazione di

concentrazione comunicata - deve essere infatti valutata tenendo conto della

“possibilità di scelta dei fornitori e degli utilizzatori, della posizione sul mercato

delle imprese interessate, del loro accesso alle fonti di approvvigionamento o agli

sbocchi di mercato, della struttura dei mercati e della situazione competitiva

dell’industria nazionale, delle barriere all’entrata sul mercato di imprese

concorrenti, nonché all’andamento della domanda o dell’offerta dei prodotti o

servizi in questione”.

Da queste considerazioni, accompagnate da una lettura della ratio della

disciplina antimonopolistica ancorata al dato dell’art. 41, comma 2, della

Costituzione 63 (e non del comma 1) - in base al quale l’esercizio concreto

dell’iniziativa economica deve essere subordinato al rispetto del valore sovra-

ordinato dell’utilità sociale - si conclude affermando che scopo della normativa sia

non già il perseguimento di interessi particolari delle imprese, bensì di interessi

generali del mercato e della collettività, nell’ambito dei quali trovano una

collocazione di primo piano gli interessi dei consumatori64.

62 Suggerisce un simile ordine argomentativo con particolare riguardo alla tutela dei consumatori nella fattispecie di abuso di posizione dominante, M. D’ALBERTI, La tutela dei consumatori nella disciplina della concorrenza e della pubblicità, in AA.VV., La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, a cura di L. Lanfranchi, Torino, 2003, p. 167 ss. 63 La norma, lo si ricordi, dispone che l’iniziativa economica privata - di cui il comma 1 predica la libertà - “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. 64 Sul punto, A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per la violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 153, conclude affermando che “La normativa antitrust è (…) l’espressione della scelta, fatta propria dalla Costituzione, per un sistema di libero mercato orientato a fini sociali, e di tale scelta è anche il generale e principale garante. Questo significa anche che la normativa antitrust si pone come un ulteriore livello di protezione dei valori sociali, che fa da sfondo

54

Quale possa essere il ruolo ricoperto dalla tutela del consumatore nell’impianto

normativo antimonopolistico nazionale pare desumibile inoltre, come anticipato,

anche dalla lettura delle norme fondamentali del Trattato UE - cui l’interprete, per

espressa statuizione dell’art. 1, comma 4, della legge n. 287/90, deve costantemente

fare capo -, le quali sembrano condurre verso una chiara individuazione di quali

interessi debbano essere perseguiti dal sistema economico nell’ambito degli Stati

della Comunità, fornendo, mutatis mutandis, in questo modo una chiave di lettura

utile per la composizione dei conflitti relativi all’interpretazione della disciplina

antitrust nazionale.

Sul punto deve tra l’altro ricordarsi che la tutela del consumatore (ed in generale

delle categorie deboli, come anche i lavoratori) assume un ruolo centrale nel

perseguimento dei fini complessivi del Trattato UE.

Il cambiamento di prospettiva segnato con il Trattato di Maasticht del 1992 e del

successivo Trattato di Amsterdam del 1997 rispetto al Trattato di Roma - nel quale

la creazione e la salvaguardia del mercato concorrenziale costituivano uno strumento

essenziale per il raggiungimento dello scopo ultimo della creazione del mercato

libero tra gli Stati europei, ma solo di questo - , è stato infatti letto come il

riconoscimento da parte del Trattato UE dell’economia di mercato e della libera

concorrenza - tanto negli scambi interstatali, quanto nell’ambito dei singoli mercati

interni - quali caposaldi su cui fondare il perseguimento dei più vari e complessi

obiettivi della Comunità.

Questi ultimi, in particolare, si sono confermati nel tempo come caratterizzati da

profonde e ambiziose finalità sociali e solidaristiche 65.

a quelli costituiti dalle leggi settoriali, ove queste ne siano presenti, e garantisce comunque una forma di tutela, governata dai principi del libero mercato, ove non ne esista alcuna più specifica". 65 Di questo avviso, ad esempio, A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 126, secondo il quale “il richiamo a valori quali la crescita occupazionale e la protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita e infine la generale solidarietà tra gli Stati membri, pare capace di dare contenuto definito al concetto di concorrenza voluto dagli Stati della Comunità”. Così pure P. PERLINGIERI, Il diritto dei contratti tra persona e mercato, op. cit., p. 314, il quale osserva che, mentre il Trattato di Roma “poneva il mercato in posizione prioritaria in termini economicistici, sì che mal si integrava con i principi costituzionali (…)”, il Trattato di Maastricht “sicuramente si caratterizza per una svolta di socialità, con forti richiami ai diritti dell’uomo, e dunque attribuisce al mercato non più un’impostazione essenzialmente economicistica”.

55

La crescita economica - si è detto - attuabile mediante l’instaurazione di un

mercato unico libero e concorrenziale ed attraverso l’unione monetaria, non è

incondizionata, ma deve coniugarsi con il perseguimento di finalità ad alto

contenuto sociale, quali il rispetto dell’ambiente, la convergenza dei risultati

economici, un elevato livello occupazionale e di protezione degli individui, un

generalizzato miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione

economica e sociale e la solidarietà tra gli Stati membri66.

Pertanto, la presenza fra gli obiettivi fondamentali della Comunità di valori come

quelli appena indicati - caratterizzati da uno spiccato senso solidaristico - sembra

orientare la scelta degli Stati aderenti (e dunque dell’Italia) verso un sistema che,

lontano da una rigida prospettiva efficientista, tenga conto anche degli effetti

redistributivi conseguenti a strategie imprenditoriali (tra cui quelle collusive) che,

pur senza danneggiare la crescita totale della società, siano in grado di incidere

negativamente sulla condizione di determinate categorie di soggetti (quali i

consumatori o i lavoratori) a beneficio di altre (come i produttori)67.

66 Tale lettura del Trattato, non è peraltro unanimemente condivisa. R. NIRO, Profili costituzionali della disciplina antitrust, Padova, 1994, p. 136 ss. e M. LUCIANI, La Costituzione italiana e gli ostacoli all’integrazione europea, in Pol. dir., 1992, p. 557 ss., ad esempio, sostengono che “proprio il principio della libera concorrenza, più che fini sociali, appare essere stato concepito come il faro dell’azione della Comunità, della quale è all’un tempo criterio e scopo essenziale. Come criterio esso funziona come norma agendi per gli interventi comunitari. Come scopo, viene sostenuto dai mezzi istituzionali più possenti che la Comunità abbia a disposizione (in particolare, da quelli monetari ex art. 105), si delinea dunque una possibile asimmetria tra le finalità sociali e quelle economiche, che paiono addirittura prevalere sulle prime” (così, in particolare, M. LUCIANI, op. ult. cit., p. 579 s.). 67 In realtà, già in origine il Trattato CEE sembrava propendere verso una visione del diritto antitrust come strumento di protezione dell’interesse ad un’equa distribuzione delle risorse. In proposito, si veda l’art. 85 (ora 81), par. 3, del Trattato, secondo il quale costituiscono presupposto necessario per l’ottenimento di un’esenzione individuale o per categoria, non solo il fatto che l’intesa contribuisca “a migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti o a promuovere il progresso tecnico o economico”, ma anche che una “congrua parte dell’utile” che ne deriva sia riservato ai consumatori. Anche il disposto dell’art. 86 (ora 82) del Trattato sembra muoversi nella stessa direzione, contemplando tra le ipotesi di abuso di posizione dominante “il limitare la produzione, gli sbocchi o lo sviluppo tecnico, a danno dei consumatori” e il “subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari, che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con l’oggetto dei contratti stessi”. Tale impostazione viene inoltre ribadita, con maggiore convinzione, nell’art. 2, comma 1, del Regolamento CEE n. 4964/89 sul controllo delle concentrazioni, che impone alla Commissione di tenere conto, nella valutazione di liceità delle operazioni di concentrazione, tra l’altro, “delle possibilità di scelta dei fornitori e degli utilizzatori, del loro accesso alle fonti di approvvigionamento o agli sbocchi, (…) degli interessi dei consumatori intermedi e finali”.

56

Ciò detto e considerato che le descritte premesse inducono le istituzioni

comunitarie - prime tra le quali la giurisprudenza della Corte di Giustizia - a

ritenere che le norme antitrust siano idonee a creare posizioni giuridiche soggettive

di vantaggio a favore dei singoli che siano lesi da pratiche anticoncorrenziale (e ciò

anche al fine di assicurarne la massima efficienza dal punto di vista applicativo),

sembra condivisibile l’opinione di chi afferma che una simile conclusione debba

essere raggiunta anche con riguardo alla legislazione nazionale in materia e

all’interpretazione delle relative norme (per un’analisi tesa a cogliere, tra le norme

antitrust, sicuri indici di rilevanza circa il ruolo che la tutela del consumatore riveste

in un’ottica pro-competitiva, si veda infra)68.

Nel riportare il discorso entro i confini nazionali, il dato pare confermato dalla

migliore dottrina, la quale a riguardo ha avuto modo di osservare che “la

Costituzione scritta sia perfettamente in grado di ospitare questa aggiornata visione

e sia in grado di offrirle anzi più spazi per farsi valere”69, così suffragando quella

concezione del mercato che lo intende e che mira ad accentuarne la natura non solo

di “luogo di conflitto e di scambio, ma anche di valori e di solidarietà”70.

68 Si ritiene infatti logico e ragionevole che, date le condivise premesse, uniformi debbano essere anche le conclusioni, e che quindi con riguardo al problema della eventuale creazione di posizione soggettive la soluzione debba essere, in presenza di un dato normativo sostanzialmente comune, necessariamente unitaria per il diritto comunitario e per il diritto nazionale. Come afferma G. BERNINI, Un secolo di filosofia antitrust, op. cit., p. 430, “Il ragionamento può essere svolto indifferentemente per la normativa nazionale come per quella comunitaria, considerato che un diverso punto di vista finirebbe per attribuire rilevanza attenuata agli imperativi di diritto comunitario, contro il fondamentale principio del primato di quest’ultimo”. Questo discorso assume rilievo soprattutto ai fini di quanto si dirà oltre con riguardo alla possibilità di prospettare a vantaggio della controparte del contratto a valle, in applicazione della legislazione antimonopolistica nazionale, la possibilità di esperire il rimedio risarcitorio riconosciuta a livello comunitario. Riguardo a ques t’ultimo profilo, non possono essere trascurate le posizioni interpretative emerse in ambito comunitario sulla opportunità che, al fine di assicurare la massima efficienza del sistema applicativo del diritto antitrust, i privati siano posti in condizione di agire per la tutela delle proprie posizioni soggettive. Se anche questa impostazione non consente di dare sin da ora (salvo ribadire, ancora una volta, la portata dirompente della sentenza delle SS.UU. n. 2207/05, intervenuta in corso d’opera) una risposta al quesito in ordine alla selezione dei soggetti legittimati ad agire a fini risarcitori, certamente essa costituisce un indizio importante per l’individuazione di una tendenza verso l’allargamento dell’area di tutela, piuttosto che verso la direzione opposta. 69 Così G. AMATO, Il mercato nella Costituzione, cit., p. 12. 70 G. ALPA, Prefazione, in Diritto dei consumatori, op. cit.; contra, N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, op. cit., p. 75, secondo cui “il diritto del mercato non assiste né soccorre, non benefica né elargisce doni (…)”.

57

Mettere in rilievo, in chiave evolutiva, questi ultimi aspetti consente infatti di

superare, nell’ottica antitrust che qui ci preme, quella “inaccessibilità degli

strumenti di tutela al consumatore finale”, tuttora professata anche in sede

giurisprudenziale, la quale rivendica il suo essere “debitrice della vecchia lettura

dell’art. 41 Cost., basata su una netta separazione di iniziativa economica ed utilità

sociale e dei rispettivi ordinamenti”71.

5. Le intese nel diritto antitrust

5.1. La nozione di intesa

Ai fini dello svolgimento del tema dei “contratti a valle”, si ritiene opportuna

un’analisi preliminare delle tematiche di diritto della concorrenza che verranno in

evidenza nel corso della trattazione.

La vastità dell’area, peraltro, ne impone in questa sede una disamina limitata ai

soli tratti fondamentali e rilevanti in vista dell’esame relativo agli effetti di cui il

contratto a valle risente per il suo avvicendarsi ad un’intesa vietata (e nulla) ai sensi

dell’art. 2 della legge n. 287/199072.

La prima figura di cui è d’uopo tratteggiare i contorni è quella di “intesa” accolta

dal diritto antitrust. Questa infatti - alla cui enunciazione normativa si rinvia - già

ad un primo esame si fa indice di una certa divergenza concettuale tra le categorie

economiche rilevanti nella valutazione concorrenziale di determinati comportamenti

e le corrispondenti tradizionali categorie civilistiche.

71 Così, E. SCODITTI, Il consumatore e l’Antitrust, in Foro it., 2003, I, p. 1129. 72 L’art. 2, afferma N. IRTI, L‘ordine giuridico del mercato, op. cit., 2004, p. 44 ss., nel vietare comportamenti collusivi anticoncorrenziali assume le vesti di norma proibitiva , qualificando le intese quali “atti vietati: (…) il divieto non concerne negozi su dati beni, o negozi stipulati da certi soggetti, ma il negozio in sé, come tipo di atto astrattamente considerato. Con riguardo a questo e agli altri casi, le norme proibitive sono in grado di ricorrere alle sanzioni più varie: penali, amministrative, civili. Consueta la sanzione della nullità, la quale ha il pregio di auto-applicarsi, e di non richiedere l’ausilio di apparati coercitivi ed esecutivi”.

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Dalla lettura del comma 1 - secondo il quale “sono considerati intese gli accordi

e/o le pratiche concordati tra imprese nonché le deliberazioni, anche se adottate ai

sensi di disposizioni statutarie o regolamentari, di consorzi, associazioni di imprese

ed altri organismi similari” - difatti, emerge la estesa latitudine della nozione, la

quale, atta a ricomprendere tutti quei comportamenti finalizzati a realizzare

iniziative comunque idonee ad alterare la libertà di concorrenza 73, non si esaurisce

nel tradizionale concetto civilistico di “accordo”, scomponendosi ed allargandosi ad

abbracciare anche “le pratiche concordate” tra imprese74, nonché “le deliberazioni

(…) di consorzi, associazioni di imprese ed altri organismi similari”.

La nozione, pur ricomprendendo qualsiasi incontro di volontà fissato in un atto di

natura negoziale, prescinde dalla funzione e dalla struttura di un negozio bilaterale

(nonché dalla espressa previsione di misure di esecuzione, verifiche dei

comportamenti e sanzioni in caso di inadempimento rispetto alle condotte

concordate), presentandosi quale categoria tipicamente comportamentale anziché

formale75.

73 Si è per questo affermato che la nozione di “intesa” accolta dal diritto antitrust, nella sua ampiezza ed onnicomprensività, attesta la volontà di riferirsi a qualsiasi tipo di collaborazione o di coordinamento tra imprese, quali che siano il mezzo impiegato e la veste formale assunta dall’accordo o dalla pratica. 74 L’esplicita previsione dell’illiceità delle pratiche concordate, osservano G. FLORIDIA e V.G. CATELLI, Diritto antitrust. Le intese restrittive della concorrenza e gli abusi di posizione dominante, Torino, 2003, p. 116 ss., è preordinata allo scopo di sanzionare anche cartelli ed accordi collusivi che rimangono segreti e che diventano palesi soltanto attraverso i loro effetti (ad esempio con contemporanei innalzamenti dei prezzi), e cioè soltanto in funzione dell’uniformità dei comportamenti che vengono tenuti dagli operatori del mercato. Conseguentemente, stando alla definizione offerta dalla Corte di Giustizia e recepita dall’Antitrust, le pratiche concordate “corrispondono ad una forma di coordinamento fra le imprese che, senza essere spinta fino all’attuazione di un vero e proprio accordo, costituisce in pratica una consapevole collaborazione fra le imprese stesse, a danno della concorrenza, collaborazione la quale porti a condizioni di concorrenza non corrispondenti a quelle normali di mercato” (AGCM, provv. 9 ottobre 1997, Associazione Vendomusica/Case discografiche multinazionali-Federazione Industria Musicale Italiana, cit., che riprende la sentenza della Corte di Giustizia del 16 dicembre 1975, Industria europea dello zucchero , in Racc., 1975, p. 1663 ss.). Perché sia ravvisabile una effettiva concordanza di comportamenti, in particolare, non è sufficiente il parallelismo di comportamenti delle imprese, dovendo sussistere una conoscenza artificiale delle decisioni dei concorrenti riconducibile ad un reciproco scambio di informazioni sulle strategie di mercato che ciascuna intende seguire. 75 La lettura funzionale del dettato normativo è confermata anche dagli organi comunitari, i quali hanno in più occasioni affermato che, ai fini dell’applicazione dell’art. 81 del Trattato, non è essenziale l’esatta qualificazione della figura oggetto di esame, rilevando esclusivamente la connotazione anticoncorrenziale della medesima e la sua ascrivibilità ad una pluralità di imprese. La stessa interpretazione è stata accolta dall’Autorità nazionale, nonché dal Tar Lazio, il quale ha

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Come bene evidenziato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, infatti,

“l’art. 2 della legge n. 287 del 1990 (…) non ha inteso riferirsi solo alle intese in

quanto contratti in senso tecnico ovvero negozi giuridici consistenti in

manifestazioni di volontà tendenti a realizzare una funzione specifica attraverso un

particolare voluto. Il legislatore – infatti – con la suddetta disposizione normativa

ha inteso – in realtà ed in senso più ampio – proibire il fatto della distorsione della

concorrenza, in quanto si renda conseguenza di un perseguito obiettivo di

coordinare, verso un comune interesse, le attività economiche; il che può essere il

frutto anche di comportamenti non contrattuali o non negoziali”76.

Ciò che conta è “l’inerenza di tali comportamenti ad una distorsione del gioco

concorrenziale, (…) l’effettività di un atteggiamento comune, volto a sostituire la

stabilito che “il termine intesa , nella sua ampiezza ed onnicomprensività, rese ancora più marcate dalla successiva proposizione esplicativa (gli accordi o le pratiche) attesta la volontà di riferirsi a qualsiasi tipo di collaborazione o coordinamento posto in essere dalle imprese, quali che siano il mezzo impiegato e la veste formale assunta dall’accordo o dalla pratica. In realtà come si evince dall’art. 2, 2° comma, della legge n. 287/1990, è determinante il fine che le imprese si propongono di raggiungere (…) o le conseguenze che l’intesa è oggettivamente idonea a produrre” (cfr. sentenza 2 novembre 1993, n. 1549, in Foro it., 1994, III, p. 146 ss.). Si noti inoltre - come affermato dalla Corte di Cassazione, 1° febbraio 1999, n. 827, in Giur. It., 1999, p. 1223, con nota di B. LIBONATI, Intese orizzontali e aperture in tema di concorrenza e di mercato nella giurisprudenza della Cassazione; ivi, 2000, p. 939 ss., con nota di G. AFFERNI, Le intese restrittive della concorrenza anteriori alla legge antitrust: legge retroattiva o nullità speciale? (Ancora su Cass., Sez. I, 1° febbraio 1999, n. 827) ; in Danno e resp., 2000, p. 57 ss., con nota di L. NIVARRA e S. BASTIANON; in Riv. dir. ind., 2000, I, p. 151 ss., con nota di A. PARMIGIANI e in Riv. dir. comm., 1999, II, p. 183 ss., con nota di G. GUIZZI; in Foro it., 1999, I, p. 831 ss., con nota di L. LAMBO - che il disposto dell’art. 2 dice che “sono considerate intese” e non “sono intese”, così ammettendo espressamente la possibilità di ricondurre entro la nozione anche comportamenti privi del carattere negoziale. 76 Così Cass., 1° febbraio 1999, n. 827, ult. cit. Come osserva anche M. SCUFFI, Orientamenti consolidati e nuove prospettive nella giurisprudenza italiana antitrust, in Riv. dir. ind., 2003, p. 109, a conferma del carattere normalmente comportamentale dell’infrazione, di regola le imprese, nel realizzare accordi di regolamentazione del mercato, evitano di lasciare tracce scritte del loro operato (il c.d. smoking gun), desumibile pertanto solo da prove indirette ricavate da comportamenti convergenti e concludenti a quello scopo e sufficienti a far supporre l’esistenza di una intesa sia pur a livello informale (cfr. in tal senso, App. di Milano, ordinanza 13-19 giugno 2001, Bluvacanze/Viaggi del Ventaglio e altri). Indispensabile in questi casi è dunque il ricorso alla prova indiziaria, orientata ad accertare - tramite l’analisi congiunta di plus factors endogeni (quali le modalità di condotta) ed esogeni (rapporti tra le imprese) - se l’uniformità di intenti sia plausibilmente spiegabile, al di fuori di qualunque logica collusiva, quale mera coincidenza di comportamenti, ovvero non risulti altrimenti comprensibile se non quale risultato di una concertazione. Sotto quest’ultimo profilo, di particolare interesse si presenta la sentenza del Consiglio di Stato 22 marzo 2001, n. 1699, Telecom+Omnitel/Agcm+Codacons, riguardante la fissazione da parte delle due aziende leaders sul mercato della telefonia di prezzi identici per i servizi di comunicazione fisso-mobile. La pronuncia, infatti, individua (sia pure nell’ambito del giudizio amministrativo) gli indizi e gli elementi di

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competizione concorrenziale con una collaborazione pratica che giustifica una

nullità speciale77, (…) così dando rilevanza non solo all’eventuale negozio giuridico

originario postosi all’origine della successiva sequenza comportamentale, ma a

tutta la più complessiva situazione - anche successiva al negozio originario – la

quale, in quanto tale, realizzi un ostacolo al gioco della concorrenza”78.

Sul punto vale la pena osservare che la rilevanza anticompetitiva della condotta -

quale emerge dal dato normativo e dalla giurisprudenza maggioritaria -

indipendentemente dalla sua riconducibilità entro predeterminati formali schemi

negoziali, è stata riconosciuta di recente persino quando l’impedimento operi nei

confronti di uno dei contraenti liberamente aderenti all’intesa, poiché, allorquando

riscontro necessari per rivelare la concertazione, nonché come debba essere ripartito tra le parti l’onere della prova. 77 In merito a quest’ultimo aspetto, si veda infra. 78 Così, ancora, Cass. 1° febbraio 1999, n. 827, ult. cit., la quale, muovendo dalle considerazioni esposte, è stata indotta ad estendere l’applicazione della sopraggiunta normativa antitrust anche a quei comportamenti che, pur riconducibili ad un fatto originario antecedente all’entrata in vigore della legge, protraevano i propri effetti illeciti sino ed oltre questo momento. Tra l’altro, è bene precisare che proprio l’affermazione della Corte sopra riportata è stata interpretata da diverse decisioni di merito, quale varco alla possibile ricaduta della invalidità dell’illecito antitrust sui negozi stipulati a valle di quell’intesa (cfr. App. Brescia, sent. 29 gennaio 2000, Girelli/Novogas, richiamata più ampiamente infra). Nel senso sopra citato, anche il Consiglio di Stato il quale, con la sentenza 30 agosto 2002, n. 4362 (cosiddetta Latti artificiali), ha ribadito che la nozione di intesa è “ampia e non formalistica” e che “la nozione di accordo è diversa da quella formale civilistica e va intesa in senso ampio, tale da ricomprendere anche obbligazioni giuridicamente non vincolanti”. Così anche il Tar Lazio, secondo cui “non è necessario, perché si integri la figura dell’accordo di cui all’art. 2, 1° comma, della legge n. 287/90, che vi sia stipula di un contratto valido e vincolante fra le parti in quanto è diversa la portata della norma richiamata che intende perseguire, coerentemente con l’impianto complessivo della legge, ogni forma di collusione che attenti al valore della libera concorrenza sul mercato” (cfr. sentenza n. 1474/95). Anche gli impegni moralmente vincolanti, come i gentlemen’s agreements, possono costituire accordi vietati, essendo sufficiente a questo fine il fatto che attraverso di essi venga espressa una volontà concorde delle imprese in senso anticoncorrenziale. Perché l’accordo venga sanzionato, inoltre, non è necessaria alcuna formalizzazione dello stesso, essendo sufficiente anche la forma orale, ancorchè ciò comporti la soluzione di complessi problemi di prova in merito alla dimostrazione dell’esistenza dell’accordo stesso. L’esistenza dell’accordo restrittivo può poi essere dedotta anche da semplici circostanze di fatto (così Commissione, decisione del 13 luglio 1987, Sandoz, in G.U.C.E., L22 del 1987 e AGCM, provvedimento I210, Mercato del calcestruzzo preconfezionato di Olbia, in Boll., n. 12/97). Ciò imp lica innanzitutto che la circostanza che un accordo non contenga clausole restrittive espresse non significa che le stesse non siano state concordate tra le parti (come potrebbe emergere in sede istruttoria attraverso un’eterointegrazione del contratto con clausole dedotte da o contenute in documenti differenti ed estranei al contratto medesimo); d’altra parte, per aversi la violazione del divieto è sufficiente che la clausola sia stata accettata, anche tacitamente, dalle parti contraenti. Parallelamente, clausole generali di vendita destinate a diventare parte integrante dei contratti stipulati da una delle parti con i singoli clienti possono determinare il passaggio del contratto nel novero di quelli vietati (Corte di Giustizia, sentenza del 10 luglio 1980, Distillers, causa 30/78, in Racc., 1980, p. 2229).

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incida sulla libertà economica delle imprese, è da considerare vietata tanto a livello

orizzontale quanto a livello verticale79.

Conformemente alla diffusa giurisprudenza europea, si è addirittura giunti ad

affermare che “siffatta intesa può determinarsi anche su schemi giuridici unilaterali,

come quando si inserisce in un rapporto di durata l’esercizio di un potere

unilaterale da parte di uno dei partecipi al rapporto, ovvero, ad esempio, si concede

un’esclusiva che conforma il rapporto in modo da sbarrare la strada ad altri

ingressi nel medesimo mercato”80, così accentuando la prevalenza che nelle

valutazioni antitrust viene attribuita all’incidenza effettiva del comportamento

economico delle imprese rispetto alla relativa qua lificazione giuridico-formale81.

79 Corte di Giustizia, sent. 20 settembre 2001, causa C-453/99, Courage/Crehan , in Foro it., 2002, IV, p. 75 ss., con nota A. PALMIERI e R. PARDOLESI, Intesa illecita e risarcimento in favore di una parte:”chi è causa del suo mal…si lagni e chieda i danni; E. SCODITTI, Danni da intesa anticoncorrenziale per una delle parti dell’accordo: il punto di vista del giudice italiano, e G. ROSSI, “Take Courage”! La Corte di giustizia apre nuove frontiere per la risarcibilità del danno da illecito antitrust, che - intervenendo in via pregiudiziale sulla c.d. in pari delicto doctrine, regola generale dei paesi di common law in tema di contract, secondo cui le parti contraenti si trovano sempre su un piano di parità sostanziale oltre che formale partecipando in egual misura alla perpetrazione dell’illecito e dunque nessuna di esse risultando meritevole di tutela (nemo auditur propriam turpitudinem allegans) - ha messo in risalto come un accordo restrittivo della concorrenza possa avere anche natura asimmetrica (one-sided) per la posizione di debolezza assunta da una parte che, pur assentendo al negozio in maniera esente da vizi della volontà, subisca il preponderante potere della controparte. La Corte ha così statuito che il diritto comunitario si oppone a normative nazionali che precludano, per il solo fatto di essere parte di intese del genere, il diritto al risarcimento del danno derivato dalla loro esecuzione, a meno che non si accerti che il richiedente abbia avuto una responsabilità significativa nella distorsione della concorrenza. La nullità del contratto, quindi, non preclude di per sé il rimedio risarcitorio al contraente-imprenditore debole. Questo principio, tra l’altro, trova significativo riscontro anche nel nostro ordinamento, posto che la legge n. 192/1998 prevede espressamente - nell’ambito dei rapporti di subfornitura industriale - l’azione di risarcimento del danno per abuso di dipendenza economica. 80 Cass. 1° febbraio 1999, n. 827, cit. A riguardo il Tribunale di Primo Grado ha avuto modo di ricordare che “occorre distinguere le ipotesi in cui un’impresa ha adottato una misura effettivamente unilaterale e quindi senza la partecipazione espressa o tacita di un’altra impresa da quella in cui il carattere unilaterale è solo apparente”. Questa seconda ipotesi, ad esempio, si ravvisa nel caso delle pratiche e delle misure restrittive della concorrenza che “adottate in apparenza in modo unilaterale dal produttore nell’ambito delle sue relazioni contrattuali con i propri rivenditori, sono tuttavia accettate, almeno tacitamente, da questi ultimi” (sentenza 3 dicembre 2003, Volkswagen/Commissione, causa T-208/01, in Foro it., n. 1/2004, IV, p. 34 ss., con nota di G. COLANGELO, e ivi, p. 90 ss., con nota di S. BASTIANON, Intesa antitrust e “vertical price fixing”: il caso “Volkswagen”, che richiama la nota sentenza del Tribunale 26 ottobre 2000, Bayer/Commissione, causa T-41/96, in Foro it., 2001, IV, p. 78 ss.). 81 Il carattere non rigoroso della terminologia impiegata nel diritto antitrust, improntata più alle esigenze della realtà economica che allo stretto formalismo delle categorie giuridiche consegnate al dato codicistico, emerge pure con riguardo al (preliminare) concetto di “impresa”. In merito, è agevole constatare che la definizione accolta dalla legge antimonopolistica nazionale, discostandosi

62

dal disposto di cui all’art. 2082 cod. civ., si presenta molto più ampia di quella codicistica, avendo in particolare recepito, in applicazione del criterio interpretativo di cui al comma 4 dell’art.1 della legge n. 287/90, la nozione elaborata nel corso degli anni dagli organi comunitari. A riguardo, cfr. Tribunale di Primo Grado, sentenze del 17 dicembre 1991, BASF, Enichem Anic, Hercules Chemicals NV, DSM NV (polipropilene), cause T 4, 6, 8/89, in Racc., 1991, II, pp. 1527, 1628, 1715, 1837 e Corte di Giustizia, sentenza del 23 aprile 1991, Hofner/Macroton, causa C-41/90, in Racc., 1991, I, p. 1979; in dottrina, A. SPADAFORA, La nozione di impresa nel diritto comunitario, in Giust. Civ., 1990, II, p. 283; A. FRIGNANI - M. WAELBROECK, Disciplina della concorrenza nella CE, Torino, 1996, p. 32; V. AFFERNI, La nozione di impresa comunitaria, in Trattato di dir. comm. e dir. pubbl. dell’econ., a cura di F. Galgano, vol. II, Padova, 1978; G. GUIZZI, Il concetto di impresa tra diritto comunitario, leggi antitrust e codice civile, in Riv. dir. comm., 1993, p. 281 ss. La definizione è dunque idonea a ricomprendere ogni entità impegnata in attività commerciali, indipendentemente dal requisito della personalità giuridica. In essa ricadono, pertanto, le imprese previste dalla normativa nazionale, sia che siano esercitate da imprenditori individuali, sia che siano esercitate in forma collettiva sotto forma di società di persone o di capitali. Vi rientrano altresì le cooperative (cfr. Corte di Giustizia, sentenza del 25 marzo 1981, Presame - Cooperative Stremseln, causa 61/80, in Racc., 1981, p. 851), i consorzi, le associazioni commerciali di categoria, le fondazioni e gli enti costituiti da più imprese per coordinare il rispetto di un accordo, indipendentemente dalla loro veste giuridica (cfr. Commissione, decisione del 10 gennaio 1980, Vetro greggio in Italia, in G.U.C.E., L383 del 1980). La divaricazione fra la nozione di impresa di cui all’art. 2082 cod. civ. e quella comunitaria elaborata ai fini dell’applicazione del diritto antitrust, si fa più ampia con riguardo all’assoggettabilità a tale disciplina anche di persone fisiche che non esercitino un’attività organizzata e di entità economiche che non abbiano scopo di lucro. In particolare, la Commissione ha considerato “impresa” ai sensi della normativa antitrust comunitaria anche la persona fisica titolare di un brevetto concesso in licenza che non svolga attività organizzata, in funzione dei soli atti di natura economica che egli è in grado di compiere e che sono suscettibili di restringere la concorrenza. Non diversamente viene assoggettato alla disciplina antitrust lo sfruttamento commerciale da parte degli artisti dei propri diritti d’autore, ancorché si tratti di uno sfruttamento non sistematico e meramente occasionale, potendo anch’esso comportare limitazioni nella competizione sul mercato, di guisa che, anche in tali casi, la persona fisica autrice del comportamento riveste la qualifica di impresa (cfr. Commissione, decisione del 10 gennaio 1979, RAI-UNITEL , in G.U.C.E., L157 del 1978). Uguale qualifica riveste agli stessi fini il soggetto che esercita un’attività di consulenza o di ricerca (Commissione, decisione 26 luglio 1976, Reuter-BASF, in G.U.C.E., L254 del 1976) anche in forma personale non organizzata, oppure il soggetto che assume una partecipazione di controllo societaria (Commissione, decisione del 10 gennaio 1979, Vaessen-Morris, cit.), ancorché non eserciti effettivamente attività di gestione, o infine il soggetto che sottoscrive un patto di non concorrenza a seguito di cessione d’azienda (Corte di Giustizia, sentenza del 11 novembre 1985, Remia-Nutricia, causa C42/84, in Racc., 1985, p. 2545). Quanto precede spiega come gli organi comunitari abbiano esteso la qualifica di imprenditori anche agli esercenti le professioni intellettuali (si veda la decisione del 30 giugno 1993, CNSD, Spedizionieri doganali, in G.U.C.E., L203 del 1993, ora anche in Dir. ind., 1994, p. 151 ss., con commento di V. G. CATELLI), così confermando quel consolidato orientamento che considera del tutto irrilevante l’assetto organizzativo dell’attività posta in essere, rilevando soltanto l’autonomia e l’indipendenza con cui il medesimo soggetto svolge la propria attività. Un temperamento a questo orientamento, peraltro, è stato operato dalla Corte di Giustizia in una sentenza del 19 febbraio 2002, Arduino/Compagnia assicuratrice RAS s.p.a., causa C 35/99, in Corr. giur, 2002, p. 581 ss., con commento di B. NASCIMBENE e S. BASTIANON. Riguardo a quest’ultimo profilo, è d’uopo sottolineare che il Trattato CE non offre alcuna definizione di impresa, lasciandone la ricostruzione all’interprete, soprattutto sulla base della elaborazione giurisprudenziale e della prassi amministrativa comunitarie, le quali hanno più volte dimostrato di rifuggire da qualsiasi criterio di carattere formale e di perseguire, invece, una ricostruzione funzionale del concetto di impresa. La scelta, in particolare, si spiega dall’intento di consentire il migliore perseguimento degli obiettivi del Trattato e, conseguentemente, di permettere di reprimere ogni comportamento e, prima ancora, ogni pattuizione che possa in qualsiasi modo alterare il gioco della concorrenza indipendentemente dalla forma

63

In merito al largo richiamo alla normativa comunitaria ed ai limiti nei quali opera

il rinvio di cui al comma 4 dell’art. 1, deve peraltro ricordarsi quanto statuito dal

giudice amministrativo, il quale, a riguardo, ha puntualizzato osservando che, con il

rinvio operato dalla legge antimonopolistica nazionale al diritto comunitario ed

all’interpretazione della Corte di Giustizia e degli organi europei, “non è stata posta

una clausola categorica di adattamento totale ed assoluto del diritto nazionale

antitrust a quello comunitario (una sorta di trasformatore permanente del diritto

comunitario di settore in diritto interno), ma solo un ausilio per l’interpretazione

del primo in modo coerente con le linee direttrici del secondo”.

giuridica assunta dal soggetto che pone in essere il comportamento denunciato. In prima approssimazione, pertanto, può dirsi che costituisce un’impresa ai sensi della legislazione antitrust qualunque soggetto (persona fisica o giuridica) che svolga in maniera indipendente un’attività di natura economica tale da poter anche solo potenzialmente comprimere il grado di concorrenzialità del mercato, sempre che i beni prodotti o i servizi prestati possano essere offerti in un’ottica di mercato. La nozione enunciata dalle Corti comunitarie, come accennato, è stata ripresa, in virtù del vincolo interpretativo di cui al comma 4 dell’art. 1 della legge antitrust, anche dall’Autorità nazionale, intendendo per impresa “qualsiasi entità che eserciti un’attività economica, a prescindere dal suo stato giuridico e dalle modalità di finanziamento”, non assumendo quindi rilievo, ai fini dell’applicazione della disciplina (fatta salva l’eccezione di cui all’art.8), la natura giuridica - pubblica o privata – dell’autore dell’infrazione (cfr. provv. AGCM, 28 luglio 1995, S.i.l.b./S.i.a.e., in Boll., 1995, p. 30; 26 novembre 1998, Consigli Nazionali dei ragionieri e periti commerciali e dei dottori commercialisti, in Boll., 1998, p. 48, confermato dal Tar del Lazio con sentenza del 28 gennaio 2000, n. 466, in Guida al dir., n. 6/2000, p. 85; in dottrina, G. MILITELLO, Antitrust e professioni liberali, in Antitrust fra diritto nazionale e diritto comunitario, a cura di E.A. RAFFAELLI, Milano, 1998; A. MASTROLILLI, Abuso di diritto d’autore e disciplina antitrust, in Foro it., 1995, IV, p. 270). Quanto all’autonomia del soggetto che opera sul mercato, l’Autorità nazionale, discostandosi dall’indirizzo comunitario, ha ritenuto che, ove più imprese facciano capo alla medesima entità imprenditoriale, difetta il requisito della pluralità di soggetti indipendenti e qualsivoglia possibilità di coordinamento del loro comportamento sul mercato, mancando il presupposto del rapporto concorrenziale. Per questa ragione, si esclude la configurabilità di un’intesa qualora l’accordo intercorra tra imprese appartenenti al medesimo gruppo. In merito al contenuto delle decisioni delle associazioni di imprese, come evidenzia I. BERTI, Associazioni di imprese e diritto antitrust: un difficile connubio, Relazione presentata al VI Convegno Antitrust fra diritto nazionale e diritto comunitario, Treviso 13-14 maggio 2004, è consolidato orientamento comunitario e nazionale che rientri nella nozione della decisione di associazione tutta l’attività degli organismi gestionali dell’associazione che sia in grado di influenzare la condotta delle imprese associate sul mercato, in qualsiasi modo essa si manifesti: integra pertanto una decisione dell’associazione qualsiasi atto, anche non formale, attraverso cui si esprime la determinazione dell’organo esponenziale della volontà di una pluralità di imprese. Anche con riferimento a questo aspetto, non è dunque la forma della condotta ma la sua sostanza quella che propriamente la qualifica come decisione di associazione di impresa. In merito ai problemi di natura concorrenziale sollevati dalle associazioni temporanee di imprese, diffuse soprattutto nel settore degli appalti pubblici, si veda il contributo di A. ARGENTATI, L’associazione temporanea tra imprese negli appalti pubblici e nella disciplina antitrust, in Riv. dir. comm., 2000, p. 283 ss.

64

Il raccordo tra i due sistemi normativi e giurisprudenziali, in ogni caso, assume

un rilievo assolutamente determinante, specie alla luce di quanto statuito con il

Regolamento n. 1/2003 in merito alla necessità di una uniformazione e di una

armonizzazione nella applicazione (e dunque nella previa interpretazione) del diritto

comunitario della concorrenza (e delle normazioni nazionali derivate).

Abbandonando per il momento le considerazioni di carattere generale e calandoci

in un’analisi degli specifici tratti della fattispecie “intesa” che qui ci riguarda, si

osserva che, perché un accordo tra imprese possa dirsi rilevante sotto il profilo

antitrust, è necessario, secondo il disposto dell’art. 2, che ricorrano innanzitutto

alcuni requisiti cui la legge ricollega la previsione del divieto e della conseguente

nullità.

Più in particolare - ma tralasciando l’analisi tecnica delle singole fattispecie di

intese antimonopolistiche esemplificativamente contemplate dalla legge n. 287/90 -

ai sensi del comma 2 dell’art. 2, “sono vietate le intese tra imprese che abbiano per

oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il

gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte

rilevante82, anche attraverso attività consistenti nel: a) fissare direttamente o

82 Nella valutazione sotto un profilo antitrust di qualunque comportamento d’impresa (sebbene né le norme comunitarie né quelle nazionali lo prevedano espressamente), di fondamentale importanza è il concetto di “mercato rilevante” e la sua preliminare determinazione, in quanto funzionale alla successiva valutazione di indicatori strutturali quali le quote di mercato detenute dalle imprese. In estrema sintesi, l’individuazione del mercato rilevante nei singoli casi concreti presuppone un duplice accertamento: in primo luogo, si tratta di selezionare tutti i prodotti che, in ragione del prezzo, delle caratteristiche e dell’uso cui sono destinati, vengono considerati sostituibili dai consumatori e dunque in concorrenza tra loro (c.d. mercato merceologico o del prodotto); in secondo luogo, si tratta di determinare in questo contesto le imprese che, in ragione della loro ubicazione geografica, si trovano in rapporto di concorrenza l’una con l’altra (c.d. mercato geografico). In particolare, il grado di sostituibilità tra due prodotti in sede di individuazione del mercato rilevante, è misurato attraverso l’indicatore dell’elasticità incrociata della domanda che, mutuato dall’esperienza statunitense, indica il rapporto che intercorre tra le variazioni percentuali del prezzo di un bene X e le variazioni percentuali del prezzo di un bene Y. L’individuazione del mercato rilevante avviene dunque attraverso un giudizio prognostico incentrato sulla valutazione del presumibile comportamento dei consumatori di un determinato bene di fronte ad un ipotetico incremento del prezzo, lieve ma significativo e non transitorio, del bene stesso (a questo riguardo, si distingue tra consumatori marginali - che decidono di rivolgersi ad un altro prodotto - e consumatori captive o prigionieri – che, al contrario, restano fedeli al prodotto originario anche a fronte di un incremento del prezzo). Alla valutazione del grado di sostituibilità dal lato della domanda, si accosta poi, nell’individuazione del mercato rilevante, quella dal lato dell’offerta (c.d. supply substitutability), utile nei casi in cui “alcuni prodotti, benché non sostituibili gli uni con gli altri, sono considerati come appartenenti al medesimo mercato a causa delle loro condizioni di produzione molto simili”, così A. FRIGNANI - M.

65

indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali;

b) impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, gli

investimenti, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico; c) ripartire i mercati o

le fonti di approvvigionamento; d) applicare, nei rapporti commerciali con altri

contraenti, condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, così da

determinare per essi ingiustificati svantaggi nella concorrenza; e) subordinare la

conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di

prestazioni supplementari che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non

abbiano alcun rapporto con l’oggetto dei contratti stessi”.

La prima indicazione che si ricava dalla norma, quindi, è che l’illiceità delle

intese deve essere misurata con riguardo al loro “oggetto” o al loro “effetto”, ossia al

risultato anticoncorrenziale che un determinato comportamento, fattuale o negoziale,

concretizza sul mercato di riferimento83.

WAELBROECK, Disciplina della concorrenza nella CE, cit., p. 241. La stessa nozione, generalmente accolta, di “mercato rilevante” ci deriva dalla prassi nordamericana, che, come ricordiamo, si è provvista di una disciplina della concorrenza con il lontano Sherman Antitrust Act del 1890. Il concetto, sulla scorta del pensiero di alcuni illustri economisti (R. A. POSNER, Antitrust law. An economic perspective, Chicago, 1976; P. AREEDA - D. E. TURNER, Antitrust law, Boston - Toronto, 1978), è inteso come “il più piccolo contesto, in termini di insieme di prodotti e di area geografica, nel cui ambito è possibile, tenendo conto delle esistenti opportunità di sostituzione, la creazione di un significativo grado di potere di mercato” (Merger Guidelines del 1992). Sul punto, il Consiglio di Stato in una recente pronuncia (cfr. sentenza del 27 gennaio 2004, n. 926, Gemeaz Cusin Srl e altri/Agcm, cit.), ha ricordato che la rilevanza dell’individuazione del mercato rilevante assume diverso spessore a seconda che questa si riferisca alla valutazione di un’operazione sub specie di abuso di posizione dominante, ovvero quale intesa. Nel primo caso, infatti, “la delimitazione del mercato di riferimento inerisce ai presupposti del giudizio sul comportamento che potrebbe essere anticoncorrenziale”, posto che occorre preventivamente accertare l’esistenza di una dominanza nel mercato stesso. Nella fattispecie sanzionata dall’art. 2, invece, tale problematica “rileva in un momento successivo dal punto di vista logico”, non costituendo presupposto di accertamento dell’infrazione ma, diversamente, essendo funzionale alla decifrazione del suo grado di offensività. A riguardo la letteratura nazionale e straniera è vastissima, per cui, per tutti, si rinvia a G. BRUZZONE, L’individuazione del mercato rilevante nella tutela della concorrenza, in Temi e problemi, a cura dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, 1995, p. 12. 83 Secondo il Consiglio di Stato (sentenza n. 926 del 27 gennaio 2004, ult. cit.), “le norme in materia di concorrenza non sono di stretta interpretazione, ma colpiscono il dato sostanziale costituito dai comportamenti collusivi tra le imprese, non previamente identificabili, che abbiano oggetto o effetto anticoncorrenziale”. Sul profilo in esame si veda anche G. AFFERNI, Le intese restrittive anteriori alla legge antitrust: legge retroattiva o nullità speciale? (Ancora su Cass., Sez. I, 1° febbraio 1999, n. 827), cit., p. 939 ss., il quale sottolinea, in merito ad un problema di diritto intertemporale e di applicazione retroattiva della legge n. 287/1990, che la norma dell’art. 2 opera essa stessa una distinzione tra intesa quale fonte degli effetti, ed effetti stessi, considerati dunque quali fatti giuridici distinti. L’orientamento è stato condiviso, a questo proposito, anche dall’Autorità Garante la quale ha avuto modo di affermare che “esula dalla competenza della Autorità l’attività di cooperazione fra

66

Accanto ad un’analisi di tipo strutturale, incentrata sull’obiettivo rispetto al quale

l’accordo è strumentale (l’oggetto), il legislatore inserisce quindi una valutazione di

carattere funzionale, attenta alle concrete ripercussioni che una determinata condotta

imprenditoriale determina sull’assetto economico sottostante (l’effetto).

Più in particolare, con il termine “oggetto” la norma non si riferisce all’intenzione

delle parti, ma, in coerenza con un approccio di tipo funzionale, allo scopo oggettivo

ed al significato che l’intesa assume nel contesto economico di riferimento.

In tal senso depone anche la definizione recentemente introdotta dalle Linee

direttrici adottate dalle autorità comunitarie in merito all’applicazione dell’art. 81,

par. 3, del Trattato, secondo cui “le restrizioni della concorrenza per oggetto sono

quelle che per loro stessa natura possono restringere la concorrenza. Si tratta di

restrizioni che, alla luce degli obiettivi delle regole di concorrenza comunitarie,

hanno una potenzialità talmente alta da produrre effetti negativi sulla concorrenza

che è inutile, ai fini dell’applicazione dell’articolo 81, par. 1, dimostrare l’esistenza

di effetti specifici sul mercato”84.

La valutazione degli effetti, invece, deve essere effettuata ogni qualvolta la natura

anticoncorrenziale dell’oggetto non sia manifesta.

In questo caso, l’Autorità è chiamata quindi a verificare quale impatto concreto

esplica l’intesa sul grado di competitività dello specifico mercato in cui essa si

inscrive.

Peraltro, gli effetti di cui si deve tener conto nella va lutazione della condotta

imprenditoriale non sono solo quelli attuali, ma anche quelli solo potenziali. Perché

un’intesa sia considerata restrittiva (e dunque sanzionata) è infatti sufficiente (ma

non ai fini risarcitori ex art. 33) che essa sia idonea ad incidere negativamente sul

mercato rilevante, non essendo necessario che l’effetto lesivo si sia concretamente

verificato.

imprese realizzatasi antecedentemente all’entrata in vigore della legge n. 287/1990. Sono invece oggetto di valutazione gli effetti di tale attività ove si manifestino successivamente all’entrata in vigore della legge citata” [così provv. 14 marzo 1994, n. 1796 (180), Consorzio Trevi, in Boll., n. 8/1994, p. 32, nonché provv. 6 marzo 1996, n. 3671 (1123), Sipac, in Boll., n. 10/1996, p. 7]. 84 Cfr. Comunicazione della Commissione, Linee direttrici sull’applicazione dell’art. 81, par. 3, del Trattato, 2004/C 101/08, in G.U.C.E., 2004, C 101/97, par. 23.

67

La ripartizione tra oggetto ed effetto e l’accertamento circa la anticoncorrenzialità

dell’uno o dell’altro, non è peraltro condivisa unanimemente dalla dottrina.

La natura alternativa (e non cumulativa)85 dei due criteri (oggetto ed effetto) ai

fini del giudizio antitrust, ripetutamente affermata, è infatti contestata da quanti

ritengono che in realtà l’intera normativa in materia di intese sia incentrata sul solo

profilo effettuale.

L’oggetto dell’intesa, secondo questa ricostruzione, andrebbe quindi interpretato

quale semplice indice presuntivo di un effetto anticoncorrenziale, dovendosi

necessariamente accertare la presenza di conseguenze pregiudizievoli per gli scambi

a fronte di un comportamento il cui contenuto anticoncorrenziale non sarebbe, per

se, sufficiente a determinarne l’illiceità86.

85 Così, ad esempio, P. FATTORI - M. TODINO, Il diritto della concorrenza in Italia, op. cit., p. 69; P. MARCHETTI - L.C. UBERTAZZI, Commentario breve al diritto della concorrenza, Padova, 1997, p. 351, i quali, tra l’altro, chiariscono che per l’illiceità (e dunque la nullità) dell’intesa non è necessario che l’intero accordo risulti, nel complesso, ostativo del gioco concorrenziale: perché scatti il divieto è infatti sufficiente che alcune clausole abbiano un oggetto anticompetitivo. Nella giurisprudenza comunitaria, Corte di Giustizia, 8 luglio 1999, Commissione/Anic partecipazioni spa, C-49/92 P, in Racc., I, p. 4125. 86 In questo senso, da ultimo, M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, op. cit., pp. 448-449, il quale ritiene un’interpretazione di questo tipo in linea con le riforme introdotte dal Regolamento n. 1/2003. Peraltro, come precisa R. PARDOLESI, Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, cit., p. 475, sarebbe paradossale pensare che, in presenza di un accordo con contenuto intrinsecamente anticoncorrenziale non sia necessario procedere all’esame delle conseguenze dell’accordo. L’accertamento dell’illiceità dell’oggetto infatti, afferma l’Autore, “serve ad alleviare l’onere probatorio a carico di chi debba dimostrare la violazione; e non vale a togliere dal giro gli effetti, quando essi sono palpabili”. In questo senso anche F. GHEZZI e M. POLO, Alcune considerazioni sugli interventi in materia di intese e di abuso nell’esperienza comunitaria e italiana, in L’Industria, 2001, p. 103, secondo cui la verifica degli effetti di un determinato accordo - che non viene meno nemmeno con riguardo agli accordi “palesi” - si rivela fondamentale soprattutto al fine di stabilire un livello della sanzione proporzionale alla gravità dei comportamenti e alla rilevanza degli effetti che l’intesa ha generato. Criticamente M. GRANIERI, nota a Cass., sez. III, ordinanza 17 ottobre 2003, n. 15538; Cass., sez. III, sentenza 11 giugno 2003, n. 9384; Giudice di pace di Albano laziale, sentenza 10 settembre 2003, in Foro it., 2004, I, p. 466 ss., il quale, sottolineando il carattere “cruciale” dello snodo oggetto/effetto anticoncorrenziale, ritiene che “l’ansia di repressione” e le difficoltà probatorie hanno talvolta suggerito scorciatoie e fatto anticipare la valutazione di liceità dell’oggetto dell’intesa anche in casi per i quali un’analisi degli effetti avrebbe condotto a conclusioni tutt’altro che univoche (a riguardo ci si riferisce, più nello specifico, al provvedimento AGCM 28 luglio 2001, n. 8546, in Boll, n. 30/2000, confermato in parte qua dal Consiglio di Stato, sez. VI, 23 aprile 2002, n. 2199, cit.). Dello stesso avviso sembra pure la Cass., sez. III, 11 giugno 2003, n. 9384, in Foro it., 2004, I, p. 466 ss., la quale cassa la pronuncia di merito della Corte di Appello di Brescia, 29 gennaio 2000, citata, nel presupposto che l’accertamento di una condotta anticoncorrenziale non possa prescindere da una valutazione degli effetti della condotta stessa sul mercato. In quest’ottica, afferma la Corte, deve essere letto ed interpretato il requisito della consistenza, che l’intesa deve presentare perché se ne possa sancire la nullità.

68

In realtà, la differenza tra i due parametri pare assuma rilevanza, più che ai fini

della sola valutazione antitrust di un’intesa, con riguardo al successivo ed eventuale

momento risarcitorio.

Come hanno cura di specificare le Sezioni Unite della Corte di Cassazione in una

recente sentenza (la n. 2207 del 4 febbraio 2005, intervenuta nel corso della stesura

del presente lavoro), il divieto di cui all’art. 2, comma 2, tanto degli accordi aventi

“ad oggetto” quanto di quelli aventi un “effetto” anticoncorrenziale, “si spiega in

considerazione del doppio livello di intervento che essa prevede, quello

amministrativo della AGCM e quello riparatorio di cui all’azione di nullità e

risarcimento. L’Autorità Garante è organo di Amministrazione, ancorché

caratterizzato da ampiezza di poteri sui generis. Essa opera anche in vista di un

pericolo, e dunque in considerazione della esigenza economica di prevenire l’effetto

distorsivo del fenomeno di mercato. Il giudice, che dirime controversie e non si

occupa di fenomeni, può essere officiato solo in presenza o in vista almeno di un

pregiudizio”87.

Se quindi la concretizzazione dell’effetto restrittivo non è indispensabile ai fini

dell’intervento sanzionatorio dell’Antitrust, la quale può ben pronunciarsi a fronte di

una mera potenzialità monopolistica di una pratica concordata, lo stesso non può

dirsi con riguardo alla successiva ed eventuale vicenda risarcitoria dinanzi alla Corte

d’Appello ex art. 33, comma 2.

In quest’ultima sede, infatti, “deve essere allegata un’intesa di cui si chiede la

dichiarazione di nullità, ed altresì il suo effetto pregiudizievole, il quale rappresenta

l’interesse ad agire dell’attore secondo i principi del processo, da togliere

attraverso il risarcimento”88.

Quanto al metodo da impiegare per sindacare la liceità o meno di un

atteggiamento collusivo tra più operatori economici, è necessario - come chiarito

dalla migliore dottrina specialistica e dalle richiamate Linee direttrici -, tanto nella

valutazione dell’oggetto quanto dell’effetto dell’intesa, adottare un approccio

rigorosamente economico, attento ad apprezzare il potere di mercato detenuto da una

87 Cfr. Cass. n. 2207/05.

69

o più delle imprese coinvolte nella concertazione ed alla possibilità che l’accordo

accresca tale potere, consentendo uno sfruttamento della posizione detenuta dalle

interessate a danno dei concorrenti (attuali o potenziali) o degli utilizzatori finali89.

In ordine poi alla concreta individuazione dei comportamenti giuridicamente

rilevanti ai fini antimonopolistici, alla elencazione indubitabilmente esemplificativa

contenuta nella disposizione dell’art. 290, si aggiunge la distinzione tra intese

orizzontali ed intese verticali, a seconda che l’accordo intervenga tra soggetti

operanti in uno stesso mercato oppure a diversi livelli del ciclo produttivo o

distributivo di un medesimo bene 91.

88 Così ancora Cass. n. 2207/05. 89 Cfr. Linee direttrici, cit., parr. 25-27. 90 Che si tratti di elencazione esemplificativa e non tassativa, lo si può desumere dall’inciso “anche”, contenuto nella disposizione e, più in generale, dalla circostanza che le intese sono comunque vietate in relazione al loro effetto, a prescindere dal contenuto tipizzato dal legislatore. 91 Vengono solitamente ricondotte tra le intese orizzontali le seguenti categorie di accordi: a) gli accordi che tendono ad uniformare il comportamento di mercato delle imprese partecipanti, tra cui si inseriscono i cartelli in senso classico, tradizionalmente vietati per se, quali quelli che tendono alla uniformazione dei prezzi o delle altre condizioni contrattuali; gli abusi di sfruttamento, con cui le parti tendono, ad esempio, a subordinare la conclusione di un contratto all’accettazione di prestazioni supplementari (tying contracts) ; i patti di discriminazione; i patti di boicottaggio, ovvero le azioni concertate dirette a danno dei terzi al fine, ad esempio, di escluderlo dal mercato. Si tratta, come rileva M. MELI, Autonomia privata, sistema delle invalidità e disciplina delle intese anticoncorrenziali, cit., p. 12, di accordi non vietati per se, ma in relazione al loro effetto, per i quali dovrà verificarsi se attraverso di essi si realizzi una posizione dominante collettiva ; b) gli accordi che realizzano una programmazione privata del mercato (ad es. di contingentamento della produzione), che ricadono senz’altro nel divieto; c) gli accordi di cooperazione tra imprese (es. accordi di ricerca e sviluppo), solitamente indicati come tecniche indirette di cartellizzazione. Simili accordi non sono vietati per se, ed anzi spesso consentono il raggiungimento di obiettivi addizionali altrimenti non raggiungibili, assumendo di frequente la forma di vere e proprie strutture organizzative complesse (imprese comuni). Tra le intese verticali , tra il produttore e i dettaglianti o tra questi ultimi e i grossisti, si annoverano invece: a) le intese relative alla distribuzione commerciale dei prodotti; b) gli accordi che si risolvono, in linea verticale, in tecniche di uniformazione dei comportamenti (che, a loro volta, potranno avere ad oggetto la fissazione di prezzi o di altre condizioni contrattuali); c) gli accordi che tendono a ripartire i mercati, ad esempio attraverso le clausole di esclusiva, per la cui valutazione assume particolare rilievo l’indagine relativa al c.d. effetto cumulativo di blocco. In merito alla distinzione tra intese orizzontali e verticali, si afferma che, in linea di principio, gli accordi tra produttori che operano nello stesso stadio produttivo o di commercializzazione, sono considerati particolarmente pericolosi e dannosi e dunque guardati con maggior sfavore, poiché, attraverso il coordinamento dei comportamenti e le condotte collusive orizzontali, le imprese sono in grado di attuare comportamenti e ricreare situazioni simili a quelle di mo nopolio, con uguali effetti distorsivi sotto il profilo allocativo e redistributivo e con costi sociali complessivi ancora più alti, dovuti allo spreco di risorse ed ai costi di funzionamento dei cartelli (per una visione parzialmente critica, v. R. PARDOLESI, in Diritto antitrust italiano, cit., p. 149). Diversamente, si ritiene, in linea generale, che le intese verticali ricadono nel divieto solo in alcuni casi determinati, ed in generale quando si risolvono nella compartimentazione dei mercati, generando extraprofitti e costi aggiuntivi ingiustificati per i consumatori, come accade nel caso dell’imposizione del prezzo di rivendita e delle

70

Senza dilungarci nella descrizione delle diverse tipologie di intesa che la prassi e

l’elaborazione dottrinale offrono quale campionario di fattispecie colpite dal

disposto dell’art. 2, è invece opportuno sottolineare, perché operi il divieto, che la

compressione del gioco concorrenziale sul settore di riferimento deve

necessariamente assumere un peso sensibile (per dirla con l’art. 81 del Trattato CE).

La legge nazionale, cioè, diversamente dall’esperienza d’oltreoceano, non “vieta”

e non dichiara “nulle” tutte le intese (salva espressa esenzione), ma solo quelle che

incidono in maniera consistente sulla concorrenza e (almeno) in una parte rilevante

del mercato interno.

Consistenza della restrizione e rilevanza del mercato interessato dalla pratica

antitrust - misurate specialmente alla stregua delle ricadute effettuali che l’accordo

realizza sulla realtà economica sottostante - costituiscono dunque i due fattori

presupposti dal divieto, senza l’accertamento dei quali il piano concertato non può

dirsi illecito e dunque non può esservi nullità92.

Il requisito della consistenza, nella specie, pur potendo essere influenzato dalle

dimensioni del mercato rilevante, opera tuttavia su un piano diverso rispetto a

quest’ultimo, riferendosi alla restrizione del gioco competitivo al fine di evitare di

sanzionare accordi che, pur restrittivi della concorrenza tra le parti, non hanno

ripercussioni sensibili nei confronti dei terzi93.

Su quest’ultimo aspetto (su cui torneremo nel prosieguo del discorso) deve quindi

porsi particolare attenzione, specie in considerazione di quegli elementi

(comportamentali e negoziali) che, pur esterni all’accordo strettamente inteso,

assumono nel loro insieme un peso qualificante ai fini del sindacato di liceità

dell’intesa.

esclusive territoriali. In realtà, anche all’interno della summa divisio tra intese orizzontali e verticali, occorre ulteriormente distinguere tra accordi intrinsecamente anticompetitivi, volti a fissare prezzi, quantità o a ripartire i mercati, ed accordi che possono risultare anticompetitivi solo in determinate circostanze. 92 Cfr. G. OPPO, Costituzione e diritto privato nella “tutela della concorrenza”, in Riv. dir. civ., 1993, II, p. 546. 93 Così il Consiglio di Stato nella citata sentenza n. 926/2004, Gemeaz Cusin Srl e altri/Agcm.

71

5.2. La nullità delle intese anticoncorrenziali

La nullità contemplata dall’art. 2, comma 3, della legge antitrust - secondo il quale

“le intese vietate sono nulle ad ogni effetto” – ha comportato notevoli incertezze

interpretative, riconducibili ai tratti di anomalia che la caratterizzano e che valgono a

distinguerla parzialmente dalla categoria concettuale e dal regime applicativo

previsto dalla normativa civilistica degli art. 1418 ss.94.

Sebbene alcuni autori riconducano tout court le norme in questione, sotto un

profilo sostanziale, alla disciplina codicistica della nullità negoziale, pare infatti che

la sanzione antitrust si discosti da quella sotto diversi aspetti, tanto da aver indotto la

Corte di Cassazione, in una nota pronuncia, a qualificarla quale “nullità ulteriore

rispetto a quelle che il sistema già conosceva”95.

94 In merito alla nullità, in particolare, è utile dare conto di quanto elaborato in sede comunitaria; il diritto interno, infatti, ricalca il disegno elaborato dal legislatore comunitario, il quale all’art. 81 (ex 85) del Trattato ha previsto “la nullità di pieno diritto” degli accordi e delle decisioni vietate, rimanendo silente, quanto alla previsione della nullità, in relazione alle fattispecie di abuso di posizione dominante ed alle concentrazioni. La Corte di Giustizia, in particolare, si è più volte pronunciata sulla nullità delle intese e sul regime di questa sanzione, chiarendo che la disposizione contenente la previsione della nullità di pieno diritto “destinata a garantire l’osservanza del Trattato, va interpretata soltanto in funzione del suo scopo comunitario; la nullità si applica ai soli elementi dell’accordo colpiti dal divieto, a meno che detti elementi risultino inseparabili dall’accordo stesso, nel qual caso esso sarà colpito nel suo complesso; le conseguenze di tale nullità per tutte le restanti parti dell’accordo esulano dal diritto comunitario” (cfr. sentenza 30 giugno 1966, Soc. Tecnicque Minière/Maschinenbau Ulm., causa 56/65, in Foro it., 1966, IV, p. 193 ss.). Dalla pronuncia, rileva G. VETTORI , Materiali e commenti sul nuovo diritto dei contratti, cit., pp. 445-446, si ricavano gli elementi peculiari della nullità previs ta dalla norma comunitaria: innanzitutto, la ragione della nullità automatica delle intese vietate è di privare di valore gli accordi e le decisioni che incorrono nel divieto di fronte a qualsivoglia giudice all’interno della Comunità; si tratta dunque di una nullità di tipo “comunitario”, con una sua propria configurazione (ipso iure, ad effetto retroattivo, inopponibile ai terzi), che il giudice nazionale dovrà necessariamente applicare nei confronti di tutte le disposizioni contrattuali incompatibili con l’art. 81, dovendo invece decidere sulla base del diritto nazionale della sorte degli atti derivati dagli accordi nulli. Sul punto si veda anche R. GUARNIERI, L’azione di nullità (riflessioni sistematiche e comparatistiche), in Riv. dir. civ., 1993, p. 41 ss. Come precisa anche M. SCHININÀ, La nullità delle intese anticoncorrenziali, in Riv. trim. dir. proc. civ., n. 2/2004, p. 431, l’operatività della sanzione della nullità prevista dall’art. 81, par. 2, presuppone l’applicazione del diritto comunitario ai fini dell’individuazione della fattispecie vietata. L’interpretazione della nozione di “nullità di pieno diritto”, invece, deve avvenire sulla base del diritto nazionale, “dovendosi desumere dalla previsione comunitaria esclusivamente la volontà di caducare l’intesa anticoncorrenziale, attraverso l’applicazione della più grave delle forme di invalidità contemplate dal diritto nazionale”. 95 Anche B. LIBONATI, Intese orizzontali e aperture in tema di concorrenza e di mercato nella giurisprudenza della Cassazione, nota a Cass., 1° febbraio 1999, n. 827, cit., p. 1226, sottolinea la difficoltà di ricondurre la nullità dell’intesa di cui all’art. 2 alla tradizionale nozione codicistica: “forse un’altra definizione sarebbe stata preferibile, ma davanti al testo legislativo occorre evidentemente ricostruire su premesse rinnovate la concezione tradizionale, vedendo la nullità più

72

Delineando i tratti caratteristici della previsione dell’art. 2, comma 3, deve

evidenziarsi in primo luogo che la nullità ivi prevista - alla stessa stregua della

generale categoria dell’invalidità - opera automaticamente, senza cio è la necessità

di un provvedimento ad hoc da parte dell’Autorità garante.

Coniugando l’art. 2, comma 3, con l’art. 33 - ai sensi del quale “le azioni di

nullità (e di risarcimento del danno, nonché i ricorsi tesi ad ottenere provvedimenti

di urgenza a fronte delle diverse violazioni antitrust) sono promosse di fronte alle

corti d’appello competenti per territorio” – discende infatti che la nullità “ad ogni

effetto” opera ipso iure, ove siano integrati gli estremi dell’intesa anticoncorrenziale,

potendosene chiedere soltanto la dichiarazione da parte del giudice civile

competente, senza che all’Autorità sia attribuito - accanto a quello di diffida e di

comminare una sanzione amministrativa pecuniaria ex art. 15 - alcun potere

invalidatorio96.

La nullità antitrust, inoltre, se non si applica agli accordi che avevano già esaurito

i loro effetti al momento dell’entrata in vigore della legge n. 287/90, trova al

contrario applicazione nei confronti di tutte quelle intese da cui derivano rapporti

come sanzione che come vizio conseguente”. L’applicazione rigorosa della categoria della nullità alle intese lesive della concorrenza, infatti, rileva F. PARRELLA, op. cit., p. 522, nota 34, dovrebbe comportare l’invalidità ab origine delle intese e dunque l’impossibilità logico-giuridica di un’autorizzazione successiva delle stesse da parte delle Autorità competenti. Anche G. OPPO, Diritto dell’impresa e morale sociale, cit., p. 32, dubita della correttezza dell’impiego della categoria civilistica della nullità. In dottrina, manifesta perplessità in ordine all’inquadramento sistematico della nullità delle intese antitrust anche R. SACCO - G. DE NOVA, Il contratto, in Tratt. dir. civ., Padova, 1993, vol. II, p. 476. In giurisprudenza, valga l’esempio della Pretura di Brescia, 23 ottobre 1979, in Foro pad., 1980, I, p. 353, in cui per la prima volta si eccepisce la “nullità di pieno diritto”, ex art. 85 del Trattato CEE, di alcune clausole contenute in un contratto di licenza e il giudice manifesta perplessità in ordine all’inquadramento dogmatico della figura della nullità, ritenendo possa trattarsi di annullabilità o di inefficacia condizionata risolutivamente. M. MELI, Autonomia privata, sistema delle invalidità e disciplina delle intese anticoncorrenziali, op. cit., pp. 82-83, si domanda se, al di là del nomen iuris, la sanzione di cui all’art. 2, comma 3, non debba invece, in ragione della possibilità di “recuperare” l’atto attraverso il meccanismo della deroga, confluire in altre categorie giuridiche. 96 Le decisioni della Corte d’Appello, secondo buona parte della dottrina, saranno quindi indipendenti dalle valutazioni eventualmente espresse dall’Autorità, essendo i due organi preposti alla tutela di interessi differenti. Ciò tuttavia non toglie che, al di là dell’autonomia dei procedimenti e della non vincolatività delle reciproche decisioni - che escludono, tra l’altro che il giudice civile sia tenuto, in pendenza del procedimento antitrust, a sospendere il giudizio innanzi a sé ex art. 295 c.p.c. - si riscontra di regola una uniformità di posizioni. Diverse voci si sono espresse a sostegno della incostituzionalità dell’art. 33 della legge antitrust, che fa venir meno (diversamente da quanto avviene in sede comunitaria), come evidente, il doppio grado di giurisdizione.

73

obbligatori di durata, i cui effetti continuano a persistere anche al momento della

sopravvenuta vigenza della normativa antimonopolistica.

La conseguenza dell’applicazione dell’art. 2 agli accordi in corso di esecuzione è

quindi, in questo caso, la nullità sopravvenuta, la quale, anziché in via retroattiva,

opererà ex nunc a partire da quella data97.

La nullità antitrust è invece speciale se considerata dal punto di vista della fonte,

derivando da una legge altrettanto speciale che pone una nuova norma di ordine

pubblico98.

Il contravvenire al divieto si traduce infatti, secondo l’opinione prevalente, in un

vizio della causa dell’accordo99.

97 Contrasti si registrano in dottrina in ordine alla questione della decorrenza della previsione legale di una nullità successiva al perfezionamento di un contratto di durata per l’innanzi valido e tuttora pendente: nel senso della operatività ex nunc della previsione legale di nullità sopravvenuta si veda C. DONISI, In tema di nullità sopravvenuta del negozio giuridico, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1967, p. 797 ss.; F. MESSINEO, Il contratto in genere, in Trattato di dir. civ. e comm., diretto da Cicu e Messineo, vol. XXI, Milano, 1972, 2, p. 182 s.; nonché, implicitamente, R. TOMMASINI, voce Invalidità (dir. priv.), in Enc,. dir., vol. XXII, Milano, 1972, p. 591 ss.; nel senso invece dell’operatività ex tunc, R. SCOGNAMIGLIO, Sulla invalidità successiva dei negozi giuridici, in Annuario dir. comp. e studi legisl., 1951, p. 87 s. e 113 ss., specie 114 ss.; G. STOLFI, Teoria del negozio giuridico, Padova, 1947, p. 63; V. SCALISI, voce Inefficacia (dir. priv.), in Enc. dir., vol. XXI, Varese, 1971, p. 369 s. 98 In questo senso, G. FLORIDIA - V.G. CATELLI, Diritto antitrust, op. cit., p. 158, secondo i quali la nullità di cui all’art. 2 è ascrivibile alla contrarietà delle intese all’ordine pubblico economico; in senso conforme anche G. AFFERNI, Le intese restrittive della concorrenza anteriori alla legge antitrust, op. cit., pp. 941-942, il quale invece non condivide la tesi della nullità delle intese tout court, senza distinguere tra accordi e pratiche concordate: la nullità prevista dalla norma, nonostante il dato testuale, si riferirebbe infatti soltanto ai contratti. Una pratica concordata, come pure i gentlemen’s agreements, rilevando solo sotto il profilo della illiceità del comportamento, potrebbe, secondo quest’ultimo Autore, portare esclusivamente all’applicazione di una sanzione amministrativa o all’esercizio di un’azione inibitoria, oltre che al risarcimento del danno ex art. 2043 cod. civ. Della stessa opinione, anche M. LIBERTINI, Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme antitrust, in Giur. comm., I, 1998, p. 666, secondo il quale la nozione di intesa potrebbe riferirsi, in ordine alla previsione della nullità di cui all’ultimo comma dell’art. 2, solo ad un contratto o ad una deliberazione, facendo dunque riferimento agli artt. 1418 e 2379 cod. civ. Diversamente, M. TAVASSI - M. SCUFFI, Diritto processuale antitrust, Milano, 1998, p. 296, ritengono che la sanzione sia rivolta anche ad atti, comportamenti e decisioni privi del carattere di negozialità ed obbligatorietà. 99 Di questo avviso, ad esempio, M. LIBERTINI, Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust (II), in Danno e resp., n. 3/2005, p. 245 ss. Contra, M. SCHININÀ, La nullità delle intese anticoncorrenziali, op. cit., p. 424 ss., che inquadra la fattispecie in un’ipotesi di contratto illegale per violazione di norme imperative. Secondo M. MELI, Autonomia privata, sistema delle invalidità e disciplina delle intese anticoncorrenziali, op. cit., p. 81, la sanzione della nullità antitrust esprime l’esigenza di negare vincolatività ad accordi difformi dal modello normativo, reagendo ad una programmazione negoziale lesiva di valori fondamentali fissati dalla Costituzione (o, come nel nostro caso, da norme ordinarie attuative di principi costituzionali). In linea con l’ampia nozione di intesa elaborata dalla giurisprudenza comunitaria, un accordo restrittivo della concorrenza può essere

74

Tale affermazione viene peraltro dissentita da quanti evidenziano che la nullità di

cui all’art. 2 debba essere riferita non ad un vizio intrinseco all’atto, ma “alla

fattispecie comprensiva dell’atto e di un complesso di elementi fattuali ad esso

esterni, piuttosto che all’atto in sé considerato”100, ossia alla complessiva situazione

di mercato in cui l’atto è inserito e ad elementi ad esso esterni, tali da renderlo

idoneo a determinare quella consistente restrizione della concorrenza che

rappresenta il risultato vietato dall'art. 2 (e dall'art. 81 a livello comunitario)101.

Un’intesa, quindi, potrebbe essere vietata ex art. 2 (o ex art. 81) e quindi

dichiarata nulla pur avendo una causa lecita e non producendo ab origine un effetto

anticoncorrenziale. L’effetto sulla struttura potrebbe infatti discendere da circostanze

sopravvenute (da cui l’invalidità sopravvenuta) e che si collocano al di fuori

dell’oggettività della fattispecie (come nel caso dell’uscita di un concorrente dal

mercato).

Lo stesso ragionamento viene svolto pure con riguardo alle intese aventi un

oggetto anticoncorrenziale, in considerazione del fatto che anche in questo caso uno

stesso atto, avente il medesimo scopo ma inserito in un contesto diverso, potrebbe

non essere idoneo a determinare conseguenze sul mercato rilevante ed essere dunque

sottratto alla sanzione della nullità102.

A porsi direttamente in contrasto con la norma imperativa dell’art. 2 non sarebbe

quindi la funzione anticoncorrenziale dell’atto in sé considerata, bensì “la situazione

di fatto che consiste nel complesso dell’atto e di elementi ad esso esterni e che è

legata al contesto geografico e di mercato nel quale l’atto si inserisce”103.

La qualificazione in termini di nullità della situazione di restrizione della

concorrenza, piuttosto che del singolo atto che concorre a determinare tale

situazione, giustificherebbe tra l’altro l’applicazione della disciplina

inserito anche in un contratto tipico e lecito secondo le norme civilistiche (cfr. Consiglio di Stato, n. 150/2002, Rai/C.G.C., in Cons. Stato, 2002, p. 646 ss.). 100 M. SCHININÀ, La nullità delle intese anticoncorrenziali, cit., p. 422 ss. 101 Di questo avviso sono anche L. DI VIA, L’invalidità nei contratti tra imprenditori, in Trattato di diritto privato europeo, a cura di N. Lipari, Padova, 2003, p. 658 e G. OPPO, Diritto dell’impresa e morale sociale, op. cit., p. 32, secondo il quale “il vizio non è nella causa, ma nell’effetto, anzi nella quantità dell’effetto”. 102 Cfr. M. SCHININÀ, op. ult. cit., p. 424.

75

antimonopolistica anche a quei rapporti che siano stati originati da intese anteriori

all’entrata in vigore della legge n. 287/90, limitatamente agli effetti perduranti

dell’illecito104.

Profilo di specialità di particolare rilievo è poi quello che attiene alla sanabilità,

potendo l’intesa che ricade nella previsione dell’art. 2 (e quindi nulla), essere privata

dell’illiceità attraverso un provvedimento amministrativo con cui l’Autorità Garante

concede l’autorizzazione ai sensi dell’art. 4 della legge nazionale105 (almeno sino a

quando la norma non sarà modificata conformemente al mutato regime comunitario

dettato dal Regolamento n. 1/2003).

Accanto a questi profili di indubbia “specialità”, la nullità antitrust presenta

peraltro alcune caratteristiche tipiche dell’istituto civilistico, quali (oltre al già

richiamato carattere dichiarativo del provvedimento giudiziale che interviene ad

accertare la nullità) l’inefficacia nei confronti delle parti e l’inopponibilità ai terzi106,

nonché l’operatività in via retroattiva, con i conseguenti problemi relativi alle

103 Così, ancora, M. SCHININÀ, op. ult. cit., p. 425. 104 A riguardo si rinvia nuovamente a Cassazione, 1° febbraio 1999, n. 827 e Corte d’Appello di Milano, 20 settembre 1994, in Riv. Dir. ind., 1995, II, p. 289. Contra, Cass., 21 agosto 1996, n. 7733, in Giust. Civ., 1997, I, p. 1373; 4 marzo 1999, n. 1811, in Riv. dir. ind., 2000, II, p. 421. 105 Così M. TAVASSI - M. SCUFFI, Diritto processuale antitrust, op. cit., p. 300 e M. LIBERTINI, Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norma antitrust, op. cit., p. 667. A fronte del difficile inquadramento dogmatico della nullità sanabile, P. AUTERI , Nullità e autorizzazione delle intese restrittive della concorrenza nella normativa antitrust nazionale, in Riv. dir. ind., 1996, I, p. 69, propone di ricostruire la condizione giuridica in cui si trovano le intese sino all’ottenimento dell’autorizzazione in deroga in termini non di nullità, ma di mera inefficacia: in questa prospettiva, la nullità ricorrerebbe solo qualora l’autorizzazione sia stata negata o non sia stata richiesta (e non possa più esserlo). Negli altri casi, invece, l’accordo si troverebbe in uno stato di inefficacia provvisoria o pendente, che può risolversi nella inefficacia definitiva (nullità) oppure nella efficacia (ex nunc), alle condizioni e nei limiti temporali fissati dall’Autorità in sede di rilascio del provvedimento. Se quindi può darsi un’invalidità antitrust solo successiva - e ciò non solo nell’ipotesi in cui la normativa antitrust sia entrata in vigore posteriormente alla stipulazione dell’intesa, ma anche là dove ne sia sopraggiunta una valenza anticoncorrenziale (come nel caso di intese verticali che incorrano nel divieto solo al verificarsi di un effetto cumulativo di blocco, o dell’accordo di distribuzione esclusiva di un prodotto nuovo i cui iniziali effetti positivi vengano progressivamente meno), specularmente, il mutamento delle condizioni di fatto in cui un’intesa è stipulata può determinarne una compatibilità successiva con le norme di concorrenza, giustificandone l’autorizzazione. 106 Anche con riguardo all’applicazione dell’art. 81 del Trattato CE, la Corte di Giustizia ha enunciato che l’accordo “è privo di effetto nei rapporti tra i contraenti e non può essere opposto ai terzi” (cfr., sentenza 25 novembre 1971, causa C-22/71, Begueline import co./S.A.G.L. import-export, in Racc., 1971, p. 949).

76

eventuali restituzioni di quanto eseguito dalle parti conformemente alle intese di cui

sia dichiarata l’invalidità107.

La sanzione antitrust condivide poi con il rimedio generale della nullità anche la

parzialità di cui all’art. 1419 cod. civ. e l’imprescrittibilità dell’azione di cui all’art.

1422 cod. civ.

La nullità potrà quindi dirsi parziale, in questo modo riguardando solo gli

elementi dell’accordo colpiti dal divieto, purché non risulti che i contraenti (le

imprese colluse) non l’avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che

è colpita dalla nullità (ad esempio per “inscindibilità” delle relative clausole), e

sempre che non sia possibile la sostituzione di diritto della clausola nulla con norme

imperative (cfr. art. 1419, comma 2, cod. civ.)108.

A fronte di una clausola contrattuale incompatibile con l’art. 2, quindi, si dovrà

innanzitutto procedere ad una verifica circa l’essenzialità della stessa nell’economia

dell’accordo.

A questo fine, il giudice nazionale - sulla base del criterio oggettivo accolto dalla

giurisprudenza più recente e dunque prescindendo da difficili indagini in ordine alla

volontà reale o ipotetica delle parti109 - procederà in primo luogo a valutare se

l’intesa, privata della clausola nulla, risulti ancora funzionale alla realizzazione dello

scopo pratico originariamente avuto di mira dalle imprese aderenti e, soprattutto, a

107 La nullità, infatti, mira a ripristinare lo status quo ante, in quanto le prestazioni contrattuali già eseguite, data l’invalidità ex tunc della pattuizione, non trovando giustificazione nell’accordo dovranno essere restituite secondo le norme sulla ripetizione dell’indebito, salva comunque la possibilità per la parte che ha incolpevolmente confidato nella validità dell’accordo di domandare (ex art. 1338 cod. civ.) al contraente che conosceva o avrebbe dovuto conoscere l’esistenza della causa di invalidità il maggior danno subito per il suo affidamento. 108 M. TAVASSI - M. SCUFFI, Diritto processuale antitrust, op. cit., p. 297. Anche a livello comunitario la Corte di Giustizia ha ripetutamente affermato che la nullità di “pieno diritto” (“ad ogni effetto” secondo la dizione italiana) deve applicarsi solo agli elementi dell’accordo colpiti dal divieto ed investire la interezza dell’intesa solo se le clausole viziate non sono separabili dal resto (lecito) dell’intesa stessa. Anche la dottrina segnala come l’interesse di tutti i soggetti coinvolti, nonché l’utilità sociale verso la quale tende l’intero sistema dovrebbe privilegiare il più possibile la soluzione della nullità parziale e della sostituzione automatica delle clausole (ai sensi degli artt. 1419, comma 2, e 1339 cod. civ.) rispetto ad ogni altra soluzione ostativa alla conservazione del rapporto “rettificato” secondo legge a salvaguardia degli interessi in gioco, compresi quelli delle pretese vittime. Così, ad esempio, A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per la violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 339 ss. 109 Cfr. F. DI MARZIO, La nullità del contratto, op. cit., p. 403; S. POLIDORI, op. cit., p. 193.

77

misurare la compatibilità dell’atto, pur privato della parte colpita dalla nullità, con la

disciplina antimonopolistica.

L’esigenza di garantire il funzionamento del gioco concorrenziale si pone infatti

come “limite esterno rispetto all’autonomia contrattuale e impone al giudice di

verificare, a prescindere da una domanda di parte, gli eventuali effetti

anticoncorrenziali del contenuto residuo del negozio, al fine eventualmente di

stabilirne la nullità totale”110.

Quanto alla proponibilità dell’azione, si è peraltro osservato che la relativa

legittimazione non sia estesa a chiunque vi abbia interesse (alla stregua dell’art.

1421 cod. civ.111) ma - secondo una lettura dell’art. 2, comma 3, combinata con

l’art. 33 - soltanto alle imprese concorrenti che siano state lese dalla pratica

collusiva, con la conseguente esclusione tanto delle imprese non direttamente incise

dalla pratica illecita quanto (ed in via generale) dei consumatori sui quali

l’infrazione reagirebbe solo in maniera mediata ed indiretta112.

L’affermazione risulta peraltro superata dalla già richiamata sentenza delle

Sezioni Unite della Cassazione (la n. 2207 del 4 febbraio 2005), con cui il Collegio,

riconoscendo anche ai consumatori la legittimazione ad esperire l’azione risarcitoria

dinanzi alla Corte d’Appello territorialmente competente ex art. 33, ha aperto a

questi ultimi - nella misura in cui l’illecito antitrust abbia loro arrecato, restringendo

o “rompendo” il regime concorrenziale del mercato, uno specifico pregiudizio - la

possibilità di adire il giudice ordinario perché dichiari nulla l’intesa.

In merito a quest’ultimo profilo, ci si riserva comunque sin d’ora di rinviare alle

considerazioni sviluppate nel corso del Capitolo II e del Capitolo III.

110 M. SCHININÀ, La nullità delle intese anticoncorrenziali, op. cit., p. 446. 111 Anche applicando l’art. 1421 cod. civ., peraltro, la legittimazione verrebbe comunque ad essere ristretta soltanto a coloro i quali dimostrino la sussistenza di un concreto interesse ad agire, non potendo proporre l’azione semplicemente adducendo un fine generale di attuazione della legge (cfr., Cass., 11 gennaio 2001, n. 338, in Mass. Foro it., 2001). 112 Secondo indirizzo unanime, dall’azione di nullità sarebbe esclusa pure l’Autorità garante sulla base della mancata previsione, all’interno della legge antitrust, di una norma analoga a quella che, nel settore dell’editoria, legittimava il Garante per la radiodiffusione e l’editoria ad agire innanzi al giudice per ottenere provvedimenti cautelari o la dichiarazione di nullità di un’operazione di concentrazione.

78

Al momento pare invece opportuno dare un rapido sguardo ai problemi di

coordinamento che il regime della nullità dell’art. 2 solleva rispetto alla possibilità

di un’esenzione delle intese - contemplata rispettivamente dall’art. 81, par. 3, del

Trattato CE e dall’art. 4 della legge nazionale - sui quali è tra l’altro destinata ad

incidere profondamente la modernizzazione attuata con il Regolamento CE n.

1/2003, di cui nel prosieguo del discorso si delineeranno i passaggi essenziali e gli

aspetti innovativi.

5.3. L’autorizzazione in deroga Sul modello comunitario, la legge n. 287/90 prevede che un’intesa vietata ai sensi

dell’art. 2, comma 2, possa beneficiare di una esenzione nei casi in cui, nonostante il

profilo illecito, essa, residuando un margine sufficiente di competizione sul mercato

di riferimento, si mostri in grado di soddisfare alcune condizioni, dando luogo

complessivamente a dei benefici più che proporzionali agli effetti

anticoncorrenziali113.

Alla base di questo meccanismo di bilanciamento che giustifica l’autorizzazione

in deroga da parte dell’Antitrust114 vi è in particolare la convinzione che la

113 L’autorizzazione, infatti, presuppone in ogni caso l’accertamento della violazione del divieto di cui all’art. 2, comma 2, tanto che l’Autorità non può procedere ad un esame dell’istanza presentata dalle parti quando il giudice amministrativo ha pronunciato un’ordinanza di sospensione dell’esecutività della decisione di divieto precedentemente adottata dall’Autorità medesima (P. MARCHETTI - L.C. UBERTAZZI, Commentario breve al diritto della concorrenza, op. cit., p. 2331; cfr. provv. AGCM, n. 2884, Esenzione CIAG, in Boll., n. 11/95). Affinché l’intesa possa essere esentata è necessario, nella specie, che i benefici oggettivi che si verificano siano legati da un nesso di causalità diretto all’attività economica oggetto dell’accordo (in questi termini, ad esempio, si è espressa la Commissione con riguardo al caso Van den Bergh Foods limited, in G.U.C.E., 1998, L 246/19. In dottrina, R. PARDOLESI, Deroghe al divieto di intese restrittive della libertà di concorrenza, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 196 s. e p. 408 s.; A. FRIGNANI - M. WAELBROECK, Disciplina della concorrenza nella CEE, op. cit., p. 89; P. MANZINI, L’esclusione della concorrenza nel diritto antitrust comunitario, Milano, 1994, p. 177 ss.; M. MELI, Autonomia privata, sistema delle invalidità e disciplina delle intese anticoncorrenziali, op. cit., p. 79 ss.; P. MARCHETTI - L.C. UBERTAZZI, Commentario breve al diritto della concorrenza, op. ult. cit., p. 2330 ss.). 114 L’autorizzazione in deroga delle intese che ricadono nel divieto di cui all’art. 2, comma 2, rientra in particolare nella competenza esclusiva dell’Antitrust (R. PARDOLESI, op. ult. cit., p. 402), chiamata ad esercitare una funzione amministrativa di carattere discrezionale, rispetto alla quale non può quindi essere configurato alcun diritto delle parti ad ottenere l’autorizzazione (all’interno di una

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concorrenza non sempre si risolva nel più efficiente impiego delle risorse e che a

volte l’efficienza dell’azione imprenditoriale e l’innovazione possano essere favorite

da forme di cooperazione che diminuiscono la competizione fra le imprese e il grado

di concorrenzialità complessiva del mercato.

La disposizione dell’art. 4 conferma dunque, riprendendo le parole di un noto

studioso della materia, che “l’obiettivo da raggiungere non è l’assetto

concorrenziale in quanto tale, essendo la concorrenza un mero strumento funzionale

al raggiungimento dell’utilità sociale, che può essere perseguita anche mediante

altri e diversi percorsi economici (…). Da ciò emerge che il legislatore non ha

individuato nel mantenimento del maggior grado di concorrenza possibile il bene

ultimo da tutelare ma ha concepito la tutela della concorrenza come uno strumento

– anche se il principale – per realizzare il maggior grado possibile di utilità

sociale”115.

L’Autorità, del resto, è chiamata ad esercitare un’attività di regolazione

cosiddetta “condizionale”, definita dalla dottrina amministrativistica come

quell’“insieme di regole che, al contrario di quanto avviene per le regole di tipo

finalistico e prudenziale, non prefigura un risultato o un obiettivo al quale l’attività

privata deve conformarsi, bensì contiene criteri di comportamento e regole di

condotta rivolti agli stessi privati. (…) Si tratta di regole volte ad assicurare,

distinzione tradizionale dei provvedimenti amministrativi, quello in oggetto sembra assimilabile ad una dispensa , con cui si mira a consentire attività istituzionalmente vietate. Così M. CLARICH, Per uno studio sui poteri dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, in Dir. amm., 1993, p. 77 ss.). Ne consegue tra l’altro che, in una causa civile in cui venga in rilievo la nullità dell’intesa, al giudice non è consentito valutare la sussistenza delle condizioni per l’autorizzazione stabiliti nell’art. 4 e quindi assumere, anche incidentalmente, la validità dell’intesa vietata dall’art. 2 (così C. SELVAGGI, Disciplina della concorrenza e del mercato. Problemi di giurisdizione e di competenza, in Riv. dir. comm., 1993, p. 243 e p. 253). Nel settore bancario, invece, secondo quanto dispone l’art. 20 della legge n. 287/90, la competenza amministrativa è devoluta alla Banca d’Italia, nei cui confronti l’Antitrust esplica una funzione consultiva che investe anche la valutazione sulle condizioni di rilascio di una autorizzazione in deroga (parere AGCM, Accordi ABI-Bancomat, in Boll., n. 40/94; parere AGCM, Accordi interbancari-ABI, in Boll., n. 28-29/94). A riguardo si veda G. ROTONDO, L’attribuzione alla Banca d’Italia di poteri in materia di tutela della concorrenza (ex art. 20 della legge 10 ottobre 1990, n. 287) alla luce dell’evoluzione normativa del settore creditizio, in Riv. dir. impr., 1996, p. 381 ss. 115 L. DI VIA, L’invalidità nei contratti tra imprenditori, in Diritto privato europeo, op. cit., p. 745.

80

insieme, l’uguaglianza degli operatori, la libera scelta dei consumatori e l’efficienza

allocativa del mercato nel suo complesso”116.

Poiché l’intesa non è portatrice in sé di un disvalore oggettivo, ma solo nei casi in

cui falsi o minacci di falsare in maniera sensibile la concorrenza, il legislatore

prevede quindi la possibilità di ammetterla, purché migliorino le condizioni di

offerta sul mercato con beneficio dei consumatori oppure si assicuri il

raggiungimento di determinati obiettivi.

L’art. 4 della legge nazionale, ricalcato sul modello dell’art. 81 (par. 3) del

Trattato, dispone infatti che, perché l’Autorità possa pronunciarsi (con un

provvedimento di natura costitutiva) a favore della temporanea esentabilità

dell’intesa117, è necessario che: 1) l’accordo determini sensibili sviluppi nelle

condizioni di offerta sul mercato interessato, connessi in particolare con l’aumento o

con il miglioramento qualitativo della produzione o della distribuzione o con il

progresso tecnico o tecnologico118; 2) una congrua parte di tali benefici siano

riservati ai consumatori119, determinando, ad esempio, una migliore allocazione

delle risorse e la produzione di beni a prezzi più bassi o con standard qualitativi più

116 Così L. TORCHIA, Gli interessi affidati alla cura delle Autorità Indipendenti, in I garanti delle regole, a cura di S. Cassese e C. Franchini, Bologna, 1996, p. 58. 117 Vedi provv. AGCM, n. 140, Assirevi, in Boll., n. 7/92, e in Foro it., 1992, III, p. 562 ss., con nota di R. CORNETTA ed in Riv. dir. comm., 1992, II, p. 235 ss., con nota di L. SAMBUCCI. La temporaneità dell’autorizzazione non esclude peraltro la possibilità di un suo rinnovo - in simmetria a quanto espressamente previsto in diritto comunitario sub art. 81 - purché ne sussistano tutti i presupposti , ed in ogni caso previo accertamento dei benefici prodotti nel periodo di validità della deroga (cfr. provv. AGCM, n. 3832, CIRAS, in Boll., n. 16/96; n. 6814, Consorzio del Prosciutto di San Daniele/Consorzio del Prosciutto di Parma, in Boll., n. 37/99). L’autorizzazione può inoltre essere sottoposta a condizioni e ad oneri (cfr. R. PARDOLESI, op. ult. cit., p. 402; provv. AGCM, n. 1501, INA/Banca di Roma, in Boll., n. 30/93), ovvero soggetta a revoca (ai sensi dell’art. 4, comma 2) previa diffida, qualora l’interessato abusi dell’autorizzazione ovvero quando venga meno alcuno dei presupposti per l’autorizzazione (cfr. M. MELI, op. ult. cit., p. 109 ss.). La richiesta di autorizzazione presentata dalle parti può inoltre essere oggetto di rinuncia ed in tal caso l’Autorità chiude il procedimento istruttorio con una delibera di non luogo a provvedere (cfr. provv. AGCM, Ania, cit.). 118 La prima condizione riguarda quindi i cosiddetti incrementi di efficienza , distinti dalla Commissione in incrementi in termini di costi ed incrementi in termini di valore aggiunto. Il miglioramento, in particolare, discende dal conseguimento di quelle economie di scala che, in assenza dell’intesa, le parti non potrebbero realizzare (R. PARDOLESI, op. ult. cit., p. 410 ss.). A riguardo si rinvia inoltre a P. FATTORI - M. TODINO, La disciplina della concorrenza in Italia, op. cit., pp. 75-77, i quali analizzano le diverse fattispecie di intese esentabili a seconda della natura dei benefici apportati riportando un’ampia casistica di provvedimenti antitrust.

81

elevati (condizioni c.d. positive); 3) siano comunque garantite alle imprese le

condizioni necessarie alla concorrenzialità sul piano internazionale; 4) la restrizione

determinata dall’intesa esentata sia strettamente necessaria e proporzionale agli

effetti positivi elencati (cioè che non esistano alternative di minore impatto

anticoncorrenziale), non eliminando la concorrenza da una parte sostanziale del

mercato (c.d. condizioni negative)120.

Nel definire quali comportamenti soggettivi sono giustificabili alla luce della

tutela oggettiva del “bene concorrenza”, l’Autorità deve pertanto tenere conto di

fattori di diversa natura (non solo economica, ma anche sociale, dunque

“meta-concorrenziale”), in considerazione del fatto che “ripristinare il

contraddittorio sul mercato non può essere soltanto un’operazione di censura che

riporta tutti dietro la stessa linea di partenza, poiché, diversamente, lo stesso

sviluppo economico ed i benefici ad esso legati ne uscirebbero irrimediabilmente

frustrati. (…) Un’autorità di concorrenza ha, pertanto, il compito di garantire lo

sviluppo di un sano darwinismo di mercato, non certo quello di sterilizzarlo; se così

non fosse, il suo stesso ruolo ne uscirebbe compromesso specie sotto il profilo della

sua neutralità rispetto agli interessi in gioco”121.

In questo modo l’art. 4 introduce una eccezione al generale divieto di cui all’art.

2, rigorosamente subordinata alla cumulativa presenza di condizioni obbiettive

119 A questo proposito, le Linee direttrici sulla applicazione dell’art. 81, par. 3, del Trattato, chiariscono che per consumatori devono intendersi, a questi fini, “tutti i fruitori dei prodotti oggetto dell’accordo, dai distributori all’ingrosso, ai dettaglianti, agli utilizzatori finali”. 120 Il test di indispensabilità è soddisfatto se le parti dell’accordo dimostrano il nesso di causalità ed il rapporto di proporzionalità tra le misure anticompetitive ed i benefici attesi (cfr. provv. AGCM, n. 3692, Raffinerie di Roma/Fina italiana/Erg Petroli/Monteshell, in Boll., n. 11/96; in senso conforme Tar Lazio, 7 marzo 1997, n. 425, Raffineria di Roma e altri/AGCM, in T.a.r., 1997, I, p. 424). Il carattere indispensabile della restrizione, in particolare, come chiarisce la Commissione nelle Linee direttrici, deve essere valutata all’interno del contesto effettivo in cui opera l’accordo. Da ciò consegue quindi l’esigenza di un’appropriata analisi della struttura di mercato, dei rischi economici collegati all’accordo e dei possibili incentivi alle parti. 121 Così A. MAZZILLI , Verso un pieno riconoscimento della tutela giurisdizionale dei terzi contro le pronunce dell’Antitrust, nota a Tar Lazio, sez. I, sentenza 24 febbraio 2004, n. 1715, in Foro amm.: T.a.r., 2004, p. 1438. Come osservato dalla dottrina amministrativistica, il senso dell’intervento neutrale delle Autorità di regolazione si esprime “non tanto nella tutela di questa o quella situazione soggettiva, ma, invece, nell’assicurare le (pari) condizioni di svolgimento della libertà di tutti i soggetti potenzialmente interessati” (libertà d’accesso, libertà di scelta dei consumatori e migliore funzionamento del meccanismo allocativo), ossia l’equilibrio tra situazioni giuridiche soggettive, a

82

destinate ad assicurare che le restrizioni al grado di competitività del mercato

interessato siano da (un lato) giustificate tanto da esigenze di efficienza produttiva e

di progresso tecnico, quanto dall’interesse degli utilizzatori finali (e dunque anche

dei consumatori stricto sensu), e che (dall’altro) non siano incompatibili con il

sistema di “concorrenza non falsata” che tanto il Trattato quanto la normativa

interna si propongono di instaurare e mantenere122.

L’onere di provare la ricorrenza delle quattro condizioni richieste dall’art. 4

grava, in particolare, sui soggetti che richiedono l’autorizzazione123.

Alcune divergenze si registrano nella dottrina in ordine alla natura

dell’autorizzazione in deroga, inquadrata da taluno non quale requisito di validità di

un’intesa altrimenti condannata alla nullità, ma quale condizione legale di efficacia

di un atto che giace, prima dell’autorizzazione stessa, in una situazione di pendenza,

ovvero di provvisoria inefficacia destinata a tradursi in una ine fficacia definitiva

(conseguente alla violazione dell’art. 2 ed alla conseguente nullità) oppure ancora in

una efficacia decorrente dal momento della concessa deroga (ex nunc)124.

volte simmetriche, a volte confliggenti (cfr. L. TORCHIA, Gli interessi affidati alla cura delle Autorità Indipendenti , in I garanti delle regole, op. cit., p. 60 e p. 64). 122 Il carattere cumulativo delle quattro condizioni richieste per l’autorizzazione implica, nella specie, la stesura di un ideale bilancio economico dell’intesa notificata, nel quale trovano spazio non solo considerazioni sull’efficienza consentita dall’accordo, ma anche motivazioni ed elementi riferibili agli obbiettivi di politica industriale, quali il rafforzamento della posizione competitiva dell’industria italiana sui mercati internazionali (R. PARDOLESI, op. ult. cit., p. 409) o l’obbiettivo di favorire la transizione verso un assetto di mercato concorrenziale per un settore in precedenza rigidamente regolamentato (cfr. provv. AGCM, n. 2401, Assicurazioni rischi agricoli, in Boll., n. 11/95; n. 3832, CIRAS, cit.). 123 Cfr., ad esempio, i provv. AGCM: 21 gennaio 1999, Consorzio prosciutto San Daniele/Consorzio prosciutto di Parma, cit.; 19 luglio 2001, Unione Petrolifera/Piano di realizzazione della rete di carburanti, in Boll., n. 29/01. Nello stesso senso, con riguardo all’applicazione dell’esenzione di cui all’art. 81, par. 3, del Trattato, dispone l’art. 2 del Regolamento CE n. 1/2003 concernente l’applicazione delle regole di concorrenza di cui agli artt. 81 e 82, per cui si veda infra. 124 Di questo avviso, P. AUTERI, Nullità e autorizzazione delle intese restrittive della concorrenza nella normativa antitrust nazionale, op. cit., p. 93, secondo il quale, in attesa della decisione dell’Autorità, l’intesa nei confronti della quale sia stata richiesta o possa ancora essere richiesta la deroga produce gli effetti prodromici o preliminari strumentali all’ottenimento dell’autorizzazione e all’efficacia definitiva che siano compatibili con il divieto posto dall’art. 2. In particolare, le parti sarebbero vincolate a fare quanto necessario per ottenere l’autorizzazione e ad astenersi da qualsiasi comportamento che possa pregiudicare la futura efficacia del contratto; M. MELI, Autonomia privata, sistema delle invalidità e disciplina delle intese anticoncorrenziali, op. cit., p. 90 ss., specie p. 98 ss.

83

Diversamente da quanto accade in ambito comunitario125, si ritiene inoltre che il

nostro sistema antimonopolistico richieda alle imprese - allo scopo di rimanere al

riparo da ammende in seguito alla stipulazione di un’intesa - non solo di

comunicare l’avvenuta concertazione, ma di astenersi dall’eseguirla nelle more del

procedimento di autorizzazione 126.

In merito ai provvedimenti di esenzione, è inoltre opportuno segnalare che, dopo

un atteggiamento di iniziale chiusura, tanto la giurisprudenza nazionale 127 quanto

quella comunitaria manifestano ultimamente un atteggiamento di progressiva

apertura nell’estendere anche a soggetti terzi (imprese concorrenti o consumatori) la

legittimazione ad agire dinanzi all’autorità giurisdizionale amministrativa avverso

un provvedimento con cui l’Antitrust autorizza, in forza dell’art. 4, un’intesa

anticoncorrenziale.

All’iniziale esclusione della legittimazione al ricorso di quanti a) non fossero

diretti destinatari128 della decisione autorizzativi; b) non avessero partecipato al

procedimento (se non a titolo meramente informativo), si è infatti avvicendata -

125 Con riguardo all’art. 81, parr. 1 e 3, si prevede infatti che, nelle more del procedimento dinanzi alla Commissione e fino al momento della decisione, gli accordi notificati siano sottratti alle sanzioni amministrative, consentendone così l’esecuzione spontanea, cui si aggiunge inoltre il potere della Commissione di concedere l’esenzione con effetto retroattivo dalla data della notificazione o da un momento comunque successivo alla comunicazione dell’intesa stabilito dalla Commissione medesima. 126 Così P. AUTERI , Nullità e autorizzazione delle intese restrittive della concorrenza nella normativa antitrust nazionale, op. cit., p. 83. Di contrario avviso, R. PARDOLESI, op. ult. cit., p. 401 s. e R. ALESSI, in La disciplina della concorrenza e del mercato: commento alla legge 10 ottobre 1990, n.287 ed al Regolamento CEE n. 4064/89 del 21 dicembre 1989, op. cit., p. 31 e p. 46. 127 A livello nazionale, si veda ad esempio Tar Lazio, sez. I, sentenza 24 febbraio 2004, n. 1715, in Foro amm.: T.a.r., 2004, p. 1422 ss., con nota di A. MAZZILLI, Verso un pieno riconoscimento della tutela giurisdizionale dei terzi contro le pronunce dell’Antitrust, cit. Una prima apertura era ravvisabile già in Tar Lazio, sez. I, sentenza 5 maggio 2003, n. 3861, con commento di L. ZANETTINI, La legittimazione dei terzi ad impugnare i provvedimenti antitrust: il caso Sfir, in Foro amm.: T.a.r., 2003, p. 1952 ss. 128 Come precisato dal Tar Lazio, sentenza n. 1715/2004, cit., vanno disattesi quegli orientamenti dottrinari che qualificano come “diretti destinatari” dell’azione amministrativa esclusivamente quei soggetti che, rispettivamente: a) risultino menzionati nel provvedimento (o ai quali lo stesso sia stato comunicato o notificato); b) abbiano partecipato al procedimento; c) o siano stati colpiti da atti di diniego o da atti sanzionatori. Tali criteri infatti, osserva il Collegio, “appaiono immotivatamente restrittivi e formalistici, oltre che certamente insoddisfacenti sul piano dogmatico e della teoria generale, non essendo seriamente revocabile in dubbio: che nelle ipotesi di atti di regolazione, sono qualificabili destinatari diretti dell’azione amministrativa - siccome coinvolti in prima persona - tutti coloro che vengono assoggettati al potere conformativo; e che nelle ipotesi di atti autorizzatori,

84

seguendo una linea peraltro discontinua - una diversa tendenza, orientata ad

allargare il potere di impugnare il provvedimento di deroga ex art. 4 dell’Autorità,

che abbia come “effetto diretto” la lesione delle posizioni concorrenziali di altri

imprenditori presenti sul mercato, anche in mancanza dei due requisiti indicati.

Superando l’iniziale indirizzo restrittivo - propenso al disconoscimento in capo a

qualunque soggetto terzo (imprese concorrenti o consumatori) della titolarità di una

situazione giuridica sostanziale direttamente incisa dall’esercizio del potere

discrezionale dell’Autorità129 - la giurisprudenza amministrativa è giunta infatti a

riconoscere - in considerazione dell’esistenza di un interesse differenziato e

qualificato (diretto, concreto ed attuale) e del vincolo ermeneutico di cui all’art. 1,

comma 4, della legge n. 287/90 - la legittimazione del terzo concorrente (non anche

delle associazioni di categoria) ad agire nei casi in cui esista un nesso di causalità

diretta tra la decisione di esenzione e la lesione della posizione concorrenziale

subita130.

Uniformandosi alla linea comunitaria131, il giudice amministrativo nazionale ha

quindi statuito che, qualora un’intesa di per sé illecita venga, tramite una

sono qualificabili destinatari diretti dell’azione amministrativa tutti coloro che per effetto dell’attività illegittimamente autorizzata vengano a subire un ingiusto pregiudizio”. 129 Sul punto, si veda ad esempio M.E. SCHINAIA, Il controllo giurisdizionale sulle Autorità amministrative indipendenti, in Foro amm.: Cons. di Stato, 2003, p. 3171, il quale osserva che, poiché “sia il procedimento davanti all’autorità sia il successivo processo davanti al giudice sono preordinati ad una tutela oggettiva del libero mercato e non alla garanzia di posizioni individuali dei relativi operatori economici … le uniche posizioni a confronto davanti al giudice amministrativo sono da un lato quelle dell’autorità che ha adottato il provvedimento e quella dell’impresa che lo subisce, non potendo inserire direttamente nel processo anche l’interesse di altri soggetti privati, concorrente e consumatore che siano, che intendano rimuovere l’altrui comportamento contrario alle regole di concorrenza”. In questo senso anche la giurisprudenza amministrativa, la quale, su queste premesse, afferma che, a fronte della esplicazione di detti poteri, “tutti gli altri soggetti diversi da quelli direttamente incisi, siano essi consumatori, siano imprese concorrenti, sono titolari di un mero interesse diffuso, indifferenziato rispetto alla posizione di pretesa della generalità dei cittadini a che le autorità preposte alla repressione dei comportamenti infrattivi attuino correttamente e tempestivamente i poteri che sono loro, a tale specifico fine, conferiti dall’ordinamento” (cfr. Tar Lazio, sez. I, sentenze 11 febbraio 2003, n. 868; 13 luglio 1999, n. 1158; 23 dicembre 1997, n. 2216; 29 settembre 1998, n. 2746; 15 ottobre 1998, n. 2952; nonché Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 30 dicembre 1996, n. 1792). 130 Cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 14 giugno 2004, n. 3865, in Giorn. Dir. Amm., n. 1/2005, p. 33 ss., con commento di M. MACCHIA. 131 Cfr. Tribunale di Primo grado, 8 ottobre 2002, cause riunite T-185/00, T-216/00, T-199/00 e T-300/00, Métropole Télévision SA, in Racc., 2002, II-3808; Corte di Giustizia, sentenza 22 ottobre 1986, causa C-75/84, Metro II.

85

determinazione discrezionale dell’Autorità, “temporaneamente assentita in

considerazione della sua idoneità a perseguire finalità di natura pubblicistica”, le

imprese concorrenti, compresse nel loro diritto di iniziativa economica (e che

trovano salvaguardia proprio nel rispetto della normativa antitrust), divengono

pienamente legittimate a richiedere la verifica giurisdizionale di legittimità

dell’operato dell’Autorità, causa diretta del pregiudizio subito dalle imprese

stesse132.

Una contraria affermazione, infatti, sottrarrebbe ampi segmenti di azione

amministrativa al sindacato giurisdizionale e sarebbe per ciò stesso incompatibile

con il principio costituzionale che accorda a tutte le persone fisiche e giuridiche

indistintamente tutela giurisdizionale nei confronti dei pubblici poteri (artt. 103 e

113 Cost.).

5.4. L’invalidità successiva delle intese Come può avvenire che un’intesa certamente restrittiva della concorrenza (e dunque

indubitabilmente illecita, quindi nulla) sia esentata alla luce dell’effetto benefico che

essa esplica (ex art. 4 della legge antitrust) sulla dinamica competitiva (ovvero che, a

seguito di una modificazione sopraggiunta delle condizioni di mercato, divenga

successivamente compatibile con le norme antitrust)133, così può accadere che un

accordo inizialmente lecito divenga nel tempo talmente nociva per l’economia di un

determinato settore da dover essere vietata134.

132 Come precisato dal Tar Lazio, sentenza n. 1715/2004, cit., nell’ipotesi di adozione di un atto amministrativo illegittimo - siccome obiettivamente distorsivo del mercato - “il pregiudizio giuridicamente rilevante deriva non già dall’attività svolta dal beneficiario dell’atto autorizzativo, ma dal fatto che il predetto beneficiario la svolge proprio in ragione - e dunque a cagione - dell’ottenuta autorizzazione (o della mancata adozione della misura interdittiva). Ragion per cui il nesso di causalità diretta non può essere escluso, posto che è proprio il rilascio dell’autorizzazione a costituire la condicio sine qua non dell’azione dannosa”. 133 In caso di compatibilità successiva di un’intesa inizialmente nulla, tuttavia, la sanatoria avrà comunque efficacia ex nunc, facendo quindi salvi gli effetti (anche risarcitori) prodottisi in precedenza. Sul punto, si veda Corte di Appello di Torino, 7 agosto 2001, in Dir. ind., 2002, p. 261, con nota adesiva (sulla questione) di F. PORTINCASA. 134 La fattispecie rimanda direttamente al caso sottoposto al giudizio della Corte di Cassazione (1° febbraio 1999, n. 827, cit.), la quale, dalla premessa che il divieto dell’art. 2 si riferisce non già alla

86

Dato che la lesione della concorrenza si può cogliere solo a livello di analisi del

funzionamento dell’intero mercato rilevante, può infatti venirsi a creare una

situazione tale per cui il contrasto tra un’intesa - che si configura di regola quale

contratto di durata - ed il principio di concorrenza effettiva sopravvenga nel corso

dell’esecuzione del rapporto anche per cause del tutto indipendenti dalla volontà

delle aderenti.

La fattispecie, in particolare, è prevista dal Regolamento n. 2790/1999 CE in

materia di intese verticali135, il quale, con riguardo al c.d. “effetto cumulativo di

blocco” di più intese verticali indipendenti, contempla testualmente l’invalidità

successiva dei contratti che concretamente impediscano l’accesso al mercato di

eventuali nuovi concorrenti (si veda, ad esempio, il caso dei contratti di

approvvigionamento esclusivo per i distributori di carburanti).

semplice conclusione di un accordo con funzione o oggetto anticoncorrenziale, ma si indirizza ad ogni comportamento comune a due o più soggetti consapevolmente assunto, che nella sua dimensione fattuale abbia la capacità di alterare la concorrenza nel mercato interessato, trae il corollario per cui, se è indubbio che il divieto non può colpire una convenzione perfezionatasi prima della sua entrata in vigore, ciò non toglie che i comportamenti posti in essere sulla base di quell’accordo possano, in quanto obiettivamente dotati di una valenza anticoncorrenziale, ricadere nell’ambito di operatività del divieto, ove e nei limiti in cui essi siano successivi alla sua introduzione. Con simile affermazione, la Corte si ricollega a quell’orientamento consolidato secondo cui il sopravvenire di una norma imperativa che proibisce una certa manifestazione dell’autonomia privata, può determinare l’invalidità del contratto, nonostante il principio della normale irretroattività del ius superveniens, quando i suoi effetti siano destinati a protrarsi anche in costanza della disposizione proibitiva (cfr. Cassazione, 21 giugno 1993, n. 6864; 3 aprile 1987, n. 3231; 25 luglio 1978, n. 3709). In dottrina, a favore della nullità sopravvenuta nel senso citato è C. DONISI, In tema di nullità sopravvenuta del negozio giuridico, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1967, I, p. 755 ss. Con specifico riguardo alle intese anticoncorrenziali, si vedano: R. ALESSI - G. OLIVIERI, La disciplina della concorrenza e del mercato, op. cit., p. 174 s.; M. LIBERTINI, Legge antitrust nazionale e sua applicabilità ai contra tti stipulati prima della entrata in vigore della legge, in Riv. dir. priv., 1997, p. 352 ss., ove si conclude in prospettiva analoga a quella assunta dalla Corte nella pronuncia richiamata alla stregua del fatto che l’art. 2 prende in considerazione la fattispecie “intesa” in funzione delle sue conseguenze, prescindendo dal momento formativo dell’atto. In senso sostanzialmente conforme anche M. COCCIA, Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 1488 ss. (in specie p. 1492 s.); P. AUTERI, Nullità e autorizzazione delle intese restrittive della concorrenza nella normativa antitrust nazionale, op. cit., p. 102 ss. Contra, G. GUIZZI, A proposito della nullità delle intese restrittive della concorrenza concluse prima dell’entrata in vigore della legge n. 287/1990, op. cit., pp. 196-197. 135 In G.U.C.E., L 29 dicembre 1999, n. 336, p. 21.

87

In un caso del genere si ritiene che la qualificazione in termini di invalidità

successiva dell’intesa debba essere estesa anche ai contratti tramite i quali si viene

effettivamente a determinare questa strozzatura in entrata136.

6. Il Regolamento n. 1/2003:

profili generali della riforma Dando uno sguardo alle ultime novità normative in materia antitrust, è da ricordare il

Regolamento n. 1/2003 del Consiglio del 16 dicembre 2002137 - concernente

l’applicazione delle regole di concorrenza di cui agli artt. 81 e 82 del Trattato e

destinato a sostituire dal 1° maggio 2004 il Regolamento n. 17/62 - adottato dalle

istituzioni europee al fine di attuare un sostanziale processo di modernizzazione e di

semplificazione nel sistema di enforcement anticoncorrenziale e di raccordo tra le

autorità nazionali e gli organismi comunitari138.

136 Di questa opinione, M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, op. cit., p. 449. 137 Il Regolamento è pubblicato in G.U., n. 17 del 3 marzo 2003. A riguardo si ricordi che il progetto di riforma del sistema applicativo delle regole di concorrenza era già contenuto e descritto dalla Commissione nel c.d. Libro Bianco sulla modernizzazione delle norme per l’applicazione degli artt. 85 (ora 81) e 86 (ora 82) del Trattato CE, pubblicato nel 1999, cui ha poi fatto seguito un’ampia fase consultiva, terminata nella formulazione di una Proposta di regolamento del Consiglio che avrebbe dovuto sostituire il Regolamento n. 17/62. La pubblicazione della Proposta è stata poi seguita dalla trasmissione al Parlamento europeo e dalla stesura di un Parere del Comitato Economico e Sociale, il quale, apportati alcuni emendamenti, ha da ultimo condotto alla emanazione del Regolamento n. 1/2003. Per delle considerazioni sul contenuto del Libro Bianco, si rinvia a F. GHEZZI, Il libro bianco della Commissione sulla modernizzazione del diritto della concorrenza comunitario, in Conc. e merc., 2000, p. 175 ss.; L. NIVARRA, Il Libro Bianco sulla modernizzazione delle norme per l’applicazione degli articoli 85 e 86 del Trattato CE: quale futuro per il diritto europeo della concorrenza, Relazione al Convegno Giurista italiano – giurista europeo: il passaggio di millennio nella scienza giuridica italiana, Palermo, 7-8 aprile 2000, in Eur. e dir. priv., n. 4/2000, p. 1001 ss. In chiave prospettica, P. DE PASQUALE, Verso una nuova disciplina comunitaria in tema di concorrenza, in Dir. pubbl. compar. ed eur., n. 4/1999, p. 1575 ss. 138 Per un esame analitico delle novità introdotte dal Regolamento di modernizzazione, si vedano M. VICENTI e F. VENTURINI, La nuova disciplina comunitaria in materia di concorrenza, in Le nuove leggi civ. comm., 2003, p. 537 ss.; M. TAVASSI, Il regolamento CE n. 1/2003: verso la devoluzione di competenze in materia di concorrenza dalla Commissione europea alle autorità garanti ed ai giudici nazionali, in Dir. comm. scambi internaz., 2004, p. 315 ss. Per un commento più generale: G.M. BERRUTI, La nuova cooperazione attiva tra Istituzioni comunitarie, Antitrust nazionali e giudici nel Regolamento comunitario n. 1/2003, in Corr. giur., n. 1/2004, p. 115 ss.; L.F. PACE, La politica di decentramento del diritto antitrust CE come principio organizzatore del Regolamento 1/2003: luci ed

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La rilevanza dell’impatto e della svolta che l’introduzione del Regolamento è

destinata ad esercitare discende, in particolare, dal fatto che esso, pur limitandosi a

modificare il sistema applicativo delle sole norme comunitarie in materia di intese e

di abuso di posizione dominante, va in realtà ad incidere profondamente sulla

normativa nazionale e sulle attribuzioni delle autorità interne 139.

Richiamando per opportunità di indagine soltanto i passaggi normativi utili allo

scopo che ci riguarda, giova innanzitutto evidenziare che la linea di intervento del

Regolamento si snoda lungo due direttrici principali.

La prima novità è rappresentata, con specifico riguardo all’applicazione dell’art.

81, par. 3, del Trattato, dal passaggio dal previgente regime di autorizzazione

preventiva a quello di eccezione legale, alla stregua del quale le intese

anticoncorrenziali sono lecite e valide ab initio, senza la necessità di una preventiva

ombre del nuovo regolamento di applicazione degli artt. 81 e 82 CE, in Riv. ital. dir. pubbl. comunit., 2004, p. 147 ss.; R. BARATTA, Sui problemi di uniformità d’applicazione della normativa sulla concorrenza posti dalla “modernizzazione” dell’art. 81, par. 3, del Trattato CE, in Riv. dir. internaz., n. 2/2000, p. 502 ss.; N. PECCHIOLI - H. NYSSENS, Il regolamento n. 1/2003 CE: verso una decentralizzazione ed una privatizzazione del diritto della concorrenza. Commento al Regolamento CE n. 1/2003, in Dir. Unione eur., n. 2-3/2003, p. 357 ss.; A. PERA - V. FALCE, La modernizzazione del diritto comunitario della concorrenza ed il ruolo delle Autorità nazionali per la concorrenza – Rivoluzione o evoluzione?, in Dir. Unione eur., n. 2-3/2003, p. 433 ss.; F. GHEZZI, La modernizzazione delle norme antitrust comunitarie, in Riv. società, n. 6/2000, p. 1098 ss.; M. SCUFFI, I riflessi ordinamentali ed organizzativi del Regolamento comunitario n. 1/2003 sulla concorrenza, in Corr. giur., n. 1/2004, p. 123 ss. 139 A riguardo si veda A. PERA - P. CASSINIS, Applicazione decentrata del diritto comunitario della concorrenza: la recente esperienza italiana e le prospettive della modernizzazione, in Dir. Comm. Int., 1999, p. 723. Secondo gli Autori, nell’ambito del processo verso un crescente decentramento dell’attività di enforcement della disciplina antitrust europea, “occorre osservare che, oltre all’uniformità nell’applicazione delle disposizioni sostanziali di concorrenza comunitarie, un rilievo non secondario avrà la questione dell’uniformazione delle procedure (e.g. durata, diritto di difesa delle parti, modalità d’impugnazione delle decisioni) e soprattutto dei poteri (istruttori, cautelari e sanzionatori) utilizzabili dalle autorità nazionali, in relazione a casi rientranti nell’ambito di applicazione degli artt. 81 e 82 CE”. Sull’influenza che il Regolamento CE n. 1/2003 esplicherà nel contribuire “all’irruzione comunitaria nel diritto amministrativo nazionale”, rendendo quest’ultimo più complesso, disponendosi su più livelli (comunitario e nazionale) e risultando dall’interazione di tali livelli”, si veda S. CASSESE, Il diritto amministrativo europeo presenta caratteri originali?, in Riv. Trim. dir. Pubbl., 2003, p. 35 ss., nonché C. FRANCHINI, Il diritto amministrativo italiano e l’influenza comunitaria: l’organizzazione, in Riv. It. Dir. Pubbl. comunit., n. 5/2004, p. 1179 ss. Più in generale, sul rapporto tra diritto amministrativo nazionale e diritto comunitario, si veda: M. GNES, Giudice amministrativo e diritto comunitario, in Riv. trim. dir. pubbl., 1999, I, p. 331 ss.; S. CASSESE, Diritto amministrativo europeo e diritto amministrativo nazionale: signoria o integrazione?, in Riv. it. Dir. pubbl. comunit., n. 5/2004, p. 1135 ss.; S. DE MARIA, Recenti sviluppi della giurisprudenza comunitaria in materia di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto comunitario, in Riv. it. Dir. pubbl. comunit., n. 3-4/2004, p. 879 ss.

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autorizzazione da parte della Commissione ove siano soddisfatte le condizioni

previste dalla medesima disposizione 140.

Sulla base di questo meccanismo, è quindi compito delle imprese interessate

procedere ad una valutazione ex ante della legittimità dell’intesa, mentre il controllo

di liceità diviene solo eventuale e successivo, nel caso in cui si ritenga di volerne

contestare la validità dell’accordo.

Ai sensi dell’art. 1 del Regolamento, infatti, “Gli accordi, le decisioni e le

pratiche concordate di cui all’articolo 81, paragrafo 1, del Trattato che non

soddisfano le condizioni di cui all’articolo 81, paragrafo 3, del Trattato sono vietati

senza che occorra una previa decisione in tal senso. Gli accordi, le decisioni e le

pratiche concordate di cui all’articolo 81, paragrafo 1, che soddisfano le condizioni

di cui all’articolo 81, paragrafo 3, del Trattato non sono vietati senza che occorra

una previa decisione in tal senso”.

Con questo nuovo sistema si procede quindi ad una revisione sostanziale delle

modalità di applicazione della deroga al divieto di intese anticoncorrenziali di cui

all’art. 81, par. 3 (e, di conseguenza, dell’art. 4 della legge nazionale), al fine di

garantire una sorveglianza efficace sulle operazioni di mercato ed allo stesso tempo

una semplificazione del controllo amministrativo (cfr. Considerando n. 2).

Con questa “rivoluzione copernicana”, infatti, viene meno la necessità di

notificazione preventiva da parte delle imprese, la quale - a fronte dell’ingente

numero di notifiche trasmesse alla Commissione - è stata sino ad ora considerata

come la causa principale delle forti inefficienze e degli eccessivi rallentamenti

lamentati dalle istituzioni europee nell’applicazione della disciplina

antimonopolistica.

La seconda (ma consequenziale) innovazione (di grandissimo rilievo) è

rappresentata invece dalla eliminazione della competenza esclusiva della

Commissione europea nell’applicazione dell’art. 81, par. 3, e dall’attribuzione del

relativo potere di autorizzazione in deroga ai giudici ed alle autorità di concorrenza

140 Mentre la prova circa l’esistenza di effetti proconcorrenziali grava sulle imprese che hanno posto i essere l’intesa incriminata, quella relativa all’esistenza degli effetti anticoncorrenziali graverà invece sulla parte che ne afferma l’illiceità.

90

nazionali, ai quali viene quindi demandato in via decentrata il potere di accertare, in

sede di valutazione delle intese di cui all’art. 81, par. 1 (di rilevanza, dunque, non

limitata al solo mercato nazionale), la sussistenza delle condizioni per l’esenzione

dal divieto (di cui allo stesso par. 3)141. Come dispone l’art. 6, infatti, “le

giurisdizioni nazionali sono competenti ad applicare gli artt. 81 e 82 del Trattato”

(nella loro interezza).

Come ha osservato il Consiglio europeo, “Le giurisdizioni nazionali svolgono

una funzione essenziale nell’applicazione delle regole di concorrenza comunitarie.

Esse tutelano i diritti soggettivi garantiti dal diritto comunitario nelle controversie

tra privati, in particolare accordando risarcimenti alle parti danneggiate dalle

infrazioni.. Le giurisdizioni nazionali svolgono sotto questo aspetto un ruolo

complementare rispetto a quello delle autorità garanti della concorrenza degli Stati

membri”142.

Nel sistema concepito dal Regolamento, la Commissione e le autorità nazionali

- tanto amministrative quanto giudiziarie - sono pertanto investite allo stesso modo

e nella stessa misura della integrale applicazione dell’art. 81 del Trattato143.

141 Con l’art. 1 del Regolamento si è quindi data attuazione a quel sistema di eccezione legale già contemplato dal Libro Bianco, il quale disponeva che “In tale contesto, l’adozione di un regime di eccezione legale e di un controllo a posteriori potrebbe permettere di rispondere alle sfide che la politica di concorrenza dovrà affrontare nei decenni a venire. In un tale regime, difatti, qualsiasi autorità amministrativa o giurisdizionale investita dei poteri necessari potrebbe valutare pienamente un’intesa ad essa sottoposta esaminandone sia gli effetti restrittivi ai sensi dell’art. 85, par. 1, del trattato, sia gli eventuali vantaggi economici di cui all’art. 85, par. 3. L’adozione di un sistema di eccezione legale si tradurrebbe così nell’eliminazione della competenza esclusiva in materia d’applicazione dell’art. 85, par. 3, di cui la Commissione è stata investita dall’articolo 9, par. 1, del regolamento n. 17, e ciò agevolerebbe un’applicazione decentrata delle regole di concorrenza. Lo stesso sistema permetterebbe inoltre di eliminare per le imprese il vincolo burocratico della notifica, poiché le intese conformi alle condizioni d’applicazione dell’art. 85, par. 3, del trattato sarebbero riconosciute valide senza la necessità di alcuna autorizzazione. Eliminato il peso delle notifiche da esaminare, la Commissione potrebbe pertanto concentrarsi sulla repressione delle infrazioni più gravi” (p. 29). Come evidenzia M. MELI, Autonomia privata, sistema delle invalidità e disciplina delle intese anticoncorrenziali, op. cit., pp. 38-39, il Regolamento n. 1/2003, se sotto un profilo formale comporta solo un’emancipazione dall’idea della competenza esclusiva della Commissione nella valutazione dei presupposti per la deroga, dal punto di vista sostanziale - sostituendo ad un controllo ex ante un controllo ex post - determina un vero e proprio superamento del meccanismo dell’autorizzazione. 142 Così il 7° Considerando. 143 L’importanza della diretta ed integrale applicazione degli artt. 81 e 82 da parte delle autorità nazionali è accentuata anche dalla considerazione della nuova ed accresciuta realtà dimensionale dell’Unione la quale richiede, al fine di garantire il rispetto e l’uniforme osservanza delle regole di

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Il nuovo regime di eccezione legale, fondato su di un controllo a posteriori delle

intese da parte delle autorità nazionali, viene pertanto a perfezionare il processo di

decentramento del diritto antitrust comunitario in armonia con il principio di

sussidiarietà sancito dal Trattato di Maastricht e dunque a rafforzare il ruolo del

giudice naziona le nell’applicazione degli artt. 81 e 82144.

Come può agevolmente intendersi, il sistema di valutazione delle intese

introdotto con la riforma determina infatti non solo un formale superamento

dell’idea di una competenza esclusiva della Commissione nella va lutazione dei

presupposti per la deroga, ma, da un punto di vista sostanziale, ad un vero e proprio

superamento del meccanismo della esenzione, con un conseguente

ridimensionamento del problema relativo al rapporto divieto-eccezione, ora riferibile

solo ai casi “più gravi”.

Tale meccanismo, sino ad ora ritenuto (dalla stessa Commissione) indispensabile

nell’ottica della costruzione del mercato unico, viene difatti ritenuto sostituibile

concorrenza in ambito comunitario, che la Commissione si concentri principalmente sui casi di maggiore rilievo e gravità e sui settori di attività in cui l’azione della stessa è più efficace rispetto a quella svolta dalle strutture nazionali. A questo fine, peraltro, la Commissione aveva già adottato alcune misure tese a ridurre il carico delle notificazioni ad essa indirizzate, quali, ad esempio, la Comunicazione relativa agli accordi di importanza minore, c.d. de minimis, che concerne gli accordi ritenuti a priori non in grado di minare la concorrenza a livello di mercato comunitario che, pertanto, non devono essere notificati poiché non rientrano nel divieto posto dall’art. 81, par. 1, ed i regolamenti generali di esenzione per categoria, i quali - ferme restando le restrizioni fondamentali comunque proibite (le c.d. “clausole nere”) - definiscono le caratteristiche che debbono presentare gli accordi per essere considerati conformi alle condizioni di esenzione dal divieto poste dal par. 3 della medesima disposizione, senza la necessità di alcun esame preventivo (tra questi, si ricordino, oltre al citato Regolamento n. 2790/1999 relativo all’applicazione dell’art. 81, par. 3, a determinate categorie di accordi verticali e di pratiche concordate, il Regolamento n. 2658/2000 relativo agli accordi di specializzazione, ed il Regolamento n. 2659/2000 relativo agli accordi in materia di ricerca e sviluppo). A riguardo deve peraltro notarsi che, per espressa previsione del Regolamento n. 1/2003, l’applicazione della legislazione nazionale sulla concorrenza non può portare in ogni caso a vietare un’intesa che rientri in una delle categorie esentate alla stregua di un regolamento generale adottato dalla Commissione (cfr. art. 3, par. 2, Regolamento n. 1/2003). D’altro canto, però, conformemente al principio di decentralizzazione nell’applicazione del par. 3 dell’art. 81, si prevede che l’esenzione comunitaria possa essere revocata, limitatamente al confine nazionale, dalle autorità garanti (non anche dai giudici) nazionali qualora un’intesa esentata in applicazione della normativa regolamentare produca effetti incompatibili con l’art. 81, par. 3, del Trattato “sul territorio di uno Stato membro o di una parte di esso avente tutte le caratteristiche di un mercato geografico distinto” (cfr. art. 29, par. 2, del Regolamento). 144 L’art. 3 b), aggiunto dal Trattato sull’Unione europea firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1° novembre 1993 (ora art. 5, secondo la numerazione del Trattato di Amsterdam del 1997), stabilisce infatti che la Comunità sia chiamata ad intervenire soltanto se e nella misura in cui gli obbiettivi dell’azione prevista non possono essere realizzati dagli Stati membri.

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attraverso una immediata ponderazione dei vantaggi e dei costi in termini di

competitività del mercato connessi all’esecuzione di un determinato accordo.

Giova peraltro osservare che il meccanismo introdotto con il Regolamento n.

1/2003, se certamente comporta notevoli vantaggi sotto il profilo della speditezza e

dello snellimento delle procedure attribuite alla competenza della Commissione,

implica tuttavia un dato da non sottovalutare.

Il congegno della eccezione legale si traduce infatti nella restituzione agli

operatori economici di un ampio margine nell’esercizio della autonomia privata,

assegnando ad essi il compito di valutare autonomamente se gli accordi conclusi

presentano profili di illiceità o meno.

Ne consegue dunque una maggiore responsabilizzazione delle imprese, con tutti

i rischi che ciò comporta dal punto di vista della realizzazione degli obbiettivi di

tutela del mercato145.

In ordine alle autorizzazioni in deroga, invece, la conseguenza più evidente del

nuovo regime è il venir meno del carattere costitutivo del provvedimento di

esenzione.

Delineati per sommi capi i tratti generali dei temi di diritto antitrust che si

affacciano nella trattazione del tema, sembra a questo punto opportuno procedere ad

una disamina (critica) delle tesi che sono state sino ad ora offerte dalla elaborazione

dottrinale e giurisprudenziale in merito alla interazione tra l’infrazione antitrust

(relativamente alla quale sussistano gli estremi per una dichiarazione di nullità) e

l’attività negoziale (per lo più standardizzata ed uniforme) successiva con cui

ciascuna delle imprese colluse si lega alla clientela a valle.

145 In merito si veda L. TOFFOLETTI, Riforma del diritto antitrust comunitario: giudizio di esenzione e diritti dei singoli, in Giur. comm., n. 4/2002, I, p. 417 ss.

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CAPITOLO II

NULLITA’ DELLE INTESE ANTITRUST E CONTRATTI A VALLE:

ANALISI CRITICA DELLE RICOSTRUZIONI

1. Premessa La necessità di stabilire in che misura l’agire negoziale a valle possa ritenersi

pregiudicato e condizionato dall’accertamento - da parte dell’Antitrust - d i una

violazione delle regole poste a salvaguardia della concorrenzialità del mercato, ha

sollecitato - come anticipato nel Capitolo I - l’intervento della dottrina e della

giurisprudenza le quali, interrogandosi sugli effetti che i contratti conclusi da

ciascuna impresa aderente all’intesa con la propria clientela (conformemente al

programma concordato) subiscono per il porsi quale “precipitato” dell’illecito

anticoncorrenziale, hanno fornito nel tempo risposte di diverso tenore1.

1 In dottrina il tema è stato trattato marginalmente già da G. GORLA, Il contratto, Milano, 1955, vol. I, p. 214 ss., il quale, nell’individuare il limite di liceità dell’agire negoziale nella non dannosità sociale dell’atto di autonomia, si pone il problema se tale limite non sia violato dai contratti finalizzati ad alterare le condizioni del mercato oppure diretti a monopolizzarlo, nonché da quelli indirizzati a vincolare in varia misura la libera esplicazione di attività economica, risolvendolo tendenzialmente in senso affermativo. Sempre cenni sull’argomento si leggono, con specifico riferimento alla violazione delle regole dettate dagli artt. 81 (ex 85) e 82 (ex 86) del Trattato CE, in T. ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, op. cit., p. 163 ss., che conclude nel senso della nullità di qualsiasi incontro di consensi che abbia, anche indirettamente, effetti anticoncorrenziali. Più ampia attenzione al problema è dedicata da P.G. MARCHETTI, Boicottaggio e rifiuto di contrattare, Padova, 1969, p. 35 ss., il quale - seppure muovendo dall’analisi della problematica relativa alla individuazione della disciplina applicabile ai contratti che producano effetti diretti di boicottaggio - perviene alla conclusione, di portata tendenzialmente generale, secondo cui non è possibile procedere ad una considerazione separata delle regole di concorrenza e delle regole disciplinanti l’esercizio dell’autonomia privata, affermando pertanto che la violazione delle prime, realizzata attraverso la conclusione di atti negoziali, determina la nullità di questi ultimi, appunto perché diretti a realizzare un risultato non meritevole di tutela. In analoga prospettiva si pone anche G.B. FERRI, Ordine pubblico, buon costume e la teoria del contratto, Milano, 1970, p. 223 ss., che, interrogandosi anch’egli sulla validità dell’atto di autonomia che si pone in conflitto con le regole del mercato, tende a rispondere che l’eventuale violazione delle medesime dovrebbe determinare la nullità del contratto, e ciò sul rilievo che il limite dell’utilità sociale di cui all’art. 41 Cost. implica che gli atti in cui si esplica la libertà di iniziativa economica debbano essere valutati non solo in rapporto “all’incidenza effettiva su singole posizioni soggettive”, ovvero delle parti, ma anche nella loro “possibilità e capacità di incidere su tutti i consociati” ed in particolare “sui valori fondamentali che reggono la società e ne caratterizzano il sistema economico”. A questi atti, afferma l’Autore, deve pertanto

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La radice della divergenza tra le pronunce che si sono succedute sul punto nasce

in particolare dalla difficoltà incontrata nel ricostruire la natura del rapporto

intercorrente tra l’illecito antitrust e le vicende negoziali susseguenti, ovvero nel

dover verificare di volta in volta l’esistenza di un legame sufficientemente rilevante

tra i due momenti tale da ritenere che la nullità normativamente prevista per

l’infrazione concorrenziale possa essere estesa anche all’atto a valle.

Nella ricerca di una soluzione al problema si sono quindi andate distinguendo

diverse correnti interpretative le quali, nel concepire il contratto come un quid

disgiunto dalle scelte di mercato a monte e quale microcosmo distinto

dall’infrazione anticompetitiva di cui all’art. 2 (per quanto, da alcuni, supposto in un

rapporto di collegamento con l’intesa), propongono percorsi che - talvolta più

sensibili agli influssi del diritto comunitario - si muovono in via di principio nel

solco della nostra tradizione civilistica.

Tra queste - sulle quali ci si soffermerà più approfonditamente nei paragrafi a

seguire - si distinguono più precisamente due (più ampie) elaborazioni del

problema.

La prima raccoglie coloro i quali escludono in limine la possibilità di una

partecipazione dell’atto negoziale al destino di nullità dell’intesa: all’illecito

anticoncorrenziale ed alla conseguente sanzione civilistica viene infatti attribuita

rilevanza solo ai fini del ricorso agli ordinari strumenti impugnatori (annullabilità,

risarcimento del danno e, secondo una corrente minoritaria, rescindibilità del

contratto), individuando nel risarcimento del danno - posto a carico delle imprese

che conformano le proprie scelte negoziali a quanto stabilito nell’accordo restrittivo

a monte - il principale strumento di ristoro del pregiudizio subito dai contraenti a

valle a causa delle deteriori condizioni negoziali imposte attraverso il ricorso allo

strumento anticompetitivo.

essere negata tutela in tutti i casi in cui si pongano in contrasto con quei valori. Sul tema del possibile conflitto tra le manifestazioni dell’autonomia privata e la tutela della concorrenzialità del mercato, si veda anche G. VETTORI , Anomalie e tutele nei rapporti di distribuzione tra imprese (diritto dei contratti e regole della concorrenza), op. cit., il quale, discostandosi dalle impostazioni sopra menzionate, ravvisa nella violazione del principio di correttezza professionale cui deve ispirarsi la competizione tra imprese, una circostanza capace di incidere sulla validità del contratto non in termini di nullità ma di “impugnabilità”.

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La seconda, invece, riconduce unitariamente la patologia di cui soffre il contratto

a valle nell’alveo dell’amplissima categoria della nullità negoziale e della relativa

disciplina codicistica (art. 1418 ss. cod. civ.), presentando poi al suo interno ulteriori

articolazioni interpretative 2.

Nell’ambito di quest’ultimo vasto orientamento si inquadrano infatti diverse

ricostruzioni della nullità dei contratti conclusi in violazione della normativa

antitrust, letta rispettivamente quale sanzione conseguente ad un vizio derivato

ovvero ad un vizio proprio del negozio e riconducibile a sua volta a fonti

ulteriormente diversificate.

Tra queste ultime, vedremo, si distinguono, ne lla specie, la contrarietà del

contratto a norme imperative di legge (da cui la nullità virtuale del contratto, per il

combinato disposto degli artt. 1418, comma 1, cod. civ. e 2 della legge n. 287/1990),

l’illiceità sotto il profilo della causa3 (ex artt. 1343 e 1418, comma 2, cod. civ.)

ovvero dell’oggetto contrattuale (ai sensi degli artt. 1346 e 1418, comma 2, cod.

civ.).

Particolare considerazione merita quindi il profilo della nullità e della fonte cui

la sanzione invalidante viene di volta in volta ricondotta, con la dovuta precisazione

che, in ogni caso, il discorrere (ove lo si ritenga possibile) della ricaduta

dell’invalidità di un’intesa anticoncorrenziale in termini di nullità dei contratti a

valle, impone in maniera imprescindibile un’attenta individuazione del parametro

normativo cui fare riferimento e del relativo regime applicativo 4.

2 Deve poi ricordarsi che, tra quanti valutano in astratto la possibilità di ricorrere alle figure dell’invalidità negoziale, vi è chi non esclude la possibilità di configurare la patologia del contratto a valle come rimedio concorrente con l’azione aquiliana. Così, ad esempio, A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 347. Del resto, già un grande maestro (cfr. F. MESSINEO, Contratto nei rapporti col terzo, in Enc. del dir., vol. X, Milano, 1962, p. 197) aveva evocato la categoria generale del contratto a danno del terzo, che configurerebbe un atto illecito ex art. 2043 cod. civ., salvo però poi affermare, nella questione che ci occupa, che il patto di non concorrenza tra imprenditori comporterebbe per i consumatori solo un danno riflesso, irrisarcibile anche perché non nelle intenzioni immediate dei paciscenti. 3 A riguardo, F. PARRELLA, op. cit., p. 516, spiega l’improvviso interesse della dottrina per il tema e, soprattutto, la formulazione della tesi della nullità derivata - preceduta da una fase di iniziale esclusione della possibilità di far discendere la nullità dei contratti per adesione da un loro supposto contrasto con la normativa antitrust comunitaria (artt. 85 e 86 del Trattato) - anche in termini di condizionamento emotivo prodotto dalla coeva ondata di leggi a tutela dell’utente-consumatore. 4 Tra quanti ritengono che il contratto a valle sia affetto da nullità, si distinguono, come vedremo, da un lato coloro i quali attribuiscono alla sanzione il regime applicativo previsto dal codice civile, dall’altro chi invece riconduce l’invalidità del negozio alla recente figura della nullità di protezione

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L’estrema varietà di soluzioni offerte e lo stato di dubbio tuttora permanente sul

punto, suggerisce pertanto di svolgere qualche considerazione più approfondita sulle

diverse tesi prospettate a riguardo, al fine di poterne apprezzare l’attendibilità, nella

ricerca del rimedio più funzionale all’esigenza di garantire adeguata protezione al

contraente debole e, contestualmente, stabilità e competitività nelle relazioni

commerciali.

2. Intese illecite e nullità dei contratti a valle

Tra coloro i quali discorrono in termini di nullità dei contratti a valle si rinviene

prima di tutto, nonostante le divergenti prospettive, la presenza di un denominatore

comune, incardinato nella convinzione che l’optare per una diversa soluzione

condurrebbe sostanzialmente a vanificare gli obiettivi avuti di mira dal legislatore

con la previsione del divieto di cui all’art. 2 della legge antitrust5.

La ricaduta estrema della invalidità di un’intesa - si afferma - è prospettabile

infatti, implicitamente, dalla stessa ratio del divieto, la norma proponendosi di

colpire una certa condotta ritenuta illecita non ex se, ma in quanto abbia ad oggetto

ovvero quale effetto una consistente restrizione del grado di concorrenzialità del

mercato interessato.

L’accento posto sulla necessità di valutare l’anticoncorrenzialità della

convergenza di comportamenti da parte delle imprese operanti in un dato mercato

alla stregua delle conseguenze in termini “effettuali” che da questi discendono,

prima ancora che dall’oggetto, induce infatti, secondo questo vasto indirizzo

interpretativo, a ritenere che la nullità dell’intesa non possa non produrre riflessi

che, discendendo dalle fonti comunitarie, trova ormai larghissima previsione ed applicazione nel nostro ordinamento. 5 Critico a riguardo A. MIRONE, Standardizzazione dei contratti bancari e tutela della concorrenza, op. cit., p. 67, secondo il quale appare eccessivo far dipendere l’efficacia dell’enforcement antimonopolistico dall’invalidità dei contratti a valle, in quanto l’ordinamento possiede già sufficienti mezzi di reazione contro gli illeciti anticoncorrenziali, quali le sanzioni amministrative, le diffide, le azioni risarcitorie. All’inverso, osserva l’Autore, un’eccessiva pretesa sanzionatoria avrebbe come

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traumatici anche sui rapporti contrattuali in cui tali effetti distorsivi sostanzialmente

si concretizzano 6.

A questo comune denominatore si contrappongono tuttavia, come anticipato,

posizioni divergenti e contrasti ricostruttivi in ordine alla fonte della sanzione civile

ed al fondamento giuridico- formale cui ancorare la comminatoria di siffatta nullità7.

A riguardo, si distinguono in particolare due diverse ricostruzioni, delle quali

l’una giustifica la nullità dei contratti a valle muovendo dal principio della invalidità

derivata, ovvero da un meccanismo invalidativo che investe la vicenda negoziale in

virtù di un vizio esogeno trasmesso in via riflessa dall’illecito anticoncorrenziale a

monte; l’altra, invece, fonda la valutazione negativa dei singoli atti conclusi

dall’impresa collusa con la propria clientela in ossequio al contenuto dell’intesa, non

in ragione di un elemento esterno al contratto e riconducibile al rapporto che lo lega

all’accordo anticoncorrenziale che lo precede, ma di un vizio endogeno, che ne

inficia la validità da un punto di vista costitutivo, riguardando a sua volta il profilo

della causa o dell’oggetto negoziale.

Secondo quest’ultima corrente interpretativa, pertanto, la nullità del contratto

discenderebbe non da una patologia derivata e riflessa che, originata nell’intesa a

monte, si propaga automaticamente alle situazioni giuridiche sottostanti, ma da un

probabile conseguenza una progressiva tendenza a ridurre l’area dell’illecito, con effetti ben più gravi sul livello di concorrenzialità del sistema economico. 6 La centralità del piano effettuale dell’illecito è sottolineato in particolare con riguardo a quegli accordi che non rivestono rilevanza giuridica in quanto carenti dell’abito negoziale e per i comportamenti rilevanti solo di fatto in quanto effetto di pratiche concordate conseguenti all’abuso di una posizione dominante singola o collettiva. In queste fattispecie, si osserva, un’interpretazione letterale e strettamente formale della norma (per quanto sostenuta da parte della dottrina) che commina la nullità ai soli accordi, sarebbe del tutto insufficiente a cogliere le manifestazioni di abuso di posizione dominante individuale o di gruppo vietate dall’art. 3 della legge n. 287/90 che concretamente turbano la concorrenza. La necessità di colpire tutte le pratiche anticoncorrenziali, anche qualora queste si svolgano attraverso comportamenti puramente fattuali, sposterebbe quindi il piano applicativo della sanzione al comportamento infrattivo solo nel momento in cui l’abuso o la pratica concordata vengono a concretizzarsi attraverso la stipulazione del successivo contratto a valle. Pertanto, la previsione dell’art. 2, comma 3, della legge antitrust non potrebbe che assumere effettiva portata applicativa - e c iò soprattutto, come rilevato, con riguardo a quelle pratiche restrittive che si esprimano attraverso comportamenti meramente fattuali od informali - soltanto attraverso un’estensione della sanzione invalidativa alla vicenda negoziale che dà concreta attuazione al programma concordato a monte o nel quale si sostanzia l’abuso di una posizione di dominanza sul mercato. 7 In merito alla nullità quale sanzione civile, si vedano le celebri pagine di N. IRTI, La nullità come sanzione civile, in Contratto e Impr., 1987, p. 541 ss.

98

agente patogeno interno, idoneo ad inficiarne l’integrità da un punto di vista

strutturale, toccandone gli elementi costituivi.

Sia nell’una che nell’altra ricostruzione la nullità dei contratti a valle - pur

spiegata alla luce di un diverso ancoraggio normativo - è considerata quale

soluzione ottimale, almeno da un punto di vista astratto, al fine di poter rimuovere

gli effetti negativi derivanti alla collettività ed al mercato dalla spontanea osservanza

dell’intesa.

Allo stesso tempo, però, la considerazione delle conseguenze di ordine pratico

cui l’effettiva declaratoria di nullità dei contratti conclusi sulla falsariga dell’illecito

antitrust conduce, ed il rischio di dare così ingresso ad una soluzione che urta in

realtà contro quel valore di utilità sociale che pur si vuole tutelare e ripristinare,

induce - escludendo per un attimo coloro i quali ritengono che l’unica forma di

tutela, per chi in ragione dell’intesa ha dovuto concludere un contratto a condizioni

deteriori rispetto a quelle concorrenziali, sia quella rappresentata dall’azione

risarcitoria di cui all’art. 33 della legge antitrust - quanti persistono nel professare la

tesi dell’invalidità a circoscriverne l’ambito di operatività.

Si osserva infatti che il riconoscimento dello strumento invalidativo a valle per

violazione della norma imperativa che fa divieto di tenere comportamenti collusivi

anticoncorrenziali a monte comporterebbe il rischio di vedere la declaratoria di

nullità trasformata surrettiziamente in strumento di lotta concorrenziale.

La legittimazione attiva a far valere la nullità, enunciata dall’art. 1421 cod. civ.,

“a chiunque vi abbia interesse”, attribuirebbe infatti ad ogni impresa concorrente -

comprese le partecipanti all’intesa - il potere di agire al fine di caducare i suddetti

contratti8.

Colpire con la sanzione della nullità i contratti a valle potrebbe quindi rivelarsi

controproducente per la tutela degli interessi della stessa parte a favore della quale la

misura invalidativa sarebbe pure prevista, in particolar modo considerando che la

8 In questo senso, in particolare, A. TOFFOLETTO, op. cit., p. 340 s. Si osservi, peraltro, che simile rischio è più apparente che reale, dovendosi tenere presente che la legittimazione ad esperire l’azione volta ad accertare la nullità del vincolo negoziale non può essere riconosciuta in maniera indiscriminata, dovendosi restringere la portata dell’art. 1421 cod. civ. con la necessaria sussistenza - ripetuta ormai da tempo dalla giurisprudenza - di un interesse concreto all’azione, ai sensi dell’art. 100 c.p.c.

99

relativa pronuncia giudiziale potrebbe intervenire quando la controparte dell’impresa

non è più in grado di provvedere alla restituzione della prestazione ricevuta.

Si è poi rilevato il rischio insito nell’introduzione all’interno del sistema di uno

strumento (l’azione di nullità, appunto) in grado di condurre alla presumibile disfatta

economica delle imprese coinvolte nell’illecita collusione, atteso che queste ultime

potrebbero trovarsi nell’incapacità di far fronte alle obbligazioni restitutorie

derivanti dall’accertamento della nullità del vincolo negoziale 9.

Per questa ragione, coloro i quali persistono nel propugnare la tesi della nullità

dei contratti a valle provvedono poi in larga parte a connotarne la disciplina -

conformemente al più vasto trend normativo di derivazione comunitaria - in termini

di nullità relativa10, posta cioè nell’interesse esclusivo della controparte negoziale

della singola impresa collusa, e necessariamente parziale, ovverosia estesa solo a

quelle clausole che costituiscono l’effettiva e pedissequa riproduzione all’interno del

microcosmo negoziale di quanto previamente statuito a monte.

Di questi profili si darà più largamente conto nel prosieguo dell’indagine,

dovendoci al momento soffermare sulle diverse ricostruzioni che, dell’unitaria tesi

della nullità dei contratti a valle, la dottrina e la giurisprudenza hanno fornito sino ad

ora.

2.1. L’invalidità derivata e relative critiche

La prima ricostruzione, come accennato, identifica l’invalidità dei singoli contratti a

valle, di per sé strutturalmente perfetti, quale effetto riflesso della nullità dell’intesa

illecita, riguardata quale presupposto essenziale della sequenza negoziale

sottostante11.

9 Così ancora A. TOFFOLETTO, op. cit., p. 343, il quale argomenta la propria critica alla tesi della nullità del contratto per contrarietà a norma imperativa considerando che questa soluzione potrebbe essere praticabile solo imponendo alle imprese l’onere di attuare una politica di continuo accantonamento di riserve, con le quali eventualmente far fronte alle obbligazioni restitutorie derivanti dalla sentenza giudiziale con cui si dichiara l’invalidità del pactum; una politica questa, soggiunge l’Autore, che implicherebbe costi eccessivamente alti per il mercato. 10 Di questo avviso, A. BERTOLOTTI, Illegittimità delle norme bancarie uniformi, op. cit., p. 345. 11 In questo caso si ravvisa quindi un’ipotesi di collegamento negoziale tra l’intesa a monte ed il contratto a valle. A proposito, si ricordi che, in prima approssimazione, il concetto di “collegamento

100

Questa interpretazione poggia quindi sulla sussistenza di un nesso di causalità

ovvero di un collegamento in senso tecnico tra l’intesa ed i contratti conseguenti,

alla stregua del quale - in applicazione del principio simul stabunt simul cadent -

questi ultimi verrebbero ad essere colpiti in via automatica e derivata dalla invalidità

di cui all’art. 2, comma 3, della legge n. 287/90.

Secondo questa ricostruzione, in particolare, la nullità dell’infrazione

concorrenziale dovrebbe ripercuotersi negli stessi termini su tutti i negozi accessori

che si trovino in rapporto di collegamento funzionale con il negozio principale12.

Ragionare in termini diversi, si afferma, significherebbe infatti che la previsione

di nullità dell’intesa sarebbe inutiliter data qualora non potesse estendersi,

lasciandoli immuni, anche ai contratti che di dette collusioni costituiscono

sostanziale esecuzione e nella cui stipulazione si ravvisano quegli effetti restrittivi

alla libertà di competizione che la normativa antitrust intende reprimere là dove

contrattuale” suggerisce di per sé l’idea di un nesso o legame tra due o più atti negoziali. Il vincolo, come rileva A. RAPPAZZO, I contratti collegati, Milano, 1998, pp. 10-11, può essere meramente casuale od occasionale, ovvero necessario, se discende dalla natura stessa dei contratti ed, infine, può essere volontario e funzionale se è effetto della volontà dei contraenti. Questi ultimi, in particolare, costituiscono una delle possibili manifestazioni della libertà delle parti di determinare il contenuto del regolamento pattizio ex art. 1322, comma 1, cod. civ. (così G. FERRANDO, I contratti collegati, in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, fondata da W. Bigiavi, I contratti in generale, vol. III, I requisiti del contratto, Torino, 1991, p. 587). Come possono liberamente determinare il contenuto dei contratti che vanno a stipulare, del pari le parti possono infatti concludere più contratti i quali, pur conservando l’individualità e le caratteristiche del tipo negoziale di appartenenza alla cui disciplina rimangono rispettivamente sottoposti, vengono tuttavia funzionalmente e teleologicamentre collegati tra di loro in rapporto di interdipendenza. Limite oggettivo al collegamento, afferma F. MESSINEO, Contratto collegato, in Enc. del diritto, vol. X, Milano, 1962, p. 49, è dato, naturalmente, dalla non contrarietà a norme imperative, al buon costume o all’ordine pubblico e dal fatto che il collegamento non tenda a realizzare la frode alla legge. Peraltro non è necessario che i soggetti dei contratti collegati siano i medesimi (cfr. Cass. 30 ottobre 1991, n. 11638, in Mass. Giur. it., 1991), anche se occorre che il secondo contratto abbia in comune col primo almeno una delle parti (in tal senso anche F. MESSINEO, op. ult. cit., p. 48). La prima formalizzazione “della portata valutativa e non meramente descrittiva” del collegamento negoziale è riscontrabile, secondo M. NUZZO, I contratti del consumatore tra legislazione speciale e disciplina generale del contratto, cit., p. 316, nell’art. 125 della legge bancaria, la cui disciplina evidenzierebbe l’emersione sul piano del diritto positivo dell’unità dell’operazione in cui si compongono i contratti di fornitura e di finanziamento. La configurazione normativa di una fattispecie di collegamento, afferma l’Autore, che si sovrappone per alcuni profili alle fattispecie dei singoli negozi “consente di ritenere che, rispetto a questa, debbono considerarsi parti tutti i soggetti coinvolti nell’operazione. (…) Lo schema legale supera dunque la formale autonomia dei due contratti, che vengono considerati unitariamente, con la conseguenza di rendere nuovamente opponibili al finanziatore le eccezioni relative al contratto di vendita”. 12 M. TAVASSI - M. SCUFFI, Diritto processuale antitrust, cit., p. 298.

101

dichiara le intese nulle “ad ogni effetto” (art. 2, legge n. 287/1990) o “di pieno

diritto” (art. 81 del Trattato)13.

Con riguardo alla descritta soluzione, peraltro, sono state mosse diverse

obiezioni14.

La tesi dell’invalidità derivata, si afferma da alcuni, pur suggestiva, si presenta

supportata da considerazioni per lo più metagiuridiche15. Affermare che la

previsione di nullità dell’intesa è sostanzialmente priva di portata precettiva se non

può estendersi anche ai contratti a valle non troverebbe infatti alcun fondamento nel

dato normativo.

Innanzitutto, si rileva, l’invalidità potrebbe considerarsi inutiliter data solo in

relazione allo specifico caso in cui l’intesa consista in una deliberazione di

un’associazione di imprese avente ad oggetto la regolamentazione dei futuri rapporti

contrattuali con la rispettiva clientela, e non anche in relazione alla generalità dei

casi di intese fra imprese.

Ciò considerato, si deve quindi riconoscere che il divieto previsto dalla norma di

cui all’art. 2, comma 3, continua comunque a conservare un campo di applicazione

vastissimo, tale da non poterne in alcun modo inferire l’inutilità applicativa.

Sul piano delle valutazioni politiche e di opportunità, si contesta poi l’unità e

l’opportunità di estendere una sanzione drastica come la nullità ad operazioni del

tutto autonome ed indipendenti dalla collusione, considerando la soppressione

dell’intesa in via amministrativa quale rimedio sufficiente all’eliminazione degli

13 Di questo avviso, A. BERTOLOTTI, Illegittimità delle norme bancarie uniformi per contrasto con le regole antitrust ed effetti sui “contratti a valle, op. cit., p. 351, secondo il quale “vi è un nesso non solo logico, ma anche giuridicamente vincolante tra l’intesa ed il contratto a valle… ne discende che l’illegittimità di quella non può non riflettersi su questo”. Di contrario avviso, invece, con riguardo al medesimo caso, è A. MIRONE, Standardizzazione dei contratti bancari e tutela della concorrenza , cit., p. 74, secondo cui il divario esistente tra raccomandazione di categoria relativa alle n.b.u. (non vincolante) formulata dall’ABI e condizioni generali di contratto adottate dalle singole banche aderenti all’associazione romperebbe qualunque ipotesi di collegamento. Contrario alla tesi della invalidità derivata, per la difficoltà di ravvisare una qualche forma di collegamento, volontario o involontario, tra intesa a monte e contratto a valle è pure A.M. AZZARO, I contratti non negoziati, Napoli, 2001. 14 Così G. GUIZZI, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, cit., p. 81 ss., il quale ritiene ostacolo non trascurabile quello di considerare una pratica concordata o una deliberazione di associazione di imprese come il primo dei due termini negoziali fra i quali ravvisare un collegamento. A questo proposito, si veda anche A. MIRONE, op. cit., p. 71. 15 In questo senso, F. PARRELLA, op. ult. cit., p. 539.

102

effetti anticoncorrenziali, senza la necessità di comminare la nullità anche ai

contratti a valle, in questo modo trovando un ragionevole compromesso tra

l’esigenza di salvaguardia della concorrenzialità del mercato e l’esigenza di stabilità

dei rapporti contrattuali fra imprese e clienti.

Perché il meccanismo dell’invalidità derivata possa propagarsi dall’infrazione

anticoncorrenziale ai sottostanti contratti a valle è poi in ogni caso necessario

accertare preliminarmente l’esistenza di un nesso di indissolubile dipendenza con

l’intesa a monte, legame questo che non sembra invece riscontrarsi, almeno in linea

generale, con riguardo alla gran parte dei casi in cui, al contrario, le intese mostrano

di non costituire un tutt’uno con i contratti a valle, di non essere a questi collegati né

per legge né per volontà delle parti e di non rappresentarne in alcun modo un

presupposto di esistenza, validità od efficacia16.

I contratti fra la singola impresa ed il cliente, piuttosto, derivano in via esclusiva

dall’autonomia privata dei contraenti, ovvero da una autonoma manifestazione di

consenso da cui può discendere anche l’eventuale recepimento all’interno del

regolamento contrattuale delle singole clausole riproduttive dell’illecita

determinazione congiunta, rendendole così vincolanti per le parti17.

La circostanza che l’impresa collusa, per poter svolgere in maniera efficiente e

proficua la propria attività, debba pianificare la condotta uniformando a tale

programma le manifestazioni della propria autonomia privata18, non è quindi

considerata sufficiente a privare il successivo contratto a valle di una autonoma

ragion d’essere.

16 L’affermazione, come accennato, era riferita al rapporto intercorrente tra deliberazioni degli organi dell’ABI determinative di N.B.U. - qualificate quali intese antitrust - e disciplina dei contratti bancari per adesione contenente clausole riproduttive delle stesse N.B.U. 17 D’altro canto, si afferma con riguardo al caso bancario, se per ipotesi un cliente riuscisse a “spuntare” in sede di contrattazione individuale con la banca una clausola dal contenuto a sé più favorevole rispetto all’omologa clausola anticoncorrenziale (quale la N.B.U.), nessuno penserebbe di affermare la nullità o l’inefficacia della clausola stessa a favore della banca argomentando dalla supposta esistenza di un nesso funzionale di necessaria interdipendenza fra N.B.U. e clausole dei contratti a valle. In questi termini ancora F. PARRELLA, op. ult. cit., p. 541, nota 83. 18 Che l’agire negoziale dell’impresa sia strettamente condizionato dagli imperativi posti dalla gestione del ciclo produttivo, e che dunque non sia immaginabile un’attività contrattuale che non sia conformata alle regole previamente predisposte e programmate a tal fine dall’imprenditore, sembra ormai un dato sufficientemente acquisito. A questo proposito, in particolare, si veda L. SAMBUCCI, Il contratto dell’impresa, op. cit.

103

L’invalidità dell’intesa, dipendente dall’essere stata la singola condotta negoziale

previamente concordata con le imprese concorrenti, non si ritiene quindi suscettibile

di riflettersi automaticamente sui successivi e diversi atti attraverso cui l’impresa

medesima, conformandosi al programma illecitamente prefissato, esplica la propria

attività contrattuale. La rilevanza di questo piano di azione resterebbe infatti

circoscritta alla sfera personale dell’imprenditore, senza influire in alcun modo sul

processo decisionale della clientela, in tal modo escludendo qualunque fine illecito

comune 19.

Il dato è confermato pure dalla giurisprudenza di merito, secondo la quale

l’ipotesi della nullità derivata “cade con l’errato presupposto di un collegamento

negoziale”, in realtà non ravvisabile, “posto che alle intese tra imprese sono

totalmente estranei, sia sotto il profilo formale che economico, i consumatori, e

posto che l’intesa tra banche espressa nelle n.b.u. non ha ad oggetto un obbligo di

contrattare con terzi”20.

Pertanto, si conclude, “non è dunque configurabile un negozio complesso che

abbracci i due fenomeni” 21.

La nullità derivata del contratto concluso tra impresa e cliente, di conseguenza,

potrebbe ravvisarsi solo in quei rari casi in cui il singolo atto negoziale può

qualificarsi come accessorio all’intesa vietata, ovvero non solo collegato a quello

principale da un nesso teleologico- funzionale, ma anche dalla volontà delle parti in

ordine al vincolo di reciproca subordinazione che deve instaurarsi tra i due negozi22.

19 Contro la tesi dell’invalidità derivata, osserva G. GUIZZI, op. cit., p. 82, nota 25, milita anche il carattere non necessariamente negoziale delle intese restrittive della concorrenza. Infatti, se si accetta la premessa secondo cui la nullità dei contratti stipulati da ciascuna impresa aderente all’intesa vietata in conformità alla stessa è una nullità derivata, sostiene l’Autore, si dovrebbe trarre anche il corollario per cui tale misura non potrebbe mai colpire gli atti negoziali a valle, ad esempio, di una pratica concordata, non potendosi in questo caso ragionare in termini di nullità nemmeno con riguardo alla fattispecie comportamentale che del contratto costituisce il presupposto. La differenza in termini di conseguenze che la nullità di un’intesa a monte provocherebbe sui contratti a valle in ragione della diversa forma giuridica assunta dalla prima - negoziale o meramente comportamentale - comporterebbe quindi, a parità di attitudine a pregiudicare i valori propri dell’economia di mercato - una ingiustificabile disparità di trattamento, così rivelando l’irrazionalità della soluzione proposta. 20 Corte di Appello di Torino, 27 ottobre 1998, cit. 21 Cfr., ancora, Corte di Appello di Torino, 27 ottobre 1998, cit. 22 Sembra esigere la sussistenza di entrambi i profili la giurisprudenza maggioritaria, secondo la quale “le parti nell’esercizio della loro autonomia negoziale, possono dar vita a diversi contratti, che vengano concepiti e voluti come funzionalmente e teleologicamente collegati tra loro” (Cass., 25

104

E tuttavia, anche nei casi in cui si ritiene di poter ravvisare la sussistenza del

presupposto di natura oggettiva (il nesso teleologico- funzionale, appunto), di

particolare complessità risulta la successiva dimostrazione della partecipazione

soggettiva dell’utente finale (il quale stipuli un contratto con la singola impresa

collusa) al disegno anticoncorrenziale complessivo: per quest’ultimo, infatti, come

rilevato, l’accordo a monte, riconducibile allo schema di un contratto normativo

unilaterale, sembra rimanere quale semplice res inter alios acta23.

E se anche è vero che alle più tradizionali teorie soggettive sul collegamento

negoziale paiono di recente sostituirsi ricostruzioni maggiormente obiettive, va

comunque preso atto che anche queste ultime non prescindono affatto dall’analisi

dell’interesse delle parti, limitandosi a correggere la formula del “collegamento per

volontà delle parti” con quella di “collegamento per atto di volontà delle parti” 24,

ponendo dunque l’accento sulla proiezione oggettiva dell’intento dei contraenti

nell’esercizio della loro privata autonomia25.

Si ricordi inoltre che, benché l’identità delle parti dei due negozi non sia

requisito imprescindibile per il loro collegamento negoziale, quando difetti tale

identità - come appunto nel caso dell’intesa e dei contratti da essa derivati -

“l’intento delle parti di consentire a un tale collegamento è meno scontato e

richiede una prova rigorosa, perché in questi casi è ben più probabile che

l’unitarietà del risultato perseguito da uno soltanto dei contraenti non determini

un’interdipendenza funzionale” 26.

agosto 1988, n. 8410, in I Contratti, 1999, p. 336; conf., Cass., 15 febbraio 1980, n. 1126; in dottrina, M. GIORGIANNI, Negozi giuridici collegati, in Riv. it. sc. giur., 1937). Sul punto si veda, altresì, V. DI NANNI, Collegamento funzionale e funzione complessa, Napoli, 1984. 23 Così G. GUIZZI, op. ult. cit., p. 82 e F. PARRELLA, op. ult. cit., p. 507. In giurisprudenza, si veda Corte di Appello di Torino, 27 ottobre 1998, cit., secondo cui l’ipotesi della nullità derivata “cade con l’errato presupposto di un collegamento funzionale”, in realtà non ravvisabile, “posto che alle intese tra imprese sono totalmente estranei, sia sotto il profilo formale che economico, i consumatori, e posto che l’intesa tra banche espressa nelle n.b.u. non ha ad oggetto un obbligo di contrattare con terzi; non è dunque configurabile un negozio complesso che abbracci i due fenomeni”. 24 Così V. DI NANNI, I negozi collegati nella recente giurisprudenza (note critiche), in Dir. e giur., 1976, p. 130. 25 G. FERRANDO, I contratti collegati, op. cit., pp. 594-595. Sottolinea come l’antitesi tra teorie soggettive ed oggettive sia più apparente che reale G. LENER, Profili del collegamento negoziale, Milano, 1999, p. 17 ss. 26 Cass., 25 novembre 1998, n. 11942. Sul punto, G. LENER, op. ult. cit., p. 176 ss.

105

Secondo questa giurisprudenza, pertanto, affinché sia riscontrabile un

collegamento, non è sufficiente che il regolamento di interessi sia unitario con

riguardo a uno solo dei contraenti (quello che è parte di tutti i contratti), all’insaputa

o senza la partecipazione dell’altro, essendo al contrario necessario che tutte le parti

lo abbiano voluto.

In questa ottica, pertanto, l’invalidità - di per sé prevista per la sola intesa - si

ripercuote in via derivata sul contratto concluso tra impresa e cliente in via

esclusivamente eventuale, anche in considerazione del fatto che essa rimane esposta

all’incertezza con cui è di volta in volta individuato il livello di connessione minima

necessaria perché la nullità a monte possa trasmettersi a valle27.

Il rinvio alla figura del collegamento negoziale non rappresenta una soluzione

soddisfacente anche ove si consideri che la regola generale di estensione dei vizi tra

negozi collegati opera, proprio con riguardo alla nullità, con una certa cautela.

A questo proposito, i giudici fanno espresso rinvio all’art. 1419 cod. civ.28

sostenendo che, se l’intesa ed i contratti a valle possono ritenersi funzionalmente

legati da un rapporto di reciproca interdipendenza, allora la nullità prevista per la

prima travolge necessariamente l’intero regolamento di interessi.

Si aggiunge inoltre che invocare l’art. 1419 cod. civ. (in maniera

necessariamente tronca) per affermare la nullità, anziché la salvezza del contratto in

sé non viziato (secondo il principio vitiatur sed non vitiat enunciato dalla norma),

rappresenta indubbiamente una forzatura29.

27 Con riferimento al rapporto tra n.b.u. e contratti bancari, il collegamento era, ad esempio, ammesso da A. BERTOLOTTI, Illegittimità delle norme bancarie uniformi per contrasto con le regole antitrust, ed effetti sui “contratti a valle”: un’ipotesi di soluzione ad un problema dibattuto, cit., p. 351. Il nesso è, invece, radicalmente negato da A. MIRONE, op. cit., p. 74, secondo il quale lo iato esistente tra raccomandazione di categoria relativa alle n.b.u. e condizioni generali adottate dalle singole banche spezzerebbe in radice qualunque ipotesi di collegamento. 28 Si veda, ad esempio, Cass., 18 gennaio 1988, n. 321, in Giust. civ., 1988, I, p. 1214. 29 Un principio di questo tipo, rileva C. LO SURDO, Il diritto della concorrenza tra vecchie e nuove nullità, in Banca, borsa e tit. cred., n. 2/2004, p. 190, appartiene piuttosto a sistemi diversi dal nostro, quale quello tedesco, il cui § 139 BGB adotta una prospettiva rovesciata, in base alla quale la nullità di una parte del contratto si estende automaticamente all’intero regolamento negoziale, salvo che quest’ultimo possa continuare a vivere senza la parte caducata. Le regola di cui al § 139, in particolare, è fondata su due principi in base ai quali, in primo luogo, la parte interessata alla conservazione del contratto è gravata dall’onere di fornire elementi sufficienti per vincere la presunzione legale di nullità integrale dell’atto; in secondo luogo, ove l’apprezzamento della volontà ipotetica delle parti non possa altrimenti fondarsi, si fa prevalere, nel dubbio, la nullità dell’intero contratto disposta dalla legge. Peraltro, sottolinea l’Autrice, già da diverso tempo si registra anche

106

La circostanza che la giurisprudenza faccia ricorso ad una norma che il nostro

diritto dispositivo non contempla si ritiene debba essere interpretata come il segno

della difficoltà di trovare un soddisfacente fondamento a soluzioni che possono

essere invece acquisite nella prassi (la nullità di tutti i contratti collegati)30.

2.2. L’illiceità della causa Alla tesi della nullità in termini derivativi e riflessi si aggiungono, come anticipato,

quanti - prescindendo dall’accertamento del tipo di rapporto che lega l’atto

negoziale all’infrazione antitrust - riconducono la nullità del contratto a valle ad un

vizio proprio, ovvero alla illiceità endogena di uno dei requisiti costitutivi di cui

all’art. 1325 cod. civ.

Tra queste ricostruzioni, in particolare, quella che giustifica la nullità alla stregua

della illiceità della causa attribuisce carattere illecito ai singoli contratti stipulati

sulla falsariga di un’intesa vietata ravvisando in essi gli estremi di una diretta

violazione, alternativamente, della norma imperativa di cui all’art. 2 della legge

antitrust31, oppure del principio generale di ordine pubblico economico di libera

concorrenza 32.

nella giurisprudenza tedesca la tendenza ad interpretare ed applicare la norma come se accogliesse - alla stessa stregua del nostro ordinamento - la regola dell’utile per inutile non vitiatur. 30 Così C. LO SURDO, op. ult. cit., p. 190, che, a riguardo, si rifà alle riflessioni conclusive di G. LENER, op. cit., p. 237. 31 In questo senso, ad esempio, L. DELLI PRISCOLI, La nullità dell’intesa anticoncorrenziale da parte del giudice ordinario, nota a Cass. 1° febbraio 1999, n. 827, cit., p. 231, e (con specifico riguardo ai contratti conclusi in esecuzione di restrizioni verticali della concorrenza stipulati tra distributori e consumatori in cui il produttore abbia imposto i prezzi al distributore) ID., Le restrizioni verticali della concorrenza, Milano, 2002, pp. 156-157, ove l’Autore, criticando l’impostazione della pronuncia di legittimità, ritiene che i contratti a valle siano sì nulli, ma ex art. 1418, comma 2, cod. civ., per illiceità della causa, “perchè conclusi in violazione della norma imperativa rappresentata dal comma 2 dell’art. 2 - che vieta la fissazione concordata dei prezzi di vendita - e non per la nullità che colpirebbe il comportamento anticoncorrenziale”. L’Autore ritiene quindi che il giudizio di nullità “attiene soltanto al negozio giuridico con il quale due o più imprese si accordano per coordinarsi in modo da creare una situazione concorrenziale a loro favorevole e non anche all’effettiva messa in atto del comportamento distorsivo della concorrenza”. Contestando dunque l’affermazione della Corte, che ravvisa nella previsione dell’art. 2 un’ipotesi di nullità “ulteriore”, l’Autore interpreta la sanzione invalidativa quale nullità che, come le altre previste dal nostro ordinamento giuridico, “si riferisce ad un negozio giuridico, rappresentato dal patto anticoncorrenziale concluso dalle imprese”. A questo fine, inoltre, l’Autore opera un parallelo tra la norma citata e l’art. 9 della legge n. 192 del 1998 in materia di subfornitura, sostenendo che dal

107

Ogni contratto, infatti - secondo questa ricostruzione - nella misura in cui

costituisce lo strumento che consente all’impresa di conseguire concretamente quel

maggior profitto rappresentato dalla differenza tra quanto potrebbe ricavare

contrattando in regime di concorrenza e quanto in concreto ricava in ragione

dell’eliminazione della competizione realizzata grazie all’intesa, persegue un

interesse non meritevole di tutela.

Le singole clausole negoziali corrispondenti al contenuto della vietata

determinazione, in quanto illecite sotto il profilo causale, sono quindi invalide33.

confronto dell’art. 2, comma 3, della legge antitrust con l’art. 9, comma 3, di quest’ultima disciplina può ricavarsi ulteriore conferma del fatto che la nullità di cui all’art. 2 riguarda soltanto il patto attraverso il quale si realizza la distorsione della concorrenza e non anche la situazione concorrenziale determinatasi a seguito dell’esecuzione dell’accordo da parte delle imprese che vi abbiano preso parte. L’Autore poi, in I controlli sui prezzi nei contratti d’impresa, in Riv. dir. comm., 2000, pp. 100-101, parzialmente modificando la propria tesi, ma confermando la nullità per illiceità della causa dei contratti d’impresa a rilevanza pubblica posti in esecuzione di un’intesa diretta a fissare i prezzi di vendita, o quelli stipulati imponendo prezzi ingiustificatamente gravosi abusando della propria posizione dominante, osserva che il concludere diversamente con riguardo all’ipotesi di accordo illecito porterebbe ad una ingiustificata disparità di conseguenze tra due condotte - quelle previste dall’art. 2 e dall’art. 3 della legge antitrust - “del tutto omogenee e dai confini non nettamente definiti”. Infatti, poiché l’art. 3 vieta l’imposizione dei prezzi ingiustificatamente gravosi, sarebbe impossibile obiettare che tale norma non sia una norma imperativa direttamente violata dai contratti conclusi tra grande impresa e consumatori. In merito a quest’ultimo profilo, si veda anche, del medesimo Autore, L’abuso di dipendenza economica nella nuova legge sulla subfornitura: rapporti con la disciplina delle clausole abusive e con la legge antitrust, in Giur. comm., 1998, I, p. 833 ss. 32 Aderiscono alla tesi della nullità derivata per illiceità della causa del contratto già stipulato, in quanto venuta in contrasto con un principio di ordine pubblico economico: S. LA CHINA, Commento sub art. 33, in Concorrenza e mercato, a cura di G. Alpa e V. Afferni, Padova, 1994, p. 647 ss.; Tribunale di Roma, 20 febbraio 1997, in Giur. comm., 1999, II, p. 449 ss., con nota di A.V. GUCCIONE, Intese vietate e contratti individuali a valle: alcune considerazioni sulla c.d. invalidità derivata, secondo cui “(…) l’accertata violazione delle norme in materia di concorrenza nella predisposizione delle norme bancarie uniformi non può non comportare conseguenze sulla validità delle clausole che risultino inserite nei singoli contratti con la clientela. Queste clausole, in quanto predisposte in contratti-tipo articolati dall’ABI ed applicati da tutte le aziende di credito, costituiscono una violazione del principio di libertà di concorrenza che, in linea di principio, si configura come una delle caratteristiche della libertà di iniziativa economica sancita dall’art. 41 della Costituzione. In tal modo risulta violato il c.d. ordine pubblico economico e la clausola contrattuale è nulla per illiceità della causa ai sensi dell’art. 1343 cod. civ.”. In questo senso anche N. SALANITRO, Disciplina antitrust e contratti bancari, cit., p. 420 il quale peraltro rileva come la situazione sia più incerta, invece, con riguardo ai contratti da stipulare: se le clausole vengono ugualmente inserite nei contratti anche in mancanza di deliberazioni formali, la loro illegittimità a livello antitrust dovrà essere accertata sul piano applicativo in termini di comportamenti paralleli o di pratica concordata. 33 In questo senso si è espressa la Corte di Appello di Brescia con sentenza 29 gennaio 2000, in Foro it., 2000, I, p. 2679 ss. ed in Giur. it., 2000, p. 1876 ss., con nota di A. BERTOLOTTI, Ancora su norma antitrust e contratti a valle, in ordine ad un’intesa - ritenuta illecita dall’Autorità Garante con provv. 28 aprile 1993, n. 1087, in Giur. dir. ind., 1993, p. 826 ss. - stipulata tra la società convenuta (Novogas s.p.a.) ed altre imprese operanti nel settore della distribuzione del gpl per uso domestico. Con la pronuncia, in particolare, la Corte ha sancito la nullità virtuale dei contratti di somministrazione e comodato stipulati da ciascuna società fornitrice con la propria clientela

108

Secondo questa prospettiva, pertanto, il contratto a valle si pone nei confronti

della norma imperativa di cui all’art. 2 alla stressa stregua dell’intesa che ne

costituisce l’antefatto.

Come chiarito nel Capitolo I, infatti, la dottrina è sostanzialmente concorde nel

ricondurre l’invalidità del comune state of minds sancita dalla normativa

antimonopolistica nazionale quale ipotesi sanzionatoria conseguente al contrasto tra

l’elemento causale dell’accordo tra le imprese colluse ed il principio generale del

libero mercato.

La nullità del contratto a valle per illiceità della causa, in quanto contraria alla

norma imperativa dell’art. 2 della legge antitrust, viene sostenuta anche da chi

ritiene sufficiente che l’autonomia privata, pur non superando la soglia di rilevanza

che giustifica l’intervento dell’Autorità garante (e dunque anche al di fuori del

campo di applicazione delle norme imperative della legge antitrust), sia esercitata in

modo tale da perseguire finalità contrarie al principio di concorrenza effettiva

all’interno di un determinato mercato.

La nullità di cui all’art. 2 della legge n. 287/1990 non costituisce altro - secondo

questa visione - che una specificazione dell’indicazione di principio contenuta nel

comma 2 dell’art. 41 Cost.34, per cui neanche la definizione legale di una soglia

dimensionale minima - al di sotto della quale non si giustifica l’avvio di un’azione

amministrativa da parte dell’Autorità nazionale - vale ad escludere una valutazione

in termini di illiceità della causa degli accordi (minori) lesivi della concorrenza

(come pure di illiceità degli abusi monopolistici commessi in piccoli mercati).

utilizzando lo schema contrattuale uniforme, comprensivo di vincolo di esclusiva, predisposto dalla convenuta. Nella medesima direzione si era mosso anche il Tribunale di Roma il quale, con la pronuncia citata nella nota che precede, ha ritenuto nulle le clausole contenute nei singoli contratti stipulati tra la banca ed i propri clienti, riproducenti Norme Bancarie Uniformi qualificate dalla Banca d’Italia come intese vietate per illiceità della causa ex art. 1343 cod. civ. in quanto contrastanti con la libertà di concorrenza e quindi con l’ordine pubblico economico. 34 Favorevole ad una lettura della nullità dei contratti che perseguano finalità anticoncorrenziali è M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, op. cit., pp. 445-446, per il quale “la presenza di una normativa specifica non esclude la possibilità di dichiarare nulli atti privati anticoncorrenziali che, per qualsiasi ragione, non rientrino nell’ambito di applicabilità dell’art. 2”. Così pure V. SCALISI, Nullità e inefficacia nel sistema europeo dei contratti , in Eur. e dir. priv., 2001, p. 492, secondo cui la nullità delle intese, sancita dalla disciplina comunitaria (e, mutatis mutandis, quella nazionale ) “è sicuramente da ricondurre ad illiceità della causa”.

109

Una tesi assolutamente minoritaria - su cui non si ritiene di doversi dilungare -

prospetta poi la nullità dei contratti a valle quale conseguenza dell’illiceità della

causa per frode alla legge ex art. 1344 cod. civ. 35, interpretando questi ultimi come

lo strumento attraverso il quale le singole imprese tendono sostanzialmente ad

eludere il divieto di cui all’art. 2.

2.2.1. Critiche

Anche a questa ricostruzione sono state mosse diverse critiche. Il primo ordine di

contestazioni muove innanzitutto dal concetto di “causa-concreta” e dalla

considerazione della differente natura che i contratti conclusi da chi svolge attività

d’impresa presentano a seconda che li si guardi, rispettivamente, dalla prospettiva

dell’imprenditore ovvero della controparte.

Mentre l’inerenza teleologica del contratto a valle all’attività d’impresa vale a

spiegare la ragione dell’atto negoziale dal lato dell’imprenditore - risolvendosi

quest’ultimo nello strumento attraverso il quale l’impresa concretamente realizza il

fine cui istintivamente tende, l’extraprofitto36 - lo stesso discorso non può infatti

essere svolto con riguardo al singolo contraente a valle il quale, lungi dall’utilizzare

il contratto quale strumento volto al perseguimento di uno scopo ulteriore e indiretto

(anticoncorrenziale), esaurisce il proprio interesse nella realizzazione del fine tipico

dell’atto concluso.

Data la premessa, si conclude nel senso che l’impossibilità di ricostruire un

comune intento delle parti circa l’interesse pratico perseguito mediante la

stipulazione del contratto a valle, non consente di ragionare con riguardo a

quest’ultimo atto negoziale in termini di causa illecita.

Quanti criticano questa tesi, in particolare, oppongono che di illecito nei contratti

a valle c’è al più solo il movente di una delle parti, quella che intende attuare l’intesa

vietata.

35 L’ipotesi è astrattamente prospettata da V. SCALISI, op. ult. cit., p. 492 e da M. MELI, op. cit., p. 134. 36 A questo riguardo si veda ancora L. SAMBUCCI, Il contratto dell’impresa, op. ult. cit., p. 211 ss.

110

Il fine dell’impresa collusa di realizzare per via negoziale un profitto superiore a

quello conseguibile in un regime di leale competizione resterebbe dunque relegato

entro i confini della sfera soggettiva dei motivi individuali, non comuni e come tali

giuridicamente irrilevanti, atteso che “un motivo illecito unilaterale non è sufficiente

per determinare l’invalidità di un contratto”37.

Accanto alla critica di quanti affrontano il problema partendo da un concetto di

causa concreta, si pongono poi (giungendo in sostanza alle medesime conclusioni)

coloro i quali contestano la prospettata tesi della nullità dei contratti a valle partendo

invece dal concetto di causa quale funzione economico-sociale dell’atto negoziale.

Sorvolando per opportunità di indagine l’annosa disputa che ha visto la dottrina

e la giurisprudenza dividersi intorno al concetto di causa accolto dal nostro

ordinamento - analisi che richiederebbe bel altro impegno e competenza -, ci si

limita a ricordare che quest’ultima ricostruzione del problema esclude la possibilità

di ragionare in termini di causa illecita con riguardo ai contratti a valle di un’intesa

anticoncorrenziale quante volte i primi rientrino tra i tipi legali previsti dal nostro

legislatore.

Sul punto, si rileva, non potrebbe nemmeno astrattamente prospettarsi un’ipotesi

di illiceità sul piano causale dei contratti che riproducono sostanzialmente la

determinazione anticoncorrenziale, attesa la previa e non censurabile indagine in

termini di liceità effettuata dal legislatore nella stessa costruzione del tipo

corrispondente38.

37 P. SCHLESINGER, Sul problema della responsabilità per i danni derivanti dalla violazione dei divieti previsti dal progetto governativo di legge a tutela della concorrenza, in Riv. soc., 1960, p. 737, nota 24. In senso critico, A. BERTOLOTTI, Ancora su norme antitrust e contratti a valle, cit., p. 1876; L.C. UBERTAZZI, Concorrenza e norme bancarie uniformi, op. cit., p. 101, G. GUIZZI, Mercato concorrenziale e teoria del contratto , op. cit., p. 83. 38 Così dicasi, ad esempio, con riguardo al contratto di conto corrente, all’apertura di credito ed alla fideiussione, in ordine ai quali - in quanto tipizzati dal legislatore e dunque sottoposti ad una preventiva valutazione in termini di liceità della causa - non potrebbe in alcun modo pronunciarsi alcun giudizio di illiceità sotto il profilo causale. In questi termini si esprime il Tribunale di Alba, 12 gennaio 1995, in Giur. it., 1996, I, p. 225, con nota di G. ROSSI, Effetti della violazione di norme antitrust sui contratti tra imprese e clienti: un caso relativo alle norme bancarie uniformi, il quale esclude altresì che, con riguardo ai citati contratti, possa parlarsi di frode nei confronti dei terzi. Nell’ordinamento vigente infatti, afferma il Tribunale richiamando la estesa giurisprudenza del giudice di legittimità, non esiste alcuna norma che sancisca in via generale la nullità del contratto in frode ai terzi, “i quali sono tutelati soltanto in particolari situazioni e cioè con l’azione di nullità ove questa sussista ovvero con l’azione revocatoria”.

111

2.3. L’illiceità dell’oggetto Nella ricerca del nesso logico- giuridico idoneo a giustificare la propagazione della

sanzione invalidatoria prevista per l’infrazione concorrenziale a monte anche al

contratto a valle, parte della dottrina e della giurisprudenza prospettano la possibilità

di ancorare simile ricaduta all’illiceità dell’oggetto di quest’ultimo atto negoziale.

La soluzione invalidativa viene in particolare ravvisata in quei soli casi in cui

esso riproduce e veicola il contenuto concordato nell’intesa vietata.

Nella misura in cui il contratto assorbe nella sua interezza o all’interno di singole

clausole le statuizioni della concertazione a monte, il suo oggetto è ritenuto illecito

(ed il contratto nullo) ai sensi del combinato disposto degli artt. 1418, comma 2, e

1346 cod. civ.

Ciò avverrebbe, si osserva, con riguardo alle intese aventi ad oggetto l’adozione

di condizioni contrattuali uniformi (come nel caso delle n.b.u.), ovvero nei cartelli di

prezzo, in cui l’illecita determinazione viene solitamente - attesa l’impossibilità per

la controparte (terza rispetto all’intesa) di negoziare quanto fissato previamente

nell’accordo inter- imprenditoriale - riprodotta senza alcuna variazione né margine

di modifica all’interno del regolamento negoziale39.

2.3.1. Critiche Le argomentazioni critiche addotte a confutare la tesi della nullità del contratto a

valle per illiceità dell’oggetto muovono dalla considerazione che, se è vero che l’art.

2 della legge antitrust fa divieto alle imprese attualmente o potenzialmente

concorrenti di colludere nella definizione di standard comportamentali omogenei

(tali da pregiudicarne l’indipendenza di azione sul mercato), ad esempio fissando

prezzi di vendita uniformi, deve pure riconoscersi che l’illiceità ed il contrasto tra il

contenuto del contratto e la norma imperativa non concernono tanto il prezzo in sé,

quanto la modalità attraverso il quale è formato.

39 L’ipotesi è paventata da A. BERTOLOTTI, Ancora su norme antitrust e contratti a valle, op. cit., p. 1877; ID., Illegittimità di norme bancarie uniformi (NBU) per contrasto con regole antitrust ed effetti sui “contratti a valle”: una ipotesi di soluzione a un problema dibattuto, cit., p. 351.

112

Di conseguenza, se si ammette che non ogni contrarietà a norma imperativa

comporta la nullità del contratto, ma solo quella che attiene al precetto negoziale in

sé, non è immaginabile a rigore alcun contrasto tra il contratto a valle che recepisce

il prezzo fissato concordemente e la norma dell’art. 2.

2.4. La nullità virtuale dei contratti a valle dell’intesa anticoncorrenziale

Le critiche mosse alle teorie descritte sinora non sono comunque invalse ad indurre

la dottrina ad abbandonare la tesi della nullità dei contratti a valle, ricostruita,

secondo un’interpretazione più neutra, attraverso la norma dettata dall’art. 1418,

comma 1, cod. civ. 40, ai sensi del quale “il contratto è nullo quando è contrario a

norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente”.

L’assunto della tesi che riassume in termini di nullità virtuale la ricaduta sui

contratti a valle dell’infrazione anticoncorrenziale, consiste nel ritenere che i singoli

atti negoziali - che trovano nell’illecita collusione la loro fonte primigenia, dando

alle finalità illecite di essa concreta attuazione - contrastano direttamente con la

norma imperativa dettata dall’art. 2 della legge antitrust41.

Posto che le norme a tutela della concorrenza costituiscono nell’ambito

dell’ordinamento italiano un corpus organico di norme imperative - il cui carattere

inderogabile sarebbe confermato dalla sanzione di nullità che colpisce l’intesa a

monte - si ritiene che anche con riguardo ai contratti a valle debba essere ravvisata

- in mancanza di un’espressa previsione normativa - un’ipotesi di nullità,

riconducibile, in particolare, al disposto dell’art. 1418, comma 1, cod. civ.

40 La disposizione contempla la figura della nullità virtuale, vale a dire una nullità che discende dalla contrarietà a norme imperative prive di espressa comminatoria al riguardo e che deve desumersi dal sistema in ragione della natura dell’interesse protetto: quanto alla dottrina, si veda, tra i molti contributi a riguardo, C. M. BIANCA, Il contratto, in Diritto civile, vol. III, Milano, 2000, p. 582 ss.; G. DE NOVA, Il contratto contrario a norme imperative, in Riv. crit. Dir. priv., 1985, p. 435 ss.; M. NUZZO, Negozio illecito, in Enc. giur., vol. XX, Roma, 1990, p. 6. Non mancano, peraltro, in dottrina voci contrastanti: R. TOMMASINI, Nullità, cit., p. 878 e R. SACCO, Il contratto, in Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, vol. II, Torino, 1993, p. 475. 41 In questo senso soprattutto G. SELVAGGI, Abuso di posizione dominante, in Giur. it., 1992, IV, p. 134 ss.; G. ALPA, La riformulazione delle condizioni generali dei contratti delle banche, in I

113

Infatti, poiché il principio di leale e corretta competizione è entrato a pieno titolo

tra i principi di ordine pubblico del nostro sistema42, consegue che anche ogni

contratto che annulla nel contraente più debole la possibilità di fatto, attraverso patti

che rendono antieconomica (nel caso di specie) la risoluzione del contratto, di

rivolgersi ad imprese concorrenti, violando perciò il principio della libertà di

mercato e della libera concorrenza, non può che essere valutato negativamente

proprio perché contrastante con norme imperative ed inderogabili.

In questo caso, si afferma, il divieto posto dall’art. 2 della legge antitrust viene in

rilievo in considerazione non solo, o non tanto, nel proporsi di colpire una certa

condotta, quanto nel contrastare gli effetti distorsivi che ne conseguono, pena, in

difetto, di vederne sostanzialmente vanificato lo scopo.

Scopo della disposizione è da un lato di integrare lo statuto normativo

dell’impresa, attraverso limiti diretti ad impedire - attraverso condotte concordate

volte a convertire ad una logica tendenzialmente monopolistica settori altrimenti

competitivi - sensibili ed artificiali alterazioni della struttura concorrenziale del

mercato; dall’altro a salvaguardare la libertà ed insieme la possibilità di scelta di

quanti, nell’ottica del singolo rapporto di scambio, si rivolgono al mercato per

soddisfare i propri bisogni (di consumo e non).

I due piani della tutela, rispettivamente della concorrenza e dell’utilizzatore

finale, vengono così collegati e la nullità individuata in relazione al secondo profilo,

viene ricondotta espressamente alla figura della nullità virtuale, ex art. 1418, comma

1, cod. civ.

2.4.1. Critiche alla tesi della nullità virtuale per contrasto con la norma imperativa di cui all’art. 2 della legge antitrust

Anche questa impostazione, per la verità, ha suscitato perplessità di varia natura.

Contratti, 1996, p. 5 ss; G. ROSSI, Effetti della violazione di norme antitrust, nota a Trib. Alba 12 gennaio 1995, cit., p. 220. 42 Il principio di libertà di concorrenza, come già rilevato, “si configura come una delle caratteristiche della libertà di iniziativa economica sancita dall’art. 41 della Costituzione” (così il Tribunale di Roma, sentenza 20 febbraio 1997, cit., con nota di A.V. GUCCIONE, Intese vietate e contratti individuali a valle: alcune considerazioni sulla c.d. invalidità derivata).

114

Le argomentazioni addotte a confutare la tesi che riconduce la sanzione inferta ai

contratti a valle alla diretta violazione della norma imperativa di cui all’art. 2,

comma 2, della legge n. 287/1990, poggiano innanzitutto sulla considerazione che,

diversamente da quanto accade nelle ipotesi di illiceità dell’oggetto o della causa del

contratto, la nullità di un atto negoziale consegue solo di regola e non in via

necessitata e costante alla violazione di una norma imperativa, tanto da non poterne

sostenere la verificazione in via generale43.

Sebbene si riconosca la possibilità di attribuire una portata più ampia al divieto

antitrust - esteso a ricomprendere non solo la definizione concordata di standard

43 Il punto, sviluppato da G.B. FERRI, Ordine pubblico, buon costume…, op. cit., p. 162, è ripreso pure da G. DE NOVA, Il contratto contrario a norme imperative, op. cit., p. 435 ss. In particolare, le incertezze sollevate a riguardo hanno indotto dottrina e giurisprudenza a selezionare criteri quanto più possibile univoci e certi per stabilire in quali ipotesi la violazione di una norma imperativa da parte di un atto negoziale ne determini l’invalidità. A questo fine si è quindi posta attenzione, di volta in volta, al dato formale rappresentato dalla struttura della disposizione, a quello sostanziale del rango della norma violata, al criterio della direzione della norma proibitiva (in base al quale la nullità discenderebbe solo quando il divieto posto dalla norma violata sia destinato ad essere osservato da entrambi i contraenti e non quando si indirizzi ad uno solo di essi), sino a giungere al criterio dell’interesse protetto dalla norma violata, così distinguendo tra i casi in cui il precetto sia dettato a salvaguardia di interessi individuali e privati e le ipotesi in cui invece sia pensato a tutela di interessi pubblici, ricollegando la nullità virtuale solo a quest’ultimo caso. In proposito, G. GUIZZI, Mercato concorrenziale…, op. cit., pp. 95-96, ritiene che il contratto debba esser considerato nullo solo nelle ipotesi in cui il contrasto tra norma imperativa e regola negoziale si ponga in maniera diretta, “quando cioè la norma violata rivolga la sua proibizione all’atto nella sua efficacia privatistica, nella sua attitudine a generare obbligazioni”. A riguardo si veda altresì, da ultimo, A. ALBANESE, Violazione di norme imperative e nullità del contratto, Milano, 2003. La questione è emersa in maniera evidente anche nelle indagini relative alle conseguenze in punto di validità per il negozio giuridico posto in essere in violazione di norme penali. Nell’ambito di queste ricerche (svolte ragionando rispetto alle ipotesi del delitto di truffa di cui all’art. 640 cod. pen.), in particolare, si è sottolineato che l’illiceità penale si atteggia in modo diverso quando il contratto costituisca solo il mezzo per realizzare l’intento fraudolento vietato (ad esempio, Tizio induce Caio, con artifici e raggiri, a pagare per un prezzo di 100 euro un bene che in realtà ne vale 10), rispetto al caso in cui è la regola negoziale a violare direttamente il precetto legislativo (Tizio conclude un contratto con Caio con cui si obbliga a truffare Sempronio). Mentre infatti nel primo caso è il comportamento di una delle parti (e non il contratto) ad essere illecito, nella seconda ipotesi è proprio la determinazione negoziale ad essere disapprovata. Da questo consegue che, mentre nel primo caso la validità del contratto non si riflette in alcun modo sull’interesse sociale a che siano puniti comportamenti truffaldini (essendo tale interesse soddisfatto dall’applicazione della sanzione penale) e residuando soltanto un problema di tutela dell’interesse della parte truffata a veder reintegrato in via risarcitoria il proprio patrimonio, nel secondo la validità stessa dell’atto negoziale non potrebbe essere tollerata al fine di salvaguardare l’interesse della collettività. Ove si riconoscesse validità al contratto, infatti, dovrebbe poi conseguentemente ammettersi anche la possibilità per le parti di agire al fine di ottenerne l’esecuzione in via giudiziale (e dunque di agire esecutivamente per l’adempimento di un rapporto criminoso). Per un’analisi specifica del problema con riguardo alla fattispecie penale, si rinvia a F. VASSALLI, In tema di norme penali e nullità del negozio giuridico, in Riv. crit. dir. priv., 1985, p. 467 ss.; M. RABITTI, Contratto illecito e norma penale. Contributo allo studio della nullità, Milano, 2000.

115

comportamentali illeciti da parte delle imprese, ma anche (come del resto

espressamente dispone il divieto di intese “che abbiano ad oggetto o per effetto” la

consistente restrizione del mercato) la loro esecuzione - si ritiene comunque che la

possibilità di configurare una ricaduta della ratio della norma dell’art. 2 sulla

disciplina negoziale delle singole operazioni negoziali non sia sufficiente a sostenere

che la violazione del precetto dia luogo alla nullità, ai sensi dell’art. 1418, comma 1,

cod. civ., dei contratti stipulati a valle da ciascuna delle imprese aderenti alla

collusione anticompetitiva 44.

Perché possa aversi questa forma di invalidità non basta infatti - alla luce delle

considerazioni generali che precedono - la semplice violazione della norma

imperativa dell’art. 2, ma occorre di più, ovvero che per effetto di tale violazione si

determini una situazione di oggettiva incompatibilità tra il precetto posto dalla

disposizione antimonopolistica e la regola negoziale contenuta nei contratti a valle

dell’intesa.

In altri termini, perché sia possibile ragionare nell’ottica descritta è necessario

che la proibizione contenuta nella norma, che fa divieto alle imprese di conformare

la propria condotta e le proprie scelte strategiche secondo standard comportamentali

illeciti, investa anche il precetto che le parti si sono date ed in base al quale

intendono disciplinare i propri rapporti.

E tuttavia, ciò viene escluso nel caso di specie, osservando in primo luogo che la

proibizione dettata dalla legge antitrust non condanna in maniera diretta il contenuto

degli atti negoziali, ma un comportamento che si pone a monte e prima di questi, pur

condizionando il processo decisionale (la volontà) dell’altro contraente e dunque

compromettendo la formazione del pactum45.

44 Taluno esclude (cfr. G. GUIZZI, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, op. cit., p. 100) la possibilità di ravvisare un contrasto diretto tra regolamento pattizio e precetto imperativo anche là dove - come nel caso dei cartelli sui prezzi e delle condizioni generali - il contenuto dei contratti a valle abbia una maggiore inerenza all’intesa a monte. 45 Su questa posizione sembrano attestarsi anche la dottrina tedesca e la giurisprudenza americana. Quest’ultima, in particolare, ritiene che la nullità del contratto sia da escludere quante volte il divieto della norma imperativa non sia rivolta direttamente al contenuto tipico del contratto. In questo caso, infatti, non potrebbe in alcun modo asserirsi che il contratto sia intrinsecally illegal. Per i profili comparatistici, si veda C. VILLA, Contratto e violazione di norme imperative, Milano, 1993, p. 2, nota 1.

116

Partendo dall’assunto che il rapporto tra norme imperative proibitive ed agire

negoziale non si atteggia in maniera univoca, si osserva infatti che altrettanto

differenziata deve essere la valutazione delle conseguenze che la violazione di una

norma imperativa, in ragione della ratio che la connota, può produrre sull’atto di

autonomia privata.

Atteso che le norme imperative proibitive (tra cui certamente rientrano le

disposizioni antimonopolistiche) agiscono in maniera diversa a seconda che

colpiscano, rispettivamente, la condotta dei paciscenti che precede la stipulazione di

un contratto, il negozio inteso come valore46 (cioè l’attitudine a divenire fonte di

obbligazioni giuridiche vincolanti), o gli effetti materiali conseguenti

all’instaurazione di un certo assetto di interessi, si ritiene che la qualificazione in

termini di nullità ex art. 1418, comma 1, cod. civ., può essere ravvisata solo nei casi

in cui l’eliminazione della rilevanza giuridica del vincolo negoziale rappresenta

l’unico mezzo attraverso il quale scongiurare o prevenire la lesione dell’interesse

protetto dalla norma.

Perché possa inferirsi la nullità virtuale di un atto è quindi necessario che il

contrasto si ponga direttamente tra precetto imperativo e regola negoziale, quando

cioè la norma violata rivolge la sua proibizione proprio all’attitudine del negozio a

generare obbligazioni.

Al di fuori di questa eventualità la nullità virtuale del contratto si ritiene al

contrario da escludere47.

Ad un esito diverso dalla invalidità - ed al riconoscimento della rilevanza

giuridica del programma negoziale - deve quindi giungersi con riguardo alle ipotesi

in cui la norma proibitiva è rivolta a sanzionare la condotta materiale tenuta da una

delle parti a danno dell’altra nella fase che precede la conclusione del contratto48,

46 L’espressione, formulata in origine da B. DE GIOVANNI, Fatto e valutazione nella teoria nel negozio giuridico, Napoli, 1958, è stata ripresa da G.B. FERRI, Il negozio giuridico tra libertà e forma, Rimini, 1995. 47 Il punto è stato sviluppato attentamente con riguardo al negozio giuridico posto in essere in violazione di norme penali. A questo proposito si rinvia nuovamente a F. VASSALLI e a M. RABITTI, opp. ultt. citt. 48 Si faccia, a riguardo, l’esempio di chi, con una condotta truffaldina, induca taluno a concludere un contratto di per sé pregiudizievole.

117

come pure quando essa intende evitare che il contratto, inteso come fatto, possa

essere strumentalizzato per la realizzazione di effetti ulteriori49.

Anche accettando la premessa secondo cui il divieto di concludere intese

restrittive della concorrenza implica quello di dare esecuzione alle stesse e quindi di

svolgere un’attività negoziale corrispondente nei contenuti all’accordo illecito, si

nega quindi che la violazione dell’art. 2 possa aprire il varco ad un giudizio di liceità

della regola negoziale espressa dai contratti in cui la fissazione congiunta di modelli

comportamentali uniformi si concretizza.

Tessendo le fila del discorso, pertanto, si esclude che il contratto che si colloca a

valle di un’intesa anticoncorrenziale nulla possa subire il medesimo destino -

ricorrendo alla categoria della nullità virtuale - in forza di un contrasto diretto con la

norma antitrust.

La circostanza che un’impresa determini congiuntamente (e dunque

illecitamente) ad altre concorrenti i termini del proprio agire negoziale,

approfittando, alla luce della situazione non-competitiva che si viene a creare, della

menomata libertà della controparte di orientare altrove la domanda dei beni (e

dunque, in virtù delle considerazioni in precedenza svolte, anche dello stesso

regolamento pattizio) oggetto di intesa, non viene quindi ritenuta quale causa idonea

a provocare la nullità del contratto a valle, ma (semmai) di conseguenze di altra

natura.

L’esclusione di un contrasto diretto tra contratti a valle e art. 2 della legge

antitrust viene negato anche da chi, in linea più generale, focalizza l’attenzione sul

dato normativo nazionale (oltre che del corrispondente comunitario) il quale, si

49 Questo il caso, ad esempio, del contratto con obbligo di esclusiva realizzato in modo tale da sortire un effetto di boicottaggio nei confronti di un imprenditore concorrente. Nella prospettiva esposta, pertanto, la nullità di un’intesa per la ripartizione dei mercati non potrebbe comunicarsi ai contratti conclusi da ciascuna impresa con i propri clienti nelle rispettive zone di esclusiva, proprio perché il contrasto con la norma imperativa attiene in questo caso, non al contenuto del contratto individuale, ma solo al comportamento complessivo delle altre imprese che, osservando il patto, si astengano dall’intervenire nelle zone riservate. Il profilo è rilevato da G. GUIZZI, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, op. cit., p. 100; A. BERTOLOTTI, Ancora su norme antitrust e contratti a valle, cit., p. 1877; M. NEGRI, Risarcimento del danno da illecito antitrust e foro per la tutela del consumatore (la Cassazione non dilegua i dubbi nella vicenda RC auto), op. cit., p. 754.

118

rammenta, sancisce espressamente la nullità delle sole intese tra imprese50, con ciò

escludendo la possibilità di estendere la sanzione per violazione diretta della

disposizione ai contratti conclusi tra impresa e cliente.

Una sicura delimitazione dell’area degli atti che in ipotesi potrebbero essere

dichiarati nulli per violazione diretta delle norme contenute nella disposizione

antitrust, discenderebbe quindi dallo stesso dato letterale, in virtù del quale devono

essere esclusi dall’area dell’invalidità di cui all’art. 2, comma 3, i contratti stipulati

fra impresa e cliente51.

Ciò, peraltro, solleva il problema se fra questi ultimi contratti debbano rientrare

anche quelli in cui il cliente rivesta la qualifica di imprenditore. In questo caso,

infatti, sul piano formale il contratto risulta stipulato fra due imprese, potendo allora

sorgere il dubbio che esso integri già di per sé la fattispecie di intesa lesiva della

libertà di concorrenza configurata dalla norma proibitiva.

Tuttavia, si osserva, non vi è ragione di stabilire un trattamento dei contratti fra

impresa e cliente sulla base della natura imprenditoriale o non di quest’ultimo

considerando illeciti e quindi nulli soltanto quei contratti in cui il cliente esercita

un’attività imprenditoriale. Se così fosse, la sanzione della nullità sarebbe

applicabile in via diretta soltanto ai contratti a valle in cui come controparte

dell’impresa figuri un altro imprenditore.

La non condivisibilità della conclusione astrattamente ipotizzata, porta quindi a

ritenere che debba escludersi dall’area di diretta incidenza del divieto qualunque

contratto stipulato dalla singola impresa collusa con i propri clienti a valle,

esercitino o meno attività imprenditoriale.

50 Così F. PARRELLA, Disciplina antitrust nazionale e comunitaria, nullità sopravvenuta, nullità derivata e nullità virtuale…, cit., pp. 536-538. 51 Cfr. T. A SCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, cit., p. 168, ad avviso del quale la declaratoria di nullità dei contratti stipulati con la clientela in esecuzione di un cartello fra imprese è esclusa dalla “sistematica dell’art. 85 che riferisce espressamente divieto e nullità all’accordo tra imprenditori”.

119

2.5. L’invalidità del contratto a valle come ipotesi di nullità di protezione

Tra gli autori che accolgono, o comunque ipotizzano, la tesi della nullità si

distinguono poi quanti propongono un regime normativo dell’invalidità diverso da

quello consegnatoci dalla disciplina codicistica, avanzando soluzioni sub specie

nullitate in linea con il recente modello comunitario.

Assumendo quale obiettivo primario la tutela del contraente più debole, tali

ricostruzioni hanno il merito di divergere in maniera evidente dal regime normativo

tradizionale, proprio allo scopo di attenuarne le conseguenze caducatorie.

Gli inconvenienti pratici derivanti dall’affermazione di una nullità dei contratti a

valle ricostruita secondo il dettato degli artt. 1418 ss. cod. civ. inducono infatti a

calibrare diversamente il paradigma normativo cui dare applicazione.

Parte della dottrina, parzialmente discostandosi dagli indirizzi esposti ne i

paragrafi che precedono, propone quindi - conformemente al criterio del minimo

mezzo e del principio generale di conservazione del contratto - la tesi della nullità di

protezione, caratterizzata dagli elementi della legittimazione relativa, della non

rilevabilità d’ufficio e della parzialità necessaria52, e della quale non si ritiene fuori

luogo ricostruire, nelle linee più generali, i tratti caratterizzanti.

A riguardo, notevole interesse rivestono le nullità previste (per citare solo alcune

delle ipotesi ormai largamente diffuse di queste nullità) dal Testo unico delle leggi

in materia bancaria e creditizia (D. lgs. 1° settembre 1993, n. 385), ed in particolare

la norma dell’art. 127, la quale da un lato ammette la derogabilità alla disciplina

prevista a tutela del cliente o del consumatore solo in senso ad essi favorevole53,

52 In questi termini, A. BERTOLOTTI, Illegittimità delle norme bancarie uniformi, cit., p. 345. L’ultimo importante esempio di nullità di protezione ci viene offerto dall’art. 7 del D. lgs. 9 ottobre 2002, n. 231 che, in materia di transazioni commerciali, sancisce la nullità degli accordi sulla data del pagamento (o sulle conseguenze del ritardo) che “risultino gravemente iniqui a danno del creditore”, disponendo poi che “il giudice, anche d’ufficio, dichiara la nullità dell’accordo … ovvero riconduce ad equità il contenuto dell’accordo medesimo”. Con riguardo alle nullità dettate a protezione del contraente debole G. PASSAGNOLI, Nullità speciali, op. cit., p. 27 ss. L’esigenza di un trattamento differenziato della nullità in relazione agli interessi da tutelare costituisce ormai un dato acquisito dalla dottrina: cfr. in tal senso, P.M. PUTTI, La nullità parziale. Diritto interno e diritto comunitario, Napoli, 2002, p. 7 ss. e S. POLIDORI, Discipline della nullità e interessi protetti, Napoli, 2001, p. 39 ss. 53 Lo strumento dell’inderogabilità c.d. relativa è impiegato in numerose norme del codice civile o di leggi speciali. Si pensi, per citare solo alcuni esempi, alla disciplina del contratto di assicurazione

120

dall’altro stabilisce che la nullità conseguente alla violazione delle norme in

questione può essere fatta valere solo dal contraente protetto54.

Previsioni dello stesso tenore si riscontrano, altresì, nell’art. 23 del D.lgs. 24

febbraio 1998, n. 58, che, nel disciplinare i contratti relativi ai servizi finanziari

offerti dalle società di intermediazione mobiliare, oltre a richiedere a pena di nullità

la forma scritta (comma 1), stabilisce che “è nulla ogni pattuizione di rinvio agli usi

per la determinazione del corrispettivo dovuto dal cliente e di ogni altro onere a suo

carico” (comma 2) e che in entrambi i casi la nullità può esser fatta valere solo dal

cliente (comma 3).

Alle norme richiamate deve essere ora aggiunta anche la regola prevista dall’art.

1519- octies, comma 1, cod. civ. (rubricato “Carattere imperativo delle

disposizioni”), introdotta nel tessuto codicistico dall’art. 1 del D. lgs. 2 febbraio

2002, n. 24, ai sensi del quale “è nullo ogni patto, anteriore alla comunicazione al

venditore del difetto di conformità, volto ad escludere o limitare, anche in modo

indiretto, i diritti riconosciuti dal presente paragrafo. La nullità può esser fatta

valere solo dal consumatore e può essere rilevata d’ufficio anche dal giudice”.

Con queste norme - si afferma pacificamente - ha quindi trovato riconoscimento

nel nostro ordinamento la discussa e controversa figura della nullità relativa, la cui

ammissibilità sul piano dogmatico è stata per lungo tempo oggetto di acceso

dibattito55.

inderogabile in senso sfavorevole al cliente (art. 1932 cod. civ.), all’inderogabilità della normativa che prevede il diritto dell’agente all’indennità in caso di cessazione del rapporto (art. 1751, comma 6, cod. civ., come modificato dall’art. 4 del d. lgs. n. 303/91) e all’inderogabilità in peius delle norme poste a tutela del lavoratore subordinato (art. 2113 cod. civ., come modificato dall’art. 6 della l. n. 533/73). 54 La legittimazione relativa ad agire, peraltro, è già prevista in via generale dall’art. 1421 cod. civ. il quale, nel prevedere che “la nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse”, fa salve le diverse disposizioni di legge. 55 Prima dei recenti interventi del legislatore, infatti, si contestava la stessa ammissibilità della nullità relativa (ne dà atto C.M. BIANCA, Il contratto, op. cit., p. 632). Ritiene inconcepibile la figura, ad esempio, R. SCOGNAMIGLIO, Inefficacia (Dir. priv.), in Enc. giur., vol. XVI, Roma, 1988, p. 11 e F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1971, p. 247, il quale nega l’esistenza della categoria e riconduce le ipotesi in cui la legge pone limitazioni alla legittimazione a far valere la nullità alla categoria dell’annullabilità. Critico a riguardo, L. MENGONI, La disciplina delle “clausole abusive” e il suo innesto nel corpo del codice civile, in Rass. giur. en. el., 1997, p. 301, nota 10. Si ricordi, inoltre, che la tesi della nullità di protezione era stata sollevata anche con riguardo alla disciplina generale dei contratti del consumatore (art. 1469-bis ss. cod. civ.), con particolare riguardo alla soluzione della inefficacia di cui all’art. 1469-quinquies. Senza ripercorrere

121

Ulteriore deviazione rispetto alla disciplina generale della nullità, anch’essa

dettata da esigenze di protezione del contraente debole, si rinviene nelle ipotesi in

cui il legislatore esclude, in deroga al principio di cui all’art. 1419, comma 1, cod.

civ., che la nullità parziale o di singole clausole possa estendersi all’intero contratto,

a prescindere dalla considerazione della volontà ipotetica delle parti e dall’esistenza

di norme imperative sostitutive, allorché l’obiettivo primario del riequilibrio della

disparità sostanziale intercorrente tra i contraenti imponga la conservazione del

contratto, depurato della parte affetta da nullità.

Costituisce emblematico esempio di questo principio l’art. 124, comma 5, del

citato D. lgs. n. 385/93, secondo cui in caso di nullità di singole clausole contrattuali

il contratto resta valido per la restante parte, opportunamente integrata dalla

disciplina legale dispositiva, che individua i criteri atti alla determinazione delle

condizioni economiche che regolano il rapporto.

Peraltro, queste peculiari figure di nullità volte, garantire specifica e rinforzata

protezione ad uno dei contraenti, non configurano fenomeni occasionali privi di

rilevanza sistematica, né tantomeno ipotesi eccezionali, al contrario costituendo

attuazione di un più ampio obiettivo di politica legislativa e traducendosi in un

nuovo tipo di intervento dello Stato nell’economia e nei rapporti tra privati. Ciò

avviene, nella specie, mediante l’emanazione di disposizioni a carattere cogente

volte “a dettare regole al mercato per garantirne correttezza ed efficienza, non a

sostituirlo nel ruolo di guida del processo economico”56.

l’acceso dibattito sollevato sul punto, deve solo rilevarsi come, proprio con riferimento a tale profilo, la maggior parte della dottrina ha fatto ricorso alla teoria della nullità di protezione, caratterizzata dalla legittimazione relativa e della parzialità necessaria. Ciò, ragionando intorno al fatto che la inefficacia, deriverebbe dalla contrarietà della clausola ad una norma posta a tutela dell’interesse dei consumatori, qualificabile in termini di norma imperativa di protezione, la cui violazione determinerebbe, appunto, la nullità. Questa lettura dell’art. 1469-quinquies è riproposta da G. PASSAGNOLI, Art. 1469-quinquies, comma 1, 3 e 5, in Materiali e commenti sul nuovo diritto dei contratti, a cura di G. Vettori, op. cit., p. 158 e condivisa da M. NUZZO, Art. 1469-quinquies, comma 1 e 3, in Le nuove leggi civili comm., 1997, p. 777; S. MONTICELLI, Dalla inefficacia della clausola vessatoria alla nullità del contratto, in Rass. dir. civ., 1997, p. 565; G. OPPO, Lo “squilibrio” contrattuale tra diritto civile e diritto penale, in Riv. dir. civ., 1999, p. 533, con riferimento alle disposizioni in materia di usura introdotte dalla legge n. 108/96. Dubbi in ordine alla riconducibilità alle figure di invalidità esprime A. ORESTANO, L’inefficacia delle clausole vessatorie: “contratti del consumatore” e condizioni generali, in Riv. crit. dir. priv., 1996, p. 501. 56 Queste le parole di L. MENGONI, Autonomia privata e Costituzione, op. cit., p. 3.

122

In questo modo, tra l’altro, si verifica una significativa convergenza tra i valori

della Costituzione, che individua nell’utilità sociale e nei valori della persona i limiti

dell’iniziativa economica privata, e le istanze di derivazione comunitaria, che

perseguono l’obiettivo primario del corretto funzionamento della concorrenza quale

mezzo per garantire non solo la pari libertà di iniziativa economica degli

imprenditori che operano sul mercato, ma allo stesso tempo la libertà di scelta

individuale dell’acquirente che a tali operatori si rivolge per il soddisfacimento dei

propri bisogni.

La forza innovatrice della fonte comunitaria è dunque tale da rendere inadeguata

rispetto alla mutata realtà normativa una ricostruzione in termini di eccezionalità

delle disposizioni che ad essa danno attuazione, travolgendo così i tradizionali

modelli dogmatici, non suscettibili di essere assunti quali schemi predefiniti ed

immutabili57.

Da questa prospettiva, quindi, il modello europeo di nullità risulta dotato di una

ratio intrinsecamente coerente con l’assetto di interessi regolato, che si esprime

attraverso norme riconducibili ad una fondamentale decisione di sistema, a sua volta

fondata su di un principio generale di supremazia gerarchica o di autonoma

competenza normativa 58.

Le nullità cosiddette “speciali”, pertanto, si mostrano in grado di incidere

significativamente nella ricostruzione del diritto comune dei contratti, al quale le

corrispondenti previsioni sono legate da un nesso di reciproca interdipendenza ed

integrazione.

Come evidenziato, infatti, le singole previsioni contemplate nei vari settori

dell’ordinamento giuridico, non solo configurano nuove fattispecie di invalidità

negoziale soggette alla disciplina generale per tutti quegli aspetti che risultino

compatibili con la disciplina speciale, ma concorrono altresì a definire i tratti

essenziali di quella figura unitaria di nullità di cui costituiscono una specificazione.

57 Così N. LIPARI , Il ruolo del notaio nella nuova realtà delle nullità contrattuali, in Spontaneità del mercato e regole giuridiche, Relazione al XXXIX Convegno nazionale del notariato, Milano, 2002, p. 233. 58 Essenziali le considerazioni svolte in questo senso da V. SCALISI, Nullità e inefficacia nel sistema europeo dei contratti, op. cit., pp. 503-504.

123

Questo ruolo dei “diritti secondi”59, in particolare, riconosciuto con riguardo alle

disposizioni che hanno trovato accoglimento all’interno del corpo del codice

civile60, si estende anche a quelle che, pur collocate fuori da esso, presentano il

medesimo valore formale.

Il mutato quadro legislativo, pertanto, ha imposto all’interprete un ripensamento

in merito alla categoria generale della nullità la quale si presenta diversificata e

graduata alla stregua dell’interesse di cui la norma violata si fa garante.

A questo principio risulta appunto funzionale una nullità relativa e parziale61, che

tenda alla conservazione del contratto, previa sostituzione della clausola nulla62.

Le fattispecie da ultimo segnalate meritano quindi particolare attenzione,

presentando evidenti analogie con il caso in esame.

In applicazione di questo nuovo paradigma si afferma infatti che l’invalidità che

colpisce gli atti negoziali posti in essere dalla singola impresa collusa con la propria

clientela, non potrebbe che operare nell’esclusivo interesse della parte

contrattualmente più debole, in questo modo rimanendo circoscritta alle sole

clausole che costituiscono effettivamente una trasposizione sostanziale del contenuto

dell’illecita determinazione.

Il rimedio della nullità, pertanto, può essere fatto valere solo dall’utilizzatore

finale controparte dell’impresa collusa, andando inoltre a colpire (ex art. 1419,

comma 1, cod. civ.) esclusivamente quella parte del contenuto negoziale che traduce

59 Così C. CASTRONOVO, Il diritto civile nella legislazione nuova. La legge sull’intermediazione mobiliare, in Banca, borsa e tit. di cred., 1993, I, pp. 301-304, definisce le leggi speciali, ritenendo la locuzione preferibile allorché si faccia riferimento non alla fonte da cui la norma promana ma alla materia da essa regolata. 60 Emblematica in tal senso è la collocazione degli artt. 1469-bis ss. nella parte generale della disciplina del contratto. Sottolinea inoltre la presenza crescente di norme imperative di protezione tra le disposizioni che hanno modificato la disciplina dei singoli contratti G. DE NOVA , Il contratto ha forza di legge, Milano, 1993, p. 69 ss. 61 Cfr. G. GIOIA, op. cit., p. 23 s.; G. PASSAGNOLI, op. cit., p. 44 ss., 230 ss., 236 s. 62 G. PASSAGNOLI, op. cit., p. 238, individua quale ratio unitaria delle fattispecie di nullità di protezione - tale da giustificarne un’applicazione analogica - “la sussistenza di uno squilibrio, non eventuale ma strutturale, tra le parti contraenti, al quale un criterio normativo attribuisca rilevanza formale”, cui sarebbe riconducibile, in particolare, il divieto di abuso di posizione dominante, idoneo a determinare la nullità del contratto in cui l’abuso si sia concretizzato, proprio perché “consente, fissandone i relativi criteri, un apprezzamento a posteriori, in concreto…della sussistenza di uno strutturale squilibrio tra i contraenti (p. 243).

124

nel regolamento pattizio l’illecito anticoncorrenziale a monte, indipendentemente da

qualunque indagine circa l’ipotetica volontà delle parti63.

Alla luce dell’analisi dei meccanismi di mercato, infatti, si ritengono fortemente

inadeguate alla protezione dell’interesse del contraente più debole l’assolutezza della

legittimazione, la rilevabilità d’ufficio (art. 1421 cod. civ.), l’imprescrittibilità

dell’azione (art. 1422 cod. civ.), e l’improduttività di effetti che, come osservato

poc’anzi, si predicano tradizionalmente del negozio nullo.

Al contrario, il trattamento della nullità deve necessariamente adeguarsi alle

esigenze dello specifico settore in cui opera, in primo luogo consentendo che la

nullità sia parziale e dunque incida sul contratto solo per la parte che viola i divieti

di legge, con conservazione delle relazioni commerciali tra le parti, tenendo altresì

conto dell’eventuale disparità dei soggetti che agiscono nel mercato, al fine di offrire

idonea protezione alla parte più debole.

La tesi si fa quindi sostenitrice - con riguardo al tema oggetto di studio - della

brevemente descritta figura della nullità di protezione (rectius, delle nullità) la quale,

fondata su un regime applicativo speciale (e non - come pure è stato diffusamente

sostenuto - eccezionale), costituisce ormai a tutti gli effetti un modello alternativo

riconducibile ad una ratio unitaria, e quindi suscettibile di applicazione analogica64.

63 Favorevole al rimedio della nullità di protezione sembra L. DELLI PRISCOLI, Le restrizioni verticali della concorrenza, op. cit., p. 159; G. GIOIA, Vecchie intese e nuove nullità, op. cit., p. 3 ss. Nel senso della nullità relativa, si veda soprattutto A. BERTOLOTTI, Illegittimità delle norme bancarie uniformi, cit., p. 346 s. e, dubitativamente, A. TOFFOLETTO, op. cit. Critico, invece, G. GUIZZI, Mercato concorrenziale…, op. cit., p. 78, nota 18, il quale non condivide l’impostazione di fondo della tesi della nullità di protezione, ovvero l’essere la normativa antitrust dettata a protezione di una particolare categoria di soggetti, identificata alternativamente ora con quella del consumatore ora con quella del contraente debole. In merito, si vedano anche le considerazioni di G. ROSSI, Antitrust e teoria della giustizia, in Riv. soc., 1995, p. 1 ss. Per un’attenta ricostruzione del recente percorso evolutivo subito dalla figura della nullità, si veda G. PASSAGNOLI, op. cit., p. 214 ss.; S. POLIDORI , Disciplina delle nullità ed interessi protetti, op. cit., nonché P.M. PUTTI, La nullità parziale. Diritto interno e comunitario, op. cit.; G. GIOIA, Nuove nullità relative a tutela del contraente debole, in Contr. e impr., 1999, p. 1332 ss. 64 In questo senso, soprattutto G. PASSAGNOLI, op. cit., p. 20 ss.; G. GIOIA, Vecchie intese e nuove nullità, op. cit., p. 23 s. Cenni al carattere parziale della nullità dei contratti a valle si ritrovano anche in A. BERTOLOTTI, op. ult. cit., p. 353; A. TOFFOLETTO, op. cit., p. 343 s. Più in generale, in ordine alla figura della nullità ed alla categoria dell’invalidità del negozio, si ricordi - nel ricostruire molto brevemente l’excursus storico dell’istituto - che, sulla base delle disposizioni del codice civile del 1942, si è andata consolidando nel tempo una tradizione di pensiero che ha fissato in modo schematico e rigoroso i principi della materia. I due principi cardine, nella specie, sono rappresentati dall’irrilevanza del negozio nullo e dalla natura pubblica dell’interesse protetto. Dal congiunto operare dei due principi è quindi conseguito per lungo tempo un trattamento unitario ed immutabile

125

Si è parlato, in particolare, di nullità speciali virtuali, da ammettere, pur in

assenza di una espressa previsione di legge, alla luce della evoluzione del diritto dei

contratti, sempre più informato alla protezione del contraente debole ed alla

uguaglianza sostanziale del potere negoziale delle parti.

L’idea da superare per poter abbracciare una soluzione di questo tipo - che è

stata tramandata sino ai nostri giorni e su cui tradizionalmente si fondava la

distinzione tra nullità ed annullabilità - è che l’atto di autonomia privata è nullo

quando viola un precetto posto a tutela di un interesse generale, mentre la lesione di

interessi esclusivamente privati comporterebbe conseguenze diverse, rimesse

all’iniziativa del soggetto interessato.

In contrasto con questa ricostruzione, si rileva infatti che non sempre il carattere

pubblico dell’interesse tutelato da una norma è di per sé in grado di spiegare la

nullità da questa prevista, né di qualificarla come imperativa.

Già nell’originario impianto del codice civile, del resto, erano contemplate - sia

pure in numero limitato - norme imperative che disponevano la nullità del contratto

quale mezzo per impedire alle parti di vincolarsi validamente ed efficacemente ad un

determinato regolamento contrattuale, vietato proprio in considerazione degli effetti

pregiudizievoli che questo avrebbe prodotto nei confronti di una di esse65.

La soluzione favorevole all’inquadramento delle conseguenze caducatorie di cui

soffre il contratto a valle di un’intesa anticoncorrenziale nell’alveo delle nullità di

protezione – poc’anzi ricostruita nelle sue linee più generali - è stata in realtà

sviluppata soprattutto con riguardo agli atti per mezzo dei quali l’impresa abusa

del negozio nullo - obiettivamente ed assolutamente improduttivo di effetti, con conseguenti caratteristiche di insanabilità, imprescrittibilità, assolutezza e natura dichiarativa dell’azione - non differentemente calibrabile in relazione all’interesse tutelato. La progressiva apertura da parte del codice ad una considerazione diversificata della nullità è stata per questo inizialmente risolta confinando l’ipotesi nella regione dell’eccezione, ovvero predicando delle nullità speciali l’estraneità alla categoria sistematica della nullità e ricorrendo invece al concetto dell’inefficacia. 65 Al riguardo, già R. NICOLÒ, Diritto civile, in Enc., dir., vol. XII, Milano, 1964, pp. 913-914, riconosceva, accanto a “norme imperative dirette a realizzare superiori esigenze della vita sociale”, norme “che hanno sì efficacia imperativa, ma hanno la funzione di proteggere un altro interesse individuale (si pensi alle norme che tutelano la spontaneità e la libertà del volere, alle norme che si preoccupano di proteggere il contraente più debole di fronte a quello potenzialmente più forte)”. In senso analogo anche G.B. FERRI, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966, pp. 335-336 e ID ., Ordine pubblico, buon costume e la teoria del contratto, op. cit., p. 220.

126

effettivamente della posizione dominante che detiene all’interno di un determinato

mercato.

All’esame di quest’ultima fattispecie si ritiene quindi di dover rinviare, allo

scopo di cogliere i passaggi normativi ed argomentativi attraverso i quali alcuni

autori hanno formulato la tesi della estensibilità della nullità sub art. 3 della legge n.

287/1990 anche al divieto di cui all’art. 2, che più direttamente ci riguarda.

2.6. Nullità ed abuso di posizione dominante

Il ragionare in termini di nullità conduce infatti ad interrogarsi se, dinanzi alla

difficoltà di ricondurre l’invalidità del negozio in cui il contenuto dell’intesa

anticoncorrenziale va sostanzialmente ad inserirsi, non sia possibile individuare,

quale “appiglio normativo” alternativo il disposto dell’art. 3 della legge antitrust.

La norma, infatti, vieta l’abuso di posizione dominante non solo quando questo

sia ascrivibile ad una singola impresa egemone, ma altresì quando ad approfittare

della particolare posizione occupata all’interno del mercato nazionale o di una sua

parte rilevante siano più imprese (cfr. art. 3, comma 1).

La difficoltà di dare risposta all’interrogativo che ci occupa, potrebbe quindi

essere superata attraverso l’osservazione dei termini in cui l’illiceità dell’abuso di

posizione di dominanza si riflette sugli atti negoziali a valle, attesa l’innegabile

affinità della natura del problema che involge le due diverse ipotesi di infrazione

antitrust (intesa e abuso di posizione dominante)66.

66 La vicinanza delle fattispecie delineate, rispettivamente, dall’art. 2 e dall’art. 3 della legge n. 287/1990 è colta, in particolare, da G. GUIZZI, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, op. cit., pp. 75-76, il quale riconduce l’omogeneità del problema a due specifici profili: “da un lato (perché), anche nel caso dell’abuso di posizione dominante realizzato attraverso la conclusione di una o più operazioni negoziali dal contenuto conforme alle previsioni di cui all’art. 3 non può essere negato che l’apprezzamento negativo dell’ordinamento (…) si rivolge già al modo con cui l’impresa si pone sul mercato e si determina all’esercizio dell’autonomia privata, ciò che implica, allora, che pure a tale ipotesi non sembra essere del tutto estraneo un problema di rapporto tra violazione di regole di condotta dettate per l’imprenditore come tale, e dunque operanti a monte dell’atto negoziale, e sorte del contratto attraverso cui il comportamento abusivo si manifesta. Dall’altro perché i contratti che si pongono a valle di intese tra imprese e gli atti negoziali compiuti dall’impresa che abusa della propria posizione di dominio sono accomunati, al vertice, dal particolare risultato cui tendono, ovvero dal fatto che l’esercizio della provata autonomia costituisce in entrambi i casi lo strumento preordinato al

127

Come è stato osservato con riferimento alle fattispecie contrattuali attraverso cui

si concreta l’abuso di posizione dominante sembra infatti più facile riconoscere alla

violazione del precetto l’attitudine ad incidere sulla validità dell’atto negoziale a

valle, atteso che la norma dell’art. 3 “sembra vietare proprio un certo contenuto

dell’atto di autonomia privata”67.

Con riguardo alla fattispecie dell’abuso di posizione dominante si registrano, in

particolare, due orientamenti68.

raggiungimento di un extraprofitto, rectius di un profitto maggiore di quelli che l’impresa avrebbe potuto conseguire ove non fosse intervenuta a monte una violazione delle norme dettate a tutela del mercato”. A rafforzare la tesi della affinità del problema con riguardo alle due fattispecie infrattive - ed anzi ad avvalorare l’affermazione per cui l’invalidità dei contratti a valle dovrebbe verificarsi a maggior ragione con riferimento alle intese - l’Autore osserva (p. 77, nota 15) che “sono sempre i contratti a valle di un’intesa quelli caratterizzati dall’adozione di condizioni ingiustificatamente gravose per la clientela, appunto perché alle imprese che coordinano la propria attività manca - in ragione degli elevati costi che comporta il mantenimento del cartello - la possibilità, per stroncare la concorrenza delle imprese concorrenti che non partecipano all’intesa, di adottare politiche del tipo del predatory pricing, possibili (almeno economicamente) invece all’impresa in posizione dominante”. La simmetria di problematiche sottesa alle due fattispecie è messa implicitamente in evidenza pure da R. PARDOLESI, Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, cit., p. 470. 67 Così, G. GUIZZI, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, op. cit., p. 74. In questo senso sembra essere orientato anche G. PASSAGNOLI, Nullità speciali, cit., nonché A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno…, op. cit., p. 340, nota 116, ove si legge che “(…) nel caso dell’abuso di posizione dominante, non possono sussistere dubbi sul fatto che il precetto normativo imperativo, tanto nel diritto comunitario (art. 86) quanto nel diritto nazionale (art. 3, l. n. 287/1990), sia direttamente afferente al comportamento idoneo a causare l’invalidità e non determini in alcun caso un passaggio di secondo grado. Così, se è vero che il divieto di cartello produce, per esplicita previsione normativa la nullità del cartello, ma potrebbe non produrre la nullità dei contratti conclusi dagli aderenti al cartello medesimo con la loro rispettiva clientela; il problema non sussiste in relazione alla fattispecie dell’abuso di posizione dominante, nel quale il precetto imperativo direttamente individua il comportamento vietato nella pratica abusiva (ad es. le condizioni di prezzo ingiustificatamente gravose)”. Il riscontro positivo del legame tra abuso di posizione dominante e contratti a valle è ravvisato anche nel rifiuto di contrattare (e non solo nella discriminazione) il quale non assume rilievo nei rapporti fra contraenti diretti ma avuto riguardo ad “altri contraenti”, ovvero di coloro che, operando in un mercato diverso da quello dell’impresa dominante, è vittima dell’abuso. La posizione di dominio che viene quindi in evidenza è, in questi casi, quella di un mercato in senso verticale (si pensi al fenomeno della distribuzione selettiva). In senso conforme, Tribunale di Milano, ordinanza 4 agosto 2000 e 5 settembre 2000, Europa TV/Ass. Sportiva Calcio Napoli, in I Contratti, n. 2/2001, p. 127; Corte d’Appello di Roma, ord. 16 gennaio 2001, Stream/Telepiù, in Danno e resp., n. 3/2001, p. 284 ss., con nota di S. BASTIANON, commentate anche da M. MELI, L’abuso di posizione dominante attraverso comportamenti aventi carattere negoziale: il caso Telepiù, in Giur. comm., 2002, I, p. 318 ss. 68 M. MELI, op. ult. cit., pp. 326-327, osserva che le due soluzioni contrapposte, presentano in realtà un punto di contatto, convergendo nella inopportunità di un richiamo alla nullità così come disciplinata dal codice civile. Diversa invece la logica delle due alternative ermeneutiche: l’una (l’annullabilità) prende le mosse dalla natura del vizio (l’abuso) ed opera un accostamento con i vizi della volontà negoziale; l’altra (la nullità speciale) guarda al risultato prodotto dal contratto: l’abuso di posizione dominante determina un effetto distorsivo della concorrenza e del mercato; il contratto che realizza tale risultato viola una norma imperativa ed è pertanto nullo. La nullità, osserva l’Autrice, va tuttavia adattata al tipo di conflitto, finendo così per perdere molti dei suoi caratteri

128

Il primo propende per la nullità, ricollegata alla violazione di norma imperativa e

configurata quale ipotesi di nullità speciale, la quale troverebbe il proprio referente

in una serie di interventi normativi di matrice comunitaria fondati sull’esigenza di

tutelare la parte debole del rapporto.

In questo senso si parla, anche con riguardo alla condotta vietata dall’art. 3 della

legge antitrust, di nullità di protezione che, derogando alla disciplina generale

prevista dal codice civile, andrebbe interpretata non come eccezione, ma quale

diverso modo di atteggiarsi della sanzione nel momento in cui interviene a tutela di

un interesse particolare69.

Il secondo orientamento, invece, guarda, con riferimento alla fattispecie di abuso

di posizione dominante, al rimedio dell’annullabilità, operando un accostamento tra

la figura dell’abuso e la materia dei vizi del consenso70.

Tale soluzione, che può apparire forse anomala dinanzi ad un sistema delle

invalidità negoziali che concepisce la nullità come rimedio generale e relega

l’annullabilità alle ipotesi testualmente previste, è quella presa in considerazione

nell’ambito della elaborazione dei Principi di diritto privato europeo dei contratti,

ove il rimedio dell’annullabilità è utilizzato (art. 4:109) per tutte le ipotesi di Gross

disparity, ovvero di “eccessivo guadagno ed ingiusto profitto”, dunque anche con

riferimento a situazioni che presuppongono una disparità di potere di mercato e un

consequenziale assetto di interessi sfavorevole per la parte debole del rapporto.

tradizionali. La possibilità di fare ricorso a tali rimedi, si aggiunge, lascia tuttavia insoluta la questione relativa all’opportunità di intervenire sul piano negoziale, specie là dove l’abuso sia perpetrato nelle contrattazioni di massa, determinando un effetto a catena sulle molteplici opera zioni poste in essere. A riguardo si suggerisce quindi l’astratta possibilità di diversificare la soluzione a seconda che si tratti di rapporti tra imprenditori - in ordine ai quali il conflitto interindividuale potrebbe trovare adeguata soluzione (anche) nell’ambito della disciplina dell’atto - ovvero di rapporti col pubblico dei consumatori. Con riferimento a quest’ultima ipotesi, in particolare, salvo che il comportamento negoziale abusivo non sia già contemplato in altri momenti del sistema (si pensi alla tipologia di clausole previste dalla disciplina dei contratti del consumatore di cui agli artt. 1469-bis ss. cod. civ.), “potrebbe ritenersi che il sistema sanzionatorio previsto dalla legge antitrust, nonché la tutela fornita in sede di disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti (l. n. 281/98), siano tali da non richiedere un ulteriore intervento sul piano negoziale”. 69 Di questo avviso, per sommi capi, G. PASSAGNOLI, op. ult. cit. 70 Propendono per questa soluzione R. SACCO, L’abuso della l ibertà contrattuale, in Diritto privato, vol. III, Milano, 1997, p. 217; di “quarto vizio” del consenso parla anche U. BRECCIA, Il contratto: nuovi itinerari di ricerca. Prospettive nel diritto dei contratti, in Riv. crit. dir. priv., 2001, p. 161.

129

Per procedere al preannunciato parallelismo, si riflette in primo luogo sul fatto

che la situazione che si viene a creare con la definizione concordata della strategia di

impresa sul mercato a valle è sostanzialmente assimilabile a quella determinata dalla

singola impresa che, abusando della posizione di dominanza di cui gode, fissa ad

esempio condizioni contrattuali abusive o stabilisce prezzi iniqui a carico dei

soggetti con cui viene a stabilire relazioni negoziali.

Colludendo tra loro, infatti, le imprese si assicurano di regola sfere di influenza

esclusiva, accrescendo in questo modo il potere di mercato di cui ciascuna

disporrebbe agendo in un contesto competitivo.

Il divieto di abusare del potere d’impresa esercitandolo in una direzione

monopolistica e dunque di restringere significativamente il grado di competizione

sul mercato, opera pertanto allo stesso modo sia che una scelta in tal senso provenga

dal singolo operatore dominante, che se la posizione di sostanziale predominio

(altrimenti inesistente) venga creata artificiosamente per effetto di una collusione tra

due o più operatori71.

In altri termini, in presenza dell’unilaterale imposizione di condizioni negoziali o

di prezzi sovra-concorrenziali, a nulla rileva l’origine unilaterale o concordata della

pratica illecita, essendo l’imperativo antimonopolistico rivolto più al piano degli

effetti che all’origine della distorsione 72: “una volta chiarito che ad esser vietato è

71 La differenza tra le due fattispecie, pertanto, è individuabile nel fatto che, mentre con riguardo all’art. 3 “è la posizione dominante il presupposto dell’illecito”, l’illecito di cui all’art. 2 può perfezionarsi indipendentemente da una tale posizione sul me rcato. Tant’è vero che “questa per accedere alla attenzione della legge deve dare luogo ad un fenomeno consistente, mentre la posizione dominante dentro il mercato nazionale o una sua parte rilevante se è abusiva è sempre sanzionabile” (così, Cassazione, 1° febbraio 1999, n. 827, cit.). 72 Come ricorda S. BASTIANON, L’abuso di posizione dominante, op. cit., nell’ambito delle regole applicabili alle imprese previste dal Trattato di Roma, gli artt. 81 e 82 rappresentano gli strumenti principali attraverso i quali gli organi comunitari mirano a realizzare, in conformità all’art. 3, lett. g), del Trattato dell’Unione europea, un regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato interno. A livello comunitario, pertanto, la disciplina in materia di posizioni dominanti e di intese (ma il discorso vale, mutatis mutandis, anche a proposito della disciplina delle concentrazioni) non solo non è fine a se stessa, rientrando nel novero degli strumenti previsti per la realizzazione dei più ampi obiettivi fondamentali di cui all’art. 2 del Trattato UE, ma serve altresì all’attuazione del medesimo obiettivo. Secondo la Corte di Giustizia (21 febbraio 1973, Continental Can, causa 6/72, in Racc., 1973, p. 215), infatti, “su piani diversi, gli artt. 81 e 82 mirano allo stesso scopo, cioè a mantenere un’effettiva concorrenza nel mercato comune”. Se a ciò si aggiunge che il Trattato non prevede alcuna gerarchia tra le due norme, ben si comprende l’affermazione della stessa Corte, (13 febbraio 1979, Hoffmann-La Roche, cit., p. 461), secondo la quale “il fatto che accordi possano rientrare (pure) nella sfera dell’art. 81, e in particolare del suo n. 3, non implica comunque che debba

130

l’esercizio abusivo del potere monopolistico, poco importa se tale potere esista ex

se in capo ad un’impresa, arrivata a tale invidiabile posizione per ‘luck, superior

products or business acumen’, oppure venga creato dal nulla per effetto della

collusione tra due o più operatori; se mai, ai ‘congiurati’ può contestarsi qualcosa

di più, non certo di meno, rispetto al responsabile di abuso di posizione dominante,

nella misura in cui la concertazione anticoncorrenziale si pone come strumento per

la creazione artificiosa di un potere di mercato altrimenti inesistente”73.

Ne consegue che, in presenza dell’imposizione di prezzi sovracompetitivi, la

coerenza del sistema antimonopolistico postula la condanna della pratica a

prescindere dalla portata unilaterale o collusiva della stessa. In altre parole, secondo

alcuni, riconoscere ai sensi dell’art. 3 della legge n. 287/1990 che l’utente finale

(consumatore o professionista) legato da un rapporto negoziale con l’impresa

egemone può agire per far accertare l’abusività della condotta, inficiare di nullità il

contratto in cui il comportamento si è tradotto ed ottenere il risarcimento dei danni

subiti, significa dover estendere il medesimo discorso anche nel caso in cui

l’infrazione antitrust sia rappresentata da un’intesa.

La sostanziale equivalenza di ratio ravvisabile, rispettivamente, nel divieto di

abuso di posizione dominante individuale ed in quello di dominanza collettiva creato

per mezzo di un accordo collusivo, sarebbe infatti sufficiente a spiegare la

plausibilità di rivendicare una ricaduta applicativa delle due fattispecie

tendenzialmente omogenea74.

essere disapplicato l’art. 82 cosicché, in questi casi, la Commissione può, tenuto conto in particolare dell’indole degli impegni reciprocamente assunti e della posizione concorrenziale dei vari contraenti sul mercato o sui mercati in cui operano, instaurare un procedimento in base all’art. 81 o 82. Inoltre, è generalmente riconosciuta l’ammissibilità di un’applicazione cumulativa delle due norme, purché venga compiutamente accertata l’esistenza dei presupposti di entrambe le fattispecie (cfr. Corte di Giustizia, 11 novembre 1989, Ahmed Saeed, causa 66/86, in Racc., 1989, p. 803; Tribunale di Primo Grado, 10 marzo 1992, Vetro Piano, cause T-68/89, 77/89, 78/89, in Racc., 1992, II, p. 1403). 73 R. PARDOLESI, Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, cit., pp. 470-471. 74 Sul punto, cfr. Cassazione, 1° febbraio 1999, n. 827, la quale riconosce che “tra le due proibizioni sussista un evidente analogia di ratio che determina qualche contiguità”. Di questo avviso, tra gli altri, R. PARDOLESI, Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, cit., p. 471; M. GIORDANO, Abuso di posizione dominante collettiva e parallelismo oligopolistico: la Corte di giustizia tenta la quadratura del cerchio?, nota a Corte di Giustizia, 16 marzo 2000, cause C-395/96 e C-396/97, Compagnie maritime belge, in Foro it., 2001, IV, p. 269 ss. Contra, A. MIRONE, Standardizzazione dei contratti bancari e tutela della concorrenza, op. cit., pp. 68-69, nota 251, secondo il quale nelle intese, il cui divieto ha ad oggetto l’attività di concertazione, fra il momento della collusione e quello della relazione con la clientela permane uno iato, negli abusi di posizione

131

A questo riguardo è peraltro necessario compiere un passo intermedio.

Poichè infatti la disciplina antimonopolistica non ricollega espressamente alcuna

sanzione alla violazione dell’art. 3, la dottrina è solita richiamarsi - al fine di

giustificare una dichiarazione di nullità degli atti che concretizzino l’infrazione -

all’art. 9, comma 3, della legge 18 giugno 1998, n. 192 in tema di subfornitura,

norma “sospesa tra diritto civile e diritto antitrust”75, secondo la quale “il patto

attraverso il quale si realizzi l’abuso di dipendenza economica è nullo”76.

dominante, invece, il divieto ha ad oggetto proprio la relazione fra l’impresa e la clientela, ragion per cui si può fondatamente ipotizzare che questa stessa relazione sia anche funzionalmente illecita. 75 Così V. PINTO, L’abuso di dipendenza economica “fuori dal contratto” tra diritto civile e diritto antitrust, in Riv. dir. civ., 2000, II, p. 389 ss., il quale precisa che l’abuso di dipendenza economica non opera esclusivamente in ambito contrattuale, ma anche al di fuori del contratto. E’ lo stesso art. 9, infatti, a prevedere che l’abuso possa consistere, oltre che nell’imposizione di clausole contrattuali da parte dell’impresa dominante, anche in meri comportamenti: “in tali casi la sanzione si sposta dal piano della nullità al piano della responsabilità per danni: in altre parole, l’abuso di dipendenza economica, oltre ad essere un vizio di nullità del contratto, è anche un’ipotesi di illecito” (p. 393). In merito si ricordi, tra l’altro, ma senza voler ripercorrere in questa sede i temi del dibattito, che l’originaria intenzione del legislatore - disattesa a seguito di un parere sfavorevole da parte dell’Antitrust - era nel senso dell’inserimento della fattispecie di cui all’art. 9 nel tessuto della legge n. 287/90 (come art. 3-bis), tale per cui pare corretto concordare con chi ritiene che il precetto dell’art. 9 non possa essere applicato senza un’indagine, sul piano della realtà economica, analoga a quella che deve essere utilizzata per interpretare ed applicare le norme antitrust. In quest’ultimo senso non può nemmeno essere sottovalutata la circostanza che, in altri ordinamenti europei, norme simili all’art. 9 costituiscono parte integrante della normativa a tutela della concorrenza, dunque risentendo dei medesimi criteri economici di valutazione tipici del diritto antitrust. Per un’analisi della legge n. 192/98 si vedano anche: G. DE NOVA, La subfornitura: una legge grave, in Riv. dir. priv., 1998, p. 449 ss.; R. CASO - R. PARDOLESI, La nuova disciplina del contratto di subfornitura (industriale): scampolo di fine millennio o prodromo di tempi migliori?, ivi, p. 712 ss.; F. BORTOLOTTI, I contratti di subfornitura, Padova, 1999; A. ALBANESE, Abuso di dipendenza economica: nullità del contratto e riequilibrio del rapporto, in Eur. e dir. priv., 1999, p. 1179 ss.; AA. VV., La subfornitura. Commento alla legge 18 giugno 1998, n. 192, a cura di G. Alpa e A. Clarizia, Milano, 1999; A. FRIGNANI, Disciplina della subfornitura nella l. n. 192/98: problemi di diritto sostanziale, in I Contratti, 1999, p. 188 ss.; ID., La subfornitura internazionale. Profili di diritto della concorrenza, in Riv. dir. comm., 1998, p. 683; C. OSTI, L’abuso di dipendenza economica, in Mercato, concorrenza, regole, 1999, p. 9 ss.; A. BARBA, L’abuso di dipendenza economica: profili generali, in AA. VV., La subfornitura nelle attività produttive, a cura di V. Cuffaro, Napoli, 1998; A. PALMIERI , Abuso di dipendenza economica: battuta d’arresto o pausa di riflessione?, nota a Tribunale di Taranto, ord. 22 dicembre 2003, in Danno e resp., n. 4/2004, p. 424 ss.; R. CASO, Subfornitura industriale: analisi economica delle situazioni di disparità di potere contrattuale, in Riv. crit. dir. priv., 1998, p. 243 ss.¸ L. DELLI PRISCOLI, L’abuso di dipendenza economica nella nuova legge sulla subfornitura: rapporti con la disciplina delle clausole abusive e con la legge antitrust, in Giur. comm., 1998, I, p. 833 ss.; ID., Abuso di dipendenza economica e contratti di distribuzione, cit.; G. CERIDONO, Sub art. 9, in Le nuove leggi civili comm., 2000, p. 429 ss.; F. PROSPERI, Subfornitura industriale, abuso di dipendenza economica e tutela del contraente debole: i nuovi orizzonti della buona fede contrattuale, in Rass. dir. civ., n. 4/99, p. 639 ss.; M. LUBRANO DI SCORPANIELLO, Abuso di posizione dominante e abuso di dipendenza economica, in AA. VV., Diritto dei consumatori e nuove tecnologie, a cura di F. Bocchini, op. cit., vol. II, Il mercato, p. 1 ss. 76 F. PROSPERI, Subfornitura industriale, abuso di dipendenza economica e tutela del contraente debole: i nuovi orizzonti della buona fede contrattuale, op. cit., p. 670, spiega la nullità di cui all’art.

132

Il confronto, nella specie, viene operato tra le due diverse (ma per certi versi

sovrapponibili e reciprocamente interferenti) fattispecie di abuso di posizione

dominante (di cui, appunto, all’art. 3 della legge antitrust) e di abuso di dipendenza

economica (contemplato dalla norma del richiamato art. 9), ritenendo che “non si

può pensare che la qualificazione di nullità rimanga estranea ai casi (ammesso che

esistano) in cui l’abuso di posizione dominante, attuato tramite un atto di autonomia

privata, non costituisce anche un abuso di dipendenza economica”77.

La similitudine è dunque giustificata osservando che l’impresa in grado di

determinare nei rapporti commerciali con un’altra impresa un “eccessivo squilibrio

di diritti ed obblighi” - che si manifesta tipicamente nella capacità della prima di

imporre alla controparte un prezzo squilibrato, quale certamente è un prezzo non

concorrenziale – è un’impresa che ha un potere economico e contrattuale tale da

poter imporre, in un ipotetico contratto con un cliente o con un fornitore, il prezzo

della prestazione senza alcun riguardo a quello praticato in regime di concorrenza.

In altri termini, si tratta di un’impresa che, in forza di un potere qualitativamente

analogo a quello rivestito dall’impresa che occupa una posizione dominante

assoluta, detiene il “potere sul prezzo” (c.d. power over price). Non vi è infatti alcun

dubbio sul fatto che l’essenza economica del potere di mercato consiste proprio nella

possibilità per l’impresa di imporre prezzi superiori (se monopolista) o inferiori (se

9 quale conseguenza di un vizio genetico del contratto ricollegabile all’abuso che una parte faccia del potere socio-economico di cui dispone nei confronti della controparte debole. 77 Con queste parole, M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, op. cit., p. 456. A favore della nullità del contratto in cui si concreta l’abuso: G. PASSAGNOLI, Le nullità speciali, op. cit., p. 235 ss.; G. ROSSI, Effetti della violazione di norme antitrust sui contratti tra imprese e clienti: un caso relativo alle “n.b.u.”, op. cit., p. 220; A. TOFFOLETTO, op. cit., p. 340, nota 116; C. SELVAGGI, Abuso di posizione dominante, in Giur. it., 1992, IV, p. 134 ss.; V. SCALISI, Nullità ed inefficacia nel sistema europeo dei contratti, op. cit., p. 493; in giurisprudenza, Tribunale di Milano, 7 agosto 2000, in Cass. pen., 2001, p. 57. Contra, nel senso che lo “squilibrio causale” del contratto frutto di abusivo sfruttamento della posizione dominante non è configurabile come fonte di invalidità: G. OPPO, Costituzione e diritto privato nella tutela della concorrenza, op. cit., p. 552 ss.; A. FRIGNANI, Sub art. 3, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 367; L. RISTORI, La competenza speciale della Corte d’Appello nella legge antitrust, in Riv. dir. priv., 1998, p. 423 s.; implicitamente, G. GUIZZI, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, op. cit., p. 76 s. A riguardo F. PROSPERI, Subfornitura industriale, abuso di dipendenza economica e tutela del contraente debole: i nuovi orizzonti della buona fede contrattuale, op. cit., p. 665 ss., ritiene legittima l’assimilazione del divieto di abuso di dipendenza economica al divieto di abuso del diritto, intendendo il primo come “abuso di diritto nell’esercizio dell’autonomia privata di un contraente verso un altro”. Il comportamento di chi compie atti formalmente rientranti nel contenuto del diritto, ma funzionalizzati in concreto a

133

monopsonista) a quelli praticati in regime di concorrenza, senza che gli altri

operatori presenti sul mercato siano in grado di reagire efficacemente78.

Così l’impresa in posizione dominante assoluta, per dirla con la terminologia di

cui all’art. 9, non è altro che un’impresa in grado di determinare un eccessivo

squilibrio di diritti e di obblighi nei confronti di tutti i clienti o i fornitori presenti sul

mercato.

Alla nullità per violazione del divieto a carico dell’impresa di abusare della

posizione di dominanza detenuta si ritiene di poter conseguentemente attribuire, per

relationem, i medesimi tratti della nullità di cui all’art. 9, la quale è intesa dalla

dottrina più autorevole non come espressione della figura generale della nullità

assoluta disciplinata dal codice civile, ma quale ipotesi di nullità speciale, da

inserire quindi nell’attuale orientamento di matrice comunitaria 79.

Il regime della nullità sancita dalla legge n. 192/1998 - applicabile di rimando

alle fattispecie anticompetitive di cui all’art. 3 - sarebbe quindi caratterizzato - alla

luce della ratio di proteggere l’interesse del soggetto che ha contrattato in condizioni

di dipendenza economica (generalmente, ma non in ogni caso, il subfornitore) - da

relatività della legittimazione ad agire, parzialità necessaria e sanabilità (ai sensi

degli artt. 1419, 1339 e 1374 cod. civ.)80.

realizzare scopi antisociali, costituisce un tipico comportamento di contrario al principio di buona fede (inteso in senso oggettivo) da parte del soggetto dotato di maggiore potere socio-economico. 78 Come osserva F. DENOZZA, Antitrust. Leggi antimonopolistiche e tutela dei consumatori nella CEE e negli USA, op. cit., p. 17 e p. 20 ss., l’impresa che detiene il potere di mercato è in grado di fissare i prezzi in modo tale da massimizzare il proprio profitto, con pregiudizio per la controparte contrattuale (effetto redistributivo) e per l’efficienza allocativa del mercato (effetto allocativo). In definitiva, si può ragionevolmente affermare - con le parole di A. MAZZONI, Prime riflessioni sull’abuso di dipendenza economica nei contratti agro-industriali, in Riv. dir. agr., 1999, p. 163 - che “la dipendenza economica è la situazione simmetrica ad una posizione di dominanza relativa, che trova origine in rapporti commerciali (verticali) attuali o potenziali tra imprese”. 79 Per l’impostazione sistematica relativa (ancorché anteriore alla legge n. 192/98) si veda: G. PASSAGNOLI, Nullità speciali, op. cit. Tende invece a ricondurre la nullità dell’art. 9 all’azione di annullamento di cui agli artt. 1441 ss. cod. civ., intesa quale figura di invalidità di protezione già prevista in via generale (e dunque suscettibile di applicazione analogica) dall’ordinamento, M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, op. cit., p. 458. 80 Sul tema si vedano soprattutto: S. POLIDORI , Discipline della nullità e interessi protetti, op. cit.; P.M. PUTTI, La nullità parziale. Diritto interno e comunitario, op. cit.; nonché D. RUSSO, Sull’equità dei contratti, Napoli, 2001, p. 87 ss. L’ultimo importante esempio di nullità di protezione è costituito dall’art. 7 del D. lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, che, in materia di transazioni commerciali, sancisce la nullità degli accordi sulla data del pagamento (o sulle conseguenze del ritardo) che “risultino gravemente iniqui a danno del creditore”, di seguito disponendo che “il giudice, anche d’ufficio, dichiara la nullità dell’accordo (…) ovvero riconduce ad equità il contenuto dell’accordo medesimo”.

134

2.6.1. Critica

La prima contestazione che si ritiene di poter muovere al tentativo di ravvisare nel

combinato disposto degli artt. 3 della legge n. 287/1990 e 9 della legge n. 192/1998

il dato positivo cui ancorare la tesi della nullità dei contratti a valle di un’intesa

anticoncorrenziale (letta alla stregua di un abuso di posizione dominante collettivo e

dunque accomunato in termini di ricadute dell’infrazione), discende dal presupposto

da cui muove la ricostruzione.

Ritenere che sia ravvisabile un’ipotesi di abuso di dipendenza economica

ogniqualvolta l’impresa abusi della propria (diversa) posizione dominante per mezzo

di un atto di autonomia negoziale - e conseguentemente estendere pedissequamente

la sanzione di nullità contemplata dall’art. 9 anche alle ipotesi di cui all’art. 3 -

sembra infatti una affermazione non condivisibile e viziata nelle premesse.

Come osservato da autorevole dottrina, infatti, non tutti gli atti compiuti in

esecuzione di un abuso di posizione dominante collettiva - equiparabile, quanto agli

effetti, ad un’intesa anticoncorrenziale - possono qualificarsi come abuso di

dipendenza economica81.

Rimane dunque non coperto dalla soluzione ermeneutica un vasto spazio in cui i

contratti consequenziali all’infrazione anticoncorrenziale danno luogo solo a rimedi

risarcitori e non anche ad esiti invalidativi.

L’estensione della nullità - inferita attraverso il passaggio per l’art. 9 della legge

n. 192/98 - dalle fattispecie sub art. 3 della legge n. 287/90 a quelle sub art. 2 è pure

contestata da quanti - condividendo l’assimilazione dell’abuso di posizione

dominante collettiva al cartello - tornano ad affermare che il silenzio del legislatore

Per un primo commento sul punto si veda V. PANDOLFINI, La nullità degli accordi “gravemente iniqui” nelle transazioni commerciali, in I Contratti, n. 5/2003, p. 501 ss. 81 Cfr. M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, op. cit., p. 453. In questo senso pure V. PINTO, L’abuso di dipendenza economica “fuori dal contratto” tra diritto civile e diritto antitrust, op. cit., p. 400, secondo il quale “è la fonte del potere e, di conseguenza, l’ampiezza dello stesso a rappresentare il tratto caratteristico della posizione di dominio fondata sulla dipendenza economica rispetto alla posizione dominante: se la forza economica e contrattuale del monopolista deriva essenzialmente dalla struttura (e, in particolare, dal grado di concentrazione) del mercato preso a riferimento e sussiste nei confronti di tutti i soggetti che in esso operano, il dominio fondato sulla dipendenza economica trae origine da rapporti commerciali bilaterali tra imprese e, dunque, può essere esercitato solo nei confronti del cliente o fornitore che è parte di detti rapporti”.

135

nell’art. 2 sia il frutto di una consapevole scelta normativa, come tale escludente

qualunque accostamento di ratio tra le due disposizioni legittimante un’applicazione

analogica della soluzione scelta con riguardo ai contratti che si pongano a valle di un

abuso del primo tipo82.

L’argomentazione, in particolare, muove da una diversa ricostruzione della

logica sottesa, rispettivamente, all’art. 2 e 3 della legge antitrust.

Ciò che si sostiene è che, mentre il primo divieto ha come finalità immediata

esclusivamente il mantenimento dell’autonomia strategica delle imprese, evitando la

definizione di standards comportamentali e strategici uniformi - tutelando gli utenti

finali solo in via indiretta -, la norma dell’art. 3 ha proprio ad oggetto la repressione

di un comportamento “di relazione” fra le imprese e gli utenti finali.

La circostanza che le relazioni negoziali tra impresa e clientela a valle siano

contemplate solo nel disposto dell’art. 3 e non dell’art. 2, si afferma, induce a

ritenere che il legislatore, tanto nazionale quanto comunitario, abbia inteso

circoscrivere la rilevanza dell’interazione tra condotta imprenditoriale e contratti a

valle solo alle ipotesi di collegamento “forte” fra operatori concorrenti (la posizione

dominante collettiva), ad esclusione di altre forme più “deboli”, ricadenti nella

previsione dell’art. 2.

Pertanto, si conclude, mentre non sussistono dubbi circa l’applicazione della

sanzione della nullità - ricondotta nell’ambito della invalidità virtuale di cui al

comma 1 dell’art. 1418 cod. civ. - ai contratti ed alle clausole negoziali che sono

espressione di un abuso concorrenziale, è evidente che lo stesso non può dirsi per le

intese, dato che l’art. 2, comma 3, circoscrive esplicitamente la nullità alle “intese

vietate”, senza menzionare in alcun modo gli atti consequenziali o esecutivi.

82 Di questo avviso A. MIRONE, Standardizzazione dei contratti bancari e tutela della concorrenza, op. cit., pp. 68-69.

136

3. La validità dei contratti a valle

3.1. Linee generali La tesi che, in linea generale, esclude la nullità del contratto a valle risulta, ad un

esame delle pronunce di dottrina e giurisprudenza, la più condivisa.

L’opinione maggioritaria è infatti nel senso della intrasmissibilità della nullità

espressamente prevista per l’intesa dall’art. 2 della legge antitrust nazionale (e

dell’art. 81 del Trattato) all’attività negoziale consequenziale all’illecito, attesa la

netta distinzione e separazione di piani che si ritiene di poter rilevare,

rispettivamente, tra violazione delle regole di condotta dettate per l’imprenditore

come tale e sorte del contratto attraverso cui il comportamento abusivo si manifesta.

A questo proposito, è opportuno ricordare che la giurisprudenza nazionale si

occupa per la prima volta della questione in maniera specifica con riguardo alle

intese (contrarie all’art. 85, ora 81, del Trattato) poste in essere da istituti bancari

attraverso la predisposizione di Norme Bancarie Uniformi (di seguito, n.b.u.), il cui

contenuto viene di seguito trasfuso dalle singole banche nei contratti di conto

corrente o di fideiussione stipulati con i propri clienti83.

83 Sulla compatibilità con le norme comunitarie delle n.b.u. che disciplinano l’apertura di credito in conto corrente (Tribunale di Genova, 21 maggio 1996, in Foro it., Rep. 1998, voce “Contratti bancari”, nn. 31 e 33 ed in Giur. it., 1997, I, 2, p. 167; 28 dicembre 1996, inedita), è stato sollecitato anche l’intervento della Corte di Giustizia (ai sensi dell’art. 234, ex 177, del Trattato CE), la quale, pur investita della questione relativa agli effetti a valle dell’intesa, non si è pronunciata sul punto, ritenendo insussistenti le denunciate violazioni del Trattato (Corte di Giustizia, 21 gennaio 1999, cause riunite C-215 e 216/96, Bagnasco e altri c. Banca popolare di Novara, in Foro it., 1999, IV, p. 41, ed in Giur. comm., 1999, II, p. 477, con nota di G. PERASSI, il quale ricorda che la costante giurisprudenza della Corte ritiene disciplinate dai singoli ordinamenti nazionali le conseguenze sui contratti stipulati dalle imprese con i consumatori in attuazione delle intese costituenti infrazione delle norme del Trattato). Oggi, anziché di norme bancarie uniformi, è più corretto parlare (come rilevato nel Capitolo I) di “condizioni generali del rapporto banca-cliente”. Come sottolinea A. MIRONE, Standardizzazione dei contratti bancari e tutela della concorrenza, cit., p. 5 ss. e 291 ss., i modelli Abi sono infatti schemi -tipo di condizioni generali, destinate a divenire parte del regolamento contrattuale con i clienti solo in seguito alla loro eventuale e libera ricezione da parte delle banche, secondo le tecniche di cui all’art. 1341 cod. civ. Ciò impone quindi di valutarne la portata anticoncorrenziale in un’ottica di tipo oggettivo, come “raccomandazioni non vincolanti”, peraltro potenzialmente e fattualmente lesive del principio di libera concorrenza anche in assenza di vincoli per le imprese destinatarie.

137

In questo caso, in particolare, i giudici di merito e di legittimità84, escludono

qualsiasi relazione tra la valutazione delle n.b.u. alla stregua di un’intesa

anticoncorrenziale (nulla ex art. 85), da un lato, e la possibilità per i clienti,

dall’altro, di invocare l’invalidità dei contratti a valle.

Partendo dall’assunto in base al quale “la sanzione di nullità prevista dall’art.

33, legge 10 ottobre 1990, n. 287, cosiddetta antitrust, riguarda esclusivamente le

intese tra imprese restrittive della libertà di concorrenza, così come individuate

dall’art. 2 della stessa legge, e non si applica ai contratti che, sulla base di tali

intese, le imprese che ne sono parti abbiano concluso con i terzi”, simile

ricostruzione nega infatti qualunque ripercussione dell’invalidità della collusione

illecita sui contratti sottostanti85.

84 Così, oltre al citato Tribunale di Alba, anche Corte d’Appello di Torino, 27 ottobre 1998; Tribunale di Torino, 16 ottobre 1997 e Tribunale di Milano, 25 maggio 2000, in Banca, borsa e tit. di cred., 2001, II, p. 87 ss., con nota di G. FALCONE, Ancora sull’invalidità dei contratti a valle per contrasto delle “norme bancarie uniformi” con la disciplina antitrust; Corte di Appello di Catania, 1° giugno 2001. In sede di legittimità, si veda Cass., 4 marzo 1999, n. 1811 e Cass., 13 aprile 2000, n. 4801, entrambe in Riv. dir. ind., 2000, II, p. 431. In particolare, nella prima pronuncia la Cassazione afferma la carenza di legittimazione del cliente bancario, sostenendo che destinatari diretti delle norme antimonopolistiche “sono gli imprenditori commerciali (…), (mentre) l’utente singolo potrebbe trarre vantaggio in fatto, solo in via riflessa ed indiretta , dai generali benefici della libera concorrenza di mercato, ma non può ritenersi direttamente investito della legittimazione giuridica a dolersi di asserite violazioni poste in essere da un’impresa o un gruppo di imprese”. 85 In questi termini il Tribunale di Alba, 12 gennaio 1995, cit., secondo il quale, nulla disponendo il diritto comunitario né quello nazionale circa gli effetti dell’illecito anticoncorrenziale sui contratti conclusi dalle imprese con i clienti, ne deriva che il giudice dovrà applicare ad essi le sanzioni eventualmente previste dal diritto interno, ai sensi del quale le norme bancarie uniformi - nel caso di specie - devono qualificarsi come “condizioni generali di contratto di diritto privato liberamente accettate” dal cliente che le sottoscrive. Gli unici strumenti di tutela del contraente più debole consistono dunque, afferma l’Organo giudicante, negli artt. 1341 e 1342 cod. civ. e nelle norme in materia di trasparenza previste dalla legge n. 154 del 1992. Dello stesso avviso è pure G. OPPO, Costituzione e diritto privato nella “tutela della concorrenza”, cit., p. 549 ss. (specie pp. 552-553), secondo il quale “la repressione e la eliminazione dell’infrazione non possono coinvolgere i rapporti contrattuali nei quali si sia già svolta l’intesa. In presenza di consimili rapporti, l’iniziativa di investirli allegando la illiceità dell’intesa non può essere che della controparte del soggetto dell’intesa medesima, ma dell’ammissibilità e dell’esito di una simile iniziativa - sia pure in presenza di un’accertato comportamento anticoncorrenziale - è a giudicarsi, in coordinamento con la normativa antitrust, secondo il diritto dei contratti”. In particolare l’Autore, con riguardo alla fattispecie di abuso di posizione dominante che si concretizza in atti aventi natura negoziale, nega il ricorrere sia dell’annullabilità che della nullità, ritenendo che il comportamento abusivo debba essere qualificato quale illecito che, ricorrendo gli altri presupposti dell’azione di danni, può legittimare la richiesta di un risarcimento ex art. 33, comma 2, legge antitrust. A questo proposito, inoltre, si segnala l’opportunità di distinguere ulteriormente la “veste” in cui il danneggiato subisce la lesione e in particolare se la subisce direttamente come controparte dell’autore dell’abuso ovvero attraverso la distorsione del mercato, nel primo caso escludendosi la responsabilità aquiliana, l’Autore si domanda se la configurazione di un illecito all’interno del rapporto contrattuale non importi legittimazione

138

L’esclusione, nella specie, è motivata adducendo in primo luogo la letterale

limitazione della previsione di cui all’art. 85 alle sole intese ed il fatto che la norma

è diretta “a tutelare la libertà di concorrenza tra le imprese (…), sì che essa

sanziona di nullità gli accordi tra imprese che risultino lesivi di tale libertà, non i

negozi che a valle le banche abbiano stipulato con le imprese clienti”;

conseguentemente, “gli effetti sul cliente potrebbero venire in gioco sotto il profilo

della tutela dei diritti del consumatore”86, ma “l’art. 85 tutela la libertà di

concorrenza in sé e non detta una disciplina specifica a garanzia del

consumatore”87.

E anche dove voglia ammettersi che la disposizione in esame persegua

complessivamente fini di tutela del mercato e dei consumatori, i giudici affermano

che l’estensione della nullità ai singoli contratti bancari conclusi in conformità

all’illecito antitrust vada comunque negata, nella considerazione che con l’invalidità

negoziale, anziché tutelare, si finisce per danneggiare il consumatore (e, in generale,

la controparte dell’impresa collusa), “discendendo dalla nullità dei contratti

l’immediata esigibilità nei confronti del mutuatario, a titolo di indebito oggettivo,

delle somme erogate dalla banca” 88.

Poiché il diritto nazionale di settore si limita a contemplare una previsione di

nullità dotata della stessa struttura e latitudine di quella contenuta nel Trattato, ci si

orienta conseguentemente, secondo il richiamato indirizzo, nel senso che neppure la

nullità disposta dall’art. 2 si estenda, al pari della corrispondente norma comunitaria,

ai contratti a valle dell’infrazione concorrenziale, che rimangono quindi del tutto

insensibili alle vicende anticoncorrenziali che li precedono.

della controparte a pretendere la reductio ad equitatem. In merito a quest’ultimo profilo, si rinvia a G. GUIZZI, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, op. cit. 86 Si alludeva, in quella occasione, alla disciplina dettata dagli artt. 1469-bis ss. cod. civ. in materia di contratti del consumatore, cui si affianca attualmente anche la legge 30 luglio 1998, n. 281 sulla disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti. A proposito del rilievo che i criteri di individuazione dello squilibrio contrattuale di cui agli artt. 1469-bis ss. cod. civ. possono assumere nella valutazione delle intese anticoncorrenziali, si veda A. MIRONE, op. cit., specie Cap. IV e V. 87 Queste le parole del Tribunale di Alba, 12 gennaio 1995, cit., secondo il quale le medesime considerazioni possono essere estese anche alla diversa fattispecie di abuso di posizione dominante di cui all’art. 86 del Trattato, così escludendo la nullità dei contratti conseguenti all’abuso stesso. 88 Così la Corte d’Appello di Torino, 27 ottobre 1998, secondo cui accedere alla tesi della nullità “getterebbe nel caos la certezza dei rapporti giuridici”.

139

A sostegno della validità dei contratti, si è pronunciato anche il Tar del Lazio -

competente in via esclusiva a conoscere dell’impugnazione dei provvedimenti

antitrust ex art. 33 legge n. 287/1990 - con la sentenza 10 marzo 2003, n. 179089, in

89 Con la sentenza sopra richiamata - per la cui più ampia trattazione si rinvia al Capitolo III - (cui è seguita, con l’ impugnazione in sede di appello, la n. 926 del 27 gennaio 2004 del Consiglio di Stato), il Tar Lazio è stato chiamato a pronunciarsi in merito ad un’intesa consistente in una pratica concordata diretta ad alterare, da parte di alcune società operanti nel settore della ristorazione (Ristomat, Gemeaz Cusin, Day Ristoservice, Ristochef, Sagifi, La Cascina, Qui! Ticket Service e Sodexho Pass) nell’ambito di una gara bandita dalla Consip (Concessionaria Servizi Informativi Pubblici, indirettamente controllata dal Ministero del Tesoro), la concorrenza nella fornitura del servizio sostitutivo di mensa mediante l’emissione di buoni pasto per il personale dipendente delle pubbliche amministrazioni. L’intesa, secondo l’impugnato provvedimento dell’Antitrust, si sostanziava nella determinazione congiunta delle modalità di partecipazione alla gara e, più specificamente, nell’individuazione concordata della composizione delle varie associazioni temporanee di impresa (ATI) e delle imprese destinate a presentarsi singolarmente, nella fissazione dei livelli di sconto previsti dalle singole offerte e nella ripartizione dei lotti. La questione, in particolare, si incentrava nella pratica del c.d. bid rigging , ovvero nella alterazione delle gare commesso attraverso la concertazione delle modalità di partecipazione ed offerta ai fini della aggiudicazione, attraverso collusioni rilevanti sul piano antitrust. Il fenomeno, in particolare, è stato studiato prima di tutto dalla giurisprudenza e dalla dottrina statunitensi, le quali mostrano attenzione alla fattispecie ove commessa attraverso agreement, combination, o conspiracy in violazione della Section 1 dello Sherman Act. Nella specie, diversamente dalle violazioni concorrenziali accertate alla stregua della rule of reason, per cui è necessario il riscontro in concreto del restraint of trade, il bid rigging è sanzionato per se, in ragione della gravità della restrizione e a prescindere dal riscontro a livello effettuale sul mercato di riferimento. Ciò comporta che l’accordo collusivo teso ad alterare il procedimento di aggiudicazione è punito già al momento della ideazione e formazione del piano comune, non essendo richieste condotte ulteriori, e tanto meno il raggiungimento degli obiettivi, rilevando eventuali condotte ultronee (i c.d. over acts in furtherance) solo sotto il profilo della durata e gravità della violazione e dunque di commisurazione della sanzione. A questa iniziale interpretazione, peraltro, si è poi succeduta intorno agli anni ‘80 una diversa impostazione che, attenta al profilo della continuazione della violazione, si è spinta ad affermare che il bid rigging può considerarsi cessato o realizzato non con la semplice e falsata partecipazione alla gara con l’aggiudicazione dell’appalto, ma in un momento successivo, coincidente ora con la percezione dei corrispettivi contrattuali, ora con la condivisione dei profitti successivi all’aggiudicazione. A livello comunitario i principali esempi in materia sono costituiti dalle decisioni della Commissione 5 febbraio 1992, 92/204/CEE, Industria delle Costruzioni dei Paesi Bassi-SPO, in G.U.C.E., L92, p. 1 ss., e 2 gennaio 1973, 73/109/CEE, Suiker Unie, Industria europea dello zucchero, in G.U.C.E., L140, p. 17 ss. In quest’ultima, in particolare, la Commissione afferma che “in un sistema di gare, il gioco della concorrenza deve necessariamente poter aver libero campo; che se le offerte fatte dai partecipanti ad una gara non sono più il risultato di un calcolo economico individuale, ma derivano dalla conoscenza delle offerte degli altri partecipanti e da una concertazione con essi, il gioco della concorrenza è impedito o, per lo meno, falsato e ristretto”. Nel caso SPO, invece, la Commissione (confermata sul punto dal Tribunale di Primo grado) ribadisce che l’alterazione della gara e la violazione delle norme antitrust non è costituita solo dalla concertazione sulla presentazione delle offerte in risposta al bando di gara, ma anche dalla definizione concordata delle modalità per pervenire all’effettiva aggiudicazione del soggetto selezionato, nonché dalla ripartizione dei mercati quale risultato ultimo del meccanismo collusivo. In proposito, all’obiezione per cui una volta aggiudicata la gara, non può esservi competizione ulteriore suscettibile di essere falsata o ristretta, la Commissione (confermata dal Tribunale) replica statuendo che proprio il procedimento di “pre -selezione” del migliore offerente serve a realizzare una ripartizione del mercato, restringendo la concorrenza fra le imprese offerenti e limitando la libertà di scelta degli utilizzatori. La giurisprudenza comunitaria, quindi, ritiene che la concertazione sulle gare è fattispecie sanzionata sia

140

cui conferma sostanzialmente il richiamato indirizzo interpretativo affermando che,

già da un punto di vista strettamente letterale, risulta che la nullità non coinvolge i

contratti che possono essere stati conclusi a valle dell’intesa tra (una o più delle)

imprese aderenti ed un terzo a questa estraneo. Ciò in quanto i “contratti i quali

ricadono nell’ambito della previsione letterale della norma sulla nullità, hanno una

propria causa a sé stante (in questo caso la causa tipica dell’appalto) e realizzano il

corrispondente assetto di interessi”.

Distinguendo tra negozio-mezzo dell’intesa - concluso con un terzo perché

l’intesa illecita possa progredire verso il fine al quale tende e che, secondo lo stesso

giudice amministrativo, difficilmente potrebbe sottrarsi ad una valutazione di

illiceità della causa concreta - e contratti a valle dell’intesa - ovvero conclusi con i

terzi da un’impresa che, giovandosi del concordamento anticompetitivo stretto a

monte, sia in condizione di trarre da questo indebiti vantaggi economici - il Collegio

giunge ad escludere che con riguardo a questi ultimi possa ragionarsi in termini di

illiceità e dunque di nullità.

Sebbene infatti “in contratti di questo genere, siano essi una moltitudine oppure

(come nella specie), uno solo, potrebbe sempre essere rinvenuto il fine ultimo degli

illeciti concordamenti antitrust - posto che proprio attraverso le relative operazioni

viene normalmente incamerato il vantaggio economico che costituisce, in ultima

analisi, il punto di mira delle strategie anticompetitive delle imprese – nondimeno si

tratta di contratti che, per quanto possano presentare, in forza del loro antecedente

storico, dei termini di scambio alterati da uno squilibrio economico, e denunziare

magari l’esistenza di un vizio del consenso di una delle parti, non potrebbero però

essere considerati illeciti in alcuno dei loro elementi costitutivi”.

in quanto vi è accordo sulla partecipazione alle gare, che in caso di aggiudicazione ed effettiva ripartizione dei mercati fra le imprese concertanti. Oggetto di particolare attenzione, ai fini che qui interessano, deve essere pertanto la risposta fornita di volta in volta dalle corti al quesito su cosa esattamente costituisca attuazione e raggiungimento degli obiettivi nel caso di bid rigging ovvero quando possa configurarsi cessazione della violazione, ed in particolare se l’attività successiva all’aggiudicazione (quale l’esecuzione delle forniture o la ricezione di pagamenti a seguito di gara alterata), sia qualificabile quale continuazione della violazione antitrust e a quali condizioni ovvero quando rappresenti un mero risultato dell’illecito. In quest’ultimo caso, infatti, l’attività “criminosa”, ove dovesse ritenersi non rientrante nell’ambito di applicazione delle norme antitrust (che non colpirebbero la percezione di profitti, ma solo la concertazione per l’alterazione della concorrenza), potrebbe costituire violazione di norme di altra natura (penali, ad esempio).

141

A queste considerazioni la giurisprudenza richiamata aggiunge pure, rafforzando

l’indirizzo inaugurato dal Tribunale di Alba con riguardo al caso delle n.b.u., la

considerazione della gravità estrema delle conseguenze che un’ipotetica estensione

della nullità dell’infrazione ai contratti a valle (prevedibile conseguenza della tesi

che vorrebbe veder colpiti e caducati tutti i negozi costituenti attuazione dei

comportamenti vietati dall’art. 2 della legge n. 287/1990) esplicherebbe sulla

certezza degli scambi.

Il carattere normalmente occulto, per i terzi, della causa determinatrice della

ipotizzata nullità “a cascata” (o “a pioggia”, per utilizzare l’espressione del Tar,

sostenuta da chi inquadra il problema in termini di invalidità derivata) ed il rigore

che permea la disciplina normativa della nullità, esporrebbe infatti i terzi, al di fuori

di ogni consapevolezza e possibilità di controllo ed anche a distanza di tempo,

all’alea di una possibile vanificazione retroattiva dei loro più diversi rapporti

contrattuali, con un effetto devastante sulla sicurezza delle relazioni giuridiche e la

stessa tutela del mercato.

Anche in virtù di queste osservazioni, l’indirizzo contrario all’idea della nullità a

valle ritiene pertanto che gli ordinari strumenti di tutela previsti dal codice civile

sono pienamente idonei a garantire adeguata protezione e ristoro ai terzi (siano essi

consumatori o imprenditori) controparti delle singole imprese colludenti.

Nel negare l’invalidità (di qualunque natura e fonte) dei contratti a valle, il

richiamato indirizzo fornisce quindi soluzioni di altra natura che, permanendo in vita

l’atto negoziale conseguente all’illecito antitrust, si incentrano a diverso titolo sulla

risarcibilità del danno patito dalla controparte contrattuale dell’impresa collusa e

coincidente nella misura con quell’extra-profitto che costituisce il fine ultimo

dell’intesa.

Alla luce di quanto fino ad ora osservato ed alle critiche mosse alla più vasta

ricostruzione che, diversificata in quanto alla fonte, riconduce unitariamente la sorte

dei contratti a valle al destino dell’invalidità, sembra dunque opportuno dedicarsi a

quelle tesi che ragionano non in termini di illiceità della regola negoziale, quanto di

una sua possibile iniquità, bilanciabile con rimedi di diversa natura.

A questi ultimi, pertanto, sembra opportuno volgere ora l’attenzione.

142

3.2. I rimedi diversi dalla nullità: le tesi

Sulla base delle premesse esposte poc’anzi, la tesi favorevole alla perdurante validità

dei contratti a valle dell’intesa ritiene sufficiente, al fine di non frustrare gli obiettivi

perseguiti dall’ordinamento, una tutela solo obbligatoria a vantaggio della

controparte contrattuale dell’impresa partecipante all’illecita collusione.

La ricostruzione che trova maggior credito presso la dottrina e la recente

giurisprudenza è rappresentata, in particolare, dal riconoscimento dell’azione

risarcitoria a vantaggio di quanti - legati da un vincolo negoziale con una delle

imprese colludenti - abbiano subito per effetto dell’illecito antitrust l’imposizione di

condizioni contrattuali deteriori rispetto a quelle che sarebbero state praticate ove la

definizione del regolamento pattizio fosse avvenuta attraverso il regolare

funzionamento dei meccanismi di mercato e dunque in assenza di una preventiva

concertazione.

Il fondamento della relativa legittimazione è individuato, in particolare, nella

norma dell’art. 1439 cod. civ. 90 (ravvisando un’ipotesi di dolo determinante

l’annullabilità contratto e la risarcibilità del danno); dell’art. 1440 cod. civ.

(qualificando la fattispecie quale ipotesi di dolo incidente, per il quale è esclusa

l’ipotesi di annullamento del contratto, residuando solo il rimedio risarcitorio);

ovvero ancora dell’art. 2043 cod. civ., così riassumendo l’intesa anticoncorrenziale

nel vasto genus dell’illecito civile il quale, ove ne ricorrano i presupposti,

90 M. MELI, Autonomia privata, sistema delle invalidità e disciplina delle intese anticoncorrenziali, op. cit.; ID., L’abuso di posizione dominante attraverso comportamenti aventi carattere negoziale: il caso Telepiù, cit., p. 318 ss., la quale si richiama, nel sostenere la tesi dell’annullabilità dei contratti a valle, ad autorevole dottrina (tra cui R. SACCO e U. BRECCIA). In particolare, l’Autrice individua nella norma degli artt. 1441 ss. cod. civ. la prima forma di invalidità di protezione prevista in via generale dall’ordinamento, che lascerebbe pensare ad una estensione sistematica della disciplina dell’azione di annullamento a tutte le situazioni, positivamente definite, di invalidità di protezione poste dal legislatore come limitazioni del potere d’impresa. Contrario a questa ricostruzione, M. LIBERTINI , Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, op. cit., p. 451.

143

legittimerebbe il soggetto leso ad esperire in via extra-contrattuale la relativa azione

risarcitoria 91.

Lungi dall’ammettere la traduzione dell’illecito antitrust quale elemento

patogeno portatore di un vizio - tanto esogeno quanto endogeno - in grado di

provocare la più grave forma di invalidità negoziale (la nullità, appunto), l’indirizzo

in esame ammette invece, unitariamente ed esclusivamente, l’esperibilità di

un’azione impugnatoria ovvero risarcitoria (ovvero di entrambi i rimedi in via

congiunta).

L’esclusione di una sanzione tanto radicale - motivata dalle ragioni teoriche e

dalle considerazioni pratiche esposte - porta quindi ad inquadrare - nel rispetto

della tradizionale divisione tra categorie dogmatiche, ed in particolare tra nullità ed

annullabilità del negozio giuridico - l’alterazione delle condizioni di mercato quale

elemento idoneo a penetrare nel tessuto pattizio, viziando (sub specie doli) la

volontà negoziale della parte non collusa, oppure quale fatto estraneo al contratto ma

ugualmente idoneo ad incidere sulla sfera patrimoniale del contraente non coinvolto

nell’illecita concordanza strategica, pertanto giustificante - in presenza dei relativi

presupposti - il ricorso alla norma dell’art. 2043 cod. civ.

Il contratto a valle, tanto in un caso che nell’altro, resterebbe pertanto

pienamente operativo e vincolante sino alla pronuncia costitutiva del giudice

ordinario ed al momento del suo successivo e solo eventuale annullamento.

91 Ulteriore e diverso problema, di cui ci occuperemo più avanti, è quindi quello di verificare se effettivamente sussistano, con riguardo ai contratti a valle, gli estremi per invocare i menzionati rimedi indicati. In particolare, dovrà valutarsi se possa dirsi che il contratto a valle è viziato da un comportamento doloso da parte dell’impresa collusa (nelle diverse ipotesi di dolo incidente o, addirittura, di dolo determinante), oppure se la situazione giuridica specificamente lesa dall’infrazione anticoncorrenziale consenta a chi asserisce di aver subito un danno patrimoniale in via extra-contrattuale di ricorrere al rimedio risarcitorio di cui all’art. 2043 cod. civ. Sul punto, in particolare, si dovrà verificare la compatibilità del regime previsto per l’illecito civile dal nostro codice con i caratteri peculiari dell’illecito antitrust, domandandosi se ai fini del risarcimento del danno si debba accertare la presenza di tutti gli elementi della responsabilità aquiliana, ovvero se sia possibile ritenere che la qualificazione di illiceità dell’intesa consenta di affermare direttamente l’ingiustizia del danno. Sulla questione si veda, da ultimo, M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, cit., p. 452.

144

3.3. L’utilità del richiamo alla figura della annullabilità: esiti e obiezioni

Nell’insieme di ricostruzioni che inquadrano le problematiche inerenti alla sorte dei

contratti a valle di un’infrazione anticoncorrenziale in termini di validità, si inserisce

- come poc’anzi anticipato - la soluzione di quanti riconducono la fattispecie alla

categoria dogmatica della annullabilità ed al sostrato fattuale che di quell’istituto

costituisce il fondamento giuridico, così avvicinando la tematica antitrust a quella

tradizionale dei vizi del consenso eteroindotti, partecipi degli elementi dell’abuso e

dello “sviamento” della volontà92.

La scelta ermeneutica, in particolare, è fondata sull’osservazione che “laddove

interviene la sanzione di nullità contrari alle norme imperative sono gli effetti che il

preteso negozio vorrebbe attuare; laddove interviene la sanzione dell’annullabilità,

illecito è il mezzo usato per ottenere la formazione del negozio, ma non

necessariamente l’effetto che il negozio produce”93.

Il che, si ritiene, è ciò che accade nella nostra ipotesi: illecito è, infatti, l’abuso

da parte dell’impresa aderente all’intesa la quale, in forza del conseguente

accresciuto potere di mercato, impone al proprio interlocutore a valle un

regolamento negoziale a sua vo lta sperequato.

92 La tesi è formulata da M. MELI, Autonomia privata, sistema delle invalidità e disciplina delle intese anticoncorrenziali, op. cit., p. 190 ss., la quale riferisce l’analisi, per la gran parte, alla norma dell’art. 3 della legge n. 287/90 (e dunque alla fattispecie dell’abuso di posizione dominante), di seguito estendendo l’angolo di osservazione anche alle intese restrittive della concorrenza (p. 197). L’Autrice, pur riferendosi nella specie al dolo incidente, suggerisce un richiamo al sistema generale dell’annullabilità definito dal codice civile (artt. 1425 ss.), ravvisando una comunanza di elementi (abuso e vizio del consenso) tra la problematica in esame e la disciplina codicistica: il “primo elemento (l’abuso) perché, come dice la parola stessa, la controparte approfitta della situazione di particolare forza in cui si trova per realizzare un assetto di interessi a sé particolarmente favorevole”; il “secondo elemento (il vizio del consenso) perché, a differenza dell’ipotesi della rescissione, la situazione che si sfrutta a proprio vantaggio non è preesistente, nella sfera del contraente debole. Al contrario, essa è eteroindotta, ed è indotta proprio da colui che abusa il quale, conscio della propria superiorità economica, la sfrutta, diciamo eccessivamente, a proprio vantaggio. Una situazione tale da incidere non soltanto sull’assetto di interessi, ma anche sulla libera determinazione del consenso”. Contrario all’utilizzazione in via analogica della figura della annullabilità è invece M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, cit., p. 451, secondo il quale, nei casi in cui il contratto derivato non è stato stipulato approfittando della dipendenza economica della parte debole, non ricorre l’analogia con i vizi del consenso. 93 Così, ancora, M. MELI, op. ult. cit., p. 190.

145

L’abuso della parte collusa viene quindi valutata alla stregua di un elemento

viziante il tessuto pattizio ab interno, tanto da rivolgersi, con riguardo al contraente

a valle, in termini di volontà prevaricata.

Come è stato osservato con riguardo alle fattispecie che ci toccano più da presso

“Il monopolio, la posizione dominante, il cartello (…) sono altrettanti fenomeni che

hanno fatto irruzione nella vita sociale, nella consapevolezza del giurista e nelle

fonti scritte del nostro sistema. Ognuno di questi fenomeni turba la regolarità della

formazione del contratto e porta con sé un vizio del consenso”94.

Partendo dal paragrafo 138 del BGB, passando per l’art. 3.10 dei Principi

Unidroit dei contratti commerciali internazionali95, per l’art. 4:109 dei Principles of

European Contract Law elaborati dalla Commissione Lando96, per la legislazione

speciale nazionale (in particolare la legge n. 192/1998 in materia di subfornitura,

così come novellata dalla legge n. 57/2001), si giunge quindi a definire l’esigenza di

accordare maggiore protezione alle vittime degli abusi distorsivi del mercato

identificando nella norma dell’art. 1337 cod. civ., teso a reprimere le conseguenze

della culpa in contrahendo, “il vero punto di partenza di tutta la protezione di cui il

soggetto abbisogna allorché negozia, poiché questa protezione viene somministrata

secondo una valutazione comparativa della condotta dei contraenti e poiché la

prevenzione stessa dell’ingiustizia contrattuale è affidata largamente alla

repressione della malafede”97.

Nella prospettiva di una valorizzazione dell’art. 1337 cod. civ., si suggerisce

dunque l’impiego della norma al di là del diritto dei contratti e dell’illecito civile,

pur tuttavia rimanendo nell’alveo del rapporto obbligatorio, in quella che è stata

94 Cfr. R. SACCO - G. DE NOVA , Il contratto, in Trattato di diritto civile, a cura di R. Sacco, vol. I , Torino, 2004, pp. 454-471, in specie, p. 469. 95 La norma include tra le possibili cause di invalidità dei contratti, oltre ai classici vizi della volontà, anche la gross disparity, consentendo ad una parte di annullare (avoidance) il contratto qualora vi sia uno squilibrio tra le obbligazioni delle parti, che ingiustificatamente attribuisce ad una parte un eccessivo vantaggio, oppure di domandarne la revisione, in modo da adeguarlo a ragionevoli standards di correttezza commerciale. La revisione può anche essere offerta dalla parte avvantaggiata per salvare il contratto, dopo che l’altra ne abbia chiesto l’annullamento. 96 L’art. 4:109 dei Principi Lando attribuisce ad una parte il diritto di chiedere la rettifica del contratto in una serie di ipotesi tra cui l’approfittamento di una parte della situazione di difficoltà o di dipendenza in cui versi l’altra, in un modo eccessivamente scorretto (gross unfair). A riguardo si veda G. ALPA, Il codice civile europeo: “e pluribus unum”, in Contr. e impr./Europa, 1999, p. 695. 97 Cfr., ancora, R. SACCO - G. DE NOVA, op. ult. cit., p. 455.

146

definita una prospettiva “quasi-contrattuale” 98, fondata su un superamento

dell’antica distinzione tra regole di validità e regole di buona fede.

Da un lato, il confine dei tradizionali vizi del consenso appare ad alcuni sempre

più angusto e rigido, inducendo l’interprete ad una “espansione” e ad una

“traslazione” delle figure tipizzate (quali il dolo, la violenza e l’incapacità naturale),

così smentendo nella sostanza l’idea (cui pur formalmente si continua a prestare

ossequio) che l’annullabilità si conformi interamente (a differenza della nullità) sul

paradigma di una invalidità testuale, giammai virtuale99. Dall’altro - e soprattutto

sul versante della nullità - si osserva la crescente difficoltà nel contestare che i

rimedi invalidanti “sono ormai lontanissimi dalle rigorose sistemazioni concettuali

imperniate sulla mancanza (o sul vizio) di un elemento costitutivo del contratto

concepito nella sua struttura organica di fattispecie”100.

Da queste considerazioni muove dunque lo sforzo di individuare il parametro

normativo attraverso il quale riportare la problematica all’interno del sistema della

annullabilità101 e, nella specie, nella norma dell’art. 1440 cod. civ., disciplinante la

figura del dolo incidente, alla luce della quale “Se i raggiri non sono stati tali da

98 E. SCODITTI, Danni da intesa anticoncorrenziale per una delle parti dell’accordo: il punto di vista del giudice italiano, in Foro it., 2002, IV, p. 84 ss., in cui esplicita è l’adesione ai modelli elaborati in proposito da Mengoni e Castronovo. 99 Sulla tipicità dei vizi del consenso (e delle connesse ipotesi di invalidità), e sui riflessi che questa asserita tipicità dovrebbe avere sul terreno dell’interpretazione, si veda G. D’AMICO, Regole di validità e principio di correttezza nella formazione del contratto, op. cit., p. 17 ss. 100 Così U. BRECCIA, Causa, in Il contratto in generale, tomo III, in Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, vol. XIII, Torino, 1999, p. 76; e vedi anche ivi la citazione a GHESTIN, Les obligations. Le contract: formation, p. 869, il quale riassume il tramonto della teoria classica dell’invalidità, osservando che “la teoria della nullità, concepita essenzialmente in considerazione degli elementi costituivi del contratto (consenso, oggetto, causa, e capacità) si dimostra sempre più inadeguata di fronte alla moltiplicazione delle regole di ordine pubblico che limitano ai nostri giorni la libertà contrattuale”. 101 Nel prospettare la soluzione, ci si riferisce infatti alla annullabilità per vizi del consenso come “sistema”, e non all’applicazione analogica della disciplina prevista per una singola ipotesi. L’accostamento dell’abuso alle figure del dolo o della violenza viene infatti giudicata come una forzatura del dato testuale, e ciò soprattutto con riguardo alla violenza, la cui previsione normativa evoca la necessità di un comportamento attivo, volto a paventare nel contraente il rischio delle conseguenze cui si sottopone se non addiviene alla conclusione del contratto (il male ingiusto). Più ancora, la forzatura del dato normativo è riscontrata con riguardo ai requisiti che di quel male sono previsti, ovvero alla gravità ed alla consistenza, che non sembrano adattabili alla nostra ipotesi.

147

determinare il consenso, il contratto è valido, benché senza di essi sarebbe stato

concluso a condizioni diverse; ma il contraente in mala fede risponde dei danni” 102.

La figura del dolo incidente - incentrato sull’attività ingannatoria (i raggiri) di

una delle parti, tesa ad influire sulle condizioni cui il contratto viene concluso -

ruota infatti attorno alla volontà del contraente ingannato il quale, ferma restando la

libera maturazione del consenso negoziale (intaccato non nell’an, ma solo nel

quomodo), è indotto alla stipulazione di un contratto che, in assenza della pressione

psicologica dettata dalla forza economica della controparte, avrebbe ugualmente

perfezionato ma a condizioni diverse da quelle concretamente stabilite103.

Pregio della soluzione consisterebbe quindi nell’eliminare il rischio della

invalidità del contratto, congiuntamente obbligando il contraente raggirante

(l’impresa concertante) a risarcire il danno patito in termini negoziali dalla

controparte per effetto dell’alterazione delle condizioni contrattuali praticate nel

settore di riferimento104. Risarcimento che, nella specie, non sarebbe limitato

all’interesse negativo, ma riferito alle migliori condizioni negoziali che la parte lesa

avrebbe ottenuto ove il contratto, in assenza dell’attività dolosa della controparte,

fosse stato concluso senza l’illecita interferenza (pari alla differenza tra le condizioni

contrattuali che si sarebbero avute ove non si fosse realizzata la fattispecie

ingannatoria e quelle in concreto avute per effetto di tale attività).

Riportando, mutatis mutandis, il discorso entro gli argini della vicenda che ci

occupa più da vicino, si nota quindi che il ricorso al rimedio di cui all’art. 1440 cod.

civ., oltre a mantenere in vita i singoli rapporti a valle, consente di colpire il

comportamento scorretto delle imprese aderenti all’intesa proprio per mezzo dello

102 M. MELI, op. ult. cit., sul punto richiama anche la norma dell’art. 1432 cod. civ. in tema di “Mantenimento del contratto rettificato”, che però non ritiene utilizzabile all’interno di un conflitto caratterizzato (riportando il discorso alla fattispecie dell’abuso di posizione dominante) dal binomio “soggetto che abusa/vittima dell’abuso”, in quanto riferita ad un vizio del consenso autonomamente prodottosi in capo ad uno dei contraenti. In tal caso, osserva l’Autrice, il legislatore consente alla controparte di evitare l’annullamento, modificando il contenuto del contratto secondo quei parametri che lo stesso soggetto caduto in errore si era rappresentato. 103 Sul concetto di dolo incidente si veda, inter pluribus, V. ROPPO, Il contratto, op. cit., p. 184. 104 Nel senso che l’art. 1440 cod. civ., sia norma idonea a fondare la coesistenza tra atto illecito e attività negoziale, si veda A. TRABUCCHI, Dolo (diritto civile), in Nov. Dig. It., p. 151, secondo cui il risarcimento deve assumere la forma di una diminuzione del contenuto della controprestazione, il danno essendo costituito dalla minor convenienza dell’affare.

148

strumento risarcitorio, atto a recuperare il danno in una misura coincidente con la

differenza tra il prezzo concorrenziale e quello monopolistico.

Esito della soluzione consisterebbe pertanto nel coniugare, riconducendole ad

unità, le divaricate questioni dell’invalidità dei contratti a valle e quella del

risarcimento del danno da illecito antitrust, in ultimo disgiunte dalla soluzione

offerta al paragrafo che segue.

Perché possa accogliersi una tesi quale quella esposta è tuttavia necessario -

giova precisarlo - muovere da un presupposto dato per condiviso e fermo alla

stregua di un assioma, ovvero la pretesa estensibilità del rimedio previsto dall’art.

1440 cod. civ. qua le applicazione di un principio generale in materia di risarcimento

del danno ed espressione di un più generale principio di conservazione del contratto

in tutti quei casi in cui, come quello di specie, l’eliminazione di una fattispecie a

fronte di un abuso non corrisponde al reale interesse della parte danneggiata105.

105 Così, F. LUCARELLI, Lesione di interessi e annullamento del contratto, Milano, 1964, p. 122 ss. L’argomentazione è stata ripresa in una lettura dell’art. 1440 cod. civ. tesa ad estendere il rimedio risarcitorio ivi previsto a tutti i c.d. “vizi incompleti” del contratto (violenza “incidente”, approfittamento dello stato di bisogno altrui “incidente” e via di seguito). Nella prospettiva indicata, l’art. 1440 cod. civ. sarebbe norma eccezionale rispetto alla previsione del dolo determinante, nella parte in cui preclude l’accesso all’azione di annullamento pur in presenza di un fattore turbativo della volontà, ma non nella parte in cui contiene un accertamento normativo dell’esistenza di un illecito. Sotto tale profilo, secondo M. MANTOVANI, “Vizi incompleti” del contratto e rimedio risarcitorio, Torino, 1995, la norma dell’art. 1440 sarebbe, in presenza di una regola generale sul fatto illecito, meramente “pleonastica”; per altro verso, invece, meramente applicativa dell’art. 1337 cod. civ. La tesi che intende desumere dall’art. 1440 la generale esercitabilità dell’azione di danno a tutti i casi di “vizi incidenti” ha trovato forti resistenze anche in G. D’AMICO, Regole di validità e principio di correttezza nella formazione del contratto, op. cit., p. 17 ss. e ID., Regole di validità e regole di comportamento nella formazione del contratto, op. cit., p. 40 ss., secondo il quale affermare che nell’ambito di un rapporto contrattuale validamente concluso possa sopravvivere una responsabilità precontrattuale di una parte per il comportamento scorretto da essa tenuto nella fase della formazione del contratto (comportamento che comunque non presenta in concreto caratteri tali da integrare gli estremi di un vizio della volontà o di altra causa di invalidità, cui esso sia astrattamente riconducibile), significa infatti “aggirare” sostanzialmente il rigoroso meccanismo delle invalidità, chiamando il principio di buona fede a svolgere (attraverso lo strumento risarcitorio) “un improprio ruolo di integrazione e di rimedio delle pretese lacune del sistema delle invalidità, e di garanzia (attraverso il meccanismo compensatorio o correttivo del risarcimento) della giustizia o equità del contratto. Sul punto, M. MELI, op. cit., p. 193, nota 83, peraltro precisa che l’impostazione da lei suggerita resterebbe incolume da obiezioni di questa natura, “giacché non si tratta di desumere da una regola di responsabilità (il comportamento scorretto) una conseguenza sul piano dell’invalidità negoziale, ma di ricondurre l’ipotesi di abuso a quelle dei vizi del consenso eteroindotti, evidenziandone l’identità di ratio”. Conseguenza di quest’ultima considerazione è, nel pensiero dell’Autrice, che “ogni qualvolta ricorra il medesimo (o analogo) tipo di sopruso, dovrà applicarsi il medesimo rimedio” (p. 196).

149

Il dato, tuttavia, appare tutt’altro che condiviso, distinguendosi una dottrina che

guarda al rimedio risarcitorio di cui all’art. 1440 cod. civ. come ad uno strumento

eccezionale rispetto alla figura generale del dolo determinante (da cui, lo si ricordi,

non discende il solo ristoro del danno, ma anche l’annullabilità del contratto), come

tale non suscettibile di applicazione in via analogica se non al ricorrere dei rigidi

requisiti normativamente prescritti106.

Anche la tesi da ultimo prospettata, quindi, non risulta esente da obiezioni,

essendo la stessa classificazione della responsabilità da dolo incidente fortemente

controversa, attesa la riconosciuta attitudine della fattispecie a porsi in una posizione

intermedia tra la responsabilità contrattuale e quella precontrattuale, nell’ambito

della quale la dottrina sembra più incline ad inserirla107.

Difficoltosa risulta, altresì, la possibilità di configurare, con riguardo al rapporto

tra impresa collusa e contraente a valle, gli estremi del raggiro necessari ai fini della

sussumibilità della fattispecie nell’alveo della previsione astratta di cui all’art. 1440

cod. civ.

Ciò di cui il contratto a valle pare carente perché il rimedio esperibile possa

essere qualificato nei termini esposti è infatti non solo l’errore del contraente

danneggiato quale conseguenza dell’attività ingannatoria del deceptor, ma anche la

possibilità di inquadrare l’intesa antitrust quale strumento idoneo a condizionare in

via diretta (secondo un meccanismo di propagazione causale) la volontà negoziale

del consumatore, risultando piuttosto preordinata a scalfire l’equilibrio

concorrenziale del mercato.

Il presupposto che più di ogni altro sembra non convincere la dottrina misuratasi

sul punto è però prima di tutto la ravvisabilità di un vizio nel processo di formazione

della volontà negoziale del consumatore il cui consenso, anche di fronte ad un

ignoto cartello di imprese che applicano in modo concordato le medesime

condizioni, rimane del tutto libero e consapevole. Ciò che va infatti rilevato “è che

ad essere alterato non è tanto il processo di formazione della volontà dell’aderente,

106 Di questo avviso, ad esempio, L. MENGONI, “Metus causam dans” e “metus incidens”, in Riv. dir. comm., 1952, p. 20. 107 In questo ordine di idee, anche C.M. BIANCA, Il contratto, in Diritto civile, Milano, 2000, p. 173; V. ROPPO, Il contratto, op. cit., p. 184.

150

quanto quello delle condizioni generali dell’imprenditore”108, il quale, intervenendo

in un momento antecedente ed estraneo alla fase negoziale vera e propria, non

potrebbe incidere, condizionandola, sulla libera determinazione del consumatore.

3.4. Una tesi minoritaria: la rescindibilità ed il diritto alla correzione del contratto

Una tesi minoritaria, della quale è comunque opportuno dare conto, è quella che

individua nell’azione di rescissione del contratto a valle lo strumento di natura

privatistica idoneo a tutelare quanti abbiano stretto una relazione negoziale con una

delle imprese concordatarie.

Contestando le affermazioni di coloro i quali predicano tanto l’invalidità dei

contratti a valle quanto la possibilità di promuovere l’azione di risarcimento del

danno in via extracontrattuale, la ricostruzione elabora la soluzione al problema

partendo dal concetto di “giustizia contrattuale”109.

Muovendo dal presupposto che il fondamento dell’azione di rescissione per

lesione di cui all’art. 1448 cod. civ. 110 sia da ravvisare in un principio di giustizia

108 Così A. MIRONE, Standardizzazione dei contratti bancari e tutela della concorrenza, op. cit., p. 73, nota 266. 109 Sostenitore della tesi è, con riguardo all’oggetto di indagine, G. GUIZZI, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, op. cit., p. 110 ss., il quale ravvisa la tendenza del legislatore del 1942 a riconoscere in linea di principio come economicamente razionali (e quindi “giusti”) i rapporti negoziali che costituiscono espressione di una scelta libera e consapevole, predisponendo dunque una serie di strumenti di intervento tesi a ripristinare l’equilibrio negoziale tra le parti ove intervengano circostanze di fatto che dall’esterno incidono sulle modalità di formazione del consenso individuale. Espressione di ciò sarebbero in particolare, ravvisabili nel disposto degli artt. 1371 e 1374 cod. civ. - che rinviano al principio di equità ora come criterio di interpretazione, ora come fonte di integrazione dell’atto negoziale - e, soprattutto, nella categoria dell’annullabilità. Non si taccia, a riguardo, che il problema della giustizia contrattuale è ultimamente avvertito in maniera evidente soprattutto dal legislatore comunitario, il quale si è andato mostrando sempre più sensibile alle istanze di giustizia sostanziale mosse da quanti versano, in ambito negoziale, in una posizione di fisiologica e strutturale asimmetria. Considerazioni interessanti a riguardo si ritrovano, con riguardo al diritto europeo dei contratti, in M. J. BONELL, I principi Unidroit – Un approccio moderno al diritto dei contratti, in Riv. dir. civ., 1997, I, p. 231; R. ALESSI, Diritto europeo dei contratti e regole dello scambio, in Eur. e dir. priv., 2000, p. 961 ss.; D. CORAPI, L’equilibrio delle posizioni contrattuali nei Principi Unidroit, ivi, 2002, p. 23 ss. La tesi è astrattamente paventata anche da R. SACCO - G. DE NOVA, Il contratto, Torino, 2004, terza edizione, p. 610, i quali depongono poi a favore del rimedio risarcitorio generale di cui all’art. 2043 cod. civ. Contrario alla soluzione della reductio ad aequitatem proposta da Guizzi è A. BERTOLOTTI, Ancora su norme antitrust e contratti a valle, cit., p. 2679 ss. 110 Rammentiamo il dettato della disposizione, secondo cui “Se vi è sproporzione tra la prestazione di una parte e quella dell’altra, e la sproporzione è dipesa dallo stato di bisogno di una parte, del quale

151

oggettiva del contratto, si ritiene che lo strumento attraverso cui proteggere coloro i

quali hanno contrattato con imprese che hanno alterato le condizioni competitive del

mercato consista nel riconoscimento al soggetto leso della possibilità di agire

giudizialmente per eliminare il vincolo attraverso la rescissione del contratto, o per

ottenerne la correzione 111.

Questi rimedi, si afferma “lungi dal rappresentare un’anomalia del sistema,

debbono infatti essere considerati come gli ordinari strumenti di protezione

accordati dall’ordinamento a chi, pur non versando in una delle classiche ipotesi di

vizio della volontà, subisca, anche per effetto di una innaturale compressione della

propria libertà di scelta, condizioni contrattuali che, non giustificate dalla struttura

del mercato, conducano ad un assetto di interessi non equo, non fondato cioè su una

commisurazione reciproca dei vantaggi e sacrifici” 112.

A questo scopo si propone dunque di superare la specificità dei presupposti cui

l’azione è ancorata ai sensi dell’art. 1448 cod. civ. proponendone una estensione

generale, informata alla trasformazione che si sostiene il rimedio rescissorio abbia

subito nella prassi applicativa.

Ricostruendo una tendenza evolutiva giurisprudenziale maturata nella lettura

della norma, si giunge così ad affermare che lo “stato di bisogno”, originariamente

concepito “come impulso irresistibile alla contrattazione provocato da uno stato di

necessità economica”, possa essere identificato “con qualsiasi condizione di

difficoltà, anche solo momentanea nel reperire beni o servizi”.

Così anche per quanto riguarda la nozione di “approfittamento”, inizialmente

ravvisata solo ove la condotta positiva del contraente avvantaggiato fosse

l’altra ha approfittato per trarne vantaggio, la parte danneggiata può domandare la rescissione del contratto. L’azione non è ammissibile se la lesione non eccede la metà del valore che la prestazione eseguita o promessa dalla parte danneggiata aveva al tempo del contratto. La lesione deve perdurare fino al tempo in cui la domanda è proposta. Non possono essere rescissi per causa di lesione i contratti aleatori. Sono salve le riposizioni relative alla rescissione della divisione”. 111 La possibilità per il contraente pregiudicato di ricorrere alla sola correzione del contenuto contrattuale viene, in particolare, giustificata superando il limite di cui all’art. 1450 cod. civ., il quale, si ricordi, legittima la modificazione del contratto sufficiente a ricondurlo ad equità solo ove tale offerta venga formulata dal soggetto contro il quale è domandata la rescissione (e dunque il contraente avvantaggiato convenuto in giudizio), al fine di evitarla. La possibilità per il contraente leso di esperire l’azione di correzione del contratto viene quindi giustificata evidenziando il fine di tutela in cui consisterebbe la ratio della stessa reductio ad aequitatem, tesa a consentire la conservazione del contratto e ad una contestuale riallocazione delle risorse.

152

caratterizzata dal proposito di danneggiare la parte più debole e nel tempo accertata

anche in presenza di un comportamento meramente passivo, consistente nella

semplice consapevolezza del pregiudizio arrecato alla controparte con la

stipulazione del contratto.

Ciò detto, si propone - a fronte di questo processo di progressiva erosione della

specificità dei requisiti caratterizzanti il rimedio rescissorio di cui all’art. 1448 cod.

civ., di cui si propugna l’ampliamento della sfera di operatività - una lettura del

principio codificato dalla norma come tendenzialmente generale e dunque

applicabile analogicamente in tutti quei casi in cui circostanze obiettive - quale può

essere la definizione imprenditoriale di un modello comportamentale uniforme in

grado di alterare l’assetto competitivo del mercato - intervengono a condizionare

dall’esterno la libertà di scelta di uno dei contraenti e sono utilizzate

consapevolmente dalla controparte per trarne un vantaggio (in questo caso,

l’extra-profitto)113.

Particolare attenzione viene poi rivolta al profilo della correzione giudiziale in

senso equitativo del contratto ed alla possibilità per la stessa vittima della lesione di

esperire il rimedio in via d’azione 114.

La possibilità per il contraente pregiudicato di ricorrere alla sola revisione del

contenuto contrattuale (e non al pregiudizievole scioglimento del vincolo) viene,

nella specie, paventata adducendo una serie di argomentazioni tese a superare il

limite insito nell’impianto normativo del codice e soprattutto nel dettato dell’art.

1450 cod. civ.

La norma infatti, lo si ricordi, legittima la modificazione del contratto sufficiente

a ricondurlo ad equità solo ove tale offerta venga avanzata dal soggetto contro il

112 Così, G. GUIZZI, op. cit., pp. 116-117. 113 Come osserva V. ROPPO, Contratto (voce), in Digesto, Disc. priv., sez. civ., vol. IV, Torino, 1989, p. 87 ss. e, nella specie, p. 136, “L’ordinamento non tutela l’intrinseca giustizia dello scambio contrattuale, ma solo la formale correttezza delle modalità esterne con cui lo scambio è deciso e realizzato”, in quanto l’indiscriminata tutela degli interessi particolari dei singoli operatori sconvolgerebbe la dinamica razionale dei rapporti economici. 114 Secondo F. PROSPERI, op. cit., p. 676, prefigurare un controllo giudiziale dell’equilibrio economico del contratto attraverso il parametro della buona fede non significa introdurre forme di “dirigismo statalistico”. Il contratto infatti, osserva l’Autore, rimane rivolto a realizzare ciò che le parti hanno autonomamente voluto e agli interessi direttamente perseguiti non si sovrappone alcun

153

quale è domandata la rescissione (e dunque dal contraente avvantaggiato convenuto

in giudizio), al fine di evitarla.

La possibilità per il contraente leso di esperire l’azione di correzione di un

contratto oggettivamente squilibrato viene quindi giustificata sostenendo che la ratio

complessiva della stessa reductio ad aequitatem - in quanto tesa a consentire la

conservazione del contratto e ad una contestuale riallocazione delle risorse - sia da

individuare proprio nel fine di tutelare l’interesse della parte che ha subito il

pregiudizio115.

Da queste considerazioni generali si sostiene quindi che l’equilibrio negoziale

raggiunto all’interno del singolo contratto a valle, alterato dalla presenza a monte di

una condotta vietata ai sensi dell’art. 2 della legge n. 287/90, possa essere

ripristinato attribuendo al soggetto che di quell’alterazione faccia le spese la

legittimazione ad agire al fine di mettere in discussione la vincolatività del pactum o,

comunque, di ottenerne la correzione sino a ricondurlo ad equità.

Anche tale tesi, nonostante il merito riconducibile al tentativo di soddisfare

istanze di tipo equitativo, non pare indenne da obiezioni.

Pur non disconoscendo la tendenza maturata a seguito dell’ampio numero di

interventi normativi di derivazione comunitaria, una parte sostanziale della dottrina

civilistica sostiene infatti che il nostro ordinamento non contempli alcun principio di

giustizia contrattuale, al contrario postulando una regola generale di irrilevanza

dell’equità dello scambio.

Alla luce di una simile premessa, si configura dunque l’istituto della rescissione

quale strumento eccezionale della tutela del contraente debole rispetto al principio

generale della irrilevanza dell’equità dello scambio, alla stregua del quale la

possibilità che il contratto non conduca agli esiti convenienti prefigurati dal

altro valore, al contrario sanzionando soltanto l’ingiusto vantaggio che la parte dotata di maggiore forza socio-economica abbia realizzato abusando della condizione di debolezza dell’altra parte. 115 L’Autore, in particolare, ritiene l’azione di correzione coerente tanto con la ratio dell’art. 1450 cod. civ. e dell’istituto della rescissione, quanto con il principio sotteso alla norma dell’art. 2041 cod. civ., in cui sarebbe ravvisabile una generale azione di correzione “tesa ad evitare che un soggetto consegua, a carico di chi tale iniziativa ha assunto, un vantaggio che, pure in presenza di un titolo formalmente valido, è però… privo di giustificazione economica” (cfr. G. GUIZZI, op. cit., p. 122).

154

contraente non costituisce altro che l’alea propria di qualunque operazione

negoziale.

Con la fattispecie rescissoria, infatti, “il diritto non vuole sostituire un prezzo

giusto a un prezzo effettivo, ma proteggere la libertà della parte che, caduta in

istato di pericolo o di bisogno, non ha consapevolmente deciso la propria scelta”116.

Un’ulteriore argomentazione mossa a criticare questa ricostruzione del problema

attiene alla possibilità di rinvenire un nesso eziologico tra l’azione preordinata alla

correzione del contratto e la norma di cui all’art. 2041 cod. civ. Sul punto si ritiene

infatti difficilmente configurabile un’azione di arricchimento senza causa a favore

del contraente estraneo all’intesa con l’esistenza di un titolo negoziale valido117.

Aderendo alle descritte critiche, si dedica ora particolare attenzione a quello che

tra i rimedi civilistici è attualmente considerato, da dottrina e recente giurisprudenza,

maggiormente aderente alla problematica e funzionale alla tutela del contraente

pregiudicato: il risarcimento del danno in via extracontrattuale.

3.5. L’illecito anticoncorrenziale ed il risarcimento del danno in via

extra-contrattuale: una questione ancora aperta

3.5.1. Il rimedio aquiliano e la selezione degli interessi rilevanti nel diritto antitrust

Tra le soluzioni prospettate a fronte di una infrazione concorrenziale quale quella

disciplinata dall’art. 2 della legge n. 287/90 (“l’intesa”), il risarcimento del danno è

destinato a divenire - anche alla luce di una recente fitta giurisprudenza (soprattutto

di merito) - il più importante dei rimedi previsti dall’art. 33, comma 2, il quale,

nella specie, configura un’azione risarcitoria svincolata da altre figure di illecito:

quella per il danno da torto antitrust118.

116 Così N. IRTI, Persona e mercato, op. cit., p. 289, ora ne L’ordine giuridico del mercato, op. cit., p. 70. 117 Di questo avviso M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, cit., p. 457, nota 26. 118 La soluzione è stata di recente avallata da una fitta e variegata giurisprudenza di merito, la quale, a seguito della più volte richiamata pronuncia della Cassazione, n. 17475/2002, ha optato per la tutela aquiliana del danno subito dal consumatore a causa dell’infrazione anticoncorrenziale in quanto “conseguenza di un atto illecito”, coincidente con “l’illegittimo aumento dei prezzi che è sicuramente

155

Il legame intercorrente tra nullità dell’intesa a monte, contratti a valle e rimedio

risarcitorio viene messo in risalto soprattutto dalla giurisprudenza della Corte di

Cassazione, la quale in una recente pronuncia ha osservato che “la legge ha previsto

una tutela civilistica, autonoma e concorrente rispetto alle funzioni esercitate

dall’Autorità, ad opera della Corte d’Appello competente per territorio in relazione

ad azioni di nullità, risarcimento danni e ricorsi diretti ad ottenere provvedimenti

d’urgenza per violazione delle disposizioni antitrust; la qual cosa lascia dedurre

che se l’accordo antitrust può essere dichiarato nullo, i contratti scaturiti in

dipendenza di tale accordo o intesa mantengono la loro validità e possono dar

derivante da atto illecito”. Cfr., tra le diverse pronunce, Giudice di Pace di Sala Consilina, n. 252/2001; Giudice di Pace di Lecce, 30 gennaio 2003, in Giur. merito, n. 6/2003, p. 1109 ss., con nota di S. CASCIARO, Intesa di cartello tra imprese assicuratrici e lesione dei diritti dei consumatori, ed in Gius, 2003, p. 869; Giudice di Pace di Casoria, 12 febbraio 2003, in Foro it., 2003, I, p. 2192. Altre volte invece, con riguardo alle controversie instaurate prima della modifica dell’art. 113 c.p.c., il ricorso ai criteri equitativi di valutazione ha giustificato la condanna della società convenuta alla restituzione di una somma pari al 10% del premio assicurativo per “indebito aumento” (cfr. Giudice di Pace di Roma, 21 marzo 2003, in Gius, 2003, p. 2179), oppure a titolo di ripetizione di indebito oggettivo ex art. 2033 cod. civ. (cfr. Giudice di Pace di Torre Annunziata, 13 gennaio 2003, inedita). Non sono poi mancate sentenze di condanna al pagamento di somme liquidate sic et simpliciter in modo equitativo “per violazione dell’obbligo di buona fede nella formulazione ed esecuzione del contratto nonché di violazione dei doveri di correttezza, trasparenza ed equità imposti ex lege n. 281 del 1998” (così Giudice di Pace di Petilia Policastro, 27 gennaio 2003, inedita). Come vedremo, l’argomento si intreccia all’ulteriore profilo, anch’esso problematico e molto discusso, della selezione dei soggetti legittimati da un punto di vista processuale a proporre le azioni di cui all’art. 33 della legge n. 287/90 [risolto da ultimo dalle SS.UU. con la sentenza n. 2207/05]. A riguardo, si ricordi che la legge n. 287/90 non contiene alcuna disposizione specifica in materia di risarcimento del danno; l’art. 33, infatti, rubricato “Competenza giurisdizionale”, dispone al comma 2 che “Le azioni di nullità e di risarcimento del danno, nonché i ricorsi intesi ad ottenere provvedimenti di urgenza in relazione alla violazione delle disposizioni di cui ai titoli dal I al IV sono promossi davanti alla corte d’appello competente per territorio”. La norma - rileva A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust, op. cit., pp. 159-160 - si presenta pertanto estremamente diversa dalla disciplina in materia di concorrenza sleale: “mentre infatti l’art. 2600 cod. civ. appare essere una norma di diritto sostanziale in qualche misura completa (…), l’art. 33 della l. 287/90, come del resto si evince anche dal titolo, parrebbe essere una norma meramente processuale”, che ha la finalità di creare una particolare competenza esclusiva per materia in deroga alle regole generali sulla competenza contenute nel c.p.c.; “…sotto il profilo sostanziale, la norma sembra semplicemente fare rinvio alle regole generali in materia di illecito. Cionondimeno, essa contiene taluni spunti di grande interesse (…), giacché rende certo e inequivocabile che la violazione delle norme contenute nei primi quattro titoli della legge, e cioè fino all’art. 26 compreso, può originare un diritto al risarcimento del danno a favore delle vittime della violazione stessa”. Sul punto si vedano anche le considerazioni di A. LALLI, La selezione degli interessi rilevanti nel diritto della concorrenza, in Dir. amm., n. 2/2004, p. 403 ss. Contrario alla risarcibilità in via extracontrattuale del danno da illecito antitrust è invece G. GUIZZI, op. cit., p. 104, secondo il quale “la determinazione di un certo contenuto contrattuale… non può tendenzialmente mai assurgere a fatto produttivo di danno risarcibile”.

156

luogo solo ad azione di risarcimento del danno nei confronti dei distributori da

parte degli utenti”119.

In merito giova in particolare evidenziare che l’art. 33 rappresenta l’unica

disposizione nell’ambito della normativa antitrust nazionale relativa alla tutela

civile120, la quale, attesa la specificazione dei presupposti necessari al fine della

esperibilità dell’azione, solleva problemi di non poco momento di cui si darà

brevemente conto.

Come si è affermato nel discorrere circa l’estensione degli strumenti di tutela

accordati dall’art. 33, “ci si deve chiedere quali disposizioni della legge 287/90

integrino gli estremi della norma di tutela e con riferimento a quali categorie di

soggetti”121.

Il problema del rapporto tra nullità dell’intesa e risarcibilità del danno a valle

deve infatti essere affrontato muovendo dalla lettera dell’art. 33, il quale non precisa

in alcun modo a quali soggetti sia astrattamente attribuita la possibilità di adire la

Corte d’Appello territorialmente competente.

Un adeguato impiego della misura risarcitoria esige infatti che si faccia chiarezza

intorno ad alcuni profili, attinenti in particolare alle condizioni di rilevanza del

danno ed ai criteri di imputazione dell’atto dannoso e di formulazione del giudizio di

responsabilità. Nell’art. 33, infatti, “la legge si limita ad evocarlo, astenendosi dal

fornire indicazioni ulteriori: e ciò come se il trapianto del rimedio aquiliano

nell’ambito della normativa de qua non desse luogo a problemi di sorta, e potesse

avvenire mediante un semplice rinvio alla disciplina generale dei fatti illeciti (art.

2043 e ss. c.c.)”122.

119 Così Corte di Cassazione, sez. III, sentenza 6 giugno 2003, n. 9384. 120 Con riguardo alla norma dell’art. 33, L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 1449 ss., sottolinea la eccessiva sobrietà rispetto all’imponente apparato sanzionatorio degli artt. 2599-2601 cod. civ., considerandola una “occasione perduta”, specie per la mancata previsione dell’inibitoria, da alcuni autori e da parte della giurisprudenza ammessa per via ermeneutica (passando, in base alla identità di conformazione del pregiudizio subito, per la norma dell’art. 2599 cod. civ. ove dispone che “la sentenza che accerta atti di concorrenza sleale ne inibisce la continuazione”). La rinuncia all’inibitoria, infatti, aggiunge l’Autore (p. 1462), appare grave soprattutto tenuto conto della strutturale inadeguatezza della misura risarcitoria a soddisfare esigenze di natura preventiva, acuita ancora di più dalla mancanza nel nostro ordinamento di un meccanismo come la treble damages nordamericana. 121 Così L. NIVARRA, op. ult. cit., p. 1453. 122 L. NIVARRA, op. ult. cit., p. 1452.

157

Il primo sostanziale problema che si pone con riguardo alla possibilità di

invocare il rimedio risarcitorio, risiede innanzitutto nella preliminare selezione dei

soggetti a ciò legittimati; questione, questa, su cui dottrina e giurisprudenza paiono

attestarsi ancora su posizioni divergenti.

Se da un lato è pacifica la legittimazione dei concorrenti dell’autore

dell’illecito123, nonché di quei soggetti che si collocano negli anelli intermedi della

catena distributiva (fornitori, acquirenti) che abbiano subito direttamente gli effetti

del comportamento abusivo (senza con ciò concorrere a traslare il danno a terzi),

fortemente contestata è, invece (almeno sino alla sopraggiunta sentenza delle

SS.UU. n. 2207/2005), l’esperibilità dell’azione risarcitoria da parte dei consumatori

finali, ovvero di coloro i quali si posizionano all’altezza dell’ultimo passaggio di

quella medesima catena 124.

123 A riguardo, peraltro, si dibatte circa la possibilità di estendere la legittimazione a provocare la reazione dell’ordinamento unanimemente riconosciuta alle imprese partecipanti all’accordo anche alle imprese c.d. “terze”, che, come afferma la Cassazione nella già richiamata sentenza n. 17475/2002, “siano esse stesse partecipi di quel medesimo livello operativo” (quello dell’impresa autrice dell’infrazione). Sul punto si vedano le differenti posizioni di A. PALMIERI, Intese restrittive della concorrenza e azione risarcitoria del consumatore finale: argomentazioni “extravagantes” per un illecito inconsistente”, cit., p. 1124, che pare incline alla soluzione più restrittiva: “il risarcimento da intesa restrittiva può essere richiesto soltanto da quanti abbiano deciso di coordinare i rispettivi piani di penetrazione commerciale, salvo a pentirsene in un secondo tempo, magari perché alla prova dei fatti raggiungono risultati inferiori alle attese. Apprendiamo, perciò, che la normalità nell’ordinamento interno sarebbe rappresentata da ciò che appariva ai limiti dell’eterodossia agli esegeti della sentenza Courage”; e S. BASTIANON, Antitrust e tutela civilistica: anno zero, cit., p. 394, che prospetta problematicamente l’alternativa. In realtà, è da ritenere che il discrimine giaccia nell’interpretazione della locuzione “medesimo livello operativo”. 124 “Sotto il profilo tecnico, il danno subito da quest’ultimo (il consumatore) non solo è oggettivamente differente da quello subito dall’intermediario, ma gode di una propria autonomia anche sul piano causale”, così, ancora, L. NIVARRA, op. ult. cit., p. 1455. La questione è stata largamente affrontata nel diritto antitrust statunitense, ove ha trovato esiti difficilmente trasferibili nel nostro ordinamento, attesa la diversa natura che il rimedio risarcitorio riveste nei due sistemi: “infatti, la tradizione giuridica americana ammette con larghezza la funzione deterrente del rimedio del risarcimento del danno, mentre nell’ordinamento italiano il risarcimento ha esclusivamente la funzione di compensare il danno patrimoniale subito dal danneggiato”, così M. LIBERTINI, Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme antitrust, cit., p. 673. Sul tema si veda inoltre l’ampia analis i svolta da A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 262 ss., nonché, per il diritto statunitense, A. GENOVESE, Il risarcimento del danno per violazione di norme antitrust: l’esperienza americana, in Riv. soc., 1992, p. 680 ss. e G. BROGGINI, Compatibilità di sentenze statunitensi di condanna al risarcimento di “punitive damages” con il diritto europeo della responsabilità civile, in Eur. e dir. priv., 1999, p. 479 ss.

158

Su questi ultimi, in particolare, viene ad essere normalmente traslato - alla

stregua del meccanismo definito dagli statunitensi di passing on - il danno

concorrenziale, senza che essi siano a loro volta in grado di ritrasferire il danno 125.

In realtà si tratta di una questione che trascende la questione di natura meramente

processuale, implicando dilemmi di natura sostanziale legati alle stesse finalità della

normativa antitrust, la cui interpretazione incide in maniera determinante sulla

possibilità di attribuire anche ai consumatori finali la legittimazione a ricorrere ai

rimedi disposti dall’art. 33126.

L’attribuzione della pretesa risarcitoria implica infatti una preliminare verifica

intorno al contenuto della norma violata ed alla natura degli interessi tutelati dalla

disciplina antimonopolistica.

Sul punto, peraltro, giova ricordare - al fine di poter più lucidamente delineare i

tratti caratterizzanti e le problematiche sottese alla proponibilità dell’azione

risarcitoria - che gli esiti ermeneutici raggiunti sinora sono tutt’altro che condivisi.

125 Nell’analizzare il fenomeno della traslazione del danno, A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 324, ritiene che “il punto di partenza deve necessariamente essere quello del riconoscimento della legittimazione dei soggetti che hanno subito il danno, anche solo in conseguenza degli effetti redistributivi della pratica, e l’approccio pragmatico delle Corti deve eventualmente intervenire al solo fine di attenuare le conseguenze inique di azioni strumentali”. In merito alla teoria della traslazione del danno, S. BASTIANON, nel commentare la sentenza 6 luglio 2000, n. 1061 della Corte di Appello di Torino, in Danno e resp., n. 1/2001, p. 50, ricorda che nell’antitrust americano si è soliti distinguere all’interno della teoria della traslazione del danno tra: a) la difensive passing-on theory, in base alla quale il convenuto cerca di resistere alla domanda risarcitoria dell’attore sostenendo che quest’ultimo non può pretendere di essere risarcito per quella parte di danno che lo stesso è riuscito a trasferire su altri soggetti; b) la offensive passing-on theory, in applicazione della quale l’attore, ancorché vittima indiretta dell’illecito anticoncorrenziale, invoca la propria legittimazione ad agire a motivo del fatto che il middleman è riuscito a traslare su di lui, in tutto o in parte, gli effetti pregiudizievoli del comportamento illecito. Con le note pronunce Illinois Brick C./State of Illinois e Hanover Shoe Inc./United Shoe Machinery Corp, la Corte Suprema ha peraltro respinto entrambe le teorie, escludendo da una parte la legittimazione ad agire delle vittime indirette e, dall’altra, l’obbligo per l’attore di dedurre dalla propria domanda risarcitoria quella parte di danno eventualmente traslato su altri soggetti. 126 Come ricorda M. LIBERTINI, Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme antitrust, cit., p. 672, poiché in materia di antitrust la qualificazione di illiceità dei comportamenti è operata dalla legge, ancorché con una tecnica dispositiva “a maglie larghe”, il problema della qualificazione del danno come ingiusto e il problema della individuazione di un nesso di causalità giuridicamente rilevante possono ambedue ricondursi al criterio dello “scopo della norma violata”. E’ danno ingiusto, direttamente imputabile all’autore dell’illecito, qualsiasi lesione di un interesse la cui tutela rientri fra gli scopi della legge antitrust, ovvero la lesione di quegli interessi privati la cui tutela rientra anch’essa (insieme agli interessi generali allo sviluppo economico, alla limitazione del potere di mercato, ecc.) fra gli scopi dichiarati e tradizionali della disciplina antimonopolistica.

159

Per chi aderisce alla ricostruzione tradizionale, ad esempio, l’intervento antitrust

troverebbe il suo obiettivo esclusivo e primario nella tutela dell’assetto

concorrenziale del mercato in quanto tale127, indipendentemente dalle conseguenze

che l’infrazione antitrust va poi ad esplicare sulla realtà negoziale sottostante, con

ciò negando ai consumatori la legittimazione a ricorrere agli strumenti di tutela di

cui all’art. 33.

L’assunto, tuttavia, appare tutt’altro che condiviso, registrandosi soprattutto

ultimamente una certa oscillazione di vedute tra quanti, per l’appunto, si appellano

ad una visione unidirezionale della normativa antitrust e quanti invece professano

l’opportunità di una diversa lettura - conforme alla tendenza manifestata dalle

istituzioni comunitarie - della disciplina antimonopolistica che, lontana da schemi di

interpretazione univoci ed in chiave evolutiva, ponga in evidenza la complessità

degli interessi toccati dall’illecito128.

Interpretando (con le Sezioni Unite) in quest’ultimo senso la logica ultima della

legislazione antimonopolistica, si ritiene infatti non solo che, in linea di principio,

anche i contratti tra impresa a monte e cliente a valle possano rientrare nel mirino

antitrust, ma che anche il cliente dell’impresa sia titolare di situazioni giuridiche

127 Critico a tale riguardo, con specifico riferimento alla pronuncia del Tribunale di Alba, F. PARRELLA, op. cit., p. 530, il quale evidenzia che ritenere che la disciplina antitrust assuma quale fine esclusivo la tutela della libera concorrenza in sé equivale ad affermare che essa si pone sullo stesso piano della disciplina degli atti di concorrenza sleale: il rispetto delle regole antitrust mirerebbe a garantire, al pari del rispetto delle regole di correttezza professionale, che ciascuna impresa eserciti la propria attività economica in modo da non arrecare pregiudizio alla libertà di iniziativa economica delle altre. L’interrogativo relativo alla possibilità di apprezzare la violazione della normativa antitrust alla luce degli interessi dei consumatori è affrontato diffusamente da P. CASSINIS e P. FATTORI, Disciplina antitrust, funzionamento del mercato e interessi dei consumatori, cit., p. 416 ss. 128 A riguardo, G. AMATO, Il potere e l’antitrust, Bologna, 1998, sottolinea l’inopportunità di letture univoche ed onnicomprensive del diritto della concorrenza, suggerite da certe correnti del pensiero economico, per non tradirne l’ispirazione originaria e vitale che è quella di garantire un giusto equilibrio tra potere privato e potere pubblico. Dello stesso ordine di idee è anche G. ROSSI, Antitrust e teoria della giustizia, cit., p. 14, secondo cui l’antitrust “…più che un’applicazione di teorie economiche, è uno strumento del processo democratico, allo sviluppo del quale i cittadini tutti, dagli imprenditori ai consumatori, dovrebbero partecipare come protagonisti”. Riconoscono, tra gli altri, la natura plurioffensiva dell’illecito antitrust, L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 1454; S. BASTIANON, Violazione della normativa antitrust e risarcimento del danno, cit., p. 555; M. ORLANDI, La risarcibilità del danno causato da una violazione delle norme comunitarie antitrust, cit., p. 986.

160

soggettive attive tutelabili dinanzi alla Corte d’Appello territorialmente competente

ex art. 33129.

Il dato evidenziato in quest’ultima prospettiva è dunque la natura plurioffensiva

dell’illecito concorrenziale130, di per sé idoneo a pregiudicare allo stesso tempo non

solo le imprese, ma anche l’interesse dei consumatori, la cui tutela deve essere

considerata come una delle principali finalità della normativa antimonopolistica.

Una soluzione contraria, si afferma, finirebbe infatti per discriminare “l’unico

tra i vari attori che si muove sul mercato, incapace di difendersi trasferendo su altri

il danno patito”131.

Difatti, “il danneggiato della pratica antitrust non è solo l’imprenditore escluso

dal mercato, ma anche la clientela, acquirente finale del prodotto, che (…) vede alla

fine ripercuotersi su di sé, ad esempio, l’aumento del prezzo o la diminuzione della

qualità della merce compravenduta”132. Assumendo che la violazione avvenga ad

un livello iniziale della catena, “è presumibile che la prima impresa che ha dovuto

sostenere un aumento di prezzo cerchi di scaricare sulla propria clientela gli effetti

di tale aumento, tentando di mantenere inalterati i propri profitti”133.

129 Riconoscono la legittimazione dei consumatori - intesi in linea generale come ultimo anello della catena produttivo-distributiva - ad esercitare l’azione di responsabilità prevista dall’art. 33, comma 2, della legge antitrust, quali soggetti su cui da ultimo viene traslato il danno, A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 322 s.; G. ROSSI, Antitrust e teoria della giustizia, cit., p. 15, nota 35, il quale a proposito dei consumatori afferma che “in definitiva essi siano gli ultimi e veri danneggiati nella loro property”. 130 Così L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 1454, secondo cui “gli illeciti del tipo in esame possiedono una vis plurioffensiva che non permette di istituire relazioni troppo rigide tra l’illecito stesso e l’area di interessi entro la quale i suoi effetti sono destinati a diffondersi”. Si veda altresì S. BASTIANON, Violazione della normativa antitrust e risarcimento del danno, cit., p. 555, il quale evidenzia la “naturale idoneità dei comportamenti anticoncorrenziali a ledere, con diversa incidenza, non solo una pluralità di soggetti, ma anche soggetti appartenenti a categorie socio-economiche non omogenee”. Così anche M. ORLANDI, La risarcibilità del danno causato da una violazione delle norme comunitarie antitrust, cit., p. 986. 131 L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 1455. 132 Così, V. SCUFFI, Azione collettiva a difesa dei consumatori: legittimazione e tecniche processuali, in Dir. ind., 1999, p. 153, secondo il quale il rilievo attribuito dal legislatore alla tutela degli interessi dei consumatori è ravvisabile anche nel dettato dell’art. 12 della legge antitrust. 133 Così, ancora, A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 269, il quale, come già rilevato, fornisce una distinzione tra uso difensivo ed offensivo del passing on anche con riferimento all’esperienza americana. In argomento si veda anche A. PALMIERI , Intese restrittive della concorrenza e azione risarcitoria del consumatore finale: argomentazioni “extravagantes” per un illecito inconsistente, cit., p. 1126, secondo cui “si dispiega, infatti, nel mercato il fenomeno del passing on: chi sta nel mezzo non resterà a guardare, ma reagirà all’innalzamento dei costi e presumibilmente, nel tentativo di non vedere scalfito il proprio margine di profitto, proverà a neutralizzare il pregiudizio, scaricandolo sullo stadio inferiore”. Si veda

161

L’affermazione, peraltro, torna ad essere nuovamente contestata da quanti - pur

condividendo l’affermazione di base secondo cui è innegabile una certa attenzione

da parte delle norme nazionali (e comunitarie) agli effetti del coordinamento tra le

imprese sui consumatori e sottolineando l’importanza di profili di efficienza

distributiva e non solo allocativa, e dunque l’esistenza di un nesso tra protezione dei

consumatori/utilizzatori e tutela della struttura concorrenziale del mercato -

continuano ad accentuare con enfasi l’aspetto di natura per lo più derivata della

tutela dei consumatori dall’esistenza di un contesto di mercato concorrenziale 134.

sul punto anche L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 1455, il quale osserva che “deve ritenersi che, a prescindere dalla circostanza che il rivenditore riesca o meno a trasferire sugli acquirenti posteriori il sovrapprezzo, un danno a suo carico si produrrà comunque, o attraverso una diminuzione delle vendite oppure attraverso la mancata percezione dell’aumento di prezzo che il mercato si è in concreto rivelato capace di assorbire”. Diverso è poi il caso in cui l’utente finale contratti direttamente con il soggetto colluso dall’ipotesi in cui uno o più operatori intermedi si frappongano tra l’illecito a monte ed il contratto a valle. In merito si rinvia nuovamente, tra gli altri, ad A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 322 ss.; S. BASTIANON, Violazione della normativa antitrust e risarcimento del danno, cit., p. 557. 134 Sul punto si osserva che, in generale, un comportamento d’impresa può essere considerato abusivo anche in assenza di un danno diretto ed attuale ai consumatori/utilizzatori e addirittura in presenza di un beneficio immediato per gli stessi (si veda il caso dei prezzi predatori). Lo stesso discorso è stato fatto pure (cfr. P. CASSINIS - P . FATTORI, Disciplina antitrust.., cit., p. 422) con riguardo alle fattispecie in cui tipicamente si concretizza l’abuso di posizione dominante (art. 3 della legge nazionale ed art. 82 del Trattato), là dove si vieta di “impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico, a danno dei consumatori” (lett. b). Nonostante il tenore della norma possa far apparire la stessa come uno strumento di tutela “diretta” dei consumatori/utilizzatori, si è detto, essa ha in realtà di mira la struttura concorrenziale del mercato, essendo volta a colpire i comportamenti strategici dell’impresa dominante per ostacolare l’ingresso sul mercato di un concorrente (o per costringerlo a uscirne) o per monopolizzare un mercato connesso. In tale contesto, quindi, il riferimento al “danno dei consumatori” di cui all’art. 3, lett. b), non potrebbe condurre di per sé a qualificare automaticamente come abusivo un comportamento d’impresa che, ancorché apparentemente pregiudizievole per i consumatori, non assuma rilievo sotto un profilo antitrust. Viceversa, la sussistenza di conseguenze pregiudizievoli per i consumatori - in presenza degli altri presupposti del divieto - può costituire un elemento che concorre alla qualificazione del comportamento posto in essere dall’impresa in posizione dominante come abusivo e, se del caso, ad apprezzarne la gravità sotto il profilo sanzionatorio. Sul punto cfr., V. MANGINI - G. OLIVIERI, op. cit., p. 67; P. FATTORI , La tutela giurisdizionale nei confronti dei provvedimenti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, Raccolta degli atti del IV Convegno Antitrust tra diritto nazionale e diritto comunitario , a cura di E.A. Raffaelli, Milano, 2000, p. 307. Analogamente si ragiona con riguardo alle operazioni di concentrazione di cui all’art. 6 della legge antitrust ed alla valutazione prognostica che si opera con riguardo ai fenomeni di crescita esterna delle imprese. G. ALPA, Il diritto dei consumatori, Roma-Bari, 1999, p. 90, si esprime a riguardo qualificando l’interesse dei consumatori rispetto alla disciplina antitrust quale mezzo piuttosto che come fine. In tal senso, ma con riguardo alle norme comunitarie in materia, si vedano anche le considerazioni svolte da G. ROSSI, Effetti della violazione di norme antitrust sui contratti tra imprese e clienti: un caso relativo alle norme bancarie uniformi, cit., p. 212.

162

In altri termini, si continua ad opporre (sulla base, peraltro, di un equivoco

chiarito con la sentenza n. 2207/2005, per il cui esame si rinvia al Capitolo III) che

la tutela del consumatore esorbiterebbe dalle finalità immediate della disciplina

monopolistica dettata dalla legge n. 287/1990, esattamente come dalla - seppur

distinta - disciplina della concorrenza sleale inserita negli artt. 2598 ss. cod. civ.135.

Quest’ultima ricostruzione, in particolare, è stata avallata da una vicina sentenza

della Corte di Cassazione, la quale, atteso l’impatto delle asserzioni ivi contenute e

l’ampio dibattito (non ancora esauritosi) sollevato, è degna di particolare attenzione

(il riferimento è, naturalmente, alla già menzionata sentenza n. 17475 del 9 dicembre

2002136).

135 Così, ad esempio, C. SANTAGATA, Concorrenza sleale e interessi protetti, op. cit., p. 184 ss. In merito al rilievo della tutela degli interessi dei consumatori a livello comunitario, si veda ad esempio G. ALPA, La nuova cittadinanza e i diritti dei consumatori e delle “parti deboli”, in Rass. forense, 1999, p. 799, il quale ritiene che “le esigenze dei consumatori costituiscono dunque un punto di riferimento obbligato, nel senso che non sarà sufficiente prenderle in considerazione, ma sarà necessario mediare gli interessi con esse conflittuali, per assicurare un livello di protezione elevato degli interessi dei consumatori”. Diversamente, G. ROSSI, op. ult. cit., p. 219, afferma che l’art. 1, comma 4, della legge n. 287/90, “vincola l’interprete al rispetto dei principi comunitari in materia di concorrenza, tra i quali certamente rientra, in assenza di diversa disposizione esplicita da parte del legislatore italiano, quello che eleva la libertà di concorrenza in sé ad unico oggetto del legislatore italiano, riservando al consumatore una tutela meramente indiretta”. In ordine al rapporto tra disciplina antitrust e concorrenza sleale, ferma restando la tradizionale separazione tra le due categorie (su cui si veda G.M. BERRUTI, La concorrenza sleale nel mercato. Giurisdizione ordinaria e normativa antitrust, op. cit.; G. GHIDINI, Concorrenza sleale, in Enc. dir., Aggiorn., vol. III, Milano, 1999, p. 377 ss.; parzialmente contra M. LIBERTINI, Concorrenza sleale e disciplina antitrust: una proposta di ricostruzione unitaria dei principi, Relazione al Convegno “Proprietà intellettuale e antitrust”, Perugia, 26 maggio 2001), una certa comunanza di intenti è da ultimo ravvisata da Cass., 9 dicembre 2002, n. 17475, secondo la quale la disciplina antitrust sarebbe legata da un rapporto di “continuità con le caratteristiche strutturali della disciplina codicistica della concorrenza, così come riletta, nel tempo, alla luce della Costituzione”. Dello stesso avviso è pure G. GIOIA, Vecchie intese e nuove nullità, cit., p. 14, la quale però, pur evidenziando che l’art. 2595 cod. civ. si pone in connessione con la normativa antitrust nello stabilire che “la concorrenza deve svolgersi in modo da non ledere gli interessi dell’economia nazionale e nei limiti stabiliti dalla legge”, ricorda che alla base della normativa codicistica della concorrenza sleale vi sono comunque interessi di parte, la cui tutela prescinde dalla salvaguardia del mercato concorrenziale rispetto a possibili pratiche distorsive (in questo senso anche G.M. BERRUTI, op. ult. cit.). 136 In Danno e resp., 2003, p. 390 ss., con nota di S. BASTIANON, Antitrust e tutela civilistica: anno zero; in Dir. ind., 2003, p. 172 ss., con nota di G. COLANGELO, Intese restrittive e legittimazione dei consumatori finali ex art. 33 legge antitrust; in Corr. Giur., 2003, p. 339 ss., con nota di I. NASTI, Tutela risarcitoria del consumatore per condotta anticoncorrenziale: una decisione difficile, e ivi, p. 747 ss., con nota di M. NEGRI, Risarcimento del danno da illecito antitrust e foro per la tutela del consumatore (la Cassazione non dilegua i dubbi nella vicenda Rc Auto), Si tratta della prima significativa esperienza nel nostro ordinamento di risarcimento del danno subito dai consumatori per effetto di pratiche antitrust, che va ad arricchire una fino ad oggi assai poco nutrita casistica giurisprudenziale in materia di risarcimento del danno anticoncorrenziale. Gli unici precedenti noti, fino alla sentenza Rc Auto, erano infatti quelli del già citato leading case Telsystem/Sip (per cui si

163

Sebbene la lettura della disciplina antimonopolistica accolta dai giudici di

legittimità in quella occasione rappresenti una battuta d’arresto rispetto alle

richiamate aperture evoluzionistiche, pare infatti di grande interesse richiamare i

passaggi fondamentali della sentenza da ultimo richiamata che, pronunciata in

ordine ad un caso antitrust inerente al settore assicurativo, consente di procedere ad

alcune riflessioni generali intorno ai confini della risarcibilità del danno da illecito

anticoncorrenziale.

L’assunto primo da cui muove la Corte nell’inquadramento delle questioni

sottese al caso concretamente portato al suo giudizio, è che la legge antitrust

nazionale è ispirata alla “prospettiva privilegiata dell’impresa quale termine

comunque principale del mercato”.

Attraverso una pronuncia che a tutti gli effetti assume i contorni di una

“sentenza- trattato”, i giudici della Corte, infatti, pur riconoscendo che “il

consumatore finale rappresenti egli stesso un termine imprescindibile di riferimento

del più generale fenomeno del mercato”137 e che la legge n. 287/1990 “tende ad

assicurare le condizioni per il più pieno esprimersi della concorrenza (…) come

fattore imprescindibile per l’esprimersi delle potenzialità e delle capacità del

mercato”, negano poi - segnando, come poc’anzi rilevato, un marcato passo indietro

rispetto alle posizioni di “avanguardia” ed alle aperture che anche la giurisprudenza

andava mostrando138 - che proprio questo soggetto, così centrale nell’equilibrio di

mercato che la legge vuole regolare, trovi tutela alcuna nell’ambito della normativa

antitrust.

rinvia a nota 162) ed Appello di Torino, 6 luglio 2000, n. 1061, cit., in cui però si trattava di risarcimento del danno da abuso di posizione dominante richiesto da imprese concorrenti. Non constavano invece, sino alla summenzionata pronuncia, precedenti relativi al risarcimento del danno risentito dai consumatori per effetto di un’intesa. 137 Il dato da non trascurare a riguardo - come pure ricorda M. LIBERTINI, op. ult. cit., p. 435 - è che la selezione delle imprese meritevoli deve avvenire proprio grazie alla scelta di una moltitudine di consumatori liberi e informati, e dunque non pregiudicati dall’operare distorsivo di condotte imprenditoriali anticoncorrenziali incidenti negativamente sulla trasparenza del mercato e sulla fruibilità delle informazioni. 138 Si veda ad esempio, in merito alla questione della legittimazione attiva dei consumatori, l’indirizzo - opposto a quello assunto dalla Corte di legittimità nel caso assicurativo - della Corte di Appello di Torino, 6 dicembre 2002, n. 1061, la quale, nel caso Juventus/Indaba, ha affermato chiaramente che alla nullità dell’intesa vietata segue il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 33 per i terzi estranei all’infrazione - consumatori compresi -, “posto che quest’ultima (l’intesa) nei loro confronti si pone come un comportamento illecito di natura aquiliana”.

164

A questa affermazione di principio, la Corte fa quindi seguire come logico

corollario l’impossibilità per il consumatore finale di invocare gli strumenti

sanzionatori di cui all’art. 33 della legge nazionale al fine di chiedere il risarcimento

del danno ovvero di far dichiarare nullo il contratto che ha concluso con l’impresa

responsabile dell’infrazione concorrenziale139, atteso che “sul piano fattuale” non

sarebbe ravvisabile “una qualsivoglia soglia di interesse in testa a soggetti che non

siano essi stessi partecipi di quello stesso livello operativo, e rivestano invece la

mera veste di consumatori finali, non potendo in alcun modo reagire su di essi

l’esistenza in sé delle intese”.

Come è evidente “L’esito sconvolge: sulla scorta di un approccio in odore di

formalismo oltranzistico, (che) relega i consumatori nell’ingrato ruolo di figli di un

dio minore, prigionieri di un paternalismo condiscendente e distratto”140.

Dall’esclusione dei consumatori dai soggetti legittimati a far valere la nullità, la

Corte deduce infatti, in un’ottica sistematica, la natura “stravagante” che l’eventuale

riconoscimento a quegli stessi soggetti della possibilità di azionare il ristoro di cui

all’art. 33 andrebbe ad assumere rispetto all’impianto normativo, essendo “lo

strumento risarcitorio previsto in stretta connessione con le azioni di nullità e di

inibitoria dal medesimo secondo comma dell’art. 33; strumento il quale non può di

conseguenza non lasciare presupporre esso stesso una tipologia di danni

strettamente connessa alle tematiche dell’impresa e della sua presenza nel

mercato”141.

139 Contra , L. DELLI PRISCOLI, I controlli sui prezzi nei contratti d’impresa, in Riv. dir. comm., 2000, p. 101. 140 Queste le parole di R. PARDOLESI, Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, cit., p. 473. 141 Così ancora Cass. 9 dicembre 2002, n. 17475, cit., la quale aggiunge inoltre che il ruolo del consumatore finale sarebbe chiamato “ad esaurirsi nella sollecitazione dell’esercizio dei loro poteri da parte degli organi individuati dalla stessa legge n. 287 del 1990 in quella che si rivela la sua componente più propriamente pubblicistica”. Critico nei confronti della pronuncia è, tra gli altri, A. MONTELERO, “Per qualche lira in più” o del danno al consumatore nei contratti a valle di un’intesa anticoncorrenziale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., n. 1/2004, p. 338, il quale, anche alla luce dei lavori parlamentari conclusisi con la formulazione dell’art. 33, comma 2, della legge antitrust, contesta la “stravaganza” del ricorso al giudice ordinario da parte del consumatore che abbia subìto un pregiudizio in conseguenza di un’intesa vietata. A riguardo, l’Autore non ritiene corretto limitare la lettura della normativa antimonopolistica in un’ottica che trascuri completamente il ruolo determinante svolto dal consumatore, il quale, con il suo comportamento indubbiamente condiziona le scelte fondamentali degli autori della produzione.

165

Ciò tuttavia, si afferma, non equivale ad escludere in capo al consumatore finale

ogni possibilità di tutela in relazione “alle ricadute estreme di quelle intese vietate

dal legislatore in sede di legge n. 287/1990” - questi potendo sempre agire in sede

civile alla stregua delle norme ordinarie, ovvero rivolgendosi al competente giudice

di pace142 - ma solo ad escludere che tale tutela possa conseguire al “solo fatto in sé

che a monte della singola operazione conclusa dal consumatore si ponga, dal lato

dell’impresa, l’intesa vietata, rendendosi invece necessario che, nel concreto, il

rapporto instauratosi tra il consumatore finale e l’impresa si connoti (…) per

l’avvenuta violazione di un diritto soggettivo di quest’ultimo, (…) che non potrà

farsi discendere dal solo fatto in sé della pregressamente intervenuta intesa vietata”,

dovendo al contrario derivare dall’applicazione dei “correnti criteri di

individuazione del nesso di causalità”143.

142 Ciò salvi i limiti introdotti dal d.l. 8 febbraio 2003, n. 18 (c.d. decreto salvacompagnie), convertito con modificazioni nella legge 7 aprile 2003, n. 63, con cui, modificando l’art. 113 c.p.c., si è fissata a 1.100 euro la soglia massima sino alla quale il Giudice di Pace può decidere secondo equità, inoltre stabilendosi che la formula per equità non debba applicarsi ai contratti di massa conclusi mediante moduli o formulari. Il risultato appare poco ragionevole anche alla luce dell’esigenza di concentrare l’intero contenzioso antitrust dinanzi ad un unico giudice “specializzato”. E’ inoltre appena il caso di osservare come la formulazione dell’art. 33 dia luogo ad inopportuni grovigli di competenze, che contraddicono la stessa ratio della competenza in unico grado della Corte d’Appello, pregiudicando le proclamate finalità di concentrazione e celerità dei giudizi coinvolgenti profili antitrust. Assai più lineare, ad esempio, la legge tedesca: la GWB, come riformata nel 1999, prevede al § 87 una competenza esclusiva del tribunale, senza compressione del doppio grado, per tutte le controversie civili che sorgono dalla stessa legge, ed a quelle legate ad esse da un nesso di pregiudizialità-dipendenza; il § 88 prevede poi una deroga alla competenza per ragioni di connessione, così da consentire la trattazione unitaria, davanti al tribunale competente ai sensi del precedente § 87, delle controversie connesse; la costante preoccupazione per la concentrazione delle competenze in materia antitrust, infine, è resa palese dal § 96, che rinvia ai paragrafi richiamati per la determinazione della competenza a decidere controversie fondate sulle norme antitrust comunitarie. 143 Il panorama delle decisioni emesse a seguito della pronuncia della Suprema Corte dai giudici di pace chiamati a pronunciarsi sulle controversie tra i consumatori e le imprese di assicurazione sanzionate dall’Autorità è però estremamente diversificato: si va dall’esplicito riconoscimento secondo cui il cartello ha avuto come “effetto immediato” un aumento dei costi delle polizze Rc Auto, con condanna delle imprese - nel silenzio circa la validità delle relative clausole contrattuali - alla ripetizione dell’indebito ex art. 2033 cod. civ. (così il Giudice di Pace di Agrigento nella sentenza emessa il 30 giugno 2003); all’esplicita statuizione della nullità della clausola contrattuale relativa all’importo del premio per sua contrarietà all’ordine pubblico economico (Giudice di Pace di Locri nella sentenza emessa il 31 dicembre 2002); alla condanna, secondo diritto, al risarcimento del danno (calcolato nel 20% del premio pagato) ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. (Giudice di Pace di Lecce, 8 ottobre 2003); all’affermazione secondo cui sarebbe integrata “un’ipotesi di responsabilità precontrattuale, e quindi extracontrattuale…, essendo stato chiaramente violato il dovere del “neminem laedere” ed i più elementari principi di buona fede” (Giudice di Pace di Casoria, 12 febbraio 2003, in Foro it., 2003, I, p. 2192 ss.).

166

Ai sensi dell’art. 33 della legge n. 287/1990 - prosegue la Corte - sono pertanto

deducibili solo profili di “diretta ed immediata incidenza causale dell’intesa (…)

nella produzione del danno lamentato, il quale si deve rendere effetto immediato e

diretto dell’intesa medesima, e non di fenomeni che … si pongano solo a valle, in

quanto mediati dal concreto comportamento tenuto dalle singole imprese nella

gestione di singoli e specifici rapporti intessuti direttamente con i singoli

consumatori; rapporti già presidiati in quanto tali dalla loro logica giuridica

interna”.

L’asserita alterità di piani in cui si collocano, rispettivamente, l’attività

d’impresa a monte ed il contratto che involge a valle il consumatore, conduce quindi

i giudici ad estromettere quest’ultimo dall’orbita antitrust, relegandone la tutela nel

limbo indistinto di una “ordinaria azione di responsabilità soggetta agli ordinari

criteri di competenza”, cui segue, problematica, la necessità di rinvenire uno

“specifico diritto soggettivo” violato dalla produzione del danno anticoncorrenziale,

non valendo la collusione, di per sé, ad integrare il profilo dell’ingiustizia del

danno144.

A riguardo, pare tra l’altro da rimarcare come la Corte, negando che “il rapporto

instauratosi tra il consumatore finale e l’impresa si connoti (…) per l’avvenuta

violazione di un diritto soggettivo di quest’ultimo”, finisca per attestarsi su posizioni

che sembrano non tenere in debito conto dell’evoluzione segnata dalla nota sentenza

n. 500/99 delle Sezioni Unite, nella misura in cui, con quest’ultima pronuncia, si

riconosce che “qualunque interesse” tutelato dall’ordinamento possa, in quanto

violato, integrare gli estremi potenziali del danno ingiusto.

Sul punto, quindi, “scende un silenzio assordante”145.

144 Diversamente, come rileva I. NASTI, Tutela risarcitoria del consumatore per condotta anticoncorrenziale: una decisione difficile, cit., p. 344, ove si riconoscesse al consumatore la possibilità di ricorrere ai rimedi di cui all’art. 33, lo si esonererebbe dalle limitazioni strutturali del giudizio di accertamento della responsabilità aquiliana sancito dall’art. 2043 cod. civ. Il consumatore, in altri termini, si gioverebbe di una presunzione relativa di dannosità del contratto stipulato e potrebbe ottenere il risarcimento senza dover provare l’esistenza di un danno né di un nesso causale tra il comportamento vietato ed il danno lamentato. 145 L’ossimorica espressione è ascrivibile a R. PARDOLESI, Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, op. loc. cit.

167

I giudici infatti si limitano a statuire che il consumatore non ha un diritto tutelato

ai sensi della legge n. 287/90, ma non indicano in alcun modo quale sia il diritto

soggettivo su cui fondare la tutela risarcitoria.

Viene allora in soccorso l’ipotesi di un “diritto di concorrenza”, anni fa

teorizzato nella sentenza Telecom/Telsystem146, come interesse del consumatore alla

preservazione di una situazione di concorrenza effettiva ed alla fissazione di

condizioni negoziali proprie di un regime competitivo147.

Ciò, peraltro, potrebbe eventualmente risolvere il problema del nomen iuris, ma

non necessariamente la concreta azionabilità del rimedio: in tema di azione

risarcitoria, infatti, il legislatore non ha dettato norme particolari afferenti la materia

antitrust, sicchè agli illeciti disciplinati dalla legge n. 287/90 vengono ad applicarsi

le regole generali in materia di responsabilità civile, con la conseguente necessità di

individuare un danno qualificabile in termini di ingiustizia ex art. 2043 cod. civ. e di

un nesso di causalità adeguato tra danno e fatto imputabile, secondo

l’interpretazione che dell’art. 1223 cod. civ. ha fornito la giurisprudenza dei nostri

giorni.

Corollario dell’impostazione seguita dalla Corte di Cassazione è poi, per altro

verso, “l’artificioso isolamento dei contratti a valle”148, che paiono, nella

ricostruzione dei giudici, del tutto avulsi dalla realtà economica cui accedono.

Alla stregua dell’esito esegetico cui perviene il Collegio, pare quindi potersi

argomentare nel senso della sussistenza di una duplice tipologia di pregiudizio, cui

corrispondono altrettante figure di pretese risarcitorie: da un lato, infatti, troveranno

ristoro le imprese i cui interessi sono stati lesi in maniera diretta ed immediata dalla

146 Corte di Appello di Milano, 18 luglio 1995, in Danno e resp., 1996, p. 105 ss., con nota di C. OSTI, Abuso di posizione dominante e danno risarcibile, e in Foro it., 1996, I, p. 276 ss., con nota di A. BARONE, Danni da abuso di posizione dominante e giurisdizione ordinaria. 147 Dello stesso ordine di idee, M. TAVASSI, Il giudizio di merito antitrust ed il processo di concorrenza sleale, in Diritto processuale antitrust, op. cit., p. 302, secondo la quale l’apparato normativo predisposto in materia antitrust tutela proprio il “diritto alla concorrenza, inteso nel senso dell’interesse del singolo operatore alla propria posizione concorrenziale sul mercato (ovvero - per il consumatore - alla preservazione di una situazione di concorrenza effettiva)”. 148 Così A. PALMIERI, Intese restrittive della concorrenza e azione risarcitoria del consumatore finale: argomentazioni “extravagantes” per un illecito inconsistente, cit., p. 1124 e, in senso conforme, R. PARDOLESI, Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, cit., p. 472.

168

fattispecie vietata149; dall’altra, invece, si staglieranno le pretese risarcitorie di

quanti, rimanendo l’intesa sullo sfondo, sono entrati in rapporti contrattuali con le

imprese autrici della collusione 150.

Queste ultime, in particolare, saranno fondate - secondo la logica dei giudici di

legittimità - su pregiudizi non direttamente riconducibili all’illecito concorrenziale

proprio perché mediati dal comportamento tenuto sul mercato dalle singole imprese

e dunque sottoposti al generale regime delineato dall’art. 2043 cod. civ., con ciò che

ne consegue in ordine alla sussistenza degli estremi della fattispecie risarcitoria151.

Quanto ai contratti a valle - le cui problematiche ci occupano più da vicino -

deve tra l’altro notarsi - ad accrescere il criticabile indirizzo avallato con la sentenza

in evidenza (e superato dalla più volte menzionata sentenza delle Sezioni Unite del 4

febbraio 2005) - che, logica conseguenza dell’isolamento di essi predicato dalla

Corte, è la disparità di trattamento degli atti negoziali che succedono alla pratica

collusiva rispetto alla differente (ma sotto diversi aspetti involgente analoghe

questioni, come evidenziato nel Capitolo II) fattispecie dell’abuso di posizione

dominante di cui all’art. 3 della legge n. 287/90; anomalia, questa, già rilevata dalla

dottrina, la quale a riguardo pare incline ad un riconoscimento al singolo della

possibilità di agire per far valere l’abusività della condotta negoziale, la nullità

dell’atto così perfezionato e a domandare il risarcimento dei danni subiti152.

La difformità ravvisata da chi si è soffermato sul punto cade in particolare

nell’osservare che ove l’abuso, anziché collettivamente per mezzo dell’intesa, si

fosse perpetrato attraverso un approfittamento da parte della singola impresa della

posizione di dominanza occupata nel mercato, la coincidenza tra atto di autonomia

149 In questo caso, quindi, la qualificazione di illiceità dell’intesa consentirà di formulare direttamente una valutazione di ingiustizia del danno patrimoniale eventualmente patito da quelle altre imprese che hanno avuto rapporti diretti con i partecipanti al cartello. 150 La relativa azione - rileva M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, cit., p. 452, potrà avere come legittimato passivo (in quanto componente del cartello vietato) tanto il contraente diretto del terzo danneggiato, quanto tutte le altre imp rese partecipanti all’intesa. 151 In questo senso A. PALMIERI, Intese restrittive della concorrenza e azione risarcitoria del consumatore finale: argomentazioni “extravagantes” per un illecito inconsistente, cit., p. 1123. 152 Si vedano a riguardo: M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, cit., p. 456; C. OSTI, Abuso di posizione dominante e danno risarcibile, in Danno e resp., 1996, p. 105; G. ROSSI, Effetti della violazione di norme antitrust sui contratti tra imprese e clienti: un caso relativo alle norme bancarie uniformi, cit., p. 220.

169

negoziale e condotta illecita avrebbe escluso l’emarginazione della fattispecie

civilistica dall’infrazione anticoncorrenziale, comportandone la medesima invalidità.

In altri termini, “se si riconosce che l’utente finale, entrato in rapporto d’affari

con l’impresa egemone, può agire per far accertare l’abusività della condotta,

inficiare di nullità il contratto in cui essa si sia tradotta ed ottenere il risarcimento

dei danni subiti, non si vede per quale motivo lo stesso ragionamento non debba

valere in presenza di un’intesa che abbia prodotto i medesimi inconvenienti”153.

Tra l’altro, non deve tacersi che l’adesione ad una impostazione quale quella

fatta propria dalla Corte di Cassazione nel caso poc’anzi richiamato, conduce

inesorabilmente, escludendo in via generale l’azionabilità del rimedio di cui all’art.

33 da parte dei consumatori finali, ad un sostanziale ridimensionamento della portata

precettiva ed imperativa delle norme antitrust, ponendosi per di più in contrasto

stridente con la linea interpretativa inaugurata nel 2001 dalla Corte di Giustizia

europea.

Quest’ultima, infatti, si mostra chiaramente propensa ad estendere i margini

della tutela risarcitoria persino a chi dell’intesa illecita - ancorché in una posizione

di fisiologica debolezza - sia stato parte (cfr. sentenza 20 settembre 2001, causa

C-453/99, Courage Ltd/Crehan, già menzionata).

Di estremo interesse, considerata la sua portata evolutiva, si rivela sul punto la

giurisprudenza comunitaria da ultimo richiamata, la quale, aprendo nuove frontiere

all’orizzonte della risarcibilità del danno da illecito antitrust, riconosce in astratto

finanche al soggetto coautore del torto di invocare tutela, quale vittima egli stesso

dell’infrazione, rispetto al comportamento anticoncorrenziale che - purché non gli si

possa attribuire una responsabilità significativa nella messa in opera dell’intesa - ha

pure contribuito a realizzare154.

153 R. PARDOLESI, Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, cit., p. 470, il quale parte da un condivisibile interrogativo: “Che cosa cambierebbe se a profittare dei consumatori non fosse stata un’impresa singola, padrona del mercato, ma un pugno di imprese, che in teoria si sarebbero dovute fronteggiare nell’agone concorrenziale, ma che in pratica hanno optato per la più comoda prospettiva di comportarsi collettivamente come un’imp resa solitaria?”. 154 Nel commentare la sentenza della Corte di Giustizia, A. PALMIERI e R. PARDOLESI, Intesa illecita e risarcimento a favore di una parte: “chi è causa del suo mal si lagni e chieda i danni”, cit., p. 75, ritengono opportuno che non si riconosca “alcuna aprioristica preclusione all’azione risarcitoria per chi si è sporcato le mani, dando vita ad un accordo vietato, e poi, vista la mala parata (leggi, scarsa

170

Con la sentenza Courage, infatti, la Corte di Giustizia riconosce espressamente

la strumentalità della tutela giurisdizionale dei singoli (senza alcuna distinzione tra

impresa e consumatore) rispetto alla sussistenza di una effettiva competizione,

caratterizzandosi per l’essere “ (…) tale da scoraggiare gli accordi o le pratiche,

spesso dissimulate, che possono restringere o falsare il gioco della concorrenza. In

quest’ottica le azioni di risarcimento danni dinanzi ai giudici nazionali possono

contribuire sostanzialmente al mantenimento di un’effettiva concorrenza nella

Comunità”.

E’ dunque agevole, dopo tale dictum, concludere che nella prospettiva

inaugurata da tale sentenza il consumatore, che rappresenta la vittima per eccellenza

di cartelli ed altre intese restrittive, possa essere tra i soggetti più interessati a

proporre l’azione risarcitoria, con un notevole beneficio per il mercato anche sotto il

profilo della deterrenza nei confronti delle imprese ad assumere atteggiamenti

anticoncorrenziali.

Infatti, “Il timore delle azioni risarcitorie dei consumatori spingerà le imprese,

le cui condotte si riverberino direttamente sui consumatori stessi, cagionando loro

un pregiudizio tale da indurre all’azione giudiziaria, ad una maggiore attenzione

verso le norme antitrust”155.

Nella stessa direzione (per espresso richiamo della pronuncia comunitaria)

muove anche l’ordinanza interlocutoria n. 15583/2003 della Sezione III della Corte

di Cassazione, secondo la quale “la piena efficacia dell’art. 85 (ora 81) del Trattato

e, in particolare, l’effetto utile del divieto sancito dal n. 1 di detto articolo sarebbero

messi in discussione se chiunque non potesse richiedere il risarcimento del danno

convenienza dei patti siglati), faccia valere l’illiceità di tale accordo nel tentativo di rifarsi delle perdite correlate allo svolgimento del rapporto”. Un primo sentore di un’apertura in questa direzione è rinvenibile già nella sentenza della Corte di Appello di Torino, 6 luglio 2000, n. 1061, cit., p. 44 ss., ove si riconosce al soggetto partecipante all’intesa in posizione economica subordinata la possibilità di domandare il risarcimento del danno per abuso di posizione dominante “per l’evidente ragione che egli stesso ha subito la limitazione della competitività del mercato”. 155 Così G. ROSSI, nell’annotare la richiamata sentenza della Corte di Giustizia,“Take Courage”! La Corte di Giustizia apre nuove frontiere per la risarcibilità del danno antitrust, cit., p. 190 ss.

171

causatogli da un contratto o da un comportamento che possono restringere o falsare

il gioco della concorrenza” 156.

Un’apertura sostanziale verso l’ammissibilità di una tutela risarcitoria ex art. 33

anche a beneficio dei consumatori appare pure sostenibile [continuando a tacere, per

il momento, i contenuti della sentenza n. 2207/2005] alla luce del nuovo

Regolamento (CE) n. 1/2003 (in merito al quale si rinvia al Capitolo I), il quale con

l’art. 6 - ai sensi del quale “le giurisdizioni nazionali sono competenti ad applicare

gli articoli 81 e 82 del Trattato” - contribuisce (come già osservato) in maniera

significativa ad accrescere la dimensione privatistica del diritto antitrust, con ciò

incrementando anche sul piano risarcitorio il potere di cui le diverse autorità

giurisdizionali nazionali preposte alla tutela della concorrenza sono investite.

Data la perdurante querelle sul punto, pare quindi evidente quale contributo

servirà a portare in questa tormentata vicenda l’attesa [ed ora giunta] pronuncia

chiarificatrice delle Sezioni Unite.

[La pronuncia delle Sezioni Unite (4 febbraio 2005, n. 2207) - intervenuta nel

corso della stesura del presente lavoro - ha infatti segnato un deciso superamento

del dibattito sviluppatosi attorno alla ratio ed agli interessi tutelati dal sistema

antimonopolistico, statuendo che “la legge antitrust non è la legge degli

imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti del mercato, ovvero di chiunque

abbia un interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere

competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla

rottura o alla diminuzione di tale carattere”. Alla trattazione dei passaggi di

maggior rilievo e significato in ordine al tema che ci occupa è dedicato un apposito

paragrafo nel Capitolo III, al quale pertanto si rinvia].

156 Si tratta della già menzionata ordinanza del 3 luglio 2003, n. 15583, con cui la III Sezione della Cassazione Civile - con riguardo al noto caso RC Auto - ha rimesso alle Sezioni Unite il compito di sciogliere il nodo relativo alla competenza (Giudice di Pace, secondo gli ordinari criteri processuali, ovvero Corte d’Appello territorialmente competente, secondo il dettato dell’art. 33 della legge antitrust) in materia di risarcimento del danno subito dai consumatori a seguito di un illecito antitrust (nella specie, l’intesa tra imprese assicuratrici).

172

3.5.2. L’ingiustizia del danno

Delineate nelle linee più generali le problematiche sottese alla interpretazione

dell’art. 33, ed allo sforzo teso a rivelarne la natura sostanziale ovvero processuale e

a definire la rilevanza dell’interesse alla concorrenzialità del mercato ascrivibile alle

diverse categorie di soggetti che nel mercato si muovono e agiscono, occorre ora

vagliare gli altri presupposti necessari in concreto ai fini di un accoglimento della

domanda risarcitoria.

Infatti, nonostante gli slanci di apertura manifestati a fasi alterne dalla

giurisprudenza, perché possa riconoscersi la legittimazione ad agire al consumatore

è comunque necessario muoversi lungo “i binari” dell’illecito aquiliano, rispetto ai

quali la dottrina più accorta ha denunciato la presenza di alcune ingenti difficoltà,

quale quella relativa all’accertamento del danno, alla sua estrema dispersione ed al

rischio di un ricorso strumentale al rimedio risarcitorio in grado di trasferire la

competizione concorrenziale dal mercato alle aule di Tribunale157.

A questi inconvenienti se ne aggiungono poi altri di natura più strettamente

tecnica che si ricollegano al tentativo di inquadrare l’illecito antitrust nella disciplina

di cui agli artt. 2043 ss. cod. civ., ed in particolare nella possibilità di rinvenire un

danno ingiusto a fronte di un’infrazione concorrenziale e della idoneità delle norme

antimonopolistiche a creare posizioni soggettive in capo ai privati tutelate

dall’ordinamento158.

157 Quelle elencate sono solo alcune delle difficoltà riscontrate sul punto dalla dottrina. Sul punto si vedano, in particolare, A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 322; L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, op. cit ., p. 1456, e M. LIBERTINI, Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme antitrust, cit., p. 673. In riferimento alla eventualità di risarcimenti multipli con riguardo alla situazione statunitense, si veda A. GENOVESE, Il risarcimento del danno per violazione di norma antitrust: l’esperienza americana, cit., p. 680 ss. 158 Sul punto, G. BERNINI, Un secolo di filosofia antitrust. Il modello statunitense, la disciplina comunitaria e la normativa italiana, op. cit., p. 429, secondo il quale “non può dubitarsi dell’idoneità delle norme di cui alla l. 287/90 a determinare in capo ai singoli situazioni giuridicamente protette anche a livello risarcitorio”, qualificate in termini di interessi legittimi rinforzati. Sostanzialmente adesiva, anche se fondata su una differente connotazione della situazione giuridica soggettiva, la tesi di A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 12 ss. e 28 ss. In merito alla ingiustizia del danno, pur non potendoci inoltrare in una compiuta disamina delle teorie elaborate da dottrina e giurisprudenza a proposito della nozione di “danno ingiusto”, ai fini che qui interessano è sufficiente ricordare, come già osservato nel testo, che la tesi tradizionale - secondo cui il danno ingiusto di cui all’art. 2043 cod. civ. coincide esclusivamente con la lesione “non iure” di un diritto soggettivo assoluto - è stata

173

Nel caso dell’illecito antitrust, il vero punto dolente di un’indagine relativa al

problema del risarcimento del danno è infatti costituito dall’individuazione del bene

giuridico tutelato dalla normativa antitrust.

E’ soprattutto con riguardo a quest’ultimo profilo che si manifesta in tutta la sua

pienezza il rilievo sistematico assunto dalla nozione e dai confini del danno

concorrenziale il quale, come abbiamo avuto modo di chiarire nel paragrafo

precedente, è ricostruito dalla dottrina secondo linee sostanzialmente antitetiche.

Da preferire, tra queste, pare tuttavia la tesi che, in chiave evolutiva, individua

nelle maglie della normativa antitrust il fine di tutelare interessi di duplice natura: da

un lato interessi di carattere generale o pubblici, identificabili nello sviluppo

economico e nella limitazione del potere di mercato; dall’altro interessi privati, “la

cui tutela rientra comunque anch’essa fra gli scopi dichiarati e tradizionali delle

normative antitrust”159.

In proposito viene allora in rilievo il dettato della legge 30 luglio 1998, n. 281

(così come modificata dalla legge 1° marzo 2002, n. 39, che ha introdotto il comma

5-bis), che disciplina i diritti dei consumatori e degli utenti.

E’ infatti all’interno dell’art. 1, comma 2, lettera e), che si rintraccia la norma

protettiva del consumatore che consente di affermare la risarcibilità del danno

extracontrattuale patito in conseguenza dell’adozione di pratiche anticoncorrenziali,

lì dove viene espressamente enunciato il diritto del consumatore “alla correttezza,

abbandonata a partire dagli anni sessanta (per culminare con la miliare pronuncia delle SS.UU. n. 500/99) a favore di un’interpretazione della norma meno rigida e più sensibile ai principi desumibili dall’ordinamento nel suo insieme. Tale inversione di tendenza ha portato con sé l’idea di una differenziazione ontologica tra il danno (ingiusto) cui si riferisce la prima parte dell’art. 2043 cod. civ. e il danno (da risarcire) di cui alla seconda parte dell’articolo. In altri termini, mentre il danno da risarcire può ben essere inteso come perdita patrimoniale, il danno ingiusto è stato elevato al rango di oggetto di tutela della norma, favorendo l’elaborazione di una nozione più ampia in grado di abbracciare ogni lesione di un bene giuridicamente tutelato, da intendersi come sinonimo di posizione giuridica di vantaggio. 159 M. LIBERTINI, Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme antitrust, op. cit., p. 672; in senso conforme anche A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust, op. cit., pp. 88 e 322; E. SCODITTI, Il consumatore e l’Antitrust, cit., p. 1128; S. BASTIANON, Nullità a cascata? Divieti antitrust e tutela del consumatore, cit., p. 1073, secondo cui “il riparto delle competenze e delle attribuzioni tra autorità amministrativa ed autorità giurisdizionale trova la sua ragione nel fatto che la disciplina antitrust opera su due piani: uno, di natura pubblicistica, che attiene alla tutela di interessi e finalità generali, e l’altro, di natura privatistica, relativo ai rapporti interindividuali”.

174

trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi”160, diritto

la cui integrità pare violata proprio dalla gran parte delle fattispecie contemplate

dalla legge antitrust.

L’incidenza sul diritto del mercato della richiamata disposizione, lungi dal

rimanere circoscritta ad una pura affermazione di principio, dovrebbe consentire di

trarre coerenti conseguenze anche in tema di legittimazione, specie con riguardo alla

dimensione collettiva della tutela - il cui ruolo è fortemente incrementato dalla

legge n. 281/98 - ed alla tipologia di azioni esperibili dalle associazioni dei

consumatori, rendendo esplicita l’opportunità di tale mezzo aggiuntivo di

protezione, “potenziato” rispetto al tradizionale rimedio risarcitorio.

Quest’ultimo, infatti (ampiamente articolato nel Capitolo che segue), ove

esperito uti singuli rivelerebbe inevitabilmente una scarsa efficacia161.

Assumendo che la normativa antitrust offre tutela anche al consumatore, occorre

poi di seguito verificare, oltre al fatto illecito (la cui sussistenza potrebbe essere

inferita dalla pronuncia del relativo provvedimento antitrust) e al danno patito, anche

la sussistenza degli altri elementi di fattispecie necessari a configurare la

responsabilità per danno extracontrattuale, ossia l’elemento soggettivo ed il nesso

causale 162.

160 In questo senso, ad esempio, A. TOFFOLETTO - A. STABILINI, Tutela giurisdizionale collettiva dei diritti dei consumatori e legge “antitrust”, in AA.VV., La disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti (l. 30 luglio 1998, n. 281), a cura di A. Barba, Napoli, 2000, ed A. PAGLIANTINI, Tutela del consumatore e congruità dello scambio: il c.d. diritto all’equità nei rapporti contrattuali, ivi, p. 306 ss., il quale osserva che “l’iniquità dello scambio non rileva in modo automatico ma solo se ancillare ad una anomalia intervenuta nella procedura di contrattazione; un’anomalia, giova rilevare, che viene a precludere il realizzarsi di un prezzo e di un profitto conformi a quelli indotti dal mercato concorrenziale”. Critica l’assenza di riferimenti alla concorrenza ed al mercato nella legge n. 281/1998, R. COLAGRANDE, Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, in Le nuove leggi civ. comm., n. 4/1998, p. 700 ss., specie pp. 718-722. 161 In tal senso A. TOFFOLETTO - A. STABILINI, Tutela giurisdizionale collettiva dei diritti dei consumatori e legge “antitrust”, op. cit., p. 245, i quali pervengono alla conclusione della utilizzabilità dell’azione collettiva a fronte di violazioni della normativa antitrust. Si consideri, altresì, l’opinione espressa da L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 1456, nota 13, che, con riferimento alla l. 287/90, osserva che “molto opportuno si sarebbe rivelato, poi, proprio con riguardo a queste ipotesi, un esplicito riconoscimento della legittimazione ad agire delle associazioni dei consumatori più rappresentative, del quale, però, nell’art. 33, comma 2, non vi è traccia”. 162 Con riguardo all’elemento soggettivo, L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 1461, osserva che “qualora la vittima dell’illecito sia un consumatore finale si potrebbe ipotizzare (…) che l’impresa risponde sine culpa. Il sovraprezzo monopolistico, la prestazione supplementare e le altre fattispecie generatrici di danno, a ben vedere, originano tutte

175

3.5.3. L’elemento soggettivo, il nesso di causalità e la quantificazione del danno

Quanto all’elemento soggettivo, dubbi solleva la possibilità di estendere anche al

danno da illecito antitrust il principio, proprio della disciplina in materia di

concorrenza sleale, di presunzione della colpevolezza del soggetto agente (e della

conseguente inversione dell’onere della prova), che considera l’elemento soggettivo

in re ipsa in qualunque comportamento imprenditoriale avente effetti

anticoncorrenziali, così sollevando il soggetto danneggiato a valle dal relativo onere

probatorio163.

A riguardo, peraltro, la tesi maggioritaria vuole che, se la colpa deve intendersi

in senso oggettivo (ossia come difformità da un modello comportamentale

astrattamente valutabile come socialmente corretto), la soluzione sul punto debba

essere positiva, almeno per quegli illeciti antitrust che si considerano ormai

normativamente o socialmente tipizzati164.

Più in particolare, si ritiene che, l’applicazione della presunzione di colpa alle

violazioni di regole antimonopolistiche rilevanti sotto il profilo aquiliano, comporti

che, qualora “la fattispecie è identificata dal legislatore secondo un criterio

teleologico (lettere b) e c) dell’articolo 2 e lettera b) dell’articolo 3), la sussistenza

di una precisa consapevolezza in ordine alla destinazione antigiuridica della

nella sfera di controllo dell’imprenditore, come e più di quel difetto che sta all’origine delle ben nota figura di responsabilità oggettiva. L’indicazione ha, però, un valore puramente orientativo, perché una volta appurato che la pratica incriminata possiede o per la specifica finalità o per il contenuto impressogli dall’autore, quella destinazione anticoncorrenziale di cui sopra, il problema relativo all’imputabilità potrà dirsi risolto”. Cfr., altresì, M. TAVASSI - M. SCUFFI, Diritto processuale antitrust, op. cit., p. 310 ss. Sul profilo del nesso causale: P. CASSINIS - P. FATTORI , op. cit., p. 425; M. SCUFFI, Violazione della normativa antitrust e risarcimento del danno, in Dir. ind., 1999, p. 153; C. OSTI, Abuso di posizione dominante e danno risarcibile, cit., p. 113 ss. 163 Favorevole ad un’applicazione analogica all’azione risarcitoria da illecito antitrust della disposizione dell’art. 2600, comma 3, cod. civ., che, nella corrispondente azione in materia di concorrenza sleale, sancisce una presunzione di colpa, è M. LIBERTINI, Il ruolo del giudice nell’applicazione del diritto antitrust, cit., p. 674, il quale riconosce una “unitarietà sistematica e funzionale” tra le due discipline tale da giustificare l’operazione. Dello stesso avviso è pure M. TAVASSI, Il giudizio di merito antitrust ed il processo di concorrenza sleale, in Diritto processuale antitrust, op. cit., p. 310; L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 1459 s. Contra, M. SCHININÀ, Responsabilità per attività d’impresa, in Trattato di diritto privato europeo, a cura di N. Lipari, vol. IV, Padova, 2003, pp. 611-612.

176

condotta deve ritenersi in re ipsa; allorché, viceversa, la vocazione

anticoncorrenziale dell’atto venga dal legislatore ricavata, in via tipica, dal suo

contenuto (lettere a), d) ed e) dell’articolo 2, lettere a), c) e d) dell’articolo 3), ad

integrare l’elemento soggettivo dell’iniuria basterà la consapevolezza della

ricorrenza di un tale contenuto, non rilevando né la rappresentazione, né la

specifica volizione di uno scopo o di un effetto”165.

Più controverso, di contro, è il profilo del nesso causale, ossia del vincolo

eziologico intercorrente fra la partecipazione ad un’intesa diretta ad alterare le

condizioni di mercato ed il danno lamentato dal consumatore per effetto della

variazione.

Come osservato in dottrina, infatti, l’indubbia attitudine dell’illecito

concorrenziale a propagarsi secondo lo schema della reazione a catena - esaltata dal

livello crescente di mercati integrati e dalle operazioni cosiddette “conglomerali”,

che toccano cioè diversi settori - suggerisce l’impiego di criteri di causalità il più

possibile rigorosi, “onde evitare un uso distorto delle opportunità di tutela offerte

dall’art. 33, comma 2”166. In linea di principio, quindi, si considera come danno

risarcibile solo quello patito dal diretto destinatario della condotta infrattiva, con la

tendenziale esclusione del danno mediato.

Sul punto si chiarisce peraltro che la sfera dei destinatari diretti del torto non

viene necessariamente ad esaurirsi in quella del destinatario immediato o visibile

dell’atto167.

In proposito occorre infatti operare una distinzione fra due differenti ipotesi, a

seconda che sussista o meno un livello intermedio tra chi aderisce all’intesa ed il

consumatore finale; se infatti in entrambi i casi quest’ultimo risente comunque degli

164 L’osservazione è di M. LIBERTINI, Il ruolo del giudice nell’applicazione del diritto antitrust, cit., p. 674. 165 L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 1460. 166 L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 1455. 167 In ogni caso, la dottrina e la giurisprudenza sono concordi nel ritenere infondate le pretese risarcitorie di eventuali terzi che, pur intrattenendo con la vittima dell’illecito rapporti economici e dunque potendo risentire del calo dei profitti e della minore disponibilità alla spesa del cliente, occupano una posizione “eccentrica rispetto alla sequenza causale”, collocandosi al di fuori della traiettoria offensiva dell’illecito e subendo quindi un danno soltanto indiretto. In questo senso, ad esempio, L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 1455; M. TAVASSI - M. SCUFFI, Diritto processuale antitrust, op. cit., p. 303.

177

effetti negativi del comportamento anticoncorrenziale, tuttavia il nesso causale si

atteggia diversamente.

Ove il consumatore contratta direttamente con chi ha aderito all’intesa, pare

difatti da non dubitare la sussistenza di un nesso eziologico fra l’accordo

anticoncorrenziale e la ripercussioni di quest’ultimo nella sfera giuridica del

consumatore168.

Più controversa è invece la ricostruzione del nesso causale nella diversa ipotesi

in cui vi siano uno o più operatori economici intermediari che si frappongono fra gli

autori dell’intesa ed il consumatore a valle169.

In tale eventualità, il soggetto posto a livello intermedio è infatti sostanzialmente

chiamato a dover scegliere fra due differenti politiche commerciali: o farsi

interamente carico del divario di prezzo determinato dalla pratica antitrust in

maniera tale che il consumatore risulti indenne dalla stessa, oppure, come

solitamente accade, scaricare in tutto o in parte sull’acquirente a valle i maggiori

costi.

Rispetto a quest’ultima ipotesi, parte della dottrina ha in vero ravvisato una sorta

di automatismo che permetterebbe di affermare la sussistenza del nesso casuale,

giuridico e materiale, fra il comportamento dell’imprenditore a monte ed il danno

causato, anche tramite l’operato degli intermediari, al consumatore a valle170.

Il vero ostacolo alla protezione giudiziaria del consumatore risiede quindi nella

concreta difficoltà di ravvisare il necessario nesso teleologico tra la condotta

168 Cfr. P. CASSINIS - P. FATTORI, op. loc. cit. 169 Cfr. L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 1455 ss. 170 A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 322, osserva a riguardo che “se infine si ritiene convincentemente dimostrato che nelle catene verticali di produzione-distribuzione si verifica, nel medio periodo, nella grande maggioranza dei casi, un quasi automatico effetto di traslazione del danno da parte degli anelli intermedi della catena a carico di coloro che si trovano in fondo alla catena stessa (in buona sostanza gli utilizzatori finali e i consumatori), non si può non concludere che, salvo casi eccezionali, quest’ultimi devono essere i soggetti legittimati a promuovere l’azione risarcitoria”. Si veda anche S. BASTIANON, Violazione della normativa antitrust e risarcimento del danno, cit., p. 557, secondo cui non può contestarsi “che l’aumento del prezzo operato dall’intermediario non sia idoneo ad interrompere il nesso causale tra l’originario incremento da parte del produttore e il danno risentito dal consumatore, posto che l’aumento di prezzo effettuato dal rivenditore è solo apparentemente frutto di un’autonoma e libera scelta imprenditoriale”. Cfr., altresì, M. ORLANDI, op. cit., p. 986.

178

anticoncorrenziale iniziale e l’evento dannoso riverberatosi sugli ultimi anelli della

catena distributiva.

Esiste peraltro un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale (formatosi

soprattutto in materia infortunistica) in forza del quale nel risarcimento del danno da

illecito vanno ricompresi anche quei danni mediati ed indiretti che si presentino

come effetto normale del fatto stesso, cioè come conseguenza ordinaria e naturale

cui il fatto medesimo ha dato origine in base al principio di regolarità causale.

Ma una simile evenienza nella fenomenologia antitrust pare tutt’altro che

agevole da dimostrare.

Anche in merito alla determinazione del quantum debeatur la dottrina ha

lungamente dibattuto.

A onor del vero, infatti, il problema della quantificazione del danno si presenta

assai più complesso di quanto un’analisi superficiale potrebbe indurre a pensare.

In linea generale, non v’è dubbio che le regole applicabili in materia di

determinazione del danno da fatto illecito trovino applicazione anche al danno

antitrust (per la liquidazione del danno, gli artt. 1223 o 1226171 cod. civ.; l’art. 1227

cod. civ. in caso di concorso del fatto colposo del danneggiato, il tutto in base al

richiamo operato dall’art. 2056 cod. civ.), e che la misura del risarcimento debba

estendersi a coprire tanto il danno emergente quanto il lucro cessante172.

Tuttavia, si osserva che la grande varietà di ipotesi in cui le pratiche

anticoncorrenziali possono concretizzarsi, unitamente alla richiamata pluralità di

soggetti su cui le condotte infrattive possono andare ad incidere, determina di fatto

l’impossibilità pratica di affidarsi ad un unico criterio di ordine generale, per questa

ragione suggerendo la ricerca di rego le flessibili in rapporto ai profili sia soggettivi

che oggettivi di ogni singola fattispecie 173.

171 In merito al criterio equitativo di cui all’art. 1226 cod. civ., M. TAVASSI - M. SCUFFI, Diritto processuale antitrust, op. cit., p. 323, notano la mancata elaborazione da parte della giurisprudenza di modelli uniformi per la liquidazione del danno. 172 Mentre la determinazione della prima voce si ritiene non sollevare particolari difficoltà, più problematica si presenta la ricostruzione della seconda voce di danno, cioè del lucro cessante. La stima in questo caso è infatti correlata alla mancata percezione di un profitto di impresa e dunque ad un decremento di fatturato eziologicamente riferibile all’altrui azione illecita. Di questo avviso M. TAVASSI - M. SCUFFI, Diritto processuale antitrust, op. cit., p. 314. 173 Cfr. M. TAVASSI - M. SCUFFI, Diritto processuale antitrust, op. cit., p. 315.

179

Il dato su cui riflettere, nella specie, è che in caso di fissazione di un prezzo

sovra-concorrenziale ogni pretesa tesa a calcolare il danno subito dalla vittima in

termini di differenza tra il prezzo sovra-competitivo e quello che si sarebbe

determinato sul mercato in assenza della manovra illecita (ossia, il probabile market

price), si scontra inevitabilmente con il fatto che il prezzo di mercato non è un dato

esogeno, che esiste a prescindere dai complessi meccanismi che regolano il

funzionamento di un dato settore, ma è, al contrario, il prezzo che viene a

determinarsi in virtù dell’operare congiunto di fattori talmente numerosi e

diversificati da rendere approssimativo qualunque tentativo di definizione in vitro174.

Ad esito del dibattito, si riscontra sul punto che la posizione attualmente

condivisa - anche sulla scorta del criterio del but-for condition elaborato sull’altra

sponda dell’Atlantico - ruota attorno alla convinzione che “(per il danno subito dal

consumatore a causa del sovrapprezzo) ci si affiderà ad un metodo di comparazione

ipotetica che abbia riguardo, cioè, alla situazione quale si sarebbe prospettata in

assenza dell’illecito”175.

174 A riguardo si veda S. BASTIANON, Il risarcimento del danno per violazione del diritto antitrust in Inghilterra e in Italia, cit., p. 1073 ss. 175 Così L. NIVARRA, La tutela civile…, op. cit., p. 1459. In merito si veda anche S. BASTIANON, Violazione della normativa antitrust e risarcimento del danno, op. cit., p. 561 ss. e M. TAVASSI - M. SCUFFI, Diritto processuale antitrust, op. cit., p. 315. Osservazioni di diverso segno si riscontrano in L. DELLI PRISCOLI, I controlli sui prezzi nei contratti d’impresa, op. cit., p. 93 ss., con riguardo all’applicazione della legge n. 281/98. Secondo l’Autore, infatti, il giudice, nel tutelare il diritto del consumatore all’equità nei rapporti contrattuali, “nella verifica dell’assetto contrattuale riguardante il prezzo dei beni o dei servizi, potrà fare riferimento ad un prezzo di mercato effettivamente esistente in un dato momento storico, ma non anche ad un ipotetico prezzo di mercato che si formerebbe in una situazione di concorrenza perfetta (…) (essendo) tale compito già attribuito all’Autorità garante della concorrenza e del mercato”. Con riguardo al caso assicurativo affrontato con la sentenza n. 17475/2002, A. GUARNERI, Cartello degli assicuratori e tutele degli assicurati: aspettando le Sezioni Unite, op. cit., p. 498 ss., osserva criticamente che le numerose pronunce dei giudici di pace coinvolti sulla questione della risarcibilità del danno (tra cui si vedano, ex multis: Giudice di Pace di Acquaviva delle Fonti, 12 dicembre 2000, in Resp. civ. e previd., 2003, p. 359 ss.; Giudice di Pace di Casoria, 12 febbraio 2003, in Foro it., 2003, I, p. 2192 ss.; Giudice di Pace di Bari, 18-29 novembre 2003, inedita; Giudice di Pace di Avellino, 30 aprile 2002), che hanno quantificato la pretesa risarcitoria e/o restitutoria esperita dal singolo assicurato contro la compagnia di assicurazione aderente al cartello (in misura pari, di regola, al venti per cento del premio di polizza pagato) si fondano sul provvedimento sanzionatorio dell’Antitrust, considerandolo “fatto generatore del sovraprezzo indebitamente pagato per tale misura”, senza procedere ad un concreto accertamento del rincaro medesimo. Sul punto M. LIBERTINI, Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme antitrust, cit., p. 673, osserva inoltre che, nella (rara) ipotesi di azione di danni da parte dei consumatori, si pone tra l’altro il problema di evitare doppi o multipli risarcimenti per uno stesso fatto: ad esempio, un prezzo eccessivo potrebbe essere stato considerato già oggetto di danno risarcibile a favore del fornitore intermedio e successivamente liquidato nuovamente anche a favore

180

Sul punto, di grande ausilio si rivela pure il ricorso alla consulenza tecnica.

Quanto invece alla prescrizione, il termine è quello stabilito in via generale

dall’art. 2947 cod. civ. per il risarcimento da illecito extracontrattuale (cinque anni).

Va inoltre osservato che le diverse interpretazioni fornite in merito alla norma

che legittima l’azione risarcitoria, oltre ad incidere in maniera rilevante sul piano

sostanziale, comportano significative conseguenze a livello processuale.

La scelta del percorso si riflette infatti nell’individuazione del giudice

competente, assumendo un ruolo tutt’altro che secondario in merito all’efficacia

della tutela medesima.

Così, nel caso in cui si faccia ricorso all’art. 33, comma 2, della legge n.

287/1990, il giudice designato sarà la Corte d’Appello territorialmente competente;

ove invece si applichi l’art. 2043 cod. civ., in relazione al disposto dell’art. 1,

comma 2, della legge n. 281/1998, la competenza sarà determinata per valore

secondo quando previsto dagli artt. 7 ss. c.p.c.

Tali affermazioni, peraltro, richiedono di valutare attentamente quella che

potrebbe dirsi la “sopportabilità” dei costi della tutela, la cui problematicità non

potrebbe che essere sciolta alla luce di principi di ragionevolezza 176.

Come rilevato in dottrina, “l’azione di risarcimento del danno nell’ambito degli

strumenti sanzionatori per le violazioni della normativa antitrust, infatti, che in

linea teorica può avere una grande importanza, può vedere nella pratica una

rilevanza molto più ridotta (…). I motivi di tale scarsa efficacia sono noti: la

costosità dell’azione, l’irrisorietà del danno subito dal singolo, la difficoltà

probatoria (sia in relazione al danno, sia con riguardo al nesso causale tra questo e

la violazione)”177.

del consumatore. Il problema, lungamente discusso oltreoceano, non pare poter trovare le medesime conclusioni nel nostro ordinamento, ove il rimedio risarcitorio, diversamente dal sistema americano, non svolge una funzione deterrente e sanzionatoria, ma esclusivamente compensativa. 176 Cfr. R. PARDOLESI, Clausole abusive (nei contratti con i consumatori): una direttiva abusata?, in Foro it., 1994, V, p. 139 ss., secondo cui “(…) il problema sta proprio nella misura: vale a dire nella ponderazione dei costi amministrativi cui si va incontro scegliendo un parametro generalissimo, che dilata il raggio dell’intervento innescando l’apparato di controllo anche quando non ve ne sarebbe bisogno”. 177 Così A. TOFFOLETTO - A. STABILINI, Tutela giurisdizionale collettiva dei diritti dei consumatori e legge “antitrust”, op. cit., p. 245.

181

A questi aspetti deve inoltre aggiungersi che, nella maggior parte dei casi, le

pratiche limitative della concorrenza sono realizzate da operatori economici che

intrattengono relazioni negoziali con una pluralità indistinta di consumatori

attraverso il ricorso a moduli contrattuali uniformi (per cui si rinvia al Capitolo I) e

all’inserimento di clausole standardizzate riproducenti il contenuto delle strategie

d’impresa concordate a monte178.

Ciò comporta, quale conseguenza, una frammentazione del danno tra una

moltitudine di soggetti, scoraggiati nel formulare doglianze individuali tanto dagli

elevati costi processuali quanto dalla mancanza, nel nostro ordinamento, di

meccanismi di coesione delle diverse azioni risarcitorie quali le class actions, da

taluni indicate quale istituto idoneo ed opportuno a colmare il deficit di tutela delle

pretese dei consumatori riscontrato nella legge antitrust179 (e di cui meglio diremo

nel Capitolo III).

Per queste ragioni, parte della dottrina ritiene la via definita dalla legge n. 281/98

più favorevole al consumatore, non solo per i bassi costi processuali, ma anche in

virtù della tutela collettiva, oltre che individuale, assicuratagli dall’art. 3 del

medesimo testo normativo180.

Trattandosi di fenomeni che evocano il contenzioso di massa - tanto da indurre

il legislatore ad intervenire con il D. Lgs. n. 63/2003 novellando l’art. 113, comma

178 In proposito, P.G. MONATERI, I “mass torts”: dalla r.c. al contratto “politico”, in Resp. civ. e previd., 2003, p. 13 ss., osserva come tale danno rientri a pieno titolo nell’ambito dei mass torts. 179 Sugli aspetti generali delle class actions, v. P. RESCIGNO, Sulla compatibilità tra il modello processuale della “class action” ed i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano, in Giur. it., 2000, V, p. 2224 ss. 180 La legge n. 281/98, infatti, riconosce alle associazioni dei consumatori e degli utenti inserite nell’art. 5 la legittimazione ad agire a tutela degli interessi collettivi, in particolare chiedendo all’autorità giudiziara ordinaria provvedimenti diretti ad inibire atti e comportamenti “lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti”. A favore del ricorso alla legge n. 281/98, si veda A. MONTELERO, “Per qualche lira in più” o del danno al consumatore nei contratti a valle di un’intesa anticoncorrenziale, op. cit., pp. 348-351, secondo il quale, poiché in genere l’entità del danno subito dai consumatori è di importo limitato - poiché la differenza tra il prezzo pagato per effetto dell’intesa ed il prezzo concorrenziale non è solitamente elevata - il fondamento della domanda giudiziale sulla legge n. 281/98 risulterà più vantaggioso per il consumatore, in quanto, dato il basso valore della causa, il processo si svolgerà dinanzi al giudice di pace, con notevole risparmio di spese giudiziarie; in giurisprudenza, cfr. Giudice di Pace di Lecce, sentenza del 30 gennaio 2003, citata. Contra, M. LIBERTINI, Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust (II), in Danno e resp., n. 3/2005, p. 244, il quale contesta, attesa la specialità delle norme antitrust rispetto alle regole generali a tutela dei consumatori poste dalla legge n. 281/98, la possibilità di un ricorso alternativo del consumatore

182

2, c.p.c. - è infatti agevole cogliere il limite delle regole processuali civili ordinarie,

le quali “non riescono a far fronte se non molto imperfettamente alla complessità

delle situazioni processuali determinate dagli illeciti a grande scala”181 .

La legge n. 281/98, difatti, riconoscendo in via generale la legittimazione ad

agire delle associazioni dei consumatori e degli utenti, “sembra dunque aver aperto

nuovi orizzonti alla tutela giurisdizionale di tali formazioni sociali anche in questo

decisivo settore di conflittualità economica”182.

Ciò che il ricorso in via associata garantisce, diversamente dall’azione

individuale, è difatti la possibilità di far fronte ai costi processuali ed alle difficoltà

nell’assolvimento dell’onere probatorio che, di regola, costituiscono per il singolo

consumatore un ostacolo insormontabile183.

ad un’azione di risarcimento ex art. 33 legge n. 287/90 o ai sensi della legge n. 281/98 (con diversità di giudici competenti). 181 Le parole sono di P.G. MONATERI , op. ult. cit., p. 19. 182 Così M. SCUFFI, Azione collettiva in difesa dei consumatori: legittimazione e tecniche processuali, in Dir. ind., 1999, p. 153. 183 Sul punto si deve inoltre considerare la modifica dell’art . 113 c.p.c. attuata con il già richiamato “decreto salvacompagnie”. Con l’esclusione del giudizio secondo equità del giudice di pace per le cause inerenti i contratti conclusi mediante moduli o formulari di cui all’art. 1342 cod. civ., viene infatti introdotto una sorta di “dissuasore” nei confronti dei consumatori dal far valere pretese risarcitorie. La non applicabilità dell’art. 339, comma 3, c.p.c. - che prevede l’inappellabilità delle sentenze del giudice di pace ove pronunciate secondo equità - e la conseguente introduzione di un ulteriore grado di giudizio per la cause menzionate, comporta infatti anche a carico dei consumatori ulteriori costi processuali.

183

CAPITOLO III

CONCORRENZA E MERCATO: PROSPETTIVE EVOLUTIVE

1. La possibilità di una ricostruzione alternativa

La difficoltà di individuare la natura del rapporto esistente tra infrazione

anticoncorrenziale e contratto a valle e la conseguente divaricazione degli esiti

dell’indagine relativa alla possibilità di estendere la nullità di cui all’art. 2, comma 3,

della legge antitrust anche all’attività negoziale in cui l’illecita collusione trova

concreta attuazione, ha esortato la ricerca di ulteriori possibili percorsi.

L’insoddisfazione manifestata verso quelle ricostruzioni che individuano nel

rimedio risarcitorio l’unica soluzione (a diverso titolo) possibile a tutelare la

controparte debole dell’atto a valle e a garantire contestualmente il pieno

funzionamento del regime concorrenziale, nasce in particolare dalla sensazione che

una completa adesione alla logica parcellizzante che sembra caratterizzare le tesi

esposte nel Capitolo II - nella pretesa di rivolgersi all’intesa restrittiva come ad un

micro-cosmo completamente avulso dai suoi momenti attuativi (i contratti a valle) -

rischi di indurre a sottovalutare, nel timore di allontanarsi troppo dalle radici e dai

principi della nostra tradizione giuridica, le peculiarità del diritto antitrust e dei

fenomeni da esso regolati.

Accanto all’orientamento (tuttora prevalente in dottrina, ma parzialmente

disatteso dalla giurisprudenza di legittimità più recente1) - caratterizzato da un

particolare afflato sistematico e di cui non si discute la fondatezza e l’utilità - che

nega la possibilità di ravvisare una qualunque interazione tra l’intesa ed il successivo

1 Si veda a riguardo Cass., SS. UU., 7 febbraio 2005, n. 2207, cui si dedicherà ampio spazio nei paragrafi che seguono.

184

contratto (e dunque la possibilità di una ricaduta dell’illecito anticoncorrenziale sui

rapporti negoziali sottostanti in termini di invalidità) e che, contestando la possibilità

di forzare il dato normativo sino al punto di configurare un qualche vizio del

consenso, incentra il sistema di tutela del contraente a valle nel regime normativo

del risarcimento del danno, si è infatti proposta una nuova e diversa ricostruzione del

problema.

La tendenza a circoscrivere il disegno cospiratorio al solo momento a monte,

escludendo definitivamente la possibilità di ammettere che la nullità dell’accordo si

propaghi alle singole fattispecie negoziali a valle - in adesione ad una visione

fondata sul presupposto dell’impossibilità di ravvisare un vincolo giuridicamente

rilevante tra l’intesa e le sue proiezioni comportamentali - comporta infatti, secondo

alcuni autori, il rischio di allontanare l’analisi dal vero2.

Muovendo dalla logica empirica e dalla impostazione di tipo economico che

ispira l’analisi antitrust (tanto nazionale quanto comunitaria, sempre più vicina ai

criteri di valutazione impiegati dalle Corti statunitensi3), si propone dunque di

guardare all’interazione tra collusione e rapporti negoziali successivi alla stregua di

una fattispecie complessa.

Il dato su cui si riflette, in particolare, è che sovente, “… quello che si suole

definire contratto a valle è in realtà ancora intesa vietata (…). L’intesa, alquanto

rarefatta e difficilmente afferrabile nel mero scambio di informazioni private (in cui,

nella fattispecie concreta, si incarnava l’illecito), trova sicura manifestazione

2 R. PARDOLESI, op. ult. cit.; C. LO SURDO, Il diritto della concorrenza tra vecchie e nuove nullità, cit.; con riguardo al caso RC Auto anche U. VIOLANTE, Illecito antitrust e azione risarcitoria, in Danno e resp., n. 1/2005, p. 15. In giurisprudenza si veda ancora Cassazione, SS.UU., n. 2207/05, citata. 3 La svolta radicale nella messa in opera della normativa comunitaria della concorrenza - interpretata ed applicata con il Regolamento n. 1/2003 tenendo presente principalmente l’impatto sul mercato delle situazioni e dei comportamenti considerati - è enunciata nelle già richiamate Linee direttrici per la valutazione degli accordi verticali, in cui si adotta espressamente un approccio economico: “Nell’applicare le regole di concorrenza comunitarie, la Commissione applica un’impostazione di tipo economico, basata sugli effetti sul mercato” (punto 7). Per un’analisi delle ultime tendenze evolutive nel diritto comunitario della concorrenza si veda: E. GENTILE, La svolta di inizio millennio del diritto comunitario della concorrenza: il nuovo approccio economico, la semplificazione delle norme, la cooperazione internazionale e la modifica del regolamento 17/62, in Contr. e impr./Eur., n. 2/2000, p. 557 ss., il quale sottolinea che con questo nuovo approccio la valutazione concorrenziale si

185

fenomenica nei contratti apparentemente a valle, in realtà essi stessi

comportamento anticoncorrenziale”4.

Superando la distinzione e separazione di piani lungo i quali la questione è stata

sinora riguardata dalla dottrina e dalla giurisprudenza maggioritarie, si sottolinea

infatti che, “anche ammettendo, senza davvero volerlo concedere, che l’istituto

contrattuale possa essere riguardato alla stregua di una monade separata rispetto

alla realtà economica cui si rapporta, sarebbe a dir poco controintuitivo imporre

una soluzione di continuità ad un livello, quello della cospiracy, che ha senso

pratico e dispiega le sue conseguenze negative solo in quanto si traduca

operativamente nei contratti di mercato che si vorrebbero separati, autonomi ed

indifferenti alla matrice da cui originano”5.

Il punto di partenza di questa lettura, ed il dato che si ritiene (a ragione) di non

dover sottovalutare, è che l’intesa “non dà vantaggi immediati ad alcuna delle parti,

ma attraverso la successiva attuazione, finisce indirettamente con l’avvantaggiare

tutte le parti. In questo caso, la funzione del contratto non si esaurisce con

l’esecuzione delle obbligazioni delle parti, la quale costituisce, invece, la premessa

d’una attività ulteriore, la cui realizzazione rappresenta la finalità del contratto e

l’interesse delle parti” 6.

La ricostruzione teorica è poi suffragata dall’analisi della prassi

giurisprudenziale, la quale, in effetti, presenta casi in cui sembra difficile poter

circoscrivere l’intesa quale realtà compiuta e definita rispetto alla successiva attività

contrattuale, tanto da indurre alcuni autori a proporre una differenziazione dei casi in

è spostata dalla lettera degli accordi ai loro effetti concreti, che devono essere valutati con criteri economic i analoghi a quelli introdotti nel diritto antitrust americano dalla Scuola di Chicago. 4 Così E. SCODITTI, Il consumatore e l’antitrust, cit., p. 1129. 5 Così, ancora, R. PARDOLESI, op. ult. cit., p. 471, il quale, critico nei confronti di un’ottica “risolutamente panprivatistica”, osserva che la problematica debba essere inquadrata nei termini di una pratica complessivamente illecita, “cui afferiscono come parte saliente - se si preferisce, proiezione comportamentale - i contratti attuativi del disegno cospiratorio, altrimenti destinato a rimanere confinato al livello delle prave intenzioni”. Nel mettere in luce la presenza di un legame di “strumentalità necessaria” tra intesa a monte e contratti a valle, l’Autore aggiunge infatti che “quanto più abbia a maturare il convincimento circa l’atteggiarsi del diritto antitrust a strumento di completamento del diritto civile, tanto più tenderà a rivelarsi sterile l’idea di scavare un solco tra dimensione negoziale e ricaduta effettuale, in termini antitrust, di un’intesa finalizzata a danneggiare il consumatore”. 6 G. GIOIA, Vecchie intese e nuove nullità, op. cit., p. 12.

186

cui l’illecita concordanza di comportamenti è ontologicamente distinguibile dal

contratto singolo (o, più realisticamente, dalla serie di contratti che vi fanno seguito)

da quelli in cui, al contrario, la vicenda negoziale e l’illecito antitrust possono

configurarsi strutturalmente come un unicum, ovvero non come realtà separate ed

autonome ma quali fasi costitutive e cronologicamente successive di una medesima

fattispecie7.

In queste ultime ipotesi, infatti, scindere la complessiva condotta dell’impresa in

due momenti distinti da sottoporre eventualmente a due destini diversi, sembra

costituire per alcuni autori, almeno in taluni casi, una forzatura lontana dalla realtà

dei fatti8.

Lo sforzo ricostruttivo sotteso a questa ricostruzione ermeneutica, in particolare,

viene sostenuto con l’intento di cogliere l’effettiva essenza di operazioni di mercato

(quali le intese) estremamente complesse - in relazione alle quali il singolo contratto

esprime solo parzialmente l’assetto di interessi concreto cui la singola impresa

collusa mira - evidenziando al tempo stesso rispetto a quale situazione deve essere

valutata l’esigenza di protezione del contraente debole e di apertura competitiva del

mercato.

1.1. Il contratto a valle come elemento costitutivo della fattispecie anticoncorrenziale

Sulla base di queste premesse viene quindi proposta una diversa impostazione del

rapporto tra intesa a monte e contratto a valle (terminologia, questa, di cui peraltro

dovrebbe postularsi il superamento, attesa la prospettazione di una condivisione di

7 Così, in particolare, C. LO SURDO, Il diritto della concorrenza tra vecchie e nuove nullità, cit., p. 175 ss. 8 Sotto questo aspetto, come evidenzia C. LO SURDO, Il diritto della concorrenza tra vecchie e nuove nullità, cit., p. 175 ss., devono considerarsi in particolare quelle ipotesi in cui le imprese non si limitano a concordare linee di azione comuni - da adottare poi individualmente nei rispettivi rapporti commerciali con la clientela, trasponendole nel contenuto dei contratti da stipulare con le proprie utenze - ma in cui l’illecito coordinamento delle imprese ha direttamente luogo per l’aggiudicazione del ruolo di parte negoziale. A questo proposito, si veda da ultimo il provvedimento AGCM del 13 giugno 2002, n. 10831, relativo al c.d. caso Buoni-pasto, in cui la violazione anticoncorrenziale contestata - come accade di sovente specie nel settore degli appalti pubblici - alle imprese ha ad

187

livello tra i due momenti, non disgiunti ma operanti su di un medesimo piano),

fondata in particolare sul presupposto in base al quale è la stessa stipulazione

dell’atto negoziale e la conseguente assunzione di impegni contrattuali a dover

essere interpretata quale frutto dell’illecita collusione 9.

Il nesso tra determinazione a monte e vicenda negoziale a valle - che spesso si

traduce, ancor prima che in un’alterazione del regolamento pattizio, in una

distorsione del meccanismo di scelta del soggetto imprenditoriale con cui il cliente

(sia esso consumatore o professionista) si trova ad interloquire in veste di

controparte contrattuale - viene dunque ricostruito guardando ai due termini del

problema alla stregua di un rapporto unitario 10.

I rapporti negoziali stabiliti dalle imprese concertanti con la rispettiva clientela

vengono infatti intesi, in virtù di un vincolo di strumentalità necessaria, quale vera e

propria parte integrante dell’infrazione concorrenziale: il contratto (o meglio, la serie

di contratti per lo più standardizzati) che lega a valle l’impresa all’utente finale

(consumatore o professionista) verrebbe in particolare a costituire lo strumento

attraverso il quale la prima attualizza l’oggetto del programma concertato con i suoi

pari e, nella misura in cui consente alle imprese concertanti di trarre concretamente i

oggetto proprio l’alterazione della procedura di gara, finalizzata (per sua natura) a selezionare il contraente rivelatosi più idoneo all’aggiudicazione della fornitura dei buoni. 9 L’ipotesi di inquadrare intesa e contratti a valle quali parti di una pratica complessivamente illecita e dunque nulla sembra formulabile, anche secondo R. PARDOLESI, op. ult. cit., p. 471, proprio con riguardo ai c.d. fruit contracts, ovvero a quei contratti in cui una parte è costretta ad accettare condizioni che l’altra è in grado di imporre proprio sulla scorta di una precedente intesa o della posizione di dominanza di cui beneficia. 10 Sul punto, si veda F. BOCCHINI, Nozione di consumatore e modelli economici, cit., p. 27, il quale sottolinea appunto che la tutela del consumatore si svolge ormai verso prospettive più ampie rispetto al dispiegarsi della singola vicenda contrattuale, da cui pure aveva tratto le prime sollecitazioni: “il referente della tutela del consumatore è evoluto dal contratto al mercato”. Soggiunge di seguito l’Autore, “(…) l’azione di tutela del consumatore non può esaurirsi nella osservazione della singola operazione economica e dunque nell’atto di scambio, ma deve involgere la stessa attività economica di impresa, garantendo sia standards di sicurezza dei prodotti e dei servizi offerti, sia corrette strategie di marketing. (…) Il contatto con il consumatore è ricercato dal produttore attraverso la pubblicità, sicché è sull’attività dell’impresa di produzione, prima ancora che sullo scambio operato dal rivenditore, che bisogna incidere per una efficiente tutela del consumatore”. Queste considerazioni, del resto, sono riconducibili alla circostanza che, ormai, la prospettiva dell’atto rappresenta solo “uno spaccato della dinamica commerciale”, poiché le determinazioni dell’atto riflettono “i più generali equilibri che si realizzano nei rapporti di mercato” (p. 28).

188

frutti della propria strategia d’azione, finirebbe inevitabilmente per assorbirne la

natura illecita11.

L’elemento su cui viene incentrata la lettura del problema è che l’attività

negoziale a valle è di regola funzionale alla realizzazione dell’assetto di interessi

determinato concordemente dalle imprese a monte, realizzazione che implica un

grado di complessità ed articolazione tale da indurre ad inquadrare l’infrazione

concorrenziale ed il successivo contratto a valle come due momenti reciprocamente

connessi.

In alcuni casi, come anticipato, si ritiene quindi errato concepire il contratto a

valle quale monade separata dalla realtà e dalle scelte economiche in cui esso va

complessivamente ad inserirsi. La sua esistenza, infatti, assumerebbe un senso

proprio in quanto consente di tradurre a livello operativo quanto idealmente stabilito

pattiziamente.

Al contratto a valle, concepito quale “strumento che conclude tale percorso

illecito” (i.e., l’intesa), si ritiene quindi di non poter attribuire “un rilievo giuridico

diverso da quello della intesa che va a strutturare, giacché il suo collegamento

funzionale con la volontà anticompetitiva a monte lo rende rispetto ad essa non

scindibile. (…) Nella delineata prospettiva dunque il contratto cosiddetto ‘a valle’

costituisce lo sbocco della intesa, essenziale a realizzarne gli effetti”12. Esso in

realtà, come le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno avuto modo di

osservare di recente, “oltre ad estrinsecarla, la attua”13.

11 Il rapporto di necessaria strumentalità che si viene a creare in alcuni casi tra illecito concorrenziale a monte e realtà negoziale a valle è ravvisata anche con riguardo a fattispecie antitrust di altra natura. Si fa il caso, in particolare, dello scambio di informazioni, pratica ritenuta normalmente lecita quando consiste in scambi di opinioni, esperienze, ricerche di mercato e dati statistici non direttamente riferibili alla singola impresa, e considerata invece illecita quando, per le caratteristiche e le modalità di esecuzione, il tipo e la frequenza dei dati trasmessi ai concorrenti, assume un contenuto strumentale per verificare l’attuazione di politiche commerciali comuni. Quest’ultima circostanza - come rileva A. FRISULLO, nota a Banca d’Italia, provv. 18 gennaio 2000, n. 31, in Foro it., 2000, III, p. 290 ss. - ricorre quando a costituire oggetto di scambio sono dati e notizie di carattere strategico, utili a definire anticipatamente la condotta altrui. Anche in questo caso, infatti, il vantaggio è destinato a tradursi in profitti sovra-competitivi. 12 Così, Cass. n. 2297/05, cui è dedicato ampio spazio nel par. 3 di questo Capitolo. Dello stesso avviso è pure M. SCHININÀ, La nullità delle intese anticoncorrenziali, op. cit., p. 436. 13 Cfr., Cass. n. 2207/05, citata.

189

A sostegno di questa tesi viene inoltre richiamato il rischio, ove effettivamente

intesa e contratto fossero posti su piani disgiunti e non comunicanti, di svuotare il

precetto dell’art. 2 della legge antitrust di qualunque contenuto sostanziale e di

privare di qualunque incidenza effettiva il principio del libero mercato.

Questo baluardo della democrazia economica, si osserva, deve infatti essere

tutelato non solo da quelle collusioni che portino nel loro grembo un carattere

intrinsecamente illecito, ma anche da quegli accordi che, pur leciti ab origine o

esentati ex art. 4, assumono un carattere antigiuridico proprio in forza delle ricadute

effettuali che li caratterizzano 14.

In un’interpretazione dell’art. 2 (e dunque dell’art. 81 del Trattato) quale norma

volta a vietare la realizzazione del risultato anticoncorrenziale, piuttosto che l’atto o

la pratica concordata isolatamente considerati, si ritiene quindi più corretto

ipotizzare un contrasto diretto tra la disposizione ed il negozio attuativo dell’intesa,

in quanto parte della più vasta situazione anticoncorrenziale che produce il risultato

vietato.

Il singolo contratto a valle, esecutivo dell’intesa a monte, concorre infatti a

determinare la situazione distorsiva della concorrenza vietata dall’art. 2, anzi talvolta

comportando direttamente - anche in ragione dell’uniformità che lo accomuna ad

altri contratti rientranti nel medesimo standard - l’effetto di alterazione della

struttura competitiva del mercato.

Il punto d’incontro tra quanto definito a monte ed il successivo contratto a valle

viene infatti individuato nella circostanza che, secondo lo “strumentario antitrust”,

l’indagine intorno all’intesa strictu sensu ed alla sua liceità deve essere svolta

secondo parametri ed elementi esterni rispetto al contenuto della collusione:

14 La possibilità è paventata anche da P. FATTORI - M. TODINO, La disciplina della concorrenza in Italia, op. cit., pp. 433-434. Dello stesso avviso è anche C. LO SURDO, op. ult. cit., p. 191, secondo la quale negare per definizione che la nullità possa ritenersi estesa anche all’attività negoziale conseguente alla congiunta determinazione a monte, “ponendo di fatto l’autore dell’illecito almeno sotto tale profilo al riparo dalla reazione dei soggetti con cui è entrato in rapporto d’affari, potrebbe provocare un pericoloso ridimensionamento delle norme poste a presidio del libero gioco della concorrenza”. La nullità, quindi, atteso il carattere sanzionatorio che - come condiviso da più che autorevole dottrina - la connota, svolgerebbe (almeno con riguardo ai contratti che costituiscono strumento di diretta integrazione dell’intesa) una funzione efficace per l’enforcement privatistico del principio concorrenziale.

190

quest’ultima, pur potendo essere di per sé lecita (si rammenti infatti che la

concertazione tra imprese concorrenti non è sempre e comunque illecita, ma solo là

dove essa integri la fattispecie dell’art. 2 e non benefici della esenzione di cui all’art.

4), è per l’appunto suscettibile di ricadere nel divieto previsto dalla legge n. 287/90

proprio in ragione del risultato concretamente realizzato o realizzabile sulla realtà

economica sottostante15.

La valutazione in termini di liceità/illiceità del comune piano strategico definito

da imprese altrimenti indipendenti viene quindi svolta avendo riguardo non al solo

momento concertativo a monte, ma in ragione dell’intero contesto economico e

giuridico nel quale l’accordo s’inserisce: si guarda dunque al grado di accessibilità

del mercato ed al livello di saturazione dello stesso, verificando anche il modo in cui

i contratti a valle incriminati (anche in ragione del loro carattere standardizzato o

meno) contribuiscono alla realizzazione dell’effetto anticoncorrenziale16.

Ciò fa sì, giova ripeterlo, che la causa di nullità dell’accordo concertativo, pur

riguardando la pratica nel suo aspetto funzionale, assuma quale punto di riferimento

15 Come sottolinea M. MELI, Autonomia privata, sistema delle invalidità e disciplina delle intese anticoncorrenziali, op. cit., p. 135, le intese vietate per effetto, proprio in quanto presuppongono un’indagine relativa al risultato prodotto o producibile, ripropongono la questione relativa alla trasponibilità, nel nostro ordinamento, del criterio di ragionevolezza di matrice statunitense (rule of reason). 16 Lo stesso discorso è svolto da M. SCHININÀ, La nullità delle intese anticoncorrenziali, op. cit., p. 421, con riguardo all’art. 81 del Trattato, rispetto al quale si osserva che il fondamento della declaratoria di nullità dell’intesa anticoncorrenziale non può essere ravvisato in un vizio intrinseco dell’atto, inerente alla sua struttura o al suo contenuto, ma nel fatto che l’atto, collocato in un determinato contesto di mercato e unitamente ad un insieme di elementi ad esso esterni, è idoneo a determinare la situazione distorsiva della concorrenza, producendo così il risultato vietato dall’art. 81. Con riguardo alla invalidità di derivazione comunitaria in generale ed alla rilevanza degli effetti che l’atto è in grado di produrre piuttosto che degli elementi attinenti alla sua struttura, si veda: N. LIPARI , Il ruolo del notaio nella nuova realtà delle nullità contrattuali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2002, p. 366, il quale sottolinea che “il controllo di legalità (ove rapportato all’atto di autonomia) non si esprime più nel raffronto tra il contenuto del contratto con il parametro legale, ma esige semmai di essere verificato a posteriori con riferimento al modo in cui gli effetti di quell’atto hanno inciso su sfere di interesse che l’ordinamento non può non tutelare”; V. SCALISI, Nullità e inefficacia nel sistema europeo dei contratti, op. cit., p. 498 ss., secondo il quale la nullità di derivazione comunitaria, affrancandosi dalla logica della fattispecie, “si atteggia fondamentalmente come nullità funzione, come nullità cioè che è e sta in diretto e immediato rapporto di congruenza e di corrispondenza con un determinato assetto di interessi, in ragione della natura degli stessi, della specifica posizione delle parti, dei beni e servizi negoziati”; P.M. PUTTI, voce “Nullità (nella legislazione di derivazione comunitaria), in Digesto, Disc. Priv., sez. civ., XVI, aggiorn., Torino, 2000, p. 685, il quale si sofferma sulla funzione della sanzione delle nullità di derivazione

191

elementi esterni e variabili rispetto al suo contenuto, tra cui si fanno ricadere quei

contratti che, pur animati da una propria logica interna, costituiscono il mezzo

attraverso il quale quanto statuito concordemente dalle imprese colluse si cala nella

realtà economica sottostante a concretizzarne il programma.

Il dato si ritiene evidente soprattutto con riguardo a quelle intese nelle quali il

disegno concertato si traduce a valle nella stipulazione di una serie indefinita di

rapporti negoziali i quali, se singolarmente considerati mostrano un’indole

apparentemente innocua ed irrilevante sul piano antitrust, acquistano invece un

rilievo non trascurabile ove il carattere standardizzato ed uniforme - e dunque

l’impiego generalizzato presso la clientela di ogni singola aderente (si pensi

soprattutto al settore assicurativo o a quello bancario) - conduca al c.d. effetto

cumulativo.

In altri termini, anche il singolo contratto a valle che, per sé considerato, non

presenta alcun elemento significativo in un’ottica di competitività del settore di

appartenenza, si ritiene possa, in ragione della particolare conformazione del

mercato di riferimento, contribuire a determinare cumulativamente con gli altri

contratti della medesima specie negoziale proprio l’effetto anticompetitivo (ad

esempio la ripartizione del mercato) avuto di mira dalle aderenti al pactum vietato

dall’art. 2 della legge n. 287/90, finendo quindi per soggiacere - alla stregua del

dettato normativo che collega la medesima invalidità tanto alle intese aventi per

oggetto quanto a quelle con effetto anticoncorrenziale - alla stessa sanzione 17.

comunitaria di colpire le attività in contrasto con l’obiettivo della realizzazione del libero mercato e della concorrenza”. 17 Cfr., ad esempio, Corte di Giustizia, 28 febbraio 1991, Delimitis, cit., p. 935, in cui la Corte afferma che “un contratto di fornitura di birra è vietato dall’art. 85, n. 1, del Trattato qualora ricorrano due condizioni cumulative. Occorre in primo luogo che, tenuto conto del contesto economico e giuridico del contratto oggetto della controversia, il mercato nazionale della distribuzione di birra nei pubblici esercizi sia difficilmente accessibile a concorrenti che potrebbero insediarsi in tale mercato o espandere ivi la loro quota di mercato. Il fatto che il contratto di cui trattasi faccia parte in tale mercato di un complesso di contratti analoghi, che producono un effetto cumulativo sul gioco della concorrenza, costituisce un fattore per valutare se un siffatto mercato sia effettivamente di difficile accesso. E’ necessario, in secondo luogo, che il contratto di cui trattasi contribuisca in modo significativo all’effetto di blocco prodotto dal complesso di questi contratti, nel loro contesto economico e giuridico. L’importanza del contributo del contratto individuale dipende dalla posizione delle parti contraenti sul mercato considerato e dalla durata del contratto”. Da qui nasce inoltre un interrogativo: come può un contratto nascere “sano” e divenire nullo per effetto di cause ad esso

192

In questo caso, infatti, “la causa di nullità si colloca, con tutta evidenza, al di

fuori dell’oggettività del negozio. L’intesa è vietata, cioè, per il suo concreto effetto

anticoncorrenziale o, quanto meno, per la sua idoneità a produrre un’alterazione

della struttura concorrenziale del mercato, senza che, in alcun modo, rilevi la

struttura del comportamento posto in essere o, addirittura, la volontà di produrre

l’effetto distorsivo della concorrenza”18.

A porsi direttamente in contrasto con la norma imperativa dell’art. 2 non è

quindi la funzione anticoncorrenziale dell’atto in sé considerata, bensì “la situazione

di fatto che consiste nel complesso dell’atto e di elementi ad esso esterni e che è

legata al contesto geografico e di mercato nel quale l’atto si inserisce”19.

Logica conseguenza di questo ragionamento - del quale sembra opportuno

tentare di definire i limiti in questa sede - è quindi un’applicazione estensiva al

contratto a valle, in quanto atto esecutivo dell’intesa, del divieto di cui all’art. 2 della

esterne e contingenti (la fissazione di un accordo a monte e la presenza di altri contratti di identico contenuto)? Al riguardo è stata proposta la soluzione della invalidità sopravvenuta, così come riferibile alle ipotesi di sopravvenienza di una legge che renda nulli i negozi precedentemente stipulati. La similitudine, rispetto alla nostra ipotesi, sarebbe ravvisabile nel fatto che in entrambi i casi il contratto a valle, al momento della sua formazione, presenta tutti i requisiti di validità; tuttavia esso finisce per rientrare nell’ambito di operatività di un divieto: nel primo caso per effetto di una legge sopraggiunta; nel secondo - che ci riguarda - in ragione di circostanze relative al mercato di riferimento ed al contesto in cui è inserito. Una similitudine, questa, che vale solo a precisare come il nostro ordinamento consenta la caducazione degli effetti di un contratto in dipendenza di fatti esterni o sopraggiunti rispetto alla sua stipulazione. Dato quindi che la lesione della concorrenza si può cogliere solo a livello di analisi del funzionamento dell’intero mercato rilevante, può accadere che nel corso della vita di un’intesa - che è, di regola, un contratto di durata - la lesione non si verifichi al momento iniziale, ma sopraggiunga nel corso dell’esecuzione del rapporto, anche per cause del tutto indipendenti dalla volontà delle aderenti. Così M. MELI, L’abuso di posizione dominante attraverso comportamenti aventi carattere negoziale: il caso Telepiù, cit., p. 318 ss. L’ipotesi è testualmente prevista nel Regolamento n. 2790/1999 CE, in materia di intese verticali, con riguardo al richiamato “effetto cumulativo” di più intese verticali indipendenti, che porti alla paralisi degli accessi al mercato per eventuali nuovi entranti (si pensi ai contratti di approvvigionamento esclusivo per i distributori di carburanti e simili). In questo caso, si verifica un’ipotesi testuale di invalidità successiva del contratto. Il caso, anche se più raramente, può presentarsi anche nell’ambito dell’esecuzione di un singolo contratto, come nell’ipotesi di un accordo di distribuzione esclusiva (a favore del distributore) per il lancio di un nuovo prodotto. In questo caso, pur potendo il contratto esplicare un effetto positivo sulla dinamica concorrenziale, qualora il prodotto abbia un notevole e rapido successo, la clausola di esclusiva potrà divenire ben presto la base per comportamenti monopolistici e per alterazioni del gioco concorrenziale. In ipotesi di questo genere, si deve quindi estendere la qualificazione in termini di invalidità successiva dell’intesa (a riguardo il diritto comunitario prevede infatti la possibilità di una revoca dell’esenzione per fatti sopraggiunti). 18 Così, M. SCHININÀ, La nullità delle intese anticoncorrenziali, op. cit., pp. 422-423. 19 Così, ancora, M. SCHININÀ, op. ult. cit., p. 425.

193

legge n. 287/1990 e del relativo regime sanzionatorio, ossia della nullità di cui al

comma 3.

Il parametro normativo cui ancorare la soluzione in termini di nullità dell’attività

negoziale intrattenuta dalle singole imprese colluse con i terzi ex 2, comma 3, della

legge n. 287/90, viene nella specie individuato proponendo una rigorosa lettura della

medesima disposizione e del rilievo da questa attribuito, nel vietare la conclusione di

intese sensibilmente restrittive della concorrenza, al profilo effettuale del pactum

cospiratorio 20.

La circostanza che il legislatore abbia inteso proibire non solo collusioni aventi

quali oggetto una consistente costrizione del meccanismo competitivo, ma anche un

effetto di questo genere (a prescindere dal contenuto dell’accordo) viene infatti

20 Come afferma G. OPPO, Costituzione e diritto privato nella “tutela della concorrenza”, op. cit., p. 546, l’antigiuridicità delle intese “non si coglie nella (sola) causa (a volte addirittura tipica e comunque non incompatibile con un giudizio di meritevolezza) ma nel concreto effetto (anticoncorrenziale) o meglio in una quantità dell’effetto”. M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, op. cit., p. 446, sottolinea che della disposizione dell’art. 2 è stata data per decenni, in diritto comunitario, un’interpretazione piuttosto lata. In sostanza, l’effetto anticoncorrenziale è stato fatto coincidere con la limitazione della libertà di iniziativa della singola impresa (ad esempio a fronte di una clausola di esclusiva), e non necessariamente con l’esistenza di una restrizione della concorrenza effettiva a livello complessivo di mercato. La soluzione - precisa l’Autore - “ha retto” perché contemporaneamente l’art. 81, par. 3, del Trattato CE è stato lungamente interpretato come attributivo di un potere della Commissione di esentare dal divieto le intese “utili” con propri provvedimenti discrezionali costitutivi, così consentendone un largo uso. Questa interpretazione è peraltro, secondo l’Autore, destinata a venire meno a seguito dell’attuazione del Regolamento n. 1/2003, con il quale l’esenzione di cui al par. 3 (la cui applicazione sarà conferita anche alle autorità nazionali) assume carattere non più costitutivo ma meramente ricognitivo. L’intesa, quindi, sarà ab origine e ope legis estranea al divieto quando il suo effetto, pur formalmente restrittivo della libertà di iniziativa economica di una o più imprese, sia positivo (o anche solo neutro) per lo sviluppo della concorrenza effettiva nel mercato, sulla base di indici di valutazione resi nota dalla stessa norma. In questa prospettiva, l’ambito di incidenza - e dunque le estreme ricadute - della nullità è quindi destinato ad essere fortemente ridotto. In merito alla necessità di abbandonare un approccio eccessivamente formale, a vantaggio di una analisi economica delle problematiche antitrust, si veda pure G. BRUZZONE, Riforma della politica comunitaria in materia di intese verticali. Verso un maggiore utilizzo dell’analisi economica, in Mercato, concorrenza e regole, n. 1/2000, la quale osserva che “Da alcuni anni (…) il tradizionale trattamento delle intese verticali nel diritto comunitario della concorrenza è venuto ad essere oggetto di diffuse critiche, incentrate sul suo eccessivo formalismo e sulla insufficiente considerazione delle indicazioni dell’analisi economica (…). Per quanto concerne l’antitrust in senso stretto, è stato rilevato che la nozione di protezione della concorrenza utilizzata nell’applicazione dell’articolo 81.1 ha spesso fatto riferimento alle limitazioni intersoggettive della libertà di azione delle parti, piuttosto che sull’impatto esterno sul mercato (…). Il dibattito (seguito alla pubblicazione del Libro Verde) ha confermato l’esistenza di un diffuso consenso circa l’esigenza di un approccio meno formalistico che non si limiti a una ricognizione delle clausole contenute negli accordi ma si incentri sul loro effettivo impatto sulla concorrenza e sugli scambi fra Stati membri”.

194

interpretato quale segno della possibilità di ravvisare, in alcune fattispecie, il

descritto rapporto di unitarietà tra i due momenti (accordo tra imprese e contratti a

valle) 21.

Attraverso un attento esame della conformazione concreta e della funzione che

l’intesa a monte è chiamata a svolgere dalle sue autrici, delle caratteristiche del

mercato in cui essa si colloca, del contenuto dell’attività negoziale sottostante

(standardizzata o meno), si ritiene infatti che non possa escludersi a priori la

possibilità che i rapporti contrattuali a valle, attraverso cui trova concreta attuazione

ed effettiva realizzazione il programma concertato, possano essere considerati alla

stregua di un elemento costitutivo della fattispecie vietata dall’art. 2 della legge

antitrust22.

E ciò perché, con riguardo alla illiceità per effetto, il dato discriminante idoneo a

qualificare l’accordo collusivo in termini di antigiuridicità discende non

dall’oggetto, e dunque dal contenuto di quanto uniformemente statuito in sede di

concertazione, ma dal profilo effettuale, ovvero dalla potenzialità insita in una

comune strategia di azione di tradursi sul piano concreto in una significativa

compressione del gioco concorrenziale.

La nullità antitrust, diretta ad ogni effetto a privare l’impresa di qualunque

beneficio derivante dall’accordo illecito, verrebbe quindi a colpire - sulla base di

una lettura estensiva della norma dell’art. 2 e a prescindere dal nesso intercorrente

21 In dottrina, il principio era riconosciuto già da P. AUTERI, Nullità e autorizzazione delle intese restrittive della concorrenza nella normativa antitrust nazionale, op. cit., p. 103, e da L.C. UBERT AZZI, Concorrenza e norma bancarie uniformi, op. cit., p. 101, il quale proponeva una “valutazione complessiva ed unitaria dell’accordo sulle n.b.u. e della serie di contratti uniformi”, entrambi quindi direttamente nulli ex art. 85 (ora 81) del Trattato. La preminenza di una valutazione di natura effettuale, sottolinea A. MIRONE, Standardizzazione dei contratti bancari e tutela della concorrenza, op. cit., pp. 111-116, si ravvisa in special modo con riguardo alle pratiche concordate, il cui addebito, attes ane la natura meramente fattuale, presuppone necessariamente l’attuazione del parallelismo di comportamenti. Non si addice cioè alle pratiche concordate un’anticoncorrenzialità predicata per lo scopo o per l’oggetto, bensì solamente per i suoi effetti, il che significa che ogni presunta sostituzione dei rischi della concorrenza con un consapevole parallelismo non può essere sanzionata se non solo dopo la sua effettiva messa in opera. Del resto, se funzione della figura è quella di sopperire alla mancanza di prove esplicite di una collusione negoziata, è evidente che il meccanismo occulto di coordinamento volontario va indirettamente svelato proprio a partire dalle caratteristiche anomale dei comportamenti di mercato. In questo senso anche Corte di Appello di Torino, 6 luglio 2000, in Danno e resp., n. 1/2001, p. 48 ss., con commento di S. BASTIANON. 22 Cfr. C. LO SURDO, op. cit.

195

tra le varie fasi di quella che è concepita come una medesima, più vasta sequenza di

fatti (l’accordo tra le imprese, la stipulazione dei contratti, la loro esecuzione) -

l’intesa nel suo complesso ed in ogni sua parte, atto a valle compreso.

Peraltro anche chi sostiene la possibilità di inquadrare il contratto a valle quale

elemento costitutivo della fattispecie illecita, non disconosce che l’immaginare una

nullità per effetto quale quella in questione sollevi qualche problema dal punto di

vista della riconduzione alle categorie civilistiche tradizionali23.

Ciò in quanto i parametri di riferimento su cui si basa una valutazione di liceità

del contratto a valle fondata su presupposti del tipo descritto sono affidati all’analisi

dei mercati e dunque ad elementi esterni rispetto a quelli deducibili dal contenuto

dell’accordo tra imprenditore colluso e terzo (rispetto alla concertazione) contraente.

Quest’ultimo atto negoziale verrebbe difatti in rilievo quale parte di una più ampia

fattispecie complessa costituita, oltre che dal comune state of minds, anche dal

mercato di riferimento e dai rapporti negoziali che in esso si svolgono 24.

Il rilievo si considera peraltro coerente con l’impostazione complessiva della

normativa antitrust la quale, attraverso l’allargamento del divieto (non solo al

momento più propriamente costitutivo del rapporto, ma) anche gli effetti, darebbe

mostra proprio di voler impedire i fatti restrittivi della concorrenza, in una visione

obiettiva dell’attività d’impresa, considerata nel suo profilo propriamente effettuale25

e non esclusivamente contenutistico.

La prospettiva ermeneutica sembra del resto già “intravista” ed anticipata dalla

emblematica sentenza 1° febbraio 1999, n. 827 (citata), con cui la Suprema Corte,

precorrendo quanto anche la dottrina sarebbe andata negli anni riscontrando,

enunciava alla stregua di un vero e proprio principio generale - ribadito, pur

all’interno di un obiter dictum, dalla Cassazione, 20 giugno 2001, n. 8887 - che la

nullità antitrust non investe (tendenzialmente) solo “l’eventuale negozio originario

23 Cfr. G. GIOIA, Vecchie intese e nuove nullità, op. cit. 24 Favorevole a questa lettura, L. DI VIA, L’invalidità dei contratti degli imprenditori, in Trattato di dir. priv. eur., a cura di N. Lipari, Padova, 2003, p. 635 ss. 25 N. BOBBIO, L’età dei diritti, Torino, 1990, osserva come il passaggio dalla proclamazione di principio all’effettività, anche in punto di tutela, dei diritti costituisca il profilo distintivo ed il compito specifico di ogni moderna democrazia.

196

postosi all’origine della successiva sequenza comportamentale, ma tutta la più

complessiva situazione, anche successiva al negozio originario”.

Sarebbe quindi lo stesso “armamentario normativo antitrust” e, prima ancora, il

principio di concorrenza effettiva26 che trova unanime riconoscimento, a segnalare

quale ruolo cruciale rivesta il dualismo oggetto/effetti dell’intesa nell’ambito dei

rapporti tra disciplina sostanziale ed apparato rimediale; binomio che, come già

evidenziato, acquista un rilievo tale da giustificare da un lato, ove ricorrano le

condizioni di cui all’art. 4, la concessione di temporanee esenzioni, dall’altro invece

la previsione di trattamenti “aggravati” per quelle condotte imprenditoriali che

rivelano un indole irrimediabilmente pregiudizievole per le dinamiche

concorrenziali e per questo vietate per se27.

26 Sul punto si rinvia alle considerazioni di M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, op. cit., p. 433 ss., il quale, criticando l’approccio della Scuola di Chicago (che intendeva la competizione tra imprese quale sinonimo di ottima allocazione delle risorse), sottolinea il fatto che la concorrenza (da intendere quale vero e proprio “bene giuridico”) debba essere ricostruita in senso dinamico, ovvero come processo , non come semplice situazione ottimale (la conferma si ritroverebbe nel riferimento al gioco concorrenziale di cui all’art. 2, nel richiamo all’immagine di un processo costantemente aperto e dagli esiti incerti). Da ciò consegue che, se si vuole tutelare la concorrenza effettiva, non è sufficiente garantire la libertà di iniziativa economica e di concorrenza (che, paradossalmente, potrebbero essere esercitate in direzione anticompetitiva), ma occorre una politica attiva di sostegno alla dinamica concorrenziale, che può usare strumenti tanto incentivanti quanto repressivi. Dello stesso avviso è anche G.M. BERRUTI, La concorrenza sleale nel mercato. Giurisdizione ordinaria e normativa antitrust, op. cit., p. 27, secondo il quale “il mercato …è realtà in movimento, nella quale i protagonisti competono adattandosi costantemente al cambiamento”. Simile affermazione, del resto, rileva A. TIZZANO, Le dimensioni internazionali della concorrenza¸ in La concorrenza tra economia e diritto, cit., p. 98, risulta conforme all’indirizzo comunitario. Anche alla nozione comunitaria di concorrenza, infatti, può attribuirsi un contenuto dinamico, quale effetto della strumentalità delle regole di concorrenza rispetto ai fini indicati dal Trattato e, a sua volta, causa di una prassi applicativa di quelle regole aperta alle esigenze del contesto economico-sociale in cui le stesse si inseriscono. Dello stesso avviso, N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, cit., p. 40. L’attenzione al profilo effettuale dell’illecito antitrust è confermato pure dal Regolamento n. 1/2003, in base al quale, lo si ricordi, l’intesa è estranea al divieto ope legis quando il suo effetto, pur formalmente restrittivo della libertà di iniziativa economica di una o più delle imprese coinvolte, sia positivo (o anche solo “neutro”) per lo sviluppo della concorrenza effettiva nel mercato, sulla base dei criteri di valutazione indicati nello stesso articolo. In questa nuova prospettiva, l’ambito di applicazione del rimedio della nullità è quindi destinato a ridursi in maniera significativa. La sanzione della nullità, infatti, non viene più dettata per ogni caso di intesa lesiva della libertà di concorrenza, ma solo per i casi in cui l’intesa abbia un oggetto o un effetto lesivo della concorrenza effettiva. 27 Come è già stato posto in luce nel Capitolo I, non si ritiene infatti da condividere l’affermazione secondo la quale, in presenza di un accordo dal contenuto intrinsecamente anticoncorrenziale, non è necessario procedere ad un esame delle conseguenze sul piano effettuale dell’intesa. L’illiceità dell’oggetto - come rilevato dagli autori richiamati in quella sede - serve infatti soltanto ad alleviare l’onere probatorio a carico di chi deve dimostrare l’infrazione (costituendo una sorta di “fumus”

197

Tra l’altro poi, come messo in evidenza dalla migliore dottrina, “(…) la

dichiarazione di nullità dell’intesa di per sé (ove si considerasse il contratto a valle

quale quid estraneo al torto concorrenziale che lo precede) non preclude la

continuazione di fatto del comportamento anticoncorrenziale, da parte delle imprese

interessate”28, così che, attraverso l’attribuzione del dovuto significato all’espressa

indicazione dell’effetto dell’intesa, quale elemento di valutazione della stessa

illiceità della pratica, si potrebbe cogliere pienamente quella che è stata definita “la

considerazione olistica del comportamento anticoncorrenziale”29.

Come osservano anche le Sezioni Unite, infatti, “(…) la previsione del

risarcimento del danno sarebbe meramente retorica se si dovesse ignorare,

considerandolo circostanza negoziale distinta dalla ‘cospirazione anticompetitiva’ e

come tale estranea al carattere illecito di questa, proprio lo strumento attraverso il

quale i partecipi alla intesa realizzano il vantaggio che la legge intende inibire. Se

un’intesa fosse ancora luogo nelle intenzioni dei partecipi e non avesse dato ancora

ad alcun effetto, mentre vi sarebbe spazio… per la proibizione e la sanzione da

parte di AGCM (…), non vi sarebbe interesse da parte di alcuno ad una

dichiarazione di nullità ai sensi dell’art. 33 della legge n. 287 del 1990, la cui ratio

è di togliere alla volontà anticoncorrenziale ‘a monte’ ogni funzione di copertura

formale dei comportamenti ‘a valle’”.

dell’illiceità), senza assolutamente esonerare da un accertamento della ricaduta in termini effettuali che essa comporta. Il rilievo è confermato da una recente giurisprudenza: cfr., Cass., 11 giugno 2003, n. 9384, in Foro it., n. 3/2004, I, pp. 475-476, secondo cui “l’accertamento della condotta anticoncorrenziale non può prescindere dall’apprezzamento degli effetti della medesima sul mercato sia per quanto riguarda l’idoneità della stessa ad alterare il gioco concorrenziale, sia per verificarne concretamente la consistenza”. Autorevole dottrina puntualizza ricordando che gli effetti dell’intesa non rientrano fra i presupposti normativi per l’applicazione della sanzione (cfr. P. FATTORI , I poteri dell’Autorità garante in materia di intese ed abusi di posizione dominante: diffide e sanzioni, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 1997, p. 877 ss.). Tuttavia, non può disconoscersi che gli effetti di distorsione della concorrenza prodotti dall’intesa rappresentano un importante parametro per determinare la gravità dell’infrazione (cfr. Tar Lazio, sez. I, 21 luglio 1993, n. 1157, in Foro it., 1994, III, p. 147). In dottrina, l’argomento è trattato ampiamente da I. VAN BAEL - J.F. BELLIS, Il diritto della concorrenza nella Comunità europea, op. cit., p. 796 ss., i quali evidenziano l’atteggiamento di estrema cautela della Commissione nell’uso del potere sanzionatorio in presenza di intese dichiarate illecite solo per l’oggetto (per un esempio di ammenda inflitta prescindendo dalla verifica degli effetti, si veda la decisione 14 ottobre 1998, British Sugar Plc, in G.U.C.E., 22 marzo 1999, L76, p. 1). 28 M. LIBERTINI , Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme antitrust, cit., p. 668. In senso conforme anche E. SCODITTI, Il consumatore e l’antitrust, cit., p. 1129.

198

2. Le recenti aperture

della giurisprudenza amministrativa

Di estremo interesse si rivela, nello svolgimento delle argomentazioni addotte a

sostegno di questa ricostruzione – cui peraltro seguirà la dovuta analisi critica – il

richiamo di alcune recenti sentenze del Tar del Lazio, in cui l’interpretazione del

contratto a valle quale momento costitutivo della fattispecie “intesa” e la nullità

conseguente ad una violazione diretta della norma imperativa dell’art. 2 da parte

dell’atto negoziale (in quanto concepito appunto quale elemento della fattispecie

illecita) sembra trovare (talvolta implicitamente) conforto.

La questione che ci riguarda viene ad essere affrontata in primo luogo con

riferimento (Tar Lazio, sez. I, 10 marzo 2003, n. 1790, Gemeaz e altri c. Autorità

garante) ad una fattispecie di collusione illecita tra alcune società di ristorazione

(Gemeaz Cusin, Sodexo Pass, Day Ristoservice, Ristomat, Qui! Ticket Service,

Ristochef, Sagifi e La Cascina) sanzionata dall’Autorità garante con il

provvedimento n. 10831 del 13 giugno 200230 e di cui sembra opportuno

ripercorrere le tappe principali.

Nel caso sottoposto all’attenzione del giudice amministrativo, l’addebito si

sostanziava nella realizzazione da parte delle denunciate di un’intesa giudicata

anticoncorrenziale dalla autorità di settore (nella specie, di una pratica concordata)31,

29 Così, R. PARDOLESI, Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, cit., p. 471. 30 Il testo del provvedimento è disponibile sul sito ufficiale dell’Autorità: www.agcm.it 31 Come ha avuto modo di evidenziare il Consiglio di Stato, sez. VI, nel pronunciarsi sulla questione con sentenza n. 926 del 27 gennaio 2004, nella pratica concordata, pur mancando un accordo espresso, vi è una forma di coordinamento fra imprese che sostituisce consapevolmente una pratica collaborazione fra le stesse ai rischi della concorrenza (a riguardo vedi anche: Corte di Giustizia, 8 luglio 1999, C-49/92P, Commissione/Anic; 14 luglio 1972, causa 48/69, Imperial Chemical Industries, in Racc., 1972, p. 619 e in Foro it., 1973, IV, p. 9; 16 dicembre 1975, cause riunite 40/73 a 48/74, 50/73, 54/73, 55/73, 56/73, 111/73, 113/73 e 144/73, Cooperative Vereniging “Suiker Unie” e a., in Racc., 1973, p. 1663 e in Foro it., 1976, IV, p. 118). Si è quindi in presenza di un comportamento costante, uniforme, parallelo di una pluralità di imprese, frutto di una concertazione che, pur non formalizzata in un accordo, emerge dalla univocità dei comportamenti concreti (Consiglio di Stato, sez. VI, n. 1699/2001; n. 652/2001), insuscettibile quindi di una concreta spiegazione alternativa rispetto a quella collusiva. In particolare, come bene ha evidenziato M. SCUFFI, Orientamenti consolidati e nuove prospettive nella giurisprudenza italiana antitrust, in Riv. dir. ind., 2003, p. 109, nella gran parte dei casi le imprese, anziché addivenire ad un accordo formale, evitano di lasciare tracce scritte del proprio operato (il c.d. smoking gun), desumibile pertanto solo da prove indirette ricavate da comportamenti convergenti e concludenti, sufficienti a far supporre

199

avente ad oggetto ed effetto l’alterazione della concorrenza nella fornitura del

servizio sostitutivo di mensa mediante buoni pasto al personale dipendente delle

pubbliche amministrazioni nell’ambito di una gara bandita dalla Consip

(Concessionaria Servizi Informativi Pubblici, interamente partecipata dal Ministero

del Tesoro, oggi Economia e Finanze 32).

L’infrazione contestata, in particolare, si sostanzia nell’individuazione concertata

tra tutte le partecipanti all’intesa della composizione delle varie ATI (associazioni

temporanee di impresa) e delle imprese destinate a presentarsi singolarmente33, nella

l’esistenza di un’intesa. Ciò vale in particolar modo con riguardo alla pratiche concordate, le quali, ex se, assegnano in materia antitrust un ruolo di primo piano alla prova per presunzioni, purchè queste siano gravi, precise e concordanti secondo il dettato dell’art. 2729 cod. civ. 32 In merito ai problemi sollevati dalla riforma del sistema di approvvigionamento della pubblica amministrazione introdotta con l’art. 26 della legge 23 dicembre 1999, n. 488 (legge finanziaria per l’anno 2000), la quale prevede che il Ministero di Economia e Finanze (e, per suo conto, Consip Spa in qualità di società indirettamente controllata) stipuli convenzioni con imprese, tenute ad accettare, per le varie forniture e servizi, gli ordinativi delle amministrazioni interessate, si vedano L. FIORENTINO, Il modello Consip dopo la legge finanziaria per il 2004, in Gior. dir. amm., n. 3/2004, p. 269 ss. e F.M. NICOSIA, “Modello Consip” tra Stato e mercato (Lineamenti e prospettive evolutive), in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2002, p. 711 ss. 33 In primo piano, nel caso in esame, si pone la figura dell’ATI (figura di matrice prettamente socio-economica), la cui problematicità attiene in particolare alla circostanza che il coordinamento temporaneo ed occasionale tra imprese - in cui l’istituto si sostanzia - si rivela potenzialmente (e spesso concretamente) in grado di restringere il grado di competitività di un determinato mercato, potendo essa tramutarsi facilmente in un efficace mezzo di elusione della disciplina antimonopolistica al pari di una qualunque intesa anticoncorrenziale. Nel caso di specie, si tratta di un raggruppamento di imprese di tipo orizzontale, caratterizzato quindi dalla presenza, in capo alle società di ristorazione riunite, di specializzazioni omogenee e dunque implicanti “una distribuzione meramente quantitativa del lavoro appaltato” (così, V. DE FALCO, Le associazioni temporanee di imprese: il raggruppamento di tipo orizzontale alla luce delle disposizioni del D. lgs. 19 dicembre 1991 n. 406. Aspetti e problemi, in Riv. giur. edil., 1995, II, p. 16, il quale distingue il tipo di raggruppamento richiamato da quello verticale, che ricorre “quando nell’esecuzione dell’appalto rimangono distinte le singole posizioni in ordine alle parti delle opere da eseguire, che vengono realizzate, nella maggior parte dei casi, dalla capogruppo che svolge anche compiti di coordinamento”). Sull’argomento si rinvia, in particolare, ad A. ARGENTATI, L’associazione temporanea tra imprese negli appalti pubblici e nella disciplina antitrust, in Riv. dir. comm., 2000, p. 283 ss., la quale evidenzia per prima cosa che la cooperazione temporanea ed occasionale nello svolgimento di una data attività (soprattutto attraverso la costituzione di joint ventures) risponde ad un’esigenza avvertita in maniera diffusa dalle imprese in conseguenza della globalizzazione e della inaugurazione di spazi dell’economia sempre più estesi, all’interno dei quali il grado di competitività e di visibilità sul mercato - oltre che di incidenza - è in parte assicurato dalle dimensioni dell’organizzazione imprenditoriale, la quale esplica un’efficacia positiva per le aderenti anche in ordine alla ripartizione del rischio insito nell’esecuzione dell’opera. I profili di problematicità principali della figura, prosegue l’Autrice, sono riconducibili alla mancanza di una disciplina ad hoc di carattere generale ed alla conseguente varietà di forme giuridiche che l’ATI tende quindi ad assumere (istituti societari o associativi tipici, atipici e forme consortili di diversa natura). Sul rapporto tra ATI, società consortili e mandato, si veda Cass., 4 gennaio 2001, n. 77, in Le Società, 2001, p. 1465 ss., con nota di A. DI MAJO, Associazioni temporanee di imprese e società consortili negli appalti pubblici; in Giust. civ., 2001, II, p. 1237 ss., con nota di G. VIDIRI,

200

fissazione congiunta dei livelli di sconto nella presentazione delle singole offerte e

nella conseguente spartizione dei lotti.

La rilevanza che la pronuncia assume nella definizione di una soluzione

alternativa in merito al rapporto concretamente configurabile tra illecito antitrust e

contratti a valle, emerge in particolare dalla circostanza che il giudice

amministrativo - pur negando nella fattispecie concreta la sussistenza di un nesso

sufficientemente rilevante tra la concertazione a monte e l’attività negoziale

successiva all’aggiudicazione - lascia intravedere la possibilità che un legame del

tipo enucleato tra i due momenti possa concretamente sussistere.

Il Collegio ammette, infatti, una ricostruzione di questo tipo ogni qualvolta il

contratto a valle costituisca lo strumento attraverso il quale quanto definito

astrattamente a monte diviene concretamente operativo: in questo caso, infatti, il

contratto a valle “difficilmente potrebbe sottrarsi ad una valutazione di illiceità

della sua causa concreta”, così soggiacendo al destino invalidativo previsto dalla

legge n. 287/9034.

Associazioni temporanee di imprese, consorzi e società consortili nell’appalto di opere pubbliche). Caratteristiche tipiche della figura sono: 1) il fine, ovvero l’esecuzione congiunta di un’opera che, per complessità tecnica, organizzativa, finanziaria ovvero per i rischi connessi non potrebbe essere realizzata da una sola impresa; 2) la temporaneità ed occasionalità del vincolo, dal quale non scaturisce un soggetto autonomo e distinto dalle imprese associate e connesso anche alla mancanza di un’organizzazione esterna; 3) l’assenza di un fondo comune e di attività comuni. Campo elettivo di utilizzazione dell’istituto è costituito, in particolare, dalla costruzione delle grandi opere pubbliche, che coinvolgono quindi fortemente gli interessi della P.A. Sul punto si veda, altresì, A. DONATI, Recenti orientamenti della Corte di Cassazione in tema di associazioni temporanee di imprese, nota a Cass., 7 agosto 1997, n. 21652, in Giur. comm., 1998, II, pp. 181-184 e Cass., 24 febbraio 1985, n. 681, in Giur. comm., 1976, II, p. 780. Una delle questioni di maggior rilievo, anche ai fini del diritto antitrust, riguarda la configurabilità dell’ATI quale soggetto autonomo e distinto dalle singole partecipanti, oppure se queste ultime, secondo l’indirizzo prevalente, siano funzionalmente coordinate nella partecipazione all’appalto ma conservino la propria autonomia giuridica. In merito alla problematica delle ATI, si veda altresì, in generale, F. BENATTI, Associazioni temporanee di imprese, in Diz. dir. priv., a cura di N. Irti, I, Milano, 1980, p. 74 ss.; A. ASTOLFI, Il contratto di joint venture. La disciplina giuridica dei raggruppamenti temporanei di impresa, Milano, 1981, p. 138 ss.; D. BONVICINI, Associazioni temporanee di imprese, in Enc. giur., vol. III, 1988, Roma. 34 Con riguardo al caso specifico, complicato dalla frapposizione tra l’intesa a monte e la stipulazione dei contratti di fornitura dei buoni di un procedimento di gara, si veda V. CERULLI IRELLI, L’annullamento dell’aggiudicazione e la sorte del contratto, commento a Tar Campania, Napoli, sez. I, 29 maggio 2002, n. 3177, in Giorn. dir. amm., n. 11/2002, p. 1197, secondo il quale la normativa che prescrive i procedimenti di evidenza pubblica e ne disciplina l’articolazione ha carattere imperativo, poichè “cura e protegge interessi pubblici di primario rilievo, che assurgono a veri e propri principi del diritto pubblico dell’economia vivente, in attuazione di valori essenziali dell’ordinamento, interno e comunitario”. In conseguenza, la loro violazione comporterebbe non già

201

Precisando condivisibilimente che gli argini dell’infrazione anticoncorrenziale

“(…) non possono che dipendere dal contenuto proprio della singola intesa,

abbracciando i soli comportamenti da questa previsti quali mezzi da porre in essere

per la realizzazione dello scopo comune (il programma delineato dall’intesa)”, il

giudice non sembra infatti escludere l’eventualità che, ponendo attenzione alle

caratteristiche della singola fattispecie concreta, i confini dell’intesa possano essere

estesi ad abbracciare i momenti cronologicamente successivi alla concertazione, la

cui stipulazione rappresenta - ad un livello diverso da quello che vede per

l’annullabilità (fondata sul fatto che gli atti amministrativi che devono precedere la stipulazione dei contratti “iure privatorum” della P.A. non sono altro che mezzi di integrazione della capacità e della volontà dell’ente pubblico, sicchè i loro vizi, traducendosi in vizi attinenti a tale capacità e volontà non possono che comportare l’annullabilità del contratto deducibile, in via di azione o di eccezione, su iniziativa del solo contraente pubblico), ma la nullità, ex art. 1418 cod. civ., del contratto stipulato in base all’aggiudicazione illegittima. F. CARINGELLA, Annullamento della procedura di evidenza a monte e sorte del contratto a valle: patologia o inefficacia?, nota a Consiglio di Stato, sez. IV, 27 ottobre 2003, n. 6666, in Corr. giur., n. 5/2004, p. 672, criticando la pronuncia annotata (che torna alla inefficacia relativa), attesa la “caratterizzazione imperativa delle prescrizioni violate e la funzionalizzazione di queste alla tutela dell’interesse delle imprese”, ritiene “plausibile” sia la tesi che ricostruisce l’invalidità del contratto quale ipotesi di nullità virtuale ex art. 1418, comma 1, cod. civ. (conf. anche Consiglio di Stato: sez. V, 5 marzo 2003, n. 1218; sez. VI, 5 maggio 2003, n. 2332, in Riv. giur. edil., 2003, I, p. 1598 ss., con nota di B. DE ROSA, Brevi note in ordine alla caducazione automatica del contratto a seguito dell’annullamento giurisdizionale del provvedimento di aggiudicazione) che quella che - in ossequio ad un rapporto di consequenzialità necessaria tra procedura di evidenza pubblica e contratto - sostiene la caducazione automatica degli effetti della stipulazione conseguente all’annullamento dell’atto di aggiudicazione presupposto. La tesi dell’annullabilità, si afferma inoltre, evidenzia un limite piuttosto consistente della nuova giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di contratti ed una facile esclusione dell’effettività della tutela da parte dell’amministrazione, mediante la stipula del contratto pur in presenza di violazioni della par condicio e di illegittimità degli atti di gara. Altra parte della dottrina parla invece, a riguardo, di inefficacia sopravvenuta del contratto (si ricordi in proposito che, distinguendosi dalla nullità sopravvenuta - che colpisce immediatamente l’atto estendendo i suoi effetti anche alle prestazioni già eseguite che sull’atto si fondano - l’inefficacia successiva reagisce unicamente sugli effetti, operando anch’essa retroattivamente ma con un duplice limite: delle situazioni giuridiche costituite a favore dei terzi e, nei negozi di durata, delle prestazioni già eseguite). Sul tema, si vedano in linea generale anche N. LIPARI , L’annullamento dell’aggiudicazione e la sorte del contratto tra nullità, annullabilità ed inefficacia: la giurisdizione amministrativa e la reintegrazione in forma specifica, in Dir. e formaz., 2003, p. 245 ss.; L. VALLA, Annullamento degli atti della procedura di evidenza pubblica e contratto: due decisioni a confronto, in Urban. e app., 2004, p. 192. Per la tesi della nullità, da ultimo, il Tar Basilicata, 4 marzo 2004, n. 126. In dottrina, si veda M. MONTEDURO, Illegittimità del procedimento ad evidenza pubblica e nullità del contratto di appalto ex art. 1418 comma 1 c.c.; una radicale svolta della giurisprudenza fra luci ed ombre, nota a Tar Campania, Napoli, 29 maggio 2002, n. 3177, in Foro amm.: T.a.r., 2002, p. 2591 ss., e A. MASSERA, I contratti, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di S. Cassese, Milano, 2000, Parte generale, vol. II, p. 1365 ss., il quale riporta una compiuta panoramica delle posizioni dottrinali sul tema.

202

protagoniste la imprese colluse - proprio la manifestazione effettuale delle finalità

anticoncorrenziali preordinate a monte.

Perché possa indagarsi sulla fondatezza dell’ipotesi formulata o, più esattamente,

dei confini in cui può discorrersi di contratto a valle quale elemento costitutivo della

fattispecie “intesa”, è peraltro necessario - osserva il Tar - definire preliminarmente

cosa realmente può considerarsi effetto dell’accordo collusivo.

In altre parole, il problema che deve essere preliminarmente risolto riguarda -

ancora prima della definizione delle conseguenze che l’accoglimento di una

soluzione alternativa quale quella descritta può comportare - l’individuazione dei

limiti entro i quali è possibile (da un punto di vista oggettivo) affermare la

continuazione della illecita determinazione congiunta, ovvero l’attitudine della

concertazione a monte a ricomprendere vicende e comportamenti (pur

strutturalmente autonomi) successivi ad essa quali parti integranti della medesima

fattispecie illecita (vietata dall’art. 2).

Infatti, come correttamente evidenzia il Tar del Lazio nel ricostruire l’ iter

consumativo dell’infrazione concorrenziale (ovvero interrogandosi se sia

prospettabile una permanenza dell’illecito successivamente alla aggiudicazione, ad

includervi anche l’erogazione della fornitura in esito alla gara), “il concetto di

esecuzione dell’intesa (…) non potrebbe essere dilatato indefinitamente e senza

controllo, fino ad inglobare tutti i processi causali che dall’intesa stessa comunque

in qualche guisa siano scaturiti”.

Tale concetto, invero, non può essere esteso indiscriminatamente a qualunque

fenomeno successivo all’intesa, la quale quindi “reclama una propria concretezza

di contorni (di cui abbisogna anche per esigenze di tassatività dei confini

dell’illecito)”.

Peraltro, rispondendo alle preoccupazioni relative alla individuazione dei confini

(incerti) di ciò che debba essere qualificato come “intesa” e come sua “esecuzione”,

il Tar del Lazio giunge ad affermare in linea generale che “il nesso che pure collega

la prestazione del servizio finale all’antecedente intesa anticompetitiva (nesso il

quale consiste in ciò, che le imprese, con le loro prestazioni, godono i frutti della

203

loro collusione) è un nesso giuridicamente solo mediato, che non forma una base

sufficiente per affermare una corrispondente permanenza dell’illecito”.

La posizione assunta dal Collegio, della quale è parso opportuno richiamare

soltanto i passaggi essenziali ai nostri fini, stimola qualche considerazione di

carattere generale.

In primo luogo infatti l’osservazione che potrebbe svolgersi - ove si immagini

per un istante di aderire alla ricostruzione che inquadra il contratto a valle quale

elemento costitutivo della fattispecie “intesa” - è che nel diritto antitrust (attento più

al dato sostanziale ed effettuale che a quello formale), ove si tratti di un’intesa

anticoncorrenziale anche “per gli effetti”, non è possibile scindere questi ultimi

dall’illecito affermando che l’infrazione non è più in atto nonostante continui a

produrre sul mercato gli effetti anticoncorrenziali che la caratterizzano.

L’intesa dovrebbe al contrario considerarsi attuale per tutto il periodo in cui “il

comportamento degli interessati faccia implicitamente emergere l’esistenza degli

elementi di concertazione e di coordinamento propri dell’intesa e pervenga al

medesimo risultato voluto dall’intesa”35.

Ciò, nella specie, in quanto il regime di concorrenza istituito dal Trattato (e,

conseguentemente dalla legge antitrust nazionale) “attribuisce importanza alle

conseguenze economiche degli accordi o di qualsiasi forma analoga di

concertazione o di coordinamento, anziché alla loro forma giuridica”36.

Come affermato (anche) dalla giurisprudenza comunitaria, nel valutare la liceità

di un parallelismo di scelte strategiche da parte di più imprese indipendenti, si deve

infatti tener conto degli effetti della concertazione rispetto al comportamento di

mercato di quegli stessi soggetti, così concludendosi che l’infrazione perduri sino a

che questi ultimi continuano ad operare sul mercato conformandosi a quanto da essi

illecitamente concordato37. La persistenza degli effetti anticompetitivi di un’intesa

35 Così Corte di Giustizia, 15 giugno 1976, causa 96/75, EMI/CBS, p. 15. 36 Corte di Giustizia, 3 luglio 1985, causa 283/83, Binon, p. 17. 37 Tribunale di Primo Grado, causa T-2/89, Petrofina, p. 212; causa T-327/94, Sca Holding, pp. 95-98 e cause riunite T-45/98 e T-47/98, Krupp, p. 181.

204

deve essere quindi interpretata – secondo questo orientamento - quale prova della

permanenza del coordinamento collusivo tra le imprese38.

Nel diritto della concorrenza (tanto nazionale quanto comunitario), si aggiunge,

non pare concepibile l’idea di effetti anticoncorrenziali che non siano riconducibili

ad un’intesa in atto, non potendosi operare una separazione – se non da un punto di

vista meramente logico – tra l’intesa anticoncorrenziale e gli effetti che essa produce

sul mercato e che concorrono ad identificarla39.

Da questo punto di vista, difatti, la funzione sostanziale dell’intesa non si

esaurisce nella sola ed astratta determinazione di strategie imprenditoriali comuni

(che costituisce un mero strumento giuridico per conseguire un utile illecito), bensì

nella effettiva spartizione del mercato e nella concreta alterazione della realtà

economica sottostante all’accordo che si determina proprio attraverso la conclusione

e l’esecuzione dei contratti a valle.

Assumendo che, nella prospettiva del diritto della concorrenza, ciò che rileva

sono i comportamenti delle imprese a prescindere dalla loro veste giuridico- formale

e considerati piuttosto nel loro significato economico, si considera dunque erroneo

dividere il coordinamento collusivo attuato a monte dalla distorsione permanente (o

comunque duratura) del mercato “sottostante” determinata con la consapevole

stipulazione ed attuazione dei contratti a valle.

38 In questo senso anche il Consiglio di Stato nel caso c.d. Latti artificiali , sez. VI, sentenza n. 4362/2002, Abbott ed altri, secondo il quale “(…) in presenza della prova dell’accordo e dell’evidenza del non utilizzo anche da parte delle altre imprese del canale della grande distribuzione, spettava alle appellanti (…) dimostrare che l’accordo era cessato per manifesta volontà delle parti in tal senso” (pp. 34 e 46). Sul punto si ricordi che anche la teoria economica, nell’analizzare le condizioni per cui un cartello ha maggiori o minori possibilità di rendimento e stabilità, parte dal presupposto che gli effetti dell’intesa - ad esempio in termini di maggiore profitto per le imprese colluse - intanto possono essere conseguiti, in quanto l’intesa stessa continui e siano facilmente identificabili eventuali deviazioni (i c.d. “scartellamenti”) da parte delle imprese. 39 Nel caso Buoni-pasto, in particolare, anche il Tar sembra rendersi conto di questo profilo ammettendo che, dopo l’aggiudicazione dei contratti per i singoli lotti, l’intesa “non era formalmente estinta ma, più semplicemente, aveva già realizzato la funzione sostanziale per la quale era nata (…)” (p. 74). Il che vuol dire che, anche dopo l’aggiudicazione dei contratti relativi ai diversi lotti della gara, l’intesa tra le otto imprese era ancora perdurante. Ciò anche per l’evidente ragione che un cartello avente per scopo la spartizione del servizio tra imprese concorrenti al fine di conseguire extra-profitti per tutta la durata dei contratti messi a gara, non può dirsi cessato addirittura prima che detto obiettivo abbia iniziato a realizzarsi, ossia prima che i contratti per la fornitura dei buoni pasto abbiano cominciato ad avere esecuzione e le imprese abbiano iniziato ad incassare i relativi extra -profitti.

205

In ragione delle peculiarità delle infrazioni antitrust, la consumazione

dell’illecito da parte delle singole imprese è, sulla base di queste premesse,

individuata proprio nella conclusione e lungo tutta la durata dei rapporti negoziali

instaurati da ciascuna con la rispettiva clientela, per mezzo dei quali si garantisce la

realizzazione di quell’extra-profitto che rappresenta proprio l’obiettivo (e

l’incentivo economico a fronte del rischio di essere scoperti e sanzionati) della

concertazione 40.

Queste considerazioni inducono quindi questa linea di pensiero a ritenere che,

almeno in alcuni casi, la fissazione congiunta di condotte uniformi tra le imprese

non costituisca in sé il fine, ma solo il mezzo attraverso il quale incidere sul mercato

alterandone il corretto funzionamento allo scopo di potersi assicurare utili non

perseguibili attraverso un leale confronto concorrenziale.

E poiché è solo con la successiva esecuzione dei contratti a valle, che le imprese

si assicurano il godimento effettivo delle ambite utilità economiche, si ritiene allora

che la consumazione dell’illecito (e quindi ciò che deve essere inteso come “intesa”)

non debba essere confinata al mero coordinamento in sede di accordo, ma estesa e

valutata alla stregua di quegli atti negoziali che, pur strutturalmente autonomi e in sé

perfetti e leciti, ne costituiscono la continuazione e la concretizzazione effettuale41.

Pur evidenziando l’opportunità di definire il limite oltre il quale è da negarsi una

propagazione effettuale dell’accordo collusivo, il giudice amministrativo pare quindi

affermare che la possibilità di configurare la nullità dei contratti attuativi dell’intesa

40 Del resto, se così non fosse, si dovrebbe arrivare alla conclusione paradossale che un’intesa tra più imprese consistente nella spartizione del mercato realizzata attraverso contratti a lunga scadenza, avrebbe una durata limitata per ipotesi ad un singolo giorno in cui risulta che le imprese si siano incontrate per concordare le comuni modalità di azione. 41 La circostanza che la stessa gravità dell’illecito, cui consegue una diversa commisurazione della sanzione inflitta dall’Antitrust, debba essere misurata alla luce della persistente volontà delle imprese di conformare le proprie scelte a quanto stabilito concordemente a monte, pare confermare il ruolo che il profilo effettuale riveste nella valutazione dell’infrazione e della sua estensione. In altri termini, la circostanza che dopo l’accordo e conformemente ad esso le aderenti procedano alla effettiva conclusione ed esecuzione dei contratti a valle, rende evidente la ferma volontà di coordinarsi al fine di poter conseguire un extra-profitto. In caso contrario, infatti, le imprese - attraverso il c.d. ravvedimento operoso rilevante per la riduzione della sanzione - ben potrebbero uscire dal cartello denunciando la pratica illecita all’Antitrust.

206

in quanto partecipanti del piano effettuale che ne giustifica l’illiceità e dunque

l’invalidità, non possa essere esclusa in maniera incondizionata e perentoria.

Negare nel modo più assoluto e generalizzato, alla stregua di un dogma

inconfutabile, che l’attività negoziale successiva alla definizione concordata

dell’assetto di mercato (che si verrà a creare proprio a seguito della stipulazione dei

contratti a valle) possa in alcuni casi concreti interagire con quanto la precede tanto

da ricadere nella medesima fattispecie normativa potrebbe infatti rivelarsi, nella

visione del Giudice, astrattamente scorretto (diverse essendo però le argomentazioni

da addurre in ordine al piano della opportunità di una simile soluzione).

Ciò in ragione della necessaria considerazione della realtà economico-sociale

entro cui gli illeciti anticoncorrenziali concretamente si inseriscono e verso cui lo

stesso allineamento consapevole di condotta è proteso.

Escludere in via assoluta la possibilità di ravvisare un legame del genere tra

intesa a monte e contratti a valle, ammettendo la possibilità di includere questi ultimi

nella fattispecie illecita di cui all’art. 2 finirebbe - come rilevato pure dalle Sezioni

Unite della Corte di Cassazione nella già menzionata sentenza n. 2207/05 - per

introdurre uno strumento di elusione della normativa antitrust, ossia una sorta di

“copertura contrattuale” in base alla quale, ogni qualvolta l’attuazione di un’intesa

viene trasfusa in un contratto stipulato con un soggetto terzo, allora e per ciò solo

l’attuazione dell’accordo non costituisce più la continuazione dell’illecito, perdendo,

grazie al contratto, la sua antigiuridicità e divenendo un comportamento lecito.

Su di un diverso piano, tuttavia, si ritiene di dover collocare – pur volendo

aderire a tali premesse – il discorso relativo alle conseguenze che discendono dal

fatto che il contratto, di per sé strutturalmente autonomo e compiuto, si ponga a valle

della fissazione di standard comportamentali giudicata illecita ai sensi dell’art. 2

della legge antitrust.

Alla stregua delle categorie generali del diritto – che, per quanto il diritto

antitrust voglia rivendicarne una certa indipendenza, non possono essere trascurate –

pare infatti che le ricadute sull’atto negoziale debbano essere riguardate in termini di

207

responsabilità, cui conseguirebbe semmai una fattispecie risarcitoria, non anche di

nullità.

Di questi profili si tenterà una descrizione a margine della soluzione ermeneutica

“annunciata” dalla sentenza delle Sezioni Unite, alla cui analisi pertanto si rinvia.

La possibilità di ravvisare in concreto un legame tra contratti a valle e torto

concorrenziale del tipo poc’anzi enucleato (e dunque di ricondurli entrambi entro la

fattispecie dell’art. 2), viene poi offerta anche da un altro (recente) pronunciamento

del Tar del Lazio, ossia dalla sentenza n. 8638 del 3 settembre 2004, emessa a

seguito della contestata liceità dell’approvazione e diffusione di tariffari relativi

all’attività di amministrazione di condominio da parte di alcune associazioni di

categoria e della raccomandazione del Consiglio nazionale dei geometri ai Collegi

provinciali relativa all’adozione della nuova tariffa professionale.

Nella pronuncia, infatti, il giudice di prime cure pone in primo piano - nel

sindacato di legittimità del provvedimento antitrust e del comportamento da esso

sanzionato - proprio il profilo effettuale e consequenziale dell’infrazione.

Il Collegio - riprendendo nuovamente l’indirizzo inaugurato dalla sentenza n.

827/99 della Corte di Cassazione - ribadisce, quale elemento determinante per

considerare il comportamento del Consiglio nazionale dei geometri (pur anteriore

all’entrata in vigore della legge n. 287/90) quale intesa anticoncorrenziale, il fatto

che esso sia “chiaramente orientato al futuro”.

L’art. 2 della legge antitrust, ricorda il Tar, “ha la funzione di proibire il fatto

della distorsione della concorrenza, quando rappresenti la conseguenza del

perseguito obiettivo di coordinare, verso un comune interesse, le attività

economiche di vari operatori”42, realizzato anche attraverso comportamenti “non

42 Dalle considerazioni svolte emerge quindi che l’art. 2 si pone in linea di perfetta continuità rispetto all’art. 81 del Trattato CE. A riguardo, M. SCHININÀ, La nullità di intese anticoncorrenziali, op. cit., p. 412, osserva che l’art. 81 non mira a colpire l’atto in sé considerato, ma la situazione distorsiva della concorrenza che risulta dall’insieme dell’atto e di elementi ad esso esterni (tra cui un mercato avente determinate caratteristiche, un certo contesto geografico, l’influenza esercitata sul mercato dalle imprese coinvolte nell’intesa in relazione alla loro forza economica o alle caratteristiche dell’attività svolta). In questo senso anche Corte di Giustizia, sentenza 12 dicembre 1967, causa C-23/67, Brasserie/De Haecht, in Racc., 1967, p. 480 ss.; B. LIBONATI, Intese orizzontali e aperture in tema di concorrenza e di mercato nella giurisprudenza della Cassazione, cit., p. 1225 s.; L. DELLI

208

contrattuali” o “non negoziali” e dunque anche attraverso il ricorso a schemi

giuridici meramente unilaterali.

La norma, prosegue il Collegio, nello stabilire la nullità delle intese, “non

intende dar rilevanza esclusivamente all’eventuale negozio giuridico originario

postosi all’origine della successiva sequenza comportamentale, ma a tutta la più

complessiva situazione, anche successiva, che realizzi un ostacolo all’operare della

libera concorrenza”.

L’accento viene quindi fatto consapevolmente cadere sul rilievo (primario)

riconosciuto all’intera progressione comportamentale, al dipanarsi della concorde

statuizione a monte in un arco temporale allargato ad abbracciare tutta la

complessiva situazione che la succede la quale, comprensiva dell’attività negoziale

conseguente al pactum vero e proprio, si staglia come una figura geometrica estesa

ma conchiusa.

Anche in questo caso, quindi, si riconosce che l’operazione economica in cui si

attualizza ciò che il dato testuale dell’art. 2 concepisce in termini di “intesa”, può

avvolgere momenti dalla natura eterogenea, con ciò non cessando di definirsi quale

realtà unitaria e composita, tesa, proprio nel suo essere un unicum, a realizzare - e

dunque a concretizzare - per via negoziale un freno od un impedimento alla libera

competizione tra le imprese.

La lucida consapevolezza manifestata dal Collegio amministrativo nel porre

mente al piano effettuale dell’illecito, potrebbe quindi corroborare la tesi favorevole

ad una lettura - sempre ancorata al caso concreto - dei contratti a valle quale

momento costitutivo dell’intesa, che contribuirebbe in maniera sostanziale ed

effettiva al fatto della conseguente alterazione del gioco competitivo.

Preso atto di queste recenti tendenze giurisprudenziali (tanto in sede ordinaria

quanto amministrativa) - caratterizzate da una certa apertura verso la possibilità di

accogliere la ricostruzione che colloca i contratti a valle nella più ampia fattispecie

“intesa” e dunque direttamente entro la norma dell’art. 2 - si muove quindi ad

analizzare sotto altri aspetti (atteso che, in ordine al profilo del nesso

PRISCOLI, La dichiarazione di nullità dell’intesa anticoncorrenziale da parte del giudice ordinario,

209

intesa/contratto, si è già provveduto a menzionare nel paragrafo precedente i punti in

cui il giudice di legittimità paventa “tra le righe” la possibilità di una ricaduta della

nullità dell’accordo in termini di invalidità degli atti negoziali successivi) quella che

a tutti gli effetti può essere considerata come una pietra miliare nell’orizzonte

giurisprudenziale in materia di diritto della concorrenza: la sentenza 4 febbraio

2005, n. 2207, delle SS. UU. della Corte di Cassazione.

3. La sentenza 4 febbraio 2005, n. 2207 delle SS. UU.

della Corte di Cassazione

L’importanza di questa pronunc ia - giunta in esito al vasto dibattito articolatosi

intorno alla interpretazione ed ai confini applicativi dell’art. 33 della legge n. 287/90

e di cui si sono, per opportunità d’indagine, richiamati alcuni aspetti nel paragrafo

che precede - si estende in realtà ben al di là della questione che ci occupa (ovvero

dei termini in cui la nullità di un’intesa concorrenziale può “rinfrangersi” su contratti

a valle), involgendo profili di natura tanto processuale (in materia di competenza e

giurisdizione) quanto sostanziale (affrontati partendo da un inquadramento generale

della legge antimonopolistica comunitaria e nazionale per poi specificare quali

interessi siano da considerare rilevanti e meritevoli di tutela in un’ottica di piena

competitività del mercato), dei quali si ritiene opportuno dare brevemente conto,

delineando i passaggi fondamentali del percorso argomentativo della Corte.

Con la sentenza n. 2207/05 le Sezioni Unite hanno infatti (innanzitutto) fissato

un punto fermo in merito al giudice competente a pronunciare della nullità

dell’infrazione antitrust e della relativa risarcibilità del danno subito dai consumatori

per il maggior esborso versato per le polizze in esito ad un’intesa involgente alcune

delle più grandi imprese assicuratrici italiane.

cit., p. 230.

210

Con la pronuncia - intervenuta a seguito della ordinanza di rimessione della

Terza sezione civile della Corte di Cassazione n. 15538/0343 - il giudice di

legittimità statuisce in primo luogo, a sopire gli animi, la competenza in unico grado

della Corte d’Appello (non del giudice di pace) territorialmente competente, anche

ove a lamentare il danno non siano gli imprenditori - concorrenti o comunque terzi

rispetto alle imprese colluse - ma i consumatori, i quali, alla stregua di “figli di un

Dio minore”44, si sono visti sino ad ora preclusa la via dell’azione risarcitoria ex art.

33, comma 2, della legge antitrust45.

L’allargamento della sfera dei soggetti abilitati ad invocare i rimedi civilistici

approntati dalla legge antitrust costituisce per vero il risultato di una corretta

enucleazione del fondamento della normativa antimonopolistica nel suo complesso

(ossia tanto comunitaria quanto, e di riflesso, nazionale), enucleazione per mezzo

della quale il Collegio si spinge - pur muovendosi nel “cerchio” del sindacato di

pura legittimità che gli compete - a considerare la posizione dei consumatori a valle

che, terzi rispetto alla concertazione, risentono comunque in maniera diretta della

distorsione provocata nel funzionamento dei meccanismi di mercato e sui

presupposti del suo virtuoso operare.

Le due questioni, quella relativa alla legittimazione ad agire e quella relativa alla

posizione giuridica dei soggetti partecipi dei contratti conclusi a valle dell’accordo

illecito, costituiscono infatti, a ben vedere, aspetti del medesimo problema e come

tali devono essere esaminati.

43 In Foro it., I, 2003, p. 2938 ss., secondo cui, rimettendo in discussione alcuni degli snodi decisivi della sentenza n. 17475/2002: 1) ai sensi dell’art. 33, comma 2, la competenza della Corte d’appello in unico grado è stabilita ratione materiae e non con riguardo ai soggetti; b) l’omessa motivazione nella disposizione dei soggetti legittimati ad agire non appare idonea di per sé solo ad escludere i consumatori dalla cerchia di coloro i quali possono aver subito in concreto un pregiudizio dall’illecito antitrust. 44 R. PARDOLESI, Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, cit., p. 473. 45 Con la sentenza n. 17475/02, citata, la Corte di Cassazione aveva infatti escluso, ritenendo che la legge antitrust assumesse quale prospettiva privilegiata ed esclusiva quella dell’imprenditore, la possibilità per i consumatori di invocare la tutela dell’art. 33, comma 2, atteso che la norma predisporrebbe, nella visione della Sezione (disattesa dalle Sezioni Unite), uno “strumento il quale non può non lasciare presupporre esso stesso una tipologia di danni strettamente connessa alle tematiche dell’impresa e della sua presenza sul mercato”.

211

Ciò in quanto la posizione giuridica del terzo estraneo all’intesa - sia esso

consumatore o imprenditore - che afferma di aver subito un danno specifico dal

turbamento dell’equilibrio concorrenziale del settore, ne determina la legittimazione

ad agire.

Ricostruendo l’iter genetico della legge antitrust - che vanta una stretta parentela

con le prime sistemazioni d’oltreoceano della materia - e ravvisando nella disciplina

della concorrenza sleale un prossimo ma pur diverso e meno ampio “antenato” della

disciplina antimonopolistica nazionale 46, le Sezioni Unite tornano innanzitutto a

ribadire il ruolo centrale rivestito a riguardo dalla legislazione europea.

Quest’ultima, infatti, ha col Trattato CE conferito al mercato, alla logica

competitiva ed alla tutela strutturale dei due fattori il “vessillo” di luoghi deputati -

alla stregua del principio dell’art. 2 della Costituzione - a garantire, attraverso il

libero esercizio dell’attività d’impresa, la pretesa di autoaffermazione economica

della persona, ove essa si dipani secondo modelli comportamentali leciti.

All’inverso, quindi, “ogni comportamento di mercato che riduce tale competitività

perché diminuisce la possibilità per chiunque di esercitare liberamente la propria

pretesa di autoaffermazione, è illecito”.

46 La disciplina della concorrenza sleale, infatti, ribadisce la Corte, è imperniata essenzialmente sulla tutela dell’imprenditore dalla scorretta attività del concorrente. Benché la protezione codicistica si sia nel tempo evoluta, a perdere l’impronta deontologica ed endocorporativa che la denotava alle origini secondo un processo di “oggettivazione” evidenziato da diversi autori (cfr. C. SANTAGATA, Concorrenza sleale e interessi protetti, op. cit.; G.M. BERRUTI, La concorrenza sleale nel mercato. Giurisdizione ordinaria e normativa antitrust, op. cit., pp. 115 ss.; e, da ultimo, R. PARDOLESI, Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, op. cit., p. 473; P. MARCHETTI - L.C. UBERT AZZI, op. cit., p. 1740), essa continua comunque a conservare il carattere fondamentale di strumento di tutela del corretto rapporto di concorrenza tra le parti che controvertono dinanzi al giudice. Quest’ultimo rapporto in particolare - sebbene si sia nel frattempo preso atto della nozione costituzionale del mercato come luogo della libertà d’impresa, “che attribuisce un rilievo pubblico anche al conflitto interindividuale” - rappresenta tuttora il presupposto della sua operatività “e mantiene pertanto la dimensione essenzialmente interindividuale dei conflitti. La normativa che difende l’imprenditore dalla concorrenza sleale, dunque, ancorché la si possa ritenere consapevole della dimensione necessariamente concorrenziale del mercato, provvede pur sempre alla riparazione dello squilibrio che ad uno specifico rapporto di concorrenza viene cagionato dalla scorrettezza di un concorrente”. La diversità ed i limiti della disciplina della concorrenza sleale rispetto alla legge antitrust sono evidenziati pure da A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per la violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 263, il quale sottolinea l’insufficienza della tutela accordata dal sistema della concorrenza sleale nell’assicurare una efficace protezione a tutti i soggetti potenzialmente interessati alla violazione e da essa danneggiati.

212

In altri termini, il fatto che le imprese, al pari di qualunque soggetto che

interagisce sulla scena del mercato, siano titolari della libertà di agire secondo il

principio di razionalità economica il cui esercizio si estrinseca nella realizzazione di

un’intesa, fa sì che se quest’ultima non produce effetti anticoncorrenziali l’esercizio

della libertà da parte dell’impresa rimane nell’ambito del lecito giuridico; se invece

l’intesa produce effetti tali da compromettere in maniera significativa il grado di

competizione del settore riguardato, così limitando l’esercizio dell’altrui libertà

d’agire (e di scegliere, da parte di coloro che sono estranei all’intesa), essa viene

colpita dal divieto dell’art. 2 il quale, peraltro, va ad incidere non sulla situazione di

libertà, ma sull’attività giuridica che sulla base di essa si è estrinsecata.

La Corte, superando le passate opzioni (miopamente ed angustamente

inquadrative degli eventi perturbativi del mercato e della concorrenza come agenti

esclusivamente al livello operativo dell’imprenditore, come se essi non penetrassero

in alcun modo nella successiva attività negoziale) indica quindi quale oggetto di

tutela e ristoro immediato della legge n. 287/90 non solo - o non tanto - il

pregiudizio subito dal concorrente per effetto di una strategia anticompetitiva,

quanto piuttosto la protezione di un “più generale bene giuridico” che, muovendo

dalla realtà imprenditoriale, si allarga ad abbracciare tutti coloro i quali occupano nel

vasto palcoscenico degli scambi un ruolo attivo e centrale.

Un’accorta protezione del bene-concorrenza, inteso nella sua accezione

dinamica ed effettiva, si inquadra infatti tra gli interessi primari di quanti trovano nel

mercato la soddisfazione dei propri bisogni, non solo di produzione e distribuzione,

ma altresì di consumo47.

Andando al di là del problema di natura esclusivamente processuale, la questione

viene quindi affrontata in una prospettiva attenta a cogliere insieme al profilo

47 Sul concetto di concorrenza dinamica, intesa come vero e proprio bene giuridico, si rinvia nuovamente a M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, op. cit., p. 433 ss. a favore di quest’ultimo indirizzo ermeneutica - che allarga l’azione ex art. 33, comma 2, anche ai consumatori - divergendo dal precedente di legittimità n. 17475/2002, si vedano: Tribunale di Locri, 5 ottobre 2004, inedita, nonché Tribunale di Torre Annunziata, 26 luglio 2004, inedita, ove si legge che la disposizione non lascia “alcuno spazio alla possibilità di distinguere tra un’ordinaria azione di responsabilità, esperibile dal consumatore finale secondo le regole generali, e un’azione speciale di responsabilità, esperibile dalle imprese escluse dalla pratica anticoncorrenziale”.

213

(motivo della rimessione determinata con la ormai nota ordinanza) relativo ai rimedi

esperibili avverso la violazione delle norme antitrust, anche la problematica di fondo

attinente alla selezione degli interessi rilevanti in un’ottica pro-concorrenziale.

Dopo aver evidenziato “La diversità di ambito e di funzione tra la tutela

codicistica della concorrenza sleale e quella (…) della legge antitrust”, la Corte

afferma infatti che, “Contrariamente a quanto ritenuto da Cass. 17475 del 2002, la

legge antitrust non è la legge degli imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti

del mercato, ovvero di chiunque abbia interesse, processualmente rilevante, alla

conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico

pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere”48.

Diversamente dalla disciplina del codice civile - per sua natura deputata a dare

ordine e regola ai rapporti privatistici tra soggetti legati da uno specifico rapporto di

concorrenza - la normativa antitrust è diretta infatti a determinare a livello

pubblicistico (con ciò riferendosi al macrocosmo “mercato”), le modalità e le

condizioni attraverso cui le relazioni tra i soggetti economici possono

legittimamente svolgersi, senza che si diano interferenze da parte dell’azione

pubblica sulle scelte dei soggetti stessi e sugli esiti cui queste scelte danno luogo 49.

In altri termini, lo scopo della legge n. 287/90 deve essere, secondo

l’impostazione accolta dalla Corte, individuato principalmente nella garanzia di un

principio organizzativo delle relazioni di mercato, teso ad assicurare nella misura più

ampia possibile la libertà economica e di scelta di tutti gli attori che in esso

48 Come osserva correttamente anche A. ZITO, Attività amministrativa e rilevanza dell’interesse del consumatore nella disciplina antitrust, Torino, 1998, p. 25, “il non riuscire a predicare la rilevanza dell’interesse di questo soggetto (i.e., il consumatore) nell’ambito della disciplina antitrust, di una disciplina cioè che assume ad oggetto un dato di realtà (il mercato) del quale il consumatore è attore necessario, finisce per apparire quanto meno strano se non addirittura paradossale”. 49 Con tale affermazione le Sezioni Unite sciolgono quindi l’equivoco in cui sembra incorsa la Sezione semplice della sentenza n. 17475/2002 là dove, erroneamente equiparando la ratio degli artt. 2595 ss. cod. civ. e quella antitrust, ritiene che l’asserita esclusione della legittimazione attiva dei consumatori ai sensi dell’art. 33 viene a “porsi in linea di più generale continuità con le caratteristiche strutturali della disciplina codicistica della concorrenza (sleale) così come riletta, nel tempo alla luce della Costituzione; disciplina la quale non contempla la legittimazione attiva dei singoli consumatori finali”. Dello stesso avviso è anche M. LIBERTINI , Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust (II), in Danno e resp., n. 3/2005, p. 237 ss., specie p. 242, secondo cui le leggi antitrust, diversamente dalla disciplina corporativa in materia di concorrenza sleale, sono nate storicamente proprio per tutelare interessi esterni a quelli delle imprese destinatarie dei divieti.

214

agiscono, non risolvendosi semplicemente (e limitatamente) nella tutela dei

concorrenti, ma estendendosi a tutti i soggetti del mercato, dunque anche ai

consumatori50: “la centralità della libertà di concorrenza attribuisce una nuova

valenza all’autonomia negoziale, atteso che la tradizionale accezione della stessa

come capacità di determinare autonomamente il testo del contratto è venuta meno.

La disciplina della concorrenza, pur nella diversità con la disciplina del mercato, è,

quindi, strumento per garantire la libertà di scelta che ormai rappresenta il vero

contenuto dell’autonomia negoziale”51.

Come enunciato da autorevole dottrina nel distinguere la fattispecie oggetto della

disciplina codicistica da quella avuta invece di mira dalla legislazione di settore,

“(…) l’effetto distorsivo, ancorché certo, per determinare l’intervento dell’Autorità

Garante deve influire patologicamente su di un certo mercato, cosiddetto rilevante.

Non basta che danneggi il concorrente in quanto tale. Occorre che danneggi il

mercato”52, assumendo quella consistenza che costituisce il presupposto della

reazione punitiva dell’ordinamento.

Come evidenziato nel Capitolo II, all’atto od al comportamento che determina la

lesione del principio concorrenziale deve essere infatti certamente riconosciuta una

capacità plurioffensiva, in quanto esso finisce per danneggiare gli interessi di una

molteplicità di soggetti. Ciò non toglie, tuttavia, che questa plurioffensività possa

essere sempre scomposta in una pluralità di interessi individuali, i quali reclamano

tutela a fronte di quelle condotte che, alterando la possibilità di un’opzione in merito

alla direzione cui orientare le proprie scelte economiche (tanto produttive quanto di

consumo), frustrano la libertà d’agire (anche) del consumatore secondo un criterio

razionale, libertà che risulta protetta e garantita proprio nella misura in cui il mercato

si atteggi in forma concorrenziale 53.

50 Nello stesso senso anche A. ZITO, Attività amministrativa e rilevanza dell’interesse del consumatore nella disciplina antitrust, op. cit., p. 8 s. 51 L. DI VIA, L’invalidità nei contratti tra imprenditori, op. cit., p. 743. 52 Così G.M. BERRUTI, op. ult. cit., p. 29. 53 La circostanza che le imprese del settore definiscano in maniera concordata la propria strategia commerciale, fa sì, infatti, che il prodotto offerto sul mercato (in ipotesi, il contratto a valle) sia assolutamente omogeneo nelle caratteristiche e nei contenuti, tanto da comprimere sino al punto estremo di annullare qualunque possibilità di scelta tra opzioni alternative da parte dei soggetti cui

215

Con ciò si comprende per quale ragione deve cogliersi nelle maglie della

normativa antitrust il riconoscimento della rilevanza giuridica attribuita anche

all’interesse dei consumatori i quali, anello conclusivo della filiera che si apre con la

produzione del bene ed arbitri di quel gioco che dovrebbe assicurare, attraverso la

scelta, la selezione dell’imprenditore più meritevole, ben possono essere incisi

direttamente dalla illecita determinazione delle imprese colluse. Infatti, “La funzione

illecita di una intesa si realizza (…) con la sostituzione del suo diritto di scelta

effettiva tra prodotti in concorrenza con una scelta apparente. E ciò (come già

rilevato nel paragrafo precedente) quale che sia lo strumento che conclude tale

percorso illecito”54.

l’offerta è destinata. Sul punto si rinvia alle considerazione esposte nel Capitolo I. Dello stesso avviso anche M. LIBERTINI, Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust (II), op. cit., p. 237 ss., specie p. 241, secondo il quale “l’interesse dei consumatori finali è dunque direttamente tutelato dalle norme antitrust, sia come interesse a compiere scelte libere e consapevoli, sia come interesse ad ottenere il massimo risultato di soddisfazione al minimo prezzo possibile (sotto ambedue i profili, si tratta di interessi matrimonialmente valutabili)”. 54 Del resto, l’importanza ed il ruolo attribuito alla libertà di scelta dei consumatori quale fattore che si intreccia e combina con la tutela del principio concorrenziale, discende direttamente dai Trattati comunitari. Il moderno orientamento comunitario, cui il nostro sistema deve conformarsi in virtù dell’espresso vincolo sancito dall’art. 1, comma 4, della legge n. 287/90, pone infatti un accento particolare sulla consapevolezza della scelta dei consumatori, specie attraverso lo strumento della informazione. A riguardo è opportuno richiamare la Comunicazione della Commissione – Una politica della concorrenza proattiva per un’Europa competitiva [COM (2004) 293 - 20 aprile 2004], in cui si afferma che “un elemento su cui sarà fondato il nuovo regime di concorrenza dell’Unione europea è la migliore integrazione degli interessi dei consumatori nel dispositivo di regolamentazione della concorrenza (…). La nuova regolamentazione agevolerà inoltre l’applicazione diretta del diritto comunitario della concorrenza da parte dei tribunali nazionali aditi dai consumatori e dalle imprese danneggiate da pratiche restrittive. Le imprese e i consumatori finali dovrebbero sentirsi incoraggiati a far valere i loro diritti dinanzi ai tribunali nazionali (…). Occorre dunque procedere ad un’analisi approfondita degli ostacoli materiali e giuridici o amministrativi alla concorrenza che danneggiano maggiormente i consumatori ed il libero gioco della concorrenza nel mercato interno (…). Le intese causano un pregiudizio diretto e grave sia ai consumatori che alle industrie che utilizzano il prodotto oggetto dell’intesa come fattore di produzione (…)”. Come osservano G. GHIDINI - C. CERASANI, Consumatore (tutela del) (diritti civili), in Encicl. del dir., aggiorn., V, Milano, 2001, p. 266, “l’insieme delle normative specifiche suggerisce che l’interesse tipico del consumatore (…) è quello di non subire alcun pregiudizio fisico e/o patrimonia le, e/o alla libertà di scelta economica, in ragione del suo operare come acquirente potenziale o attuale di beni o servizi. E dunque (…) può dirsi che l’ordinamento considera meritevole di tutela l’interesse del consumatore a ricevere, nel mercato e dal mercato, libertà ed efficienza, e cioè, da un lato, ad autodeterminarsi liberamente (e quindi, pure, senza inganni) e, dall’altro, a conseguire prestazioni rispettose della sua integrità fisica e patrimoniale”. Per un raffronto tra gli attuali principi ispiratori del quadro normativo comunitario e la considerazioni precorritrici di Tullio Ascarelli, si veda M. BARELA, Teoria della concorrenza e libertà del consumatore: l’insegnamento di Tullio Ascarelli, op. cit., p. 909 ss.

216

Senza ripercorrere i passaggi che toccano più da vicino le questioni attinenti ai

contratti a valle (di cui si è discorso nelle pagine che precedono), pare quindi di

potersi arguire che con tale affermazione la Corte abbia voluto indicare

inequivocabilmente come al consumatore spetti una generale libertà di agire secondo

un criterio di razionalità economica che, fondato sulla garanzia della sussistenza

delle condizioni necessarie per una scelta di consumo maturata in un contesto

indenne da fatti perturbativi, è, a ben guardare, esattamente il medesimo che muove

e guida l’azione degli imprenditori (della cui garanzia e tutela sino ad oggi nessuno

ha mai seriamente dubitato).

La Corte di conseguenza - aderendo a quella visione che intende il mercato

quale “luogo del contraddittorio ad armi pari” 55 - non solo si discosta dalla

posizione assunta dalle Sezioni semplici - le quali, non ravvisando una qualsivoglia

soglia di interesse giuridicamente rilevante, escludevano in via assoluta la

legittimazione attiva all’azione risarcitoria ex art. 33, comma 2, “in testa a soggetti

che non siano essi stessi partecipi di quello stesso livello operativo, e rivestano

invece la mera veste di consumatori finali, non potendo in alcun modo reagire su di

essi l’esistenza in sé delle intese” – ma, passando dal piano sostanziale a quello più

propriamente processuale, giunge a riconoscere in capo a tutti soggetti portatori di

un interesse processualmente rilevante la legittimazione a ricorrere ai rimedi

giudiziali previsti dalla legge n. 28756.

Sulla base delle esposte premesse, il Collegio ritiene infatti di dover escludere

“che si possa negare la legittimazione alla azione davanti al G.O. ai sensi dell’art.

33 n. 2 della legge n. 287 del 1990, al consumatore, terzo estraneo alla intesa”.

La situazione giuridica soggettiva che si assume violata e che rileva ai fini della

proposizione di un’azione risarcitoria non è quindi soltanto quella dell’imprenditore,

ma, a prescindere dalla qualificazione giuridico- formale attribuibile all’agente - o,

55 Così F. MERUSI, Democrazia e autorità indipendenti, Bologna, 2000, p. 36, secondo il quale la parità delle armi, intesa come “pari possibilità di contendere, data a soggetti economici in uno spazio operativo chiamato mercato”, è divenuta l’immagine prima del principio di eguaglianza. 56 Il ruolo del consumatore non è più quindi “chiamato (…) ad esaurirsi nella sollecitazione dell’esercizio dei loro poteri da parte degli organi individuati dalla stessa legge n. 287/90”, così come

217

per ricorrere alla terminologia impiegata dalla Cassazione del 2002,

indipendentemente dal livello operativo in cui il soggetto leso si colloca57 - quella

di chiunque lamenti di aver subito uno specifico pregiudizio per effetto dell’alterato

funzionamento del gioco concorrenziale.

Di conseguenza, aderire alla tesi restrittiva - che limita agli imprenditori

concorrenti la sfera degli interessi tutelati dalla legislazione antimonopolistica -

“potrebbe essere sostenuta solo sulla base di una concezione statica e corporativa

della concorrenza, in cui la ‘clientela’ sarebbe vista come massa passiva, destinata

solo ad essere ripartita fra competitori”58.

Già la dottrina, infatti, osservava l’opportunità di affidare “l’arsenale

sanzionatorio” al soggetto che costituisce l’ultimo anello della catena della

traslazione del danno - ovvero (al) “l’unico, tra i vari attori che si muovono sul

mercato, incapace di difendersi trasferendo su altri il danno patito”59 - atteso che

l’attribuzione “dell’arma” di cui all’art. 33 ai soli imprenditori concorrenti

rischierebbe sostanzialmente per vanificare l’efficacia deterrente dell’azione

risarcitoria.

Riservare per intero la legittimazione ad agire a quegli imprenditori che,

ancorché terzi rispetto all’intesa, assai spesso intrattengono relazioni commerciali

con i singoli autori dell’illecito (potenziali destinatari della sanzione civile) appare

infatti sotto un profilo pratico alquanto ingenuo, rischiando di tradursi in concreto in

un “buco nell’acqua”60.

asserito dalla Cassazione n. 17475/2002, ma diventa un ruolo attivo e propulsivo, potendo egli attivare la domanda risarcitoria di cui all’art. 33. 57 Subordinando la facoltà di valersi della tutela risarcitoria approntata dalla legge antitrust alla qualifica imprenditoriale del soggetto leso - a rimarcare dunque, sulla scorta della impostazione della concorrenza sleale, il carattere pubblicistico della disciplina antimonopolistica - la precedente giurisprudenza di legittimità escludeva infatti i consumatori dal novero dei legittimati all’azione. 58 M. LIBERTINI, Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust (II), op. cit., p. 242, secondo il quale, tra l’altro, è da escludere qualunque alternatività tra l’azione di cui all’art. 33 della legge n. 287/90 ed il ricorso alla legge n. 281/98, attesa la specialità della prima disciplina rispetto alle norme generali a tutela dei consumatori. L’Autore ritiene invece limitata ai soli imprenditori la tutela risarcitoria da abuso di dipendenza economica di cui all’art. 9 della legge n. 192/98. In questo caso, tra l’altro, la competenza seguirà le regole ordinarie (doppio grado di giudizio). 59 Così L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, op. cit., p. 1455 s. 60 Cfr. A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per la violazione della normativa antitrust, op. cit., pp. 320-321. Tra l’altro, come osserva da ultimo U. VIOLANTE, Illecito

218

L’attribuzione anche al singolo consumatore - che può dirsi direttamente inciso

dalle strategie collusive definite a monte dalle imprese e realizzate attraverso la

scelta di uno strumento finale quale può essere il contratto che assorbe ed attua il

contenuto ed il fine cui l’accordo tende finalisticamente - della legittimazione a fare

ricorso al rimedio risarcitorio come previsto dalla legge antitrust, si staglia quindi,

con quest’ultima pronuncia della Suprema Corte, a tutti gli effetti quale esito e

sbocco naturale della costante evoluzione e della pressante (per quanto non sempre

convinta) tensione al riconoscimento anche a questo soggetto del ruolo che

giustamente (e naturalmente) gli spetta all’interno di quella dimensione (il mercato)

che lo vede innegabilmente come arbitro e protagonista61.

Come efficacemente osservato da un autorevole Voce dei nostri tempi,

“concorrenza delle imprese e preferenza dei consumatori sono lati dello stesso

fenomeno”62.

antitrust e azione risarcitoria, op. cit., p. 15, nel momento in cui si esclude l’accessibilità degli strumenti di tutela di cui all’art. 33, comma 2, ai consumatori finali con riguardo ad un cartello tra imprese, si dà ingresso ad un’inaccettabile disparità di trattamento rispetto all’abuso di posizione dominante. Sul punto cfr. anche S. BASTIANON, Antitrust e tutela civilistica: anno zero, op. cit., p. 393 ss. 61 Un passaggio importante in questo processo evolutivo è da attribuire alla enunciazione della Corte di Giustizia la quale, nella nota sentenza Courage più volte richiamata, ha ribadito che “la piena efficacia dell’art. 81 del Trattato (da cui discende il nostro art. 2) e, in particolare, l’effetto utile del divieto sancito dal n. 1 di detto articolo sarebbero messi in discussione se chiunque non potesse chiedere il risarcimento del danno causatogli da un contratto o da un comportamento che possano restringere o falsare il gioco della concorrenza (…). In quest’ottica, le azioni di risarcimento danni innanzi ai giudici nazionali possono contribuire sostanzialmente al mantenimento di un’effettiva concorrenza nella Comunità”. L’evoluzione rispetto alla prassi precedente è, infatti, in questo caso particolarmente evidente: il principio della competenza esclusiva dei giudici nazionali a concedere nei singoli casi concreti il risarcimento dei danni non viene messo in discussione; ciò che viene precisato è invece che la risarcibilità del danno antitrust, ovvero il riconoscimento in capo ai singoli del diritto di invocare una tutela a contenuto risarcitorio in caso di violazione degli artt. 81 e 82 ha il suo presupposto nelle stesse norme del Trattato, la cui piena efficacia risulta assicurata anche per il tramite delle azioni di risarcimento esperite dinanzi ai giudici nazionali. 62 N. IRTI, Persona e mercato, cit., p. 94. Il legame tra i due profili si coglie peraltro anche nella legge “Dei diritti dei consumatori e degli utenti” (l. 31 luglio 1998, n. 281), la quale, nel riconoscere alcuni diritti fondamentali - quale quello all’informazione, alla corretta pubblicità, alla correttezza e trasparenza nei rapporti contrattuali - mette in luce come una lesione di tali diritti, incidendo sulla libertà di scelta dei consumatori, avrebbe mediatamente ripercussioni negative sulla strutturazione del mercato, che invece il legislatore mira a tutelare in via primaria. L’attribuzione ai consumatori di un diritto all’informazione e alla trasparenza nei rapporti economici appare, infatti inserirsi a pieno titolo nel processo di elaborazione del diritto del mercato come diritto improntato al principio della libertà di scelta e dunque dell’autoresponsabilità. A riguardo, si veda N. IRTI, Teoria generale del diritto e problema del mercato, in Riv. dir. civ., 1999, I, p. 1 ss.

219

Alterare il percorso formativo della scelta operata dal consumatore attraverso la

determinazione congiunta di condizioni negoziali “artificiali” implica infatti non

solo un turbamento del percorso interiore che conduce ad un’autodeterminazione

consapevole (con ciò che ne consegue in termini di accrescimento della situazione di

asimmetria informativa in cui il consumatore versa di per sé), ma anche (e tenendo

sempre da conto il carattere standardizzato ed uniforme dei modelli negoziali in cui

la concertazione a monte si cala) ad una distorsione nel funzionamento del mercato

di riferimento idonea a cagionarne il fallimento63.

La libertà di scelta dei consumatori presuppone infatti (come evidenziato in altri

termini nel Capitolo I) la pluralità dell’offerta, ossia la presenza di una molteplicità

di prodotti (beni, servizi, contratti) diversificati sia per le caratteristiche intrinseche

dei beni che per il trattamento giuridico riservato all’acquirente, ciò che costituisce

un necessario presupposto perché quest’ultimo possa operare una comparazione tra

offerte differenziate, maturare la propria preferenza e dunque esercitare il potere di

scelta: “Laddove, infatti, nel mercato di un determinato bene o servizio, si sia in

presenza di formulari, che, sebbene predisposti da diverse imprese concorrenti,

contengano clausole dal contenuto uniforme e pregiudizievole degli interessi dei

consumatori, rimarrebbe preclusa a questi ultimi la possibilità di effettuare una

valutazione comparativa delle proposte provenienti dalle imprese operanti nel

settore, risultando con ciò compromessa la stessa finalità della concorrenza”64.

63 Di questo avviso anche R. CALVO, Diritto antitrust e contratti esecutivi dell’intesa vietata (contributo allo studio dei Folgevertrage), in I Contratti, n. 2/2005, p. 188, secondo il quale “l’ostacolo artificialmente frapposto dal cartello alla razionalità delle scelte economiche individuali diventa un fattore impeditivo dello sviluppo della personalità umana in campo patrimoniale”, aggiungendo poi, che il contratto, in quanto atto di autodeterminazione, “non può tollerare che esso assuma la fisionomia dell’atto di vessazione o di annichilimento della personalità umana. E’ dunque compito del sistema combattere tale degenerazione, sia quando derivi dall’isolato abuso del singolo, sia allorché partecipi della natura di uso abusivo del potere monopolistico. In questa direzione affermeremo che la legislazione antitrust diventa complementare alla salvaguardia della libertà contrattuale”. 64 Così M. BARELA, op. cit., p. 956.

220

Il consumatore, pertanto, ha un precipuo ed autonomo interesse alla

conservazione di un regime realmente competitivo, poiché “la garanzia del bene

della vita di cui è portatore è affidata al corretto funzionamento del mercato”65.

Peraltro, questi ultimi passaggi - gravidi di implicazioni, anche in merito alla

natura dell’interesse che il consumatore potrebbe vantare al fine di una eventuale

impugnazione del provvedimento antitrust, che per opportunità e coerenza di

indagine pare in questa sede doversi trascurare - muovono a svolgere alcune

considerazioni che, lungi dal potersi esaurire nella presente occasione, sollecitano un

ritorno (futuro) ai fenomeni in discussione che tenga conto di queste ultime tendenze

evolutive della giurisprudenza, senza dubbio destinate ad aprire scenari di grande

interesse.

Di queste riflessioni si tenterà quindi di dare qui di seguito una sia pure

essenziale esposizione.

L’attribuzione anche ai consumatori (oltre che ai concorrenti) danneggiati del

diritto di agire ex art. 33, se da un lato sembra soddisfare valutazioni finalizzate ad

un corretto e pieno dispiegamento da parte dell’azione risarcitoria di una funzione di

indiretta deterrenza nei confronti delle imprese, sembra infatti fortemente indebolita

ove la si subordini all’onere da parte del soggetto inciso di dar prova dello specifico

pregiudizio subito in conseguenza della compressione del grado di competitività del

mercato conseguente all’infrazione antitrust.

Se infatti una soluzione di questo tipo può risultare soddisfacente ove il

consumatore vanti una relazione diretta con la singola impresa partecipante al

momento collusivo, alla stregua della quale l’assolvimento del detto onere

probatorio potrebbe costituire un’impresa non impossibile, lo stesso non pare potersi

dire con riguardo a quei casi in cui il consumatore finale rappresenta l’ultimo anello

di una lunga catena al cui apice o nel mezzo della quale si colloca l’infrazione

antitrust.

La struttura economica moderna, infatti, (come osservato nel Capitolo I) si

presenta estremamente articolata, involgendo un elevato numero di imprese che, a

65 E. SCODITTI, Il consumatore e l’antitrust, op. cit., p. 1127 ss.; U. VIOLANTE, Illecito antitrust e

221

diversi livelli, si ripartiscono tanto la fase produttiva quanto quella distributiva. La

possibilità che il torto concorrenziale si attesti su uno qualunque dei piani lungo cui

si dipana l’attività d’impresa fa sì, quindi, che il consumatore possa risentire da

ultimo - secondo il noto meccanismo del passing-on - dell’esito di quanto

concordemente statuito a ben altro livello, così trovandosi concretamente nella

difficoltà estrema di dimostrare che il danno subito a causa del prezzo sovra-

concorrenziale è effettivamente riconducibile all’intesa.

Come hanno infatti cura di ricordare le Sezioni Unite nella pronuncia, “(…)

innanzi alla Corte d’Appello deve essere allegata un’intesa di cui si chiede la

dichiarazione di nullità, ed altresì il suo effetto pregiudizievole, il quale rappresenta

l’interesse ad agire dell’attore secondo i principi del processo, da togliere

attraverso il risarcimento”.

Se dunque il consumatore può dirsi legittimato - come espressamente

riconoscono le Sezioni Unite nella sentenza da ultimo menzionata - ad esperire

l’azione risarcitoria ex art. 33 della legge antitrust ove il danno subito costituisca la

conseguenza immediata e diretta dell’infrazione a monte (nesso di causalità che il

consumatore dovrà pur sempre provare), è da chiedersi - in linea con la teoria della

indirect purchase doctrine statunitense66 - se la medesima soluzione possa essere

accolta anche in quelle ipotesi in cui il consumatore finale veda riflettersi su di sé (o

meglio, sul proprio patrimonio) non le conseguenze dirette della pratica illecita, ma

l’effetto della traslazione a suo carico del maggior costo subito dall’intermediario

(ad esempio il distributore) suo dante causa, a sua volta vittima della concertazione a

monte.

azione risarcitoria, op. cit., p. 15. 66 Nel tratteggiare i confini della legittimazione ad agire (per tutti, non solo per i consumatori), la Corte Suprema ha infatti stabilito che essa non spetti ai c.d. indirect purchasers (acquirenti indiretti), ai quali il danno è stato trasferito nella catena distributiva di un bene. Nel pensiero della Corte, la indirect purchase doctrine, che esclude la legittimazione per i danneggiati indiretti, viene giustificata dalla preoccupazione di evitare il rischio di un pagamento doppio del risarcimento e dalla necessità di eliminare le difficoltà ed i costi istruttori legati alle indagini relative alla misura del danno che si è prodotto e fermato all’intermediario, anello della catena di produzione/distribuzione, e quella che invece è transitata sino all’acquirente finale (cfr. Hanover Shoe, Inc. v. United Shoe Machinery Corp., 392 U.S. 481, 1968; Illinois Brick Co. V. Illinois, 431 U.S. 720, 1977).

222

In quest’ultimo caso, infatti, la soluzione più congeniale per il consumatore

finale sembrerebbe non tanto (o non solo) l’azione dinanzi al giudice di secondo

grado (e in unico grado rationae materiae) ex art. 33, quanto il ricorso agli strumenti

ordinari (con in più l’aggiunta del doppio grado di giurisdizione) di cui agli artt.

1469- bis ss. cod. civ. 67 (ovvero all’art. 9 della legge n. 192/98 in materia di

subfornitura industriale ove si tratti di altro imprenditore), da esperire contro il suo

diretto dante causa, il quale potrebbe a sua volta avere un interesse concreto e

giuridicamente rilevante a ricorrere alle sanzioni civili previste dalla disposizione

antitrust.

In altri termini, il problema che si pone con riguardo all’art. 33, legge n. 287/90,

non è solo un problema riguardante la legittimazione attiva, ma anche (e forse in

maniera ancora più problematica) la selezione del soggetto passivo dell’azione.

Ciò in quanto, sotto il profilo tecnico, il danno subito dal consumatore è non solo

oggettivamente diverso da quello subito dall’intermediario, ma gode altresì di una

propria autonomia anche sul piano causale, “laddove la volontarietà della condotta

dell’intermediario è solo apparente perché egli è un propalatore obbligato del

sovraprezzo (…): e in questa ‘coazione a danneggiare’ deve ravvisarsi la spia più

significativa della persistenza del nesso di causalità”68.

Un aspetto fondamentale nella soluzione della questione della traslazione del

danno riguarda quindi da un lato il ruolo svolto dai soggetti che operano ai piani

intermedi della catena produttivo-distributiva (vittima o complice)69, e dall’altro la

misura in cui essi hanno in concreto trasferito a valle le conseguenze dannose della

pratica illecita realizzata ad un livello superiore.

67 In questo senso, R. CALVO, op. cit., p. 186, secondo il quale la protezione dei soggetti che aderiscono al contratto a valle dell’infrazione antitrust è assicurata non già dalla nullità (derivata o virtuale) dei primi, ma dalla regola dell’inefficacia parziale delle clausole vessatorie di cui all’art. 1469-quinquies cod. civ. In giurisprudenza, favorevole a questa ricostruzione del problema era già il Tribunale di Alba, 12 gennaio 1995, cit. 68 L. NIVARRA, op. ult. cit., p. 1456. 69 A riguardo si vedano le tre situazioni enucleate da A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per la violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 327 s. A riguardo M. LIBERTINI, Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust (II), op. cit., p. 244, osserva che il distributore potrà essere ritenuto corresponsabile solo se imputabile, con l’autore dell’intesa, di concorso attivo nell’illecito antitrust.

223

Nei casi in cui il dante causa riesca a trasferire per intero al consumatore finale

l’entità dell’extra-profitto realizzato dall’impresa collusa con l’aumento concertato

dei prezzi, non pare infatti legittimo riconoscere al primo una qualsivoglia azione

risarcitoria (salvo che questi dimostri di aver sofferto un danno diverso ed

ulteriore70), rimettendo invece al secondo l’esperimento dei rimedi ordinari atti

bilanciare lo squilibrio negoziale venutosi a creare per effetto (mediato) dell’intesa71.

3.1. Osservazioni critiche

L’esame di queste ultime pronunce pone quindi in evidenza una prima apertura delle

Corti - in merito agli effetti che la nullità di un’intesa antitrust esplica sui contratti a

valle - verso il riconoscimento della astratta possibilità di configurare soluzioni

70 A riguardo L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 1455, ritiene che, a prescindere dalla circostanza che il rivenditore riesca o meno a trasferire sugli acquirenti posteriori il sovraprezzo, un danno a suo carico si produrrà comunque, o attraverso una diminuzione delle vendite, o tramite la mancata percezione dell’aumento di prezzo che il mercato si è in concreto rivelato capace di assorbire. Ciò crea, peraltro, il rischio di un uso improprio del mezzo risarcitorio e di una moltiplicazione delle azioni giudiziarie e delle somme rimborsate; rischio, questo, superato nell’esperienza americana attraverso l’obbligo per l’intermediario che eserciti la treble damages action di dedurre il danno eventualmente trasmesso al consumatore finale. In ogni caso, si ricordi che, a seguito della sentenza comunitaria Courage, la legittimazione ad esperire l’azione risarcitoria per violazione dell’art. 81 è estesa anche al soggetto che pur essendo parte di un’intesa illecita non abbia avuto una responsabilità significativa nella distorsione della concorrenza, ossia a colui il quale, ancorché partecipe del piano illecito, abbia sostanzialmente subito il potere negoziale della controparte”. 71 Secondo quest’ultimo Autore, l’affermazione di questo principio passa per il riconoscimento nel nostro ordinamento sia di un diritto degli operatori economici (quindi non solo ai consumatori) a veder praticati soltanto prezzi concorrenziali, che del conseguente dovere giuridico in capo ai medesimi soggetti (specie agli imprenditori) a tenere sotto controllo il mercato al fine di agevolare la repressione di tutti i comportamenti che ostacolano il raggiungimento di questo obiettivo e di astenersi dal praticare, in ogni situazione, un prezzo diverso da quello concorrenziale: “ogni imprenditore si deve nella sostanza fare carico, in virtù del maggiore e più qualificato flusso di informazioni di cui dispone in merito ai mercati a monte di quello in cui egli opera, della protezione della propria clientela dagli effetti di eventuali violazioni”. Un ruolo determinante ai fini del riconoscimento di un diritto al prezzo concorrenziale è quindi attribuito all’art. 82, lett. a), del Trattato ed all’art. 3, lett. a) della legge n. 287/90, che vieta alle imprese in posizione dominante di imporre alle loro controparti contrattuali prezzi e, più in generale, condizioni negoziali non eque (secondo la locuzione impiegata nel Trattato) o ingiustificatamente gravose (secondo la locuzione impiegata dalla legge nazionale). Il principio sotteso alla fattispecie dell’abuso di posizione dominante è infatti ritenuto estensibile anche alle intese, alla stregua della previsione dell’art. 81, lett. a),del Trattato e dell’art. 2, comma 2, lett. a) della legge n. 287/90, ove si fa divieto di di ogni comportamento che determini la fissazione di prezzi ed altre condizioni contrattuali. Di questo avviso anche V. MELI, Lo sfruttamento abusivo di posizione dominante mediante imposizione di prezzi “non equi”, Milano, 1989, p. 7 s.

224

ricostruttive ed ermeneutiche sotto alcuni aspetti divergenti da quelle descritte nel

Capitolo II, almeno quante volte “la situazione considerata si presta (…) ad essere

inquadrata nei termini di una pratica complessivamente illecita, cui afferiscono

come parte saliente – se si preferisce come proiezione comportamentale – i contratti

attuativi del disegno cospiratorio”72.

L’indirizzo giurisprudenziale inaugurato con le sentenze richiamate nei paragrafi

che precedono si presenta difatti quale prodromo di una lettura del problema che,

divincolata da un metodo rigorosamente formalistico, sembra muoversi in sintonia

con l’approccio tipico (e del tutto peculiare) del ragionamento antitrust il quale, pur

scontando le problematiche e per certi versi ancora non chiare interazioni tra le

ferme categorie concettuali della tradizione civilistica e la dinamica realtà del diritto

dell’economia, procede nelle sue analisi fedele soprattutto al dato empirico73.

Un simile orientamento non sembra però esente da rilievi critici ed obiezioni,

che, nell’ottica del civilista attento a cogliere le interazioni tra dinamiche di mercato

e realtà negoziale, inducono a prenderne parzialmente le distanze e a limitarne la

portata dirompente.

L’approccio interpretativo da ultimo descritto - meno legato al profilo

strettamente formale e teso piuttosto a valorizzare l’aspetto sostanziale degli illeciti

antitrust e dei comportamenti che ne consentono l’attuazione concreta sul mercato -

se da un lato merita il riconoscimento di alcuni pregi - quante volte induca ad

analizzare i temi del mercato con un occhio attento alle implicazioni di carattere

economico che lo svolgimento dell’attività negoziale comporta - dall’altro richiede

infatti (e forse impone) che se ne definiscano severamente i limiti di operatività.

La scelta di un metro di giudizio aderente alle peculiarità del diritto della

concorrenza – appunto attento più alle ricadute fattuali delle scelte d’impresa che

alla qualificazione dogmatica delle condotte incriminate – ed all’approccio seguito

72 Così R. PARDOLESI, Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, cit., p. 472. 73 Cfr., prima ancora della Cassazione, SS. UU., 4 febbraio 2005, n. 2207, Cass, 1° febbraio 1999, n. 827 e, in senso conforme, le ordinanze della Corte d’Appello di Milano, sez. I, 3 giugno 2004 e 20 luglio 2004, in Corr. Giur., n. 1/2005, p. 77 ss., con nota di M. NEGRI, Pericolo di esclusione dal mercato e sospensione cautelare dell’aggiudicazione al concorrente. Tra vecchie questioni e nuovi problemi.

225

dai giudici comunitari – i quali, anch’essi, sembrano attribuire un rilievo primario al

profilo effettuale delle relazioni economiche che si svolgono sul mercato imponendo

determinati assetti concreti74 - e che si dichiara funzionale alla tutela dell’assetto di

mercato ed alla sua stabilità, non può dirsi difatti esentato tanto dal misurarsi con le

categorie concettuali della tradizione civilistica, ai cui strumenti pur ci si appella (in

ciò che “il diritto della concorrenza non contiene in sé stesso gli strumenti volti alla

soluzione delle controversie per le quali è stato elaborato”)75, quanto con una

ponderata e responsabile valutazione delle ricadute applicative cui un’integrale

adesione alla lettura dei contratti a valle quale elemento costitutivo della fattispecie

illecita “intesa” di cui all’art. 2 della legge antitrust (ed alla conseguente nullità di

cui al comma 3) inevitabilmente esporrebbe.

In ordine al primo profilo - ovvero alla riconducibilità nell’alveo delle categorie

dogmatiche su cui poggia il nostro sistema giuridico della tesi che vuole l’accordo

collusivo tra le imprese ed i successivi contratti a valle partecipi della medesima

fattispecie infrattiva - si offrono alcune considerazioni.

La prima notazione riguarda in linea generale la possibilità di ravvisare tra

l’accordo a monte ed il contratto a valle - pur volendo accogliere l’idea di superare

la distinzione di piani tra le due realtà (quella di mercato e quella, più ristretta,

negoziale) - la presenza di un legame giuridicamente rilevante in base al quale

74 La Corte di Giustizia, come noto, procede con un approccio di tipo casistico e rifugge dalle categorie dogmatiche generali. In questo senso, cfr. anche Tribunale di Primo grado, sentenza 15 settembre 1998, cause riunite T-374/94, T-375/94, T-384/94 e T-388/94, European Night Services e a./Commissione, in Racc., 1998, I-3141, par. 136, secondo cui “(…) la valutazione di un accordo ai sensi dell’art. 85, n. 1, deve tenere conto dell’ambito concreto nel quale esso produce i suoi effetti, in particolare del contesto economico e giuridico nel quale operano le imprese interessate, della natura dei servizi contemplati dall’accordo, nonché delle effettive condizioni di funzionamento della struttura del mercato interessato”. Come rileva pure G. D’AMICO, Regole di validità e regole di comportamento nella formazione del contratto, cit., p. 39, continuare a ragionare con gli strumenti del codice civile non è più possibile. In tutte le economie avanzate, infatti, si è da tempo avviata una fase (tuttora in corso) di “adeguamento” e di “ammodernamento” del diritto contrattuale, con l’obiettivo di rendere la regolamentazione di questo fondamentale settore delle relazioni economiche e sociali adeguata ai tempi. In particolare, è la Comunità europea ad essersi assunta il compito di promuovere tale ammodernamento, individuando nella disciplina del contratto l’elemento centrale di una nuova politica di “strutturazione” del mercato. Come osserva anche F. LUCARELLI, Solidarietà e autonomia privata, 1970, Napoli, p. 11, “Le istituzioni privatistiche non sono isolabili da un certo momento storico e politico, ma costituiscono l’espressione di un bagaglio secolare di cultura ed esperienza”. 75 L. DI VIA, L’invalidità nei contratti tra imprenditori, op. ult. cit., p. 641.

226

estendere la nullità normativamente prevista per il vincolo (negoziale o meramente

comportamentale) tra le imprese colluse anche agli atti, strutturalmente validi e

causalmente autonomi, che di quello stesso pactum si vorrebbero intendere come

mero momento attuativo ed esecutivo.

Come già osservato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 17475/2002

(dalla quale pare peraltro doversi dissentire - condividendo la lettura offerta dalla

sentenza delle Sezioni Unite - quanto alle statuizioni in merito alla estensibilità dei

rimedi di cui all’art. 33 anche ai consumatori), i contratti stipulati da ciascuna

impresa aderente alla determinazione della comune strategia commerciale

costituiscono infatti “fenomeni che, pur attenendo alla vita del mercato, si pongono

solo a valle, in quanto mediati dal concreto comportamento tenuto dalle singole

imprese nella gestione di singoli e specifici rapporti intessuti direttamente con i

singoli consumatori”. Rapporti, quindi, non incisi dall’infrazione concorrenziale

sullo sfondo, in quanto “già presidiati in quanto tali dalla loro logica giuridica

interna”76.

Perché quest’ultima possa essere scalfita - limitandoci in questa sede a

richiamare le argomentazioni offerte da quanti contestano la possibilità di inquadrare

il rapporto tra i due elementi della vicenda in termini di invalidità derivata (per cui si

rinvia al Capitolo II) - e si possa quindi ragionare in termini di “operazione

economica” - ovvero di “una sequenza unitaria e composita che comprende in sé il

regolamento, tutti i comportamenti che con esso si collegano per il conseguimento

dei risultati voluti, e la situazione oggettiva nella quale il complesso delle regole e

gli altri comportamenti si collocano, poiché anche tale situazione concorre nel

definire la rilevanza sostanziale dell’atto di autonomia privata”77 - è infatti

necessario che tra i due momenti (accordo a monte e contratto a valle) possa

individuarsi un nesso giuridicamente qualificabile in termini di collegamento

negoziale 78.

76 Di questo avviso, da ultimo, anche R. CALVO, op. cit., p. 184. 77 E. GABRIELLI , Il contratto e le sue classificazioni, in Riv. dir. civ.,1997, I, p. 719. 78 Di questo avvis o anche L. DI VIA, L’invalidità nei contratti tra imprenditori, op. ult. cit., p. 637 ss. Il collegamento negoziale, rileva M. NUZZO nel commentare la norma dell’art. 1469-quinquies, op. ult. cit., pp. 318-319, verrebbe in tal modo impiegato non solo per la valutazione della funzione

227

Le Sezioni Unite, per questa ragione, qualificano il legame tra contratto a valle

ed infrazione a monte in termini di collegamento funzionale, per la cui sussistenza,

tuttavia, giova ribadirlo, è in linea generale necessario che sussista l’elemento della

unitarietà dell’interesse perseguito, ossia che i diversi rapporti negoziali tra i quali si

crede di cogliere tale nesso tendano a realizzare un fine pratico unitario.

Perché possa discorrersi in termini di collegamento funzionale - pur superando

l’elemento soggettivo della coincidenza di tutte le parti coinvolte nei diversi rapporti

(non ritenuto essenziale ai fini del collegamento negoziale)79 - deve infatti potersi

affermare che i singoli rapporti - che peraltro nel caso di specie potrebbero

assumere le sembianze di una semplice pratica comportamentale - perseguono un

interesse immediato strumentale rispetto all’interesse finale dell’operazione: “questo

interesse finale concorre a determinare la causa concreta del contratto poiché è

l’interesse che il contratto è diretto a realizzare”80.

Quest’ultimo peraltro, come già messo in luce nel Capitolo I, non pare

ravvisabile con riguardo alla fattispecie in esame la quale, anche a voler cogliere un

qualche nesso tra intesa e contratti a valle, non pare in alcun modo integrare gli

estremi del collegamento81.

I rapporti negoziali che seguono la definizione concordata di una comune

strategia d’azione si presentano infatti, condividendo l’affermazione di cui alla

sentenza n. 17475/2002, dominati da una propria interna ragion d’essere, che vale a

renderli autonomi ed indifferenti, nella realizzazione del combinato assetto di

complessiva dell’operazione in termini di liceità-illiceità, ma anche per individuare effetti non ricollegabili ai singoli contratti fra loro collegati e derivanti direttamente dalla fattispecie di collegamento che risulta dal considerarli complessivamente. In quest’ottica, quindi, chi è terzo rispetto al singolo negozio ma parte dell’operazione complessiva, diviene destinatario degli effetti derivanti dalla fattispecie di collegamento, tutti a lui egualmente opponibili. 79 C. M. BIANCA, Il contratto, op. cit., p. 483. 80 C. M. BIANCA, Il contratto, op. cit., p. 482. 81 Di questo avviso, da ultimo, è anche M. LIBERTINI, Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust (II), op. cit., p. 246, secondo il quale l’invalidità potrebbe essere predicata - richiamando la distinzione operata dalla dottrina tedesca tra Ausfuhrungsvertrage e Folgevertrage – solo con riguardo ai casi in cui il contraente a valle è chiamato a svolgere una funzione di concorso attivo nell’illecito concorrenziale. Al di fuori di questa ipotesi, infatti, il contratto presenta una sua funzione economica ben distinta e priva di profili anticoncorrenziali, tale per cui “appare arduo individuare fra l’intesa e il contratto a valle un collegamento negoziale di tipo civilistico” (così P. FATTORI e M. TODINO, op. cit., p. 433).

228

interessi che in essi si esprime, alla manifestazione di una volontà cospiratoria da

parte delle imprese colluse.

Pur potendo dare concreta attuazione a quanto statuito a monte, i contratti a valle

non paiono infatti in alcun modo tendere alla realizzazione di un interesse

immediato strumentale o parziale rispetto ad un qualsivoglia interesse unitario.

Sebbene posti in essere dall’imprenditore per realizzare il risultato economico

perseguito attraverso l’intesa, i contratti attuativi dell’accordo anticoncorrenziale

godono infatti, rispetto a quest’ultimo, di una loro piena autonomia causale,

svolgendo una propria funzione economica a prescindere dal collegamento con la

concertazione vietata.

Pure in una nozione di causa come ragione pratica del contratto, il negozio

esecutivo dell’intesa, infatti - come già ampiamente osservato - “continua ad

avere, almeno nell’ottica di ciascuna delle controprati dell’imprenditore, il senso

che gli è proprio indipendentemente dal programma di attività a monte e dunque

continua a conservare la funzione pratica caratteristica del tipo posto in essere”82.

Ciò detto, sembra quindi non condivisibile - alla luce delle (già illustrate)

argomentazioni addotte dalla migliore dottrina, incline a negare qualsivoglia

rapporto di tal fatta tra i due momenti della vicenda in esame - quanto

apoditticamente affermato dalla sentenza n. 2207/05 sul punto.

L’esclusione della soluzione invalidativa pare pure confermata alla luce della

giurisprudenza comunitaria - sostanziale punto di riferimento dell’interprete

nazionale - la quale - pur rinviando al diritto interno dei singoli ordinamenti la

soluzione normativa relativa alle conseguenze di natura civilistica dell’illecito

antitrust -, nella nota e già menzionata sentenza Courage prospetta, anche per

l’imprenditore che abbia partecipato al piano collusivo con la stipulazione di un

contratto di distribuzione, il solo rimedio risarcitorio.

82 Così G. GUIZZI, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, op. cit., p. 67.

229

Che la via da percorrere sia quella risarcitoria pare inoltre sostenibile anche alla

luce di quella distinzione tra reato-contratto e reato in contratto che, d’uso nella

terminologia penalistica, sembra adattarsi proficuamente alla fattispecie in analisi83.

La bipartizione - fondata sulla distinzione tra atto e comportamento e tra regole

di validità e regole di responsabilità84 - intende in particolare per reati-contratto,

quelli “commessi nella conclusione di un contratto e mediante i quali si incrimina il

83 L’elaborazione della classificazione si deve specialmente a F. MANTOVANI, Diritto penale, Parte speciale, Delitti contro il patrimonio, Padova, 1992, p. 53 ss. Secondo questa ripartizione, l’incidenza della violazione della norma penale sul contratto varia a seconda che il divieto sia diretto a sanzionare il comportamento di uno dei contraenti nella fase di conclusione del contratto o la stessa conclusione del contratto. Solo in questa seconda ipotesi sarebbe, in particolare, configurabile la sanzione della nullità quale conseguenza della violazione della norma penale, il divieto vietando proprio la stipulazione del contratto. La condotta unilaterale penalmente rilevante di una delle parti, invece, non inciderebbe necessariamente sulla liceità del negozio, potendo piuttosto determinare una diversa reazione dell’ordinamento o, al limite, il solo obbligo risarcitorio a carico dell’autore del reato. Nella categoria dei reati in contratto rientrano soprattutto i reati mediante i quali viene incriminata non la conclusione in sé del contratto, ma il comportamento (violento, fraudolento, profittatorio) tenuto durante tale fase. Così M. RABITTI, Contratto illecito e norma penale, op. cit., pp. 12-13, nota 16. 84 Definito il comportamento come “l’insieme dei contegni volontari che danno vita all’atto e ne fanno una realtà distinta”, e l’atto come “l’insieme degli elementi rilevanti che costituiscono il tipo di atto, ossia l’insieme dei presupposti necessari all’applicabilità della norma che individua il tipo di atto”, si rileva in dottrina come, al di là delle formule definitorie, la distinzione è essenziale per comprendere e limitare l’ambito di operatività di due diversi gruppi di regole caratterizzanti l’intero sistema del libro IV del codice civile: quelle dirette a verificare la conformità allo schema legale dell’assetto negoziale realizzato, che si risolvono in un giudizio di rilevanza e di validità dell’atto, e quelle dirette a verificare la liceità o illiceità della condotta posta in essere dai contraenti, la quale, collocandosi sul piano del fatto materiale e costituendo il presupposto dell’atto, se illecita può costituire fonte di risarcimento del danno, ma non produce alcun effetto sul piano della validità (cfr. M. RABITTI, op. ult. cit., p. 63). Richiama la distinzione tra atto e comportamento anche M. NUZZO, Utilità sociale e autonomia privata, op. cit., p. 134 ss. Coglie il progressivo e crescente superamento - nell’ottica del diritto privato europeo - della distinzione tra regole di validità e regole di comportamento implicanti responsabilità e il progressivo spostamento del principio di buona fede contrattuale sul terreno della validità, N. LIPARI , Il ruolo del notaio nella nuova realtà delle nullità contrattuali, op. cit., pp. 371-372, secondo il quale è da registrare “un progressivo processo di osmosi che conduce ad intendere il giudizio di nullità come un giudizio complesso nel quale non entrano soltanto profili di struttura, ma anche indici di segno comportamentale”. Un esempio di questa tendenza, osserva l’Autore, è da cogliere proprio nella disciplina della nullità degli atti in violazione della normativa antitrust, nella quale la sanzione invalidativa è stabilita non in ragione di indici di struttura , bensì nella prospettiva degli effetti che l’atto è idoneo a produrre e quindi degli interessi sui quali è in condizione di incidere. Ulteriori esempi in cui la “sanzione di nullità acquista carattere di imperatività solo in presenza di determinate condizioni esterne al contratto” possono cogliersi: nell’art. 3, n. 4, della legge 25 ottobre 1987, n. 67 (c.d. legge sull’editoria), dove si prevede che gli atti di cessione, i contratti di affidamento in gestione di testate nonché il trasferimento tra vivi di azioni, partecipazioni o quote di società sono nulli se, per effetto della loro conclusione, uno stesso soggetto raggiunga la posizione dominante; nell’art. 15, n. 2, della legge 6 agosto 1990, n. 223, relativo ai contratti aventi per effetto l’assunzione di posizioni dominanti nel settore radiotelevisivo e nell’art. 127, comma 2, del Testo unico in materia bancaria e creditizia (D. lgs. 1° settembre 1993, n.

230

fatto stesso della conclusione del contratto”; per reati in contratto, invece, quelli

“mediante i quali viene incriminata non la conclusione in sé del contratto ma il

comportamento tenuto durante la medesima”.

Ai fini che ci riguardano, in particolare, è quest’ultima fattispecie - all’interno

della quale la dottrina inscrive il reato di truffa - a venire in rilievo, caratterizzata

dal sanzionare non la conclusione del contratto in sé, ma l’illecito perpetrato nella

fase della conclusione del contratto, ossia il comportamento tenuto da un contraente

in danno dell’altro nell’esercizio dell’attività negoziale. L’illecito in questo caso,

secondo la qualificazione dei reati in contratto offerta dalla dottrina, non penetra

all’interno della fattispecie negoziale e quindi non incide direttamente né sugli

elementi strutturali né funzionali dell’atto, non producendo alcun effetto sul piano

della validità e rilevando quale mera causa risarcitoria.

Anche le indagini sui cosidetti vizi incompleti del contratto - già richiamati nel

Capitolo II - inducono la dottrina a distinguere i comportamenti dei contraenti che

attraverso le loro dichiarazione negoziali penetrano nel tessuto del regolamento

pattizio incidendone la validità da quei comportamenti che, al contrario, pur

giuridicamente rilevanti, rimangono esterni alla fattispecie.

Questi ultimi, nella specie, “non penetrando nell’autoregolamento costruito

dalle parti, restano irrilevanti ai fini del giudizio di validità del contratto, ma

possono continuare a rilevare, ove siano stati posti in essere in violazione del

dovere di lealtà e correttezza nella fase delle trattative e del procedimento di

formazione del contratto, ai fini del giudizio di responsabilità precontrattuale”85.

La ragione del parallelismo riscontrabile con la figura dei reati in contratto è da

cogliere quindi nel fatto che la fissazione di standard comportamentali illeciti sul

piano antitrust da parte della singola impresa che, collusa con le sue pari, stipula a

valle una serie uniforme di contratti con la propria clientela, si colloca, alla stregua

della fattispecie di stampo penalistico, in un momento che precede il

385), che, pur revedendo fattispecie di nullità che possono essere fatte valere solo dal cliente, le fa spesso dipendere da circostanze esterne alla struttura dell’atto. 85 M. RABITTI, op. ult. cit., p. 64.

231

perfezionamento dei rapporti negoziali a valle, rilevando quale comportamento

illecito inscritto nella fase che precede la stipulazione del contratto.

L’eventuale alterazione dell’equilibrio negoziale e delle condizioni cui il

contratto sarebbe stato altrimenti stipulato è quindi da riportare alla condotta illecita

che l’impresa assume a danno della controparte, condotta che rimane esterna rispetto

all’atto a valle - in sé strutturalmente e funzionalmente perfetto - e pertanto fonte

non di un giudizio di validità del contratto o di singole clausole, ma semmai di

responsabilità.

Anche volendo superare le considerazioni di ordine concettuale e dogmatico -

che già di per sé sembrano comunque impedire di discorrere con riguardo ai contratti

che si pongono quale precipitato del programma d’azione concertato in termini di

nullità - non pare potersi negare che alla soluzione invalidativa osti pure la semplice

(e forse più elementare) considerazione delle ricadute effettuali (a voler assumere

quella stessa prospettiva pragmatica da cui pure la tesi in discorso dichiara di voler

muovere) di una simile opzione interpretativa.

Anche là dove si voglia astrattamente immaginare (con le Sezioni Unite) la

nullità dei contratti a valle quale sanzione diretta a privare l’impresa dei frutti

dell’illecito, deve infatti riflettersi sul fatto che, in ogni caso, la caducazione dei

rapporti negoziali si rivelerebbe inadeguata ed anzi dannosa rispetto all’obiettivo

avuto di mira, ovvero alla tutela della controparte dell’impresa collusa, terza e non

partecipe dell’infrazione.

Come evidenziato dalla dottrina già richiamata nel Capitolo II - ove si sono

proposte le diverse soluzioni argomentative poste a suffragio della nullità dei

contratti a valle e, a fronte, le critiche – la nullità dei contratti (pur) attuativi

dell’intesa produrrebbe nei fatti ripercussioni catastrofiche: “azzerare rapporti che

hanno per intero dispiegato i propri effetti metterebbe capo ad un’avventura

improponibile e capricciosa”86.

Come osservato dal Tar Lazio nella sentenza n. 1790/03 (per la quale si rinvia

nuovamente al Capitolo II), infatti, il carattere normalmente occulto, per i terzi, della

232

causa determinatrice della ipotizzata nullità a cascata ed il rigore che permea la

disciplina normativa della nullità, esporrebbe il contraente non partecipe del

momento collusivo, al di fuori di ogni consapevolezza e possibilità di controllo ed

anche a distanza di tempo, all’alea di una possibile vanificazione retroattiva dei

rapporti contrattuali di cui è titolare, con un effetto devastante sulla sicurezza delle

relazioni giuridiche e sulla stessa tutela del mercato.

Per questa ragione, anche chi ha postulato la possibilità di dare soluzione alla

problematica in esame inquadrando la serie contrattuale a valle quale elemento

costitutivo della concertazione a monte, ipotizzando di sottoporre la prima al

medesimo esito previsto dall’art. 2, comma 3, con riguardo all’accordo collusivo

stricto sensu, conclude osservando che “Il riscatto per la vittima del fruit contract

non alligna (e non può allignare) nel terreno dell’invalidità negoziale”87.

Altro è, infatti, immaginare in linea teorica ed astratta una soluzione tanto

drastica come la nullità quale strumento idoneo a ripristinare lo status quo ante e

dunque ad azzerare (con la nullità assoluta) o a ridimensionare (con la nullità

parziale) non solo l’illecito, ma soprattutto gli effetti concreti che di quello

attualizzano il programma, ristabilendo le condizioni di una leale competizione tra le

paciscenti, altro è, invece, ragionare in termini di stabilità del mercato e di certezza

degli scambi, valutando le ripercussioni pratiche a cui la formula immaginata

potrebbe dare adito.

La distinzione tra concorrenza e mercato diviene infatti rilevante (e forse

determinante) allorché si avvertono le conseguenze concrete che una soluzione pure

astrattamente condivisibile ai fini della rimozione degli effetti di pratiche distorsive

della competizione potrebbe cagionare nel generale equilibrio di mercato e nella

protezione degli interessi di cui i vari soggetti che in quella scena si muovono ed

agiscono si fanno portatori.

86 Così ancora, ma in senso critico, R. PARDOLESI, Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, cit., p. 475. 87 R. PARDOLESI, op. loc. cit.

233

La tutela del consumatore (ed in generale della controparte a valle dell’impresa

collusa), quale oggetto della specifica disciplina del mercato (e non solo della

concorrenza), opera infatti anche prima ed al di fuori del regime concorrenziale.

Ciò risulta chiaramente confermato dai criteri di cui si deve tener conto ai fini

dell’esenzione di cui all’art. 4 della legge n. 287/90, alla stregua dei quali il

beneficio dei consumatori assume valore pregnante nella temporanea autorizzazione

di situazioni anticompetitive (per un’analisi dei quali si rinvia al Capitolo I), come

pure, all’inverso, dalla circostanza che fattispecie vietate dalla legge antitrust come i

prezzi predatori giovano di per sé, almeno nel breve periodo (altrimenti incidendo

sulla qualità dei prodotti offerti), a quegli stessi soggetti.

Con questo non si intende certo negare che la libera concorrenza costituisca

generalmente la condizione ottimale affinchè ai consumatori sia consentito di

esercitare liberamente e consapevolmente il proprio potere di scelta e di

autodeterminazione economica, ma che tutela della concorrenza e tutela del

mercato, per quanto termini necessariamente convergenti e connessi, possono

assumere significati e direzioni non coincidenti.

Anche volendo condividere la soluzione invalidativa cui le Sezioni Unite (e la

precedente giurisprudenza amministrativa) sembrano voler lasciare spazio, ancorate

ad una lettura delle norme antitrust fedele al contesto in cui il sistema

antimonopolistico è inserito, si deve quindi precisare che la tutela del terzo estraneo

all’intesa – che rappresenta la ragione fondante dello stesso contendere giudiziale -

non necessariamente può essere soddisfatta attraverso una rigida (e miope)

applicazione delle disposizioni del diritto della concorrenza.

Mentre la sanzione della nullità di cui all’art. 2, comma 3, della legge n. 287/90,

ha come obiettivo la conformazione (e, nelle ipotesi di una divergenza, la

riconduzione) dell’azione delle imprese alla scelta economico-politica del modello

di mercato concorrenziale assunto (se non dal nostro legislatore Costituente,

certamente) dai Trattati europei, il regime di validità o di invalidità che riguarda i

contratti a valle alligna nel terreno della tutela del mercato, che, pur (giova ribadirlo)

234

individuando nell’assetto concorrenziale il modello economico in astratto ottimale, è

tesa alla protezione ed alla composizione di interessi eterogenei e confliggenti.

Una responsabile politica di mercato, quindi, non sembra ammettere né

consentire, in ragione delle conseguenze pratiche che una soluzione come la nullità

potrebbe determinare sulla stabilità dell’intero sistema economico e

sull’appagamento delle dialettiche esigenze che sul mercato si confrontano, una

lettura dei contratti a valle in chiave antitrust quale quella descritta.

Come osservato da autorevole dottrina, difatti, “Se la prestazione acquisita dal

contraente gli è utile, e la sua volontà, perché viziata, ha consentito all’assunzione

di un sacrificio eccessivo, il diritto trova sempre il modo di convalidare il contratto

rettificandolo: e ciò non già per una economia di mezzi, ma perché sarebbe nocivo

negare al contraente, vittima di un sopruso, la prestazione di cui ha bisogno. Non

dimentichiamo che l’addebito di un danno pari al superprezzo stipulato mediante un

abuso è sostanzialmente una rettifica dei termini del contratto”88.

Pur cogliendo l’importanza ed il pregio delle considerazioni svolte da ultimo

dalla Suprema Corte in merito al rapporto che, privilegiando l’ottica antitrust, si

ritiene di poter cogliere astrattamente tra il piano ideale concordato dalle imprese e

lo strumento negoziale attraverso il quale la strategia anticoncorrenziale trova

concreta attuazione – inquadrando in linea generale i contratti successivi all’accordo

quali negozio-mezzo e non come negozio-a valle (per riprendere nuovamente la

terminologia adoperata dal Tar del Lazio nella sentenza n. 1790/03) - si ritiene

dunque che l’unica soluzione ragionevolmente prospettabile – alla luce delle

considerazioni dogmatiche e fattuali esposte – sia quella che poggia le basi sulla

convinzione che “Il contratto diventa mero elemento di una fattispecie di

responsabilità aquiliana”89, dunque ravvisando nel rimedio risarcitorio (secondo i

termini in cui lo definisce la sentenza n. 2207/05) la sola via percorribile al fine di

88 Così R. SACCO - G. DE NOVA, Il contratto, op. cit., p. 626. 89 R. PARDOLESI, Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, cit.

235

riparare il danno arrecato ai contraenti a valle per effetto dell’alterazione delle

condizioni di mercato90.

Che il rimedio risarcitorio - ora, alla luce della sentenza n. 2207/05 - costituisca

ancora il rimedio più funzionale alla tutela del terzo, concorrente o consumatore,

controparte dell’atto negoziale a valle, pare inconfutabile anche alla stregua di

un’interpretazione sistematica della ratio antimonopolistica proposta dalle Sezioni

Unite.

L’espressa affermazione che vuole la legge n. 287/90, in armonia con quanto

stabilito dal legislatore del Trattato, deputata a tutelare con i soggetti del mercato

(tanto consumatori quanto imprenditori) “un più generale bene giuridico”, ossia la

competitività ed insieme la stabilità delle relazioni economiche, conferma infatti,

come poc’anzi argomentato, che il sistema non può tollerare quelle soluzioni

interpretative che, prospettando a vario titolo l’invalidità dei contratti a valle,

finiscono da un lato per paralizzare gli scambi, con buona pace per i contratti già

conclusi - i quali, validi sino ad un certo momento, sarebbero colpiti da invalidità

sopravvenuta a seguito della dichiarazione di nullità dell’intesa - e dall’altro per

arrecare al terzo contraente un danno (la perdita della prestazione contrattuale)

superiore al sovrapprezzo in ipotesi versato in conseguenza dell’illecito aumento dei

prezzi.

L’azione risarcitoria, attraverso la sua funzione riparatoria e compensativa, pare

infatti in linea generale in grado di salvaguardare la posizione dei soggetti

danneggiati dagli effetti della distorsione anticoncorrenziale, al tempo stesso

90 Individua nell’imposizione a carico dell’impresa della responsabilità extracontrattuale e nel risarcimento del danno uno strumento “particolarmente idoneo a tutelare le situazioni giuridiche soggettive dei singoli lesi dal comportamento anticoncorrenziale” anche M. SCHININÀ, Responsabilità per attività d’impresa, in Trattato di diritto privato europeo, a cura di N. Lipari, vol. IV, Padova, 2003, p. 605. L’Autrice osserva, in particolare, la maggiore efficacia del rimedio extracontrattuale rispetto a quello della nullità, dalla quale discenderebbero a carico dell’impresa meri obblighi restitutori, inadeguati a tutelare il concorrente o il consumatore che abbiano subito pregiudizi economici ulteriori rispetto alla stipulazione del contratto nullo. Nello stesso senso anche A. FRIGNANI - M. WALBROECK, op. cit., p. 367. Anche la Commissione europea, nella Comunicazione concernente la cooperazione tra la Commissione e le autorità garanti della concorrenza degli Stati membri per l’esame dei casi disciplinati dagli articoli 85 e 86 del Trattato CE, pubblicata in G.U.C.E., 15 ottobre 1997, n. C313, si sofferma sulla particolare efficacia dei rimedi di carattere extracontrattuale, evidenziando l’effetto dissuasivo prodotto dal rischio di condanne al risarcimento dei danni da parte dei giudici nazionali (punto 16).

236

conservando l’utilità che la stipulazione del contratto a valle esercita e costituendo

una sanzione sufficientemente grave ed onerosa da scoraggiare le imprese dal

seguire condotte concertate e dal dare ad esse effettiva attuazione 91.

L’opportunità di ricorrere allo strumento risarcitorio - in grado, di per sé, di

rafforzare (come evidenziato dalla Corte di Giustizia nella sentenza Courage-

Crehan richiamata) l’enforcement antimonopolistico – emerge pure da una corretta

considerazione del richiamo al profilo effettuale contenuto nel disposto dell’art. 2,

comma 2, della legge antitrust.

Come bene evidenziato nella sentenza n. 2207/05, infatti, la valutazione del

momento effettuale e dunque della concretizzazione reale sul mercato del

programma di concertazione astrattamente stabilito a monte dalle imprese, assume

un senso logico non al fine di ipotizzare (per quanto ciò sia immaginabile alla

stregua delle categorie concettuali e dei principi di teorie generale del diritto) una

caducazione dei contratti a valle alla luce del comma 3 dell’art. 2, ma proprio della

proposizione dell’azione risarcitoria.

In altri termini, una rigorosa lettura dell’art. 2 della legge antitrust induce a

ritenere che l’espressa distinzione tra piano contenutistico e piano effettuale

dell’intesa assume rilievo proprio nel momento in cui si passa dalla valutazione

dell’Antitrust - abilitata a sanzionare collusioni che abbiano anche semplicemente

una potenzialità anticoncorrenziale, presentando un oggetto contrastante con il

principio della libera competizione non giustificabile alla stregua dell’art. 4 - a

quella del giudice ordinario (in unico grado) in chiave risarcitoria.

Diversamente dall’Autorità garante, infatti, “il giudice, che dirime controversie

e non si occupa di fenomeni, può essere officiato solo in presenza o in vista almeno

di un pregiudizio. Dunque innanzi alla Corte d’appello deve essere allegata

un’intesa di cui si chiede la dichiarazione di nullità, ed altresì il suo effetto

91 G. DE NOVA, Il contratto contrario a norme imperative, in Riv. crit. dir. priv., 1985, p. 446, ritiene che in materia debba operare il c.d. criterio del minimo mezzo , per cui la nullità “deve essere esclusa se l’esigenza perseguita dal legislatore mediante la previsione della specifica sanzione (civilistica, amministrativa, o penale) sia compiutamente realizzata con la relativa irrogazione, mentre deve essere ammessa in caso contrario”.

237

pregiudizievole, il quale rappresenta l’interesse ad agire dell’attore secondo i

principi del processo, da togliere attraverso il risarcimento”92.

In mancanza di un effetto pregiudizievole, e dunque di una proiezione sulla

realtà economica del disegno collusivo (in ipotesi rappresentato dalla conclusione a

condizioni alterate di contratti a valle), viene infatti a mancare qualunque interesse

concreto ed attuale ad agire per le vie ordinarie per sentir dichiarare nulla l’intesa e

ad esperire il rimedio del risarcimento del danno 93.

La soluzione favorevole al rimedio risarcitorio, con l’esclusione di qualunque

profilo o ricaduta in termini di nullità dell’atto negoziale a valle trova tra l’altro

conforto, come anticipato, nella giurisprudenza comunitaria la quale, anticipando i

presupposti sostanziali cui le Sezioni Unite hanno poi ancorato il riconoscimento

anche al consumatore che lamenti uno specifico pregiudizio il diritto ad invocare la

tutela di cui all’art. 33, individua con Courage proprio nel risarcimento del danno lo

strumento idoneo a reagire alla restrizione provocata dall’intesa alle condizioni di

mercato ed alla compressione della libertà di agire dei soggetti che in esso operano.

Il grado di responsabilità (significativa o meno) nella distorsione della

concorrenza diviene infatti, nelle parole della Corte europea, il discrimine in base al

quale il giudice nazionale è chiamato ad ammettere all’azione risarcitoria il soggetto

che, ancorché partecipe del programma collusivo, abbia sostanzialmente subito, in

ragione della posizione di inferiorità grave in cui si colloca, il potere della

controparte94.

Lo squilibrio tra le posizioni dei soggetti coinvolti nell’intesa - ove si pensi di

poter accogliere anche il contratto a valle nella fattispecie dell’art. 2 della legge

antimonopolistica nazionale, allargando anche al terzo non direttamente coinvolto

92 Cass., n. 2207/05. 93 In altri termini, “(…) se l’intesa non è attuata, non c’è azione di danni in capo ai consumatori; se l’intesa è attuata, c’è azione di danni in capo ai consumatori”, così M. LIBERTINI, Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust (II), op. cit., p. 242. 94 Nella fattispecie esaminata dalla Corte si trattava, infatti, di un pregiudizio arrecato non ad un terzo, concorrente o consumatore, ma alla stessa controparte dell’intesa, nulla di pieno diritto ex art. 81. A riguardo, peraltro, G. ROSSI, “Take Courage”! La Corte di giustizia apre nuove frontiere per la risarcibilità del danno da illeciti antitrust, cit., p. 91, osserva che la pronuncia “avvia un processo di comunitarizzazione delle regole in tema di risarcimento del danno antitrust, dai presupposti e dagli esiti inevitabilmente ancora incerti”.

238

nell’accordo collusivo la sia pur inconsapevo le partecipazione all’illecito

concorrenziale - diventa quindi, ove uno di questi (il più debole) abbia subito un

danno per effetto dell’avervi preso parte, motivo di legittimazione di quest’ultimo ad

ottenere tutela risarcitoria quante volte la sua libertà negoziale e, prima ancora, la

possibilità di orientare liberamente la propria condotta sia compromessa seriamente

sino ad essere annullata95.

A questo deve poi aggiungersi un’ulteriore osservazione, propriamente attinente

al piano della efficacia del rimedio risarcitorio di cui si è detto.

Una specifica riflessione, alla quale peraltro è possibile dedicarsi in questa sede

in maniera soltanto sommaria, ruota infatti attorno all’opportunità che, anche in

Italia, si introducano strumenti di tutela di categoria con riguardo a tutte quelle

ipotesi in cui, come nel caso di specie, il numero di soggetti che hanno subito un

danno di modesta entità è particolarmente elevato. In questi casi sembra che le

azioni collettive costituiscano difatti l’unico strumento di tutela davvero efficace,

consentendo la trattazione di più cause concernenti la lesione di una molteplicità di

posizioni di vantaggio di carattere individuale in maniera simultanea ed unitaria,

95 La Corte di Giustizia afferma infatti che il diritto nazionale non deve ostacolare il ricorso alle azioni private, poiché esse aumentano il grado di effettività delle disciplina antitrust, nell’interesse generale, oltre che dei singoli danneggiati. L’azione privata può infatti, aggiunge G. ROSSI, op. ult. cit., p. 97, egregiamente servire da strumento di tutela dell’interesse generale, che non è più monopolio delle autorità antitrust. La sentenza Courage, quindi, impone di riconoscere la possibilità di una funzionalizzazione dell’azione alla tutela (anche) di interessi esterni rispetto a quelli del danneggiato e di natura generale, ampliando l’accesso al rimedio risarcitorio a soggetti che, sulla base delle norme nazionali, ne resterebbero esclusi. Il problema diventa allora, osserva l’Autore, quello di selezionare i soggetti legittimati a proporre l’azione, non potendosi estendere la tutela senza alcun limite, “e dovendosi piuttosto ricercare un delicato punto d’equilibrio tra la necessità di aumentare l’effettività dei divieti antitrust tramite le azioni risarcitorie private, e la non meno rilevante necessità di evitare di conferire tutela ad interessi che una corretta interpretazione dei divieti antitrust impedisce di tutelare”. La necessità che gli strumenti di protezione accordati dalla normativa antimonopolistica nazionale si muovano in una direzione conforme a quella seguita dagli organi comunitari è pure ribadita, come si osservava nel Capitolo I, dal Regolamento n. 1/2003, il quale, prevedendo espressamente la necessità di concedere il ristoro risarcitorio alle parti danneggiate da infrazioni antitrust (cfr. recital 7), ha imposto alla Commissione, alle Autorità amministrative ed ai giudici nazionali di evitare orientamenti contrastanti nell’applicazione del diritto della concorrenza nell’ottica di una sua armonizzazione, per consentire agli operatori economici di poter fare affidamento su un quadro giuridico certo ed uniforme e per migliorare il mercato interno.

239

eliminando l’eventualità di giudicati contrastanti e coagulando in capo ad un unico

collegio giudicante la cognizione di una molteplicità di pretese seriali96.

Perché il diritto antitrust possa veramente svolgere un ruolo determinante quale

strumento di libertà dei cittadini e di giustizia sociale97, di estrema opportunità si

rivelerebbe pertanto - come da più parti osservato - il riconoscimento nel nostro

ordinamento (ad esempio attraverso l’inserimento nel tessuto della legge n. 281/98

di una norma che riconosca alle associazioni legittimate la possibilità di esperire non

solo, secondo la previsione vigente, rimedi di natura inibitoria e restitutoria, ma

96 In tal senso, A. TOFFOLETTO - A. STABILINI, Tutela giurisdizionale collettiva dei diritti dei consumatori e legge antitrust, op. cit., p. 242. Va segnalato, a riguardo, come già prima dell’entrata in vigore di tale legge fosse stata comunque sostenuta la possibilità di esperire i rimedi previsti dalla legge antitrust da parte delle associazioni dei consumatori, argomentando dall’art. 2601 cod. civ. in tema di concorrenza sleale - ai sensi del quale “Quando gli atti di concorrenza sleale pregiudicano gli interessi di una categoria professionale, l’azione per la repressione della concorrenza sleale può essere promossa anche dalle associazioni professionali e dagli enti che rappresentano la categoria” - estendendo la nozione di “associazioni professionali” a quelle dei consumatori, oltre che degli imprenditori. Sul punto, si vedano: V.P.G. JAEGER, Intervento, in AA.VV., Antitrust: le sanzioni, Milano, 1996, p. 131 ss; G. GHIDINI, Della concorrenza sleale, in Commentario al codcie civile, a cura di P. Schlesinger, Milano, 1991, p. 388 ss., il quale argomenta invece dal principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 Cost. 97 Le Sezioni Unite, nell’affermare che la funzione illecita delle intese si realizza con la sostituzione del diritto del consumatore di una scelta effettiva tra prodotti in concorrenza con una “scelta apparente”, sembra infatti aderire a quella impostazione professata da tempo dalla dottrina che pone la protezione della libertà di scelta degli operatori e degli utilizzatori finali al centro degli scopi perseguiti dal diritto antitrust, il quale è concepito quale “(…) espressione della democrazia economica e deve perciò essere vissuto come un luogo di attiva partecipazione del cittadino nella ricerca e determinazione del suo modo di vivere e del suo benessere” (così G. ROSSI, Antitrust e teoria della giustizia , cit., p. 7).

240

anche di natura risarcitoria)98 di uno strumento assimilabile (ma con i dovuti

adeguamenti) alle class actions statunitensi99.

Queste ultime, come è noto, si caratterizzano per il fatto che la proposizione di

un’azione giudiziaria da parte di alcuni soggetti anziché produrre effetto soltanto

inter partes, si ripercuote, sulla base di un meccanismo peraltro estraneo al nostro

98 A riguardo devono segnalarsi due proposte di legge della Camera dei Deputati del 27 marzo 2003, n. 3838 e 3839, che costituiscono, per espressa previsione delle relazioni illustrative, una risposta legislativa proprio alla sentenza 9 dicembre 2002, n. 17475, con cui la Cassazione ha escluso la legittimazione dei consumatori a far valere pretese risarcitorie per i danni cagionati dall’illecito Rc Auto, ampiamente richiamato. Le due proposte sono dirette rispettivamente ad inserire all’interno dell’art. 3, comma 1, della legge n. 281/98 l’azione di gruppo e l’azione di classe e a prevedere la legittimazione ad agire per conto e nell’interesse della classe (o del gruppo) alle associazioni di consumatori iscritte nell’elenco tenuto presso il Ministero delle Attività Produttive. La proposta n. 3838, in particolare, prevede la possibilità per le associazioni di consumatori iscritte di proporre azioni risarcitorie e restitutorie di gruppo, aventi ad oggetto somme di denaro (dovute direttamente ai singoli consumatori e agli utenti), derivanti dalla commissione da parte del professionista (nell’ambito dei rapporti giuridici nascenti da contratti conclusi secondo le modalità previste dall’art. 1342 cod. civ.) di atti illeciti plurioffensivi (mass torts), di inadempimenti e violazioni dei diritti di una pluralità di consumatori. 99 Sul punto si vedano, ad esempio, P. FAVA, L’importabilità delle class actions in Italia, in Contr. e impr., n. 1/2004, p. 166 ss. e ID., Class actions all’italiana: “Paese che vai, usanza che trovi” (l’esperienza dei principali ordinamenti giuridici stranieri e le proposte di legge n. 3838 e n. 3839), in Corr. Giur., n. 3/2004, p. 397 ss. Anche in Europa, peraltro, pur non riscontrandosi esperienze processuali analoghe a quelle statunitensi, si registra un crescente interesse verso le “class actions”, finalizzato alla predisposizione di efficaci strumenti processuali specificamente rivolti alla tutela in forma aggregata di situazioni controverse di natura seriale caratterizzate da questioni di fatto o di diritto simili o comuni. Tra gli Stati europei, il primo a munirsi di una disciplina compiuta in materia (peraltro più flessibile di quella statunitense), adeguando le proprie regole processuali alle peculiarità del contenzioso seriale tipico delle moderne economie dei paesi industrializzati, è stato il Regno Unito, con le riforme del 1998 (c.d. Woolf Reform) e del 2000 (relativa al c.d. GLO, Group Litigation Order). Per un inquadramento generale del problema dell’accesso dei consumatori alla giustizia ed una panoramica sui provvedimenti adottati dalle istituzioni comunitarie in materia, si veda C.M. VERARDI, Accesso alla giustizia e tutela collettiva dei consumatori, in Il diritto privato dell’Unione europea, a cura di A. Tizzano, vol. II, Torino, 2000, p. 1331 ss. Particolarmente interessante a riguardo si rivela il progetto elaborato dalla Commissione europea a favore del progressivo sviluppo degli strumenti di risoluzione extragiudiziale delle controversie che vedono coinvolti i consumatori, consistente nella creazione di una Rete europea extragiudiziale (EEJ-net). Creata nell’ottobre 2001 sulla scorta delle indicazioni fornite dalla risoluzione del Consiglio del 25 maggio 2000, in G.U.C.E., C155, 1, la rete si configura come una struttura di informazione e sostegno a disposizione di tutti i consumatori del paesi dell’UE e del SEE, a cui ricorrere per comporre le vertenze commerciali con le imprese residenti in un altro Stato membro partecipante al progetto. A questo fine, l’EEJ -net mette in collegamento i diversi organismi di risoluzione extragiudiziale delle vertenze in materia di consumo operanti negli Stati membri dell’UE e del SEE. In tema di risoluzione alternativa delle controversie (ADR, Alternative Dispute Resolution), si veda soprattutto il Libro Verde della Commissione [doc. COM (2002)196 def. del 19 aprile 2002]. Le esigenze di tutela collettiva dei consumatori di fronte all’introduzione di modelli di produzione e distribuzione di massa sono posti in risalto da M. BESSONE, Interesse collettivo dei consumatori e regolazione giuridica del mercato. I lineamenti di una politica del diritto, in Giur. it., 1986, IV, p. 294 ss.; B. CAPPONI - M. GASPARINETTI - C.M.

241

sistema processuale (ex art. 2909 cod. civ.), nei confronti di tutti coloro i quali,

appartenendo ad una medesima categoria (o classe), non abbiano esercitato la

facoltà di restarne esclusi (c.d. opt-out)100.

Senza ripercorrere il dibattito relativo alla distinzione tra interessi diffusi ed

interessi collettivi - che richiederebbe ben altra analisi e competenza - molto

importante ed incisiva si rivelerebbe, con riguardo al caso di specie ed alla luce delle

considerazioni svolte in merito alla natura dei soggetti economici ed al carattere per

lo più standardizzato dei contratti in cui l’abuso collettivo si sostanzia, l’attribuzione

all’interesse individuale della possibilità di trovare protezione nel fattore associativo.

All’interno del gruppo organizzato la tutela invocata dalla singola posizione

soggettiva incisa (nel caso di specie, quella del consumatore che ha dovuto pagare

un sovraprezzo per effetto dell’alterazione concordata delle condizioni di mercato)

troverebbe infatti un momento di grande potenziamento101.

VERARDI (a cura di), La tutela collettiva dei consumatori, Napoli, 1995, ivi ampi richiami bibliografici.. 100 Come ricorda P. FAVA, op. ult. cit., p. 399, nel sistema statunitense (che disciplina le class actions nella Rule 23 delle Federal Rules of Civil Procedure), perché uno o più membri di una classe possano citare o essere citati in giudizio come parti rappresentative di tutti gli altri, è necessario che sussistano innanzitutto cumulativamente tutti gli elementi del tipo a), ossia numerosity, commonality, typicality, fairness and aequacy: il primo requisito postula, per la formazione di una classe, la presenza di una moltitudine di persone danneggiate da una pratica di mercato illecita; la commonality, invece, richiede che le pretese implichino la soluzione di questioni di fatto o di diritto comuni a tutti i membri della classe; in base alla typicality, la pretesa dell’attore rappresentativo deve essere “tipicamente” quella di un altro membro della classe, nel senso che deve essere proprio quella che farebbe valere un class member. Difatti, se l’attore rappresentativo ha sofferto un danno diverso o ha interessi differenti rispetto ai soggetti rappresentati, tale requisito non può dirsi soddisfatto; l’ultimo requisito (fair and adequate representation), richiede invece che l’attore rappresentativo (ma anche il suo avvocato) sia in grado di rappresentare la classe con lealtà, senza conflitti di interesse, in maniera tecnicamente ed economicamente adeguata, agendo nel miglior modo possibile a tutela degli interessi dell’intera classe. In presenza di tutti i requisiti sub a), il giudice rilascerà la certificazione della classe, alla quale dovranno poi aggiungersi in via alternativa i requisiti indicati dalla Rule 23, lett. b), delle Federal Rules of Civil Procedure, al fine di individuare il tipo di azione esperibile. A riguardo si veda anche C. CONSOLO, Class actions fuori dagli USA? (Un’indagine preliminare sul versante della tutela dei crediti di massa: funzione sostanziale e struttura processuale minima), in Riv. dir. civ., 1993, p. 609 ss.; A. GIUSSANI, Studi sulle “class actions”, Padova, 1996. 101 Nel descriverne le caratteristiche salienti, C.M. VERARDI, Accesso alla giustizia e tutela collettiva dei consumatori, op. cit., p. 1348 s., ricorda che le class actions si caratterizzano unicamente per il fatto che non è necessario che tutti i membri della classe siano citati in giudizio o anche conosciuti (…). Tale strumento realizza, dunque, un’opportuna semplificazione di natura processuale, facilitando la possibilità di risarcimento dei danni negli affari individuali di scarso valore, in quanto consente di ridurre le spese processuali e di ottenere risultati più efficaci, mettendo in comune ai consumatori interessati le informazioni rilevanti ed i mezzi finanziari necessari. La nozione di azione di classe non appartiene alle tradizioni giuridiche degli Stati membri dell’Unione; il modello non è

242

Come osservato con riguardo al sistema statunitense, infatti, le class actions

hanno riscosso un grande successo assicurando ad ogni cittadino danneggiato

l’accesso alla giustizia con modalità efficienti ed economiche anche per pretese di

modesto ammontare (le c.d. small claims), tra l’altro svolgendo funzioni di

deterrenza nello stimolare comportamenti migliorativi da parte degli operatori i

quali, non avvertendo il rischio di potenziali iniziative giudiziarie, avrebbero

altrimenti una debole motivazione a rispettare la legge e ad improntare la propria

condotta al principio di lealtà e correttezza nelle relazioni economiche.

Un rimedio di questo tipo - il quale non potrebbe comunque, in ragione della

incompatibilità sostanziale tra le class actions del modello nordamericano con il

nostro sistema processuale, essere trasposto tale e quale 102 - renderebbe dunque

certamente più efficace ed incisiva l’azione risarcitoria, cui il singolo spesso è in

concreto indotto a rinunciare ove chiamato ad affrontare costi di giustizia più elevati

rispetto all’ipotetico ristoro.

L’attuale sistema normativo italiano, peraltro, non prevede ancora questa

eventualità, atteso che la legge n. 281/98 - che pure estende (art. 3) per la tutela dei

diritti dei consumatori e degli utenti la legittimazione ad agire in giudizio a quelle

associazioni che possiedono una determinata rappresentatività sul territorio

nazionale (art. 5) - contempla la possibilità di un’azione collettiva esclusivamente al

fine di chiedere al giudice: 1) di inibire la condotta lesiva; 2) di adottare misure di

correzione o di eliminazione degli effetti dannosi cagionati dalle violazioni

accertate; 3) di disporre la pubblicazione su uno o più quotidiani a diffusione

nazionale del provvedimento, ove la pubblicazione sia in grado di contribuire ad

eliminare o correggere gli effetti della violazione.

L’estensione della legittimazione processuale ad una categoria indistinta di

soggetti, per mezzo della relativa associazione di categoria, non riguarda dunque la

facilmente trasponibile nel sistema comunitario anche perché molti aspetti della pratica giudiziaria americana non sono prospettabili nei paesi europei (…)”. 102 Contrario alla introduzione nel nostro sistema di un istituto processuale che operi in modo analogo alle class actions statunitensi per un insuperabile contrasto con le garanzie riconosciute dall’art. 24 Cost. è P. RESCIGNO, Sulla compatibilità tra il modello processuale della “class action” ed i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano, in Giur. it., 2000, p. 2224 ss.

243

richiesta di ristoro economico dei danni patrimoniali subiti, che resta quindi

possibile solo ai singoli individui in base alle regole processuali generali.

Un simile adeguamento, in un’ottica di compensazione del danno

concorrenziale, pare quindi utile affinchè il diritto antitrust possa davvero essere

“espressione della democrazia economica e (…) perciò vissuto come un luogo di

attiva partecipazione del cittadino nella ricerca e determinazione del suo modo di

vivere e del suo benessere. Ciò spiega (infatti) la meritevolezza costante delle sue

finalità ed il loro continuo adeguamento alla necessità del benessere collettivo”103.

4. Considerazioni conclusive

Nello sforzo di raccogliere, in esito alle osservazioni da ultimo sviluppate, le

conclusioni finali sull’argomento, non sembra fuori luogo, allargando l’angolo di

osservazione dal tema specifico dell’interazione intesa a monte/contratto a valle,

svolgere alcune considerazioni in merito al metodo di analisi adottato dagli studiosi

del diritto antitrust, atte a motivare le ragioni della perdurante oscillazione di

tendenze e soluzioni interpretative suggerite con riguardo a quelle fattispecie vietate

dalla legge n. 287/90 che, come quella oggetto del presente studio, involgono

tematiche e questioni di “stretto” diritto civile più da vicino ed in maniera più

penetrante.

Il criterio d’indagine assunto dal diritto della concorrenza - orientato

massimamente a valutare gli effetti che l’infrazione antitrust è in grado di produrre

sulla struttura di mercato, piuttosto che i soli comportamenti mediante i quali tali

effetti vengono in essere - ric hiede infatti un atteggiamento pragmatico ed analitico

il quale, disancorato dalle “strettezze” dogmatiche definite dalla tradizione ed

ispirato dall’approccio economico richiamato nelle ultime Comunicazioni europee e

103 Così G. ROSSI, Antitrust e teoria della giustizia, op. cit., p. 7.

244

largamente impiegato dalle corti statunitensi, si spinge a dare rilievo preminente al

dato sostanziale piuttosto che a quello formale104.

Qualunque sforzo ricostruttivo che non sappia tenere conto di tali circostanze,

pare di conseguenza destinato, da questo punto di vista ed in virtù del vincolo

ermeneutico di cui al comma 4 dell’art. 1 della legge n. 287/90 - che impone alle

autorità nazionali di interpretare ed applicare il diritto della concorrenza in

conformità ai principi sanciti dagli atti normativi e dalla giurisprudenza comunitari -

a risolversi inevitabilmente in uno sterile esercizio dogmatico privo di qualsiasi

utilità pratica.

Ciò induce quindi a riconoscere alla ricostruzione interpretativa da ultima

esposta - nutrita della più ampia considerazione dei vincoli interpretativi ed

applicativi che l’appartenenza all’Unione europea impone ed attento all’approccio

economicistico che il diritto antitrust fa proprio e suffragata dalla più recente

giurisprudenza di legittimità - un grande valore, specie per l’attenzione e la costanza

104 Che l’utilizzo di strumenti economici al fine di valutare i concreti effetti delle intese sul mercato di riferimento sia un dato ormai acquisito anche per la Commissione è del resto confermato dai già menzionati Regolamenti CE in materia di accordi di ricerca e sviluppo (n. 2659/00) e specializzazione (n. 2658/00), nei quali l’abbandono della precedente impostazione (basata su un elenco di clausole esentate) a vantaggio di una definizione delle categorie di accordi esentati che faccia riferimento al potere di mercato è giustificato sulla base della coerenza con “un’impostazione di tipo economico intesa a valutare le ripercussioni degli accordi sul mercato”. Sottolinea quali effetti negativi possa comportare una valutazione rigidamente formalistico-contrattuale delle intese, senza l’ausilio di alcuna analisi economica, anche G. D’ATTORRE, Una “ragionevole” concorrenza: il ruolo della “rule of reason” dopo la riforma del diritto antitrust comunitario, op. cit., p. 93, che richiama a sua volta F. GHEZZI, Verso un diritto antitrust comune?, cit., p. 517. A riguardo si vedano anche: G. BERNINI, op. cit., p. 178 e, con riguardo alle operazioni di concentrazione, V. MANGINI - G. OLIVIERI, op. cit., p. 81; C. ANGELICI, in Diritto commerciale. Istituzioni di diritto, Roma-Bari, 2002, p. 106, il quale sottolinea proprio il fatto che, da un punto di vista “concorrenziale”, non interessano il significato statico di situazione di mercato, e neppure i risultati economici; ciò che assume rilievo primario, infatti, è il significato di “processo , quello appunto caratterizzato da un adeguato grado di effettività di tali libertà”; M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, cit., p. 438, secondo il quale la necessità di ricorrere a criteri empirici nella politica della concorrenza è dettata dall’opportunità di intendere la concorrenza come bene giuridico ricostruito in senso dinamico, ovvero come processo , non come situazione ottimale, che richiede una valutazione della liceità delle condotte imprenditoriali attenta al mutare del relativo assetto di mercato, della durata della condotta e degli effetti da essa prodotti nel tempo. La tendenza è tra l’altro confermata dal menzionato Libro bianco del 1999 sulla modernizzazione con il quale la Commissione europea, anticipando la svolta realizzata dal Consiglio con il successivo Regolamento n. 1/2003, ha espressamente ribadito che “l’attuazione della riforma si inserirà nel contesto di un approccio rigorosamente economico dell’applicazione dell’art. 81” (cfr. par. 75). In questo senso, giova ribadirlo, si muovono anche le già richiamateLinee direttrici in materia di accordi verticali, che adottano un criterio del tutto simile a quello delle corti statunitensi.

245

con cui rimanda, nella lettura della ratio antimonopolistica e degli strumenti di cui

questa si avvale, alla normativa ed alla giurisprudenza comunitaria 105.

L’approccio del diritto antitrust, peraltro, non può indurre a trascurare o a

superare con “leggerezza” né il dato normativo né, tantomeno, le categorie

concettuali consegnateci dalla nostra tradizione civilistica, che inducono a

ridimensionare fortemente le conclusioni cui una miope ed asettica applicazione del

diritto antitrust sembrerebbe condurre.

In tale contesto, il compito affidato a dottrina e giurisprudenza non è quindi

affatto agevole: se un’actio finium regundorum appare - prima ancora che

opportuna - necessaria, è altrettanto chiaro che l’analisi del rapporto ravvisabile tra i

contratti cosiddetti a valle e l’intesa a monte non può in nessun caso prescindere

dalla peculiarità della materia e degli interessi (generali e particolari) tutelati106.

Per questa ragione, richiamando le parole di un noto giurista dei nostri tempi, si

deve affermare con forza che “la repressione e la eliminazione dell’infrazione non

possono coinvolgere i rapporti contrattuali nei quali si sia già svolta l’intesa. In

presenza di consimili rapporti, l’iniziativa di investirli allegando la illiceità

dell’intesa non può essere che della controparte del soggetto dell’intesa medesima,

ma dell’ammissibilità e dell’esito di una simile iniziativa – sia pure in presenza di

un’accertato comportamento anticoncorrenziale – è a giudicarsi, in coordinamento

con la normativa antitrust, secondo il diritto dei contratti”107.

105 Dinanzi ad un fenomeno di vasta portata come il mercato - informato alla luce dei Trattati dai principi della piena integrazione e della libertà di circolazione e degli scambi - è infatti imprescindibile assumere come punto di riferimento costante l’ordinamento comunitario (del quale la protezione del consumatore rappresenta uno degli aspetti più qualificanti) in quanto, proprio in virtù del rapporto di integrazione che lo pone in posizione di prevalenza rispetto all’ordinamento interno (primato tra l’altro costituzionalmente riconosciuto dall’art. 117 Cost. a seguito della riforma del Titolo V), esso produce sul nostro sistema conseguenze giuridiche di grande rilievo, la cui mancata considerazione rischia di inficiare la correttezza e l’esattezza della ricostruzione proposta in ordine alla disciplina interna. 106 Come specifica F. SILVA, Efficienza e politica antitrust, in Antitrust between EC law and national law (Antitrust fra diritto nazionale e diritto comunitario), a cura di E.A. Raffaelli, Milano, 1998, p. 238, nota 28, la diversità di posizione tra economisti e giuristi in ordine ad un medesimo concetto si inquadra in una più generale diversità di prospettiva: mentre il ragionamento economico valuta le azioni sulla base del risultato, il diritto, al contrario, valuta i comportamenti sulla base della loro liceità, mosso da un criterio di giustizia, ossi di rispetto della legge. 107 G. OPPO, Costituzione e diritto privato nella “tutela della concorrenza”, op. cit., pp. 552-553.

246

Alla luce di ciò pare dunque più opportuno - sulla base delle ragioni

analiticamente esposte nel paragrafo che precede - abbandonare quelle soluzioni

ermeneutiche del problema della ripercussione della nullità di un’intesa

anticoncorrenziale sui contratti sottostanti che, privilegiando un approccio di stampo

economicistico, discorrono della questione in termini invalidativi. Simili

ricostruzioni infatti, come già osservato, appaiono, ad un esame più attento,

funzionalmente inidonee a garantire la tutela dell’interesse dalla cui cura si è

supposto voler muovere.

La difesa della controparte negoziale della singola impresa collusa - interesse

assolutamente preminente anche in un’ottica di stabilità ed efficienza del mercato -

invoca infatti strumenti efficienti e funzionali in grado di ripristinare il

funzionamento virtuoso (o almeno tendenzialmente tale) del sistema- mercato senza

mortificare l’interesse privato del singolo soggetto inciso a non vedersi privato del

bene di scambio.

Un ruolo chiave ricopre quindi il rimedio risarcitorio, applicato in conformità

allo statuto delineato dal disposto combinato dell’art. 2043 cod. civ. e dell’art. 33

della legge antitrust, secondo il recente dettato giurisprudenziale delle Sezioni Unite.

Nell’ottica complessivamente descritta, particolarmente significativo (come

rilevato poc’anzi) si rivelerebbe poi, ai fini della congiunta ed utile applicazione del

diritto antitrust e della protezione del soggetto debole del contratto a valle

(rientrante, per lo più, in uno standard negoziale) la previsione di uno strumento

processuale (accompagnato dagli aggiustamenti che un “trapianto” nel nostro

ordinamento comunque richiede) assimilabile alle class actions statunitensi.

Nel quadro dell’evoluzione delle relazioni economiche verso rapporti di massa,

che vedono consumatori, utenti, investitori, risparmiatori contrapposti a forti

operatori economici dall’identità sempre più spesso multinazionale ed associata,

l’opportunità concreta dei primi di intervenire attivamente a tutela dei propri

interessi in forma aggregata è infatti affidata alla possibilità offerta da strumenti

come le azioni di classe di innestare quel fenomeno di bilanciamento tra poteri

247

privati che nelle società evolute rappresenta il più potente antidoto nei confronti di

poteri forti quale quello imprenditoriale.

La crisi del diritto degli individui e la sua sostituzione con il diritto delle

categorie, innestata dall’apertura dei mercati e dalla creazione di spazi

dell’economia sempre più vasti, accresce quindi l’utilità che un meccanismo di

tutela aggregata del tipo richiamato rivestirebbe in relazione all’obiettivo di

garantire il soddisfacimento delle pretese risarcitorie avanzate - come nel caso che

ci riguarda - da moltitudini massificate di consumatori, al tempo stesso

disincentivando il ricorso da parte delle imprese a strategie collusive e dunque a

favorire il mantenimento od il ripristino del regime concorrenziale.

Come risulta ormai più che evidente secondo le linee e le prospettive sinora

descritte, il tema che ci ha qui interessato più da vicino e l’indagine svolta a tal fine,

superando la necessità (e l’obiettivo) di formulare una personale risposta in ordine

alle problematiche sollevate dal discusso e multiforme rapporto “interattivo” tra

realtà economica e di mercato e sottostante microcosmo negoziale, finiscono - a

modesto avviso di Chi scrive - per rivelare e dischiudere orizzonti di studio di

grande ampiezza e complessità, involgenti profili di analisi non ristretti a semplici

riflessioni accademiche, ma profondamente calati nel quotidiano, espressione della

vita concreta del nostro Paese, costantemente richiamato dall’essere ormai parte a

tutti gli effetti del sistema- Europa a rispondere in maniera sempre più efficiente ed

efficace alla sfida della competitività108.

108 A riguardo si veda, da ultimo, il decreto c.d. “competitività” (D. l. 14 marzo 2005, n. 35, “Disposizioni urgenti nell’ambito del piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale”, in G.U., 16 marzo 2005, n. 62).

248

Riferimenti bibliografici

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