IL RICORSO PER CASSAZIONE NEL PROCESSO PENALE
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IL RICORSO PER CASSAZIONE NEL PROCESSO PENALE
COME REDIGERE UN ATTO INECCEPIBILE NELLA FORMA E NEL MERITO
Potenza, 12/04/2019
INDICE
1. “Il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione dopo il d.lgs.
11/2018” a cura di Sergio Beltrani, dal “il Penalista”, focus del
12/11/2018.
2. Cassazione Penale S.U. sentenza n. 07986 / 17, ud. 18/11/2016 deposito
del 20/02/2017.
3. Cassazione Penale S.U. sentenza n. 27971 / 17, ud. 13/01/2017 deposito
del 06/06/2017.
4. Cassazione Penale S.U. sentenza n. 06141 / 17, ud. 25/10/2018 deposito
del 07/02/2019.
Il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione dopo il d.lgs. 11/2018
di Sergio Beltrani
Focus del 12 novembre 2018
Focus di Sergio Beltrani
L'autore rivisita il c.d. principio di autosufficienza in relazione ai poteri-doveri delgiudice di legittimità (penale), alla luce del nuovo art. 165-bis disp. att. c.p.p.,introdotto dal d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, e contenente disposizioni in ordine agliadempimenti connessi alla trasmissione degli atti al giudice dell'impugnazione. SOMMARIO: 1. Abstract - 2. Il nuovo art. 165-bis disp. att. c.p.p. - 3. Il c.d. principio diautosufficienza del ricorso per cassazione - 4. Vizi di motivazione, violazioni processuali edaccesso agli atti in Cassazione - 5. In conclusione
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Focus di Sergio Beltrani
1. AbstractL'autore rivisita il c.d. principio di autosufficienza in relazione ai poteri-doveri del giudice di legittimità(penale), alla luce del nuovo art. 165-bis disp. att. c.p.p., introdotto dal d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, econtenente disposizioni in ordine agli adempimenti connessi alla trasmissione degli atti al giudicedell'impugnazione.
2. Il nuovo art. 165-bis disp. att. c.p.p.Il d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11ha introdotto il nuovo art. 165-bis disp. att. c.p.p., contenente disposizioni inordine agli adempimenti connessi alla trasmissione degli atti al giudice dell'impugnazione.Il secondo comma della citata disposizione stabilisce che:«Nel caso di ricorso per cassazione, a cura della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimentoimpugnato, è inserita in separato fascicolo allegato al ricorso, qualora non già contenuta negli atti trasmessi,copia degli atti specificamente indicati da chi ha proposto l'impugnazione ai sensi dell'articolo 606,comma 1, lettera e), del codice; della loro mancanza è fatta attestazione».Questa disciplina comporta, all'evidenza, due conseguenze:
1. nel caso in cui il ricorso per cassazione denunzi il motivo di cui all'art. 606, comma 1, lettera e), c.p.p., ovvero un vizio di motivazione, la cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimentoimpugnato deve inviare alla Corte di cassazione copia degli atti specificamente indicati dalricorrente, attestando altresì eventualmente che gli atti indicati dal ricorrente non sono allegabiliperché non presenti nei fascicoli del dibattimento di primo e secondo grado;
2. tale disciplina non è prevista anche per il caso in cui il ricorso per cassazione denunzi gli ulteriorimotivi di cui all'art. 606, comma 1, c.p.p. (inclusio unius, exclusio alterius …).
3. Il c.d. principio di autosufficienza del ricorso per cassazioneLa giurisprudenza di legittimità penale accoglie tradizionalmente il principio della c.d. autosufficienza delricorso, inizialmente elaborato dalla giurisprudenza di legittimità civile.Valorizzando in passato la previgente formulazione dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (a norma delquale, le sentenze pronunziate in grado d'appello o in unico grado possono essere impugnate con ricorsoper Cassazione «[…] 5) per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo dellacontroversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio»; la disposizione stabilisce attualmente, all'esitodelle modifiche apportate dall'art. 54 d.l. 83/2012, convertito in l. 134/2012, che le sentenze pronunciate ingrado d'appello o in unico grado possono essere impugnate con ricorso per cassazione «[…] 5) per omessoesame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti»), esuccessivamente la formulazione (introdotta dal d.lgs. 40/2006) dell'art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c. (anorma del quale il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità: «[…] 6) la specificaindicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso sifonda»), la giurisprudenza civile afferma correntemente che il ricorso per cassazione, in relazione al principiodell'autosufficienza che deve connotarlo, risulta ammissibile quando sia dato evincere, in qualunque modo(non necessariamente riproducendo pedissequamente i motivi del gravame che era stato proposto contro ladecisione del giudice di primo grado) ma senza la necessità di utilizzare atti diversi, la questione che erastata devoluta al giudice di appello e le ragioni che il ricorrente aveva inteso far valere in quella sede: talielementi devono essere univocamente desumibili sia da quanto nel ricorso stesso viene riferito circa ilcontenuto della sentenza impugnata, sia dalle critiche che ad essa vengono rivolte (Cass. civ., Sez. II, n.26234/2005; Cass. civ., Sez. lav., n. 14561/2012; Cass. civ., Sez. II, n. 17449/2015, per la quale, da ultimo,«È inammissibile, per violazione del criterio dell'autosufficienza, il ricorso per cassazione col quale si lamentila mancata pronuncia del giudice di appello su uno o più motivi di gravame, se essi non sianocompiutamente riportati nella loro integralità nel ricorso, sì da consentire alla Corte di verificare che le
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questioni sottoposte non siano "nuove" e di valutare la fondatezza dei motivi stessi senza dover procedereall'esame dei fascicoli di ufficio o di parte»). Tenuto conto dei principi e delle finalità complessivamente sottesi al giudizio di legittimità,la giurisprudenza penale ha, a sua volta, affermato che il principio di autosufficienza del ricorso,elaborato in sede civile, deve essere recepito e applicato anche in sede penale.Un orientamento ha, in proposito, affermato che, «quando la doglianza abbia riguardo a specifici attiprocessuali, la cui compiuta valutazione si assume essere stata omessa o travisata, è onere del ricorrentesuffragare la validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell'integrale contenuto degli attispecificamente indicati (ovviamente nei limiti di quanto era stato già dedotto in precedenza), posto cheanche in sede penale - in virtù del principio di autosufficienza del ricorso come sopra formulato e richiamato -deve ritenersi precluso a questa Corte l'esame diretto degli atti del processo, a meno che il fumus del viziodedotto non emerga all'evidenza dalla stessa articolazione del ricorso» (Cass. pen., Sez. I, n. 16706/2008 eCass. pen., Sez. I, n. 6112/2009). Si è così ritenuto che è inammissibile per difetto di specificità il ricorso percassazione che, deducendo il vizio di manifesta illogicità o di contraddittorietà della motivazione erichiamando atti specificamente indicati, non contenga la loro integrale trascrizione o allegazione e non neillustri adeguatamente il contenuto, così da rendere lo stesso ricorso autosufficiente con riferimento allerelative doglianze (Cass. pen., Sez. V, n. 11910/2010; Cass. pen., Sez. II, n. 26725/2013: fattispecie nellaquale il ricorrente, pur lamentando l'esistenza di due verbali relativi alla medesima udienza con indicazionitra loro incompatibili, non ne aveva allegato copia; Cass. pen., Sez. IV, n. 46979/2015: fattispecie nella qualeil ricorrente, pur lamentando l'omessa valutazione di prova documentale e dichiarativa, aveva omesso sia diallegare sia di indicare i relativi atti processuali; Cass. pen., Sez. II, n. 20677/2017: fattispecie nella quale ilricorrente, pur lamentando l'assenza di precedenti condanne per estorsione, non aveva allegato il certificatodel casellario giudiziale, e non aveva indicato per quali altri fatti era già stato condannato).Altroorientamento, meno severo, riteneva (come si vedrà, più correttamente) che il ricorso per cassazioneche denuncia il vizio di motivazione deve contenere, a pena di inammissibilità e in forza del principio diautosufficienza, le argomentazioni logiche e giuridiche sottese alle censure rivolte alla valutazione deglielementi probatori, e non può limitarsi a invitare la Corte alla lettura degli atti indicati, il cui esame diretto èalla stessa precluso (Cass. pen., Sez. VI, n. 29263/2010); il ricorso per cassazione con cui si lamenti lamancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione per l'omessa valutazione di circostanzeacquisite agli atti non potrebbe, quindi, limitarsi, pena l'inammissibilità per difetto di specificità, ad addurrel'esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione delprovvedimento impugnato ovvero non correttamente od adeguatamente interpretati dal giudicante, madovrebbe, invece (Cass. pen., Sez. VI, n. 45036/2010):a) identificare l'atto processuale cui fa riferimento;b) individuare l'elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile conla ricostruzione svolta nella sentenza;c) dare la prova della verità dell'elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonchè della effettivaesistenza dell'atto processuale su cui tale prova si fonda;d) indicare le ragioni per cui l'atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l'intera coerenzadella motivazione, introducendo profili di radicale "incompatibilità" all'interno dell'impianto argomentativo delprovvedimento impugnato.Si è precisato che la condizione della specifica indicazione degli altri atti del processo, con riferimento aiquali, l'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., configura il vizio di motivazione denunciabile in sede di legittimità,può essere soddisfatta nei modi più diversi (quali, ad esempio, l'integrale riproduzione dell'atto nel testo delricorso, l'allegazione in copia, l'individuazione precisa dell'atto nel fascicolo processuale di merito), purchédetti modi siano comunque tali da non costringere la Corte di cassazione ad una lettura totale degli atti,dandosi luogo altrimenti ad una causa di inammissibilità del ricorso, in base al combinato disposto degli artt.581, comma 1, lett. c), e 591 c.p.p. (Cass. pen., Sez. III, n. 43322/2014).
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4. Vizi di motivazione, violazioni processuali ed accesso agli atti in CassazioneI motivi di ricorso deducibili in sede di legittimità sono indicati dall'art. 606, comma 1, lett. da a) a e), c.p.p. Leconseguenze del principio di autosufficienza del ricorso, non affermato da alcuna norma ma desunto invia interpretativa, generalmente (anche se a volte solo implicitamente) considerandolo attributo dellanecessaria specificità del ricorso, non possono, pertanto, prescindere dalla disciplina dettata dall'art.606 c.p.p., e dai poteri-doveri del giudice di legittimità che ne conseguono, diversi a seconda delletipologie di motivo. Può, ad esempio, ritenersi pacifico che, allorché sia dedotto, mediante ricorso per cassazione, un error inprocedendo ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. c), c.p.p., la Corte di cassazione sia giudice anche del fattoe, per risolvere la relativa questione, può/deve accedere all'esame diretto degli atti processuali (Cass. pen.,Sez. unite, n. 42792/2001: in applicazione del principio, in una fattispecie relativa alla denuncia diinutilizzabilità, in procedimento incidentale de libertate, di intercettazioni di comunicazioni tra presenti, la S.C.ha provveduto all'esame diretto dei decreti autorizzativi del giudice per le indagini preliminari e di quelliesecutivi del pubblico ministero; conformi, successivamente, Cass. pen., Sez. I, n. 8521/2013, avente aoggetto una doglianza di omessa notifica al difensore di fiducia del decreto di fissazione dell'udienzacamerale nel procedimento di sorveglianza, e Cass. pen., Sez. III, n. 24979/2018).Tuttavia, i poteri/doveri della Corte di cassazione di controllo degli atti per la verifica della fondatezza deimotivi inerenti ad asseriti errores in procedendo non possono esonerare il ricorrente dalla specificaindicazione dell'atto da esaminare e sul quale compiere la verifica richiesta (cfr., ad esempio, Cass. pen.,Sez. VI, n. 10373/2002: fattispecie nella quale il ricorrente aveva contestato la competenza del giudice delleindagini preliminari, asserendo di aver tempestivamente eccepito la questione all'udienza preliminare e diaverla riproposta nelle successive fasi di merito, senza tuttavia indicare nel ricorso la data delle relativeudienze, e quindi i verbali specificamente rilevanti, e quindi da consultare; conforme, Cass. pen., Sez. VI, n.17377/2016, che ha ritenuto affetto da genericità il motivo di ricorso per cassazione che - lamentando laviolazione di norme processuali in relazione all'art. 601 c.p.p., per l'omessa notifica all'imputato del decreto dicitazione a giudizio, a seguito del rinvio di ufficio disposto a causa dell'adesione del difensore all'astensionedi categoria – aveva omesso di precisare a quale decreto di citazione si riferisse la doglianza).In ordine agli errores in procedendo, quindi, l'onere di specificità del ricorso imposto dall'art. 581, comma 1,c.p.p. impone la specifica indicazione:
dell'atto viziato;del vizio dedotto (con la sanzione prevista: se non sanzionati a pena di nullità, inutilizzabilità,inammissibilità, decadenza, gli errores in procedendo non sarebbero deducibili).
A ciò si aggiunge l'onere di procedere alla c.d. prova di resistenza. Invero, la sentenza impugnata, pur seformalmente viziata da inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità etc., intanto vaannullata in quanto si accerti che la prova illegittimamente acquisita ha avuto una determinante efficaciadimostrativa nel ragionamento giudiziale, un peso reale sul convincimento e sul dictum del giudice di merito,nel senso che la scelta di una determinata soluzione, nella struttura argomentativa della motivazione, nonsarebbe stata la stessa senza l'utilizzazione di quella prova, nonostante la presenza di altri elementiprobatori di per sé ritenuti non sufficienti a giustificare identico convincimento (Cass. pen., Sez. unite, n.16/2000: fattispecie nella quale, tra gli altri elementi a carico, era stata valutata la falsità di un alibi, rivelatasinon determinante ai fini della dichiarazione di colpevolezza). Ne consegue che, nell'ipotesi in cui con ilricorso per cassazione si lamenti uno degli errores in procedendo deducibili, in ipotesi inficiante uno deglielementi “a carico”, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di aspecificità, l'incidenzadell'eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta prova di resistenza, in quanto glielementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti e ininfluenti se, nonostante la loroespunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l'identico convincimento (Cass. pen., Sez.
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II, n. 7986/2018 e Cass. pen., Sez. III, n. 3207/2015).Non era, al contrario previsto (e non lo è tuttora, alla luce del nuovo art. 165-bis disp. att. c.p.p.) alcun oneredi allegazione o trascrizione di atti.Assolutamente non condivisibile risultava, quindi, l'orientamento, pur estremamente diffuso, per il quale,in asserita applicazione del principio di autosufficienza del ricorso, in tema di intercettazioni, qualora in sededi legittimità venga eccepita l'inutilizzabilità dei relativi risultati, sarebbe onere della parte, a pena diaspecificità del motivo, non soltanto – come doveroso - indicare specificamente l'atto che si ritiene affetto dalvizio denunciato, ma anche curare la produzione di esso nonché delle ulteriori risultanze documentalieventualmente addotte a fondamento del vizio processuale, in particolare curando che l'atto siaeffettivamente acquisito al fascicolo o provvedendo a produrlo in copia (in tal senso, cfr. da ultimo, Cass.pen., Sez. IV, n. 18335/2018).Detto orientamento grava inammissibilmente il ricorrente di oneri a ben vedere già prima dell'introduzionedell'art. 165-bis disp. att. c.p.p. gravanti sulla cancelleria dell'Ufficio a quo (la sola tenuta, in ossequio alle giàvigenti disposizioni regolamentari, a formare il fascicolo da inviare in Cassazione), e ipotizza chel'inammissibilità del ricorso possa dipendere da fattori del tutto accidentali (la diligenza o meno della predettacancelleria nella formazione del fascicolo da inviare in Cassazione), peraltro non verificabili ex ante, ovveroal momento della presentazione del ricorso, ma solo ex post, ovvero dopo la presentazione del ricorso(poiché è solo dopo la presentazione del ricorso che ha luogo la formazione del fascicolo da inviare inCassazione, e la parte può verificare se un determinato atto vi sia stato, o meno, inserito), ipotizzando laconfigurabilità di una sorta di inammissibilità sopravvenuta (in caso di duplice inerzia, della cancelleriapredetta e successivamente dello stesso ricorrente, tra l'altro in ipotesi tenuto ad attivarsi – in caso dilungaggini amministrative – anche a termine per il deposito del ricorso scaduto, il che non sarebbecomunque consentito) che nessuna disposizione vigente autorizza a configurare. L'esame diretto degli atti processuali non è in assoluto precluso alla Corte di cassazione neppurequando risulti denunziata la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione: gli atticui il giudice di legittimità può, e quindi, se necessario, deve, accedere sono, peraltro, soltanto quellispecificamente indicati nei motivi di gravame (così testualmente l'art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p., comemodificato dalla l. 46 del 2006). “Indicati”: non “allegati” né “trascritti” ma unicamente “indicati”.L'irragionevolezza dell'orientamento che, in nome del principio dell'autosufficienza, pretenderebbe dionerare il ricorrente dell'allegazione o trascrizione di atti, è confermata anche dal fatto che il ricorrentepotrebbe, in ipotesi, allegare o trascrivere atti non facenti parte del procedimento, ovvero trascrivereerroneamente, o solo parzialmente, atti che ne facciano parte: per tale ragione, ragionevolmente, il codice dirito lo onera sempre e soltanto (con riferimento sia agli errores in procedendo che ai vizi di motivazione) daun onere di specifica indicazione, giammai di allegazione o trascrizione. Nessun autonomo problema sembra porsi per i motivi di cui alla lettera a) (ipotesi assolutamenteresiduale) e alla lettera b) (che possono riguardare unicamente questioni di diritto penale sostanziale).Quanto ai motivi di cui alla lettera d), secondo un orientamento consolidato (Cass. pen., Sez. II, n.41744/2015), la deduzione della mancata assunzione di una prova decisiva può essere proposta solo inrelazione ai mezzi di prova di cui sia stata chiesta l'assunzione a norma dell'art. 495, comma 2, c.p.p. manon in relazione a quelli di cui l'ammissione non sia stata sollecitata, o sia stata sollecitata soltanto ai sensidell'art. 507 dello stesso codice, né, tanto meno, con riferimento ad attività di indagine che - ad avviso delricorrente - il P.M. avrebbe dovuto svolgere, ma che non è stata espletata. Ne consegue che, per essi, inordine alla dimostrazione di avere previamente richiesto ex art. 495, comma 2, c.p.p. l'ammissione dellaprova che si assume decisiva, può valere quanto affermato in ordine ai motivi di cui alla lettera c): ilricorrente dovrà indicare specificamente l'udienza nella quale la richiesta era stata formalizzata, salvo ilsuccessivo controllo - demandato al giudice di legittimità - del contenuto del relativo verbale; dovrà altresìdar conto delle ragioni poste a fondamento della mancata ammissione: il rigetto della richiesta, ad esempioperché non preceduta dal prescritto deposito della lista, renderebbe il motivo di ricorso ex art. 606, comma 1,
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lett. d), non consentito (in difetto di previa rituale richiesta di ammissione ex art. 495, comma 2, c.p.p.).Quanto alla decisività della prova, incomberà certamente al ricorrente darne conto, previo specifico esamedella motivazione posta a fondamento della contestata affermazione di responsabilità.
5. In conclusioneLa Corte Edu ha avuto più volte modo di affermare che sono in contrasto con il diritto di accesso alla tutelagiurisdizionale, garantito dell'art. 6, § 1, della Convenzione Edu, le limitazioni apposte dalla Corte dicassazione al diritto di accesso al sindacato di legittimità che risultino non proporzionate al fine di garantire lacertezza del diritto e la buona amministrazione della giustizia (cfr., per tutte, Sez. I, 24 aprile 2008, caso K.ed altri c. Lussemburgo: nel caso di specie, i ricorrenti lamentavano il formalismo eccessivo asseritamentemostrato dalla Corte di cassazione lussemburghese nel dichiarare irricevibile il loro ricorso, per non esserestati articolati con sufficiente precisione i motivi di impugnazione, ed il conseguente pregiudizio al loro dirittodi accesso ad un tribunale).Come riconosciuto dalla Sezioni unite civili della Corte di cassazione (n. 17931/2013), la Corte Eduritiene, quindi, che, nell'interpretazione e applicazione della legge processuale, «gli Stati aderenti, e per essi imassimi consessi giudiziari, devono evitare gli "eccessi di formalismo", segnatamente in punto diammissibilità o ricevibilità dei ricorsi; consentendo per quanto possibile; la concreta esplicazione di quel"diritto di accesso ad un tribunale" previsto e garantito dall'art. 6 § 1 della Convenzione Edu». Tale principionon vieta, tuttavia, agli Stati aderenti «la facoltà di circoscrivere, per evidenti esigenze di opportunitàselettiva, a casistiche tassative, in relazione alle ipotesi ritenute astrattamente meritevoli di essere esaminateai massimi livelli della giurisdizione, le relative facoltà di impugnazione, con la conseguenza che non siravvisa contrasto allorquando le disposizioni risultino di chiara evidenza senza lasciare adito a dubbi» ma«costituisce, nei diversi casi in cui le norme si prestino a diverse accezioni ed applicazioni, un canonedirettivo nella relativa interpretazione, che deve in siffatti ultimi casi propendere per la tesi meno formalisticae restrittiva».Ciò premesso quanto ai limiti che è legittimo apporre al diritto di accesso al sindacato di legittimità, appareevidente che risulterebbe anche convenzionalmente illegittimo condizionare l'accesso al sindacato dilegittimità al soddisfacimento di un onere di allegazione o trascrizione normativamente non previsto, oltreche irragionevole e formalistico (avendo ad oggetto atti che è normativamente previsto sia compito dellacancelleria del giudice a quo trasmettere in Cassazione, e che quindi – anche a prescindere dall'iniziativa delricorrente – devono già fare parte del fascicolo).Questa soluzione, attualmente imposta dal chiaro dettato del sopravvenuto art. 165-bis, comma 2, disp. att.c.p.p. ma che già in precedenza poteva ritenersi accolta dal codice di rito, si lascia preferire perchécertamente più idonea a favorire l'instaurazione di una corretta dialettica processuale tra le parti, ed, indefinitiva, un corretto controllo di legittimità, al contrario non assicurato dalla mera trascrizione odallegazione (che, oltre a non essere normativamente richieste, e non potere, quindi, ostacolare l'accesso alsindacato di legittimità, comporterebbero, inoltre, l'onere di verificare se la trascrizione dell'atto sia statacorretta e completa, e se l'atto trascritto od allegato facesse effettivamente parte del procedimento, e quindiimporrebbero quell'accesso promiscuo – non selettivo, come quello consentito dalla contraria soluzioneaccolta - agli atti, al contrario precluso, perché indebito, in sede di legittimità).Va quindi certamente recepito e applicato anche in sede penale il principio della “autosufficienza delricorso”, elaborato in sede civile; deve, peraltro, precisarsi che esso comporta unicamente che:
quando sia denunziato uno degli errores in procedendo indicati dall'art. 606, comma 1, lett. c), c.p.p.,il ricorrente – pur nel silenzio del nuovo art. 165-bis, comma 2, disp. att. c.p.p. - conserva l'onere diindicare specificamente l'atto da esaminare (ma tale onere può ritenersi soddisfattoimplicitamente, quando non vi sia possibilità di incertezze: si pensi al caso in cui sia denunziata unaomessa citazione a giudizio inerente a giudizio celebratosi in una sola udienza), oltre che di operare,
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quando necessario, la c.d. prova di resistenza;quando sia denunziato un vizio di motivazione avente a oggetto determinati atti processuali, la cuicompiuta valutazione si assume essere stata omessa o travisata, conformemente a quantoespressamente previsto dal nuovo art. 165-bis, comma 2, disp. att. c.p.p., è onere del ricorrente suffragare la validità del suo assunto mediante la specifica indicazione dei singoli attirichiamati e della loro sede processuale, oltre che del loto richiamato contenuto, non potendo eglilimitarsi ad invitare sic et simpliciter la Cassazione alla lettura degli atti indicati, posto che (come insede civile) anche in sede penale è precluso al giudice di legittimità l'esame diretto e indiscriminatodegli atti del processo per ragioni di merito.
In entrambi i casi, la materiale allegazione nel fascicolo da inviare in Cassazione degli atti specificamenteindicati in ricorso rientra esclusivamente nei compiti della cancelleria del giudice a quo, cui potranno in ognimomento essere richieste le necessarie integrazioni (se del caso, anche fuori dal contradditorio, trattandosidi atti necessariamente noti alle parti).Con riguardo ai soli errores in procedendo, nel silenzio dell'art. 165-bis disp. att. c.p.p., un onere diallegazione potrà al più essere configurato a carico del ricorrente unicamente con riguardo agli atti delprocedimento non confluiti nei fascicoli del dibattimento di primo e secondo grado, ma rimasti in quello delP.M. (si pensi, ad esempio, ai decreti autorizzativi di intercettazioni, rilevanti per delibare questioni diinutilizzabilità, nei limiti in cui esse risultino deducibili o rilevabili anche d'ufficio per la prima volta in sede dilegittimità, ovvero all'avviso ex art. 415-bis c.p.p., in ipotesi esibito in visione al Gup o al tribunaleprocedente, ma non acquisito agli atti).
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07986 - 17 REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SECONDA SEZIONE PENALE
PUBBLICA UDIENZA DEL 18/11/2016
Composta da: Sent. n. sez. 3047/2016
GIOVANNI DIOTALLEVI
GEPPINO RAGO
ANDREA PELLEGRINO
SERGIO BELTRANI
FABIO DI PISA
- Presidente - REGISTRO GENERALE N.14596/2016
- Rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
LA GUMINA GIOVANNA nato il 27/08/1948 a PALERMO
GAGLIARDO ROSOLINO nato il 04/04/1946 a PALERMO
contro la sentenza del 16/09/2015 della CORTE APPELLO di PALERMO
Esaminati gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
udita nella PUBBLICA UDIENZA del 18/11/2016, la relazione svolta dal
Consigliere SERGIO BELTRANI;
udito il Pubblico ministero, in persona del Sostituto procuratore generale
ROBERTO ANIELLO, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;
uditi l'avvocato dello Stato MASSIMO GIANNUZZI, per la parte civile MINISTERO
dello SVILUPPO ECONOMICO - Agenzia delle Entrate, in persona del leg. rappr.
p.t., che ha chiesto la conferma della sentenza impugnata, con rigetto dei ricorsi,
riportandosi alle conclusioni scritte ed alla nota spese depositate in udienza, e gli
avvocati GIUSEPPE NICOLO', difensore di fiducia dell'imputato GAGLIARDO
ROSOLINO, e RAFFAELE FASULO, difensore di fiducia dell'imputata LA GUMINA
GIOVANNA, che hanno chiesto l'accoglimento dei rispettivi motivi di 1.%. Co-tr>0)
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Palermo ha
confermato - quanto alle statuizioni civili - la sentenza emessa in data 24
giugno 2013 dal Tribunale della stessa città, che aveva dichiarato gli imputati
colpevoli di tentata truffa aggravata per il conseguimento di pubbliche
erogazioni, dichiarato - quanto agli effetti penali - estinto per prescrizione dalla
Corte di appello. La condotta fraudolenta contestata ed accertata aveva ad
oggetto l'erogazione di un contributo cofinanziato dall'Unione Europea di
importo pari ad euro 3.993.657,90, per la realizzazione di un impianto per la
produzione di caramelle alla liquirizia.
Contro tale provvedimento, gli imputati (con l'ausilio di difensori iscritti
nell'apposito albo speciale) hanno proposto separati ricorsi per cassazione,
deducendo i seguenti motivi, enunciati nei limiti strettamente necessari per la
motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att. c.p.p., con i quali
lamenta:
(ricorso LA GUMINA):
1. - inosservanza della legge penale, con violazione dell'art. 27 Cost. e del
principio di colpevolezza (dopo ampio riepilogo di orientamenti della
giurisprudenza costituzionale e della Corte EDU, fino a pag. 12 del ricorso,
l'imputata lamenta infine la propria assoluta estraneità ai fatti, essendo ella una
mera socia dell'ADMIRAL s.r.I., che non si era mai interessata a vicende inerenti
all'amministrazione o gestione di fatto della predetta società, e comunque
estranea a tutti gli atti del procedimento amministrativo in oggetto);
2. - vizi di motivazione con violazione della legge penale per travisamento
delle prove acquisite (sarebbe emerso dagli atti che l'imputata nessun ruolo
aveva assunto con riferimento alla lettera di intenti valorizzata ai fini
dell'affermazione di responsabilità dai giudici del merito, per corroborare
l'ipotesi d'accusa, e comunque nessun vantaggio aveva tratto da essa);
3.14. - vizi di motivazione in relazione all'art. 533, comma 1, c.p.p. per
violazione del principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio (la posizione
dell'imputata non sarebbe stata adeguatamente "delineata", e sarebbe stata
esclusa "irragionevolmente qualsiasi differenziazione dei ruoli in capo agli altri
imputati", ed essendo stata la sua condanna fondata unicamente sulksua
posizione sociale;
5. - violazione degli artt. 56/640-bis e 43 c.p., per insussistenza del dolo (la
doglianza è argomentata richiamando le pregresse considerazioni);
6. - manifesta contraddittorietà ed illogicità della motivazione, con
violazione della legge penale, per asserito travisamento delle prove acquisite,
quanto al c.d. carosello finanziario contestato all'imputata, ma rispetto al quale
ella sarebbe estranea;
7. - illogicità della ricostruzione in fatto in ordine agli aumenti di capitale,
che sarebbe viziata da omessa considerazione delle dichiarazioni dei testi
PISCIOTTA e SCIMONE, peraltro in carenza di addebiti direttamente mossi alal
ricorrente;
8. - plurimi vizi di motivazione per assoluta inadeguatezza metodologica
dell'indagine circa il valore del complesso industriale dell'ADMIRAL e dei
macchinari (sarebbe stata più volte immotivatamente disattesa la richiesta
difensiva del relativo accertamento in incidente probatorio; non sarebbe stata
data una compiuta risposta alle decisive doglianze oggetto dell'atto di appello);
9. - plurimi vizi di motivazione con riferimento all'asserita mancanza degli
elementi costitutivi del reato contestato (conclusivamente ritenuto in forma
tentata) e quindi relativamente al risarcimento del danno che in ipotesi ne
sarebbe derivato, con illegittimità delle residue statuizioni civili per difetto di
motivazione;
(ricorso GAGLIARDO)
1. - mancanza di motivazione (la sentenza di appello si sarebbe
indebitamente limitata ad un mero e generico rinvio per relationem alla
sentenza di primo grado, senza esaminare compiutamente i motivi d'appello);
2. - plurimi vizi di motivazione per asserita mancanza degli elementi
costitutivi del reato ritenuto, e, di conseguenza, relativamente al risarcimento
del danno che ne è derivato;
3. - mancanza della motivazione in ordine a censure asseritamente precise
mosse dalla difesa dell'imputato alla sentenza di primo grado, riepilogate a f. 16
ss. del ricorso;
4. - manifesta illogicità della motivazione (dopo aver ribadito le proprie
doglianze, l'imputato invoca la propria estraneità ad una serie di attività che
2
asserisce essere state, al contrario, erroneamente valorizzate dai giudici del
merito;
5. - illogicità della ricostruzione in fatto in ordine agli aumenti di capitale
(con violazione degli artt. 192 e 546 c.p.p.);
6. - plurimi vizi di motivazione con violazione della legge penale per
travisamento delle prove acquisite (quanto alla circostanza valorizzata dai
giudici del merito che i trasporti di materiali dall'Inghilterra in realtà non
sarebbero mai stati effettuati: sarebbero, infatti, state non valutate o travisate
le dichiarazioni dei testi LO PORTO e RUSSIA e le risultanze dei documenti in
proposito acquisiti; inoltre sarebbe stata erroneamente valutata, quanto al c.d.
carosello finanziario, pure valorizzato a carico dell'imputato, la testimonianza
del col. DE LUCA;
7. - violazione degli artt. 111 Cost., 192 e 546 c.p.p., per violazione dei
criteri legali di valutazione della prova ed omessa assoluzione ex art. 129
c.p.p.;
8. - mancanza della motivazione e manifesta illogicità della motivazione in
ordine alla determinazione del valore dell'impianto industriale;
9. - manifesta mancanza della motivazione in ordine alle censure mosse dal
ricorrente circa le diverse richieste di incidente probatorio e perizia tecnica;
10. - violazione della normativa relativa all'utilizzo delle informazioni
ottenute dalla Financial Intelligence Analysis Unit di Malta, asseritamente
utilizzabili unicamente per i reati di riciclaggio e finanziamento al terrorismo;
11- - manifesta contraddittorietà e illogicità della motivazione nonché
violazione di legge per travisamento delle prove acquisite, in relazione alla
condanna al risarcimento danni in favore delle parti civili costituite per il reato
di truffa.
All'odierna udienza pubblica, è stata verificata la regolarità degli avvisi di
rito; all'esito, le parti presenti hanno concluso come da epigrafe, e questa
Corte, riunita in camera di consiglio, ha deciso come da dispositivo in atti,
pubblicato mediante lettura in udienza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono integralmente inammissibili.
3
I LIMITI DEL SINDACATO DI LEGITTIMITA' SULLA MOTIVAZIONE
1. E' necessario premettere, con riguardo ai limiti del sindacato di legittimità
sulla motivazione dei provvedimenti oggetto di ricorso per cassazione, delineati
dall'art. 606, comma 1, lettera e), c.p.p., come vigente a seguito delle
modifiche introdotte dalla L. n. 46 del 2006, che, a parere di questo collegio, la
predetta novella non ha comportato la possibilità, per il giudice della legittimità,
di effettuare un'indagine sul discorso giustificativo della decisione, finalizzata a
sovrapporre la propria valutazione a quella già effettuata dai giudici di merito,
dovendo il giudice della legittimità limitarsi a verificare l'adeguatezza delle
considerazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per giustificare il suo
convincimento.
1.1. La mancata rispondenza di queste ultime alle acquisizioni processuali
può, soltanto ora, essere dedotta quale motivo di ricorso qualora comporti il
c.d. «travisamento della prova» (consistente nell'utilizzazione di
un'informazione inesistente o nell'omissione della valutazione di una prova,
accomunate dalla necessità che il dato probatorio, travisato od omesso, abbia il
carattere della decisività nell'ambito dell'apparato motivazionale sottoposto a
critica), purché siano indicate in maniera specifica ed inequivoca le prove che si
pretende essere state travisate, nelle forme di volta in volta adeguate alla
natura degli atti in considerazione, in modo da rendere possibile la loro lettura
senza alcuna necessità di ricerca da parte della Corte, e non ne sia effettuata
una monca individuazione od un esame parcellizzato.
Permane, al contrario, la non deducibilità, nel giudizio di legittimità, del
travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di cassazione di
sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta
nei precedenti gradi di merito (Sez. VI, sentenza n. 25255 del 14 febbraio
2012, CED Cass. n. 253099).
1.2. Il ricorso che, in applicazione della nuova formulazione dell'art. 606,
comma 1, lett. e), c.p.p. intenda far valere il vizio di «travisamento della
prova» deve, a pena di inammissibilità (Cass. pen., Sez. I, sentenza n. 20344
del 18 maggio 2006, CED Cass. n. 234115; Sez. VI, sentenza n. 45036 del 2
dicembre 2010, CED Cass. n. 249035):
(a) identificare specificamente l'atto processuale sul quale fonda la
doglianza;
4
(b) individuare l'elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto
emerge e che risulta asseritamente incompatibile con la ricostruzione svolta
nella sentenza impugnata;
(c) dare la prova della verità dell'elemento fattuale o del dato probatorio
invocato, nonché dell'effettiva esistenza dell'atto processuale su cui tale prova
si fonda tra i materiali probatori ritualmente acquisiti nel fascicolo del
dibattimento;
(d) indicare le ragioni per cui l'atto invocato asseritamente inficia e
compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l'intera coerenza della
motivazione, introducendo profili di radicale "incompatibilità" all'interno
dell'impianto argomentativo del provvedimento impugnato.
1.3. La mancanza, l'illogicità e la contraddittorietà della motivazione, come
vizi denunciabili in sede di legittimità, devono risultare di spessore tale da
risultare percepibili ictu ocu/i, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo
essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime
incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se
non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione
adottata, purché siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del
convincimento senza vizi giuridici (in tal senso, conservano validità, e meritano
di essere tuttora condivisi, i principi affermati da questa Corte Suprema, Sez.
un., sentenza n. 24 del 24 novembre 1999, CED Cass. n. 214794; Sez. un.,
sentenza n. 12 del 31 maggio 2000, CED Cass. n. 216260; Sez. un., sentenza
n. 47289 del 24 settembre 2003, CED Cass. n. 226074).
Devono tuttora escludersi la possibilità, per il giudice di legittimità, di
<<un'analisi orientata ad esaminare in modo separato ed atomistico i singoli
atti, nonché i motivi di ricorso su di essi imperniati ed a fornire risposte
circoscritte ai diversi atti ed ai motivi ad essi relativi» (Cass. pen., Sez. VI,
sentenza n. 14624 del 20 marzo 2006, CED Cass. n. 233621; Sez. II, sentenza
n. 18163 del 22 aprile 2008, CED Cass. n. 239789), e di una rilettura degli
elementi di fatto posti a fondamento della decisione o dell'autonoma adozione
di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (Sez. VI,
sentenza n. 27429 del 4 luglio 2006, CED Cass. n. 234559; Sez. VI, sentenza
n. 25255 del 14 febbraio 2012, CED Cass. n. 253099).
1.4. Il giudice di legittimità ha, pertanto, ai sensi del novellato art. 606
c.p.p., il compito di accertare (Cass. pen., Sez. VI, sentenza n. 35964 del 28
settembre 2006, CED Cass. n. 234622; Sez. III, sentenza n. 39729 del 18
giugno 2009, CED Cass. n. 244623; Sez. V, sentenza n. 39048 del 25
5
settembre 2007, CED Cass. n. 238215; Sez. II, sentenza n. 18163 del 22 aprile
2008, CED Cass. n. 239789):
(a) il contenuto del ricorso (che deve contenere gli elementi sopra
individuati);
(b) la decisività del materiale probatorio richiamato (che deve essere tale da
disarticolare l'intero ragionamento del giudicante o da determinare almeno una
complessiva incongruità della motivazione);
(c) l'esistenza di una radicale incompatibilità con l'iter motivazionale seguito
dal giudice di merito e non di un semplice contrasto;
(d) la sussistenza di una prova omessa od inventata, e del c.d.
«travisamento del fatto», ma solo qualora la difformità della realtà storica
sia evidente, manifesta, apprezzabile ictu oculi ed assuma anche carattere
decisivo in una valutazione globale di tutti gli elementi probatori esaminati dal
giudice di merito (il cui giudizio valutativo non è sindacabile in sede di
legittimità se non manifestamente illogico e, quindi, anche contraddittorio).
1.5. E' anche inammissibile il motivo in cui si deduca la violazione dell'art.
192 c.p.p., anche se in relazione agli artt. 125 e 546, comma 1, lett. e), c.p.p.,
per censurare l'omessa od erronea valutazione di ogni elemento di prova
acquisito o acquisibile, in una prospettiva atomistica ed indipendentemente da
un raffronto con il complessivo quadro istruttorio, in quanto i limiti
all'ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati
specificamente dall'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., non possono essere
superati ricorrendo al motivo di cui all'art. 606, comma 1, lett. c), c.p.p., nella
parte in cui consente di dolersi dell'inosservanza delle norme processuali
stabilite a pena di nullità (Cass. pen., Sez. VI, sentenza n. 45249 dell'8
novembre 2012, CED Cass. n. 254274).
LA NECESSARIA SPECIFICITA' DEL RICORSO PER CASSAZIONE
2. La giurisprudenza di questa Corte Suprema è, condivisibilmente,
orientata nel senso dell'inammissibilità, per difetto di specificità, del ricorso
presentato prospettando vizi di motivazione del provvedimento impugnato, i cui
motivi siano enunciati in forma perplessa o alternativa (Sez. VI, sentenza n.
32227 del 16 luglio 2010, CED Cass. n. 248037: nella fattispecie il ricorrente
aveva lamentato la "mancanza e/o insufficienza e/o illogicità della motivazione"
in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze
cautelari posti a fondamento di un'ordinanza applicativa di misura cautelare
personale; Sez. VI, sentenza n. 800 del 6 dicembre 2011 - 12 gennaio 2012,
Bidognetti ed altri, CED Cass. n. 251528).
6
Invero, l'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. stabilisce che i provvedimenti
sono ricorribili per «mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della
motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato
ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di
gravame».
La disposizione, se letta in combinazione con l'art. 581, comma 1, lett. c),
c.p.p. (a norma del quale è onere del ricorrente «enunciare i motivi del
ricorso, con l'indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto
che sorreggono ogni richiesta») evidenzia che non può ritenersi consentita
l'enunciazione perplessa ed alternativa dei motivi di ricorso, essendo onere del
ricorrente di specificare con precisione se la deduzione di vizio di motivazione
sia riferita alla mancanza, alla contraddittorietà od alla manifesta illogicità
ovvero a una pluralità di tali vizi, che vanno indicati specificamente in relazione
alle varie parti della motivazione censurata.
Il principio è stato più recentemente accolto anche da questa sezione, a
parere della quale «È inammissibile, per difetto di specificità, il ricorso nel
quale siano prospettati vizi di motivazione del provvedimento impugnato, i cui
motivi siano enunciati in forma perplessa o alternativa, essendo onere del
ricorrente specificare con precisione se le censure siano riferite alla mancanza,
alla contraddittorietà od alla manifesta illogicità ovvero a più di uno tra tali vizi,
che vanno indicati specificamente in relazione alle parti della motivazione
oggetto di gravame» (Sez. II, sentenza n. 31811 dell'8 maggio 2012, CED
Cass. n. 254329).
Per tali ragioni la censura alternativa ed indifferenziata di mancanza,
contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione risulta priva della
necessaria specificità, il che rende il ricorso inammissibile.
2.1. Infine, secondo altro consolidato e condivisibile orientamento di questa
Corte Suprema (per tutte, Sez. IV, sentenza n. 15497 del 22 febbraio - 24
aprile 2002, CED Cass. n. 221693; Sez. VI, sentenza n. 34521 del 27 giugno -
8 agosto 2013, CED Cass. n. 256133), è inammissibile per difetto di specificità
il ricorso che riproponga pedissequamente le censure dedotte come motivi di
appello (al più con l'aggiunta di frasi incidentali contenenti contestazioni,
meramente assertive ed apodittiche, della correttezza della sentenza
impugnata) senza prendere in considerazione, per confutarle, le argomentazioni
in virtù delle quali i motivi di appello non siano stati accolti.
2.2. Si è, infatti, esattamente osservato (Sez. VI, sentenza n. 8700 del 21
gennaio - 21 febbraio 2013, CED Cass. n. 254584) che «La funzione tipica
7
dell'impugnazione è quella della critica argomentata avverso il provvedimento
cui si riferisce. Tale critica argomentata si realizza attraverso la presentazione
di motivi che, a pena di inammissibilità (artt. 581 e 591 c.p.p.), debbono
indicare specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che
sorreggono ogni richiesta. Contenuto essenziale dell'atto di impugnazione è,
pertanto, innanzitutto e indefettibilmente il confronto puntuale (cioè con
specifica indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che fondano
il dissenso) con le argomentazioni del provvedimento il cui dispositivo si
contesta).
2.3. Il motivo di ricorso in cassazione è caratterizzato da una "duplice
specificità": «Deve essere sì anch'esso conforme all'art. 581 c.p.p., lett. C (e
quindi contenere l'indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che
sorreggono ogni richiesta presentata al giudice dell'impugnazione); ma quando
"attacca" le ragioni che sorreggono la decisione deve, altresì,
contemporaneamente enucleare in modo specifico il vizio denunciato, in modo
che sia chiaramente sussunnibile fra i tre, soli, previsti dall'art. 606 c.p.p.,
comma 1, lett. e), deducendo poi, altrettanto specificamente, le ragioni della
sua decisività rispetto al percorso logico seguito dal giudice del merito per
giungere alla deliberazione impugnata, sì da condurre a decisione differente»
(Sez. VI, sentenza n. 8700 del 21 gennaio - 21 febbraio 2013, CED Cass. n.
254584).
2.4. Risulta, pertanto, evidente che, <<se il motivo di ricorso si limita a
riprodurre il motivo d'appello, per ciò solo si destina all'inammissibilità, venendo
meno in radice l'unica funzione per la quale è previsto e ammesso (la critica
argomentata al provvedimento), posto che con siffatta mera riproduzione il
provvedimento ora formalmente 'attaccato', lungi dall'essere destinatario di
specifica critica argomentata, è di fatto del tutto ignorato. Nè tale forma di
redazione del motivo di ricorso (la riproduzione grafica del motivo d'appello)
potrebbe essere invocata come implicita denuncia del vizio di omessa
motivazione da parte del giudice d'appello in ordine a quanto devolutogli
nell'atto di impugnazione. Infatti, quand'anche effettivamente il giudice
d'appello abbia omesso una risposta, comunque la mera riproduzione grafica
del motivo d'appello condanna il motivo di ricorso all'inammissibilità. E ciò per
almeno due ragioni. È censura di merito. Ma soprattutto (il che vale anche per
l'ipotesi delle censure in diritto contenute nei motivi d'appello) non è mediata
dalla necessaria specifica e argomentata denuncia del vizio di omessa
motivazione (e tanto più nel caso della motivazione cosiddetta apparente che, a
8
differenza della mancanza "grafica", pretende la dimostrazione della sua mera
"apparenza" rispetto ai temi tempestivamente e specificamente dedotti);
denuncia che, come detto, è pure onerata dell'obbligo di argomentare la
decisività del vizio, tale da imporre diversa conclusione del caso».
2.5. Può, pertanto, concludersi che <<la riproduzione, totale o parziale, del
motivo d'appello ben può essere presente nel motivo di ricorso (ed in alcune
circostanze costituisce incombente essenziale dell'adempimento dell'onere di
autosufficienza del ricorso), ma solo quando ciò serva a "documentare" il vizio
enunciato e dedotto con autonoma specifica ed esaustiva argomentazione, che,
ancora indefettibilmente, si riferisce al provvedimento impugnato con il ricorso
e con la sua integrale motivazione si confronta. A ben vedere, si tratta dei
principi consolidati in materia di "motivazione per relazione" nei provvedimenti
giurisdizionali e che, con la mera sostituzione dei parametri della prima
sentenza con i motivi d'appello e della seconda sentenza con i motivi di ricorso
per cassazione, trovano piena applicazione anche in ordine agli atti di
impugnazione» (Sez. VI, sentenza n. 8700 del 21 gennaio - 21 febbraio
2013, CED Cass. n. 254584).
LA MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA D'APPELLO
3. Anche il giudice d'appello non è tenuto a rispondere a tutte le
argomentazioni svolte nell'impugnazione, giacché le stesse possono essere
disattese per implicito o per aver seguito un differente iter motivazionale o per
evidente incompatibilità con la ricostruzione effettuata (per tutte, Cass. pen.,
Sez. VI, sentenza n. 1307 del 26 settembre 2002 - 14 gennaio 2003, CED Cass.
n. 223061).
3.1. In presenza di una doppia conforma affermazione di responsabilità, va,
peraltro, ritenuta l'ammissibilità della motivazione della sentenza d'appello per
relationenn a quella della decisione impugnata, sempre che le censure formulate
contro la sentenza di primo grado non contengano elementi ed argomenti
diversi da quelli già esaminati e disattesi, in quanto il giudice di appello,
nell'effettuazione del controllo della fondatezza degli elementi su cui si regge la
sentenza impugnata, non è tenuto a riesaminare questioni sommariamente
riferite dall'appellante nei motivi di gravame, sulle quali si sia soffermato il
primo giudice, con argomentazioni ritenute esatte e prive di vizi logici, non
specificamente e criticamente censurate.
In tal caso, infatti, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello,
fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed
9
inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della
congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell'appello abbiano
esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo
grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi
logico-giuridici della decisione, sicché le motivazioni delle sentenze dei due
gradi di merito costituiscano una sola entità (Cass. pen., Sez. II, sentenza n.
1309 del 22 novembre 1993 - 4 febbraio 1994, CED Cass. n. 197250; Sez. III,
sentenza n. 13926 del 10 dicembre 2011 - 12 aprile 2012, CED Cass. n.
252615).
L'AFFERMAZIONE DI RESPONSABILITA' <<OLTRE OGNI
RAGIONEVOLE DUBBIO>>.
4. Per quel che concerne il significato da attribuire alla locuzione <<oltre
ogni ragionevole dubbio», presente nel testo novellato dell'art. 533 c.p.p.
quale parametro cui conformare la valutazione inerente all'affermazione di
responsabilità dell'imputato, è opportuno evidenziare che, al di là dell'icastica
espressione, mutuata dal diritto anglosassone, ne costituiscono fondamento il
principio costituzionale della presunzione di innocenza e la cultura della prova e
della sua valutazione, di cui è permeato il nostro sistema processuale.
Si è, in proposito, esattamente osservato che detta espressione ha una
funzione meramente descrittiva più che sostanziale, giacché, in precedenza, il
<<ragionevole dubbio» sulla colpevolezza dell'imputato ne comportava pur
sempre il proscioglimento a norma dell'art. 530, comma 2, c.p.p., sicché non si
è in presenza di un diverso e più rigoroso criterio di valutazione della prova
rispetto a quello precedentemente adottato dal codice di rito, ma è stato
ribadito il principio, già in precedenza immanente nel nostro ordinamento
costituzionale ed ordinario (tanto da essere già stata adoperata dalla
giurisprudenza di questa Corte Suprema - per tutte, Sez. un., sentenza n.
30328 del 10 luglio 2002, CED Cass. n. 222139 -, e solo successivamente
recepita nel testo novellato dell'art. 533 c.p.p.), secondo cui la condanna è
possibile soltanto quando vi sia la certezza processuale assoluta della
responsabilità dell'imputato (Cass. pen., Sez. II, sentenza n. 19575 del 21
aprile 2006, CED Cass. n. 233785; Sez. II, sentenza n. 16357 del 2 aprile
2008, CED Cass. n. 239795).
In argomento, si è più recentemente, e conclusivamente, affermato (Sez. II,
sentenza n. 7035 del 9 novembre 2012 - 13 febbraio 2013, CED Cass. n.
254025) che <<La previsione normativa della regola di giudizio dell' "al di là di .zzzzz.,_ ogni ragionevole dubbio", che trova fondamento nel principio costituzionale
della presunzione di innocenza, non ha introdotto un diverso e più restrittivo
10
criterio di valutazione della prova ma ha codificato il principio giurisprudenziale
secondo cui la pronuncia di condanna deve fondarsi sulla certezza processuale
della responsabilità dell'imputato».
I LIMITI DEL SINDACATO DI LEGITTIMITA' IN PRESENZA DI UNA
DOPPIA CONFORME AFFERMAZIONE DI RESPONSABILITA'.
5. Questa Corte, con orientamento (Sez. IV, n. 19710 del 3.2.2009, rv.
243636) che il collegio condivide e ribadisce, ha osservato che, in presenza di
una c.d. "doppia conforme", ovvero di una doppia pronuncia di eguale segno
(nel caso di specie, riguardante l'affermazione di responsabilità), il vizio di
travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso
in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l'argomento
probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come
oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado
(«Invero, sebbene in tema di giudizio di Cassazione, in forza della novella
dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), introdotta dalla L. n. 46 del 2006, è ora
sindacabile il vizio di travisamento della prova, che si ha quando nella
motivazione si fa uso di un'informazione rilevante che non esiste nel processo,
o quando si omette la valutazione di una prova decisiva, esso può essere fatto
valere nell'ipotesi in cui l'impugnata decisione abbia riformato quella di primo
grado, non potendo, nel caso di c.d. doppia conforme, superarsi il limite del
"devolutum" con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice
d'appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato
atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice»).
LA POSSIBILE RILEVANZA DEI VIZI DELLA MOTIVAZIONE IN
PRESENZA DI CAUSE DI ESTINZIONE DEL REATO.
6. Le Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 35490 del 28 maggio 2009,
Tettamanti, CED Cass. n. 244273 s.) hanno esaminato il problema dell'ambito
del sindacato, in sede di legittimità, sui vizi della motivazione, in presenza di
cause di estinzione del reato, del quale avevano già avuto modo di occuparsi in
passato (avevano, infatti, già affermato che, in presenza di una causa di
estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità i vizi di
motivazione della sentenza impugnata, in quanto l'inevitabile rinvio della causa
al giudice di merito dopo la pronunzia di annullamento risulterebbe comunque
incompatibile con l'obbligo della immediata declaratoria di proscioglimento per
intervenuta estinzione del reato: Sez. un., sentenza n. 1653 del 21 ottobre
1992, dep. 22 febbraio 1993, Marino ed altri, CED Cass. n. 192471).
1 1
In linea con l'orientamento assolutamente prevalente nella giurisprudenza
intervenuta successivamente sulla questione (Sez. V, sentenza n. 7718 del 24
giugno 1996, CED Cass. n. 205548; Sez. II, sentenza n. 15470 del 6 marzo
2003, CED Cass. n. 224290; Sez. I, sentenza n. 4177 del 27 ottobre 2003, dep.
4 febbraio 2004, CED Cass. n. 227098; Sez. III, sentenza n. 24327 del 4
maggio 2004, CED Cass. n. 228973; Sez. VI, sentenza n. 40570 del 29 maggio
2008, CED Cass. n. 241317; Sez. IV, sentenza n. 14450 del 19 marzo 2009,
CED Cass. n. 244001), il principio è stato ribadito (sostanzialmente nei
medesimi termini, come è confermato dalle quasi speculari massime estratte
dalle due citate decisioni delle Sezioni Unite) anche dalla sentenza Tettamanti,
a parere della quale la Corte di cassazione, ove rilevi la sussistenza di una
causa di estinzione del reato, non può rilevare eventuali vizi di legittimità della
motivazione della decisione impugnata, poiché nel corso del successivo giudizio
di rinvio il giudice sarebbe comunque obbligato a rilevare immediatamente la
sussistenza della predetta cause di estinzione del reato, ed alla conseguente
declaratoria.
Il principio opera anche in presenza di mere cause di nullità di ordine
generale, assolute ed insanabili, identica essendo la ratio, fondata
sull'incompatibilità del rinvio per nuovo giudizio di merito con li principio
dell'immediata applicabilità della causa estintiva.
A conclusioni diverse dovrebbe giungersi nel solo caso in cui l'operatività
della causa di estinzione del reato presupponga specifici accertamenti e
valutazioni riservati al giudice di merito, nei qual caso assumerebbe rilievo
pregiudiziale la nullità, in quanto funzionale alla necessaria rinnovazione del
relativo giudizio.
Il principio è stato successivamente ribadito, più o meno nei medesimi
termini, da Sez. VI, sentenza n. 23594 del 19 marzo 2013, CED Cass. n.
256625, secondo la quale «Nel giudizio di cassazione, relativo a sentenza che
ha dichiarato la prescrizione del reato, non sono rilevabili né nullità di ordine
generale, né vizi di motivazione della decisione impugnata, anche se questa
abbia pronunciato condanna agli effetti civili, qualora il ricorso non contenga
alcun riferimento ai capi concernenti gli interessi civili», e merita senz'altro di
essere condiviso.
Vanno, pertanto, ribaditi i seguenti principi di diritto:
«In presenza di una causa di estinzione del reato il giudice è legittimato a
pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell'art. 129, comma 2, c.p.p.
soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la
commissione del medesimo da parte dell'imputato e la sua rilevanza penale
12
emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la
valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto
di «constatazione», ossia di percezione ictu oculi, che a quello di
«apprezzamento», e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di
accertamento o di approfondimento».
«Nel giudizio di cassazione, relativo a sentenza che ha dichiarato la
prescrizione del reato, non sono rilevabili né nullità di ordine generale, né vizi di
motivazione della decisione impugnata».
I RICORSI
7. Alla luce di queste necessarie premesse vanno esaminati gli odierni
ricorsi.
8. Richiamando i premessi rilievi in diritto, deve immediatamente rilevarsi
che:
8.1. i numerosi motivi di ricorso degli imputati che lamentano,
contestualmente ed indistintamente, plurimi vizi di motivazioni sono privi della
specificità necessaria ex art. 581, comma 1, lett. C), c.p.p.;
8.2. i numerosi motivi di ricorso degli imputati che lamentano, in relazione
all'apparato motivazionale che correda l'impugnata sentenza, plurime violazioni
degli artt. 111 Cost., 192 c.p.p., 546 c.p.p., non sono consentititi;
8.3. il decimo motivo dell'imputato GAGLIARDO è privo della necessaria
specificità perché la doglianza è formulata senza in alcun modo prospettare a
questa Corte la possibile, ed in ipotesi, decisiva influenza dell'elemento
asseritamente nullo/inutilizzabile sulla complessiva motivazione posta a
fondamento della contestata affermazione di responsabilità. Questa Corte, con
orientamento (Sez. IV, n. 18764 del 5.2.2014, rv. 259452; Sez. III, n. 3207 del
2.10.2014, dep. 2015, rv. 262011) che il collegio condivide e ribadisce, ha,
infatti, osservato che, nei casi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti
l'inutilizzabilità o la nullità di una prova dalla quale siano stati desunti elementi
a carico, il motivo di ricorso deve illustrare, a pena di inammissibilità per
aspecificità, l'incidenza dell'eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini
della cosiddetta "prova di resistenza", essendo in ogni caso necessario valutare
se le residue risultanze, nonostante l'espunzione di quella inutilizzabile, risultino
sufficienti a giustificare l'identico convincimento; gli elementi di prova acquisiti
illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro
13
espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l'identico
convincimento. Si è, ad esempio, ritenuto che la nullità dell'accertamento
tecnico disposto dal pubblico ministero non comporta alcuna conseguenza
allorquando il giudice pervenga all'affermazione di responsabilità con argomenti
che prescindono dalle valutazioni del consulente (Sez. IV, n. 24455 del
22.4.2015, rv. 263731);
8.4. i numerosi motivi di ricorso degli imputati che lamentano vizi di
motivazione in relazione all'affermazione di responsabilità agli effetti penali, in
virtù dell'intervenuta declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, non
sono valutabili, poiché gli eventuali vizi di motivazione della decisione
impugnata in ipotesi ravvisabili non sarebbero rilevabili, evidente apparendo
che la motivazione della sentenza impugnata (in particolare, f. 11 ss.) non
risulta del tutto carente né meramente apparente, e non essendo stata
proposta dagli imputati valida e tempestiva rinunzia alla prescrizione.
8.5. l'ottavo motivo del ricorso LA GUMINA è anche palesemente privo della
necessaria specificità, non indicando compiutamente le doglianze asseritamente
rimaste senza risposta, ma limitandosi in ammissibilmente a richiamare per
relationem quanto già costituente oggetto di appello.
9. Vanno, pertanto, esaminate soltanto le limitate, residue, censure
riguardanti le affermazioni di responsabilità agli effetti civili.
9.1. A tale riguardo, richiamati i premessi rilievi in diritto quanto ai limiti del
sindacato di legittimità in presenza di una doppia conforme affermazione di
responsabilità (pur se, nel caso di specie, limitata ai meri effetti civili), osserva
il collegio che i ricorsi sono integralmente inammissibili perché presentati per
motivi non consentiti, o comunque assolutamente privi di specificità in tutte le
loro articolazioni (in quanto meramente reiterativi di doglianze già esaminate e
non accolte dalla Corte di appello): i ricorrenti in concreto non si confrontano
adeguatamente con la motivazione della Corte di appello, che ripropone
legittimamente le richiamate considerazioni del primo giudice, condivise perché
suffragate dagli elementi acquisiti (di qui, la manifesta infondatezza del primo
motivo del ricorso GAGLIARDO), valorizzando a fondamento dell'affermazione di
responsabilità civile in danno di entrambi i ricorrenti gli elementi
dettagliatamente riepilogati a f. 11 ss. della sentenza impugnata (e che in
questa sede si richiamano integralmente), oltre che a f. 70 ss. della sentenza di
14
primo grado (richiamata, come è fisiologico in presenza di una doppia conforme
affermazione di responsabilità, sia pure ai soli effetti civili), ed in particolare:
- la natura fraudolenta della lettera d'intenti menzionata a f. 11 s., tale
perché proveniente da ente risultato inesistente come istituto di credito ed in
realtà non documentante alcuna disponibilità finanziaria di ADMIRAL s.r.l.;
- il rilievo che, ai sensi dell'art. 6 I. n. 488/92 (decreto n. 572/95: f. 12 della
sentenza impugnata), non corrispondeva, quindi, al vero che "un documento
attestante una cospicua disponibilità finanziaria da parte del soggetto
richiedente il finanziamento agevolato fosse elemento superfluo e del tutto
privo di rilievo nella procedura in questione";
- la circostanza, pacifica e non contestata, che "non vi fosse stata alcuna
operazione finanziaria da parte dell'ADMIRAL s.r.l. per rendere disponibile" la
liquidità necessaria, e che la dichiaratamente svolta indagine di mercato non
ebbe in realtà luogo;
- l'acquisto per un prezzo notevolmente inferiore a quello dichiarato e
finanziato dei necessari macchinari;
- le dichiarazioni delle imprese fornitrici italiane (f. 15 s.) circa il fatto che le
trattative erano intervenute sempre anche con il GAGLIARDO (non mero
consulente, ma effettivo co-gestore di fatto delle attività societarie), che, come
il PETRONIO, si presentava spendendo il nome della ISE: "da questo elemento
emerge, infatti, come la ISE altro non fosse se non un ulteriore tassello del
fraudolento disegno fraudolento in essere. L'anima e la volontà della ISE non a
caso era, di fatto, ancora una volta costituita dalle persone di GAGLIARDO e
PETRONIO (che, peraltro, sono anche, rispettivamente, legati alle socie
dell'ADMIRAL LA GUMINA e GIAMMUSSO da rapporto di coniugio". Quest'ultimo
legame risulta particolarmente eloquente, confermando l'assunto del
consapevole inserimento degli odierni imputati nel meccanismo fraudolento
enucleato dagli inquirenti;
- l'inesistenza dei trasporti di macchinari dall'Inghilterra in apparenza
documentati (in particolare f. 15 della sentenza impugnata e f. 18 ss. e f. 22 ss.
e f. 34 s. dell'esame dibattimentale del trasportatore LO PORTO);
- le dichiarazioni del trasportatore LO PORTO circa il ruolo
inequivocabilmente di gestione (e non di mera consulenza) del GAGLIARDO (f.
14 ss. e 17 ss. dell'esame dibattimentale);
- i rilievi riguardanti i costi effettivi degli impianti realizzati e la ricostruzione
del c.d. "carosello finanziario" cui i ricorrenti hanno fatto plurimi riferimenti (f.
15 s. della sentenza impugnata);
- le conseguenze dannose per il Ministero dello Sviluppo Economico della
condotta accertata, pur arrestatasi allo stadio del tentativo (f. 17).
15
La contestazione a titolo di concorso nel reato ex artt. 110 ss. evidenzia
l'irrilevanza delle reiterate doglianze della LA GUMINA, inutilmente miranti a
rivendicare di non essere stata autrice materiale di alcuna delle condotte
accertate e valorizzate dai giudici del merito, in quanto da esse ella trasse pur
sempre, e consapevolmente, vantaggio, in ragione della qualità sociale
ricoperta.
Ai fini del coinvolgimento dell'imputata quale concorrente nelle accertate
condotte fraudolente, sono stati, in particolare, valorizzati (cfr. in particolare f.
72 s. della sentenza di primo grado, richiamata da quella di appello), oltre al già
menzionato legame di coniugio con il coimputato solo in apparenza extraneus,
ma in realtà vero dominus della accertate attività, ed all'evidenza del rilievo
che, nell'assunzione della predetta qualità "sociale", la donna si è
necessariamente rappresentata l'evenienza della possibile illiceità delle altrui
condotte, nondimeno mai avversate, anche la partecipazione all'assemblea che
aveva deliberato i menzionati aumenti di capitale, ed i benefici che, nel
complesso, anch'ella avrebbe tratto dalle condotte fraudolente accertate.
9.2. La Corte di appello, nel contesto della riferita disamina, ha rivalutato e
valorizzato il medesimo compendio probatorio già sottoposto al vaglio del
Tribunale e, dopo avere preso atto delle censure degli appellanti (puntualmente
esaminate, e rigettate), è giunta alle medesime conclusioni in termini di
sussistenza della responsabilità (agli effetti civili) degli imputati.
9.3. Con tali argomentazioni i ricorrenti in concreto non si confrontano
adeguatamente, limitandosi a riproporre una diversa "lettura" delle risultanze
probatorie acquisite, fondata su mere ed indimostrate congetture (come
specificamente evidenziato dalla Corte di appello), senza documentare nei modi
di rito eventuali e decisivi travisamenti, ed in concreto limiitandosi
inammissibilmente a sollecitare una rivalutazione del materiale probatorio
acquisito e valutato conformemente dai due giudici del merito.
10. La declaratoria di inammissibilità totale dei ricorsi comporta, ai sensi
dell'art. 616 c.p.p., la condanna di entrambi i ricorrenti al pagamento delle
spese processuali, nonché - apparendo evidente che essi hanno proposto i
ricorsi determinando le cause d'inammissibilità per colpa (Corte cost., 13
giugno 2000 n. 186) e tenuto conto della rilevante entità delle rispettive colpe -
della somma di Euro nnillecinquecento ciascuno in favore della Cassa delle
Ammende a titolo di sanzione pecuniaria.
16
idente
Diotallevi
I ricorrenti vanno inoltre condannati alla rifusione in solido delle spese
processuali del grado in favore della parte civile costituita Ministero dello
Sviluppo Economico, liquidate in euro quattromiladuecento, oltre 15% per
rimborso spese forfettario, CPA ed IVA.
P.Q.M.
dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle
spese processuali e ciascuno al versamento della somma di millecinquecento
euro alla Cassa delle ammende, oltre alla rifusione in solido delle spese
processuali del grado in favore della parte civile costituita Ministero dello
Sviluppo Economico, liquidate in euro quattromiladuecento, oltre 15% per
rimborso spese forfettario, CPA ed IVA.
Così deciso in Roma, udienza pubblica 18 novembre 2016
Il Cons gliere estensore <
DEPOSITATO IN CANCELLERIA SECONDA SEZIONE PENALE
IL 2 0 FE8. 2017
17
27971 - 17
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SECONDA SEZIONE PENALE
Composta da:
MATILDE CAMMINO
SERGIO BELTRANI
LUCIA AIELLI
ALBERTO PAZZI
GIUSEPPE SGADARI
- Presidente -
- Rel. Consigliere -
PUBBLICA UDIENZA DEL 13/01/2017
Sent. n. sez. 56/2017
REGISTRO GENERALE N.48202/2016
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
MILANESI° FABRIZIO nato il 22/07/1969 a Torino
CERUTTI SERGIO GIOVANNI nato il 20/08/1953 a Torino
BAGNASCO GIORGIO nato il 06/02/1969 a Torino
MONTRUCCHIO FABIO nato il 09/11/1975 a Pinerolo
contro la sentenza del 20/06/2016 della Corte di appello di Torino.
Visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
sentita la relazione svolta dal consigliere Sergio Beltrani;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Luigi
Cuomo, che ha concluso chiedendo dichiararsi l'inammissibilità di tutti i ricorsi;
uditi:
per l'imputato MILANESIO l'avv. Franco Carlo Coppi (che ha concluso per
l'accoglimento dei motivi di ricorso, facendo presente che nelle more si sono
prescritti alcuni reati) e l'avv. Andrea Aliprandi (che ha concluso per
l'accoglimento dei motivi di ricorso);
per l'imputato BAGNASCO l'avv. Michele Alessio Forneris (che ha concluso
associandosi alle argomentazioni esposte dall'avv. Coppi, e chiedendo
l'accoglimento dei motivi di ricorso);
per l'imputato CERUTTI l'avv. Giampaolo Mussano (che ha concluso per
l'accoglimento dei motivi di ricorso, a sua volta rilevando l'intervenuta
prescrizione di alcuni reati);
rilevata la regolarità degli avvisi di rito;
IL,
..
-
RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Torino, con sentenza del 18 febbraio 2015, aveva dichiarato:
- BAGNASCO GIORGIO, in atti generalizzato,
colpevole [con CERUTTI e MILANESIO] dei reati di cui ai capi di imputazione n. 2, 5, 6,
7, 8, 9, 11, 12, 19-bis, 27-bis, 70-septies (riqualificato ai sensi degli artt. 56/640-bis c.p.),
85-bis, 111, nonché [da solo] di cui ai capi 70-quater, 70-sexies, 90-bis (riqualificato ai
sensi degli artt. 56/640-bis c.p.), 132;
- CERUTTI SERGIO GIOVANNI, in atti generalizzato,
colpevole [con BAGNASCO e MILANESIO] dei reati di cui ai capi di imputazione n. 2, 5,
6, 7, 8, 9, 11, 12, 19-bis, 27-bis, 70-septies (riqualificato ai sensi degli artt. 56/640-bis
c.p.), 85-bis, 111, nonché [da solo] di cui ai capi 11-bis a, 12-bis, 15-bis, 41-bis, 51, 58,
59, 62, 70-sexies, 76, 77, 128, 133;
- MILANESIO FABRIZIO, in atti generalizzato,
colpevole [con BAGNASCO e CERUTTI] dei reati di cui ai capi di imputazione n. 2, 5, 6,
7, 8, 9, 11, 12, 19-bis, 27-bis, 70-septies (riqualificato ai sensi degli artt. 56/640-bis c.p.),
85-bis, 111, nonché [da solo] di cui ai capi 10-bis, 11-bis d, 34, 61-bis, 61-ter, 75-bis, 75-
ter, 80, 81, 82-bis, 82-ter 1, 82-quater (riqualificato ai sensi degli artt. 56/640-bis c.p.),
82-quinquies 2, 82-sexies, 84, 85, 90-bis (riqualificato ai sensi degli artt. 56/640-bis c.p.),
91, 97, 112, 132, 133;
- MONTRUCCHIO FABIO, in atti generalizzato,
colpevole [da solo] dei reati di cui ai capi 64-bis, 65, 68, 68-bis, 69-bis, 69-ter.
Tutti i reati erano stati ritenuti, per ciascun imputato, unificati dal vincolo della
continuazione.
Ciascun imputato era stato condannato alla pena ritenuta di giustizia, previo
riconoscimento a tutti delle attenuanti generiche, con giudizio di equivalenza alle concorrenti
aggravanti per ciascuno ritenute; erano state, inoltre, disposte le statuizioni accessorie,
anche in favore delle parti civili FINPIEMONTE s.p.a. e REGIONE PIEMONTE in persona dei
rispettivi legali rappresentanti pp. tt .
2. La Corte di appello di Torino, con sentenza del 20 giugno 2016, su appello dei soli
imputati quanto alle affermazioni di responsabilità, con appello incidentale del P.M.
territoriale (quanto al complessivo trattamento sanzionatorio relativo al CERUTTI, alle
attenuanti generiche ritenute in favore del MILANESIO ed all'aumento di pena operato per i
reati satellite nei confronti del BAGNASCO), ha:
- nei confronti del BAGNASCO, dichiarato estinti per prescrizione i reati di cui ai capi 12,
90-bis, 132, ed assolto l'imputato dal reato di cui al capo 70-sexies perché il fatto non4
sussiste;
- 3 -
- nei confronti del CERUTTI, dichiarato estinti per prescrizione i reati di cui ai capi 12,
12-bis, 41-bis, 51, 62, 76, 128, assolto l'imputato dal reato di cui al capo 70-sexies perché
il fatto non sussiste, e qualificato come delitti meramente tentati i fatti di cui ai capi
11-bis a, 15-bis e 59;
- nei confronti del MILANESI°, dichiarato estinti per prescrizione i reati di cui ai capi
90-bis, 12, 82-quater, 112, 132 ed, in accoglimento dell'appello incidentale del P.M., escluso
le già ritenute attenuanti generiche;
- nei confronti del MONTRUCCHIO, dichiarato estinti per prescrizione i reati di cui ai
capi 64-bis, 65, 68, 69-bis, 69-ter.
Sono state conseguentemente rideterminate, per ciascuno, le pene, rimodulando le
statuizioni accessorie disposte in primo grado e disponendo quelle del grado di appello.
3. Contro tale provvedimento, gli imputati (tutti con l'ausilio di difensori iscritti nell'albo
speciale della Corte di cassazione) hanno proposto distinti ricorsi per cassazione, deducendo
plurimi motivi che saranno enunciati nell'ambito delle Considerazioni in diritto che
seguiranno, imputato per imputato, nei limiti strettamente necessari per la motivazione,
come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att. c.p.p.
4. All'odierna udienza pubblica, è stata verificata la regolarità degli avvisi di rito;
all'esito, le parti presenti hanno concluso come da epigrafe, ed il collegio, riunito in camera
di consiglio, ha deciso come da dispositivo in atti, pubblicato mediante lettura in pubblica
udienza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi degli imputati sono tutti integralmente inammissibili.
1. In considerazione dell'elevato numero di imputazioni contestate agli imputati, appare
preliminarmente opportuno riepilogare la complessa situazione processuale sottoposta
all'odierno sindacato di legittimità:
- BAGNASCO GIORGIO è stato conclusivamente dichiarato colpevole [con CERUTTI e
MILANESIO] dei reati di cui ai capi di imputazione n. 2, 5, 6, 7, 8, 9, 11, 19-bis, 27-bis, 70-
septies (riqualificato ai sensi degli artt. 56/640-bis c.p.), 85-bis, 111, nonché [da solo] di
cui al capo 70-quater;
- CERUTTI SERGIO GIOVANNI è stato conclusivamente dichiarato colpevole [con
BAGNASCO e MILANESIO] dei reati di cui ai capi di imputazione n. 2, 5, 6, 7, 8, 9, 11, 19-
bis, 27-bis, 70-septies (riqualificato ai sensi degli artt. 56/640-bis c.p.), 85-bis, 111, nonché
[da solo] di cui ai capi 11-bis a (riqualificato ai sensi degli artt. 56/640-bis c.p.), 15-bis
- 4 -
(riqualificato ai sensi degli artt. 56/640-bis c.p.), 58, 59 (riqualificato ai sensi degli artt.
56/640-bis c.p.), 77, 133;
- MILANESIO FABRIZIO è stato conclusivamente dichiarato colpevole [con
BAGNASCO e CERUTTI] dei reati di cui ai capi di imputazione n. 2, 5, 6, 7, 8, 9, 11, 19-bis,
27-bis, 70-septies (riqualificato ai sensi degli artt. 56/640-bis c.p.), 85-bis, 111, nonché [da
solo] di cui ai capi 10-bis, 11-bis d, 34, 61-bis, 61-ter, 75-bis, 75-ter, 80, 81, 82-bis, 82-ter
1, 82-quinquies 2, 82-sexies, 84, 85, 91, 97, 133;
- MONTRUCCHIO FABIO è stato conclusivamente dichiarato colpevole [da solo] del
reato di cui al capo 68-bis.
1.1. Tutti i predetti capi di imputazione hanno ad oggetto truffe, consumate o tentate, in
danno della Regione Piemonte, finalizzate ad ottenere indebitamente, con l'impiego dei
raggiri ed artifizi compiutamente descritti per ciascun capo, in un periodo in origine
compreso tra il 2003 ed il marzo 2011 (ma per gli episodi più risalenti sono già intervenute
le declaratorie di estinzione dei reati per prescrizione), finanziamenti (in gran parte
consistenti in contributi a fondo perduto, ed in qualche caso in crediti agevolati) destinati ad
attività imprenditoriali di varia natura [riconducibili al bando DOCUP 2000-2006 Linea 2.4 C
relativo alla promozione dell'e-commerce, della linea di finanziamento per promozioni
fieristiche e dei finanziamenti per certificazione di qualità, finalizzate ad un più agevole
accesso al credito bancario, c.d. voucher Basilea II], erogati dall'ente territoriale, con fondi
propri, statali o europei, tramite FINPIEMONTE s.p.a.
1.2. Secondo l'ipotesi d'accusa, il CERUTTI sarebbe stato coinvolto in azioni truffaldine
poste in essere da una pluralità di imprese che, in genere, avvalendosi della consulenza del
MILANESIO (titolare dello studio FASI) e confidando nella "elasticità" dei bandi di
finanziamento regionali, oltre che nell'incapacità e/o impossibilità di FINPIEMONTE (e, per
essa, del comitato tecnico presso la stessa istituito) di effettuare un puntuale e penetrante
controllo dell'effettivo valore delle prestazioni ammesse a contributo, aveva chiesto ed in
ampia parte ottenuto finanziamenti per decine di migliaia di euro, a fronte
dell'apprestamento di beni o servizi di valore ben più esiguo.
Parte delle fatture all'uopo allegate (spesso relative a prestazioni per la realizzazione di
siti in internet) erano state emesse da società direttamente od indirettamente riconducibili
al CERUTTI; le imprese che effettivamente eseguivano le prestazioni o i servizi oggetto delle
richieste di finanziamento (sovente facenti capo all'imputato BAGNASCO) avrebbero
prestato la loro opera per compensi sensibilmente inferiori rispetto a quelli indicati nelle
fatture prodotte a FINPIEMONTE; il danno complessivo cagionato alla Regione Piemonte
ammonterebbe a circa 2 milioni e mezzo di euro.
.,(). L'emissione delle fatture relative a prestazioni in realtà non eseguite o comunque di
valore sensibilmente inferiore a quello dichiarato, veniva accompagnato da altri artifizi, quali 5 -
la documentazione di false quietanze apposte sulle fatture, l'effettuazione di pagamenti con
assegni e restituzione di gran parte dei relativi importi sovradimensionati, in contanti o
tramite il corrispondente pagamento di fatture a debito della società emittente/creditrice per
le prestazioni finanziate, in cambio di controprestazioni apparentemente di pari valore.
A fondamento delle conformi affermazioni di responsabilità, venivano essenzialmente
valorizzate:
- le dichiarazioni auto- ed etero- accusatorie rese da alcuni indagati (beneficiari di
finanziamenti e concorrenti in talune pratiche di finanziamento, i quali - ad eccezione del
CERUTTI - sono stati giudicati separatamente);
- le consulenze tecniche del P.M.
I LIMITI DEL SINDACATO DI LEGITTIMITA' SULLA MOTIVAZIONE
1. E' necessario premettere, con riguardo ai limiti del sindacato di legittimità sulla
motivazione dei provvedimenti oggetto di ricorso per cassazione, delineati dall'art. 606,
comma 1, lettera e), c.p.p., come vigente a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 46
del 2006, che, a parere di questo collegio, la predetta novella non ha comportato la
possibilità, per il giudice della legittimità, di effettuare un'indagine sul discorso giustificativo
della decisione, finalizzata a sovrapporre la propria valutazione a quella già effettuata dai
giudici di merito, dovendo il giudice della legittimità limitarsi a verificare l'adeguatezza delle
considerazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per giustificare il suo convincimento.
1.1. La mancata rispondenza di queste ultime alle acquisizioni processuali può, soltanto
ora, essere dedotta quale motivo di ricorso qualora comporti il c.d. «travisamento della
prova» (consistente nell'utilizzazione di un'informazione inesistente o nell'omissione della
valutazione di una prova, accomunate dalla necessità che il dato probatorio, travisato od
omesso, abbia il carattere della decisività nell'ambito dell'apparato motivazionale sottoposto
a critica), purché siano indicate in maniera specifica ed inequivoca le prove che si pretende
essere state travisate, nelle forme di volta in volta adeguate alla natura degli atti in
considerazione, in modo da rendere possibile la loro lettura senza alcuna necessità di ricerca
da parte della Corte, e non ne sia effettuata una monca individuazione od un esame
parcellizzato.
Permane, al contrario, la non deducibilità, nel giudizio di legittimità, del travisamento
del fatto, stante la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria
valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito
(Sez. VI, sentenza n. 25255 del 14 febbraio 2012, Rv. 253099).
1.1.1. Il ricorso che, in applicazione della nuova formulazione dell'art. 606, comma 1,
lett. e), c.p.p. intenda far valere il vizio di «travisamento della prova» deve, a pena di
•
-6---
inammissibilità (Sez. I, sentenza n. 20344 del 18 maggio 2006, Rv. 234115; Sez. VI,
sentenza n. 45036 del 2 dicembre 2010, Rv. n. 249035):
(a) identificare specificamente l'atto processuale sul quale fonda la doglianza;
(b) individuare l'elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che
risulta asseritamente incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza impugnata;
(c) dare la prova della verità dell'elemento fattuale o del dato probatorio invocato,
nonché dell'effettiva esistenza dell'atto processuale su cui tale prova si fonda tra i materiali
probatori ritualmente acquisiti nel fascicolo del dibattimento;
(d) indicare le ragioni per cui l'atto invocato asseritamente inficia e compromette, in
modo decisivo, la tenuta logica e l'intera coerenza della motivazione, introducendo profili di
radicale "incompatibilità" all'interno dell'impianto argomentativo del provvedimento
impugnato.
1.2. La mancanza, l'illogicità e la contraddittorietà della motivazione, come vizi
denunciabili in sede di legittimità, devono risultare di spessore tale da risultare percepibili
ictu ocu/i, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di
macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi
disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano
logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico ed
adeguato le ragioni del convincimento senza vizi giuridici (in tal senso, conservano validità,
e meritano di essere tuttora condivisi, i principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte,
sentenze n. 24 del 24 novembre 1999, Rv. 214794; n. 12 del 31 maggio 2000, Rv. 216260;
n. 47289 del 24 settembre 2003, Rv. 226074).
Devono tuttora escludersi la possibilità, per il giudice di legittimità, di «un'analisi
orientata ad esaminare in modo separato ed atomistico i singoli atti, nonché i motivi di
ricorso su di essi imperniati ed a fornire risposte circoscritte ai diversi atti ed ai motivi ad
essi relativi>> (Sez. VI, sentenza n. 14624 del 20 marzo 2006, Rv. 233621; Sez. II,
sentenza n. 18163 del 22 aprile 2008, Rv. 239789), e di una rilettura degli elementi di fatto
posti a fondamento della decisione o dell'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di
ricostruzione e valutazione dei fatti (Sez. VI, sentenza n. 27429 del 4 luglio 2006, Rv.
234559; Sez. VI, sentenza n. 25255 del 14 febbraio 2012, Rv. 253099).
1.3. Il giudice di legittimità ha, pertanto, ai sensi del novellato art. 606 c.p.p., il compito
di accertare (Sez. VI, sentenza n. 35964 del 28 settembre 2006, Rv. 234622; Sez. III,
sentenza n. 39729 del 18 giugno 2009, Rv. 244623; Sez. V, sentenza n. 39048 del 25
settembre 2007, Rv. 238215; Sez. II, sentenza n. 18163 del 22 aprile 2008, Rv. 239789):
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(a) il contenuto del ricorso (che deve contenere gli elementi sopra individuati);
(b) la decisività del materiale probatorio richiamato (che deve essere tale da
disarticolare l'intero ragionamento del giudicante o da determinare almeno una complessiva
incongruità della motivazione);
(c) l'esistenza di una radicale incompatibilità con l'iter motivazionale seguito dal giudice
di merito e non di un semplice contrasto;
(d) la sussistenza di una prova omessa od inventata, e del c.d. <<travisamento del
fatto>>, ma solo qualora la difformità della realtà storica sia evidente, manifesta,
apprezzabile ictu °cui/ ed assuma anche carattere decisivo in una valutazione globale di tutti
gli elementi probatori esaminati dal giudice di merito (il cui giudizio valutativo non è
sindacabile in sede di legittimità se non manifestamente illogico e, quindi, anche
contraddittorio).
1.4. E' inammissibile il motivo in cui si deduca la violazione dell'art. 192 c.p.p., anche
se in relazione agli artt. 125 e 546, comma 1, lett. e), c.p.p., per censurare l'omessa od
erronea valutazione di ogni elemento di prova acquisito o acquisibile, in una prospettiva
atomistica ed indipendentemente da un raffronto con il complessivo quadro istruttorio, in
quanto i limiti all'ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati
specificamente dall'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., non possono essere superati
ricorrendo al motivo di cui all'art. 606, comma 1, lett. c), c.p.p., nella parte in cui consente
di dolersi dell'inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità (Sez. VI,
sentenza n. 45249 dell'8 novembre 2012, Rv. 254274).
LA NECESSARIA SPECIFICITA' DEL RICORSO PER CASSAZIONE
2. La giurisprudenza di questa Corte è, condivisibilmente, orientata nel senso
dell'inammissibilità, per difetto di specificità, del ricorso presentato prospettando vizi di
motivazione del provvedimento impugnato, i cui motivi siano enunciati in forma perplessa o
alternativa (Sez. VI, sentenza n. 32227 del 16 luglio 2010, Rv. 248037: nella fattispecie il
ricorrente aveva lamentato la "mancanza e/o insufficienza e/o illogicità della motivazione" in
ordine alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari posti a
fondamento di un'ordinanza applicativa di misura cautelare personale; Sez. VI, sentenza n.
800 del 6 dicembre 2011, dep. 2012, Rv. 251528).
Invero, l'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. stabilisce che i provvedimenti sono ricorribili
per «mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio
risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo
specificamente indicati nei motivi di gravame».
La disposizione, se letta in combinazione con l'art. 581, comma 1, lett. c), c.p.p. (a
norma del quale è onere del ricorrente «enunciare i motivi del ricorso, con l'indicazione
- 8 -
specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta»)
evidenzia che non può ritenersi consentita l'enunciazione perplessa ed alternativa dei motivi
di ricorso, essendo onere del ricorrente di specificare con precisione se la deduzione di vizio
di motivazione sia riferita alla mancanza, alla contraddittorietà od alla manifesta illogicità
ovvero a una pluralità di tali vizi, che vanno indicati specificamente in relazione alle varie
parti della motivazione censurata.
Il principio è stato più recentemente accolto anche da questa sezione, a parere della
quale «È inammissibile, per difetto di specificità, il ricorso nel quale siano prospettati vizi
di motivazione del provvedimento impugnato, i cui motivi siano enunciati in forma perplessa
o alternativa, essendo onere del ricorrente specificare con precisione se le censure siano
riferite alla mancanza, alla contraddittorietà od alla manifesta illogicità ovvero a più di uno
tra tali vizi, che vanno indicati specificamente in relazione alle parti della motivazione
oggetto di gravame» (Sez. II, sentenza n. 31811 dell'8 maggio 2012, Rv. 254329).
Per tali ragioni la censura alternativa ed indifferenziata di mancanza, contraddittorietà o
manifesta illogicità della motivazione risulta priva della necessaria specificità, il che rende il
ricorso inammissibile.
2.1. Secondo altro consolidato e condivisibile orientamento di questa Corte (per tutte,
Sez. IV, sentenza n. 15497 del 22 febbraio 2002, Rv. 221693; Sez. VI, sentenza n. 34521
del 27 giugno 2013, Rv. 256133), è inammissibile per difetto di specificità il ricorso che
riproponga pedissequamente le censure dedotte come motivi di appello (al più con
l'aggiunta di frasi incidentali contenenti contestazioni, meramente assertive ed apodittiche,
della correttezza della sentenza impugnata) senza prendere in considerazione, per
confutarle, le argomentazioni in virtù delle quali i motivi di appello non siano stati accolti.
2.1.1. Si è, infatti, esattamente osservato (Sez. VI, sentenza n. 8700 del 21 gennaio
2013, Rv. 254584) che «La funzione tipica dell'impugnazione è quella della critica
argomentata avverso il provvedimento cui si riferisce. Tale critica argomentata si realizza
attraverso la presentazione di motivi che, a pena di inammissibilità (artt. 581 e 591 c.p.p.),
debbono indicare specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono
ogni richiesta. Contenuto essenziale dell'atto di impugnazione è, pertanto, innanzitutto e
indefettibilmente il confronto puntuale (cioè con specifica indicazione delle ragioni di diritto e
degli elementi di fatto che fondano il dissenso) con le argomentazioni del provvedimento il
cui dispositivo si contesta).
2.1.2. Il motivo di ricorso in cassazione è caratterizzato da una "duplice specificità":
«Deve essere sì anch'esso conforme all'art. 581 c.p.p., lett. C (e quindi contenere
l'indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta
-9-..-
presentata al giudice dell'impugnazione); ma quando "attacca" le ragioni che sorreggono la
decisione deve, altresì, contemporaneamente enucleare in modo specifico il vizio
denunciato, in modo che sia chiaramente sussumibile fra i tre, soli, previsti dall'art. 606
c.p.p., comma 1, lett. e), deducendo poi, altrettanto specificamente, le ragioni della sua
decisività rispetto al percorso logico seguito dal giudice del merito per giungere alla
deliberazione impugnata, sì da condurre a decisione differente» (Sez. VI, sentenza n.
8700 del 21 gennaio 2013 cit.).
2.1.3. Risulta, pertanto, evidente che, «se il motivo di ricorso si limita a riprodurre il
motivo d'appello, per ciò solo si destina all'inammissibilità, venendo meno in radice l'unica
funzione per la quale è previsto e ammesso (la critica argomentata al provvedimento),
posto che con siffatta mera riproduzione il provvedimento ora formalmente 'attaccato', lungi
dall'essere destinatario di specifica critica argomentata, è di fatto del tutto ignorato. Nè tale
forma di redazione del motivo di ricorso (la riproduzione grafica del motivo d'appello)
potrebbe essere invocata come implicita denuncia del vizio di omessa motivazione da parte
del giudice d'appello in ordine a quanto devolutogli nell'atto di impugnazione. Infatti,
quand'anche effettivamente il giudice d'appello abbia omesso una risposta, comunque la
mera riproduzione grafica del motivo d'appello condanna il motivo di ricorso
all'inammissibilità. E ciò per almeno due ragioni. È censura di merito. Ma soprattutto (il che
vale anche per l'ipotesi delle censure in diritto contenute nei motivi d'appello) non è mediata
dalla necessaria specifica e argomentata denuncia del vizio di omessa motivazione (e tanto
più nel caso della motivazione cosiddetta apparente che, a differenza della mancanza
"grafica", pretende la dimostrazione della sua mera "apparenza" rispetto ai temi
tempestivamente e specificamente dedotti); denuncia che, come detto, è pure onerata
dell'obbligo di argomentare la decisività del vizio, tale da imporre diversa conclusione del
caso».
2.1.4. Può, pertanto, concludersi che «la riproduzione, totale o parziale, del motivo
d'appello ben può essere presente nel motivo di ricorso (ed in alcune circostanze costituisce
incombente essenziale dell'adempimento dell'onere di autosufficienza del ricorso), ma solo
quando ciò serva a "documentare" il vizio enunciato e dedotto con autonoma specifica ed
esaustiva argomentazione, che, ancora indefettibilmente, si riferisce al provvedimento
impugnato con il ricorso e con la sua integrale motivazione si confronta. A ben vedere, si
tratta dei principi consolidati in materia di "motivazione per relazione" nei provvedimenti
giurisdizionali e che, con la mera sostituzione dei parametri della prima sentenza con i
motivi d'appello e della seconda sentenza con i motivi di ricorso per cassazione, trovano
piena applicazione anche in ordine agli atti di impugnazione» (Sez. VI, sentenza n. 8700
del 21 gennaio 2013 cit.).
LA MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA D'APPELLO
3. Anche il giudice d'appello non è tenuto a rispondere a tutte le argomentazioni svolte
nell'impugnazione, giacché le stesse possono essere disattese per implicito o per aver
seguito un differente iter motivazionale o per evidente incompatibilità con la ricostruzione
effettuata (per tutte, Sez. VI, sentenza n. 1307 del 26 settembre 2002, dep. 2003, Rv.
223061).
3.1. In presenza di una doppia conforma affermazione di responsabilità, va, peraltro,
ritenuta l'ammissibilità della motivazione della sentenza d'appello per relationem a quella
della decisione impugnata, sempre che le censure formulate contro la sentenza di primo
grado non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi, in
quanto il giudice di appello, nell'effettuazione del controllo della fondatezza degli elementi
su cui si regge la sentenza impugnata, non è tenuto a riesaminare questioni
sommariamente riferite dall'appellante nei motivi di gravame, sulle quali si sia soffermato il
primo giudice, con argomentazioni ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e
criticamente censurate.
In tal caso, infatti, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi,
si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in
ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i
giudici dell'appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal
giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai
passaggi logico-giuridici della decisione, sicché le motivazioni delle sentenze dei due gradi di
merito costituiscano una sola entità (Sez. II, sentenza n. 1309 del 22 novembre 1993, dep.
1994, Rv. 197250; Sez. III, sentenza n. 13926 del 1° dicembre 2011, dep. 2012, Rv.
252615).
L'AFFERMAZIONE DI RESPONSABILITA' <<OLTRE OGNI RAGIONEVOLE DUBBIO>>.
4. Per quel che concerne il significato da attribuire alla locuzione «oltre ogni
ragionevole dubbio», presente nel testo novellato dell'art. 533 c.p.p. quale parametro cui
conformare la valutazione inerente all'affermazione di responsabilità dell'imputato, è
opportuno evidenziare che, al di là dell'icastica espressione, mutuata dal diritto
anglosassone, ne costituiscono fondamento il principio costituzionale della presunzione di
innocenza e la cultura della prova e della sua valutazione, di cui è permeato il nostro
sistema processuale.
Si è, in proposito, esattamente osservato che detta espressione ha una funzione
meramente descrittiva più che sostanziale, giacché, in precedenza, il «ragionevole
dubbio» sulla colpevolezza dell'imputato ne comportava pur sempre il proscioglimento a
norma dell'art. 530, comma 2, c.p.p., sicché non si è in presenza di un diverso e più
rigoroso criterio di valutazione della prova rispetto a quello precedentemente adottato dal
codice di rito, ma è stato ribadito il principio, già in precedenza immanente nel nostro
ordinamento costituzionale ed ordinario (tanto da essere già stata adoperata dalla
giurisprudenza di questa Corte Suprema - per tutte, Sez. un., sentenza n. 30328 del 10
luglio 2002, Rv. 222139 -, e solo successivamente recepita nel testo novellato dell'art. 533
c.p.p.), secondo cui la condanna è possibile soltanto quando vi sia la certezza processuale
assoluta della responsabilità dell'imputato (Sez. II, sentenza n. 19575 del 21 aprile 2006,
Rv. 233785; Sez. II, sentenza n. 16357 del 2 aprile 2008, Rv. 239795).
In argomento, si è più recentemente, e conclusivamente, affermato (Sez. II, sentenza n.
7035 del 9 novembre 2012, dep. 2013, Rv. 254025) che «La previsione normativa della
regola di giudizio dell' "al di là di ogni ragionevole dubbio", che trova fondamento nel
principio costituzionale della presunzione di innocenza, non ha introdotto un diverso e più
restrittivo criterio di valutazione della prova ma ha codificato il principio giurisprudenziale
secondo cui la pronuncia di condanna deve fondarsi sulla certezza processuale della
responsabilità dell'imputato».
I RICORSI.
5. Alla luce di queste necessarie premesse vanno esaminati gli odierni ricorsi.
6. Le doglianze comuni.
6.1. Con il primo motivo, il BAGNASCO deduce violazione di norme processuali stabilite
a pena di nullità [art. 178, comma 1, lett. B), c.p.p. in relazione all'art. 51, comma 2,
c.p.p.], nonché per omissione e manifesta illogicità della motivazione desumibile dal testo
della sentenza, con riferimento al capo relativo all'impugnazione dell'ordinanza 30.10.2013
del Tribunale di Torino con la quale era stata respinta la questione di nullità sollevata dalla
difesa in relazione alla legittimazione ad agire del Procuratore Generale della Repubblica nel
procedimento.
6.2. Con il primo motivo, il CERUTTI deduce inosservanza ed erronea applicazione
dell'art. 412, comma 1, c.p.p., nonché dell'art. 416, comma 1, c.p.p., norma stabilita a pena
di nullità; carenza e/o manifesta illogicità della sentenza sullo specifico punto di gravame
(per asserita illegittimità dell'avvenuta avocazione con riguardo ai reati diversi da quello di
cui all'art. 388 c.p., ascritto al CERUTTI e confluito nel capo 75, in difetto di ragioni di
connessione o collegamento, e conseguente nullità, per difetto di legittimazione, dell'avviso
di chiusura delle indagini preliminari e della richiesta di rinvio a giudizio, entrambi emessi
dal PG distrettuale, soggetto asseritamente non legittimato);
6.3. Con il primo motivo, il MILANESIO deduce violazione di norme processuali stabilite
a pena di nullità [art. 51, comma 2, c.p.p. in relazione agli artt. 178, comma 1, lett. B), 179
- 12 -
e 180 c.p.p.], nonché omissione e manifesta illogicità della motivazione desumibile dal testo
della sentenza, con riferimento al capo relativo all'impugnazione dell'ordinanza 30.10.2013
del Tribunale di Torino con la quale era stata respinta la questione di nullità sollevata dalla
difesa in relazione alla legittimazione ad agire del Procuratore Generale della Repubblica nel
procedimento (precisando: che trattasi di avocazione avvenuta ai sensi dell'art. 413 c.p.p.
su richiesta di una p.o.; che il PG ha svolto una indagine ex novo riguardante fatti nuovi e
diversi, per nessuno dei quali il ricorrente concorre con l'originaria coindagata TUGNOLO, e
solo limitatamente ad alcuni dei quali concorre con CERUTTI e BAGNASCO; che gli ordinari
criteri di collegamento di cui agli artt. 12 e 371 c.p.p. non opererebbero, essendo riferiti alla
sola attività del PM, non anche a quella in svolta in deroga ex artt. 412 s. c.p.p.; che
mancherebbe in realtà quel collegamento soggettivo valorizzato dalla Corte di appello;
sarebbe inoperante la previsione di cui all'art. 372, comma 1-bis, c.p.p., non ricorrendone
alcuno dei casi tassativamente previsti: il P.G. potrebbe iscrivere notizie di reato nuove solo
a seguito di un già intervenuto provvedimento di avocazione; che del tutto non pertinenti
sarebbero i rilievi della Corte di appello sulla presunta irrilevanza dell'eventuale avocazione
delle norme de quibus; che le indagini si sono svolte in concreto in difetto del benché
minimo controllo - fogli ottavo e seguente del ricorso, le cui pagine non recano
numerazione).
6.3.1. Il ricorso MILANESIO, nell'ottavo e nel nono foglio (si ripete, non recanti
numerazione) contiene doglianze non consentite, evocando presunte illegittimità non
costituenti oggetto di appello, e non esaminabili di ufficio (come si vedrà) per la complessiva
inammissibilità nel resto del ricorso, e comunque perché necessiterebbero di verifiche
fattuali da operare ex novo per la prima volta in questa sede, ma palesemente incompatibili
con il giudizio di legittimità.
6.4. Deve ancora premettersi che i predetti motivi sono non consentiti nella parte in cui
denunciano vizio di motivazione con riferimento ad una questione all'evidenza di diritto.
Come più volte chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. II, n. 3706 del 21
gennaio 2009, Rv. 242634, e n. 19696 del 20 maggio 2010, Rv. 247123), anche sotto la
vigenza dell'abrogato codice di rito (Sez. IV, n. 6243 del 7 marzo 1988, Rv. 178442), il vizio
di motivazione denunciabile nel giudizio di legittimità è solo quello attinente alle questioni di
fatto, non anche quello attinente alle questioni di diritto, giacché ove queste ultime, pur se
in maniera immotivata o contraddittoriamente od illogicamente motivata, siano comunque
esattamente risolte, non può sussistere ragione alcuna di doglianza, mentre, viceversa, ove
la soluzione non sia giuridicamente corretta, poco importa se e quali argomenti la
sorreggano.
D'altro canto, l'interesse all'impugnazione potrebbe nascere solo dall'errata soluzione di
una questione giuridica, non dall'eventuale erroneità degli argomenti posti a fondamento
- 13 -
giustificativo della soluzione comunque corretta di una siffatta questione (Sez. IV, n. 4173
del 22 febbraio 1994, Rv. 197993).
Va, in proposito, ribadito il seguente principio di diritto:
«nel giudizio di legittimità il vizio di motivazione non è denunciabile con riferimento
alle questioni di diritto decise dal giudice di merito, allorquando la soluzione di esse sia
giuridicamente corretta. D'altro canto, l'interesse all'impugnazione potrebbe nascere
soltanto dall'errata soluzione delle suddette questioni, non dall'indicazione di ragioni errate a
sostegno di una soluzione comunque giuridicamente corretta>>.
Ne consegue che, nel giudizio di legittimità, il vizio di motivazione non è denunciabile
con riferimento alle questioni di diritto decise dai giudici del merito.
6.5. I predetti motivi, nella parte in cui evocano violazioni della legge processuale, sono
manifestamente infondati.
Per la completa ricostruzione delle vicende processuali in esame si rinvia al riepilogo
operato dalla Corte di appello a f. 58 ss. della sentenza impugnata.
6.5.1. Come già chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. un., sentenza n.
34536 dell'11/07/2001, Rv. 219599; Sez. V, n. 40 dell'11.01.1991, Rv. 186441) l'istituto
dell'avocazione delle indagini preliminari per mancato esercizio dell'azione penale, evocato
dalla legge delega n. 81 del 16.2.1987 [che, al punto 42), conteneva la previsione del
"potere di avocazione da parte del procuratore generale da esercitarsi con decreto motivato,
soltanto nel caso di inerzia del pubblico ministerol, è sorretto dal favor actionis.
6.5.2. Si è inoltre già chiarito anche che, una volta intervenuta l'avocazione del
procedimento, l'ufficio avocante assume tutti i poteri spettanti all'ufficio al quale si è
sostituito in ordine all'esercizio dell'azione penale (Sez. I, n. 979 del 28/02/1992, Rv.
189735; Sez. VI, n. 1176 del 09/03/2000, Rv. 216413), senza incontrare alcun limite
"quantitativo".
che, all'esito del compimento delle avocate
esercitare l'azione penale senza limiti, in
6.5.3. Deve conseguentemente ritenersi
indagini preliminari, il PG avocante possa
riferimento alle ipotesi di reato emerse:
- in difetto di previsioni contrarie;
- per evidenti ragioni di omogeneità sistematica, in sintonia con il principio della
ragionevole durata del procedimento, che renderebbe irragionevole la rimessione di parte
del procedimento al P.M. già rimasto inerte: in tal caso, inoltre, si renderebbe necessaria
una forzata separazione processuale, fuori dai casi previsti dall'art. 18 c.p.p., che
renderebbe impossibile la celebrazione del simultaneus processus del quale in ipotesi
sussistano le condizioni.
6.5.4. Nel caso in esame, solo a seguito del già intervenuto provvedimento di
evocazione il PG ha iscritto per i fatti connessi, che sono man mano emersi nel corso delle
indagini svolte inizialmente in riferimento al reato oggetto di evocazione, le notizie di reato
de quibus, a nulla rilevando che - in ipotesi - le stesse potessero riguardare reati commessi
dopo la data del provvedimento di evocazione.
6.5.5. Ciò premesso, le comuni doglianze dei ricorrenti non possono essere accolte per il
decisivo ed assorbente rilievo che i vizi lamentati non risultano sanzionati, in difetto di una
norma che preveda un ipotesi di nullità relativa ad hoc, e non integrando la nullità generale
di cui all'art. 178, comma 1, lett. b), c.p.p. (l'unica in ipotesi invocabile, ed in concreto
invocata dai ricorrenti), poiché le disposizioni in ipotesi violate non concernono l'iniziativa
del pubblico ministero nell'esercizio dell'azione penale né la sua partecipazione al
procedimento.
L'eventuale irritualità dell'evocazione nel corso delle indagini preliminari, e la
conseguente (ed in ipotesi indebita) sostituzione, come requirente, del procuratore generale
al procuratore della Repubblica, non comporta, quindi, alcuna nullità: le nullità devono,
infatti, essere previste espressamente dalla legge, ma il caso in esame non rientra
nell'ambito applicativo dell'art. 178, comma 1, lett. b), c.p.p., che concerne esclusivamente
l'iniziativa e la partecipazione del pubblico ministero, riferendosi all'organo del pubblico
ministero considerato unitariamente (per una affermazione di principio in tal senso, vigente
l'abrogato codice di rito, mai successivamente contraddetta, nonché ancora valida, mutatis
mutandis, cfr. Sez. V, n. 383 del 14/03/1973, Rv. 124364).
6.5.6. La correttezza del principio appena ribadito è indirettamente confermata da Sez.
I, n. 5976 del 22/05/1996, Rv. 205110, a parere della quale, «per analogia con quanto
disposto dall'art. 33, comma secondo, cod. proc. pen., in ordine alle condizioni di capacità
del giudice - alla cui stregua non devono considerarsi ad esse attinenti le disposizioni sulla
destinazione del giudice agli uffici giudiziari e alle sezioni, sulla formazione dei collegi e sulla
assegnazione dei processi a sezioni, giudici e collegi - egualmente deve ritenersi estranea
alla materia della capacità o legittimazione del pubblico ministero, e quindi non riconducibile
nell'ambito della nullità di cui all'art. 178, lett. b), cod. proc. pen., la violazione di
disposizioni relative alla individuazione concreta del rappresentante della pubblica accusa
nel procedimento, una volta che chi svolga tali funzioni sia comunque in generale un
soggetto investito delle relative attribuzioni e che sia garantita la partecipazione di detto
organo al procedimento medesimo>> (la fattispecie riguardava il caso del P.M. che aveva
proposto ricorso per cassazione avverso sentenza pronunciata dal G.I.P. presso il Tribunale -
nonché avverso le ordinanze emesse nel corso della relativa udienza preliminare -
deducendo la irritualità, con conseguente nullità, della delega, conferita ad un magistrato
— 15
appartenente alla Procura della Repubblica di quel tribunale da parte del Procuratore
Generale che aveva a suo tempo esercitato il potere di avocazione: questa Corte, in
applicazione del principio, ha rigettato il ricorso).
6.5.7. D'altro canto, le Sezioni Unite (sentenza n. 34536 dell'11/07/2001, Rv. 219599
cit.) hanno già osservato che il corretto esercizio del potere di avocazione comporta il
rispetto dei limiti temporali imposti dallo stesso dall'art. 412 c.p.p. per la formulazione delle
richieste (trenta giorni dal decreto di archiviazione) e delle ulteriori condizioni
normativamente poste (decreto motivato, indagini preliminari indispensabili), senza,
peraltro, individuare le sanzioni processuali per le eventuali violazioni, cui non potrebbe
quindi attribuirsi rilievo se non nell'ambito delineato dall'art. 124 c.p.p. (ovvero, al più, in
sede disciplinare).
6.5.8. Deve, infine, rilevarsi che il ristretto termine concesso al P.G. per le sue
determinazioni è pacificamente ordinatorio, e la sua violazione non comporta alcuna nullità,
ancora una volta non essendo questa tassativamente prevista: l'unica sanzione che può
conseguirne, riguardante la fase, è quella della inutilizzabilità di singoli atti d'indagine, in
ipotesi compiuti dopo la scadenza del termine (ex art. 407, comma 3, c.p.p.), ma che i
ricorrenti non hanno utilmente dedotto, e che, comunque, non inficierebbe la validità e
l'utilizzabilità degli elementi probatori acquisiti nel corso del dibattimento, valorizzati ai fini
delle conclusive affermazioni di responsabilità.
Invero, il predetto termine trova la sua ratio in funzione meramente acceleratoria, in
reazione alla pregressa istanza che sola può aver legittimato l'intervenuta avocazione, e
mira a consentire al P.G. di svolgere senza limiti, ma presto, tutte le attività che il P.M. in
ipotesi rimasto inerte non abbia svolto, senza gravare eccessivamente sull'indagato (come
osservato dalla dottrina, «il legislatore ha inteso impedire che fosse l'indagato a dover
subire le conseguenze, in termini di prolungamento delle indagini, dell'inazione dell'ufficio
del p.m.»),
6.6. La giurisprudenza di questa Corte ha più volte chiarito che non può porsi la
questione della declaratoria della prescrizione eventualmente maturata dopo la sentenza
d'appello, nei casi in cui il ricorso risulti in toto inammissibile, perché l'inammissibilità del
ricorso per cassazione «non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e
preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma
dell'art. 129 c.p.p.» (Sez. un., sentenza n. 32 del 22 novembre 2000, Rv. 217266: nella
specie, l'inammissibilità del ricorso era dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi, e la
prescrizione del reato era maturata successivamente alla data della sentenza impugnata con
il ricorso; conformi, Sez. un., sentenza n. 23428 del 2 marzo 2005, Rv. 231164, e Sez. un.,
sentenza n. 19601 del 28 febbraio 2008, Rv. 239400).
- 16
6.6.1. In considerazione della rilevanza che conseguentemente può assumere la
declaratoria di infondatezza o manifesta infondatezza dei motivi (quest'ultima costituente
causa speciale d'inammissibilità del ricorso per cassazione ex art. 606, comma 3, c.p.p.),
vanno compiutamente illustrati i parametri ai quali il giudice di legittimità deve attenersi ai
fini della relativa valutazione.
Invero, come la giurisprudenza di questa Corte (Sez. un., sentenza n. 21 dell'Il
novembre 1994, dep. 1995, Cresci, in motivazione) ha già avuto modo di osservare, «il
discrimine tra manifesta infondatezza e (semplice) infondatezza dei motivi è incerto e pone
il giudice di fronte a una scelta talvolta opinabile», che diventa assai impegnativa, proprio
perché l'inammissibilità per manifesta infondatezza, secondo l'orientamento in atto
dominante, risulta preclusiva del proscioglimento dell'imputato a norma dell'art. 129 c.p.p.
6.6.2. Il riferimento all'infondatezza (non mera, bensì) "manifesta" di una qualsivoglia
prospettazione non può ritenersi nel vigente ordinamento occasionale: basti pensare alla
disciplina prevista per le eccezioni d'incostituzionalità dagli artt. 26 e 29 della legge n. 87
dell'Il marzo 1953 e dall'art. 9 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte
costituzionale, approvate il 7 ottobre 2008.
In questo ambito, si ritiene, con orientamento ormai tradizionalmente consolidato (cfr.,
fra le tante, Corte cost. n. 32 del 1963, n. 37 del 1970 e n. 8 del 1971), che sia
manifestamente infondata la questione che si riveli «ictu oculi priva di ogni
consistenza», ovvero che riproponga pedissequamente una questione già dichiarata non
fondata in difetto «di nuovi motivi che possano indurre a modificare la precedente
decisione».
6.6.3. Analogo riferimento, e sempre come causa d'inammissibilità del ricorso, figurava
nell'art. 524, comma 3, c.p.p. abr.
E la giurisprudenza dell'epoca era ferma nel ritenere che il motivo di ricorso è
manifestamente infondato, comportando l'inammissibilità del gravame, ex art. 524, ultimo
comma, cit., «non solo quando sia palesemente erroneo in diritto, ma anche quando
affermi, sul fatto, sullo svolgimento del processo, sulla sentenza impugnata, censure o
critiche sostanzialmente vuote di significato in quanto manifestamente contrastate dagli atti
processuali. Tale è il caso, in particolare, del motivo di ricorso che attribuisca alla
motivazione della decisione impugnata un contenuto letterale, logico e critico radicalmente
diverso dal contenuto reale» (Sez. II, n. 1828 del 21/03/1973, dep. 1974, Rv. 126313), o,
comunque, che è inammissibile, perché manifestamente infondato, «il motivo di ricorso
per cassazione con cui si propone ancora una volta una questione già costantemente decisa
dal Supremo collegio in senso opposto a quello sostenuto dal ricorrente» (Sez. II, n.
10871 del 04/07/1975, Rv. 131225).
- 17
6.6.4. Nella vigenza del codice di rito del 1988, il tema risulta compiutamente esaminato
dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 32 del 22/11/2000, D.L., in motivazione.
In quella occasione si chiarì che l'attributo "manifesta" evoca «la significazione di
palese inconsistenza delle censure»; e che la "manifesta infondatezza" «si traduce nella
proposizione di censure caratterizzate da evidenti errori di diritto nell'interpretazione della
norma posta a sostegno del ricorso, il più delle volte contrastata da una giurisprudenza
costante e senza addurre motivi nuovi o diversi per sostenere l'opposta tesi, ovvero
invocando una norma inesistente nell'ordinamento, solo per indicare le più frequenti ipotesi
di applicazione dell'art. 606, comma 3, secondo periodo. Fino a profilare - sul piano
funzionale - come costante la pretestuosità del gravame, non importa se conosciuta o no
dallo stesso ricorrente».
6.6.5. D'altro canto, la Relazione al Progetto preliminare del c.p.p. (n. 171) aveva, in
proposito, evocato la nozione di «motivi che, pur essendo esposti in forma specifica, sono
nondimeno manifestamente privi di qualsiasi base giuridica, come quando, ad esempio, si
pretendesse di disconoscere l'esistenza o il senso assolutamente univoco di una determinata
disposizione di legge».
6.6.6. La stessa Corte costituzionale (sentenza n. 186 del 7 - 13 giugno 2000), nel
dichiarare costituzionalmente illegittimo l'art. 616 del codice di procedura penale nella parte
in cui non prevede che la Corte di cassazione, in caso di inammissibilità del ricorso, possa
non pronunciare la condanna in favore della Cassa delle ammende, a carico della parte
privata che abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa
di inammissibilità, ha in buona sostanza ammesso che la manifesta infondatezza del motivo
di ricorso «possa essere contrassegnata, sempre sul piano funzionale, da una
pretestuosità oggettiva, prescindente dalla deliberata volontà dell'interessato di ritardare la
formazione del titolo esecutivo» (Sez. un., sentenza n. 32 del 22/11/2000, cit., in
motivazione).
6.6.7. Da queste condivise considerazioni, la giurisprudenza di questa Corte ha già
correttamente desunto che il ricorso per cassazione la cui definizione presupponga la
risoluzione di problema oggetto di contrasto nella giurisprudenza di legittimità non può
considerarsi proposto per motivi manifestamente infondati e, come tale, non è
inammissibile, sicché non preclude la rilevazione della prescrizione del reato maturata nelle
more della sua discussione (Sez. VI, n. 35391 dell'11/07/2003, Rv. 226332).
6.6.8. Traendo le conclusioni di questa esposizione senz'altro doverosa (in
considerazione della delicatezza della questione esaminata, e delle sue possibili implicazioni,
- 18 -
anche quanto al rispetto dei principi del processo equo, della presunzione d'innocenza ed, in
definitiva, della certezza del diritto, garantiti dall'art. 6, §§ 1 e 2, della Convenzione EDU,
ma anche dagli artt. 25, 27 e 111 della Costituzione, che sarebbe possibile ritenere violati
da un sistema nel quale l'estinzione di un reato per prescrizione dipenda non soltanto dal
decorso del tempo e dal susseguirsi degli eventi che possono sospenderla od interromperla,
ma anche da una valutazione del giudice sulla fondatezza dei mezzi di ricorso, in ipotesi
arbitraria, se non ancorata a parametri certi e predefiniti), deve ritenersi che il giudice di
legittimità, ai fini della declaratoria di inammissibilità del ricorso, non sia chiamato ad una
arbitraria delibazione quanto alla infondatezza (mera o manifesta) dei motivi, ma sia tenuto
a valutare:
A) con riferimento ai motivi che deducano inosservanza od erronea applicazione di leggi,
se essi risultino caratterizzati da evidenti errori di diritto nell'interpretazione della norma
posta a sostegno del ricorso, come accade nei casi in cui:
- si invochi una norma inesistente nell'ordinamento
- si pretenda di disconoscere l'esistenza o il senso assolutamente univoco di una
determinata disposizione di legge;
- si riproponga una questione già costantemente decisa dal Supremo collegio in senso
opposto a quello sostenuto dal ricorrente, senza addurre motivi nuovi o diversi per
sostenere l'opposta tesi;
B) con riferimento ai motivi che deducano vizi di motivazione [se consentiti e dotati della
specificità necessaria ex art. 581, comma 1, lett. C), c.p.p.: in difetto, opererebbe una
diversa e tassativa causa d'inammissibilità del ricorso], se essi muovano, sul fatto, sullo
svolgimento del processo, sulla sentenza impugnata, censure o critiche sostanzialmente
vuote di significato in quanto manifestamente contrastate dagli atti processuali, come
accade, ad esempio, nel caso in cui il motivo di ricorso attribuisca alla motivazione della
decisione impugnata un contenuto letterale, logico e critico radicalmente diverso da quello
reale.
6.6.9. In applicazione di questi principi, i comuni motivi dei ricorrenti BAGNASCO,
CERUTTI e MILANESIO risultano manifestamente infondati, in quanto privi di base legale,
perché sono caratterizzati da evidenti errori di diritto nell'interpretazione dell'art. 178,
comma 1, lett. b), c.p.p. (che non opera in riferimento agli asseriti vizi), o comunque
invocano una diversa norma sanzionatoria, inesistente nell'ordinamento.
7. Ricorso avv. Michele FORNERIS per BAGNASCO.
7.1. Nell'interesse di GIORGIO BAGNASCO, conclusivamente dichiarato colpevole [con
CERUTTI e MILANESIO] dei reati di cui ai capi di imputazione n. 2, 5, 6, 7, 8, 9, 11, 19-bis, —
- 19 -
27-bis, 70-septies (riqualificato ai sensi degli artt. 56/640-bis c.p.), 85-bis, 111, nonché [da
solo] di cui al capo 70-quater, sono stati dedotti due ulteriori motivi.
7.2. Con il secondo motivo, il BAGNASCO deduce omessa o contraddittoria motivazione
desumibile dal testo della sentenza, in ordine all'affermazione di responsabilità penale
riguardante i reati a lui ascritti, nonché, con riferimento ai reati di cui ai capi 2, 5, 6, 8, 9,
inosservanza od erronea applicazione degli artt. 56/640-640-bis c.p. per erronea
qualificazione della fattispecie come reato consumato anziché come tentativo (lamentando:
inadeguata dimostrazione del fatto che il BAGNASCO fosse a conoscenza del "sistema
truffaldino posto in essere dal CERUTTI e dal MILANESIO", assertivamente affermata dalla
sentenza impugnata senza alcun riferimento ad ipotetiche risultanze probatorie che ne
corroborino la sussistenza, laddove il BAGNASCO si sarebbe, secondo la difesa, limitato a
fornire un inconsapevole contributo di natura esclusivamente tecnica; che insufficienti in
senso contrario sarebbero le dichiarazioni del coimputato CERUTTI valorizzate a f. 99 della
sentenza impugnata: il CERUTTI avrebbe, infatti, smentito in udienza le dichiarazioni
predibattimentali relative alla piena consapevolezza del BAGNASCO, ed inconsistenti
sarebbero le argomentazioni in virtù delle quali la Corte di appello ha ritenuto l'attendibilità
delle prime, piuttosto che delle seconde; che la sentenza impugnata trascurerebbe il dato
che nessun "non imputato" ha mai riferito elementi comprovanti la partecipazione del
BAGNASCO ad incontri o riunioni con il MILANESIO od il CERUTTI, laddove al contrario il
ricorrente era sempre presente quando venivano trattate questioni tecniche; che,
considerate le assoluzioni, passate in giudicato, intervenute per 93 capi di imputazione,
dovrebbe ritenersi che non tutte le richieste di finanziamento erano truffaldine, e che
occorreva prova certa della consapevolezza del carattere truffaldino di ciascuna delle residue
ipotesi di reato addebitate al ricorrente, asseritamente non desumibile dalla eventuale
consapevolezza della truffaldinità di richieste diverse; insufficienti sarebbero le
argomentazioni a sostegno della ritenuta attendibilità di dichiarazioni rese dai CT del p.m.,
fatte trascurando le contrarie valutazioni del CT della difesa; che, tra i reati ascritti al
ricorrente, solo quelli di cui ai capi 7, 8, 27-bis e 85-bis hanno ad oggetto fatti sui quali si è
espresso il CT del PM dr. OCCHETTI, rendendo dichiarazioni spesso contraddittorie).
Segue un ulteriore elenco di censure reato per reato:
- capo 2: proprio dalle valorizzate dichiarazioni del dichiarante FANTINO si evincerebbe
la mancata prova del concorso del BAGNASCO, limitatosi a curare aspetti tecnici del
progetto senza concorrere in alcuna attività truffaldina; inoltre, l'incertezza sul valore del
progetto sottoposto a FINPIEMONTE non consentirebbe di ritenere raggiunta la prova della
consumazione, essendosi la condotta al più arrestata allo stadio del tentativo;
- capi 5, 8, 9 (e 12, poi dichiarato prescritto): assolutamente carente si rivelerebbe la
motivazione della Corte di appello, condensata in appena nove righe di argomentazioni, sia
quanto alla responsabilità del BAGNASCO sia quanto alla qualificazione come delitto
consumato in luogo che tentato;
- capo 6: la Corte di appello sarebbe rimasta assolutamente silente sul presunto
contributo del BAGNASCO ed avrebbe errato quanto alla qualificazione come delitto
consumato in luogo che tentato;
- capo 7: la Corte di appello avrebbe valorizzato dichiarazioni del GALLO dalle quali
emergerebbe, peraltro, la mera partecipazione del BAGNASCO a riunioni aventi ad oggetto
questioni tecniche, il che costituirebbe elemento illuminante con generale riferimento
all'intera vicenda processuale quanto alla vera natura dei rapporti intercorsi tra il
BAGNASCO, il MILANESIO ed il CERUTTI;
- capo 11: come di consueto, la Corte di appello avrebbe desunto il presunto contributo
concorsuale del BAGNASCO dal fatto che egli, a livello tecnico, avesse realizzato una parte
del progetto di e-business de quo, nonostante il fatto che il dichiarante BARBIERI, "non
imputato-beneficiario", nulla avesse detto a suo carico; per altra pratica anteriore, di cui al
capo 11-bis a, sempre coinvolgente il BARBIERI, nonostante la maturata prescrizione, è
stata pronunciata l'assoluzione, a riprova della regolarità dell'operato del BAGNASCO,
chiamato a fornire un contribuito meramente tecnico;
- capo 19-bis: assolutamente carente risulterebbe la motivazione della Corte di appello,
dalla quale si evincerebbe che l'imputato avrebbe unicamente curato questioni tecniche;
- capo 27-bis: ancor più carente risulterebbe la motivazione della Corte di appello, che
avrebbe valorizzato una insignificante dichiarazione dello stesso ricorrente ed avrebbe
errato nella qualificazione del fatto accertato come delitto consumato in luogo che tentato;
- capi 70-quater e 85-bis: assolutamente carente risulterebbe la motivazione della Corte
di appello, contraddittoria quanto contraddittorie ed in parte menzognere sono le valorizzate
dichiarazioni del "non imputato" TIRANTI, dalle quali nulla emergerebbe che corrobori
l'assunto della consapevolezza del BAGNASCO quanto alla natura fraudolenta delle
operazioni alle quali l'imputato aveva prestato il proprio contributo come tecnico;
- capo 70-septies: la motivazione della Corte di appello avrebbe valorizzato una
dichiarazione dello stesso ricorrente equivocandone il contenuto;
- capo 111: in difetto di specifici elementi a carico dell'imputato, la Corte di appello
avrebbe valorizzato l'analogia della vicenda con quelle già ritenute truffaldine; in realtà
l'episodio vede una prestazione professionale dell'imputato in favore del cliente COCCO,
direttamente retribuita senza alcuna partecipazione del CERUTTI, e per nulla collegata con i
successivi artifizi e raggiri posti in essere in danno di FINPIEMONTE.
7.2.1. L'articolato motivo è in parte non consentito, in parte privo della specificità
necessaria ex art. 581, comma 1, lett. C), c.p.p.
-21-
4.
7.2.2. Il motivo non è consentito nella parte in cui deduce, agli effetti penali, vizi di
motivazione con riguardo a reati già dichiarati prescritti.
Le Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 35490 del 28 maggio 2009, Tettamanti,
Rv. 244273 s.) hanno già esaminato il problema dell'ambito del sindacato, in sede di
legittimità, sui vizi della motivazione, in presenza di cause di estinzione del reato, del quale
le stesse Sezioni Unite avevano già avuto modo di occuparsi in passato (avevano, infatti, già
affermato che, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di
legittimità i vizi di motivazione della sentenza impugnata, in quanto l'inevitabile rinvio della
causa al giudice di merito dopo la pronunzia di annullamento risulterebbe comunque
incompatibile con l'obbligo della immediata declaratoria di proscioglimento per intervenuta
estinzione del reato: Sez. un., sentenza n. 1653 del 21 ottobre 1992, dep. 1993, Marino ed
altri, Rv. 192471).
In linea con l'orientamento assolutamente prevalente nella giurisprudenza intervenuta
successivamente sulla questione (Sez. V, sentenza n. 7718 del 24 giugno 1996, Rv.
205548; Sez. II, sentenza n. 15470 del 6 marzo 2003, Rv. 224290; Sez. I, sentenza n.
4177 del 27 ottobre 2003, dep. 2004, Rv. 227098; Sez. III, sentenza n. 24327 del 4
maggio 2004, Rv. 228973; Sez. VI, sentenza n. 40570 del 29 maggio 2008, Rv. 241317;
Sez. IV, sentenza n. 14450 del 19 marzo 2009, Rv. 244001), il principio è stato ribadito
(sostanzialmente nei medesimi termini, come è confermato dalle quasi speculari massime
estratte dalle due citate decisioni delle Sezioni Unite) anche dalla sentenza Tettamanti, a
parere della quale la Corte di cassazione, ove rilevi la sussistenza di una causa di estinzione
del reato, non può rilevare eventuali vizi di legittimità della motivazione della decisione
impugnata, poiché nel corso del successivo giudizio di rinvio il giudice sarebbe comunque
obbligato a dichiarare immediatamente la sussistenza della predetta cause di estinzione del
reato.
Il principio opera anche in presenza di mere cause di nullità di ordine generale, assolute
ed insanabili, identica essendo la ratio, fondata sull'incompatibilità del rinvio per nuovo
giudizio di merito con il principio dell'immediata applicabilità della causa estintiva.
A conclusioni diverse dovrebbe giungersi nel solo caso in cui l'operatività della causa di
estinzione del reato presupponga specifici accertamenti e valutazioni riservati al giudice di
merito, nei qual caso assumerebbe rilievo pregiudiziale la nullità, in quanto funzionale alla
necessaria rinnovazione del relativo giudizio.
Il principio è stato successivamente ribadito, più o meno nei medesimi termini, tra le
altre, da Sez. VI, sentenza n. 23594 del 19 marzo 2013, Rv. 256625, secondo la quale
«Nel giudizio di cassazione, relativo a sentenza che ha dichiarato la prescrizione del reato,
non sono rilevabili né nullità di ordine generale, né vizi di motivazione della decisione
impugnata, anche se questa abbia pronunciato condanna agli effetti civili, qualora il ricorso
non contenga alcun riferimento ai capi concernenti gli interessi civili», e merita senz'altro
di essere condiviso.
Vanno, pertanto, ribaditi i seguenti principi di diritto:
«In presenza di una causa di estinzione del reato il giudice è legittimato a pronunciare
sentenza di assoluzione a norma dell'art. 129, comma 2, c.p.p. soltanto nei casi in cui le
circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte
dell'imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non
contestablle, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più
al concetto di «constatazione», ossia di percezione ictu oculi, che a quello di
«apprezzamento», e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di
approfondimento».
«Nel giudizio di cassazione, relativo a sentenza che ha dichiarato la prescrizione del
reato, non sono rilevabili né nullità di ordine generale, né vizi di motivazione della decisione
impugnata».
I principi di diritto appena enunciati comportano la non rilevabilità in questa sede, agli
effetti penali, di eventuali vizi di motivazione della decisione impugnata, evidente apparendo
che la motivazione della sentenza impugnata non risulta del tutto carente né meramente
apparente, e non essendo stata proposta dall'imputato valida e tempestiva rinunzia alla
prescrizione.
7.2.3. Nelle residue parti (ovvero nella parte in cui deduce, con riguardo
all'accertamento dei fatti verificatisi, vizi di motivazione asseritamente inerenti a reati non
dichiarati prescritti, oppure a reati già dichiarati prescritti, ma in quest'ultimo caso ai soli
effetti civili) il motivo è integralmente privo di specificità in tutte le sue articolazioni (in
quanto essenzialmente reiterativo di doglianze già esaminate e non accolte dalla Corte di
appello) e comunque del tutto assertivo: il ricorrente in concreto non si confronta
adeguatamente con la motivazione della Corte di appello (che ripropone legittimamente le
considerazioni del primo giudice, condivise perché suffragate dagli elementi acquisiti,
valorizzando a fondamento dell'affermazione di responsabilità gli elementi dettagliatamente
riepilogati a f. 97 ss. della sentenza impugnata, con i richiami ad altri passi della medesima
motivazione ivi contenuti, puntualmente esaminando e rigettando le censure difensive
riproposte in ricorso, evidenziando l'implausibilità delle proposte ricostruzioni alternative,
risultate del tutto sfornite di adeguato supporto probatorio - cfr. in particolare f. 97 ss. -),
limitandosi inammissibilmente a sollecitare una rivalutazione del materiale probatorio
acquisito e valutato conformemente dai due giudici del merito.
Questa Corte, con orientamento (Sez. IV, n. 19710 del 3.2.2009, rv. 243636) che il
collegio condivide e ribadisce, ha osservato che, in presenza di una c.d. "doppia conforme", ,
ovvero di una doppia pronuncia di eguale segno (nel caso di specie, riguardante
l'affermazione di responsabilità), il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in
sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che
l'argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come
oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado («Invero,
sebbene in tema di giudizio di Cassazione, in forza della novella dell'art. 606 c.p.p., comma
1, lett. e), introdotta dalla L. n. 46 del 2006, è ora sindacabile il vizio di travisamento della
prova, che si ha quando nella motivazione si fa uso di un'informazione rilevante che non
esiste nel processo, o quando si omette la valutazione di una prova decisiva, esso può
essere fatto valere nell'ipotesi in cui l'impugnata decisione abbia riformato quella di primo
grado, non potendo, nel caso di c. d. doppia conforme, superarsi il limite del "devolutum"
con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d'appello, per rispondere alla
critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati
dal primo giudice>>).
Nel caso di specie, al contrario, la Corte di appello ha riesaminato e valorizzato lo stesso
compendio probatorio già sottoposto al vaglio del Tribunale e, dopo avere preso atto delle
censure dell'appellante, è giunto alla medesima conclusione in termini di sussistenza della
responsabilità dell'imputato.
In concreto, il ricorrente si limita a reiterare le doglianze già incensurabilmente disattese
dalla Corte di appello e riproporre la propria diversa "lettura" delle risultanze probatorie
acquisite, fondata su mere ed indimostrate congetture, senza documentare nei modi di rito
eventuali decisivi travisamenti delle prove valorizzate.
7.2.4. Deve, in particolare, evidenziarsi che il BAGNASCO è stato ritenuto responsabile
dei reati ascrittigli a titolo di concorso ex art. 110 c.p.: il fatto - reiteratamente invocato
dalla difesa - che egli si sia interessato unicamente di aspetti tecnici inerenti alle richieste di
finanziamento de quibus, non figurando mai come diretto richiedente o beneficiario, è quindi
assolutamente privo di rilievo, avendo la Corte di appello motivatamente desunto la prova
della sua consapevole compartecipazione alle truffe, consumate o tentate, contestate, ed in
particolare della sua consapevolezza circa la «non veridicità dei dati riportati nelle
domande di finanziamento» e la «falsità di buona parte della documentazione allegata
alle stesse»:
- dalle plurime dichiarazioni testimoniali riepilogate a f. 99 ss., incensurabilmente
ritenute attendibili e concordi, in difetto di decisivi travisamenti (concretizzandosi quelli in
più punti evocati dalla difesa piuttosto in difformi valutazioni di dichiarazioni in realtà dalla
Corte d'appello non travisate);
- dalle dichiarazioni del coimputato CERUTTI (f. 101 ss.), scrupolosamente vagliate
anche nella parte in cui sembrerebbero non credibilmente voler escludere il contributo del
BAGNASCO (f. 102);
- dagli accertamenti eseguiti dai consulenti tecnici del P.M., ritualmente confluiti tra i
materiali probatori acquisiti in dibattimento;
- dalle stesse dichiarazioni rese in sede di esame dal BAGNASCO (f. 101).
7.2.5. La Corte di appello ha inoltre dettagliatamente esaminato le specifiche doglianze
difensive relative ai singoli reati (f. 103 ss.), motivatamente evidenziandone l'inaccoglibilità,
anche quanto alla qualificazione di singoli episodi come consumati in luogo che tentati,
sempre incensurabilmente ritenuta.
7.3. Con il terzo motivo, il BAGNASCO deduce carenza e contraddittorietà della
motivazione quanto al trattamento sanzionatorio con violazione dell'art. 133 c.p.
(lamentando che nulla legittimerebbe la determinazione della pena-base con riferimento ai
massimi edittali; che il proprio ruolo sarebbe meno rilevante di quello del CERUTTI, al quale
è stata peraltro applicata la medesima pena-base; che egli ha commesso meno truffe di
CERUTTI; che gli operati aumenti di pena per la continuazione si pongono in contrasto con
la sentenza del Tribunale passata in giudicato nei confronti del CERUTTI, con l'effetto di
portare ad un trattamento sanzionatorio peggiore per il BAGNASCO, soggetto il quale ha
ricoperto un ruolo decisamente più modesto del CERUTTI).
7.3.1. Anche questo motivo è privo della specificità necessaria ex art. 581, comma 1,
lett. C), c.p.p., perché meramente reiterativo di doglianze già disattese dalla Corte
d'appello.
A fondamento delle statuizioni contestate, riguardanti la complessiva determinazione del
trattamento sanzionatorio, oltre che del diniego delle circostanze attenuanti generiche, la
Corte di appello ha incensurabilmente valorizzato le gravi modalità dei plurimi reati
accertati, che denotano spiccata capacità criminale, ed i consistenti danni arrecati alla PA (f.
121).
E', infatti, da ritenere adempiuto l'obbligo della motivazione in ordine alla misura della
pena allorché sia indicato l'elemento, tra quelli di cui all'art. 133 c.p., ritenuto prevalente e
di dominante rilievo (Sez. un., n. 5519 del 21/4/1979, rv. 142252): invero, una specifica e
dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata, in tutte le sue componenti,
appare necessaria soltanto nel caso in cui la pena sia di gran lunga superiore alla misura
media di quella edittale, potendo altrimenti risultare sufficienti a dare conto del corretto
impiego dei criteri di cui all'art. 133 cod. pen. espressioni del tipo «pena congrua,
«pena equa» o «congruo aumento», come pure il richiamo alla gravità del reato
oppure alla capacità a delinquere (Sez. II, n. 36245 del 26/6/2009, rv. 245596; Sez. IV, n.
46412 del 5/11/2015, rv. 265283).
Né può assumere contrario rilievo il riferimento alla posizione di un coimputato, in
relazione al quale la valutazione degli indici di cui all'art. 133 c.p. comporta la valorizzazione
di elementi soggettivamente rilevanti, e quindi di necessità disomogenei; al riguardo questa
Corte (Sez. 3, n. 27115 del 19/02/2015, Rv. 264020) è, infatti, ferma nel ritenere che non
può essere considerato come indice del vizio di motivazione il diverso trattamento
sanzionatorio riservato nel medesimo procedimento ai coimputati, anche se correi, salvo che
il giudizio di merito sul diverso trattamento del caso, che si prospetta come identico, sia
sostenuto da asserzioni irragionevoli o paradossali, nel caso in esame insussistenti.
8. Ricorso avv. Giampaolo MUSSANO per CERUTTI.
8.1. Nell'interesse di CERUTTI SERGIO GIOVANNI, conclusivamente dichiarato colpevole
[con BAGNASCO e MILANESIO] dei reati di cui ai capi di imputazione n. 2, 5, 6, 7, 8, 9, 11,
19-bis, 27-bis, 70-septies (riqualificato ai sensi degli artt. 56/640-bis c.p.), 85-bis, 111,
nonché [da solo] di cui ai capi 11-bis a (riqualificato ai sensi degli artt. 56/640-bis c.a.), 15-
bis (riqualificato ai sensi degli artt. 56/640-bis c.p.), 58, 59 (riqualificato ai sensi degli artt.
56/640-bis c.a.), 77, 133, è stato dedotto un motivo ulteriore.
8.2. Con il secondo motivo il CERUTTI deduce inosservanza ed erronea applicazione
dell'art. 533 c.p.p. con carenza e/o manifesta illogicità della sentenza sullo specifico punto di
gravame (lamenta il mancato accoglimento di una richiesta di rinnovazione dibattimentale
per assumere una perizia tecnica su tutti i documenti acquisiti, poiché in difetto non
potrebbe ritenersi accertata la responsabilità dell'imputato oltre ogni ragionevole dubbio
unicamente valorizzando relazione di consulenti tecnici della Procura e dichiarazioni dei
titolari delle pratiche relative ai finanziamenti per i siti internet ed alle manifestazioni
fieristiche, la cui attendibilità non è stata ben valutata; i predetti soggetti erano al momento
dei fatti indagati per reati connessi e mai rinviati a giudizio; a f. 9 s. vi è poi un prolungato
riferimento alle condizioni in presenza delle quali ex artt. 273 c.p.p. tali dichiarazioni
possono essere valorizzate come gravi indizi di colpevolezza, che sembrerebbe riguardare in
diritto il subprocedimento cautelare, mentre la sentenza impugnata è stata emessa all'esito
del giudizio di cognizione; segue un riferimento all'annessa, congrua valutazione di
attendibilità intrinseca ed estrinseca ex art. 192, comma 3, c.p.p. delle predette
dichiarazioni.
8.2.1. Il motivo è, all'evidenza, assolutamente privo di specificità in tutte le sue
articolazioni (in quanto essenzialmente reiterativo di doglianze già esaminate e non accolte
dalla Corte di appello) e comunque del tutto assertivo: il ricorrente in concreto non si
confronta adeguatamente con la motivazione della Corte di appello (che ripropone
legittimamente le considerazioni del primo giudice, condivise perché suffragate dagli
elementi acquisiti, valorizzando a fondamento dell'affermazione di responsabilità gli
elementi dettagliatamente riepilogati a f. 81 ss. della sentenza impugnata, puntualmente
esaminando e rigettando le censure difensive), limitandosi inammissibilmente a sollecitare
una rivalutazione del materiale probatorio acquisito e valutato conformemente dai due
giudici del merito.
Vale anche in questo caso quanto già osservato sui limiti del sindacato di legittimità in
presenza di una doppia conforme affermazione di responsabilità (§ 7.2.3. di queste
Considerazioni in diritto); ed anche con riguardo al CERUTTI la Corte di appello ha
riesaminato e valorizzato lo stesso compendio probatorio già sottoposto al vaglio del
Tribunale e, dopo avere preso atto delle censure dell'appellante, è giunto alla medesima
conclusione in termini di sussistenza della responsabilità dell'imputato.
In concreto, il ricorrente (che ha anche reso dichiarazioni in parte confessorie) si limita a
reiterare le doglianze già incensurabilmente disattese dalla Corte di appello e riproporre la
propria diversa "lettura" delle risultanze probatorie acquisite, fondata su mere ed
indimostrate congetture, senza documentare nei modi di rito eventuali decisivi travisamenti
delle prove valorizzate, senza spiegare in maniera congrua la ragione per la quale non
potrebbe ritenersi accertata la responsabilità dell'imputato oltre ogni ragionevole dubbio
unicamente valorizzando relazione di consulenti tecnici della Procura e le dichiarazioni dei
titolari delle pratiche relative ai finanziamenti per i siti internet ed alle manifestazioni
fieristiche, la cui attendibilità è stata scrupolosamente valutata dalla Corte di appello.
Assolutamente generica è, infine, la doglianza riguardante il mancato espletamento di
una perizia, della quale non è neanche congruamente indicato l'oggetto, e che sembra
inammissibilmente evocata con finalità meramente esplorative.
D'altro canto, questa Corte (Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Rv. 266820)
ha già chiarito che la rinnovazione dell'istruttoria nel giudizio di appello, attesa la
presunzione di completezza dell'istruttoria espletata in primo grado, è un istituto di
carattere eccezionale al quale può farsi ricorso esclusivamente allorché il giudice ritenga,
nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti.
-27 ---
9. Ricorso avv. Andrea ALIPRANDI ed avv. Franco COPPI per MILANESIO
9.1. Nell'interesse di MILANESIO FABRIZIO, conclusivamente dichiarato colpevole [con
BAGNASCO e CERUTTI] dei reati di cui ai capi di imputazione n. 2, 5, 6, 7, 8, 9, 11, 19-bis,
27-bis, 70-septies (riqualificato ai sensi degli artt. 56/640-bis c.p.), 85-bis, 111, nonché [da
solo] di cui ai capi 10-bis, 11-bis d, 34, 61-bis, 61-ter, 75-bis, 75-ter, 80, 81, 82-bis, 82-ter
1, 82-quinquies 2, 82-sexies, 84, 85, 91, 97, 133, sono stati dedotti ulteriori 19 motivi di
ricorso.
Il ricorso, redatto con tecnica inconsueta, e non auspicabile, non reca numerazione
progressiva né dei motivi né delle pagine; le numerazioni cui si farà riferimento sono
ricavate dal collegio.
9.2. Con il secondo motivo, il MILANESIO deduce violazione dell'art. 192, comma 3,
c.p.p., con carenza e contraddittorietà della motivazione desumibile dal testo della
sentenza, in ordine all'affermazione di responsabilità del MILANESIO a titolo di concorso nel
reato di truffa (lamentando che difetterebbe la prova certa della non genuinità della fatture
prodotte al fine di ottenere i finanziamenti de quibus, desunta nel processo unicamente da
dichiarazioni di coimputati o imputati in procedimento connesso; censura in particolare la
valutazione delle dichiarazioni di MACARI, MONTRUCCHIO, GALLO, MORONE, PINTORE,
TIRANTI, BARBIERI, CERUTTI, lamentandone imprecisione, non decisività, genericità,
inattendibilità, personale interesse; il CERUTTI, caposaldo dell'impianto accusatorio, nulla
avrebbe detto di concreto a carico del MILANESIO, in realtà asseritamente inconsapevole del
carattere fraudolento delle operazioni de quibus, e che non avrebbe tratto alcun personale
vantaggio dalle condotte fraudolente de quibus).
9.3. Con il terzo motivo, il MILANESIO deduce violazione dell'art. 192, comma 3, c.p.p.,
con carenza della motivazione in ordine alla condanna del ricorrente per il reato di cui al
capo 2 (lamentando erronea valutazione della deposizione del teste FANTINO).
9.4. Con il quarto motivo, il MILANESIO deduce violazione dell'art. 192, comma 3,
c.p.p., con carenza o contraddittorietà della motivazione in ordine alla condanna del
ricorrente per i reati di cui ai capi 5, 8, 9 (lamentando l'assenza di prova ed in particolare la
genericità delle dichiarazioni del coimputato CERUTTI).
9.5. Con il quinto motivo, il MILANESIO deduce violazione dell'art. 192, comma 3,
c.p.p., con carenza o contraddittorietà della motivazione in ordine alla condanna del
ricorrente per il reato di cui al capo 6 (lamentando l'assoluta genericità della motivazione,
che disattende le dichiarazioni del FERA richiamando accertamenti bancari dei quali non vi
sarebbe traccia in atti).
9.6. Con il sesto motivo, il MILANESIO deduce violazione dell'art. 192, comma 3, c.p.p.,
con carenza o contraddittorietà della motivazione in ordine alla condanna del ricorrente per
il reato di cui al capo 7 (lamentando l'assoluta genericità delle dichiarazioni del GALLO e del
CERUTTI).
9.7. Con il settimo motivo, il MILANESIO deduce violazione di legge (che non indica),
con carenza o contraddittorietà della motivazione in ordine alla condanna del ricorrente per
il reato di cui al capo 10-bis (lamentando l'assenza di riscontri alle dichiarazioni del
TIRANTI).
9.8. Con l'ottavo motivo, il MILANESIO deduce violazione dell'art. 192, comma 3, c.p.p.,
con carenza o contraddittorietà della motivazione in ordine alla condanna del ricorrente per
il reato di cui al capo 11 (lamentando l'assoluta genericità delle dichiarazioni del BARBIERI,
che la Corte di appello interpretrebbe in modo assolutamente opinabile).
9.9. Con il nono motivo, il MILANESIO deduce violazione dell'art. 192, comma 3, c.p.p.,
con carenza o contraddittorietà della motivazione in ordine alla condanna del ricorrente per
il reato di cui al capo 11-bis d (lamentando che le dichiarazioni di TIRANTI, MORONE e
BARBIERI non si riscontrano reciprocamente).
9.10. Con il decimo motivo, il MILANESIO deduce violazione dell'art. 192, comma 3,
c.p.p., con carenza o contraddittorietà della motivazione in ordine alla condanna del
ricorrente per i reati di cui ai capi 19-bis e 27-bis (lamentando l'assenza di riferimenti ad un
eventuale ruolo del MILANESIO, che nessuno dei dichiaranti protagonisti della vicenda
menziona).
9.11. Con l'undicesimo motivo, il MILANESIO deduce violazione dell'art. 192, comma 3,
c.p.p., con carenza o contraddittorietà della motivazione in ordine alla condanna del
ricorrente per il reato di cui al capo 34 (lamentando l'intrinseca inattendibilità delle
dichiarazioni del TIRANTI).
9.12. Con il dodicesimo motivo, il MILANESIO deduce violazione dell'art. 192, comma 3,
c.p.p., con carenza o contraddittorietà della motivazione in ordine alla condanna del
ricorrente per i reati di cui ai capi 61-bis, 61-ter e 97 (lamentando che le dichiarazioni del
dichiarante SAVIO non riscontrino quelle di MORONE e TIRANTI).
9.13. Con il tredicesimo motivo, il MILANESIO deduce violazione dell'art. 56, comma 3,
c.p., con carenza o contraddittorietà della motivazione in ordine alla condanna del ricorrente
-29--
per il reato di cui al capo 70-septies (lamentando l'estraneità del MILANESIO, e comunque
l'intervenuta desistenza).
9.14. Con il quattordicesimo motivo, il MILANESIO deduce violazione dell'art. 192,
comma 3, c.p.p., con carenza o contraddittorietà della motivazione in ordine alla condanna
del ricorrente per i reati di cui ai capi 75-bis, 75-ter, 80, 81, 82-bis, 83-ter 1 [ma è 82-ter
1], 82-quater [dichiarato estinto per prescrizione in appello], 82-quinquies 2, 84
(lamentando l'inattendibilità delle dichiarazioni del TIRANTI e l'asseritannente errata
valutazione del corrispondente motivo di appello, inesattamente definito "scarno" dalla
Corte di appello).
9.15. Con il quindicesimo motivo, il MILANESIO deduce violazione dell'art. 192, comma
3, c.p.p., con carenza o contraddittorietà della motivazione in ordine alla condanna del
ricorrente per i reati di cui ai capi 85 e 91 (lamentando mancanza di riscontro
individualizzante alle dichiarazioni del TIRANTI, non avendo il dichiarante GAMBARANA fatto
menzione del MILANESIO).
9.16. Con il sedicesimo motivo, il MILANESIO deduce violazione dell'art. 192, comma 3,
c.p.p., con carenza o contraddittorietà della motivazione in ordine alla condanna del
ricorrente per il reato di cui al capo 85-bis (lamentando inattendibilità delle dichiarazioni del
TIRANTI, peraltro non riscontrate, ed errata valutazione del corrispondente motivo di
appello, inesattamente definito "non specifico" dalla Corte di appello).
9.17. Con il diciassettesimo motivo, il MILANESIO deduce violazione dell'art. 192,
comma 3, c.p.p., con carenza o contraddittorietà della motivazione in ordine alla condanna
del ricorrente per il reato di cui al capo 90-bis (lamentando inesatta valutazione delle
dichiarazioni di GAMBARANA e BAGNASCO).
9.18. Con il diciottesimo motivo, il MILANESIO deduce violazione dell'art. 192, comma
3, c.p.p., con carenza o contraddittorietà della motivazione in ordine alla condanna del
ricorrente per i reati di cui ai capi 111 e 112 (lamentando l'addebitabilità della condotta
contestata al solo COCCO, e la propria estraneità ai fatti).
9.19. Con il diciannovesimo motivo, il MILANESIO deduce violazione dell'art. 192,
comma 3, c.p.p., con carenza o contraddittorietà della motivazione in ordine alla condanna
del ricorrente per il reato di cui al capo 133 (lamentando che il PANZICA, le cui dichiarazioni
sono state decisivamente valorizzate ai fini della decisione, non avrebbe fatto alcun cenno al
MILANESIO).
9.20. Con il ventesimo motivo, il MILANESIO deduce violazione dell'art. 62-bis c.p., con
carenza o contraddittorietà della motivazione in ordine al diniego delle attenuanti generiche
(lamentando che l'incensuratezza non è del tutto irrilevante, ma può essere valutata
unitamente ad altri elementi; che le proteste di innocenza non connotano negativamente il
comportamento processuale, al contrario senz'altro asseritamente positivo, dell'imputato,
che ha accettato di rendere l'esame ed ha in più occasioni reso spontanee dichiarazioni).
9.21. Tutti i motivi predetti, riguardanti le affermazioni di responsabilità, sono in parte
non consentiti, in parte privi della specificità necessaria ex art. 581, comma 1, lett. C),
c.p.p.
9.21.1. I motivi sono non consentiti:
- nella parte in cui pongono per la prima volta in sede di legittimità questioni non
dedotte nell'atto di appello (motivo XIII: cfr. atto di appello f. 19 s., limitatamente
all'asseritannente intervenuta desistenza, peraltro comunque non configurabile, come
incensurabilmente chiarito dalla Corte d'appello a f. 73 della sentenza impugnata, perché la
rinunzia del CERIUTTI al finanziamento in oggetto era intervenuta successivamente rispetto
alla sua mancata erogazione per rilevato difetto dei presupposti);
- nella parte in cui deducono, agli effetti penali, vizi con riguardo a reati già dichiarati
prescritti (motivo XIV, in riferimento al reato di cui al capo 82-quater: cfr. § 7.2.2. di queste
Considerazioni in diritto).
9.21.2. I motivi residui, nelle parti in cui deducono, con riguardo all'accertamento dei
fatti verificatisi, violazioni di legge o vizi di motivazione asseritamente inerenti a reati non
dichiarati prescritti, oppure a reati già dichiarati prescritti, ma in quest'ultimo caso ai soli
effetti civili, sono ancora una volta, integralmente privi di specificità in tutte le loro
articolazioni (in quanto essenzialmente reiterativi di doglianze già esaminate e non accolte
dalla Corte di appello) e comunque del tutto assertivi: il ricorrente in concreto non si
confronta adeguatamente con la motivazione della Corte di appello (che ripropone
legittimamente le considerazioni del primo giudice, condivise perché suffragate dagli
elementi acquisiti, valorizzando a fondamento dell'affermazione di responsabilità gli
elementi dettagliatamente riepilogati a f. 60 ss. della sentenza impugnata e richiami ad altri
passi della medesima motivazione ivi contenuti, puntualmente esaminando e rigettando le
censure difensive riproposte in ricorso, evidenziando l'implausibilità delle proposte
ricostruzioni alternative, risultate del tutto indimostrate), limitandosi inammissibilmente a
sollecitare una rivalutazione del materiale probatorio acquisito e valutato conformemente
dai due giudici del merito.
-31-
Vale ancora una volta quanto già osservato sui limiti del sindacato di legittimità in
presenza di una doppia conforme affermazione di responsabilità (§ 7.2.3. di queste
Considerazioni in diritto).
Nel caso di specie, al contrario, la Corte di appello ha riesaminato e valorizzato lo stesso
compendio probatorio già sottoposto al vaglio del Tribunale e, dopo avere preso atto delle
censure dell'appellante, è giunto alla medesima conclusione in termini di sussistenza della
responsabilità dell'imputato.
In concreto, il ricorrente si limita a reiterare le doglianze già incensurabilmente disattese
dalla Corte di appello e riproporre la propria diversa "lettura" delle risultanze probatorie
acquisite, fondata su mere ed indimostrate congetture, senza documentare nei modi di rito
eventuali decisivi travisamenti delle prove valorizzate.
9.21.3. Deve ribadirsi che la documentazione acquisita e le dichiarazioni rese dallo
stesso imputato hanno dimostrato compiutamente che il MILANESIO ha curato le pratiche
oggetto di imputazione in prima persona.
La non veridicità dei dati riportati nelle domande di finanziamento, la falsità di buona
parte della documentazione allegata alle stesse e la consapevolezza che di ciò il MILANESIO
aveva, oltre alla volontà del predetto di contribuire ad indurre in errore i funzionari di
FINPIEMONTE incaricati di autorizzare le erogazioni richieste, per procurare ai suoi clienti
profitti ingiusti è stata incensurabilmente desunta:
- da una pluralità di soggetti coinvolti nelle vicende oggetto del presente procedimento,
chiari nel delineare il ruolo del MILANESIO di ideatore promotore ed organizzatore delle
truffe de quibus, le cui concordi dichiarazioni, anche confessorie, riepilogate a f. 61 ss. (tra
le quali spiccano quelle del MONTRUCCHIO e del TIRANTI), sono state incensurabilmente
ritenute attendibili e concordi, in difetto di decisivi travisamenti (concretizzandosi quelli in
più punti evocati dalla difesa piuttosto in difformi valutazioni di dichiarazioni non travisate);
- dalle dichiarazioni del coimputato CERUTTI (f. 66 ss.), scrupolosamente vagliate anche
nella parte in cui sembrerebbero non credibilmente voler escludere il contributo del
MILANESIO;
- dalle dichiarazioni del coimputato BAGNASCO e dello stesso MILANESIO (f. 68 s.);
- dagli accertamenti eseguiti dai consulenti tecnici del P.M., ritualmente confluiti tra i J\
materiali probatori acquisiti in dibattimento;
9.21.4. La Corte di appello ha, inoltre, dettagliatamente esaminato le specifiche
doglianze difensive relative ai singoli reati (f. 67 ss.), incensurabilmente evidenziandone
l'inaccoglibilità, sia quanto agli elementi costitutivi dei singoli reati, sia quanto alla prova
desunta da dichiarazioni incensurabilmente valutate attendibili e, dove processualmente
necessario, assistite dai necessari riscontri individualizzanti, punto per punto enucleati, con
riferimenti specifici o comunque desumibili dalla premessa esposizione del contesto generale
nel quale le singole vicende andavano collocate, anche in riferimento alla documentazione
acquisita (il riferimento, dove si parla di documentazione bancaria non rinvenibile in atti,
evoca all'evidenza le fatture e gli altri documenti acquisiti e valutati in atti) ed alle
dichiarazioni (sovente auto- ed etero-accusatorie) rese dai coimputati nel presente ed in
diverso procedimento.
9.21.5. D'altro canto, il MILANESIO è stato ritenuto responsabile dei reati ascrittigli a
titolo di concorso ex art. 110 c.p.: il fatto - reiteratamente invocato dalla difesa - che egli
non abbia tratto un personale profitto dalle operazioni fraudolente accertate sarebbe,
quindi, in ipotesi assolutamente privo di rilievo, e, peraltro, non corrisponde al vero, avendo
l'imputato pur sempre incamerato compensi che gli venivano pacificamente riconosciuti
proprio in relazione alle consulenze fornite, finalizzate a procurare ai clienti l'ausilio tecnico
necessario al fine di ottenere le erogazioni non dovute in contestazione.
9.22. Anche il ventesimo motivo è privo della specificità necessaria ex art. 581, comma
1, lett. C), c.p.p., perché meramente reiterativo di doglianze già incensurabilmente
disattese dalla Corte d'appello (in accoglimento del ricorso del PG).
La Corte di appello ha, da un lato, evidenziato che, per espressa previsione di legge,
l'incensuratezza non può di per sé legittimare il riconoscimento del chiesto beneficio,
dall'altro che l'evocato comportamento processuale appare privo di significativa
nneritevolezza, avendo l'imputato reso dichiarazioni mosse da un pur legittimo intento
difensivo, ma non confessorie, e "non ha fornito un reale contributo all'accertamento dei
fatti, fornendo una ricostruzione degli stessi in palese contrasto con le molteplici prove di
responsabilità acquisite a suo carico" (f. 119).
Ha, inoltre, altrettanto incensurabilmente valorizzato le gravi modalità dei plurimi reati
accertati, insistentemente reiterati, ed il ruolo "principale" assunto, che denotano spiccata
professionalità e capacità criminale, oltre ai consistenti danni arrecati alla PA (f. 119),
correttamente conformandosi al consolidato orientamento di questa Corte, per la quale, al
fine di ritenere od escludere la configurabilità di circostanze attenuanti generiche, il giudice
può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall'art. 133 c.p., quello che
ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio: anche un
solo elemento attinente alla personalità del colpevole od all'entità del reato ed alle modalità
di esecuzione di esso può, pertanto, risultare all'uopo sufficiente (così, da ultimo, Sez. II,
sentenza n. 3609 del 18 gennaio - 10 febbraio 2011, CED Cass. n. 249163).
10. Ricorso avv. Pierfranco BERTOLINO per MONTRUCCHIO
MONTRUCCHIO FABIO è stato conclusivamente dichiarato colpevole [da solo] del reato
di cui al capo 68-bis.
10.1. Con il primo motivo, il MONTRUCCHIO deduce inosservanza ed erronea
applicazione degli artt. 157, 159 e 161 c.p. (lamentando l'omessa declaratoria di estinzione
per prescrizione del residuo reato erroneamente condizionata dall'aver ritenuto comunicabile
al ricorrente una sospensione dovuta ad impedimento di altro coimputato, senza la quale il
reato sarebbe prescritto prima della sentenza di appello).
10.1.1. Il motivo è manifestamente infondato.
Questa Corte (Sez. 5, n. 12453 del 23/02/2005, Rv. 231694) ha già chiarito che "Il
rinvio del dibattimento disposto per impedimento dell'imputato o del difensore e su loro
richiesta non necessita di un formale provvedimento di sospensione della prescrizione: la
sospensione del corso della prescrizione è normativamente ancorata all'ipotesi di
sospensione del procedimento penale, equiparabile, a tal fine, al rinvio, con la conseguenza
che essa è produttiva di effetti per tutti coloro che hanno commesso il reato, ex art. 161,
comma primo, cod. pen., e quando si procede congiuntamente per reati connessi, per tutti
gli imputati, ex art. 161, comma secondo, cod. pen., non necessita di un formale
provvedimento di sospensione e comprende tutto il periodo durante il quale il dibattimento è
rinviato per impedimento o su richiesta dell'imputato o del difensore".
Il principio è stato successivamente ribadito da Sez. 4, n. 40309 del 04/10/2007, Rv.
237783, per la quale "La sospensione del corso della prescrizione è normativamente
ancorata all'ipotesi di sospensione del procedimento penale ed è produttiva di effetti per
tutti coloro che hanno commesso il reato, ex art. 161, comma primo, cod. pen., e quando si
procede congiuntamente per reati connessi, per tutti gli imputati, ex art. 161, comma
secondo, cod. pen.. Ne consegue che il rinvio del dibattimento disposto per impedimento
dell'imputato o del difensore e su loro richiesta non necessita di un formale provvedimento
di sospensione della prescrizione", e va ulteriormente ribadito.
10.1.2. E' opportuno precisare, in riferimento ai possibili effetti della valutazione (§ 6.6.
di queste Considerazioni in diritto), che il motivo è manifestamente, e non meramente,
infondato, perché ripropone una questione già costantemente decisa dal Supremo collegio in
senso opposto a quello sostenuto dal ricorrente, con orientamento che non viene
-34-..-
considerato, e senza addurre motivi nuovi o diversi per sostenere l'opposta tesi (cfr. §
6.6.8. di queste Considerazioni in diritto).
10.2. Con il secondo motivo, il MONTRUCCHIO deduce motivazione carente quanto alla
mancata assoluzione, in riferimento al primo motivo d'appello.
10.2.1. Il motivo è, in tutta evidenza, assolutamente privo di specificità in tutte le sue
articolazioni (in quanto essenzialmente reiterativo di doglianze già esaminate e non accolte
dalla Corte di appello) e comunque del tutto assertivo: il ricorrente in concreto non si
confronta adeguatamente con la motivazione della Corte di appello (che ripropone
legittimamente le considerazioni del primo giudice, condivise perché suffragate dagli
elementi acquisiti, valorizzando a fondamento dell'affermazione di responsabilità gli
elementi dettagliatamente riepilogati a f. 114 ss. della sentenza impugnata, puntualmente
esaminando e rigettando le censure difensive), limitandosi inammissibilmente a sollecitare
una rivalutazione del materiale probatorio acquisito e valutato conformemente dai due
giudici del merito.
Vale ancora una volta quanto già osservato sui limiti del sindacato di legittimità in
presenza di una doppia conforme affermazione di responsabilità (§ 7.2.3. di queste
Considerazioni in diritto); ed anche con riguardo al MONTRUCCHIO la Corte di appello ha
riesaminato e valorizzato lo stesso compendio probatorio già sottoposto al vaglio del
Tribunale e, dopo avere preso atto delle censure dell'appellante, è giunto alla medesima
conclusione in termini di sussistenza della responsabilità dell'imputato.
In concreto, il ricorrente (il quale ha anche reso dichiarazioni confessorie, che in ricorso
sembrerebbe dimenticare) si limita a reiterare le doglianze già incensurabilmente disattese
dalla Corte di appello e riproporre la propria diversa "lettura" delle risultanze probatorie
acquisite, fondata su mere ed indimostrate congetture, senza documentare nei modi di rito
eventuali decisivi travisamenti delle prove valorizzate.
11. Non può porsi in questa sede la questione della declaratoria della prescrizione
eventualmente maturata dopo la sentenza d'appello, in considerazione della totale
inammissibilità di tutti i ricorsi (cfr., quanto ai motivi dichiarati manifestamente infondati, §§
6.6. ss. di queste Considerazioni in diritto).
11.1. L'inammissibilità in toto del ricorso preclude anche, in ipotesi, la possibilità di
rilevare d'ufficio la prescrizione di reati eventualmente maturata prima della sentenza di
appello, non rilevata in quella sede e neanche dedotta - in quanto tale - nei motivi di ricorso
(Sezioni Unite, sentenza n. 12602 del 25 marzo 2016).
DEPOSITATO IN CANCELIJERIA SECONDA SEZIONE PENALE
IL — 6 GIU, 2011 cme
Glau
12. La declaratoria d'inammissibilità totale dei ricorsi comporta, ai sensi dell'art. 616
c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonché - apparendo
evidente dal contenuto dei motivi che essi hanno proposto i ricorsi determinando le cause di
inammissibilità per colpa (Corte cost., sentenza 13 giugno 2000, n. 186) e tenuto conto
dell'entità delle rispettive colpe - della somma di Euro millecinquecento ciascuno in favore
della Cassa delle Ammende a titolo di sanzione pecuniaria.
P.Q.M.
dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese
processuali e della somma di euro millecinquecento ciascuno a favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, udienza pubblica 13 gennaio 2017
Il C nsigliere estensore
Ser
Il Presidente
Matilde Cammino
tAiL(Q--
06141-19 REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
Composta da
Domenico Carcano
Maurizio Fumo
Antonella P. Mazzei
Carlo Zaza
Giorgio Fidelbo
Salvatore Dovere
Sergio Beltrani
Gaetano De Amicis
Alessandro M. Andronio
- Presidente -
- Relatore -
Sent. n. sez. 27
CC - 25/10/2018
R.G.N. 56049/2017
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da
Milanesi Luciano, nato ad Annicco (CR) il 27/07/1951
avverso l'ordinanza della Corte di appello di Torino del 07/09/2017.
Visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal componente Sergio Beltrani;
lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
generale Perla Lori, che ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile il
ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Luciano Milanesi, con istanza depositata in data 25 luglio 2017, ha chiesto
la revisione della sentenza n. 589 del 19/02/2016 della Corte di appello di
Genova (confermata dalla Quarta Sezione di questa Corte con sentenza n. 41964
del 18/01/2017), che aveva dichiarato estinto per prescrizione il reato di lesioni
colpose ascrittogli, confermando le statuizioni civili disposte in primo grado, onde
ottenere «il proscioglimento nel merito».
1.1. A sostegno dell'istanza, premessa l'esistenza di un contrasto di
giurisprudenza in ordine all'ammissibilità dell'istanza di revisione avente ad
oggetto una sentenza meramente dichiarativa dell'estinzione del reato, con
conferma della condanna alle statuizioni civili pronunciata in primo grado, ed
argomentata la fondatezza del più recente orientamento, che ne sostiene
l'ammissibilità, il Milanesi ha indicato, come prove sopravvenute, e quindi
"nuove", dichiarazioni che gli sarebbero state rese, «solo a seguito della
conclusione della vicenda giudiziaria ordinaria, allorché [...] si è dovuto
confrontare con i familiari per affrontare le conseguenza civilistiche della
condanna al risarcimento dei danni», dalla moglie Giuseppina D'Amato e dal
figlio Luca Mlanesi, i quali avevano asseritamente «conoscenza diretta della
situazione e soprattutto erano in grado di confermare, per avere assistito ai
colloqui telefonici anche in tal senso, che il direttore dei lavori, nonché
responsabile della sicurezza del cantiere, Rivaroli aveva avuto contezza sin da
subito della ripresa dei lavori nel cantiere, che il medesimo sapeva inoltre [...]
che la botola non era stata messa in sicurezza».
1.2. Il Milanesi, pur avendo espressamente chiesto alla Corte d'appello la
revoca delle sole statuizioni penali, non anche di quelle civili, ha evocato, nel
corpo dell'istanza i pregiudizi asseritamente ricevuti dalla condanna alle
statuizioni civili, che costituisce effetto diretto ed immediato della declaratoria di
estinzione per prescrizione del reato.
2. La Corte d'appello, con l'ordinanza indicata in epigrafe, ritenuta
implicitamente l'ammissibilità in rito dell'istanza di revisione, l'ha dichiarata
inammissibile nel merito.
3. Contro questo provvedimento, il Milanesi ha proposto ricorso per
cassazione per i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per
la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.:
- violazione dell'art. 630, comma 1, lett. c), cod. proc. pen.: ad avviso del
ricorrente, in accordo con l'orientamento giurisprudenziale asseritamente ormai
2
pacifico, "prova nuova", rilevante ai fini della revisione, non sarebbe solo quella
«sopravvenuta o scoperta solo successivamente al passaggio in giudicato della
sentenza», ma anche quella «che, pur esistendo al tempo del giudizio, non
sarebbe stata portata alla cognizione del giudicante anche a prescindere
dall'inerzia della parte»;
- violazione dell'art. 634 cod. proc. pen.: sarebbe indebita la valutazione
operata in riferimento all'irrilevanza degli elementi invocati dall'instante,
dovendo al contrario la Corte d'appello limitarsi, secondo il ricorrente, a valutare
- e nel caso di specie riconoscere - unicamente l'astratta ammissibilità della
chiesta revisione, salvo il successivo esito in concreto del giudizio di merito.
4. Il ricorso è stato assegnato alla Quarta Sezione penale che ne ha disposto
la rimessione alle Sezioni Unite ai sensi dell'art. 618, comma 1, cod. proc. pen.,
rilevando l'esistenza di un contrasto interpretativo in ordine all'ammissibilità
dell'istanza di revisione proposta dall'imputato nei cui confronti sia stata
pronunciata sentenza di non doversi procedere perché il reato è estinto per
prescrizione, con conferma della condanna al risarcimento dei danni in favore
della parte civile.
5. Con decreto del 6 luglio 2018, il Presidente Aggiunto, preso atto
dell'esistenza e della rilevanza ai fini della decisione del contrasto
giurisprudenziale ravvisato dall'ordinanza di rimessione, ha assegnato il ricorso
alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione, con le forme previste dall'art. 611
cod. proc. pen., l'odierna udienza camerale.
6. Con requisitoria scritta pervenuta in data 5 ottobre 2018, il Sostituto
Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte ha concluso
chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso.
Ha, in particolare, osservato che le "nuove prove" invocate dal Milanesi
sarebbero palesemente inidonee ad inficiare l'accertamento dei fatti posti alla
base della sentenza di condanna, e che la relativa valutazione della Corte di
appello si sottrae a censure in sede di legittimità perché fondata su motivazione
adeguata e immune da vizi logici.
Con specifico riferimento alla questione controversa, ha evidenziato la
pregnanza argomentativa dell'orientamento che ritiene l'inammissibilità della
revisione in difetto di una sentenza di condanna pronunciata agli effetti penali,
sottolineando che le Sezioni Unite, con la sentenza Marani, hanno già ammesso
che l'imputato prosciolto per prescrizione possa presentare ricorso straordinario
ex art. 625-bis cod. proc. pen. per far valere errori materiali inerenti alla
3
condanna alle statuizioni civili disposte in sede penale, in considerazione del fatto
che, ove l'azione di risarcimento danni fosse stata proposta in sede civile, in
presenza di analoghi errori sarebbe stata ammessa la revocazione della sentenza
civile, ed auspicando conclusivamente «un'apertura interpretativa che tenga
conto del peculiare contenuto - di affermazione della responsabilità - della
sentenza emessa ai sensi dell'art. 578 cod. proc. pen.».
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione di diritto in ordine alla quale il ricorso è stato rimesso alle
Sezioni Unite è la seguente:
"Se sia ammissibile la revisione della sentenza dichiarativa dell'estinzione
del reato per prescrizione che, decidendo anche sull'impugnazione ai soli effetti
delle disposizioni e dei capi concernenti gli interessi civili, condanni l'imputato al
risarcimento dei danni in favore della parte civile".
1.1. Il problema si pone sia agli effetti penali, in riferimento alla finalità di
ottenere il proscioglimento nel merito, con formula più favorevole, ai sensi
dell'art. 129, comma 2, cod. proc. pen., sia agli effetti civili, in riferimento alla
finalità di vedere caducate la statuizioni civili contestualmente confermate (od
anche disposte ex novo) dalla sentenza di appello che abbia dichiarato
l'estinzione del reato (nel caso in esame, per prescrizione).
2. In ordine alla questione controversa la giurisprudenza di questa Corte è
divisa.
2.1. L'orientamento tradizionale, senz'altro dominante, ammette la revisione
soltanto nei confronti di sentenze penali di condanna agli effetti penali,
negandone l'ammissibilità (sia agli effetti penali che agli effetti civili) nei
confronti delle sentenze che si siano limitate a dichiarare l'estinzione del reato,
contestualmente confermando (o disponendo) le statuizioni civili.
In tal senso si è pronunciata Sez. 1, n. 1672 del 15/04/1992, Bonaceto, Rv.
190002, per la quale il mezzo d'impugnazione straordinario rappresentato dalla
revisione è esperibile esclusivamente, per espressa volontà legislativa, nei
confronti di sentenze (o decreti penali) di condanna, con esclusione delle
sentenze di proscioglimento o di non luogo a procedere.
In seguito, Sez. 6, n. 4231 del 30/11/1992, dep. 1993, Melis, Rv. 193457
ha ribadito che la revisione è un mezzo (sia pur straordinario) di impugnazione,
per il quale opera, quindi, il principio di tassatività, ex art. 568, comma 1, cod.
proc. pen., con la conseguenza che, riguardando l'art. 629 cod. proc. pen.
soltanto le sentenze di condanna, non possono ritenersi assoggettabili a
4
revisione anche le sentenze che applichino l'amnistia; questa decisione precisò
che tale principio vale anche quando la corte di appello o la corte di cassazione,
nel dichiarare il reato estinto, abbiano confermato le statuizioni civili della
precedente sentenza, giacché anche in tal caso non si ha una condanna agli
effetti penali.
L'orientamento è stato ulteriormente ribadito da Sez. 5, n. 15973 del
24/02/2004, Decio, Rv. 228763 (sempre valorizzando il principio di tassatività
delle impugnazioni, e ritenendo conseguentemente la possibilità di chiedere la
revisione unicamente di sentenze che abbiano pronunciato una condanna agli
effetti penali) e da Sez. 5, n. 2393 del 02/12/2010, dep. 2011, Pavesi, Rv.
249781. Quest'ultima decisione, nel recepire l'orientamento all'epoca pacifico in
giurisprudenza, ha anche valorizzato quanto affermato dalla Corte Costituzionale
nella sentenza n. 129 del 16/04/2008, proprio in relazione al giudizio di
revisione: «Il Giudice delle leggi ha, invero, ritenuto come il contrasto per il
quale si legittimi e razionalmente si giustifichi la revisione, più che attenere alla
diversa valutazione di una vicenda processuale in due diverse sedi della
giurisdizione, abbia la ragion d'essere esclusivamente nella inconciliabilità di
ricostruzioni alternative di un determinato accadimento della vita all'esito di due
giudizi penali definiti con sentenze irrevocabili. Il che vale a confermare
l'assunto, correttamente affermato nell'impugnata decisione, secondo il quale
l'avvenuta conferma delle statuizioni civili, in presenza dell'avvenuta
dichiarazione di estinzione dei reati per prescrizione, non costituisca affatto
sentenza penale di condanna suscettibile di essere impugnata con lo
straordinario rimedio della revisione».
Nel medesimo senso si è successivamente pronunciata anche Sez. 5, n.
24155 del 03/03/2011, Bernardelli, Rv. 250631 (le cui argomentazioni sono
integralmente richiamate da Sez. 2, n. 8864 del 23/02/2016, Martelli), sempre
valorizzando il carattere di mezzo straordinario d'impugnazione della revisione,
in quanto tale esperibile esclusivamente nei confronti di sentenze o decreti penali
di condanna, con esclusione delle sentenze di proscioglimento o di non luogo a
procedere, ed osservando, inoltre, che la sopravvenuta dichiarazione
d'illegittimità costituzionale dell'art. 630 cod. proc. pen. (Corte cost., sentenza n.
113 del 2011), per effetto della quale era stata introdotta una nuova fattispecie
di revisione in riferimento alla possibile violazione della Convenzione EDU, «non
induce ad alcun revirement con riferimento alla fattispecie ora in esame,
dovendo trattarsi pur sempre di revisione della sentenza o del decreto penale di
condanna e non già di proscioglimento».
5
Più recentemente, l'orientamento è stato ribadito da due decisioni della
Seconda Sezione, la n. 2656 del 09/11/2016, dep. 2017, Calabrò, Rv. 269528, e
la n. 53678 del 25/10/2017, Ricupati, Rv. 271367.
La sentenza Calabrò ha ritenuto che la Relazione al Progetto preliminare ed
al Testo definitivo del Codice di procedura penale vigente (nella quale si legge
che l'utilizzo del termine "prosciolto" in luogo del riferimento all'assoluzione si
spiega in considerazione del rinvio unitario alle disposizioni di legge che si
riferiscono ad ogni forma di proscioglimento), l'espressa previsione dell'art. 629
cod. proc. pen. (a norma del quale la revisione è ammissibile «[...] anche se la
pena è già eseguita o estinta») e l'insieme delle altre disposizioni che
disciplinano l'istituto della revisione confermerebbero che la revisione sarebbe
configurata dal codice di rito quale mezzo di impugnazione straordinario
«preordinato al "proscioglimento" della persona già condannata in via definitiva».
La complessiva disciplina della revisione - diversamente da quella dettata in
tema di ricorso straordinario per errore di fatto (in relazione alla quale soltanto le
Sezioni Unite, con la sentenza Marani, hanno esteso la legittimazione attiva
anche all'imputato condannato ai soli effetti civili) - sarebbe, pertanto,
incompatibile con l'estensione della legittimazione attiva in tema di revisione al
condannato ai soli effetti civili, come sarebbe stato già chiarito dalle stesse
Sezioni Unite, con la sentenza n. 6 del 25/03/1998, Giangrasso, Rv. 210872; le
Sezioni Unite, inoltre, con la sentenza n. 28719 del 21/06/2012, Marani, Rv.
252695, avrebbero ricollegato l'ammissibilità del ricorso straordinario in favore
del soggetto condannato solo agli effetti civili unicamente all'oggettiva
insussistenza di elementi di segno contrario rinvenibili nella "complessiva"
disciplina dell'istituto del ricorso straordinario, al contrario ravvisabili, secondo la
sentenza Calabrò, nella "complessiva" disciplina dell'istituto della revisione.
Anche la giurisprudenza costituzionale (Corte cost., n. 113 del 2011)
avrebbe, sia pur indirettamente, confermato la correttezza dell'orientamento
sostenuto, osservando che la revisione «risulta strutturata in funzione del solo
proscioglimento della persona già condannata: obiettivo, che si trova
immediatamente espresso come oggetto del giudizio prognostico circa l'idoneità
dimostrativa degli elementi posti a base della domanda di revisione, che l'art.
631 cod. proc. pen. eleva a condizione di ammissibilità della domanda stessa»;
sarebbe stato, in tal modo, definitivamente chiarito che, nella sua originaria
previsione, la revisione presuppone la necessaria allegazione di elementi idonei a
fondare una pronunzia di proscioglimento.
La sentenza Ricupati ha valorizzato la nozione sostanzialistica di "sentenza
di condanna" elaborata dalla Corte EDU e recepita dalla Corte costituzionale
(sentenze n. 85 del 2008, n. 239 del 2009 e n. 49 del 2015), al cui ambito no
C- \
6
sarebbe riconducibile la sentenza di proscioglimento per prescrizione con
conferma delle statuizioni civili, perché da essa non consegue alcun effetto di
natura sanzionatoria o comunque latannente penalistica. Ha, inoltre, ritenuto che
la sentenza delle Sezioni Unite n. 13199 del 21/07/2016, Nunziata, Rv. 269788-
91 (per la quale «il ricorso straordinario di cui all'art. 625-bis cod. proc. pen. può
essere proposto dal condannato anche per la correzione dell'errore di fatto
contenuto nella sentenza con cui la Corte di cassazione dichiara inammissibile o
rigetta il ricorso contro la decisione della Corte d'appello che, a sua volta, abbia
dichiarato inammissibile ovvero rigettato la richiesta di revisione dello stesso
condannato») non solo non corrobora l'orientamento minoritario, ma, al
contrario, conferma quello dominante; né potrebbe trarsi argomento a sostegno
dell'orientamento minoritario dalla sentenza Marani, poiché la sua ratio decidendi
- ravvisata nell'esigenza di colmare una lacuna al fine di evitare la disparità di
trattamento fra quanto previsto in sede civile e quanto stabilito in sede penale -
non potrebbe essere estesa alla revisione. Non potrebbe, infine, obiettarsi che il
prosciolto non avrebbe altro modo per rimediare ad una sentenza "ingiusta" che
lo pregiudichi sia pure sotto solo il profilo civilistico, essendo costretto a "subire"
l'insindacabile scelta processuale della persona offesa che, invece di far valere le
proprie ragioni in sede civile, preferisca tutelarle nel processo penale
costituendosi parte civile, potendo a tale obiezione replicarsi che «l'eventuale
declaratoria di prescrizione è la conseguenza di una precisa scelta processuale
dell'imputato che, pur avendo interesse ad ottenere una sentenza di merito, non
ritenga di rinunciare alla prescrizione. Infatti, laddove l'imputato rinunci alla
prescrizione, potrebbe conseguire un duplice risultato: nel caso di assoluzione
(per insussistenza del fatto e per non averlo commesso), anche le pretese della
parte civile sarebbero respinte; in caso di condanna, invece, avrebbe la
possibilità, in presenza dei requisiti di legge, di promuovere istanza di revisione
e, conseguentemente, travolgere, in caso di accoglimento, anche le statuizioni
civili».
2.2. L'orientamento in precedenza assolutamente dominante è stato
contrastato da Sez. 5, n. 46707 del 03/10/2016, Panizzi, Rv. 269939, rimasta
isolata, che ha ritenuto ammissibile l'istanza di revisione della sentenza di
appello dichiarativa dell'estinzione del reato (nel caso esaminato, per
prescrizione), confermando le statuizioni civili.
Premesso che la revisione ha natura di mezzo (straordinario)
d'impugnazione, ed è, come tale, soggetta al principio di tassatività delle
impugnazioni, e che le sentenze che abbiano disposto unicamente il
proscioglimento dell'imputato per essere il reato ascrittogli estinto per amnistia o
prescrizione non sono suscettibili di revisione, poiché l'art. 629 cod. proc. pen.
7
ammette la revisione soltanto delle sentenze di condanna e di c.d.
"patteggiamento", questa decisione ha, tuttavia, osservato che i riferimenti
nornnativi abitualmente valorizzati dal contrario orientamento sarebbero
suscettibili di una diversa lettura, poiché l'art. 629 cod. proc. pen. indica tra i
provvedimenti soggetti a revisione "le sentenze di condanna", «senza precisare
ulteriormente l'oggetto delle stesse», e, simmetricamente, il successivo art. 632,
nell'individuare i soggetti legittimati a proporre la richiesta di revisione, evoca
«in maniera altrettanto generica la figura del ‘condannato'»; né potrebbe
dubitarsi che la decisione che accoglie l'azione civile esercitata nel processo
penale costituisca una «pronunzia di condanna che presuppone l'accertamento
della colpevolezza dell'imputato per il fatto di reato, come espressamente
stabilito dagli artt. 538 e 539 c.p.p.» e che, dunque, in presenza di siffatta
situazione processuale, l'imputato sia "condannato" alle restituzioni ed al
risarcimento del danno. Ad ulteriore conforto dell'interpretazione sostenuta, sono
state valorizzate le analoghe considerazioni svolte dalle Sezioni Unite nelle
sentenze n. 28719 del 21/06/2012, Marani, Rv. 252695, e n. 28718 del
21/06/2012, Cappiello, per affermare la legittimazione del prosciolto condannato
agli effetti civili ad esperire il ricorso straordinario ex art. 625-bis cod. proc.
pen.; si è anche ricordato che il giudice dell'appello può essere chiamato, ex art.
576 cod. proc. pen., non già a confermare le statuizioni civili adottate nel primo
grado di giudizio contestualmente alla condanna penale dell'imputato, bensì a
pronunziarsi in maniera inedita ed esclusiva in favore della parte civile, senza
essere contestualmente investito agli effetti penali della questione relativa alla
responsabilità del presunto autore del fatto di reato.
Non sarebbe possibile desumere decisivi argomenti contrari all'accoglimento
della tesi propugnata:
- dalla legge delega del nuovo codice di rito (I. n. 81 del 1987), posto che
la direttiva n. 99 dell'art. 2 nulla prevedeva in tal senso;
- dal fatto che lo stesso art. 629 cod. proc. pen. consenta la revisione della
condanna «anche se la pena è già stata eseguita o estinta», poiché con tale
disposizione il legislatore, lungi dal delimitare l'ambito oggettivo
dell'innpugnazione straordinaria, avrebbe unicamente inteso rimarcare la
sussistenza di un interesse "morale" del condannato a rimuovere il giudicato
anche in tali casi;
- dall'art. 631 cod. proc. pen.
Si osserva, infine, che, accogliendo l'orientamento tradizionale, l'imputato
prosciolto per estinzione del reato, ma al tempo stesso ingiustamente
condannato agli effetti civili, resterebbe privo di tutela, non potendo neppure
ricorrere all'istituto della revocazione civile (art. 395 cod. proc. civ.),
8
impraticabile in difetto di una espressa previsione normativa che legittimi la
revoca della sentenza pronunziata dal giudice penale da parte del giudice civile,
e stante il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione.
3. Così riepilogati i termini del contrasto, emerge che la questione
controversa investe il tema dell'individuazione dei provvedimenti impugnabili con
la revisione, dovendo in particolare stabilirsi se per soggetto "condannato", in
quanto tale legittimato a proporre richiesta di revisione, si debba intendere
anche quello nei cui confronti sia stata pronunciata una mera condanna agli
effetti civili, con contestuale declaratoria di estinzione del reato ascrittogli agli
effetti penali.
3.1. Queste Sezioni Unite ritengono che il contrasto debba essere risolto
affermando che è ammissibile (anche agli effetti penali) la revisione della
sentenza dichiarativa dell'estinzione del reato per prescrizione (o per amnistia)
che, decidendo, ai sensi dell'art. 578 cod. proc. pen., anche sull'impugnazione ai
soli effetti delle disposizioni e dei capi concernenti gli interessi civili, condanni
l'imputato al risarcimento del danno (od alle restituzioni) in favore della parte
civile.
4. La revisione costituisce, secondo la dottrina tradizionale, il rimedio contro
«il pericolo che al rigore delle forme siano sacrificate le esigenze della verità e
della giustizia reale»: l'istituto consente, in particolare, di rimuovere gli errori
giudiziari, revocando provvedimenti di condanna — sentenze, emesse anche ai
sensi degli artt. 444 ss. cod. proc. pen., o decreti penali - che, in considerazione
di successive emergenze, si rivelino, come pure è stato sottolineato, «frutto di
ingiustizia».
La necessità della previsione di un giudizio di revisione (avvertita sin
dall'epoca dell'«antico diritto»: «fraus vel dolus, si intervenerit in sententia,
perpetuo succurritur damnato»; «omni tempore ratione humanitatis quaeri
oportet de innocentia rei. Nonnunquam enim, aut metu, aut aliqua de causa is
con fitetur et saepe falsa demonstratione damnatun>) è contemplata dall'art. 24,
quarto comma, della Costituzione, che, nell'imporre al legislatore ordinario di
determinare «le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari»,
ineludibilmente costituzionalizza anche lo strumento processuale finalizzato alla
revoca delle sentenze di condanna frutto dei predetti errori, e trova conferma
ulteriore nell'art. 27, terzo comma, della Costituzione, poiché la «rieducazione
del condannato», cui le pene devono tendere, non deve aver luogo nei confronti
di un innocente.
9
Secondo la giurisprudenza costituzionale, l'istituto risponde alla «esigenza di
altissimo valore etico e sociale, di assicurare, senza limiti di tempo ed anche
quando la pena sia stata espiata o sia estinta, la tutela dell'innocente,
nell'ambito della più generale garanzia, di espresso rilievo costituzionale,
accordata ai diritti inviolabili della personalità» (Corte cost., n. 28 del 1969).
La revisione trova esplicito riconoscimento anche in plurime fonti
sovranazionali poste a tutela dei diritti umani: l'art. 4, VII Protocollo alla
Convenzione EDU prevede - in deroga al divieto di bis in idem — la possibilità
della riapertura del processo «se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni o un vizio
fondamentale nella procedura antecedente sono in grado di inficiare la sentenza
intervenuta».
Il diritto alla revisione è affermato (più o meno nei medesimi termini, ma
con riferimento alle sole sentenze di condanna) anche dall'art. 14, § 6, del Patto
internazionale relativo ai diritti civili e politici, e costituisce, quindi, un
inalienabile diritto della persona.
Il codice di procedura penale individua nell'art. 630 cod. proc. pen. i casi di
revisione (ampliati per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 113 del
2011, che ha dichiarato l'articolo costituzionalmente illegittimo «nella parte in cui
non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di
condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia
necessario, ai sensi dell'art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad
una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo») con i limiti
previsti dall'art. 631, in favore dei «condannati», nei confronti «delle sentenze di
condanna o delle sentenze emesse ai sensi dell'articolo 444, comnna 2, o dei
decreti penali di condanna, divenuti irrevocabili, anche se la pena è già stata
eseguita o è estinta».
5. Il presupposto imprescindibile per la legittimazione ad esperire
l'impugnazione straordinaria de qua è, quindi, lo status di "condannato", da
intendere necessariamente come «il soggetto che ha esaurito tutti i gradi del
sistema delle impugnazioni ordinarie e rispetto al quale si è formato il giudicato
in ordine alla decisione che lo riguarda» (così Sez. U., n. 13199 del 21/07/2016,
Nunziata, Rv. 269790).
Il ricorso alla revisione andrebbe, quindi, negato con riferimento ai
procedimenti ante iudicatum, ovvero a tutte le tipologie di decisioni che non
hanno come destinatario un "condannato" in tal modo inteso: si pensi, ad
esempio, ai provvedimenti emessi in fase cautelare, alle decisioni in materia di
misure di prevenzione - tuttavia, con riferimento ai provvedimenti applicativi di
10
misure di prevenzione personali, l'art. 11, comma 2, D. Lgs. n. 159 del 2011
delinea ad hoc l'ambito della possibile rilevanza di fatti sopravvenuti ai fini della
revoca della misura, e l'art. 28 stesso D. Lgs. prevede una forma di revocazione
della sola decisione definitiva sulla confisca di prevenzione, peraltro rinviando
alla disciplina prevista dagli artt. 630 ss. cod. proc. pen. -, di rimessione del
processo, di consegna per un mandato di arresto europeo e in genere ai
provvedimenti in materia di estradizione.
La tassativa previsione dell'art. 629 comporta che la revisione non è
esperibile nei confronti delle ordinanze e nei casi in cui l'ordinamento appresti
rimedi "speciali" diversi.
Essa non è, quindi, esperibile:
- nei confronti delle sentenze di non luogo a procedere, per le quali gli artt.
434-437 del codice di rito prevedono una forma di impugnazione straordinaria ad
hoc;
- in presenza di una sopravvuta abolitio criminis (cfr. art. 673 cod. proc.
pen., che in tal caso prevede, come rimedio ad hoc, la revoca della sentenza);
- nei confronti di sentenze pronunciate da giudici speciali (cfr., con rimedi
speciali, artt. 29 e 33 I. n. 20 del 25 gennaio 1962 - per quanto riguarda le
decisioni della Corte costituzionale - ed art. 401 cod. pen. mil . pace - per quanto
riguarda le decisioni dei tribunali militari).
6. L'art. 629 cod. proc. pen. ammette la revisione unicamente in favore del
"condannato", non dunque anche della sentenza che si sia limitata, soltanto agli
effetti penali, a dichiarare l'estinzione del reato (per prescrizione, come nel caso
di specie, od anche per altra causa), poiché in tal caso:
- il soggetto instante non avrebbe qualifica di "condannato", a nessun effetto
(in difetto di contestuali statuizioni civili);
- la presunzione costituzionale di non colpevolezza fino alla condanna
definitiva (art. 27, comma 2, Cost.), nel caso di specie non intervenuta,
impedirebbe di configurare possibili pregiudizi (in ipotesi giuridicamente
rilevanti) alla sua onorabilità.
Un problema potrebbe in astratto porsi in riferimento all'impossibilità di
esperire la revisione in tali casi, poiché anche dal proscioglimento, in ipotesi
conseguente ad un'amnistia oppure all'applicazione del perdono giudiziale,
ovvero all'accertamento del difetto di imputabilità, e che pertanto postuli un
quanto meno implicito accertamento di responsabilità, potrebbero conseguire
effetti pregiudizievoli per l'imputato (ad esempio, l'applicazione di misure di
sicurezza).
11
7. A conclusioni diverse deve pervenirsi quando alla declaratoria di
estinzione del reato (per prescrizione o per amnistia "propria"), valida e rilevante
ai soli effetti penali, si accompagni in appello, come previsto e consentito dall'art.
578 cod. proc. pen., la contestuale affermazione di responsabilità agli effetti civili
(confermativa della corrispondente statuizione del primo giudice, od anche
pronunziata ex novo su gravame della parte civile), con conseguente condanna
dell'imputato al risarcimento del danno e/o alle restituzioni.
7.1. Da lungo tempo, la giurisprudenza costituzionale (Corte cost. n. 28 del
1969), premesso che «l'istituto della revisione si pone nel sistema delle
impugnazioni penali quale mezzo straordinario di difesa del condannato ed è
preordinato alla riparazione degli errori giudiziari, mediante l'annullamento di
sentenze di condanna, che siano riconosciute ingiuste posteriormente alla
formazione del giudicato», ha riconosciuto che «esso risponde all'esigenza, di
altissimo valore etico e sociale, di assicurare, senza limiti di tempo ed anche
quando la pena sia stata espiata o sia estinta, la tutela dell'innocente,
nell'ambito della più generale garanzia, di espresso rilievo costituzionale,
accordata ai diritti inviolabili della personalità».
Pur dovendo essere la revisione necessariamente subordinata a condizioni,
limitazioni e cautele, nell'intento di contemperarne le predette finalità con
l'interesse, fondamentale in ogni ordinamento, alla certezza e stabilità delle
situazioni giuridiche ed all'intangibilità delle pronunzie giurisdizionali di
condanna, che siano passate in giudicato, «l'evoluzione della nostra legislazione
positiva dimostra una graduale estensione delle categorie dei soggetti in favore
dei quali la revisione dei giudicati penali è stata ammessa, sul riflesso di un
sempre più accentuato favor per la tutela degli interessi materiali e morali di chi
sia stato a torto condannato».
Il rimedio della revisione risulta quindi apprestato per rimuovere ogni
giudicato "ingiusto" idoneo a causare «serio pregiudizio non solo alla libertà e al
patrimonio, ma anche alla onorabilità ed alla dignità morale e sociale dei
soggetti. Beni morali che devono essere tutelati di fronte alla riprovazione
sociale»; e viene all'uopo in considerazione anche l'obbligo (enunciato nell'art.
185 cod. pen.) «delle restituzioni e del risarcimento del danno, nei casi in cui il
fatto accertato ne abbia arrecato a terzi».
7.2. Le Sezioni Unite hanno in più occasioni esaminato questioni controverse
inerenti alla revisione.
In particolare, chiamate a decidere se fosse ammissibile il giudizio di
revisione della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti
(all'epoca normativamente non previsto), esse hanno inizialmente osservato che
«la revisione, che presuppone il 'giudicato', è stata espressamente disciplinata
12
dal legislatore quale istituto applicabile unicamente alle sentenze di 'condanna'
ed ai decreti penali di 'condanna' divenuti irrevocabili (art. 629 c.p.p.), ovverosia
alle sole decisioni che comportano il riconoscimento della responsabilità
dell'imputato per un determinato reato e l'applicazione della relativa pena» (Sez.
U, n. 6 del 25/03/1998, Giangrasso).
In seguito, investite del ricorso tanto per la particolare importanza delle
questioni proposte quanto per la soluzione del contrasto giurisprudenziale insorto
fra le Sezioni ordinarie circa il concetto di prova nuova ai fini della delibazione
sull'ammissibilità della richiesta di revisione, le Sezioni Unite (sentenza n. 624
del 26/09/2001, Pisano), premesso che «al fondo della normativa sulla revisione
sta il conflitto tra esigenze di natura formale ed esigenze di giustizia sostanziale
che, nella tensione dialettica finalizzata alla ricerca della verità, accompagna
l'intero corso del processo e ne segue i passaggi più salienti», hanno ribadito
che, con il giudizio di revisione, l'ordinamento, sulla base di scelte di politica
legislativa, sacrifica «il valore [...] del giudicato in nome di esigenze che
rappresentano l'espressione di valori superiori», precisando che tra i valori
fondamentali a cui la legge attribuisce priorità, rispetto alla regola della
intangibilità del giudicato, vi è la «necessità dell'eliminazione dell'errore
giudiziario, dato che corrisponde alle più profonde radici etiche di qualsiasi
società civile il principio del favor innocentiae, da cui deriva a corollario che non
vale invocare alcuna esigenza pratica - quali che siano le ragioni di opportunità e
di utilità sociale ad essa sottostanti - per impedire la riapertura del processo
allorché sia riscontrata la presenza di specifiche situazioni ritenute dalla legge
sintomatiche della probabilità di errore giudiziario e dell'ingiustizia della sentenza
irrevocabile di condanna».
Il fondamento costituzionale della revisione è individuato dalle Sezioni Unite
nella disposizione contenuta nell'art. 24, quarto comma, Cost.; sulla scia della
condivisa giurisprudenza costituzionale, la funzione della revisione è stata
ricollegata non soltanto all'interesse del singolo, ma anche «all'interesse pubblico
e superiore alla riparazione degli errori giudiziari, facendo prevalere la giustizia
sostanziale sulla giustizia formale».
Successivamente, chiamate a decidere una questione per certi versi
speculare rispetto a quella odierna, ovvero se fosse ammissibile la proposizione
del ricorso straordinario per errore di fatto nei confronti della decisione di
legittimità che confermi le statuizioni civili di condanna dell'imputato, e premesso
che il vigente ordinamento processuale evidenzia l'esistenza di «inespressa - ma
percepibile - tendenza assimilativa [dell'istituto del ricorso straordinario ,
.... ,2 disciplinato dall'art. 625-bis cod. proc. pen.] all'istituto della revisione», le
Sezioni Unite (sentenza n. 28719 del 21/06/2012, Marani) hanno osservato che
13
«la locuzione 'condannato' che delimita soggettivamente la sfera di applicabilità
del rimedio straordinario [...], non può arbitrariamente scandirsi in ragione del
tipo di condanna in capo al soggetto che sia stato sottoposto, come imputato, al
processo penale, giacché l'essere stato costui evocato in giudizio tanto sulla base
della azione penale quanto in forza della azione civile esercitata nel processo
penale, non può che comportare una ontologica identità di diritti processuali, a
meno che la legge espressamente non distingua i due profili», il che si è ritenuto
non avvenga in tema di ricorso straordinario.
Infine, chiamate a decidere se fosse ammissibile il ricorso straordinario ai
sensi dell'art. 625-bis cod. proc. pen. contro la sentenza o l'ordinanza della Corte
di cassazione che rigetta o dichiara inammissibile il ricorso del condannato contro
la decisione della corte d'appello che ha respinto ovvero dichiarato inammissibile
la richiesta di revisione, le Sezioni Unite (sentenza n. 13199 del 21/07/2016,
dep. 2017, Nunziata) hanno ribadito che il ricorso straordinario «si rifà al
modello della disciplina della revisione», la quale, dal canto suo, «si inserisce nel
sistema delle impugnazioni come un mezzo straordinario di difesa del
condannato, per porre rimedio agli errori giudiziari, eliminando le condanne che
siano riconosciute ingiuste, attraverso un giudizio che segue alla formazione del
giudicato, la cui base giustificativa è di ordine prevalentemente pratico»;
all'istituto della revisione è, quindi, attribuita «la funzione di rispondere
'all'esigenza, di altissimo valore etico e sociale, di assicurare, senza limiti di
tempo ed anche quando la pena sia stata espiata o sia estinta, la tutela
dell'innocente, nell'ambito della più generale garanzia, di espresso rilievo
costituzionale, accordata ai diritti inviolabili della personalità' (Corte cost., sent.
n. 28 del 1969)».
Ed è apparso evidente che «sia la giurisprudenza costituzionale sia quella di
legittimità facciano derivare la scelta del favor revisionis dalla finalità di garantire
i diritti inviolabili della persona, sacrificando il rigore delle forme alle esigenze
insopprimibili della 'verità e della giustizia reale'».
8. In accordo con i principi enunciati dalla giurisprudenza costituzionale, e
già recepiti dalle Sezioni Unite, questo collegio ritiene che l'istituto della revisione
costituisca applicazione estrema del principio costituzionale che assegna al
processo penale il compito dell'accertamento della verità («poiché il fine primario
e ineludibile del processo penale rimane la ricerca della verità»: Corte cost.,
sentenza n. 111 del 1993): proprio la necessità di perseguire il rispetto della
verità impone di non accogliere opzioni ermeneutiche che portino a mantenere
ferme decisioni condizionate da un quadro probatorio, esistente al momento
della decisione, ma che in seguito risulti radicalmente smentito.
14
Questa funzione dell'istituto della revisione assume rilievo fondamentale ai
fini della decisione della questione controversa.
9. L'art. 629 cod. proc. pen. indica tra i provvedimenti soggetti a revisione
"le sentenze di condanna" (senza precisarne ulteriormente l'oggetto), ed il
successivo art. 632 - che dell'art. 629 costituisce pendant -, nell'individuare i
soggetti legittimati a proporre la richiesta di revisione, evoca (altrettanto
genericamente) lo status giuridico di "condannato".
Non può dubitarsi che la decisione che accoglie l'azione civile esercitata nel
processo penale costituisca una pronunzia di condanna che presuppone
l'accertamento della colpevolezza dell'imputato per il fatto di reato, secondo
quanto espressamente stabilito dagli artt. 538 e 539 c.p.p., e che, dunque, in
presenza di siffatta situazione processuale, all'imputato debba essere
riconosciuto lo status di soggetto "condannato", sia pure soltanto alle restituzioni
ed al risarcimento del danno.
D'altro canto, come osservato da Sez. 5, n. 46707 del 03/10/2016, Panizzi,
cit., nel testo dell'art. 629 non vi è traccia della possibile rilevanza della
distinzione tra la condanna riportata agli effetti penali e quella riportata agli
effetti civili a seguito dell'esercizio nel processo penale dell'azione civile, e
nessun elemento induce a ritenere l'esistenza di «una qualsiasi incompatibilità
logica o strutturale della norma a consentire la revisione al condannato solo per
gli interessi civili».
Anche in tali casi si è al cospetto di un'affermazione di responsabilità,
contestuale alla declaratoria di estinzione del reato, e ad essa inscindibilmente
collegata, per la medesimezza del fatto storico costituente oggetto della duplice
valutazione (agli effetti penali e civili) e dei materiali probatori valutati, di tal che
la condanna, pur pronunciata ai soli effetti civili, si risolve, pur incidentalmente,
in una affermazione di responsabilità anche agli effetti penali.
Lo status di "condannato", da intendere come «il soggetto che ha esaurito
tutti i gradi del sistema delle impugnazioni ordinarie e rispetto al quale si è
formato il giudicato in ordine alla decisione che lo riguarda» (così Sez. U., n.
13199 del 21/07/2016, Nunziata, Rv. 269790), va, pertanto, certamente
riconosciuto anche al soggetto nei cui confronti sia stata pronunciata in appello,
ai sensi dell'art. 578 cod. proc. pen., sentenza di proscioglimento, per estinzione
del reato per prescrizione ovvero per amnistia, con contestuale conferma della
,.$ condanna pronunciata in primo grado alle statuizioni civili od anche con
condanna alle statuizioni civili pronunciata per la prima volta in appello su
gravame della parte civile.
15
Anche in questo caso, dunque, «la locuzione "condannato" che delimita
soggettivamente la sfera di applicabilità del rimedio straordinario [...], non può
arbitrariamente scandirsi in ragione del tipo di condanna in capo al soggetto che
sia stato sottoposto, come imputato, al processo penale, giacché l'essere stato
costui evocato in giudizio tanto sulla base della azione penale quanto in forza
della azione civile esercitata nel processo penale, non può che comportare una
ontologica identità di diritti processuali, a meno che la legge espressamente non
distingua i due profili» (così la sentenza Marani in tema di ricorso straordinario,
con considerazioni senz'altro mutuabili anche in riferimento alla revisione).
10. Sia valorizzando il fatto che al predetto soggetto va riconosciuto lo
status formale di condannato, sia valorizzando il fatto che l'affermazione di
responsabilità agli effetti civili, contestuale alla declaratoria di estinzione del
reato, non può non assumere in concreto, per le ragioni appena indicate, valenza
sostanziale di affermazione di responsabilità anche agli effetti penali, appare
evidente che l'art. 629 cod. proc. pen. ne ammette la legittimazione a chiedere
la revisione della sentenza d'appello che abbia dichiarato l'estinzione del reato,
contestualmente confermando la condanna o condannando ex novo l'imputato
alle statuizioni civili ex art. 578 cod. proc. pen. (anche se con statuizione di
condanna generica e rinvio al giudice civile per la quantificazione dei danni).
10.1. L'art. 578 attua la direttiva n. 28 della legge delega n. 81 del 1987,
riproducendo pressoché integralmente l'art. 13 della I. 3 agosto 1978, n. 405,
« che costituisce il testo di legge innovativo in materia, estendendone la
normativa anche all'analogo istituto della prescrizione » (Relazione al Progetto
preliminare del codice di procedura penale, 288).
La disposizione comporta che, quando nei confronti dell'imputato sia
pronunciata condanna, anche generica, al risarcimento dei danni, il giudice
d'appello e la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per amnistia o
per prescrizione che siano sopravvenute, decidono sull'impugnazione, ai soli
effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi
civili: il potere-dovere del giudice dell'impugnazione di decidere sugli effetti civili
del reato estinto per prescrizione o per amnistia, previsto dall'art. 578,
presuppone una sentenza di condanna estesa alle statuizioni civili, emessa in
primo grado, in assenza di cause estintive già maturate ed erroneamente non
dichiarate.
Il giudice dell'appello, nel prendere atto dell'esistenza di una delle predette
cause estintive del reato verificatasi nelle more del giudizio di secondo grado,
deve necessariamente compiere una valutazione approfondita dell'acquisito
compendio probatorio, senza essere legato ai canoni di economia processuale,
16
che imporrebbero la declaratoria della causa di estinzione del reato quando la
prova dell'innocenza non risulti ictu ocu/i: la previsione di cui all'art. 578
comporta, infatti, che i motivi di impugnazione dell'imputato devono essere
esaminati compiutamente, non potendosi dare conferma alla condanna al
risarcimento del danno in ragione della mancanza di prova dell'innocenza
dell'imputato, secondo quanto previsto con riferimento agli effetti penali, per
esigenze di economia processuale, dall'art. 129, comma 2, cod. proc. pen. (Sez.
6, n. 18889 del 28/02/2017, Tomasi, Rv. 269890; Sez. 4, n. 20568 del
11/04/2018, D.L.), tanto vero che la sentenza di appello che non abbia compiuto
un esaustivo apprezzamento sulla responsabilità dell'imputato deve essere
annullata con rinvio, limitatamente alla conferma delle statuizioni civili (Sez. U,
n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti; Sez. 6, n. 16155 del 20/03/2013, Galati;
Sez. 5, n. 3869 del 07/10/2014, dep. 2015, Lazzari).
10.2. Non può quindi dubitarsi che la statuizione di condanna agli effetti
civili, pronunciata ai sensi dell'art. 578, di per sé suscettibile - se ingiusta - di
arrecare pregiudizio all'interessato con riguardo alla sfera patrimoniale, contenga
necessariamente, anche se incidentalmente, una implicita quanto ineludibile
affermazione di responsabilità tout court operata, a cognizione piena, in
relazione al fatto-reato causativo del danno, certamente suscettibile di arrecare
pregiudizio all'interessato anche con riguardo alla sfera dei diritti della
personalità.
La contestualità delle pronunzie di estinzione del reato e di condanna alle
statuizioni civili evidenzia, infatti, la sussistenza di un inscindibile collegamento
tra l'affermazione di responsabilità agli effetti civili e la mancata pronunzia
liberatoria, anche nel merito, agli effetti penali, che è senz'altro idonea a
produrre un apprezzabile pregiudizio al diritto all'onore dell'imputato, con
superamento - in concreto - della presunzione costituzionale di non
colpevolezza.
Analoghi essendo i pregiudizi che l'interessato, pur non condannato agli
effetti penali, potrebbe patire anche in tali casi, per effetto di una decisione
irrevocabile successivamente rivelatasi ingiusta, sia alla propria sfera personale
(per la compromissione della propria onorabilità) che a quella patrimoniale (per
le - in ipotesi irreversibili - statuizioni risarcitorie o di condanna alle restituzioni),
il diniego della possibilità di accesso al giudizio di revisione potrebbe porsi in
contrasto con l'art. 3 della Costituzione, sotto il duplice profilo della violazione
del principio di uguaglianza, derivante dal diverso trattamento riservato a
situazioni che presentino analoghi profili di pregiudizio, e della palese
irragionevolezza, in difetto di apprezzabile giustificazione della discrasia. E, nel
dubbio, secondo quanto da tempo immemore chiarito dalla consolidata
17
giurisprudenza costituzionale, l'interprete deve sempre optare per la soluzione
interpretativa che non ponga problemi di costituzionalità.
11. Questa conclusione si pone in linea con quanto già ritenuto dalle Sezioni
Unite (sentenze n. 28719 del 21/06/2012, Marani, Rv. 252695, e n. 28718 del
21/06/2012, Cappiello) con riferimento al tema della legittimazione del soggetto
prosciolto agli effetti penali, ma condannato agli effetti civili, ad esperire il
ricorso straordinario ex art. 625-bis cod. proc. pen.
Le predette decisioni, nell'affermare la legittimazione attiva al ricorso
straordinario anche del soggetto avente il predetto status giuridico, hanno
ritenuto effettivamente "percepibile" l'esistenza di forti analogie con l'altro mezzo
d'impugnazione straordinario costituito dalla revisione.
L'esistenza di una tendenza normativa all'assimilazione degli istituti del
ricorso straordinario e della revisione, in più occasioni evidenziata dalle Sezioni
Unite, mal si concilierebbe, invero, con una soluzione che, ai soli fini
dell'esperibilità della revisione, intendesse la legittimazione normativa del
"condannato" riferibile soltanto a colui che risulti tale agli effetti penali, e non
anche a colui che risulti tale agli effetti civili, come ritenuto dalla sentenza Marani
in tema di ricorso straordinario, tenuto peraltro conto del fatto che, come già
osservato con riferimento al ricorso straordinario, anche in riferimento alla
revisione la legge non distingue espressamente i due profili degli effetti penali e
civili della condanna.
Tale considerazione evidenzia che è senz'altro priva di rilievo ai fini della
risoluzione della questione controversa la natura di rimedio innpugnatorio di
carattere straordinario della revisione, ed il suo conseguente assoggettamento al
principio della tassatività delle impugnazioni, elemento abitualmente valorizzato
dall'orientamento dominante: il ricorso straordinario presenta analoga natura,
ma ciò non ha impedito di ritenere legittimato ad esperirlo anche il soggetto
"condannato" ai soli effetti civili, proprio nel rispetto del predetto principio.
12. Sarebbe legittimo pervenire a conclusioni diverse soltanto valorizzando
dati normativi speciali, desumibili dalla disciplina della revisione.
Queste Sezioni Unite ritengono, tuttavia, non decisivi, se non addirittura
privi di rilievo, i riferimenti testuali all'uopo valorizzati dall'orientamento in atto
maggioritario.
12.1. Non appare rilevante la legge delega n. 81 del 1987 per l'emanazione
del nuovo codice di procedura penale, posto che la direttiva n. 99 dell'art. 2 nulla
prevedeva in riferimento alla questione controversa, essendosi limitata a
stabilire, per quanto in questa sede può assumere rilievo, la «ammissibilità d
18
revisione anche nei casi di erronea condanna di coloro che non erano imputabili
o punibili a cagione di condizioni o qualità personali o della presenza di
esimenti».
12.2. Non decisivo appare il riferimento all'art. 629 cod. proc. pen., che
consente la revisione della condanna «anche se la pena è già stata eseguita o
estinta» (valorizzato dall'orientamento in atto maggioritario nel senso di
escludere l'ammissibilità della revisione nel diverso caso in cui sia il reato, non la
pena, ad essere estinto), poiché con tale disposizione il legislatore, lungi dal
delimitare l'ambito oggettivo dell'impugnazione straordinaria, ha unicamente
inteso rimarcare la sussistenza di un interesse "morale" del condannato a
rimuovere il giudicato anche quando la pena sia già stata interamente eseguita o
sia estinta.
A ben vedere, l'inciso conferma, al contrario, che la revisione ha la funzione
di rimuovere anche pregiudizi di natura "morale", quale è quello che consegue
all'affermazione di responsabilità sia pur pronunciata ai soli effetti civili,
contestualmente alla declaratoria di estinzione del reato.
12.3. Non decisivo appare il riferimento all'art. 631 cod. proc. pen., che si
limita a contemplare il novero dei possibili esiti del giudizio di revisione.
Come già osservato da Sez. 5, n. 46707 del 03/10/2016, Panizzi, cit., «se è
vero (...) che agli effetti penali l'imputato è già stato prosciolto, è altrettanto vero
che ciò è avvenuto per una causa diversa da quelle elencate negli artt. 529 e
530 c.p.p., che altrimenti non sarebbe stato possibile affermare la sua
responsabilità ai fini civili. E se l'assenza delle condizioni previste dai due articoli
menzionati è il presupposto per la condanna agli effetti civili, la dimostrazione
che l'imputato doveva essere prosciolto per una causa diversa da quella invece
riconosciuta è logico presupposto per la rimozione del giudicato, anche agli
effetti civili».
Non appaiono decisivi, in proposito, anche i riferimenti alla Relazione al
progetto preliminare ed al testo definitivo del codice di procedura penale vigente
(GU n. 250 del 24-10-1988 - Suppl. Ordinario n. 93), nella quale si legge
unicamente che «L'articolo 623 [nel testo definitivo del codice, divenuto art.
631], intitolato come l'art. 555 del codice vigente, 'Limiti della revisione',
esprime in forma sintetica il risultato potenziale cui deve tendere l'istituto della
revisione, esigenza che si spiega con la natura straordinaria dell'impugnazione.
E' stato adottato il termine 'prosciolto' in luogo del riferimento all'assoluzione,
perché vi è un rinvio unitario alle disposizioni di legge, che si riferiscono ad ogni
forma di proscioglimento: gli artt. 522 (sentenze di non doversi procedere), 523
(sentenza di assoluzione), 524 (dichiarazione di estinzione del reato)»
19
12.4. Non decisivo appare il riferimento all'art. 637, comma 2, cod. proc.
pen., poiché la «sentenza di condanna», che va revocata nel caso in cui sia
accolta la richiesta di revisione, ben può essere quella pronunciata ex art. 578
cod. proc. pen. agli effetti civili, ed il «proscioglimento» che va pronunciato
indicandone la causa in dispositivo ben può essere quello pronunciato in tali casi
agli effetti penali con formula liberatoria più favorevole rispetto a quello in
precedenza pronunciato per estinzione del reato.
12.5. Non decisivo appare, infine, l'ulteriore riferimento dell'art. 643 cod.
proc. pen. al "proscioglimento" pronunciato in sede di revisione, che va inteso
nel senso appena illustrato.
13. Risulta fin qui non considerato un riferimento testuale che, al contrario,
dal punto di vista sistematico, conferma la correttezza della soluzione prescelta
in questa sede.
L'art. 673, comma 2, cod. proc. pen. stabilisce che, in caso di abrogazione
o di dichiarazione d'illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il
giudice dell'esecuzione revoca (non soltanto la sentenza di condanna o il decreto
penale, come previsto dal comma 1 della disposizione, ma anche) la sentenza di
proscioglimento o di non luogo a procedere per estinzione del reato o per
mancanza di imputabilità, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge
come reato ed adottando i provvedimenti conseguenti.
La dottrina ha osservato che la disposizione costituisce espressione della
necessità che il giudicato ceda alla «rivoluzione normativa posteriore», anche se
non si tratti di un giudicato di condanna.
La disposizione comporta il proscioglimento con la formula «perché il fatto
non è previsto dalla legge come reato», cui peraltro il giudice può accedere, a
norma degli artt. 129 e 530 cod. proc. pen., soltanto dopo aver verificato che:
- il fatto sussiste;
- l'imputato lo ha commesso;
- il fatto costituisce reato.
Per evidenti esigenze di logica, oltre che per identità di ratio, nel rispetto
dell'art. 3 della Costituzione, in difetto di riferimenti testuali insuperabilmente
ostativi, analoga soluzione s'impone, a fortiori, in casi nei quali vi sia stata una
condanna, sia pure ai soli effetti civili, contestualmente al proscioglimento per
estinzione del reato, seguita dalla scoperta ex post di elementi decisivi di prova,
prima ignoti, che dimostrino l'innocenza dell'imputato.
Sarebbe, invero, irragionevole aver previsto, in presenza di una sentenza
che dichiari l'estinzione del reato con contestuale condanna alle statuizioni civili,
la possibile caducazione del giudicato soltanto in presenza della sopravvenuta
20
abolitio criminis, e non anche in presenza della scoperta di prove che impongano
l'assoluzione nel merito con formula liberatoria di grado poziore (in tal senso,
con riferimento alle formule previste dall'art. 530 cod. proc. pen., cfr. Sez. 3,
sentenza n. 9096 del 23/06/1993, Steinhauslin, Rv. 195202, per la quale,
«quando il fatto non è più preveduto dalla legge come reato, sia in seguito a una
pura e semplice abolitio criminis, sia in seguito alla trasformazione dell'illecito
penale in illecito amministrativo, il giudice è tenuto a verificare se allo stato degli
atti non risulti già evidente che il fatto non sussiste, che l'imputato non l'ha
commesso o che il fatto non costituisce reato»; nel medesimo senso, con
riferimento alle formule previste dall'art. 129 cod. proc. pen., Sez. U, n. 2451 del
27/09/2007, dep. 2008, Magera, Rv. 238195, per la quale «nel concorso tra
diverse cause di proscioglimento, poiché l'indicazione che si trae dalla sequenza
delle formule contenuta nell'art. 129 cod. proc. pen. è quella di un ordine ispirato
a un'ampiezza di effetti liberatori per l'imputato progressivamente più ridotta, la
formula perché il fatto non sussiste prevale su quella perché il fatto non è
previsto dalla legge come reato»).
14. La soluzione qui sostenuta non trova ostacoli nella giurisprudenza
costituzionale, della quale costituisce anzi imprescindibile conseguenza.
La sentenza n. 129 del 2008 (richiamata a conferma dell'orientamento
maggioritario da Sez. 5, n. 2393 del 01/12/2010, dep. 2011, Pavesi, cit.) ha
dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 630,
comma 1, lett. a), cod. proc. pen., sollevata in riferimento agli artt. 3, 10 e 27
della Costituzione, nella parte in cui non si applica ai casi di assenza di equità del
processo, accertata dalla Corte EDU ai sensi dell'art. 6 della Convenzione EDU.
La citata decisione non ha, peraltro, operato alcun riferimento al possibile
contenuto dispositivo (di condanna agli effetti penali, o meno) delle sentenze
irrevocabili emesse all'esito di diversi giudizi penali, fondate su "fatti storici",
determinanti ai fini del riconoscimento della penale responsabilità,
oggettivamente incompatibili.
La sentenza n. 113 del 2011 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale
dell'art. 630 cod. proc. pen. per contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost. e
con gli artt. 46 e 6 della CEDU, nella parte in cui non consente la riapertura del
processo penale al fine di dare esecuzione alle sentenze della Corte EDU che
accertino la violazione dell'art. 6 della CEDU, senza, peraltro, svolgere alcuna
considerazione riferibile all'odierna questione controversa, poiché, cIp
nell'evidenziare che «la revisione risulta strutturata in funzione del solo
proscioglimento della persona già condannata», non prende esplicita posizione in
21
ordine al contenuto della condanna (penale o civile) della sentenza soggetta a
revisione.
La predetta decisione osserva, in generale, che, pur nell'indubbia rilevanza
dei valori della certezza e della stabilità della cosa giudicata, non possa ritenersi
contraria a Costituzione la previsione del venir meno dei relativi effetti preclusivi
«in presenza di connpromissioni di particolare pregnanza - quali quelle accertate
dalla Corte di Strasburgo, avendo riguardo alla vicenda giudiziaria nel suo
complesso - delle garanzie attinenti a diritti fondamentali della persona:
garanzie che, con particolare riguardo alle previsioni dell'art. 6 della
Convenzione, trovano del resto ampio riscontro nel vigente testo dell'art. 111
Cost.»: risulta, in tal modo, ribadita la prevalenza della tutela dei diritti
fondamentali della persona sulle esigenze di certezza e di stabilità della cosa
giudicata, che conferma, sotto un profilo sistematico, la correttezza dell'opzione
in favore dell'orientamento in precedenza minoritario.
La finalizzazione dell'istituto della revisione alla tutela della «esigenza di
altissimo valore etico e sociale, di assicurare, senza limiti di tempo ed anche
quando la pena sia stata espiata o sia estinta, la tutela dell'innocente,
nell'ambito della più generale garanzia, di espresso rilievo costituzionale,
accordata ai diritti inviolabili della personalità» (Corte cost., n. 28 del 1969)
conferma la tesi sostenuta.
15. La soluzione prescelta non trova ostacoli neppure nelle fonti
sovra nazionali.
Il diritto alla revisione è affermato con riguardo alle "sentenze di condanna"
(senza alcuna restrizione in riferimento alle statuizioni - di natura penale od
anche civile - che possano conseguirne) dall'art. 14, § 6, del Patto internazionale
relativo ai diritti civili e politici.
L'art. 4, § 2, Prot. Addizionale n. 7 alla CEDU prevede la possibilità di
riapertura del processo senza limitazioni riferibili alla natura della sentenza (se di
condanna o di proscioglimento) o delle statuizioni (penali o civili) conseguenti
alla condanna, ma con il corollario del divieto di «essere perseguito o condannato
penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già
stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva» (art. 4, § 1,
Prot. Addizionale n. 7 cit.).
E non può essere considerata priva di significato ai fini che interessano la
circostanza che la riapertura del processo è garantita senza riferimento alcuno
agli effetti (penali o civili) che conseguono alla sentenza originariamente
pronunciata, mentre il diritto a non essere giudicato o punito due volte è
affermato con riferimento ai soli effetti penali.
22
q
Quanto appena osservato evidenzia la non decisività del richiamo, operato
da Sez. 2, n. 53678 del 25/10/2017, Ricupati, cit., dei criteri Engel elaborati
dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, onde inferirne che alla condanna
al risarcimento dei danni e/o alle restituzioni non potrebbe essere riconosciuta,
per grado di afflittività, natura di condanna agli effetti penali.
L'argomento risulta comunque fuorviante, perché, come già chiarito, il
riferimento operato dall'art. 629 cod. proc. pen. alla "condanna" ricomprende
anche quella pronunciata ai soli effetti civili, e non può essere inteso conne
evocante una condanna anche solo sostanzialmente penale.
Inoltre, esso trascura di considerare che il singolo Stato aderente alla CEDU
ben potrebbe prevedere nel diritto interno un livello di garanzie superiore
rispetto allo standard minimo convenzionalmente assicurato, ammettendo quindi
la possibilità della revisione anche in casi con riferimento ai quali essa non risulti,
in ipotesi, convenzionalmente necessaria.
16. La tesi che viene privilegiata non si pone, infine, in contrasto con
precedenti decisioni delle Sezioni Unite.
La sentenza n. 6 del 1998, Giangrasso evoca, infatti, l'esperibilità della
revisione contro le sole decisioni che comportino il riconoscimento della
responsabilità dell'imputato per un determinato reato, il che è proprio non
soltanto delle sentenze che comportino la conseguente applicazione della pena,
ma anche di quelle che comportino la condanna dell'imputato ai soli effetti civili.
La sentenza n. 13199 del 2017, Nunziata prende le mosse dalla collocazione
del ricorso straordinario per errore di fatto, quale mezzo straordinario di
impugnazione che costituisce una deroga al principio dell'irrevocabilità delle
decisioni della Corte di cassazione, nell'ambito delle altre «significative brecce
scavate nel muro del giudicato penale dal codice del 1988», ravvisando il nucleo
della questione controversa, in quella occasione esaminata, nel verificare se i
provvedimenti della Corte di cassazione suscettibili di essere impugnati con
ricorso straordinario ai sensi dell'art. 625-bis cod. proc. pen. siano solo quelli in
grado di determinare il passaggio in giudicato della sentenza di condanna,
«ovvero se sia sufficiente un altro tipo di nesso con il giudicato sostanziale».
Dopo avere analizzato le argomentazioni espresse dalle decisioni che
avevano ampliato l'ambito operativo dell'istituto di cui all'art. 625-bis cod. proc.
pen., le Sezioni Unite hanno affermato che, nei casi indicati, «si assiste ad un
progressivo allentamento del rapporto funzionale tra decisione della Corte di
cassazione e giudicato e il riferimento al 'condannato', almeno riguardo all'ultimo
esempio, assume una portata più ampia. Pertanto, è vero che, come sottolineato
da una attenta dottrina, il richiamo al 'condannato' sta a significare che possono
"1"--
23
essere impugnate con il ricorso straordinario le decisioni della Corte di
cassazione che rendano 'incontrovertibile l'accertamento del dovere di punire',
essendo evidente il collegamento con il giudicato sostanziale. Tuttavia, si tratta
di verificare se i provvedimenti della Cassazione suscettibili di essere impugnati
ai sensi dell'art. 625-bis cod. proc. pen. sono solo quelli in grado di determinare
il passaggio in giudicato della sentenza di condanna ovvero se sia sufficiente un
altro tipo di nesso con il giudicato sostanziale».
Tale argomentazione appare non particolarmente rilevante ai fini che qui
interessano, poiché immediatamente prima le Sezioni Unite avevano richiamato
il caso dell'ammissibilità del ricorso straordinario per errore di fatto avverso le
sentenze di condanna ai soli effetti civili, senza in alcun modo mettere in
discussione i principi in precedenza affermati dalle stesse Sezioni Unite con la
sentenza Marani.
In realtà, la sentenza Nunziata, nell'esaminare la questione in quella
occasione controversa, ha operato un riferimento al caso più ricorrente di
revisione (la revisione della condanna penale), senza alcun ulteriore riferimento
alla questione oggi in discussione, ma limitandosi ad individuare le ragioni che
giustificano la legittimazione del condannato a presentare ricorso straordinario
per errore di fatto contro la sentenza con la quale la Corte di cassazione abbia
dichiarato inammissibile, o rigettato, il suo ricorso contro la decisione che gli
abbia negato la revisione. A tal fine sono state richiamate le «esigenze che
rappresentano l'espressione di valori superiori», ritenute prioritarie rispetto alla
regola dell'intangibilità del giudicato, ed in particolare:
- l'esigenza, «di altissimo valore etico e sociale, di assicurare, senza limiti di
tempo ed anche quando la pena sia stata espiata o sia estinta, la tutela
dell'innocente, nell'ambito della più generale garanzia, di espresso rilievo
costituzionale, accordata ai diritti inviolabili della personalità», già valorizzata
dalla giurisprudenza costituzionale (Corte cost., n. 28 del 1969 cit.), e
soddisfatta dall'istituto della revisione;
- l'esigenza di assicurare la «effettività del giudizio di legittimità», che la
giurisprudenza costituzionale (Corte cost., sentenza n. 395 del 2000) aveva già
indicato come obiettivo da raggiungere attraverso la previsione di meccanismi in
grado di rimediare agli errori della Cassazione.
Tali ultimi riferimenti, a ben vedere, confermano, sul piano sistematico, più
che contrastare, la correttezza della soluzione accolta.
17. Privi di decisivo rilievo, in senso contrario alla soluzione accolta,
appaiono, infine, gli ulteriori elementi talora valorizzati a sostegno
dell'orientamento maggioritario. /-
24
L'imputato prosciolto per estinzione del reato, ma al tempo stesso
ingiustamente condannato agli effetti civili, non potrebbe ricorrere all'istituto
della revocazione civile, impraticabile - proprio in ossequio al principio di
tassatività dei mezzi di impugnazione - in difetto di una espressa previsione
normativa che legittimi la revoca della sentenza pronunziata dal giudice penale
da parte del giudice civile, fuori dai casi previsti dall'art. 622 cod. proc. pen.
Unicamente nell'ipotesi di annullamento, ai soli effetti civili, da parte della Corte
di cassazione, della sentenza penale contenente condanna generica al
risarcimento del danno, si determina, infatti, una piena translatio del giudizio
sulla domanda civile al giudice civile competente per valore in grado di appello
(Cass. civ., Sez. 3, n. 15182 del 20/06/2017, Rv. 644747): ne consegue che il
giudizio di rinvio avanti al giudice civile designato, che abbia luogo a seguito di
sentenza resa dalla Corte di cassazione in sede penale, ai sensi dell'art. 622 cod.
proc. pen., è da considerarsi come un giudizio civile di rinvio del tutto
riconducibile alla normale disciplina del giudizio di rinvio quale espressa dagli
artt. 392 e ss. cod. proc. civ. (Cass. civ., Sez. 3, n. 17457 del 09/08/2007, Rv.
600508, e n. 9358 del 12/04/2017, Rv. 644002).
Come già evidenziato da Sez. 5, n. 46707 del 03/10/2016, Panizzi, cit., dai
diversi e più ristretti limiti, che caratterizzano il suddetto istituto, non può
ricavarsi «argomento fondato sulla disparità di trattamento riservata al
danneggiato a seconda che l'azione risarcitoria venga esercitata nella sede
propria o in quella penale. Infatti, innovando profondamente la disciplina
previgente, il codice del 1988 ha attribuito a quest'ultimo il monopolio sulla
scelta della sede in cui vedere accertate le proprie pretese. Scelta che implica
l'accettazione delle regole proprie del rito opzionato».
D'altro canto, anche a prescindere dall'inscindibilità delle statuizioni emesse
dal giudice penale agli effetti penali e civili, desumibile dalla disciplina di cui
all'art. 578 cod. proc. pen., il sopravvenire - rispetto al corso del procedimento
culminato nel giudicato - di una prova non dedotta o non deducibile che legittimi
l'esperimento della revocazione agli effetti civili, porrebbe pur sempre il
problema dell'eventuale successivo contrasto di giudicati tra la pronuncia in
ipotesi liberatoria ai soli effetti civili (emessa in accoglimento della richiesta di
revocazione) e quella dichiarativa della mera estinzione del reato, in precedenza
pronunziata agli effetti penali.
17.1. Infine, la talora richiamata facoltà di rinunziare alla prescrizione:
- da un lato, non fa venire meno lo status di "condannato", sia pure ai soli
effetti civili, del soggetto instante;
- dall'altro, rimette alla insindacabile valutazione del soggetto interessato
una opzione discrezionalmente esercitabile, dalla quale, in difetto di una
25
contraria previsione normativa ed in ossequio al principio di non contraddizione
(che non consente, ad uno stesso tempo, di accordare - ad un fine - una facoltà
esercitabile discrezionalmente, e di far conseguire - a diversi fini - al suo
mancato esercizio effetti pregiudizievoli), non possono derivare pregiudizi.
18. La questione controversa non può porsi con riferimento ad altre cause di
estinzione del reato, diverse dall'amnistia e dalla prescrizione (le uniche
considerata dall'art. 578 cod. proc. pen.).
La disciplina dettata dall'art. 578, che contempla la possibilità del giudice
penale di decidere sulla pretesa civilistica fatta valere nel processo penale, mira
ad evitare che cause estintive del reato, indipendenti dalla volontà delle parti,
possano frustrare il diritto al risarcimento del danno ed alla restituzione in favore
della persona danneggiata dal reato, qualora sia già intervenuta sentenza di
condanna di primo grado, ed è, pertanto, tassativamente limitata soltanto
all'estinzione del reato per amnistia o per prescrizione, non potendo quindi
essere dilatata in via estensiva od analogica ad altra causa estintiva, avendo
carattere speciale (cfr., in generale, sul punto, tra le altre, Sez. 4, n. 31314 del
23/06/2005, Zelli, Rv. 231745, e Sez. 3, n. 3593 del 25/11/2008, dep. 2009,
Orrù, Rv. 242739).
Ne consegue che, in caso di dichiarazione di estinzione del reato per altra
causa, la statuizioni civili vanno revocate (cfr. Sez. 4, n. 31314 del 23/06/2005,
Zelli, Rv. 231745, e Sez. 3, n. 5870 del 02/12/2011, dep. 2012, F., Rv. 251981,
in fattispecie riguardanti l'estinzione del reato per morte del reo; Sez. 2, n.
51800 del 24/09/2013, Palazzolo, Rv. 258062, e Sez. 5, n. 41316 del
16/04/2013, Tucci, Rv. 257935, in fattispecie riguardanti l'estinzione del reato
per remissione di querela; Sez. 3, n. 3593 dei 25/11/2008, dep. 2009, Orrù, Rv.
242739, che, in applicazione del principio, nel dichiarare l'estinzione di un reato
urbanistico per sanatoria, ha revocato le statuizioni civili disposte nei confronti
degli imputati).
Ne consegue ulteriormente, in tali casi, il venir meno dello status di
"condannato" - sia pure ai soli effetti civili - valorizzato ai fini della risoluzione
dell'odierna questione controversa.
19. Si è anticipato che un problema potrebbe in astratto porsi in riferimento
all'impossibilità di esperire la revisione nei confronti di sentenze che abbiano
dichiarato l'estinzione del reato per amnistia o prescrizione senza
contestualmente condannare l'imputato agli effetti civili: anche dal
proscioglimento, in ipotesi conseguente ad un'amnistia oppure all'applicazione
del perdono giudiziale, ovvero all'accertamento del difetto di imputabilità, e ch
26
pertanto postuli un quanto meno implicito accertamento di responsabilità,
potrebbero conseguire effetti pregiudizievoli per l'imputato (ad esempio,
l'applicazione di misure di sicurezza).
19.1. Va, a questo proposito, ricordato che l'art. 1 d.lgs. 10 marzo 2018, n.
21, in attuazione della delega conferita al Governo dall'art. 1, connma 85, lettera
q), I. n. 103/2017, ha introdotto nel codice penale l'art. 3-bis che afferma il
principio della "riserva di codice", in virtù del quale « nuove disposizioni che
prevedono reati possono essere introdotte nell'ordinamento solo se modificano il
codice penale ovvero sono inserite in leggi che disciplinano in modo organico la
materia », nonché numerose disposizioni in precedenza collocate nella
legislazione speciale, riguardanti diverse materie, ed in particolare, tra le misure
di sicurezza patil imoniali, in tema di confisca, l'art. 240-bis, rubricato "Confisca in
casi particolari", che ripropone quanto già previsto dall'art. 12-sexies, d.l. 306 n.
1992, convertito in I. n. 356 del 1992 in tema di confisca obbligatoria (cosiddetta
confisca "allargata" o per sproporzione).
Dal punto di vista processuale, il "nuovo" art. 578-bis cod. proc. pen.
(inserito dal medesimo d. Igs. n. 21 del 2018) ha previsto che, quando sia stata
disposta la confisca prevista dall'art. 240-bis, comnna 1, cod. pen. o da altre
disposizioni di legge (il riferimento evoca le plurime forme di confisca previste
dalle leggi penali speciali), il giudice dell'impugnazione (corte di appello o corte
di cassazione), nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia,
deve operare un accertamento incidentale di responsabilità, valido "ai soli effetti
della confisca, previo accertamento della responsabilità dell'imputato", onde
verificare se essa debba essere disposta/confermata o meno.
La Relazione al d.lgs. n. 21 del 2018 chiarisce che, in tal modo, è stata
estesa alle indicate statuizioni di confisca la disciplina già stabilita dall'art. 578
cod. proc. pen. in relazione alle statuizioni sugli interessi civili nei medesimi casi.
Analoga essendo la disciplina prevista dall'art. 578-bis rispetto a quella
prevista dall'art. 578, e potendo, quindi, ritenersi che anche nei casi previsti dal
citato art. 578-bis all'interessato vada, sia pur incidentalmente, riconosciuto lo
status soggettivo di "condannato" (sia pur limitatamente alle statuizioni di
confisca che conseguano all'incidentale accertamento di responsabilità richiesto
dalla norma), dovrà ritenersi esperibile la revisione anche in tale caso.
19.2. La presenza o meno, contestualmente alla declaratoria di estinzione
del reato, dell'affermazione di responsabilità agli effetti civili, ovvero
dell'accertamento incidentale di responsabilità ai fini della confisca ex art. 578-
bis cod. proc. pen., legittima l'accoglimento di una soluzione diversa quanto
all'esperibilità della revisione contro le sentenze di proscioglimento non
accompagnate dalle predette statuizioni ulteriori.
27
La soluzione prescelta non pone, quindi, sotto questo profilo, problemi di
costituzionalità in riferimento al principio di uguaglianza ex art. 3 della
Costituzione.
20. Va, pertanto, enunciato, ai sensi dell'art. 173, comma 3, disp. att. cod.
proc. pen., il seguente principio di diritto:
«E' ammissibile, sia agli effetti penali che agli effetti civili, la revisione,
richiesta ai sensi dell'art. 630, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., della sentenza
del giudice dell'appello che, decidendo anche sull'impugnazione ai soli effetti
delle disposizioni e dei capi concernenti gli interessi civili, in applicazione della
disciplina dettata dall'art. 578 cod. proc. pen., abbia prosciolto l'imputato per
l'intervenuta prescrizione del reato, e contestualmente confermato la sua
condanna al risarcimento del danno nei confronti della parte civile».
21. Nel caso in esame, pur dovendo ammettersi l'astratta proponibilità
dell'istanza di revisione de qua, tuttavia il ricorso risulta in concreto
inammissibile perché proposto per motivi privi della necessaria specificità, ai
sensi dell'art. 581, comma 1, cod. proc. pen., in quanto reiterativi, più o meno
pedissequamente, di una prospettazione già respinta dalla Corte di appello (con
le cui decisive argomentazioni il ricorrente di fatto non si è confrontato) e,
comunque, manifestamente infondati.
Deve premettersi che la Corte di appello erra quando afferma che le prove
dedotte dall'instante non sarebbero valorizzabili ai fini della proposta istanza di
revisione, in quanto già in precedenza deducibili e comunque riguardanti
circostanze di fatto già oggetto di accertamento, pacifico essendo che esse
sarebbero, secondo la prospettazione dell'instante, pur sempre sopravvenute e
quindi, in precedenza, non soltanto non dedotte, ma neppure deducibili.
Questa Corte (Sez. U, n. 624 del 26/09/2001, dep. 2002, Pisano, Rv.
220443) è ormai ferma nel ritenere, infatti, che, in tema di revisione, per "prove
nuove", rilevanti a norma dell'art. 630, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., ai fini
dell'ammissibilità della relativa istanza, devono intendersi:
- sia le prove sopravvenute alla sentenza definitiva di condanna;
- sia quelle scoperte successivamente ad essa;
- sia quelle non acquisite nel precedente giudizio;
- sia quelle acquisite nel precedente giudizio, ma non valutate neppure
implicitamente (purché non si tratti di prove dichiarate inammissibili o ritenute
superflue dal giudicante).
Non assume all'uopo rilievo la circostanza che l'omessa conoscenza della
"prova nuova" da parte del giudicante sia imputabile a comportamento
28
,
processuale negligente, od addirittura doloso, del condannato, poiché tali ultime
circostanze potrebbero al più essere prese in considerazione ai fini del
riconoscimento del diritto alla riparazione dell'errore giudiziario (Sez. U, n. 624
del 26/09/2001, dep. 2002, Pisano, cit.; conf. Sez. 3, n. 13037 del 18/12/2013,
dep. 2014, Segreto, Rv. 259739, per la quale, nel giudizio di revisione, la
richiesta è ammissibile anche se fondata su prove preesistenti o addirittura
colpevolmente non indicate nel giudizio di cognizione di cui si invoca la rilettura,
purché le stesse non siano state oggetto, nemmeno implicitamente, di pregressa
valutazione).
Convincente ed incensurabile (perché sorretta da argomentazioni esaurienti,
logiche e non contraddittorie, e, pertanto, esenti da vizi rilevabili in questa sede)
appare, al contrario, l'ulteriore considerazione della Corte di appello, riguardante
la non decisività delle prove asseritamente "nuove" indicate dal Milanesi a
sostegno della proposta istanza di revisione, poiché l'effettivo accertamento dei
fatti che esse dovrebbero, secondo la prospettazione del ricorrente, dimostrare,
non farebbe comunque venire meno la corresponsabilità dell'imputato in ordine
al reato de quo, permanendone la personale posizione di garanzia, giudicata
riferibile all'evento dannoso, poi effettivamente verificatosi ai danni del
lavoratore che aveva patito le lesioni in contestazione, ed assunta di fatto per
essersi ingerito nella gestione operativa dell'attività edilizia de qua.
22. La declaratoria d'inammissibilità del ricorso in toto comporta, ai sensi
dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Ai sensi della medesima disposizione, come interpretata dalla giurisprudenza
costituzionale (Corte cost., n. 186 del 2000), ritenuto che il contenuto dei motivi
evidenzia che il Milanesi ha proposto il ricorso determinando la causa
d'inammissibilità per colpa, ed esclusa la non percepibilità al momento della
proposizione del ricorso dell'errore tecnico causativo della sua inammissibilità
(non dovuto ad imprevedibili mutamenti di giurisprudenza, o comunque a
variazioni del criterio di apprezzamento della rilevata causa d'inammissibilità), il
ricorrente va anche condannato al pagamento di una sanzione pecuniaria in
favore della Cassa delle ammende, il cui importo va determinato, tenuto conto
della condotta del destinatario della sanzione e dell'entità della rilevata colpa,
desumibile dalla rilevata causa d'inammissibilità, in Euro duemila.
29
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali ed al versamento della somma di euro duemila alla Cassa delle
ammende.
Così deciso il 25/10/2018.
nente estensore ) Il Presidente
Se s el rani • om nico Carcano
-
5M/INE UN 111~ Depositato in Cmneelleria
02 2.9 9 Roma, n
30