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CORSO DI DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA MATERIALE INTEGRATIVO PER LA PREPARAZIONE DELL’ESAME IL RAPPORTO TRA IL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA E IL DIRITTO NAZIONALE DAL PUNTO DI VISTA DEGLI INDIVIDUI a cura di GAETANO VITELLINO

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CORSO DI DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA

MATERIALE INTEGRATIVO PER LA PREPARAZIONE DELL’ESAME

IL RAPPORTO TRA IL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA E IL DIRITTO

NAZIONALE DAL PUNTO DI VISTA DEGLI INDIVIDUI

a cura di

GAETANO VITELLINO

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INDICE SOMMARIO I. LA DIRETTA EFFICACIA DELLE NORME DELL’UNIONE EUROPEA 1. Considerazioni introduttive 2. L’affermazione della dottrina degli effetti diretti e i suoi fondamenti teorici secondo la Corte di giustizia

2.1. Gli individui come soggetti dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea: la sentenza Van Gend & Loos 2.2. Il fondamento della diretta efficacia delle direttive 2.3. Il fondamento della diretta efficacia delle decisioni

3. I presupposti per la diretta efficacia delle norme dell’Unione europea 3.1. Con riguardo alle norme del diritto primario 3.2. Con riguardo alle norme contenute in direttive 3.3. Con riguardo alle decisioni

4. L’intensità dell’efficacia diretta delle norme dell’Unione europea (e i suoi limiti) 4.1. L’esclusione degli effetti diretti «orizzontali» delle direttive 4.2. L’esclusione degli effetti diretti «verticali discendenti» delle direttive 4.3. L’estensione della diretta efficacia «verticale» delle direttive: l’ampia nozione di «soggetti pubblici» 4.4. Effetti diretti verticali delle direttive e ripercussioni negative per altri privati: a) le c.d. situazioni triangolari 4.5. (segue): b) La facoltà per un privato di chiedere, in una controversia che lo opponga a un altro privato, la disapplicazione delle regole nazionali adottate in violazione della procedura di controllo prevista da una direttiva 4.6. L’esclusione degli effetti diretti «orizzontali» delle decisioni rivolte agli Stati membri

II. L’OBBLIGO DI INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO NAZIONALE IN SENSO CONFORME AL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA 1.Fondamento e portata del principio dell’interpretazione in senso conforme nella giurisprudenza della Corte di giustizia 2. L’estensione dell’obbligo di interpretazione in senso conforme alle decisioni quadro adottate nell’ambito del titolo VI del vecchio trattato UE 3. I limiti all’obbligo dell’interpretazione in senso conforme

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III. LA RESPONSABILITÀ DEGLI STATI MEMBRI PER I DANNI CAUSATI AI SINGOLI DALLA VIOLAZIONE DEL DIRITTO DELL’UNIONE EU ROPEA 1. Fondamento e portata del principio della responsabilità degli Stati membri per i danni derivanti dalla violazione degli obblighi posti dal diritto dell’Unione 2.Le condizioni necessarie perché sorga la responsabilità degli Stati membri

2.1. Considerazioni generali 2.2. Il fatto generatore del danno: la violazione «sufficientemente caratterizzata» (cioè, «grave e manifesta») di norme dell’Unione

IV. LA TUTELA GIURISDIZIONALE EFFETTIVA DEI DIRITTI CONFERITI AI SINGOLI DAL DIRITTO DELL’UNIONE 1. Il diritto alla tutela giurisdizionale effettiva quale principio generale del diritto dell’Unione 2. Il principio dell’autonomia procedurale degli Stati membri 3. I limiti all’autonomia procedurale: i principi di equivalenza e di effettività V. IL PRIMATO DEL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA SUL DIRITTO NAZIONALE 1. L’orientamento della Corte di giustizia 2. La posizione del Trattato di Lisbona

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CAPITOLO I

LA DIRETTA EFFICACIA DELLE NORME DELL’UNIONE EUROPEA

1. Considerazioni introduttive Tra i tratti che contraddistinguono l’Unione europea, e già prima le Comunità, nel

panorama delle organizzazioni internazionali, vi è indubbiamente la creazione di una Corte di giustizia dell’Unione europea – che, a mente del nuovo art. 19 TUE, comprende la Corte di giustizia tout court, il Tribunale e i Tribunali specializzati – alla quale è affidato il compito del controllo giurisdizionale onde assicurare il rispetto del principio dello Stato di diritto, eretto a valore fondante dell’Unione dal nuovo art. 2 TUE. Ancor più peculiare, in tale contesto, è poi il riconoscimento anche in capo agli individui del potere di adire gli organi giurisdizionali europei. L’accesso dei singoli a tali organi incontra tuttavia importanti limiti. Per citare solo gli esempi più importanti, essi possono innanzitutto agire contro l’Unione per il risarcimento dei danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni (artt. 268 e 340 TFUE). Essi possono inoltre ricorrere per l’annullamento di atti dell’Unione, ma solo se questi siano stati adottati nei loro confronti oppure li riguardino «direttamente e individualmente» (art. 263 TFUE). I singoli non possono invece promuovere un ricorso per infrazione ex art. 258 ss. TFUE contro uno Stato membro, volto all’accertamento di una violazione del diritto dell’Unione, né gli organi giurisdizionali dell’Unione hanno d’altronde competenza a giudicare delle azioni di risarcimento danni asseritamente subiti da un individuo in conseguenza della violazione di una norma dell’Unione da parte di uno Stato membro.

Dall’angolo visuale dell’ordinamento internazionale, i summenzionati limiti all’accesso degli individui alle Corti dell’Unione non può sorprendere, atteso che, di norma, gli obblighi internazionali gravano sugli Stati in quanto soggetti di diritto internazionale e incidono invece solo indirettamente sulla sfera soggettiva individuale. Questa impostazione classica non vale, tuttavia, per l’ordinamento dell’Unione europea il quale riconosce come propri soggetti di diritto gli individui oltre agli Stati membri, in ciò rivelandosi uno dei più rilevanti aspetti del carattere sui generis di tale ordinamento, affermato dalla Corte di giustizia sin dalle sue più risalenti pronunce (v. infra, sentenza Van Gend & Loos). In questa prospettiva, dunque, siffatte restrizioni potrebbe apparire un’anomalia, in contraddizione con il principio di legalità e con il diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale effettiva riconosciuto tra l’altro dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Quest’impressione sarebbe tuttavia errata poiché non

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tiene conto di un’altra delle caratteristiche peculiari del modo di essere dell’ordinamento dell’Unione, ossia la sua integrazione con gli ordinamenti nazionali, che si manifesta anche con riguardo all’esercizio della funzione giurisdizionale.

Il controllo del rispetto del diritto dell’Unione non è, infatti, riservato alla Corte di giustizia dell’Unione, la quale può essere investita soltanto nei casi e nelle forme contemplate dai Trattati, in ossequio al principio di attribuzione delle competenze (artt. 5 e 13 par. 2 TUE). In tutti gli altri casi, il controllo giurisdizionale dell’osservanza del diritto dell’Unione, in particolare da parte degli Stati membri, è affidato ai giudici nazionali che operano, come efficacemente affermato, quali «giudici dell’Unione di diritto comune». È in questa prospettiva che si coglie pienamente il senso di quell’importantissimo strumento di cooperazione tra giudici nazionali e Corte di giustizia rappresentato dal meccanismo del rinvio pregiudiziale disciplinato ora all’art. 267 TFUE (ma già previsto dall’originario art. 177 CEE, divenuto poi art. 234 CE). Nell’affidare alla Corte il fondamentale ruolo di custode dell’uniformità del diritto dell’Unione nell’interpretazione giurisprudenziale, infatti, la previsione di un tale strumento presuppone che il compito dell’applicazione quotidiana del diritto dell’Unione incomba su tutti i giudici nazionali. Esso trova peraltro diretto fondamento nell’ordinamento dell’Unione in forza del principio generale di leale cooperazione, elaborato dalla Corte di giustizia a partire dall’art. 10 CE, abrogato dal Trattato di Lisbona e parzialmente trasfuso nel nuovo art. 4 par. 3 TUE, il quale impone a tutti gli organi degli Stati membri, ivi compresi gli organi giurisdizionali, il dovere tra l’altro di garantire la piena effettività del diritto dell’Unione. I giudici nazionali, agendo appunto in qualità di «giudici dell’Unione di diritto comune», devono dunque conoscere e applicare le norme dell’Unione allorché esse vengano in rilievo per dirimere le controversie delle quali sono investiti nell’esercizio della loro funzione giurisdizionale, civile, penale o amministrativa che sia. In altre parole, il principio iura novit curia riguarda non solo le norme di diritto nazionale ma anche quelle dell’Unione e comporta pertanto, in capo ai giudici nazionali, il delicato compito di assicurare l’armonia tra i due ordinamenti, in conformità ai principi dettati dalla Corte di giustizia che saranno esaminati in prosieguo.

Procedendo oltre lungo questa linea di ragionamento, è evidente che l’obbligo per il giudice nazionale di applicare il diritto dell’Unione sopra delineato sussiste anche quando la lite della quale sia chiamato a giudicare coinvolge un individuo. Più specificamente, ciò può verificarsi con riguardo alle controversie civilistiche tra soggetti privati oppure alle controversie che vedano contrapposti lo Stato o la pubblica amministrazione ai soggetti privati o, infine, nel caso di esercizio dell’azione penale nei confronti delle persone imputate di un reato. In tutti questi casi, l’affermazione del potere/dovere del giudice nazionale di conoscere e applicare il diritto dell’Unione europea implica che quest’ultimo possa essere fatto valere in giudizio o da parte di un individuo, allorché un suo interesse trovi tutela in quell’ordinamento, oppure nei suoi confronti, allorché l’obbligo che si assume egli abbia violato discenda da una norma dell’Unione. Ora – ed è questo l’ulteriore passaggio logico del ragionamento – la riconosciuta idoneità delle norme dell’Unione a venire in rilievo davanti al giudice nazionale anche quando si debbano dirimere controversie che vedono coinvolti gli individui importa necessariamente, sul piano sostanziale, che tali norme sono in grado di disciplinare direttamente un rapporto giuridico facente capo a un soggetto privato. Dalla prospettiva processuale o rimediale dalla quale

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muove – si potrebbe dire «necessariamente» – la Corte di giustizia si è così passati a quella sostanziale, ossia al riconoscimento del diritto dell’Unione quale fonte «diretta» di situazioni giuridiche soggettive, attive o passive, facenti capo agli individui in quanto soggetti dell’ordinamento dell’Unione e non più soltanto degli ordinamenti nazionali.

Alla luce di quanto sopra, si può a questo punto fornire una definizione, che ne colga la

duplice portata, processuale da un lato e sostanziale dall’altro, del concetto di «diretta efficacia» o «effetto diretto» delle norme dell’Unione, al quale corrispondono altre espressioni in buona sostanza equipollenti cui fanno ricorso la stessa Corte di giustizia e la dottrina, quali in particolare quelle di «diretta applicabilità», «applicabilità immediata» o «effetto immediato».

Con tale nozione si intende, in primo luogo, l’idoneità delle norme dell’Unione, allorché ricorrano determinate condizioni, a creare «direttamente e immediatamente», vale a dire a prescindere da ogni intervento da parte degli Stati membri, posizioni giuridiche soggettive di vantaggio (semplificando, diritti soggettivi) o di svantaggio (ossia, sempre semplificando, obblighi) in capo ai «singoli», ossia alle persone fisiche o giuridiche. È questa quella che possiamo definire come la «dimensione sostanziale» della diretta efficacia delle norme dell’Unione.

Ad essa si aggiunge poi la «dimensione rimediale o processuale», che consiste nella possibilità per l’individuo di invocare tali norme nei confronti di tutti gli organi dello Stato, e in particolare dinanzi ai giudici nazionali: il singolo al quale una norma dell’Unione attribuisca un diritto, vuoi nei confronti dello stesso Stato oppure di un altro singolo, può pretendere dai giudici nazionali la tutela giurisdizionale di tale diritto, invocando la diretta applicazione delle norme dell’Unione che ne costituiscono la fonte diretta.

Invero, come abbiamo esposto sopra, poiché non è contemplato dai Trattati il potere in capo agli individui di fare ricorso diretto agli organi giurisdizionali europei né contro uno Stato membro né nei confronti di un altro singolo per far valere il rispetto delle situazioni giuridiche soggettive nei loro confronti che trovino diretto fondamento nell’ordinamento dell’Unione, tale compito spetta ai giudici nazionali, chiamati così non solo a dare effettiva e adeguata tutela giurisdizionale a tali situazioni giuridiche soggettive (v. infra, capitolo IV) ma anche ad assicurare la piena efficacia del diritto dell’Unione. Come si è detto all’inizio, tuttavia, nello svolgere tale compito il giudice nazionale trovano un indispensabile ausilio nel meccanismo di cooperazione giudiziaria previsto dall’art. 267 TFUE: quando, per la risoluzione la controversia dinanzi ad esso pendente, venga in rilievo una qualsiasi norma di diritto dell’Unione, egli può – o deve, qualora si tratti di giurisdizione di ultima istanza, «avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno» – rinviare in via pregiudiziale alla Corte di giustizia una questione relativa all’interpretazione della norma dell’Unione in oggetto, potendo tra l’altro chiedere se essa sia idonea a produrre effetti diretti e, quindi, a essere direttamente applicata dal giudice a quo.

La dottrina degli effetti diretti delle norme dell’Unione è di pura elaborazione

giurisprudenziale. Essa è diretto corollario del principio di autonomia affermato nel leading case Van Gend & Loos del 1963, dove la Corte di giustizia ha fatto due fondamentali

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osservazioni: la prima è che il sistema giuridico dell’Unione è un ordinamento di nuovo genere, distinto e autonomo dagli ordinamenti degli Stati membri, avente proprie fonti, soggetti e garanzie; la seconda osservazione è che soggetti giuridici di tale nuovo ordinamento non sono soltanto gli Stati membri ma anche i singoli, il che significa che la base sociale dell’ordinamento dell’Unione e di quelli nazionali viene, almeno in parte, a coincidere. Deve inoltre tenersi conto del principio di integrazione, che la Corte ha affermato nell’altra fondamentale sentenza Costa c. ENEL del 1964 per trarne come corollario il principio della prevalenza del diritto dell’Unione su quello nazionale. Da esso deriva infatti che gli strumenti di garanzia, specie processuale, previsti dagli ordinamenti nazionali devono essere utilizzati per garantire la piena efficacia delle norme dell’Unione.

Di seguito sono esaminate, sulla base della giurisprudenza dell’Unione, i tre aspetti

essenziali della teoria della diretta efficacia, che si traducono in altrettante questioni che si pongono in ordine logico successivo: (1) il fondamento teorico della dottrina, con particolare riguardo alle direttive e alle decisioni indirizzate agli Stati membri; (2) le condizioni che deve presentare una norma dell’Unione per essere in grado di produrre effetti diretti; (3) la portata (e i limiti) della diretta efficacia delle norme dell’Unione, in particolar modo di quelle contenute nelle direttive e nelle decisioni.

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2. L’affermazione della dottrina degli effetti diretti e i suoi fondamenti teorici secondo la Corte di giustizia

2.1. Gli individui come soggetti dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea: la sentenza Van Gend & Loos.

CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Donner, avv. gen. Roemer), sentenza 5 febbraio 1963 nella

causa 26/62, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Tariefcommissie (Paesi Bassi) nella causa tra NV Algemene Transport - en Expeditie Onder - neming Van Gend & Loos e Amministrazione olandese delle imposte (in Raccolta, p. 3). La libera circolazione delle merci costituisce una delle libertà economiche fondamentali sulle

quali si fonda il mercato unico europeo, il quale costituisce a sua volta, sin dalle origini, uno degli obiettivi fondamentali dell’Unione europea. La libertà di circolazione delle merci comporta, in particolare, il divieto, negli scambi di beni tra gli Stati membri, dei dazi doganali all’importazione e all’esportazione e di qualsiasi tassa di effetto equivalente (artt. 12 ss. CEE, divenuti poi artt. 25 ss. CE e ora artt. 30 ss. TFUE). A tal fine, l’art. 12 del trattato istitutivo della Comunità economica europea, nella versione originaria, imponeva agli Stati membri l’obbligo di astenersi, con effetto a

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partire dalla data di entrata in vigore del trattato di Roma del 1957 (1° gennaio 1958), sia dall’introdurre nuovi dazi doganali (o tasse di effetto equivalente), sia dall’aumentare quelli esistenti (c.d. clausola di standstill)1.

La società di diritto olandese Van Gend & Loos aveva importato nei Paesi Bassi una partita di ureoformaldeide proveniente dalla Germania, alla quale era stato applicato dall’amministrazione olandese delle imposte un dazio d’importazione pari all’8% del valore della merce. Poiché le medesime merci erano sottoposte, alla data di entrata in vigore del trattato CEE, a un dazio del 3%, la società riteneva che il dazio applicatole fosse in contrasto con l’art. 12 CEE e proponeva pertanto reclamo dinanzi al giudice olandese competente. Per risolvere la controversia, il Tariefcommissie (giudice amministrativo olandese di ultima istanza per le cause tributarie) rimetteva alla Corte di giustizia, ai sensi dell’art. 177 CEE (divenuto poi art. 234 CE e ora art. 267 TFUE), due questioni pregiudiziali d’interpretazione della suddetta disposizione comunitaria, la prima delle quali relativa alla sua idoneità a produrre effetti diretti nell’ordinamento giuridico olandese. Nel rispondere affermativamente alla questione, la Corte di giustizia ha addotto le seguenti motivazioni:

«La prima questione deferita alla Corte dalla Tariefcommissie consiste nello stabilire se

l’art. 12 del trattato abbia efficacia immediata negli ordinamenti interni degli Stati membri, attribuendo ai singoli dei diritti soggettivi che il giudice nazionale ha il dovere di tutelare.

«Per accertare se le disposizioni di un trattato internazionale abbiano tale valore, si deve aver riguardo allo spirito, alla struttura ed al tenore di esso.

«Lo scopo del trattato CEE, cioè l’instaurazione di un mercato comune il cui funzionamento incide direttamente sui soggetti della Comunità, implica che esso va al di là di un accordo che si limitasse a creare degli obblighi reciproci fra gli Stati contraenti.

«Ciò è confermato dal preambolo del trattato il quale, oltre a menzionare i governi, fa richiamo ai popoli e, più concretamente ancora, dall’instaurazione di organi investiti istituzionalmente di poteri sovrani da esercitarsi nei confronti sia degli Stati membri sia dei loro cittadini. Va poi rilevato che i cittadini degli Stati membri della Comunità collaborano, attraverso il Parlamento europeo e il Comitato economico e sociale, alle attività della Comunità stessa. Oltracciò, la funzione attribuita alla Corte di giustizia dall’art. 177, funzione il cui scopo è di garantire l’uniforme interpretazione del trattato da parte dei giudici nazionali, costituisce la riprova del fatto che gli Stati hanno riconosciuto al diritto comunitario un’autorità tale da poter esser fatto valere dai loro cittadini davanti a detti giudici. In considerazione di tutte queste circostanze si deve concludere che la Comunità costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati hanno

1 La clausola di standstill di cui all’art. 12 CEE, a mente del quale «Gli Stati membri si astengono

dall’introdurre tra loro nuovi dazi doganali all’importazione o all’esportazione o tasse di effetto equivalente e dall’aumentare quelli che applicano nei loro rapporti commerciali reciproci», si accompagnava alla previsione dell’obbligo per gli Stati membri di abolire progressivamente i dazi doganali e le tasse di effetto equivalente durante il periodo transitorio (artt. 13-17 CEE). Con il trattato di Amsterdam del 1997, che ha semplificato il trattato istitutivo della Comunità europea, sia abrogando le disposizioni divenute obsolete per la scadenza dei termini previsti con riguardo a obiettivi ormai raggiunti sia rinumerando gli articoli, tale complesso di disposizioni è stato sostituito dall’art. 25 CE (ora art. 30 TFUE), che vieta in termini assoluti i dazi doganali fra gli Stati membri, e le tasse di effetto equivalente.

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rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani, ordinamento che riconosce come soggetti, non soltanto gli Stati membri ma anche i loro cittadini .

«Pertanto il diritto comunitario, indipendentemente dalle norme emananti dagli Stati membri, nello stesso modo in cui impone ai singoli degli obblighi, attribuisce loro dei diritti soggettivi . Si deve ritenere che questi sussistano, non soltanto nei casi in cui il trattato espressamente li menziona, ma anche come contropartita di precisi obblighi imposti dal trattato ai singoli, agli Stati membri o alle istituzioni comunitarie.

«Tenuto conto della struttura del trattato in materia di dazi doganali e di tasse di effetto equivalente, va rilevato che l’art. 9 (CEE, poi art. 23 CE e ora art. 28 TFUE) – secondo il quale la Comunità è fondata su un’unione doganale – sancisce come principio fondamentale il divieto di tali dazi e tasse. Questa disposizione, collocata all’inizio della seconda parte del trattato che definisce i “fondamenti della Comunità”, viene concretata e attuata dall’art. 12.

«Il disposto dell’art. 12 pone un divieto chiaro e incondizionato che si concreta in un obbligo non già di fare, bensì di non fare. A questo obbligo non fa riscontro alcuna facoltà degli Stati di subordinarne l’efficacia all’emanazione di un provvedimento di diritto interno. Il divieto dell’art. 12 è per sua natura perfettamente atto a produrre direttamente degli effetti sui rapporti giuridici intercorrenti fra gli Stati membri ed i loro amministrati.

«Per la sua attuazione, quindi, l’art. 12 non richiede interventi legislativi degli Stati. Il fatto, poi, che questo stesso articolo designi gli Stati membri come soggetti dell’obbligo di non fare non significa affatto che gli amministrati non se ne possano avvalere. L’argomento che i tre governi che hanno depositato osservazioni scritte traggono dagli artt. 169 e 170 del trattato (CEE, poi artt. 226 e 227 CE e ora artt. 258 e 259 TFUE) è del resto infondato. La circostanza che gli or citati articoli consentano alla Commissione e agli Stati membri di convenire davanti alla Corte lo Stato che sia venuto meno ai suoi obblighi non implica infatti che ai singoli sia precluso di far valere gli obblighi stessi davanti al giudice nazionale, precisamente come quando il trattato fornisce alla Commissione i mezzi per imporre agli amministrati l’osservanza dei loro obblighi, non esclude con ciò la possibilità che, nelle controversie fra singoli davanti ad un giudice nazionale, questi possano far valere la violazione di tali obblighi.

«Ove le garanzie contro la violazione dell’art. 12 da parte degli Stati membri venissero limitate a quelle offerte dagli artt. 169 e 170, i diritti individuali degli amministrati rimarrebbero privi di tutela giurisdizionale dirett a. Inoltre, il ricorso a detti articoli rischierebbe di essere inefficace qualora dovesse intervenire solo dopo l’esecuzione di un provvedimento interno adottato in violazione delle norme del trattato. La vigilanza dei singoli, interessati alla salvaguardia dei loro diritti, costituisce d’altronde un efficace controllo che si aggiunge a quello che gli artt. 169 e 170 affidano alla diligenza della Commissione e degli Stati membri».

2.2. Il fondamento della diretta efficacia delle direttive. Per quanto riguarda le direttive, occorre innanzitutto tenere presente che il problema

della loro diretta efficacia all’interno degli ordinamenti nazionali si pone soltanto allorché uno Stato membro sia rimasto inadempiente all’obbligo di dare attuazione a una direttiva entro il termine a tal uopo dalla stessa fissato, ossia nell’ipotesi (patologica) di tardiva o

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non corretta attuazione della direttiva. In un primo momento, la Corte di giustizia ha riconosciuto che possano produrre effetti

diretti le disposizioni di quelle direttive che si limitano a confermare, chiarendone la portata, un obbligo già sancito da norme di diritto primario di per sé direttamente efficaci (v. infra, sentenza SACE del 1970). Solo successivamente la diretta efficacia delle norme contenute in direttive non tempestivamente o non correttamente attuate è stata invece ammessa in via generale. A tal fine la Corte ha, in primo luogo, tratto argomenti dal carattere obbligatorio per lo Stato membro cui è rivolta della direttiva (a mente dell’art. 249 CE, divenuto art. 288 TFUE, infatti, «la direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta», ossia impone obblighi giuridici allo stesso), il cui effetto utile sarebbe pregiudicato se i singoli non ne potessero far valere l’efficacia, invocando un diritto soggettivo come contropartita dell’obbligo dello Stato (v. infra sentenza van Duyn del 1974). La giurisprudenza più recente ha invocato un secondo ordine di argomenti, che si richiamano al principio dell’estoppel: allo Stato membro che non abbia attuato la direttiva deve essere precluso, infatti, di riversare su terzi (i singoli) le conseguenze del proprio inadempimento, ciò che si verificherebbe qualora lo Stato potesse opporre ai singoli il proprio inadempimento per negare i diritti che la direttiva è volta a creare in capo a essi (v. infra, sentenza Ratti del 1979).

Questo tipo di argomenti pone l’accento sul carattere rimediale o sanzionatorio dell’inadempimento dello Stato proprio del riconoscimento degli effetti diretti delle direttive. Esso spiega, peraltro, quella giurisprudenza secondo la quale l’effetto diretto di una direttiva costituisce una «garanzia minima» di tutela per i singoli, che non esime pertanto lo Stato cui è rivolta dall’obbligo di darle corretta e tempestiva attuazione: «questa garanzia minima, che deriva dal carattere vincolante dell’obbligo imposto dalle direttive agli Stati membri, non può servire a giustificare la mancata adozione in tempo utile, delle misure di attuazione adeguate allo scopo di ciascuna direttiva (v. tra le tante la sentenza 25 luglio 1991, in causa C-208/90, Emmot c. Minister for Social Welfare e Attorney General, in Raccolta, p. I-4269, punto 20).

CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Lecourt, avv. gen. Roemer), sentenza 17 dicembre 1970 nella causa 33/70, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale di Brescia (Italia) nella causa SACE s.p.a. contro Ministero delle finanze della Repubblica italiana (in Raccolta, p. 1213). Come si è osservato in precedenza (v. supra sub sentenza Van Gend & Loos), la libera

circolazione delle merci comporta tra l’altro l’abolizione fra gli Stati membri dei dazi doganali e delle tasse di effetto equivalente. A tal fine, l’art. 13 par. 2 CEE (poi abrogato dal trattato di Amsterdam, per aver esaurito la sua funzione) prevedeva in particolare che gli Stati membri abolissero progressivamente le tasse di effetto equivalente a dazi doganali secondo il ritmo determinato dalla Commissione mediante direttive. Ciò doveva inizialmente avvenire durante il periodo transitorio di dodici anni dall’entrata in vigore del trattato di Roma del 1957, fissato dall’art. 8 CEE (anch’esso successivamente abrogato) per la progressiva instaurazione del mercato comune, ma la decisione del Consiglio n. 66/532 del 26 luglio 1966 (c.d. d’acceleramento) aveva

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anticipato al 1° luglio 1968 la data per la definitiva abolizione dei dazi doganali. Con direttiva n. 68/31 del 22 dicembre 1967, la Commissione imponeva all’Italia la graduale

riduzione dei diritti per servizi amministrativi, pari allo 0,50% sul valore delle merci importate dall’estero, istituiti con legge 15 giugno 1950 n. 330, fino alla loro totale abolizione entro il 1° luglio 1968. La direttiva non era però tempestivamente e correttamente recepita in Italia. La società italiana SACE, avendo dovuto in conseguenza di ciò pagare su merci importate in Italia da vari Stati membri i relativi diritti per servizi amministrativi, agiva dinanzi al Tribunale di Brescia per il rimborso delle somme riscosse, a suo avviso indebitamente, dallo Stato italiano. Con rinvio pregiudiziale, il Tribunale di Brescia chiedeva quindi alla Corte di giustizia se gli obblighi posti dall’art. 13 par. 2 CEE e dalla direttiva 68/31 fossero direttamente efficaci, con conseguente attribuzione ai singoli del diritto di non vedersi imporre diritti per servizi amministrativi sui beni importati in Italia.

La Corte di giustizia riconosce innanzitutto la diretta efficacia del combinato disposto degli artt. 9 e 13 par. 2 del trattato, che «implica, al più tardi a partire dalla fine del periodo transitorio – per quanto riguarda il complesso delle tasse di effetto equivalente ai dazi doganali all’importazione – un divieto chiaro e preciso di riscuotere dette tasse, divieto cui non si accompagna alcuna riserva degli Stati di subordinare la sua attuazione ad un atto positivo di diritto interno o ad un intervento delle istituzioni della Comunità. Esso e perfettamente idoneo, per la sua stessa natura, a produrre direttamente effetti nei rapporti giuridici fra gli Stati membri e i loro cittadini. Di conseguenza, a partire dalla fine del periodo transitorio, dette disposizioni attribuiscono ai singoli, per quanto riguarda il complesso delle tasse d’effetto equivalente cui si riferiscono, dei diritti che i giudici nazionali devono tutelare» (punto 10 della sentenza). Ricordando che la direttiva 68/31 ha legittimamente anticipato al 1° luglio 1968 la scadenza per la completa abolizione della tassa italiana e ritenuto quindi che l’efficacia della direttiva vada valutata alla luce del complesso normativo comprendente gli artt. 9 e 13 par. 2 CEE e la decisione 66/532, la Corte risponde affermativamente al quesito postole:

«14. La fissazione, da parte della Commissione, in forza della decisione 66/532, di una data

anteriore alla fine del periodo transitorio non ha modificato sotto alcun aspetto la natura dell’obbligo imposto agli Stati membri dagli artt. 9 e 13 par. 2 del trattato (CEE). Quest’obbligo è quindi atto a produrre effetti diretti, come li avrebbe prodotti alla fine del periodo transitorio.

«15. La direttiva 68/31, il cui scopo è d’impartire a uno Stato membro una data limite per l’adempimento di un obbligo comunitario, non riguarda solo i rapporti fra la Commissione e detto Stato, ma implica conseguenze giuridiche che possono essere fatte valere e dagli altri Stati membri essi pure interessati alla sua esecuzione, e dai singoli qualora, per sua natura, la disposizione che sancisce detto obbligo sia direttamente efficace, come lo sono gli artt. 9 e 13 del trattato. (…)

«18. Pertanto l’obbligo di abolire il diritto per servizi amministrativi, stabilito dalla direttiva 68/31 della Commissione in data 22 dicembre 1967, in relazione agli artt. 9 e 13 par. 2 CEE ed alla decisione del Consiglio n. 66/532, è direttamente efficace nei rapporti fra lo Stato membro, destinatario della direttiva, e i suoi cittadini e attribuisce loro, a partire dal 1° luglio 1968, dei diritti che i giudici nazionali devono tutelare».

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CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Lecourt, avv. gen. Mayras), sentenza 4 dicembre 1974 nella causa 41/74, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla High Court of Justice, Chancery Division (Regno Unito) nella causa Van Duyn contro Home Office (in Raccolta, p. 1337). La direttiva n. 64/221/CEE del 25 febbraio 1964, «per il coordinamento dei provvedimenti

speciali riguardanti il trasferimento e il soggiorno degli stranieri, giustificati da motivi d’ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica», adottata dal Consiglio sulla base dell’art. 56 par. 2 CEE (poi art. 46 par. 2 CE e ora art. 52 par. 2 TFUE) allo scopo di dare attuazione alla libera circolazione delle persone, ivi compresi i lavoratori, prevedeva all’art. 3 par. 1 che «i provvedimenti di ordine pubblico o di pubblica sicurezza devono essere adottati esclusivamente in relazione al comportamento personale dell’individuo nei riguardi del quale essi sono applicati».2

La signora Van Duyn, cittadina olandese, si era visto negare dall’Home Office il permesso d’ingresso nel Regno Unito per assumere un impiego di segretaria presso la Church of Scientology, diniego giustificato a motivo del fatto che il governo britannico riteneva dannose le attività svolte da tale organizzazione. Adita della questione, la High Court (Chancery Division) poneva alla Corte di giustizia tre questioni pregiudiziali, la seconda delle quali riguardava segnatamente la diretta efficacia dell’art. 3 par. 1 della direttiva n. 64/221/CEE. Nel risolvere positivamente la questione, la Corte di giustizia così in particolare motivava:

«11. Il Regno Unito ha osservato che, se l’art. 189 (CEE; poi art. 249 CE e ora art. 288

TFUE) attribuisce ai regolamenti, alle direttive e alle decisioni una diversa efficacia, è giusto presumere che il Consiglio, emanando una direttiva invece di un regolamento, abbia inteso adottare un provvedimento con effetti diversi da quelli d’un regolamento, vale a dire non direttamente efficace.

«12. Tuttavia, se è vero che i regolamenti, in forza dell’art. 189, sono direttamente applicabili e quindi atti, per natura, a produrre effetti diretti, da ciò non si può inferire che le altre categorie di atti contemplate dal suddetto articolo non possano mai produrre effetti analoghi.

«Sarebbe in contrasto con la forza obbligatoria attribuita dall’art. 189 alla direttiva l’escludere, in generale, la possibilità che l’obbligo da essa imposta sia fatto valere dagli eventuali interessati.

«In particolare, nei casi in cui le autorità comunitarie abbiano, mediante direttiva, obbligato gli Stati membri ad adottare un determinato comportamento, la portata dell’atto sarebbe ristretta se in singoli non potessero far valere in giudizio la sua efficacia e se i giudici nazionali non potessero prenderlo in considerazione come norma di diritto comunitario.

«D’altra parte l’art. 177, che autorizza i giudici nazionali a domandare alla Corte di giustizia di pronunziarsi sulla validità e sull’interpretazione di tutti gli atti compiuti dalle istituzioni, senza distinzione, implica il fatto che singoli possano far valere tali atti dinanzi

2 La direttiva n. 64/221/CEE è stata abrogata dalla direttiva 2004/38/CE del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei

cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, il cui art. 27 par. 2 ricomprende la previsione di cui all’art. 3 par. 1 della direttiva del 1964.

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ai detti giudici. È quindi opportuno esaminare, caso per caso, se la natura, lo spirito e la lettera della disposizione di cui trattasi consentano di riconoscerle efficacia immediata nei rapporti fra gli Stati membri ed i singoli».

CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Mertens de Wilmars, avv. gen. Reischl), sentenza 5 aprile 1979 nella causa 148/78, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Pretore di Milano (Italia) nel procedimento penale a carico di Ratti (in Raccolta, p. 1629). Nei confronti del sig. Ratti, legale rappresentante di una società produttrice di solventi e vernici,

era avviato un procedimento penale per violazione di talune disposizioni della legge 3 marzo 1963 n. 245. Il problema sorgeva da fatto che, all’epoca dei fatti di causa, la normativa italiana avrebbe dovuto essere stata adeguata a due direttive comunitarie (la 73/173/CEE per i solventi; la 77/728/CEE per le vernici), ciò che avrebbe dovuto comportare l’abrogazione della disposizione legislativa italiana della cui violazione si faceva penalmente carico all’imputato, con la conseguente modifica dei presupposti per l’irrogazione delle sanzioni penali stabilite dalla legge n. 245/1963. Per di più, la società di cui era responsabile il Ratti si era spontaneamente conformata, per l’imballaggio e l’etichettatura dei solventi e delle vernici di sua produzione, agli obblighi prescritti dalla direttiva.

Il Pretore di Milano sollevò perciò quattro questioni pregiudiziali davanti alla Corte di giustizia, la prima delle quali del seguente tenore: «Se la direttiva del Consiglio delle Comunità europee n. 173/73 del 4 giugno 1973, e in particolare l’art. 8 della medesima [“Gli Stati membri non possono vietare, limitare o ostacolare per motivi di classificazione, di imballaggio o di etichettatura, l’immissione sul mercato dei preparati pericolosi se sono conformi alle disposizioni della presente direttiva e del suo allegato”], rappresenti una norma direttamente applicabile con l’attribuzione ai singoli di diritti soggettivi tutelabili dinanzi ai giudici nazionali». La Corte risolse affermativamente la prima questione, così motivando:

«20. Sarebbe incompatibile con l’efficacia vincolante che l’art. 189 riconosce alla direttiva

l’escludere, in linea di principio, che l’obbligo da essa imposto possa esser fatto valere dalle persone interessate;

«21. Particolarmente nei casi in cui le autorità comunitarie abbiano, mediante direttiva, imposto agli Stati membri di adottare un determinato comportamento, l’effetto utile dell’atto sarebbe attenuato se agli amministrati fosse precluso di valersene in giudizio ed ai giudici nazionali di prenderlo in considerazione in quanto elemento del diritto comunitario;

«22. Di conseguenza lo Stato membro che non abbia adottato, entro i termini, i provvedimenti d’attuazione imposti dalla direttiva non può opporre ai singoli l’inadempimento, da parte sua, degli obblighi derivanti dalla direttiva stessa;

«23. Ne consegue che il giudice nazionale cui il singolo amministrato che si sia conformato alle disposizioni di una direttiva chieda di disapplicare una norma interna incompatibile con detta direttiva non recepita nell’ordinamento interno dello Stato inadempiente deve accogliere tale richiesta, se l’obbligo di cui trattasi e incondizionato e sufficientemente preciso;

«24. (…) dopo la scadenza del termine stabilito per l’attuazione di una direttiva, gli Stati membri non possono applicare la propria normativa nazionale non ancora adeguata a

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quest’ultima – neppure se vengano contemplate sanzioni penali – a chi si sia conformato alle disposizioni della direttiva stessa». 2.3. Il fondamento della diretta efficacia delle decisioni rivolte agli Stati membri.

Prima del trattato di Lisbona, la decisione era concepita dall’art. 249 CE

esclusivamente come atto a portata individuale, come la direttiva, benché potesse avere per destinatari, a differenza di quest’ultima, non solo gli Stati membri ma anche i soggetti privati (persone fisiche e giuridiche). Il trattato di Lisbona, prendendo atto e formalizzando un’evoluzione che si era già registrata nella precedente prassi, fa della decisione un atto tipico ambivalente, ossia suscettibile di avere, a seconda dei casi, portata individuale o generale. L’art. 288 TFUE dispone infatti che la decisione «se designa i destinatari è obbligatoria nei confronti di questi», ammettendo così implicitamente che essa può anche non avere specifici destinatari, ossia avere portata generale.3 Ad ogni modo la vocazione prevalente della decisione era e rimane ancora oggi quella di strumento a portata individuale, espressione di un’attività amministrativa dell’Unione, attraverso il quale le istituzioni applicano a casi concreti le norme generali e astratte dell’Unione, siano esse contenute nei Trattati istitutivi o in atti di diritto derivato. Siffatta applicazione concreta può avvenire sia nei confronti di un soggetto privato, al quale appunto la decisione sarà indirizzata, sia nei confronti di uno Stato membro, destinatario pertanto della decisione.

Le decisioni aventi per destinatari dei soggetti privati non pongono particolari problemi

in ordine alla loro diretta applicabilità all’interno degli ordinamenti nazionali. Esse sono invero vincolanti per le persone fisiche o giuridiche alle quali sono indirizzate e quindi impongono loro direttamente degli obblighi giuridici, facendo inoltre eventualmente sorgere diritti soggettivi corrispettivi in capo ad altri individui, alla stessa stregua di quanto avviene con riguardo alle disposizioni contenute nei Trattati che disciplinano rapporti giuridici tra privati (come, ad esempio, nel caso delle regole sulla libera concorrenza tra imprese di cui agli artt. 81 s. CE, ora artt. 101 s. TFUE).

La diretta efficacia di questo genere di decisioni è pertanto «piena», nel senso che può, a seconda dei casi, operare anche in senso «orizzontale» nei rapporti tra soggetti privati: la decisione può così essere invocata da soggetti terzi nei confronti dei destinatari della stessa dinanzi alle giurisdizioni nazionali, anche in occasione di controversie privatistiche. Ad esempio, una decisione adottata dalla Commissione in forza dell’art. 7 del regolamento (CE) del Consiglio n. 1/2003 del 16 dicembre 2002, concernente l’applicazione delle regole di concorrenza di cui agli artt. 81 e 82 CE (ora artt. 101 e 102 TFUE), la quale stabilisca la contrarietà di un cartello tra imprese al divieto di intese restrittive della concorrenza di cui all’art. 81 CE (ora art. 101 TFUE), potrà essere fatta valere contro le imprese partecipanti al cartello illecito vuoi dai loro concorrenti vuoi dai consumatori che

3 Sul punto v. amplius R. ADAM , A. TIZZANO, Lineamenti di diritto dell’Unione europea, 2a ed., Torino, 2010, p.

155 ss.

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abbiano subito un danno per l’effetto del comportamento anticoncorrenziale. Per converso, è altresì possibile che una decisione possa essere invocata dal suo stesso destinatario, al quale conferisca una posizione di vantaggio, nei confronti di altri soggetti privati. Così, ad esempio, per restare nel campo del diritto della concorrenza, una decisione della Commissione ai sensi dell’art. 10 del regolamento (CE) n. 1/2003, nella quale si stabilisca che l’art. 101 TFUE non è applicabile a un dato cartello tra imprese (ex. una decisione di esenzione individuale), potrà essere opposta da queste ultime ad altri soggetti privati che asseriscano di aver subito un danno da tale cartello.

Per quanto concerne invece le decisioni rivolte agli Stati membri, ai sensi dell’art. 288

TFUE esse sono obbligatorie soltanto nei loro confronti. Ne consegue pertanto che la questione della loro diretta efficacia verso i soggetti privati si pone in termini non dissimili da quelli che abbiamo precedentemente esaminato con riguardo alle direttive. È infatti questo l’atteggiamento adottato dalla Corte di giustizia che, con argomenti analoghi appunto a quelli svolti per le direttive, da una parte ha giustificato in principio la diretta efficacia delle decisioni e, dall’altra parte, ne ha circoscritto la portata, escludendo in particolare la loro diretta efficacia orizzontale (v. infra, 3.5). In buona sostanza, imponendo obblighi esclusivamente allo Stato membro cui è indirizzata, è esclusivamente nei suoi confronti che una decisione potrà essere invocata da un soggetto privato, mentre non potrà essere fatta valere nei rapporti interindividuali.

CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Lecourt, avv. gen. Roemer), sentenza 6 ottobre 1970 nella causa 9/70, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Finanzgeright München (Germania) nella causa Grad contro Finanzamt Traunstein (in Raccolta, p. 825). Il sig. Grad, autotrasportatore austriaco, ricorreva dinanzi al tribunale tributario di Monaco di

Baviera per l’annullamento di un provvedimento doganale con il quale gli veniva chiesto il pagamento dell’imposta sui trasporti su strada. Tale imposta, applicata in Germania per l’anno solare 1969, si assumeva in contrasto con la decisione del Consiglio n. 65/271/CEE del 13 maggio 1965, destinata a tutti gli Stati membri. A norma dell’art. 4 della decisione, infatti, al più tardi dalla sua entrata in vigore, il sistema comune d’imposta sulla cifra d’affari sostituiva, per i trasporti di merci per ferrovia, su strada e per vie navigabili, i regimi d’imposte specifiche equipollenti. Alla questione pregiudiziale sollevata dal giudice tedesco se la suddetta disposizione della decisione producesse effetti immediati nei rapporti giuridici tra gli Stati membri e i singoli, e costituisse diritti soggettivi che il giudice nazionale doveva tutelare, la Corte di giustizia così rispose:

«3. …A norma dell’articolo 189 del trattato CEE, la decisione è obbligatoria in tutti i suoi

elementi per i destinatari da essa designati. (…) «5. …Se è vero che i regolamenti, in forza dell’art. 189, sono direttamente applicabili e

quindi atti, per natura, a produrre effetti diretti, da ciò non si può inferire che le altre categorie di atti contemplate dal suddetto articolo non possano mai produrre effetti analoghi. In particolare, la norma secondo cui le decisioni sono obbligatorie in tutti i loro elementi per il

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destinatario fa sorgere il problema del se l’obbligo derivante da una decisione possa esser fatto valere soltanto dalle istituzioni comunitarie nei confronti del destinatario, oppure possa eventualmente esser fatto valere da qualsiasi soggetto interessato al suo adempimento.

Sarebbe in contrasto con la forza obbligatoria attribuita dall’art. 189 alla decisione l’escludere, in generale, la possibilità che l’obbligo da essa imposto sia fatto valere dagli eventuali interessati. In particolare, nei casi in cui le autorità comunitarie abbiano, mediante decisione, obbligato uno Stato membro o tutti gli Stati membri ad adottare un determinato comportamento, la portata dell’atto sarebbe ristretta se i singoli non potessero far valere in giudizio la sua efficacia e se i giudici nazionali non potessero prenderlo in considerazione come norma di diritto comunitario. Gli effetti di una decisione possono non essere identici a quelli di una disposizione contenuta in un regolamento, ma tale differenza non esclude che il risultato finale, consistente nel diritto del singolo di far valere in giudizio l’efficacia dell’atto, sia lo stesso nei due casi.

«6. D’altra parte l’art. 177, che autorizza i giudici nazionali a domandare alla Corte di giustizia di pronunziarsi sulla validità e sull’interpretazione di tutti gli atti compiuti dalle istituzioni, senza distinzione, implica il fatto che i singoli possano far valere tali atti dinanzi ai giudici nazionali. È quindi opportuno esaminare, caso per caso, se la natura, lo spirito e la lettera della disposizione di cui trattasi consentano di riconoscerle efficacia immediata nei rapporti fra il destinatario dell’atto e i terzi».

________________

3. I presupposti per la diretta efficacia delle norme dell’Unione europea Per poter essere direttamente efficace (ossia, creare diritti e obblighi in capo ai singoli),

una norma dell’Unione europea, quale che ne sia la fonte, deve possedere alcune caratteristiche, individuate dalla giurisprudenza nella «sufficiente chiarezza e precisione», da un lato, e nella «incondizionatezza», dall’altro, della norma in questione. Il primo requisito riguarda il dettato normativo della disposizione dell’Unione dal quale, anche con l’ausilio dell’interpretazione della Corte di giustizia svolta in particolare alla luce dello scopo e del contesto della norma, devono potersi inferire almeno gli elementi minimi essenziali del rapporto giuridico che la norma voglia disciplinare, ossia (i) chi sia il soggetto obbligato, (ii) chi sia il titolare del correlato diritto e, infine, (iii) quale sia l’assetto dato alle rispettive pretese delle parti, cioè quale comportamento l’una possa pretendere dall’altra. Il secondo requisito esige invece che l’applicazione della norma non sia subordinata a ulteriori interventi normativi da parte del legislatore dell’Unione o di quello nazionale, che servano a meglio definire, o anche a restringere o limitare il rapporto giuridico regolato dalla norma in questione.

Nella sentenza 15 gennaio 1986, in causa 44/84, Hurd, in Raccolta, p. 1986, punto 47, la Corte di giustizia ha così sintetizzato i criteri per la diretta efficacia di una norma dell’Unione: «…perché una norma abbia efficacia diretta nei rapporti fra i singoli e i

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rispettivi Stati membri, è necessario che essa sia chiara e incondizionata e che non sia subordinata ad alcun altro provvedimento di esecuzione a carattere discrezionale».

Entrambi i suddetti fattori attestano il carattere eminentemente pratico del criterio dell’«efficacia diretta»: una norma dell’Unione europea ha efficacia diretta allorché e nella misura in cui è di per sé sufficientemente operativa per essere applicata da un giudice. Il carattere chiaro, preciso e incondizionato, la completezza o la perfezione della norma e la sua indipendenza da misure di attuazione discrezionali sono a tal riguardo semplici aspetti della stessa caratteristica che la norma deve avere, cioè essa deve poter essere applicata da un giudice a un caso specifico (cfr. concl. Avv. Gen. Van Gerven presentate il 27 ottobre 1993 nella causa C-128/92, H.J. Banks & Co. Ltd c. British Coal Corporation, in Raccolta, p. I-1209, par. 27; T.C. HARTLEY, The Foundations of European Community Law, Oxford, 2a ed., 1988, p. 195; P. PESCATORE, The Doctrine of «Direct Effect»: An Infant Disease of Community Law, in Eur. Law Rev., 1983, p. 177.

3.1. Con riguardo alle norme del diritto primario Già nella sentenza Van Gend & Loos la Corte riconosceva la diretta efficacia dell’art.

12 CEE per il fatto che esso «pone un divieto chiaro e incondizionato che si concreta in un obbligo non già di fare, bensì di non fare»; che come contropartita di tale obbligo sussiste un diritto soggettivo dei singoli e, infine, che «a questo obbligo non fa riscontro alcuna facoltà degli Stati di subordinarne l’efficacia all’emanazione di un provvedimento di diritto interno».

CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Lecourt, avv. gen. Mayras), sentenza 21 giugno 1974 nella causa 2/74, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Conseil d’Etat (Belgio) nella causa Reyners contro Belgio (in Raccolta, p. 631). In base all’art. 52 CEE, avrebbero dovuto essere «gradatamente soppresse durante il periodo

transitorio» le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro, libertà che importa, segnatamente, «l’accesso alle attività non salariate e al loro esercizio… alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini».4 Di conseguenza, il trattato attribuiva al Consiglio – ora, dopo il Trattato di Lisbona, congiuntamente al Parlamento europeo e al Consiglio, che deliberano secondo la procedura legislativa ordinaria – il potere di adottare direttive sia per realizzare tale libertà (art. 54 par. 2 CEE, divenuto poi, con modifiche, art. 44 CE e ora art. 50 TFUE) sia per agevolare l’accesso alle (e l’esercizio delle) attività non salariate (art. 57 CEE, poi art. 47 CE e ora art. 53 TFUE). Tuttavia, alla scadenza del periodo transitorio, tali direttive erano state adottate solo in minima parte.

4 L’art. 52 CEE è poi divenuto, a seguito della rinumerazione di cui al trattato di Amsterdam, l’art. 43 CE, che

pone un divieto assoluto e incondizionato di restrizioni alla libertà di stabilimento, il cui disposto è ora interamente ripreso dall’art. 49 TFUE.

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Il sig. Reyners, cittadino olandese, pur avendo conseguito in Belgio il titolo di «docteur en droit», cioè il diploma che abilitava all’esercizio della professione forense in tale paese, si vedeva tuttavia precluso l’accesso a tale professione in forza del regio decreto 24 agosto 1970, che riservava l’esercizio dell’attività di avvocato ai soli cittadini belgi. Per ottenere l’annullamento della normativa controversa, il sig. Reyners adiva il Conseil d’Etat, che chiedeva alla Corte di giustizia di pronunciarsi in via pregiudiziale in merito all’interpretazione dell’art. 52 CEE, e in particolare alla sua diretta efficacia dalla fine del periodo transitorio, nonostante la mancata adozione, in un determinato settore, delle direttive di cui ai summenzionati artt. 54 e 57 CEE. Risolvendo in senso affermativo la questione, la Corte di giustizia ha così motivato in ordine al carattere sufficientemente preciso e incondizionato del principio del trattamento nazionale di cui all’art. 52 CEE:

«15/17. L’art. 7 del trattato (CEE, poi art. 12 CE e ora art. 18 TFUE), che fa parte dei

“principi” della Comunità, dispone che, nel campo di applicazione del trattato e senza pregiudizio delle disposizioni particolari nello stesso contenute, “è vietata ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità”. L’art. 52 garantisce l’applicazione di tale disposizione generale nel settore particolare del diritto di stabilimento. Con l’espressione “nel quadro delle disposizioni che seguono”, esso si richiama all’ intero capo relativo al diritto di stabilimento e chiede, perciò, di venir interpretato in questo ambito generale.

«18/20. Dopo aver stabilito che “le restrizioni alle libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro vengono gradatamente soppresse durante il periodo transitorio”, l’art. 52 enuncia il principio cardine della materia, disponendo che la libertà di stabilimento implica l’accesso alle attività indipendenti ed al loro esercizio “alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini”. Al fine della graduale realizzazione di tale obiettivo nel corso del periodo transitorio, l’art. 54 contempla l’elaborazione, da parte del Consiglio, di un “programma generale” e, per l’attuazione di tale programma, direttive destinate a realizzare la libertà di stabilimento per le varie attività. Oltre a tali misure di liberalizzazione, l’art. 57 contempla direttive destinate a garantire il riconoscimento reciproco dei diplomi, certificati ed altri titoli e, in generale, il coordinamento delle legislazioni in materia di stabilimento e d’esercizio delle attività indipendenti.

«21/23. Da quanto precede discende che, nell’economia del capo relativo al diritto di stabilimento, il “programma generale” e le direttive contemplate dal trattato sono destinate ad adempiere due funzioni, la prima e quella di abolire, durante il periodo transitorio, gli ostacoli alla realizzazione della libertà di stabilimento; la seconda consiste nell’introdurre, nella legislazione degli Stati membri, un complesso di disposizioni dirette a facilitare l’esercizio effettivo di tale libertà, al fine di favorire l’integrazione economica e sociale nell’ambito della Comunità nel settore delle attività indipendenti. È questo secondo obiettivo che perseguono, in primo luogo, talune disposizioni dell’art. 54 par. 3, relative, fra l’altro, alla collaborazione tra le amministrazioni nazionali competenti e l’adattamento dei procedimenti e delle prassi amministrative e, in secondo luogo, il complesso delle disposizioni dell’art. 57. L’efficacia delle disposizioni dell’art. 52 va determinata nell’ambito di tale sistema.

«24/27. La norma del trattamento nazionale costituisce una delle disposizioni giuridiche fondamentali della Comunità. In quanto richiamo ad un complesso di disposizioni legislative effettivamente applicate dal paese di stabilimento ai propri cittadini, tale norma è, per

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eccellenza, atta ad essere fatta valere direttamente dai cittadini di tutti gli altri Stati membri. Stabilendo alla fine del periodo transitorio la realizzazione della libertà di stabilimento, l’art. 52 prescrive quindi un obbligo di risultato preciso, il cui adempimento doveva essere facilitato, ma non condizionato, dall’attuazione di un programma di misure graduali; il fatto che questa gradualità non sia stata osservata lascia intatto l’obbligo stesso, una volta scaduto il termine stabilito per il suo adempimento.

«28. Tale interpretazione e conforme all’art. 8 par. 7 del trattato, a termini del quale la scadenza del periodo transitorio costituisce il termine ultimo per l’entrata in vigore del complesso delle norme contemplate dal trattato e per l’attuazione dell’insieme delle realizzazioni che comporta l’instaurazione del mercato comune.

«29/31. Non è dato invocare, contro tale efficacia, la circostanza che il Consiglio non ha adottato le direttive previste dagli artt. 54 e 57, oppure il fatto che talune direttive effettivamente adottate non hanno pienamente realizzato l’obiettivo di non discriminazione di cui all’art. 52. In effetti, dopo la fine del periodo transitorio, le direttive contemplate dal capitolo relativo al diritto di stabilimento sono divenute superflue per l’attuazione della norma del trattamento nazionale, dato che quest’ultima è ormai sancita, con efficacia diretta, dal trattato stesso. Tali direttive non hanno tuttavia perduto ogni interesse, in quanto conservano un campo di applicazione importante nel settore delle misure dirette a favorire ed a facilitare l’effettivo esercizio del diritto di libero stabilimento».

3.2. Con riguardo alle norme contenute in direttive Nella causa van Duyn del 1974 (v. supra, par. 2.2) la Corte di giustizia aveva rilevato la

sussistenza dei presupposti per la diretta efficacia con riguardo all’art. 3 par. 1 della direttiva 64/221/CEE:

«13. Esigendo che i provvedimenti d’ordine pubblico siano adottati esclusivamente in considerazione del comportamento personale dell’interessato, l’art. 3 par. 1 della direttiva n. 221/64 intende limitare il potere discrezionale che le leggi interne normalmente concedono alle autorità competenti in materia d’ammissione e d’espulsione degli stranieri. L’obbligo risultante dalla norma teste citata è assoluto ed incondizionato; esso non richiede inoltre, per la sua stessa natura, alcun provvedimento d’attuazione da parte delle istituzioni comunitarie o degli Stati membri. Da un altro punto di vista, poiché l’obbligo imposto agli Stati membri di non tener conto di fattori diversi dal comportamento personale dell’interessato è ricollegato all’applicazione d’una deroga ad uno dei principi fondamentali posti dal trattato a tutela dei singoli,5 il rispetto delle garanzie giurisdizionali degli interessati impone ch’essi possano invocare tale obbligo, anche se contenuto in un atto normativo non avente ipso iure efficacia diretta nel suo insieme.

«14. Eventuali dubbi circa il significato e la precisa portata della norma in esame potranno

5 Il «principio fondamentale posto dal trattato» richiamato nella sentenza è quello della libera circolazione dei

lavoratori (artt. 48 ss. CEE, poi artt. 39 ss. CE, ora artt. 45 ss. TFUE), al quale gli Stati membri possono derogare soltanto, in particolare, per «motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica» (art. 45 par. 3 TFUE).

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essere risolti in sede giurisdizionale, ove è possibile fra l’altro utilizzare la procedura di cui all’art. 177 del trattato».

Nella successiva giurisprudenza, la Corte di giustizia ha meglio definito il significato

del carattere sufficientemente chiaro e preciso nonché incondizionato che le disposizioni contenute in direttive devono possedere per produrre effetti diretti.

CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Due, avv. gen. Mischo), sentenza 19 novembre 1991 nelle cause riunite C-6/90 e C-9/90, sulle domande di pronuncia pregiudiziale proposte dalle preture di Vicenza e di Bassano del Grappa (Italia) nelle cause Francovich contro Italia e Bonifaci e a. contro Italia (in Raccolta, p. I-5357). La direttiva del Consiglio n. 80/987/CEE del 20 ottobre 1980, è diretta a garantire ai lavoratori

subordinati uno standard minimo di tutela garantito a livello europeo per il caso di insolvenza del datore di lavoro, fatte salve le norme più favorevoli esistenti negli Stati membri. A tal fine, essa stabilisce in particolare garanzie specifiche per il pagamento di loro crediti non pagati relativi alla retribuzione. A norma dell’art. 11, gli Stati membri erano tenuti a emanare le disposizioni necessarie per conformarsi alla direttiva entro il 23 ottobre 1983. L’Italia non aveva ottemperato a tale obbligo, come accertato dalla Corte di giustizia con sentenza 2 febbraio 1989, in causa 22/87, Commissione c. Italia (in Raccolta, p. 143).

Il sig. Francovich aveva ottenuto dal Pretore di Vicenza la condanna della CDN Elettronica s.n.c. al pagamento di una somma di circa 6 milioni di lire a titolo di retribuzione non corrisposta per attività di lavoro subordinato; ma il procedimento di pignoramento era stato infruttuoso. Il sig. Francovich aveva allora convenuto lo Stato italiano dinanzi al Pretore di Vicenza, facendo valere il diritto di ottenere le garanzie previste dalla direttiva 80/987/CEE o, in via subordinata, un indennizzo.

La sig.ra Bonifaci e altre trentatré lavoratrici dipendenti della Gaia Confezioni s.r.l., dichiarata fallita il 5 aprile 1985, alla cessazione dei loro rapporti di lavoro risultavano creditrici di una somma di oltre 253 milioni di lire, che era stata ammessa al passivo dell’impresa fallita. Oltre cinque anni dopo il fallimento, nulla era stato loro corrisposto e il curatore del fallimento aveva fatto loro sapere che una ripartizione, anche parziale, in loro favore era assolutamente improbabile. Le lavoratrici avevano quindi adito il Pretore di Bassano del Grappa, chiedendo che la Repubblica italiana, alla luce dell’obbligo ad essa incombente di applicare la direttiva 80/987 dal 23 ottobre 1983, fosse condannata a corrispondere loro gli importi ad esse spettanti a titolo di retribuzioni arretrate, quanto meno per le ultime tre mensilità o, in mancanza, a versare loro un indennizzo.

In questo contesto, i giudici nazionali avevano sottoposto alla Corte di giustizia diverse questioni pregiudiziali, identiche nelle due cause, relative in particolare all’efficacia diretta delle disposizioni della direttiva 80/987/CEE che definiscono i diritti dei lavoratori. La Corte risolve negativamente la questione, ritenendo che tali disposizioni non soddisfino i requisiti necessari per produrre effetti diretti, sulla scorta dei seguenti argomenti:

«12. Occorre quindi chiedersi se le disposizioni della direttiva 80/987 che definiscono i

diritti dei lavoratori siano incondizionate e sufficientemente precise. Tale esame deve

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riguardare tre aspetti, e cioè la determinazione dei beneficiari della garanzia stabilita da detta disposizione, il contenuto di tale garanzia e, infine, l’identità del soggetto tenuto alla garanzia. Al riguardo si pone in particolare la questione se lo Stato possa essere considerato tenuto alla garanzia per non aver adottato, entro il termine prescritto, i necessari provvedimenti di attuazione.

«13. Per quanto riguarda, innanzitutto, la determinazione dei beneficiari della garanzia, va rilevato che, in base all’art. 1 par. 1, la direttiva si applica ai diritti dei lavoratori subordinati derivanti da contratti di lavoro o da rapporti di lavoro ed esistenti nei confronti di datori di lavoro che si trovino in stato di insolvenza ai sensi dell’art. 2 par. 1, ossia della disposizione che precisa le ipotesi in cui un datore di lavoro dev’essere considerato in stato di insolvenza. L’art. 2 par. 2 rinvia al diritto nazionale per la determinazione delle nozioni di “lavoratore subordinato” e di “datore di lavoro”. Infine l’art. 1 par. 2 dispone che gli Stati membri possono, in via eccezionale e a determinate condizioni, escludere dall’ambito di applicazione della direttiva talune categorie di lavoratori elencati nell’allegato della direttiva.

«14. Queste disposizioni sono sufficientemente precise e incondizionate per consentire al giudice nazionale di stabilire se un soggetto possa essere o no considerato beneficiario della direttiva. Infatti, il giudice deve solo verificare, in primo luogo, se l’interessato abbia lo status di lavoratore subordinato in forza del diritto nazionale e se non sia escluso, a norma dell’art. 1 par. 2 e del suo allegato I, dall’ambito di applicazione della direttiva (…); in secondo luogo, se ci si trovi in una delle ipotesi di insolvenza di cui all’art. 2 della direttiva.

«15. Per quanto riguarda poi il contenuto della garanzia, l’art. 3 della direttiva dispone che dev’essere garantito il pagamento dei crediti non pagati risultanti da contratti di lavoro o da rapporti di lavoro e relativi alla retribuzione per il periodo situato prima di una data stabilita dallo Stato membro che, al riguardo, può scegliere fra tre possibilità e cioè: a) la data in cui è insorta l’insolvenza del datore di lavoro; b) quella del preavviso di licenziamento del lavoratore subordinato interessato, comunicato a causa dell’insolvenza del datore di lavoro; c) quella in cui è insorta l’insolvenza del datore di lavoro o quella della cessazione del contratto di lavoro o del rapporto di lavoro del lavoratore subordinato interessato, avvenuta a causa dell’insolvenza del datore di lavoro.

«16. In relazione a tale scelta, lo Stato membro ha la facoltà, in forza dell’art. 4 parr. 1 e 2, di limitare l’obbligo di pagamento a periodi di tre mesi o di otto settimane, a seconda dei casi, calcolati secondo modalità precisate nel suddetto articolo. Infine, il par. 3 dello stesso articolo dispone che gli Stati membri possono fissare un massimale per la garanzia di pagamento per evitare il versamento di somme eccedenti il fine sociale della direttiva. Qualora si avvalgano di tale facoltà, gli Stati membri debbono comunicare alla Commissione i metodi con cui fissano il massimale. D’altro canto l’art. 10 precisa che la direttiva non pregiudica la facoltà degli Stati membri di adottare le misure necessarie ad evitare abusi ed in particolare di rifiutare o di ridurre l’obbligo di pagamento in taluni casi.

«17. L’art. 3 della direttiva lascia così una scelta allo Stato membro per determinare la data a partire dalla quale la garanzia del pagamento dei diritti dev’essere fornita. Tuttavia, come risulta già implicitamente dalla giurisprudenza della Corte (sentenza 4 dicembre 1986, FNV, causa 71/85, in Raccolta, p. 3855; sentenza 24 marzo 1987, McDermott e Cotter, causa 286/85, ibidem, p. 1453, punto 15 della motivazione), la facoltà attribuita allo Stato di scegliere tra una molteplicità di mezzi possibili al fine di conseguire il risultato prescritto da una direttiva non

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esclude che i singoli possano far valere dinanzi ai giudici i diritti il cui contenuto può essere determinato con una precisione sufficiente sulla base delle sole disposizioni della direttiva.

«18. Nella fattispecie, il risultato che la direttiva di cui trattasi prescrive è la garanzia del pagamento ai lavoratori dei crediti non pagati in caso di insolvenza del datore di lavoro. Il fatto che gli artt. 3 e 4 parr. 1 e 2 concedano agli Stati membri una certa discrezionalità per quanto concerne i metodi di fissazione di questa garanzia e la limitazione del suo importo non pregiudica il carattere preciso e incondizionato del risultato prescritto.

«19. Infatti, come hanno messo in rilievo la Commissione e i ricorrenti, è possibile determinare la garanzia minima prevista dalla direttiva fondandosi sulla data la cui scelta comporta l’onere meno gravoso per l’organismo di garanzia. Tale data è quella in cui è insorta l’insolvenza del datore di lavoro, poiché le altre due date, cioè quella del preavviso di licenziamento del lavoratore e quella della cessazione del contratto di lavoro o del rapporto di lavoro, sono, in base alle condizioni poste dall’art. 3, necessariamente posteriori all’insorgere dell’insolvenza e delimitano quindi un periodo più lungo, durante il quale il pagamento dei diritti dev’essere garantito.

«20. Per quanto riguarda la facoltà, di cui all’art. 4 par. 2, di limitare tale garanzia, occorre rilevare che una siffatta facoltà non esclude che si possa determinare la garanzia minima. Infatti, dalla formulazione di tale articolo risulta che gli Stati membri hanno la facoltà di limitare le garanzie accordate ai lavoratori a taluni periodi anteriori alla data di cui all’art. 3. Questi periodi sono stabiliti in relazione a ciascuna delle tre date contemplate all’art. 3, onde è possibile, in ogni caso, determinare fino a che punto lo Stato membro avrebbe potuto ridurre la garanzia prevista dalla direttiva a seconda della data che avrebbe scelto se avesse attuato la direttiva.

«21. Quanto all’art. 4 par. 3, secondo il quale gli Stati membri possono fissare un massimale per la garanzia di pagamento al fine di evitare il versamento di somme eccedenti il fine sociale della direttiva, e quanto all’art. 10, in cui si precisa che la direttiva non pregiudica la facoltà degli Stati membri di adottare misure necessarie per evitare abusi, va rilevato che uno Stato membro che non abbia adempiuto il proprio obbligo di attuare una direttiva non può neutralizzare i diritti che la direttiva fa sorgere a beneficio dei singoli basandosi sulla facoltà di limitare l’importo della garanzia che esso avrebbe potuto esercitare ove avesse preso le misure necessarie all’attuazione della direttiva (v., a proposito di una facoltà analoga relativa alla prevenzione di abusi nell’ambito fiscale, la sentenza 19 gennaio 1982, Becker, causa 8/81, in Raccolta, p. 53, punto 34 della motivazione).

«22. Va quindi constatato che le disposizioni controverse sono incondizionate e sufficientemente precise per quanto riguarda il contenuto della garanzia.

«23. Per quanto riguarda infine l’identità di chi è tenuto alla garanzia, l’art. 5 della direttiva stabilisce che:

“Gli Stati fissano le modalità di organizzazione, di finanziamento e di funzionamento degli organismi di garanzia nel rispetto, in particolare, dei seguenti principi:

“a) il patrimonio degli organismi deve essere indipendente dal capitale di esercizio dei datori di lavoro ed essere costituito in modo da non poter essere sequestrato in un procedimento in caso di insolvenza;

“b) i datori di lavoro devono contribuire al finanziamento, a meno che quest’ultimo non sia integralmente assicurato dai pubblici poteri;

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“c) l’obbligo di pagamento, a carico degli organismi esiste indipendentemente dall’adempimento degli obblighi di contribuire al finanziamento”.

«24. È stato sostenuto che, poiché la direttiva prevede la possibilità di finanziamento integrale degli organismi di garanzia da parte dei pubblici poteri, è inammissibile che uno Stato membro possa neutralizzare gli effetti della direttiva sostenendo che avrebbe potuto porre a carico di altri soggetti, in parte o in toto, l’onere finanziario gravante su di esso.

«25. Tale ragionamento non può essere condiviso. Dalla formulazione della direttiva risulta che lo Stato membro è tenuto a predisporre tutto un sistema istituzionale di garanzia appropriato. In forza dell’art. 5, lo Stato membro dispone di un’ampia discrezionalità quanto all’organizzazione, al funzionamento e al finanziamento degli organismi di garanzia. Occorre mettere in rilievo che il fatto, invocato dalla Commissione, che la direttiva preveda come una possibilità, fra le altre, che un sistema del genere sia finanziato integralmente dai pubblici poteri non può significare che si possa identificare lo Stato come debitore dei crediti non pagati. L’obbligo di pagamento è a carico degli organismi di garanzia e solo esercitando il suo potere di organizzare il sistema di garanzia lo Stato può disporre il finanziamento integrale degli organismi di garanzia da parte dei pubblici poteri. In questa ipotesi lo Stato si accolla un obbligo che in linea di principio non gli incombe.

«26. Ne consegue che, anche se le disposizioni controverse della direttiva sono sufficientemente precise e incondizionate per quanto riguarda la determinazione dei beneficiari della garanzia e il contenuto della garanzia stessa, questi elementi non sono sufficienti perché i singoli possano far valere tali disposizioni dinanzi ai giudici nazionali. Infatti, da un lato, queste disposizioni non precisano l’identità di chi è tenuto alla garanzia e, dall’altro, lo Stato non può essere considerato debitore per il solo fatto di non aver adottato entro i termini i provvedimenti di attuazione.

«27. Si deve pertanto risolvere la prima parte della prima questione dichiarando che le disposizioni della direttiva 80/987 che definiscono i diritti dei lavoratori devono essere interpretate nel senso che gli interessati non possono far valere tali diritti nei confronti dello Stato dinanzi ai giudici nazionali in mancanza di provvedimenti di attuazione adottati entro i termini».

CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Due, avv. gen. Lenz), sentenza 14 luglio 1994 nella causa C-91/92, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Giudice conciliatore di Firenze (Italia) nella causa tra Faccini Dori e Recreb s.r.l. (in Raccolta, p. I-3349). La direttiva n. 85/577/CEE del Consiglio del 20 dicembre 1985, per la tutela dei consumatori in

caso di contratti negoziati fuori dei locali commerciali, ha lo scopo, così come si ricava dal suo preambolo, di migliorare la tutela dei consumatori e di por fine alle disparità esistenti tra le legislazioni nazionali in merito a detta tutela, disparità che possono avere un’incidenza sul funzionamento del mercato comune. Tenuto conto che, nel caso di contratti conclusi fuori dei locali commerciali del commerciante, di regola è quest’ultimo a prendere l’iniziativa delle trattative, mentre il consumatore si trova spesso colto di sorpresa e quasi sempre non ha la possibilità di confrontare la qualità e il prezzo che gli vengono proposti con altre offerte, scopo della direttiva è di

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accordare al consumatore il diritto di recesso per permettergli di valutare gli obblighi che derivano dal contratto. L’art. 4 della direttiva impone pertanto che, al momento della stipula del contratto, il commerciante informi per iscritto il consumatore del suo diritto di recedere dal contratto e della persona nei cui riguardi tale diritto deve essere esercitato, lasciando agli Stati membri il compito di far sì che la loro legislazione nazionale preveda «misure appropriate» per tutelare i consumatori per il caso che tale informazione non sia fornita. L’art. 5 stabilisce poi che il consumatore può esercitare il diritto di recesso – e liberarsi così da tutte le obbligazioni derivanti dal contratto – entro un termine di almeno 7 giorni dal momento in cui il commerciante, secondo le modalità e condizioni prescritte dalla legislazione nazionale, lo ha informato in merito ai suoi diritti. Il termine per l’attuazione della direttiva scadeva il 23 dicembre 1987, ma l’Italia l’ha recepita solo con il d.lgs. 15 gennaio 1992 n. 50.6

Avvicinata da un rappresentante della Interdiffusion s.r.l. presso la stazione centrale di Milano, la signorina Paola Faccini Dori stipulava con lo stesso un contratto per l’acquisto di un corso d’inglese per corrispondenza. Qualche giorno dopo, comunicava a detta società di voler annullare il suo ordine, ciò che ribadiva poi alla Recreb s.r.l., cui frattanto la Interdiffusion aveva ceduto il suo credito contrattuale. Ciò nonostante, e malgrado che la Faccini Dori avesse espressamente richiamato nelle sue comunicazioni il diritto di recesso previsto dalla direttiva n. 85/577/CEE, la società Recreb otteneva dal Giudice conciliatore di Firenze decreto ingiuntivo in relazione al credito contrattuale cedutole, cui la Faccini Dori faceva opposizione, sostenendo di aver esercitato il diritto di recesso secondo la direttiva 85/577/CEE. Interrogatosi sulla possibilità di applicare la direttiva nonostante la mancata trasposizione, all’epoca dei fatti di causa, nel nostro ordinamento, il giudice fiorentino poneva quindi una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia, che così rispondeva in ordine al carattere sufficientemente preciso e incondizionato delle disposizioni della direttiva riguardanti il diritto di recesso:

«12. Ai sensi dell’art. 1 par. 1, la direttiva si applica ai contratti stipulati tra un

commerciante che fornisce beni e servizi e un consumatore o durante un’escursione organizzata dal commerciante al di fuori dei propri locali commerciali, o durante una visita del commerciante al domicilio del consumatore o sul suo posto di lavoro, qualora la visita non abbia luogo su espressa richiesta di quest’ultimo.

«13. Per quanto concerne l’art. 2, esso precisa che occorre intendere per “consumatore” la persona fisica che, per le transazioni disciplinate dalla direttiva, agisce per un uso che può considerarsi estraneo alla propria attività professionale, e per “commerciante” la persona fisica o giuridica che, nel concludere la transazione in questione, agisce nell’ambito della propria attività commerciale o professionale.

«14. Dette disposizioni hanno la precisione sufficiente per consentire al giudice nazionale di individuare i soggetti su cui gravano le obbligazioni ed i beneficiari dell’adempimento di queste. Nessun provvedimento specifico di attuazione è necessario al riguardo. Il giudice nazionale può limitarsi ad accertare se il contratto sia stato stipulato nelle circostanze descritte dalla direttiva e se sia stato concluso tra un commerciante e un consumatore, nel significato

6 Ora abrogato dal d. lgs. 6 settembre 2005 n. 206, Codice del consumo, che ne ha trasfuso il contenuto, con

modifiche, negli artt. 45 ss.

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attribuito a tali termini dalla medesima direttiva. «15. Per tutelare il consumatore che ha stipulato un contratto in circostanze del genere,

l’art. 4 della direttiva impone che il commerciante deve informarlo per iscritto del suo diritto di recedere dal contratto, nonché del nome e indirizzo della persona nei cui riguardi può essere esercitato tale diritto. Esso aggiunge in particolare che, nel caso dell’art. 1 par. 1, detta informazione deve essere consegnata al consumatore al momento della stipulazione del contratto. Esso infine precisa che gli Stati membri devono far sì che la loro legislazione nazionale preveda misure appropriate per la tutela dei consumatori qualora non venga fornita l’informazione di cui trattasi.

«16. Peraltro, l’art. 5 par. 1 della direttiva stabilisce in particolare che il consumatore ha il diritto di revocare il proprio impegno indirizzando una comunicazione entro un termine di almeno sette giorni dal momento in cui il commerciante, secondo le modalità e condizioni prescritte dalla legislazione nazionale, lo ha informato in merito ai suoi diritti. Il par. 2 puntualizza che con l’invio della comunicazione di cui trattasi il consumatore è liberato da tutte le obbligazioni derivanti dal contratto.

«17. Gli artt. 4 e 5 concedono indubbiamente agli Stati membri un certo margine di discrezionalità per quanto concerne la tutela del consumatore quando il commerciante non fornisce l’informazione e per quel che riguarda la fissazione del termine e delle modalità del recesso. Tale circostanza tuttavia non incide sul carattere preciso e incondizionato delle disposizioni della direttiva sulle quali è incentrata la causa principale. Tale margine di discrezionalità non esclude infatti che sia possibile determinare alcuni diritti imprescindibili. Al riguardo, dalla lettera dell’art. 5 discende che il recesso va notificato entro un termine minimo di sette giorni dal momento in cui il consumatore ha ricevuto l’informazione che il commerciante è tenuto a fornire. È pertanto possibile determinare il livello minimo di tutela che deve essere comunque realizzato.

«18. Pertanto, occorre risolvere il primo problema sollevato dal giudice nazionale nel senso che gli artt. 1 par. 1, 2 e 5 della direttiva sono incondizionati e sufficientemente precisi per quanto concerne la determinazione dei beneficiari e il termine minimo entro il quale va notificato il recesso». 3.3. Con riguardo alle decisioni CORTE DI GIUSTIZIA, sentenza 6 ottobre 1970 nella causa 9/70, Grad cit.

In relazione alle condizioni per la diretta applicabilità dell’art. 4 della decisione n. 65/271, la

Corte ha affermato: «8. Questa norma impone quindi agli Stati membri due obblighi: in primo luogo, quello di

applicare, al più tardi ad una data determinata, il sistema comune d’imposta sulla cifra d’affari ai trasporti di merce per ferrovia, su strada e per vie navigabili; in secondo luogo, quello di sostituire tale sistema, al più tardi a decorrere dalla sua entrata in vigore, ai regimi d’imposte specifiche contemplati nel secondo comma. Quest’ultimo obbligo implica ovviamente il divieto d’istituire o di reintrodurre regimi del tipo indicato, al fine di evitare, per i trasporti, il cumulo

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del sistema comune d’imposta sulla cifra d’affari con regimi fiscali analoghi e supplementari. «9. Dal fascicolo trasmesso dal Finanzgericht risulta che la sua domanda si riferisce in

particolare al secondo obbligo. Questo è, in sostanza, assoluto e generale, anche se la norma non precisa il momento a partire dal quale esso diventerà effettivo. Esso consiste nel formale divieto per gli Stati membri di cumulare il sistema comune d’imposta sulla cifra d’affari con regimi d’imposte specifiche equipollenti. Tale obbligo e incondizionato e sufficientemente chiaro e preciso per poter avere efficacia immediata nei rapporti fra gli Stati membri e i singoli.

«10. Il termine a partire dal quale esso diventa effettivo è stato fissato con le direttive del Consiglio in materia di armonizzazione delle legislazioni relative all’imposta sulla cifra d’affari, le quali hanno stabilito la data ultima entro la quale gli Stati membri devono introdurre nella loro legislazione il sistema comune d’imposta sul valore aggiunto. La circostanza che questa data sia stata fissata con una direttiva non osta affatto alla piena efficacia di tale disposizione.

Con la prima direttiva è stato così completato l’obbligo enunciato all’art. 4, secondo comma della decisione 13 maggio 1965. Questo articolo impone quindi agli Stati membri determinati obblighi – in particolare quello di non cumulare, a decorrere da una data determinata, il sistema comune d’imposta coi regimi d’imposte specifiche ch’esso contempla – obblighi che hanno efficacia immediata nei rapporti fra gli Stati membri e i singoli, e che questi ultimi possono far valere in giudizio».

CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Murray, avv. gen. Jacobs), sentenza 10 novembre 1992 nella causa C-156/91, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Verwaltungsgericht dello Schleswig-Holstein (Germania) nella causa tra Hansa Fleisch Ernst Mundt GmbH & Co. KG e Landrat des Kreises Schleswig-Flensburg (in Raccolta, p. I-5567). Nel caso di specie, il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia era stato sollevato nell’ambito

di una controversia tra una società tedesca, che gestiva un mattatoio, e l’autorità amministrativa di un Land tedesco vertente sulla legittimità di avvisi di recupero dei contributi per spese di ispezione e di controllo sanitario su animali da macellazione, il cui importo era superiore a quello fissato con decisione del Consiglio n. 88/408/CEE del 15 giugno 1988. La Corte, dopo aver confermato la giurisprudenza Grad sulla diretta efficacia delle decisioni rivolte agli Stati membri, ha così statuito in particolare sulle condizioni a tal fine necessarie:

«15. …il fatto che una decisione consenta agli Stati membri che ne sono destinatari di

derogare a disposizioni chiare e precise della stessa decisione non può, di per sé, far venir meno l’efficacia diretta di dette disposizioni. In particolare, disposizioni del genere possono avere efficacia diretta qualora la possibilità di derogarvi sia soggetta a sindacato giurisdizionale (nello stesso senso, v. sentenza 4 dicembre 1974, causa 41/74, Van Duyn, in Raccolta, p. 1337, punto 7 della motivazione).

«16. Ora, ciò è proprio quanto si verifica nel caso di specie per quel che riguarda la possibilità di derogare per eccesso ai livelli forfettari del contributo stabiliti dall’art. 2 n. 1 della

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decisione 88/408. Infatti, come emerge dall’art. 2 n. 2, nonché dall’allegato alla decisione 88/408, l’importo del contributo può essere aumentato fino al raggiungimento dei costi reali di ispezione qualora essi superino i livelli del contributo fissati dall’art. 2 n. 1 della decisione. La possibilità di maggiorazione del contributo è pertanto subordinata a condizioni il cui rispetto è soggetto a sindacato giurisdizionale.

«17. Il fatto che l’art. 2 n. 2 della decisione 88/408 consenta agli Stati membri di derogare per eccesso ai livelli forfettari del contributo stabiliti all’art. 2 n. 1 della stessa decisione non può quindi privare di efficacia diretta detta disposizione.

«18. Si deve però osservare che l’art. 11 della decisione 88/408 concede agli Stati membri un termine, di cui specifica la scadenza, onde garantire l’attuazione delle disposizioni della decisione.

«19. Orbene, qualora una decisione rivolta agli Stati membri contenga norme precise e incondizionate che devono essere applicate entro un determinato termine, tali norme possono essere fatte valere dai singoli nei confronti di uno Stato membro unicamente nell’ipotesi in cui quest’ultimo ometta di applicare la decisione, o la applichi in modo erroneo, alla scadenza del termine previsto.

«20. Infatti la facoltà concessa ai singoli di far valere una decisione nei confronti di Stati membri che ne siano destinatari è fondata sulla natura vincolante della decisione nei confronti dei destinatari. Perciò, quando la decisione concede agli Stati membri un termine per adempiere agli obblighi che ne derivano, essa non può essere fatta valere dai singoli contro Stati membri prima della scadenza del termine medesimo».

________________

4. L’intensità dell’efficacia diretta delle norme dell’Unione europea (e i suoi limiti)

Se con la nozione di diretta efficacia, nella sua accezione sostanziale, si intende

l’idoneità di una norma dell’Unione a costituire la fonte diretta della disciplina di un rapporto giuridico di cui sia parte un soggetto privato, la distinzione tra efficacia diretta «verticale» e «orizzontale» ha riguardo al fatto che il rapporto giuridico regolato direttamente dal diritto dell’Unione intercorra tra lo Stato e un individuo, nel caso dell’efficacia verticale, oppure tra due soggetti privati, nel caso dell’efficacia orizzontale. Guardando invece a quella che si è precedentemente indicata come la dimensione processuale o rimediale, si parla di efficacia diretta verticale od orizzontale a seconda che la norma dell’Unione possa essere fatta valere, rispettivamente, in una controversia tra uno Stato membro e un singolo oppure in una controversia tra soggetti privati.

Con riguardo agli effetti diretti verticali di una norma di diritto dell’Unione è poi operata in dottrina un’ulteriore distinzione tra effetti diretti «verticali ascendenti» e «verticali discendenti o in senso inverso». Nel primo caso, si tratta di stabilire se una norma dell’Unione possa conferire a un singolo una situazione di vantaggio (diritto, potere) nei

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confronti dello Stato, o più genericamente di un soggetto di diritto pubblico, che è tenuto pertanto a un determinato comportamento verso gli individui in forza della norma dell’Unione; ciò significa, dall’angolo visuale dei rimedi, che il singolo può far valere la norma dell’Unione direttamente efficace nei confronti dell’amministrazione statale, sia centrale sia periferica, e quindi invocarla dinanzi ai giudici nazionali, tenuti a darle applicazione e a disapplicare, in forza del primato del diritto dell’Unione, qualsiasi norma nazionale incompatibile. Nel secondo caso, invece, la questione è se la norma dell’Unione possa costituire il fondamento normativo diretto di una situazione di svantaggio (obbligo, soggezione) del singolo nei confronti dello Stato.

Per quanto concerne in particolare le direttive, l’orientamento consolidato della Corte di

giustizia nega recisamente che esse possano avere effetti diretti orizzontali (infra, par. 4.1) o verticali discendenti (infra, par. 4.2). Per entrambe le ipotesi tale indirizzo si basa principalmente sulla constatazione, difficilmente contestabile, che sebbene la direttiva sia un atto giuridico vincolante – ciò che giustifica, come si è visto, l’ammissibilità della sua diretta efficacia – essa tuttavia impone obblighi, ai sensi dell’art. 288 TFUE, soltanto in capo agli Stati membri, che ne possono essere gli unici destinatari, ma non in capo ai singoli. Ne consegue pertanto che le norme – sufficientemente chiare, precise e incondizionate, nel senso visto in precedenza – contenute in una direttiva che non sia stata tempestivamente o correttamente attuata nell’ordinamento nazionale possono produrre immediatamente soltanto l’effetto di attribuire diritti all’individuo verso lo Stato (effetti diretti ascendenti).

In altri termini, se il risultato che la direttiva impone allo Stato di raggiungere, secondo la chiara lettera dell’art. 288 TFUE, consiste nel disciplinare i rapporti tra Stato e soggetti privati, attribuendo a questi ultimi diritti nei riguardi del primo, tale risultato può prodursi anche a dispetto dell’inattività statale; se invece esso implica l’attribuzione ai soggetti privati di una situazione giuridica di vantaggio verso altri soggetti privati oppure contempla l’imposizione ai singoli di obblighi verso lo Stato, tale risultato non può prodursi direttamente in forza della direttiva ma richiede necessariamente l’intervento statale.

Si deve peraltro segnalare, in primo luogo, che la Corte dà la maggiore ampiezza

possibile alla diretta efficacia verticale delle direttive, in particolare interpretando in senso ampio la nozione di ente pubblico contro cui possono essere fatte valere le norme di una direttiva (infra, par. 4.3). In secondo luogo, la facoltà del privato di invocare la direttiva contro lo Stato è ammessa dalla giurisprudenza dell’Unione anche qualora ciò possa avere ripercussioni negative su altri privati (c.d. «situazioni triangolari »). Inoltre, con riferimento all’ipotesi particolare in cui sia stata violata una direttiva che prevede una procedura di controllo preventivo a livello europeo delle normative nazionali (ad esempio, sulle regole tecniche), la Corte di giustizia ha statuito che ciò costituisce un «vizio procedurale sostanziale» della normativa nazionale, che può come tale essere invocato dinanzi ai giudici nazionali anche in una controversia tra privati, negando tuttavia che ciò dia luogo a effetti diretti orizzontali della direttiva (infra, par. 4.4).

Sulla scorta di argomenti simili a quelli sostenuti per le direttive, la Corte di giustizia ha

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infine negato che le decisioni rivolte a uno Stato membro possano produrre effetti diretti orizzontali (infra, par. 4.5).

4.1. L’esclusione degli effetti diretti «orizzontali» delle direttive.

CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Mackenzie Stuart, avv. gen. Slynn), sentenza 26 febbraio 1986 nella causa 152/84, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Court of Appeal (Regno Unito) nella causa Marshall contro Southampton and South West Hampshire Area Health Authority (in Raccolta, p. 723). La sig.ra Marshall lamentava di essere stata licenziata dal suo datore di lavoro al compimento

del sessantaduesimo anno per aver oltrepassato l’età pensionabile, fissata a sessantacinque anni per gli uomini e a sessant’anni per le donne, e di aver pertanto subìto una discriminazione in base al sesso, vietata dalla direttiva del Consiglio n. 76/207/CEE del 9 febbraio 1976, per l’attuazione del principio della parità di trattamento fra uomini e donne. La sig.ra Marshall impugnava dinanzi alla Court of Appeal la sentenza d’appello, sostenendo che il suo datore di lavoro fosse un ente statale e che, quindi, la violazione della direttiva potesse essere fatta valere nei suoi confronti. Investita di diverse questioni pregiudiziali relative in particolare alla portata della diretta efficacia della direttiva, la Corte di giustizia ha così statuito:

«46. Va ricordato che, secondo la costante giurisprudenza della Corte (in particolare la

sentenza 19 gennaio 1982, Becker, causa 8/81, in Raccolta, p. 53), in tutti i casi in cui disposizioni di una direttiva appaiono, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise, i singoli possono farle valere nei confronti dello Stato, tanto se questo non ha trasposto tempestivamente la direttiva nel diritto nazionale, quanto se esso l’ha trasposta in modo inadeguato.

«47. Questa giurisprudenza si basa sulla considerazione che è incompatibile con la natura cogente che l’art. 189 attribuisce alla direttiva, l’escludere, in linea di principio, che l’obbligo ch’essa impone possa esser fatto valere dagli interessati. La Corte ne ha tratto la conseguenza che lo Stato membro che non ha adottato, entro il termine, i provvedimenti di esecuzione imposti dalla direttiva, non può opporre ai singoli l’inadempimento, da parte sua, degli obblighi ch’essa impone.

«48. Quanto all’argomento secondo il quale una direttiva non può essere fatta valere nei confronti di un singolo, va posto in rilievo che, secondo l’art. 189 del trattato, la natura cogente della direttiva sulla quale è basata la possibilità di farla valere dinanzi al giudice nazionale, esiste solo nei confronti dello “Stato membro cui e rivolta”. Ne consegue che la direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo e che una disposizione d’una direttiva non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei confronti dello stesso. È quindi opportuno accertare se, nel caso di specie, si debba ritenere che il resistente ha agito in quanto singolo.

«49. A questo proposito, va posto in rilievo che gli amministrati, qualora siano in grado di far valere una direttiva nei confronti dello Stato, possono farlo indipendentemente dalla qualità nella quale questo agisce, come datore di lavoro o come pubblica autorità. In

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entrambi i casi è infatti opportuno evitare che lo Stato possa trarre vantaggio dalla sua trasgressione del diritto comunitario.

«50. L’applicazione di questa condizione alle circostanze del caso di specie spetta al giudice nazionale (…).

«51. Quanto all’argomento rivolto dal governo britannico, secondo il quale la possibilità di far valere la direttiva nei confronti del resistente, nella sua qualità di ente di Stato, avrebbe come conseguenza una distinzione arbitraria ed iniqua fra i diritti dei dipendenti dello Stato e quelli dei dipendenti privati, esso non può giustificare una valutazione diversa. Una distinzione del genere potrebbe, infatti, esser agevolmente evitata se lo Stato membro interessato avesse correttamente trasposto la direttiva nel suo diritto nazionale».

CORTE DI GIUSTIZIA, sentenza 14 luglio 1994, Faccini Dori citata. Pur avendo riconosciuto che le disposizioni della direttiva n. 85/577/CEE relative al diritto di

recesso siano sufficientemente chiare e precise e incondizionate, la Corte di giustizia nega che le stesse possano essere fatte valere dinanzi ai giudizi nazionali da un consumatore nei confronti del co-contraente commerciante, così motivando:

«19. Il secondo problema sollevato dal giudice nazionale concerne in particolare la

questione se, in mancanza di provvedimenti di attuazione della direttiva entro i termini prescritti, i consumatori possano fondare sulla direttiva stessa un diritto di recesso nei confronti dei commercianti con i quali hanno stipulato un contratto e possano far valere tale diritto dinanzi a un giudice nazionale.

«20. Come ha sottolineato la Corte, secondo una giurisprudenza costante successiva alla sentenza 26 febbraio 1986, in causa 152/84, Marshall (in Raccolta, p. 723, punto 48), una direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti.

«21. Il giudice nazionale ha sottolineato che la limitazione degli effetti delle direttive incondizionate e sufficientemente precise, ma non attuate, ai rapporti tra enti statali e singoli farebbe sì che un atto normativo sia tale solo nei rapporti fra alcuni soggetti dell’ordinamento mentre, nell’ordinamento italiano come in quello di ogni altro ordinamento di qualsiasi paese moderno basato sul principio di legalità, lo Stato è un soggetto di diritto al pari di qualsiasi altro. Se la direttiva potesse essere opponibile solo nei confronti dello Stato, ciò equivarrebbe a una sanzione per l’inadempienza nell’ adozione delle misure legislative di attuazione, come se si trattasse di un rapporto di natura meramente privatistica.

«22. Basti rilevare al riguardo che, come discende dalla sentenza 26 febbraio 1986, Marshall già citata (punti 48 e 49), la giurisprudenza sulla possibilità di far valere direttive nei confronti degli enti statali è fondata sulla natura cogente attribuita alla direttiva dall’art. 189, natura cogente che esiste solo nei confronti dello “Stato membro cui è rivolta”. Detta giurisprudenza mira ad evitare che uno “Stato possa trarre vantaggio dalla sua trasgressione del diritto comunitario”.

«23. Sarebbe infatti inaccettabile che lo Stato al quale il legislatore comunitario prescrive l’adozione di talune norme volte a disciplinare i suoi rapporti o quelli degli enti statali con i

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privati e a riconoscere a questi ultimi il godimento di taluni diritti potesse far valere la mancata esecuzione dei suoi obblighi al fine di privare i singoli del godimento di detti diritti . Per tale ragione la Corte ha ammesso la possibilità di far valere nei confronti dello Stato (o di enti statali) talune disposizioni delle direttive sulla conclusione degli appalti pubblici (v. sentenza 22 giugno 1989, in causa 103/88, Fratelli Costanzo, in Raccolta, p. 1839) e delle direttive sull’ armonizzazione delle imposte sulla cifra d’affari (v. sentenza 19 gennaio 1982, in causa 8/81, Becker, ibidem, p. 53).

«24. Estendere detta giurisprudenza all’ambito dei rapporti tra singoli significherebbe riconoscere in capo alla Comunità il potere di emanare norme che facciano sorgere con effetto immediato obblighi a carico di questi ultimi, mentre tale competenza le spetta solo laddove le sia attribuito il potere di adottare regolamenti.

«25. Ne consegue che, in assenza di provvedimenti di attuazione della direttiva entro i termini prescritti, i consumatori non possono fondare sulla direttiva stessa un diritto di recesso nei confronti dei commercianti con i quali hanno stipulato un contratto, né possono far valere tale diritto dinanzi a un giudice nazionale».

4.2. L’esclusione degli effetti diretti «verticali discendenti» delle direttive. Il principio per cui la direttiva non può produrre effetti diretti verticali discendenti,

ossia non può modificare in peius la posizione soggettiva di un individuo nei confronti dello Stato trova applicazione principalmente nell’ambito del diritto penale. La giurisprudenza dell’Unione ha infatti escluso che una direttiva non (tempestivamente o correttamente) attuata possa di per sé determinare o aggravare la responsabilità penale dell’individuo.

CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Galmot, avv. gen. Mancini), sentenza 11 giugno 1987, nella causa 14/86, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Pretura di Salò (Italia) nella causa tra Pretore di Salò e ignoti (in Raccolta, p. 2545). Nell’ambito di un procedimento penale instaurato contro ignoti per taluni delitti e talune

contravvenzioni contemplati da varie disposizioni di legge in materia di tutela delle acque, la Pretura di Salò sottoponeva alla Corte di giustizia due questioni pregiudiziali vertenti sull’interpretazione della direttiva del Consiglio n. 78/659 del 18 luglio 1978, sulla qualità delle acque dolci che richiedono protezione o miglioramento per essere idonee alla vita dei pesci. La Corte ha osservato:

«17. Secondo l’ordinanza di rinvio del giudice nazionale, la normativa comunitaria riguarda

le questioni penali dinanzi ad esso sollevate “sia per il carattere di premessa essenziale per i criteri di indagine, sia per l’importanza determinante ai fini dei presupposti della normativa penale vigente, oltre che per le innegabili prospettive di allargamento della sfera di tutela penale che dalla direttiva possono derivare”.

«18. Il giudice nazionale, quindi, mira in sostanza a stabilire se la direttiva 78/659 possa

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avere, di per sé ed indipendentemente dalla legge interna di uno Stato, l’effetto di determinare o di aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni.

«19. A questo proposito la Corte ha gia affermato, nella sentenza 26 febbraio 1986 (causa 152/84, Marshall, in Raccolta, p. 723), che “la direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo e che una disposizione di una direttiva non può quindi essere fatta valere, in quanto tale, nei confronti dello stesso”. Da una direttiva non trasposta nell’ordinamento giuridico interno di uno Stato membro non possono pertanto derivare obblighi per dei privati né nei confronti di altri privati né, a maggior ragione, nei confronti dello Stato.

«20. Di conseguenza, la seconda questione va risolta nel senso che la direttiva del Consiglio 18 luglio 1978, 78/659, non può avere l’effetto, di per sé ed indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o di aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni».

CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Kakouris, avv. gen. Elmer), sentenza 26 settembre 1996, nella causa C-168/95, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Pretura circondariale di Vicenza (Italia) nel procedimento penale a carico di Arcaro (in Raccolta, p. I-4705). Secondo l’art. 3 della direttiva n. 76/464/CEE del 4 maggio 1976, qualsiasi scarico nelle acque

della Comunità di sostanze particolarmente pericolose per l’ambiente idrico è soggetto ad autorizzazione preventiva, rilasciata dall’autorità competente dello Stato membro interessato alle condizioni dettate dalla stessa direttiva. Per una di tali sostanze pericolose – il cadmio – la direttiva n. 83/513/CEE del 26 settembre 1983 stabilisce i valori limite e gli obiettivi di qualità per gli scarichi, al cui rispetto è subordinato il rilascio dell’autorizzazione di cui sopra. Le due direttive sono state recepite in Italia con d. lgs. 27 gennaio 1992 n. 133, il cui art. 7 istituisce il regime di autorizzazione previsto dalla direttiva 76/464 distinguendo tuttavia tra, da un lato, scarichi di nuovi stabilimenti industriali e, dall’altro, scarichi di stabilimenti industriali esistenti alla data del 6 marzo 1992 o posti in funzione prima del 6 marzo 1993. Gli stabilimenti esistenti, infatti, non hanno l’obbligo di ottenere un’autorizzazione per lo scarico di sostanze, come il cadmio, per le quali non sia stato ancora fissato con decreto ministeriale il valore limite di emissione.

Il sig. Arcaro, legale rappresentante di un’impresa la cui attività principale riguarda la lavorazione dei metalli preziosi, è stato perseguito ai sensi del d. lgs. n. 133 del 1992 per aver effettuato scarichi di cadmio in acque superficiali (fiume Bacchiglione) senza aver inoltrato la domanda di autorizzazione a tal fine. Dinanzi alla Pretura circondariale di Vicenza il sig. Arcaro sostiene che, essendo la sua impresa uno stabilimento esistente ai sensi del decreto e non essendo stati ancora fissati i valori limite per lo scarico di cadmio, l’autorizzazione non fosse obbligatoria. Dubitando della conformità delle disposizioni del d. lgs. n. 133/1992 con le direttive summenzionate, il Pretore sospende il procedimento e sottopone alla Corte di giustizia alcune questioni pregiudiziali. Sulla seconda questione, con la quale il giudice italiano chiede in sostanza se, in mancanza di trasposizione completa, entro il termine stabilito, delle summenzionate direttive da parte dell’Italia, un’autorità pubblica di tale Stato possa far valere l’art. 3 nei confronti di un singolo, benché ciò possa aggravare la posizione di quest’ultimo, la Corte osserva:

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«35. Alla luce di una fattispecie come quella su cui verte il processo a quo, non è

necessario accertare se l’art. 3 della direttiva sia incondizionato e sufficientemente preciso. «36. Infatti la Corte ha sottolineato che la possibilità di far valere dinanzi a un giudice

nazionale la disposizione incondizionata e sufficientemente precisa di una direttiva non trasposta esiste solo a favore dei singoli e nei confronti dello “Stato membro cui è rivolta”. Ne consegue che una direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo e che una disposizione di una direttiva non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei confronti dello stesso (sentenze 26 febbraio 1986, causa 152/84, Marshall, in Raccolta, p. 723, punto 48, e 8 ottobre 1987, causa 80/86, Kolpinghuis Nijmegen, ibidem, p. 3969, punto 9). La Corte ha precisato che questa giurisprudenza è intesa a evitare che uno Stato possa trarre vantaggio dalla sua trasgressione del diritto comunitario (sentenze 14 luglio 1994, causa C-91/92, Faccini Dori, ibidem, p. 3325, punto 22, e 7 marzo 1996, causa C-192/94, El Corte Inglés, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 16).

«37. In linea con tale giurisprudenza la Corte ha altresì dichiarato che una direttiva non può avere l’effetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o di aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni (sentenza 11 giugno 1987, causa 14/86, Pretore di Salò, in Raccolta, p. 2545).

«38. Si deve pertanto risolvere la seconda questione nel senso che, in mancanza di trasposizione completa, entro il termine stabilito, della direttiva 76/464, e quindi dell’art. 3 della medesima, nonché della direttiva 83/513 da parte di uno Stato membro, un’autorità pubblica di tale Stato non può far valere il detto art. 3 nei confronti di un singolo».

CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Skouris, avv. gen. Kokott), sentenza 3 maggio 2005, nelle cause riunite C-387/02, C-391/02 e C-403/02, sulle domande di pronuncia pregiudiziale sottoposte dal Tribunale di Milano e dalla Corte d’Appello di Lecce (Italia) nei procedimenti penali a carico di Berlusconi, Adelchi, Dell’Utri e a. (in Raccolta, p. I-3565). La prima (n. 68/151/CEE), la quarta (n. 78/660/CEE) e la settima (n. 83/349/CEE) direttiva sul

diritto societario stabiliscono l’obbligo per le società di capitali di rendere pubblici taluni atti: in particolare, il bilancio e il conto profitti e perdite di ogni esercizio (art. 2 par. 1 lett. f della prima direttiva); i conti annuali regolarmente approvati e della relazione sulla gestione delle società di capitali (art. 47 della quarta direttiva); i conti consolidati (art. 38 della settima direttiva. Tutte tre le direttive impongono agli Stati membri di prevedere sanzioni «adeguate» o «appropriate» per la violazione dei summenzionati obblighi di pubblicità.

Il reato di false comunicazioni sociali di cui agli artt. 2621 e 2622 cod. civ., che comprende sia l’ipotesi di falsità delle informazioni comunicate sia quella di omissione di informazioni la cui comunicazione è prescritta dalla legge, è stato modificato in senso più favorevole al reo dal d. lgs. 11 aprile 2002 n. 61, relativo alla disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali. L’applicazione delle nuove norme incriminatrici a fatti commessi nel vigore delle previgenti norme, in forza del principio della retroattività della norma penale più favorevole di

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cui all’art. 2 cod. pen., impedisce che tali fatti possano essere perseguiti penalmente. Il Tribunale di Milano e la Corte d’Appello di Lecce, trovatisi di fronte a situazioni di tal genere, hanno sollevato diverse questioni pregiudiziali alla Corte di giustizia per sapere se i nuovi artt. 2621 e 2622 cod. civ. siano compatibili con l’esigenza del diritto comunitario afferente all’adeguatezza delle sanzioni per violazione di disposizioni dell’ordinamento comunitario. Le questioni sono state così risolte dalla Corte di giustizia:

«Sull’esigenza del diritto comunitario relativa all’adeguatezza delle sanzioni «53. In via preliminare, occorre esaminare se l’esigenza afferente all’adeguatezza delle

sanzioni per reati risultanti da falsità in scritture contabili, come quelli previsti dai nuovi artt. 2621 e 2622 del codice civile, venga imposta dall’art. 6 della prima direttiva sul diritto societario, oppure derivi dall’art. 5 del Trattato che, secondo una giurisprudenza costante ricordata al punto 36 della presente sentenza, implica che le sanzioni per la violazione di disposizioni del diritto comunitario devono essere effettive, proporzionate e dissuasive.

«54. A tal riguardo, va constatato che sanzioni per reati risultanti da falsità in scritture contabili, come quelli previsti dai nuovi artt. 2621 e 2622 del codice civile, mirano a reprimere violazioni gravi e manifeste del principio fondamentale, il cui rispetto costituisce l’obiettivo di massima rilevanza della quarta direttiva sul diritto societario, che deriva dal quarto ‘considerando’ e dall’art. 2 n. 3 e n. 5 di questa direttiva, secondo cui i conti annuali delle società a cui si riferisce la detta direttiva devono fornire un quadro fedele della situazione patrimoniale e finanziaria nonché del risultato economico della stessa (v., in tal senso, sentenza 7 gennaio 2003, causa C-306/99, BIAO, in Raccolta, p. I-1, punto 72 e giurisprudenza ivi citata).

«55. Tale constatazione può essere estesa del resto alla settima direttiva sul diritto societario che, all’art. 16 n. 3 e n. 5, prevede in sostanza, in materia di conti consolidati, disposizioni identiche a quelle enunciate dall’art. 2 n. 3 e n. 5 della quarta direttiva sul diritto societario per i conti annuali.

«56. Per quanto riguarda il regime sanzionatorio previsto all’art. 6 della prima direttiva sul diritto societario, la formulazione di tale disposizione fornisce di per sé un indizio nel senso che tale regime deve essere inteso come concernente non solo i casi di un’omissione di qualsiasi pubblicità dei conti annuali, ma anche quelli di una pubblicità di conti annuali non redatti conformemente alle disposizioni previste dalla quarta direttiva sul diritto societario relativamente al contenuto di tali conti. (…)

«61. Un’interpretazione del detto art. 6 nel senso che esso si applica anche alla mancata pubblicazione di conti annuali redatti conformemente alle norme previste per quanto riguarda il contenuto degli stessi è inoltre confermata dal contesto e dagli obiettivi delle direttive in questione. (…)

«63. Ne consegue che l’esigenza relativa all’adeguatezza delle sanzioni come quelle previste dai nuovi artt. 2621 e 2622 del codice civile per i reati risultanti da falsità in scritture contabili è imposta dall’art. 6 della prima direttiva sul diritto societario.

«64. Ciò non toglie che, per chiarire la portata dell’esigenza relativa all’adeguatezza delle sanzioni stabilite al detto art. 6, può essere utilmente presa in considerazione la giurisprudenza costante della Corte relativa all’art. 5 del Trattato, da cui deriva un’esigenza di identica natura.

«65. Secondo tale giurisprudenza, pur conservando la scelta delle sanzioni, gli Stati membri

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devono segnatamente vegliare a che le violazioni del diritto comunitario siano punite, sotto il profilo sostanziale e procedurale, in forme analoghe a quelle previste per le violazioni del diritto interno simili per natura e importanza e che, in ogni caso, conferiscano alla sanzione stessa un carattere effettivo, proporzionale e dissuasivo (v., in particolare, sentenze Commissione/Grecia cit., punti 23 e 24; 10 luglio 1990, causa C-326/88, Hansen, in Raccolta, p. I-2911, punto 17; 30 settembre 2003, causa C-167/01, Inspire Art, ibidem, p. I-10155, punto 62, e 15 gennaio 2004, causa C-230/01, Penycoed, ibidem, p. I-937, punto 36 e giurisprudenza ivi citata).

«Sul principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite «66. A prescindere dall’applicabilità dell’art. 6 della prima direttiva sul diritto societario

alla mancata pubblicazione dei conti annuali, va osservato che, in virtù dell’art. 2 del codice penale, che enuncia il principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite, i nuovi artt. 2621 e 2622 del codice civile dovrebbero essere applicati anche se sono entrati in vigore solo successivamente alla commissione dei fatti che sono all’origine delle azioni penali avviate nelle cause principali.

«67. Va a tal riguardo ricordato che, secondo una giurisprudenza costante, i diritti fondamentali costituiscono parte integrante dei principi generali del diritto di cui la Corte garantisce l’osservanza. A tal fine, quest’ultima s’ispira alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e alle indicazioni fornite dai trattati internazionali in materia di tutela dei diritti dell’uomo cui gli Stati membri hanno cooperato o aderito (v., in particolare, sentenze 12 giugno 2003, causa C-112/00, Schmidberger, in Raccolta, p. I-5659, punto 71 e giurisprudenza ivi citata, e 10 luglio 2003, cause riunite C-20/00 e C-64/00, Booker Aquaculture e Hydro Seafood, ibidem, p. I-7411, punto 65 e giurisprudenza ivi citata).

«68. Orbene, il principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite fa parte delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri.

«69. Ne deriva che tale principio deve essere considerato come parte integrante dei principi generali del diritto comunitario che il giudice nazionale deve osservare quando applica il diritto nazionale adottato per attuare l’ordinamento comunitario e, nella fattispecie, in particolare, le direttive sul diritto societario.

«Sulla possibilità di invocare la prima direttiva sul diritto societario «70. Si pone tuttavia la questione se il principio dell’applicazione retroattiva della pena più

mite si applichi qualora questa sia contraria ad altre norme di diritto comunitario. «71. Non è però necessario decidere tale questione ai fini delle controversie principali,

poiché la norma comunitaria in questione è contenuta in una direttiva fatta valere nei confronti di un soggetto dall’autorità giudiziaria nell’ambito di procedimenti penali.

«72. E’ vero che, nel caso in cui i giudici del rinvio, sulla base delle soluzioni loro fornite dalla Corte, dovessero giungere alla conclusione che i nuovi artt. 2621 e 2622 del codice civile, a causa di talune disposizioni in essi contenute, non soddisfano l’obbligo del diritto comunitario relativo all’adeguatezza delle sanzioni, ne deriverebbe, secondo una giurisprudenza consolidata della Corte, che gli stessi giudici del rinvio sarebbero tenuti a disapplicare, di loro iniziativa, i detti nuovi articoli, senza che ne debbano chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale (v.,

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in particolare, sentenze 9 marzo 1978, causa 106/77, Simmenthal, in Raccolta, p. I-629, punti 21 e 24; 4 giugno 1992, cause riunite C-13/91 e C-113/91, Debus, ibidem, p. I-3617, punto 32, e 22 ottobre 1998, cause riunite da C-10/97 a C-22/97, IN. CO. GE.’90 e a., ibidem, p. I-6307, punto 20).

«73. Tuttavia, la Corte ha anche dichiarato in maniera costante che una direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un soggetto e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti (v., in particolare, sentenza 5 ottobre 2004, cause riunite da C-397/01 a C-403/01, Pfeiffer e a., in Raccolta, p. I-8835, punto 108 e giurisprudenza ivi citata).

«74. Nel contesto specifico di una situazione in cui una direttiva viene invocata nei confronti di un soggetto dalle autorità di uno Stato membro nell’ambito di procedimenti penali, la Corte ha precisato che una direttiva non può avere come effetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle dette disposizioni (v., in particolare, sentenze 8 ottobre 1987, causa 80/86, Kolpinghuis Nijmegen, in Raccolta, p. 3969, punto 13, e 7 gennaio 2004, causa C-60/02, X, ibidem, p. I-651, punto 61 e giurisprudenza ivi citata).

«75. Orbene, far valere nel caso di specie l’art. 6 della prima direttiva sul diritto societario al fine di far controllare la compatibilità con tale disposizione dei nuovi artt. 2621 e 2622 del codice civile potrebbe avere l’effetto di escludere l’applicazione del regime sanzionatorio più mite previsto dai detti articoli.

«78. Infatti, dalle ordinanze di rinvio risulta che, se i nuovi artt. 2621 e 2622 del codice civile dovessero essere disapplicati a causa della loro incompatibilità con il detto art. 6 della prima direttiva sul diritto societario, ne potrebbe derivare l’applicazione di una sanzione penale manifestamente più pesante, come quella prevista dall’originario art. 2621 di tale codice, durante la cui vigenza sono stati commessi i fatti all’origine delle azioni penali avviate nelle cause principali.

«77. Una tale conseguenza contrasterebbe con i limiti derivanti dalla natura stessa di qualsiasi direttiva, che vietano, come risulta dalla giurisprudenza ricordata ai punti 73 e 74 della presente sentenza, che una direttiva possa avere il risultato di determinare o di aggravare la responsabilità penale degli imputati».

4.3. L’estensione della diretta efficacia «verticale» delle direttive: l’ampia nozione di «soggetti pubblici»

Abbiamo già visto che, nella sentenza Marshall del 26 febbraio 1986, la Corte di

giustizia ha affermato che «gli amministrati, qualora siano in grado di far valere una direttiva nei confronti dello Stato, possono farlo indipendentemente dalla qualità nella quale questo agisce, come datore di lavoro o come pubblica autorità» (punto 49).

Nella sentenza 22 giugno 1989, in causa 103/88, Fratelli Costanzo s.p.a. c. Comune di Milano e Impresa ing. Lodigiani s.p.a. (in Raccolta, p. 1839), la Corte di giustizia ha risolto affermativamente la questione sollevata dal T.A.R. Lombardia se un’impresa potesse invocare una direttiva dell’Unione per ottenere l’annullamento di una delibera del comune di Milano che aveva escluso l’offerta presentata da tale impresa in una gara

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d’appalto di lavori pubblici e aveva aggiudicato l’appalto a un’altra impresa, osservando che:

«30. Va rilevato che il motivo per cui i singoli possono far valere le disposizioni di una direttiva dinanzi ai giudici nazionali ove sussistano i detti presupposti, è che gli obblighi derivanti da tali disposizioni valgono per tutte le autorità degli Stati membri.

«31. Sarebbe peraltro contraddittorio statuire che i singoli possono invocare dinanzi ai giudici nazionali le disposizioni di una direttiva aventi i requisiti sopramenzionati, allo scopo di far censurare l’operato dell’amministrazione, e al contempo ritenere che l’amministrazione non sia tenuta ad applicare le disposizioni della direttiva disapplicando le norme nazionali ad esse non conformi . Ne segue che, qualora sussistano i presupposti necessari, secondo la giurisprudenza della Corte, affinché le disposizioni di una direttiva siano invocabili dai singoli dinanzi ai giudici nazionali, tutti gli organi dell’amministrazione, compresi quelli degli enti territoriali, come i comuni, sono tenuti ad applicare le suddette disposizioni».

Infine, nella sentenza 12 luglio 1990, in causa C-188/89, Foster e a. c. British Gas plc (in Raccolta, p. I-3313), la Corte di giustizia ha ammesso che l’art. 5 par. 1 della direttiva 76/207/CEE, relativa alla parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro e le condizioni di lavoro, potesse essere invocato nei confronti di un’impresa privata che aveva rilevato il servizio pubblico di distribuzione del gas (oggetto di privatizzazione) e lo gestiva in regime di monopolio. Secondo la Corte, infatti, «fa comunque parte degli enti ai quali si possono opporre le norme di una direttiva idonea a produrre effetti diretti un organismo che (1), indipendentemente dalla sua forma giuridica, sia stato incaricato, con un atto della pubblica autorità, di prestare, sotto il controllo di quest’ultima, un servizio di interesse pubblico e che (2) dispone a questo scopo di poteri che eccedono i limiti di quelli risultanti dalle norme che si applicano nei rapporti fra singoli » (punto 20).

4.4. Effetti diretti verticali delle direttive e ripercussioni negative per altri privati: a) le c.d. situazioni triangolari

In un caso come quello oggetto della sentenza Fratelli Costanzo del 1989 (supra, par.

4.3), dall’affermazione della diretta efficacia di una direttiva in materia di appalti di lavori pubblici nei confronti di un’amministrazione comunale che indice una gara d’appalto può necessariamente conseguire – qualora, come nel caso di specie, la gara sia già conclusa e l’appalto sia stato già aggiudicato – l’obbligo per il giudice nazionale di annullare la delibera di aggiudicazione dell’appalto per riammettere l’impresa esclusa in forza di norme nazionali contrarie alla direttiva. È evidente che, in siffatte circostanze, gli effetti diretti verticali ascendenti della direttiva hanno conseguenze negative per l’impresa che si vede revocata l’aggiudicazione dell’appalto. Analoghe conseguenze si producono in tutti i casi in cui un privato, invocando una direttiva nei confronti di un’autorità amministrativa, ottiene che quest’ultima revochi un provvedimento che aveva prodotto effetti favorevoli

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per un altro privato.7 Si parla, in tutti questi casi, di «situazioni triangolari»: un privato (A) fa valere un obbligo che trova diretta fonte in una direttiva nei confronti di un soggetto pubblico (B) il quale, per ottemperarvi, deve adottare provvedimenti che producono conseguenze sfavorevoli per un altro privato (C).

La Corte di giustizia ha per lungo tempo ammesso implicitamente che tali ripercussioni negative nei confronti di un terzo non siano tali da mettere in discussione gli effetti diretti verticali delle direttive. Recentemente, ha però preso espressa posizione (negativa) sulla questione, sottopostale in via pregiudiziale, se tali conseguenze vadano assimilate a un effetto diretto «orizzontale» o «discendente» della direttiva, come tale non ammissibile.

CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Jann, avv. gen. Léger), sentenza 7 gennaio 2004, nella causa C-201/02, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla High Court of Justice (England & Wales), Queen's Bench Division (Administrative Court) (Regno Unito) nella causa tra The Queen, su domanda di Wells, contro Secretary of State for Transport, Local Government and the Regions (in Raccolta, p. I-723).8 Secondo l’art. 2 par. 1 della direttiva del Consiglio n. 85/337/CEE del 27 giugno 1985,

concernente la valutazione dell'impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, gli Stati membri devono adottare le disposizioni necessarie affinché, prima del rilascio dell'autorizzazione (ossia, ai sensi dell’art. 1 par. 2, «la decisione dell'autorità competente, o delle autorità competenti, che conferisce al committente il diritto di realizzare il progetto stesso»), i progetti per i quali si prevede un impatto ambientale importante, segnatamente per la loro natura, le loro dimensioni o la loro ubicazione, definiti all’art. 4, formino oggetto di una valutazione del loro impatto ambientale. L’ordinamento inglese si è conformato, in generale, alla direttiva, facendo tuttavia salvi i provvedimenti volti a consentire la ripresa delle attività oggetto di vecchie concessioni minerarie.

Nel caso di specie, era stata consentita la riapertura di una cava, per la quale era stata rilasciata una concessione mineraria nel 1947 ma che era poi rimasta per lungo tempo inutilizzata, senza richiedere nessuna previa valutazione dell’impatto ambientale. La sig.ra Wells, che aveva acquistato un’abitazione nelle adiacenze della cava nel periodo in cui questa era inattiva, chiedeva all’amministrazione di adottare i provvedimenti atti a rimediare alla mancata valutazione dell'impatto ambientale nella procedura di concessione, vale a dire la revoca o la modifica della concessione mineraria. Non ricevendo risposta, adiva la High Court, la quale sollevava diverse questioni pregiudiziali alla Corte di giustizia. In particolare, chiedeva «se i singoli i) possano far valere la mancata richiesta della valutazione dell'impatto ambientale da parte dello Stato, o se ii) ciò non sia consentito in relazione alle limitazioni imposte dalla Corte alla dottrina dell'effetto diretto, ad esempio per quanto riguarda l’“effetto diretto orizzontale” o l'imposizione di oneri od obblighi ai

7 Cfr. la sentenza 12 novembre 1996, in causa C-201/94, Smith & Nephew e Primecrown, in Raccolta, p. I-

5819, in cui la Corte ha dichiarato che un operatore economico può avvalersi delle disposizioni di una direttiva al fine di contestare la validità di un’autorizzazione all’immissione in commercio rilasciata a un concorrente per una specialità medicinale.

8 Si consiglia la lettura delle conclusioni dell’avv. gen. Léger, presentate il 25 settembre 2003, in Raccolta, p. I-727 ss., spec. punto 58 ss.

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singoli da parte di un organo dello Stato» e, in caso di soluzione positiva a quest’ultima questione, «quali siano i limiti di tali divieti relativi all'effetto diretto». La Corte ha così risposto:

«56. …occorre rilevare che il principio della certezza del diritto osta a che le direttive

possano creare obblighi a carico dei singoli. Nei confronti di questi ultimi, le disposizioni di una direttiva possono generare solo diritti (v. sentenza 26 febbraio 1986, causa 152/84, Marshall, in Raccolta, p. 723, punto 48). Di conseguenza, un singolo non può far valere una direttiva nei confronti di uno Stato membro, qualora si tratti di un obbligo pubblico direttamente connesso all'attuazione di un altro obbligo che incombe ad un terzo, ai sensi di tale direttiva (v., in tal senso, sentenze 22 febbraio 1990, causa C-221/88, Busseni, ibidem, p. I-495, punti 23-26, e 4 dicembre 1997, causa C-97/96, Daihatsu Deutschland, ibidem, p. I-6843, punti 24-26).

«57. Per contro, mere ripercussioni negative sui diritti di terzi, anche se certe, non giustificano che si rifiuti ad un singolo di far valere le disposizioni di una direttiva nei confronti dello Stato membro interessato (v. segnatamente, in tal senso, sentenze 22 giugno 1989, causa 103/88, Fratelli Costanzo, in Raccolta, p. 1839, punti 28-33; WWF e a. cit., punti 69 e 71; 30 aprile 1996, causa C-194/94, Cia Security International, ibidem, p. I-2201, punti 40-55; 12 novembre 1996, causa C-201/94, Smith & Nephew e Primecrown, ibidem, p. I-5819, punti 33-39, e 26 settembre 2000, causa C-443/98, Unilever, ibidem, p. I-7535, punti 45-52).

«58. Nella causa principale, l'obbligo per lo Stato membro interessato di garantire che le autorità competenti valutino l'impatto ambientale dello sfruttamento della cava di Conygar Quarry non è direttamente connesso all'esecuzione di un qualsiasi obbligo che incomba, ai sensi della direttiva 85/337, sui proprietari di tale cava. Il fatto che le operazioni minerarie debbano essere interrotte per attendere i risultati della valutazione è, certamente, la conseguenza dell'adempimento tardivo degli obblighi del detto Stato. Tuttavia, una simile conseguenza non può essere qualificata, come afferma il Regno Unito, come «inverse direct effect» delle disposizioni di tale direttiva nei confronti dei detti proprietari ».

Quanto alla portata dell’obbligo di rimediare alla mancata valutazione dell’impatto ambientale

della riapertura della cava, e in particolare se a tal fine l’autorità competente fosse obbligata a revocare o modificare l’autorizzazione rilasciata per lo sfruttamento della cava o a ordinarne la sospensione, la Corte di giustizia ha dichiarato:

«64. …da una giurisprudenza costante risulta che, ai sensi del principio di leale

collaborazione previsto dall'art. 10 CE, gli Stati membri hanno l'obbligo di eliminare le conseguenze illecite di una violazione del diritto comunitario (v., segnatamente, sentenze 16 dicembre 1960, causa 6/60, Humblet, in Raccolta, p. 1095, in particolare pag. 1113, e 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich e a., ibidem, p. I-5357, punto 36). Un tale obbligo incombe, nell'ambito delle sue competenze, a ciascun organo dello Stato membro interessato (v., in tal senso, sentenza 12 giugno 1990, causa C-8/88, Germania/Commissione, ibidem, p. I-2321, punto 13).

«65. Pertanto, spetta alle autorità competenti di uno Stato membro, nell'ambito delle loro attribuzioni, adottare tutti i provvedimenti necessari, generali o particolari, affinché i progetti siano esaminati, per stabilire se siano idonei a produrre un impatto ambientale importante e, in

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caso affermativo, siano sottoposti ad una valutazione di quest'ultimo (v., in tal senso, sentenze 24 ottobre 1996, causa C-72/95, Kraaijeveld e a., in Raccolta, p. I-5403, punto 61, e WWF e a. cit., punto 70). Provvedimenti particolari di questo tipo sono costituiti, in particolare, nei limiti del principio dell'autonomia procedurale degli Stati membri, dalla revoca o dalla sospensione di un'autorizzazione già rilasciata al fine di effettuare una valutazione dell'impatto ambientale del progetto in questione come quella prevista dalla direttiva 85/337.

«66. Inoltre, lo Stato membro ha l'obbligo di risarcire tutti i danni causati dalla mancata valutazione dell'impatto ambientale.

«67. Le modalità processuali applicabili rientrano nell'ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro in forza del principio dell'autonomia procedurale degli Stati membri, purché, tuttavia, esse non siano meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna (principio di equivalenza) e non rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività) (v. in tal senso, segnatamente, sentenze 14 dicembre 1995, causa C-312/93, Peterbroeck, in Raccolta, p. I-4599, punto 12, e 16 maggio 2000, causa C-78/98, Preston e a., ibidem, p. I-3201, punto 31).

«68. Per quanto riguarda la causa principale, dato che lo sfruttamento della cava di Conygar Quarry avrebbe dovuto essere sottoposta ad una valutazione del suo impatto ambientale, conformemente a quanto richiesto dalla direttiva 85/337, le autorità competenti hanno l'obbligo di adottare tutti i provvedimenti, generali o particolari, atti a rimediare all'omissione di una tale valutazione.

«69. A tale proposito spetta al giudice nazionale accertare se il diritto interno preveda la possibilità di revocare o di sospendere un'autorizzazione già rilasciata al fine di sottoporre il detto progetto ad una valutazione dell'impatto ambientale, conformemente a quanto richiesto dalla direttiva 85/337, o, in alternativa, nel caso in cui il singolo vi acconsenta, la possibilità per quest'ultimo di pretendere il risarcimento del danno subito».

4.5. (segue): b) La facoltà per un privato di chiedere, anche in una controversia che lo opponga a un altro privato, la disapplicazione delle regole nazionali adottate in violazione della procedura comunitaria di controllo prevista da una direttiva.

La direttiva 98/34/CE del 22 giugno 1998 prevede una procedura d’informazione nel

settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche che possano ostacolare la libera circolazione delle merci. Analoga procedura è prevista dalla direttiva 98/48/CE del 20 luglio 1998 per le regole relative ai servizi della società dell’informazione.9 Tali atti permettono alla Commissione di dotarsi di uno strumento di controllo preventivo degli ostacoli tecnici agli scambi in beni e (in certi) servizi, che si aggiunge allo strumento di

9 Per la versione consolidata delle summenzionate direttive, v. il sito http://eur-lex.europa.eu. Si precisa inoltre

che la direttiva 98/34 è la versione consolidata della direttiva 83/189/CEE del 21 marzo 1983, e successive modifiche, alla quale si riferiscono le sentenze riportate nel testo.

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controllo successivo costituito dai divieti di restrizioni quantitative e di misure di effetto equivalente all’importazione e all’esportazione di merci (artt. 28 e 29 CE, ora artt. 34 e 35 TFUE) e di restrizioni alla libera prestazione di servizi (art. 49 CE, ora art. 56 TFUE). Divieti che, è bene sottolinearlo, producono effetti diretti pieni, ossia anche con riguardo alle controversie tra privati.

A tal fine, la direttiva pone essenzialmente due obblighi per gli Stati membri: i) l’obbligo di notificare immediatamente alla Commissione ogni progetto di regola

tecnica, «salvo che si tratti del semplice recepimento integrale di una norma internazionale e europea» (art. 8 par. 1);

ii) l’obbligo di rinviare l’adozione del progetto di regola tecnica, di tre mesi dalla data in cui la Commissione ha ricevuto la notifica (art. 9 par. 1) o di dodici mesi, se la Commissione comunica la sua intenzione di proporre o di adottare una direttiva, un regolamento o una decisione in materia, oppure che il progetto di regola tecnica concerne una materia oggetto di una proposta di direttiva, di regolamento o di decisione già presentata (art. 9 parr. 3 e 4).

Per «regola tecnica» si intende, ai sensi dell’art. 1 n. 11, «una specificazione tecnica o altro requisito o una regola relativa ai servizi, comprese le disposizioni amministrative che ad esse si applicano, la cui osservanza è obbligatoria, de jure o de facto, per la commercializzazione, la prestazione di servizi, lo stabilimento di un fornitore di servizi o l'utilizzo degli stessi in uno Stato membro o in una parte importante di esso, nonché, fatte salve quelle di cui all'articolo 10, le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri che vietano la fabbricazione, l'importazione, la commercializzazione o l'utilizzo di un prodotto oppure la prestazione o l'utilizzo di un servizio o lo stabilimento come fornitore di servizi».

La direttiva prevede dunque solo obblighi procedurali, che riguardano apparentemente

soltanto i rapporti tra gli Stati membri e la Commissione. Ciò non toglie che le regole tecniche, se adottate in violazione dei suddetti obblighi di notifica preventiva e di sospensione, possono venire in rilievo non solo nei rapporti tra i privati e lo Stato, ma anche nei rapporti reciproci tra soggetti privati. Ad esempio, la commercializzazione, da parte di un operatore economico, di prodotti con conformi alle regole tecniche nazionali può rappresentare il fondamento di un’azione per concorrenza sleale intentata da un concorrente. E ancora, la consegna di prodotti non conformi alle regole tecniche applicabili può essere considerata quale vizio della cosa venduta e fondare la responsabilità contrattuale del venditore, legittimando l’acquirente a chiedere l’esatto adempimento, la risoluzione del contratto ovvero a rifiutare il pagamento, salvo il diritto al risarcimento del danno.

La Corte di giustizia è stata quindi chiamata a pronunciarsi sulla questione se gli obblighi procedurali posti dalle direttive de quibus possano avere l’effetto di escludere che i soggetti privati debbano conformarsi alle regole tecniche emanate da uno Stato membro in violazione del diritto dell’Unione e quali ne siano le conseguenze per i rapporti privatistici.

In un primo momento, essa ha affermato che l’inosservanza degli articoli 8 e 9 della direttiva 98/34/CE costituisce un «vizio procedurale sostanziale» atto a comportare

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l’inapplicabilità ai singoli delle regole tecniche nazionali adottate in spregio della direttiva. In altre parole, il legislatore nazionale non può obbligare i privati al rispetto di regole tecniche la cui adozione sia viziata da una violazione di obblighi comunitari e, quindi, i privati possono avvalersi direttamente della direttiva dinanzi al giudice nazionale, tenuto a disapplicare la regola tecnica (sentenza CIA Security International).

In un secondo momento, la Corte ha chiarito che il giudice nazionale deve disapplicare una regola tecnica adottata in violazione degli obblighi posti agli Stati membri dalle summenzionate disposizioni della direttiva anche nell’ambito di una causa civile tra singoli vertente su diritti e obblighi di natura contrattuale (sentenza Unilever).10 CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Rodríguez Iglesias, avv. gen. Elmer), sentenza 30 aprile

1996 nella causa C-194/94, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunal de commerce di Liegi (Belgio) nella causa tra CIA Security International SA e Signalson SA, Securitel SPRL (in Raccolta, p. I-2201). Le questioni pregiudiziali relative all’interpretazione della direttiva 83/189/CEE del 28 marzo

1983 (ora codificata dalla direttiva 98/34/CE, alla luce delle successive modifiche) erano sorte nell’ambito di una controversia pendente dinanzi al Tribunal de commerce di Liegi tra imprese operanti nel campo della produzione e vendita di sistemi e centrali d’allarme. La CIA Security aveva promosso un’azione inibitoria per far cessare il comportamento, che si assumeva costituire una pratica commerciale sleale e quindi vietata, di due imprese concorrenti che sostenevano che un sistema antifurto da essa distribuito non possedesse i requisiti di sicurezza previsti dalla normativa belga. Le due convenute chiedevano in via riconvenzionale, in particolare, di far cessare la distribuzione da parte della CIA Security del sistema d’allarme in quanto non era omologato secondo la normativa vigente. Tuttavia, questa normativa prescriveva regole tecniche ai sensi della direttiva e non era stata notificata alla Commissione prima della sua adozione.

La non conformità delle norme belghe con la direttiva, ma soprattutto le conseguenze della stessa per quanto concerne i singoli, era dunque cruciale per risolvere la controversia. Da un lato, infatti, la legittimazione e l’interesse ad agire della parte attrice si fondavano sul fatto che essa non fosse tenuta a rispettare le regole tecniche belghe contrastanti con la direttiva. Dall’altro lato, la domanda riconvenzionale poteva essere accolta soltanto se tali regole tecniche erano applicabili alla CIA Security. La Corte di giustizia ha così risolto la questione relativa all’obbligo del giudice nazionale di disapplicare le regole tecniche nazionali emanate in violazione della direttiva 83/189:

10 V. anche la sentenza 6 giugno 2002, in causa C-159/00, Sapod Audic c. Eco-Emballages SA, in Raccolta, p. I-

5031, in cui la Corte ha dichiarato che un privato può invocare l'omessa comunicazione, richiesta dall'art. 8 della direttiva 83/189, di una disposizione nazionale, ove la interpretasse come implicante un obbligo di marchiatura o di etichettatura, e pertanto come una regola tecnica ai sensi della direttiva. «Il giudice nazionale è tenuto in tal caso a disapplicare tale disposizione, fermo restando che il problema di sapere quali conclusioni debbano trarsi dall'inapplicabilità della citata disposizione nazionale quanto all'entità della sanzione prevista dal diritto nazionale applicabile, quale la nullità o l'inopponibilità di un contratto, è retto dal diritto nazionale. Tale conclusione è tuttavia sottoposta alla condizione che le norme di diritto nazionale applicabili non siano meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna e non siano strutturate in modo da rendere praticamente impossibile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario».

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«40. Occorre sottolineare anzitutto che la direttiva 83/189 è volta a tutelare, mediante un

controllo preventivo, la libera circolazione delle merci, che costituisce uno dei fondamenti della Comunità. L'utilità di tale controllo emerge nei casi in cui regole tecniche che rientrano nel campo di applicazione della direttiva possono costituire ostacoli agli scambi delle merci fra Stati membri, ostacoli che sono ammissibili solo se necessari per soddisfare esigenze imperative che perseguono un obiettivo di interesse generale. Il controllo istituito dalla direttiva è efficace se tutti i progetti di regole tecniche in essa ricompresi debbono essere notificati e se l'adozione e l'entrata in vigore delle dette regole - salvo quelle la cui urgenza giustifica un’eccezione - devono essere sospese durante i periodi stabiliti dall'art. 9.

«41. La notifica e il periodo di sospensione consentono pertanto alla Commissione e agli altri Stati membri di accertare se il progetto di cui trattasi frapponga ostacoli agli scambi in contrasto con il Trattato CE ovvero ostacoli che occorre evitare adottando provvedimenti comuni o armonizzati, nonché di proporre modifiche ai provvedimenti nazionali progettati. Tale procedura consente del resto alla Commissione di proporre o emanare norme comunitarie che disciplinino la materia oggetto della misura progettata.

«42. Va poi rilevato che, per giurisprudenza costante, in tutti i casi in cui le disposizioni di una direttiva appaiano, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise, tali disposizioni possono essere richiamate per opporsi a qualsiasi disposizione di diritto interno non conforme alla direttiva (v. sentenze 19 gennaio 1982, causa 8/81, Becker, in Raccolta, p. 53, e 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich e a., ibidem, p. I-5357)…

«44. …gli artt. 8 e 9 della direttiva 83/189 prescrivono un obbligo preciso per gli Stati membri di notificare alla Commissione i progetti di regole tecniche prima della loro adozione. Tali articoli, essendo pertanto, dal punto di vista sostanziale, incondizionati e sufficientemente precisi, possono essere invocati dai singoli dinanzi ai giudici nazionali.

«45. Occorre poi valutare le conseguenze giuridiche che derivano dall'inadempimento da parte degli Stati membri dell'obbligo di notifica e, più in particolare, se la direttiva 83/189 vada interpretata nel senso che l'inadempimento dell'obbligo di notifica costituisce un vizio di procedura nell'adozione delle regole tecniche di cui trattasi che ne comporta l'inapplicabilità, con la conseguenza che esse non possono essere opposte ai singoli.

«46. I governi tedesco, olandese e quello del Regno Unito ritengono in proposito che la direttiva 83/189 riguardi esclusivamente i rapporti fra gli Stati membri e la Commissione, si limiti a imporre obblighi procedurali che gli Stati membri debbono osservare all’atto dell'emanazione delle regole tecniche, senza però rimettere in discussione la loro competenza a emanarle dopo il periodo di sospensione, e infine non contenga nessuna disposizione espressa relativa alle eventuali sanzioni per l'inadempimento dei detti obblighi procedurali.

«47. Si deve rilevare anzitutto in tale contesto che nessuno dei detti elementi evita l'inapplicabilità delle regole tecniche di cui trattasi in caso di inosservanza della direttiva 83/189.

«48. Siffatta conseguenza dell'inadempimento degli obblighi imposti dalla direttiva 83/189 non è subordinata a una disposizione espressa in tal senso. Come si è già osservato, è assodato che la finalità della direttiva è la tutela della libera circolazione delle merci mediante un controllo preventivo e che l'obbligo di notifica costituisce un mezzo essenziale per l'attuazione del detto controllo comunitario. L'efficacia di tale controllo sarà ancora maggiore se la direttiva viene interpretata nel senso che l'inadempimento dell'obbligo di notifica

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costituisce un vizio procedurale sostanziale atto a comportare l'inapplicabilità ai singoli delle regole tecniche di cui è causa.11

«49. Va sottolineato in secondo luogo che tale interpretazione della direttiva è conforme alla sentenza 13 luglio 1989 nella causa 380/87, Enichem Base e a. (in Raccolta, p. 2491, punti 19-24). In quella sentenza, in cui la Corte si pronunciava sull'obbligo degli Stati membri di comunicare alla Commissione i progetti di normativa nazionale nell'ambito di applicazione di un articolo della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti (Gazz. Uff. Com. eur., L 194, p. 39), la Corte ha dichiarato che né il testo né la finalità della disposizione in esame consentivano di ritenere che dal mancato rispetto dell'obbligo di comunicazione imposto agli Stati membri derivasse di per sé l'illegittimità delle normative in tal modo adottate. La Corte ha esplicitamente sottolineato, a tale proposito, che la disposizione in parola si era limitata a imporre un obbligo di previa comunicazione che non subordinava l'entrata in vigore delle normative progettate all'accordo o alla mancata opposizione della Commissione e che non stabiliva una procedura di controllo comunitario dei progetti in questione. La Corte ha quindi concluso che la disposizione in esame riguardava le relazioni tra gli Stati membri e la Commissione, ma che essa non attribuiva invece ai singoli alcun diritto atto a essere leso in caso di violazione, da parte di uno Stato membro, dell'obbligo di previa comunicazione alla Commissione dei suoi progetti di normativa.

«50. Nel caso di specie, al contrario, scopo della direttiva non è semplicemente informare la Commissione, ma appunto, come già rilevato al punto 41 della presente sentenza, in una prospettiva più ampia, eliminare o limitare gli ostacoli agli scambi, informare gli altri Stati membri delle regolamentazioni tecniche progettate da uno Stato, dare alla Commissione e agli Stati membri il tempo necessario per reagire e proporre una modifica che consenta di ridurre le restrizioni alla libera circolazione delle merci derivanti dalla misura progettata e lasciare alla Commissione il tempo necessario per proporre una direttiva di armonizzazione. D'altra parte, il testo dagli artt. 8 e 9 della direttiva 83/189 è chiaro, dal momento che essi prevedono una procedura di controllo comunitario dei progetti di regolamentazioni nazionali e la subordinazione della data della loro entrata in vigore al benestare o alla non opposizione della Commissione.

«51. Occorre infine stabilire se, come ha osservato in particolare il governo del Regno Unito, esistano motivi specifici che ostano a un'interpretazione della direttiva 83/189 nel senso che implica l' inapplicabilità ai terzi delle regole tecniche adottate in spregio della direttiva.

«52. Si è osservato in proposito che l'inopponibilità di siffatte regole ai terzi causerebbe un vuoto normativo nell'ordinamento giuridico nazionale di cui trattasi e potrebbe pertanto

11 La Corte ricorre dunque al principio dell’effetto utile, che impone un’applicazione o un’interpretazione delle

norme comunitarie che sia funzionale al raggiungimento delle loro finalità. Tale principio rientra tra i principi generali del diritto che la Corte di giustizia considera tra le fonti non scritte dell’ordinamento comunitario (cfr. G. TESAURO, Diritto comunitario, 3ª ed., Padova, 2003, p. 108 s). La giurisprudenza comunitaria ha fatto ampia applicazione di tale principio, ad esempio per affermare i principi della diretta efficacia (in particolare delle direttive: v. supra, par. 2.2) e del primato del diritto comunitario (infra, capitolo V). Nel caso di specie, l’effetto utile degli obblighi imposti dalla direttiva comporta che, in mancanza di espresse disposizioni al riguardo, la questione delle conseguenze dell’inadempimento di tali obblighi debba essere risolta nel senso che meglio consenta di raggiungere le finalità della direttiva, e quindi nel senso dell’inapplicabilità ai singoli delle regole nazionali non conformi alla direttiva.

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comportare gravi inconvenienti, in particolare qualora l'inopponibilità riguardi normative in materia di sicurezza.

«53. Questo argomento va disatteso. Infatti, uno Stato membro può far ricorso alla procedura d’urgenza ex art. 9 par. 3 della direttiva 83/189 qualora, per i motivi stabiliti dalla detta disposizione, ritenga necessario elaborare in brevissimo tempo regole tecniche per adottarle e applicarle al più presto, senza che sia possibile procedere a una consultazione.

«54. Alla luce delle considerazioni sin qui svolte si deve concludere che la direttiva 83/189 va interpretata nel senso che l'inadempimento dell'obbligo di notifica comporta l'inapplicabilità delle regole tecniche di cui trattasi e che esse pertanto non possono essere opposte ai singoli».

CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Rodríguez Iglesias, avv. gen. Jacobs), sentenza 26 settembre 2000 nella causa C-443/98, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Pretore di Milano (Italia) nella causa tra Unilever Italia s.p.a. e Central Food s.p.a. (in Raccolta, p. I-7535). Il Parlamento italiano aveva adottato la legge 3 agosto 1998 n. 313 in materia di etichettatura

d’origine dell'olio extravergine d'oliva, dell'olio d'oliva vergine e dell'olio di oliva, nonostante che il 23 luglio 1998 la Commissione avesse informato le autorità italiane della propria intenzione di legiferare sulla materia invitandole a rinviare l'adozione del progetto di legge di dodici mesi a decorrere dalla sua comunicazione, conformemente all'art. 9 par. 3 della direttiva 83/189. In base alla legge n. 313, gli oli considerati possono essere messi in commercio con una dicitura che indichi che sono stati «prodotti» o «fabbricati» in Italia solo se l'intero ciclo di raccolta, produzione, lavorazione e condizionamento si è svolto in Italia. L'etichettatura dell'olio prodotto in Italia, in tutto o in parte, con oli originari di altri paesi deve menzionare questo fatto indicando le percentuali interessate nonché il paese o i paesi di provenienza.

In esecuzione di un ordine della Central Food, la Unilever le forniva 648 litri di olio extravergine di oliva per un ammontare di lire 5.330.708. La Central Food rifiutava però di pagare il prezzo dovuto e invitava la Unilever a ritirare la merce in giacenza nel proprio magazzino, a motivo del fatto che l'olio fornito non era etichettato conformemente alla legge n. 313. La Unilever proponeva pertanto un ricorso dinanzi al Pretore di Milano al fine di ottenere un'ingiunzione di pagamento per un importo corrispondente al prezzo della fornitura. Alla questione sottopostale dal giudice milanese, se la legge n. 313 potesse essere disapplicata al fine di emettere l'ingiunzione di pagamento, la Corte di giustizia ha risposto:

«31. Con la sua questione pregiudiziale il giudice a quo chiede, in sostanza, se il giudice

nazionale, nell'ambito di un procedimento civile tra singoli in ordine a diritti e obblighi di natura contrattuale, debba rifiutare di applicare una regola tecnica nazionale adottata durante un periodo di rinvio di adozione previsto all'art. 9 della direttiva 83/189. (…)

«37. Tenuto conto di tali osservazioni, occorre, in primo luogo, esaminare se la conseguenza giuridica dell'inosservanza degli obblighi della direttiva 83/189 sia la stessa per quanto riguarda l'obbligo di rispettare i periodi di rinvio di adozione, conformemente all'art. 9 della direttiva 83/189, e per quanto riguarda l'obbligo di notifica, conformemente all'art. 8 della

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direttiva 83/189. «38. Al riguardo, si deve ricordare che la sentenza CIA Security International verteva su

una regola tecnica non notificata conformemente all'art. 8 della direttiva 83/189, il che spiega perché tale sentenza, nel suo dispositivo, si limiti ad accertare la non applicabilità delle regole tecniche non notificate conformemente a tale articolo.

«39. Tuttavia, nell'esporre la motivazione che ha condotto a tale accertamento, la Corte ha altresì esaminato gli obblighi derivanti dall'art. 9 della direttiva 83/189. Ora, tale motivazione dimostra che, alla luce dell'obiettivo della direttiva 83/189 nonché della formulazione del suo art. 9, i detti obblighi devono essere trattati allo stesso modo di quelli derivanti dall'art. 8 della stessa direttiva. (…)

«44. Anche12 al punto 48 della sentenza CIA Security International, dopo aver ricordato che la finalità della direttiva 83/189 è la tutela della libera circolazione delle merci mediante un controllo preventivo e che l'obbligo di notifica costituisce un mezzo essenziale per l'attuazione del detto controllo comunitario, la Corte ha rilevato che l'efficacia di tale controllo sarà ancora maggiore se la direttiva viene interpretata nel senso che l'inadempimento dell'obbligo di notifica costituisce un vizio procedurale sostanziale atto a comportare l'inapplicabilità ai singoli delle regole tecniche di cui è causa, dalle considerazioni riportate ai punti 40-43 della presente sentenza risulta che l'inosservanza degli obblighi di rinvio di adozione dettati all'art. 9 della direttiva 83/189 costituisce anch'essa un vizio procedurale sostanziale atto a comportare l'inapplicabilità delle regole tecniche.

«45. Pertanto, occorre accertare, in secondo luogo, se l'inapplicabilità delle regole tecniche adottate in violazione dell'art. 9 della direttiva 83/189 possa essere fatta valere in un procedimento civile relativo ad una controversia tra singoli su diritti e obblighi di natura contrattuale.

«46. Innanzi tutto, occorre constatare che, nell'ambito di un procedimento civile di tale natura, l'applicazione di regole tecniche adottate in violazione dell'art. 9 della direttiva 83/189 può avere l'effetto di ostacolare l'utilizzazione o la commercializzazione di un prodotto non conforme a tali regole.

«47. Ciò si verifica così nella fattispecie di cui alla causa principale, dato che l'applicazione della normativa italiana può ostacolare la commercializzazione da parte della Unilever dell'olio extravergine di oliva da essa messo in vendita.

«48. Occorre poi ricordare che l'inapplicabilità come conseguenza giuridica della violazione dell'obbligo di notifica è stata pronunciata, nella sentenza CIA Security International, nel dare soluzione a questioni pregiudiziali proposte nell'ambito di un procedimento relativo ad una controversia tra imprese concorrenti basata su disposizioni nazionali che vietavano le pratiche commerciali sleali.

«49. Infatti, discende dalla giurisprudenza della Corte che l'inapplicabilità di una regola tecnica non notificata conformemente all'art. 8 della direttiva 83/189 può essere fatta valere in

12 Sebbene l’italiano fosse la lingua processuale della sentenza, mi pare, alla luce anche di un raffronto con le

versioni in lingua inglese e francese della sentenza, che il senso, e la costruzione linguistica, del punto 44 sarebbe molto più chiaro se si sostituisse all’inizio del periodo la parola «anche» con «poiché» o «dal momento che» («although», «si»).

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una controversia tra singoli per i motivi menzionati ai punti 40-43 della presente sentenza. Lo stesso vale per quanto riguarda l'inosservanza degli obblighi sanciti dall'art. 9 della stessa direttiva e non vi è motivo, a questo proposito, di trattare in maniera diversa controversie tra singoli in materia di concorrenza sleale, come nella causa CIA Security International, e controversie tra singoli vertenti su diritti ed obblighi di natura contrattuale, come nella controversia oggetto della causa a qua.

«50. Se è vero, come hanno rilevato i governi italiano e danese, che una direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti (v. sentenza 14 luglio 1994, causa C-91/92, Faccini Dori, in Raccolta, p. I-3325, punto 20), tale giurisprudenza non si applica in una fattispecie in cui l'inosservanza dell'art. 8 o dell'art. 9 della direttiva 83/189, che costituisce un vizio procedurale sostanziale, comporta l'inapplicabilità della regola tecnica adottata in violazione di uno di tali articoli.

«51. In una fattispecie del genere, contrariamente all'ipotesi della mancata trasposizione delle direttive cui si applica la giurisprudenza menzionata da tali due governi, la direttiva 83/189 non definisce in alcun modo il contenuto sostanziale della norma giuridica sulla base della quale il giudice nazionale deve risolvere la controversia dinanzi ad esso pendente. Essa non crea né diritti né obblighi per i singoli.

«52. Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, occorre risolvere la questione nel senso che al giudice nazionale, nell'ambito di un procedimento civile relativo ad una controversia tra singoli vertente su diritti ed obblighi di natura contrattuale, compete la disapplicazione di una regola tecnica nazionale adottata durante un periodo di rinvio di adozione previsto all'art. 9 della direttiva 83/189».

4.6. L’esclusione degli effetti diretti «orizzontali» delle decisioni rivolte agli Stati membri.

CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Rosas, avv. gen. Trstenjak), sentenza 7 giugno 2007 nella

causa C-80/06, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale ordinario di Novara (Italia) nella causa Carp s.n.c. di L. Moleri e V. Corsi, sostenuta dall’Associazione nazionale artigiani legno e arredamento, contro Ecorad s.r.l. (in Raccolta, p. I-4473). «20. …secondo una giurisprudenza costante, una direttiva non può di per sé stessa creare

obblighi a carico di un singolo e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti. Ne consegue che anche una disposizione chiara, precisa e incondizionata di una direttiva volta a conferire diritti o ad imporre obblighi ai privati non può trovare applicazione in quanto tale nell’ambito di una controversia che veda contrapposti esclusivamente dei singoli (sentenze 26 febbraio 1986, causa 152/84, Marshall, in Raccolta, p. 723, punto 48; 14 luglio 1994, causa C-91/92, Faccini Dori, ibidem, p. I-3325, punto 20; 7 marzo 1996, causa C-192/94, El Corte Inglés, ibidem, p. I-1281, punti 16 e 17; 7 gennaio 2004, causa C-201/02, Wells, ibidem, p. I-723, punto 56, e 5 ottobre 2004, cause riunite da C-397/01 a C-403/01, Pfeiffer e a., ibidem, p. I-8835, punti 108 e 109).

«21. La decisione n. 1999/93 è stata adottata sulla base dell’art. 13 par. 4 della direttiva n.

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89/106 ed è rivolta agli Stati membri. Essa costituisce un atto di portata generale che precisa i tipi di procedure di attestazione di conformità rispettivamente applicabili a porte, finestre, imposte, persiane, portoni e relativi accessori e conferisce mandato al CEN/Cenelec di specificarne il contenuto nelle norme armonizzate pertinenti che saranno poi destinate ad essere trasposte dagli organismi di normalizzazione di ciascuno Stato membro. A norma dell’art. 249 CE, la decisione n. 1999/93 è quindi unicamente vincolante per gli Stati membri, che, ai sensi dell’art. 4, ne sono i soli destinatari. Di conseguenza, le considerazioni alla base della giurisprudenza ricordata al punto precedente riguardo alle direttive sono applicabili, mutatis mutandis, per quanto riguarda la possibilità di far valere la detta decisione contro un singolo.

«22. Occorre pertanto risolvere la seconda questione del giudice del rinvio nel senso che un singolo non può far valere, nell’ambito di una controversia per responsabilità contrattuale che lo vede opposto ad un altro singolo, la violazione da parte di quest’ultimo degli artt. 2 e 3 nonché degli allegati II e III della decisione n. 1999/93».

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CAPITOLO II

L’OBBLIGO DI INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO NAZIONALE IN SENSO CONFORME AL DIRITTO

DELL’UNIONE EUROPEA

1. Fondamento e portata del principio dell’interpretazione in senso conforme secondo la Corte di giustizia

L’esigenza di un’interpretazione conforme del diritto nazionale è inerente al sistema

giuridico dell’Unione europea, in quanto permette al giudice nazionale di assicurare, nell’ambito delle sue competenze, la piena efficacia delle norme dell’Unione quando risolve una controversia ad esso sottoposta.

Il principio dell’interpretazione conforme del diritto nazionale ha portata generale, nel senso che riguarda tutte le norme giuridiche dell’Unione, quale ne sia la fonte e il rango. Esso assume tuttavia un particolare rilievo per le direttive, anche perché in taluni casi può rappresentare un utile espediente giudiziale per porre rimedio all’inadempimento da parte del legislatore nazionale dell’obbligo di attuare tempestivamente e correttamente una direttiva, da una parte, e all’impossibilità per la stessa di produrre effetti immediati, secondo quanto visto nel capitolo precedente. In questo caso, secondo il costante indirizzo della Corte di giustizia, l’obbligo di interpretazione in senso conforme alla direttiva non vale soltanto per le norme interne emanate per recepire la direttiva in questione ma esige che il giudice nazionale prenda in considerazione tutte le norme rilevanti dell’ordinamento interno per accertare se questo, complessivamente considerato, consenta di risolvere la controversia in un senso compatibile con quanto esige la direttiva. A questo proposito, se il diritto nazionale, mediante l’applicazione di metodi di interpretazione da esso riconosciuti, in determinate circostanze consente di interpretare una norma interna in modo tale da evitare un conflitto con un’altra norma di diritto interno o di ridurre a tale scopo la portata di quella norma applicandola solamente nella misura compatibile con l’altra, il giudice ha l’obbligo di utilizzare gli stessi metodi al fine di ottenere il risultato perseguito dalla direttiva.

CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Mertens de Wilmars , avv. gen. Rozés), sentenza 10 aprile 1984 nella causa 14/83, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dall’Arbeitsgericht Hamm (Germania) nella causa Von Colson e Kamann contro Land Nordrhein-Westfalen (in Raccolta, p. 1891).

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L’istituto di pena di Werl, riservato ai detenuti di sesso maschile, aveva rifiutato di assumere

due assistenti sociali diplomate, preferendo loro candidati di sesso maschile, i cui titoli erano tuttavia inferiori. Le due assistenti sociali avevano dunque convenuto il Land Nordrhein-Westfalen, cui afferiva l’istituto, davanti all’Arbeitsgericht Hamm, facendo valere di aver subito una discriminazione in base al sesso, vietata dalla direttiva del Consiglio n. 76/207/CEE del 9 febbraio 1976, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla preparazione ed alla promozione professionali e le condizioni di lavoro. Il problema era, tuttavia, che la normativa tedesca di attuazione della direttiva prevedeva come unica sanzione per tale discriminazione il risarcimento del solo interesse negativo (ossia il danno causato ai candidati discriminati dal fatto di aver creduto che il rapporto di lavoro sarebbe stato instaurato senza alcuna discriminazione); di conseguenza, in forza della suddetta normativa, le attrici avrebbero avuto diritto soltanto al rimborso delle spese di viaggio sostenute in occasione della candidatura al posto.

Sollevate diverse questioni pregiudiziali sull’interpretazione della direttiva, la Corte di giustizia dichiara, in primo luogo, che l’obbligo di attuazione della direttiva, pur non imponendo agli Stati membri una forma determinata di sanzione per il caso di trasgressione al principio della parità di trattamento nell’accesso al lavoro – quale segnatamente l’obbligo per il datore di lavoro di stipulare un contratto di lavoro col candidato discriminato – poiché gli Stati membri sono liberi di scegliere fra le varie soluzioni purché atte a conseguire lo scopo, «implica ciò nondimeno che la sanzione stessa sia tale da garantire la tutela giurisdizionale effettiva ed efficace. Essa deve inoltre avere per il datore un effetto dissuasivo reale. Ne consegue che, qualora lo Stato membro decida di reprimere la trasgressione del divieto di discriminazione mediante un indennizzo, questo deve essere in ogni caso adeguato al danno subito» e non «puramente simbolico» (punti 23 e 24).

Quanto alla questione se la norma sull’indennizzo per questa particolare fattispecie escluda o meno l’applicazione del diritto comune in fatto di risarcimento (in ipotesi più favorevole alle ricorrenti), la Corte di giustizia, pur ribadendo che «spetta unicamente al giudice nazionale statuire… sull’interpretazione del suo diritto nazionale» (punto 25), afferma tuttavia che:

«26. …l’obbligo degli Stati membri, derivante da una direttiva, di conseguire il

risultato da questa contemplato, come pure l’obbligo loro imposto dall’art. 5 del trattato (CEE, divenuto poi art. 10 CE; cfr. ora art. 4 par. 3 nuovo TUE) di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l’adempimento di tale obbligo, valgono per tutti gli organi degli Stati membri ivi compresi, nell’ambito di loro competenza, quelli giurisdizionali. Ne consegue che nell’applicare il diritto nazionale, e in particolare la legge nazionale espressamente adottata per l’attuazione della direttiva n. 76/207, il giudice nazionale deve interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato contemplato dall’art. 189, terzo comma.

«27. Viceversa, come si desume dalle considerazioni che precedono, la direttiva non implica – per quanto riguarda le sanzioni dell’eventuale discriminazione – alcun obbligo assoluto e sufficientemente preciso che possa essere fatto valere, in mancanza di provvedimenti d’attuazione adottati entro il termine, dal singolo onde ottenere un determinato risarcimento in forza della direttiva, qualora una conseguenza del genere non sia contemplata o consentita dal

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diritto nazionale. «28. Si deve tuttavia precisare al giudice nazionale che la direttiva n. 76/207… (implica)

che se uno Stato membro decide di reprimere la trasgressione del divieto (di discriminazione) mediante un indennizzo, questo, perché ne siano certi l’efficacia e l’effetto dissuasivo, deve comunque essere adeguato rispetto al danno subito e deve quindi andare oltre il risarcimento puramente simbolico quale, ad esempio, il rimborso delle sole spese causate dalla candidatura. Spetta al giudice nazionale dare alla legge adottata per l’attuazione della direttiva, in tutti i casi in cui il diritto nazionale gli attribuisce un margine discrezionale, un’interpretazione ed un’applicazione conformi alle esigenze del diritto comunitario».

CORTE DI GIUSTIZIA, (pres. Mancini, avv. gen. Van Gerven), sentenza 13 novembre 1990 nella causa C-106/89, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Juzgado de Primera Instancia e Instrucción n. 1 di Oviedo (Spagna) nella causa tra Marleasing SA e Comercial internacional de alimentacion SA (in Raccolta, p. I-4135). La società Marleasing SA aveva agito dinanzi al Tribunale di primo grado di Oviedo per

l’annullamento del contratto istitutivo della società Comercial Internacional de Alimentacíon SA, facendo valere la mancanza o l’illiceità della causa, ai sensi degli artt. 1261 e 1275 cod. civ. spagnolo. La Comercial chiedeva il rigetto dell’istanza sulla base del fatto, in particolare, che l’art. 11 della direttiva del Consiglio n. 68/151/CEE del 9 marzo 1968, non attuata in Spagna nonostante fosse scaduto il termine, indica tassativamente i casi di nullità delle società per azioni, fra i quali non rientrano quelli previsti dalle citate disposizioni spagnole. Dopo aver ribadito che una direttiva non può avere effetti diretti orizzontali, la Corte di giustizia afferma:

«7. Si ricava tuttavia dagli atti di causa che il giudice nazionale intende in sostanza accertare se

il giudice nazionale cui viene sottoposta la controversia in una materia che rientra nell’ambito di applicazione della citata direttiva 68/151 sia tenuto ad interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo di detta direttiva al fine di impedire la dichiarazione di nullità di una società per azioni per una causa diversa da quelle elencate all’art. 11.

«8. Per risolvere questa questione occorre ricordare che, come la Corte ha precisato nella sentenza 10 aprile 1984, Von Colson e Kamann, punto 26 della motivazione (causa 14/83, in Raccolta, p. 1891), l’obbligo degli Stati membri, derivante da una direttiva, di conseguire il risultato da questa contemplato, come pure l’obbligo loro imposto dall’art. 5 del trattato (CEE; divenuto poi art. 10 CE; cfr. ora art. 4 par. 3 nuovo TUE), di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l’adempimento di tale obbligo, valgono per tutti gli organi degli Stati membri, ivi compresi, nell’ambito di loro competenza, quelli giurisdizionali. Ne consegue che nell’applicare il diritto nazionale , a prescindere dal fatto che si tratti di norme precedenti o successive alla direttiva, il giudice nazionale deve interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi pertanto all’art. 189, terzo comma del trattato.

«9. Pertanto la necessità di un’interpretazione del diritto nazionale conforme all’art. 11

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della citata direttiva 68/151 non consente di interpretare le disposizioni del diritto nazionale in tema di società per azioni in modo tale che la nullità di una società per azioni possa essere pronunciata per motivi diversi da quelli tassativamente elencati dall’art. 11 della direttiva di cui è causa.

«10. Per quanto riguarda l’interpretazione dell’art. 11 della direttiva, ed in particolare del suo par. 2 lett. b, si deve rilevare che questa disposizione vieta alle normative degli Stati membri di predisporre un annullamento giudiziale al di fuori dei casi tassativamente elencati nella direttiva, fra cui il carattere illecito o contrario all’ordine pubblico dell’oggetto della società».

CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Skouris, avv. gen. Ruiz-Jarabo Colomer), sentenza 5 ottobre 2004 nelle cause riunite da C-397/01 a C-403/01, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dall’Arbeitsgericht Lörrach (Germania) nella causa Pfeiffer e a. contro Deutsches Rotes Kreuz e a. (in Raccolta, p. I-8835). L’art. 6 della direttiva 93/104/CE del 23 novembre 1993, concernente taluni aspetti

dell’organizzazione dell’orario di lavoro, dispone che la durata media dell’orario di lavoro settimanale non deve superare 48 ore, comprese le ore di lavoro straordinario. Ai sensi dell’art. 18, gli Stati membri possono, nel rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, non applicare l’art. 6 a talune condizioni, e segnatamente: che il datore di lavoro abbia ottenuto il consenso del lavoratore; che il lavoratore non subisca un danno per il fatto di non prestare il suo consenso. L’Arbeitszeitgesetz 6 giugno 1994, la legge tedesca sull’orario di lavoro e i periodi di riposo adottata per attuare la direttiva 93/104, fissa l’orario massimo di lavoro in 48 settimanali (art. 3), ma consente di derogarvi mediante contratto collettivo (art. 7). Così, in base al contratto collettivo della Croce Rossa tedesca l’orario di lavoro normale di 39 ore settimanali può essere esteso anche oltre il limite delle 48 ore, se vi si includono i periodi di permanenza obbligatoria, che devono essere garantiti dal personale nell’ambito del servizio di soccorso medico d’urgenza.

Nel caso di specie, sette operatori di soccorso, che erano o erano stati alle dipendenze della Croce Rossa tedesca, l’avevano convenuta davanti al tribunale del lavoro di Lörrach, alcuni per il pagamento degli straordinari da loro effettuati oltre le 48 ore settimanali, altri per la determinazione della durata massima dell’orario di lavoro settimanale. La controversia poneva diverse questioni di interpretazione della direttiva 93/104/CE, che il giudice tedesco sottoponeva in via pregiudiziale alla Corte di giustizia. La Corte affermò in primis che, per poter validamente derogare, ai sensi dell’art. 18, all’orario massimo settimanale di 48 ore previsto dall’art. 6 della direttiva, «il consenso del lavoratore dev'essere non solo individuale, ma anche esplicitamente e liberamente espresso», e che, «a tal fine, non è sufficiente che il contratto di lavoro dell’interessato faccia riferimento a un contratto collettivo che consente tale superamento» (punti 84-86). In secondo luogo, interpretò l’art. 6 nel senso che i periodi di permanenza obbligatoria, pur comportando fasi di inattività più o meno estese tra gli interventi urgenti, dovessero essere ricompresi nella durata massima dell’orario di lavoro settimanale (punti 92-101). Da ciò derivava l’incompatibilità della legge tedesca, laddove consentiva di derogare mediante contratto collettivo al limite suddetto, con l’art. 6 punto 2 della direttiva 93/104/CE. A questo punto, tuttavia, stante l’impossibilità per tale disposizione – pur chiara, precisa e incondizionata – di essere direttamente efficace in una controversia tra privati

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come quella principale (punti 108-109), la Corte di giustizia si pronuncia nei seguenti termini sull’obbligo di interpretazione in senso conforme:

«110. Tuttavia, conformemente ad una giurisprudenza parimenti costante fin dalla sentenza

10 aprile 1984, causa 14/83, Von Colson e Kamann (in Raccolta, p. 1891, punto 26), l’obbligo degli Stati membri, derivante da una direttiva, di conseguire il risultato da questa contemplato come pure il dovere loro imposto dall’art. 10 CE di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l’adempimento di tale obbligo valgono per tutti gli organi degli Stati membri, ivi compresi, nell’ambito di loro competenza, quelli giurisdizionali (v., in particolare, sentenze 13 novembre 1990, causa C-106/89, Marleasing, ibidem, p. I-4135, punto 8; Faccini Dori cit., punto 26; 18 dicembre 1997, causa C-129/96, Inter-Environnement Wallonie, ibidem, p. I-7411, punto 40, e 25 febbraio 1999, causa C-131/97, Carbonari e a., ibidem, p. I-1103, punto 48).

«111. Infatti, spetta in particolare ai giudici nazionali assicurare ai singoli la tutela giurisdizionale derivante dalle norme del diritto comunitario e garantirne la piena efficacia.

«112. Ciò vale a maggior ragione quando la controversia sottoposta al giudice nazionale verte sull’applicazione di norme interne che, come nel caso di specie, sono state introdotte proprio al fine di recepire una direttiva volta a conferire diritti ai singoli. Questo giudice, visto l’art. 249, terzo comma CE, deve presumere che lo Stato, essendosi avvalso del margine di discrezionalità di cui gode in virtù di tale norma, abbia avuto l’intenzione di adempiere pienamente gli obblighi derivanti dalla direttiva considerata (v. sentenza 16 dicembre 1993, in causa C-334/92, Wagner Miret, in Raccolta, p. I-6911, punto 20).

«113. Così, nell’applicare il diritto interno, in particolare le disposizioni di una normativa appositamente adottata al fine di attuare quanto prescritto da una direttiva, il giudice nazionale deve interpretare il diritto nazionale per quanto possibile alla luce del testo e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi pertanto all’art. 249, terzo comma CE (v. in questo senso, segnatamente, citate sentenze Von Colson et Kamann, punto 26; Marleasing, punto 8, e Faccini Dori, punto 26; v. altresì sentenze 23 febbraio 1999, in causa C-63/97, BMW, in Raccolta, p. I-905, punto 22; 27 giugno 2000, nelle cause riunite da C-240/98 a C-244/98, Océano Grupo Editorial e Salvat Editores, ibidem, p. I-4941, punto 30, e 23 ottobre 2003, in causa C-408/01, Adidas-Salomon e Adidas Benelux, ibidem, p. I-0000, punto 21).

«114. L’esigenza di un’interpretazione conforme del diritto nazionale è inerente al sistema del trattato, in quanto permette al giudice nazionale di assicurare, nel contesto delle sue competenze, la piena efficacia delle norme comunitarie quando risolve la controversia ad esso sottoposta (v., in questo senso, sentenza 15 maggio 2003, in causa C-160/01, Mau, in Raccolta, p. I-4791, punto 34).

«115. Se è vero che il principio di interpretazione conforme del diritto nazionale, così imposto dal diritto comunitario, riguarda in primo luogo le norme interne introdotte per recepire la direttiva in questione, esso non si limita, tuttavia, all’esegesi di tali norme, bensì esige che il giudice nazionale prenda in considerazione tutto il diritto nazionale per valutare in quale misura possa essere applicato in modo tale da non addivenire ad un risultato contrario a quello cui mira la direttiva (v., questo senso, sentenza Carbonari e a.

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cit., punti 49 e 50). «116. A questo proposito, se il diritto nazionale, mediante l’applicazione di metodi di

interpretazione da esso riconosciuti, in determinate circostanze consente di interpretare una norma dell’ordinamento giuridico interno in modo tale da evitare un conflitto con un’altra norma di diritto interno o di ridurre a tale scopo la portata di quella norma applicandola solamente nella misura compatibile con l’altra, il giudice ha l’obbligo di utilizzare gli stessi metodi al fine di ottenere il risultato perseguito dalla direttiva.

«117. Nel caso di specie, quindi, spetta al giudice del rinvio, cui siano sottoposte controversie come quelle di cui alle cause principali, rientranti nella sfera di applicazione della direttiva 93/104 e scaturite da fatti successivi alla scadenza del termine di trasposizione della direttiva medesima, nell’applicare le norme del diritto nazionale volte proprio a recepire tale direttiva, interpretarle quanto più possibile in modo da consentirne un’applicazione conforme agli scopi di quest’ultima (v., in questo senso, sentenza 13 luglio 2000, in causa C-456/98, Centrosteel, in Raccolta, p. I-6007, punti 16 e 17).

«118. In questo caso, il principio dell’interpretazione conforme esige quindi che il giudice del rinvio faccia tutto ciò che rientra nella sua competenza, prendendo in considerazione tutte le norme del diritto nazionale, per garantire la piena efficacia della direttiva 93/104, al fine di evitare il superamento dell’orario massimo di lavoro settimanale fissato all’art. 6 punto 2 della stessa (v., in questo senso, sentenza Marleasing cit., punti 7 e 13).

«119. Conseguentemente, si deve concludere che un giudice nazionale cui sia sottoposta una controversia che ha luogo esclusivamente tra singoli, nell’applicare le norme del diritto interno adottate al fine dell’attuazione degli obblighi previsti da una direttiva deve prendere in considerazione tutte le norme del diritto nazionale ed interpretarle, per quanto possibile, alla luce del testo e della finalità di tale direttiva per giungere a una soluzione conforme all’obiettivo da essa perseguito. Nelle cause principali, il giudice del rinvio, quindi, deve fare tutto ciò che rientra nella sua competenza per evitare il superamento dell’orario massimo di lavoro settimanale fissato in 48 ore in virtù dell’art. 6 punto 2 della direttiva 93/104».

________________

2. L’estensione dell’obbligo di interpretazione in senso conforme alle decisioni quadro adottate nell’ambito del titolo VI UE

Prima del trattato di Lisbona, l’azione dell’Unione europea nell’ambito del titolo VI del

vecchio TUE, relativo alla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale (il c.d. «terzo pilastro» dell’Unione pre-Lisbona), si svolgeva secondo forme e procedure proprie che la distinguevano dal metodo seguito nell’ambito del sistema comunitario (il cd. «primo pilastro»). Una delle più importanti differenze tra i due pilastri riguardava la tipologia degli atti adottabili dalle istituzioni. Nell’ambito del titolo VI vecchio TUE, infatti, il Consiglio agiva mediante la tipologia di atti propri di tale pilastro, elencati all’art. 34 par. 2 vecchio TUE e non potevano essere invece adottati gli atti propri del sistema comunitario previsti

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all’art. 249 CE. Una delle differenze in concreto più rilevanti riguardava le «decisioni quadro», adottabili nel quadro del terzo pilastro «per il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri», descritte dall’art. 34 par. 2 lett. b vecchio TUE come atti «vincolanti per gli Stati membri quanto al risultato da ottenere, salva restando la competenza delle autorità nazionali in merito alla forma e ai mezzi», con l’ulteriore precisazione però che esse «non hanno efficacia diretta».

Si tratta dunque, con tutta evidenza, di uno strumento normativo ricalcato sul modello della direttiva propria del sistema comunitario (art. 249 TCE), per quanto concerne sia la funzione svolta – l’armonizzazione delle normative nazionali – sia la caratteristica tecnica di normazione a due fasi, l’una accentrata a livello di Unione europea, l’altra decentrata a livello nazionale. L’unica ma importante differenza tra le direttive comunitarie e le decisioni quadro del terzo pilastro risiedeva nell’espressa esclusione, per queste ultime, della possibilità di spiegare effetti diretti, ciò che tradisce la netta preoccupazione degli Stati membri che nel delicato settore della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale si potessero avere sviluppi giurisprudenziali indesiderati. In altre parole, consci dell’esperienza maturata ad opera dell’interpretazione giurisprudenziale delle direttive (v. supra, capitolo I, spec. par. 2.2), i redattori del Trattato UE avevano voluto espressamente imbrigliare l’opera interpretativa della Corte di giustizia onde evitare un’estensione dei principi consolidati in materia di efficacia diretta delle direttive alle decisioni quadro del terzo pilastro.

Deve inoltre osservarsi che nel vecchio TUE non figurava una disposizione analoga a quella contenuta nell’art. 10 TCE, dalla quale la Corte di giustizia aveva ricavato il principio generale di leale cooperazione che costituisce, come abbiamo visto in precedenza uno dei principali fondamenti del dovere delle autorità nazionali di fare tutto il possibile, nell’ambito delle loro competenze, per assicurare la piena efficacia del diritto comunitario prima e dell’Unione ora (tale principio viene in particolare richiamato a sostegno dell’obbligo per i giudici di interpretare il loro diritto interno in senso conforme ai precetti dell’Unione: v. supra, par. 1). Né, d’altronde, il vecchio TUE operava un espresso richiamo all’art. 10 TCE per estenderne la portata ai settori dell’Unione diversi dal sistema comunitario. Se ne sarebbe potuto pertanto inferire che l’obbligo generale di leale cooperazione posto in capo a tutti gli organi degli Stati membri avesse portata ristretta al pilastro comunitario e non rilevasse invece per i settori della politica estera e di sicurezza comune (il c.d. «secondo pilastro») e della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Queste conclusioni sono state smentite dalla Corte di giustizia, la quale ha affermato in particolare che l’obbligo di interpretazione in senso conforme vale per le decisioni quadro del terzo pilastro come per le direttive comunitarie, nonostante che le prime non siano, per esplicita scelta normativa, direttamente efficaci e malgrado l’assenza di una disposizione come l’art. 10 TCE nel vecchio TUE.

Questo problema deve ritenersi ormai superato a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona che, da un lato, ha soppresso la struttura a pilastri dell’Unione europea, dall’altro lato prevede che l’azione dell’Unione, in qualunque dei settori di sua competenza con la sola eccezione della politica estera e di sicurezza comune, si svolga attraverso gli atti tipici previsti all’art. 288 TFUE. Ciò implica in particolare che l’Unione europea adotta direttive – e non più decisioni quadro – anche nella materia della cooperazione giudiziaria

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penale (artt. 82 ss. TFUE), ad esempio per stabilire «norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in sfere di criminalità particolarmente grave che presentano una dimensione transnazionale» (art. 83 par. 1 TFUE). E non sussiste alcun dubbio sul fatto che tutte le direttive, anche quelle in materia penale, possano avere diretta efficacia, ricorrendone i presupposti illustrati al capitolo precedente.

Deve infine osservarsi che le decisioni quadro già adottate nel vigore del vecchio titolo VI TUE, tra le quali alcune molto importanti come quella sul mandato d’arresto europeo (decisione quadro 2002/584/GAI del 13 giugno 2002), rimangono in vigore e, come espressamente sancito dall’art. 9 del protocollo n. 36 sulle disposizioni transitorie, i loro effetti giuridici sono mantenuti finché tali atti non saranno stati abrogati, annullati o modificati in applicazione dei trattati vigenti. Ne consegue pertanto, secondo l’interpretazione che ci pare preferibile, che, fino a tale momento, le decisioni quadro saranno prive di efficacia diretta, come disposto dal vecchio art. 34 TUE. Per converso, i principi enunciati dalla Corte di giustizia nella sentenza Pupino in ordine all’obbligo di interpretare le norme nazionali in modo conforme a tali decisioni quadro mantengono tutta la loro importanza, anche al fine di rimediare alla mancanza di diretta efficacia.

CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Skouris, avv. gen. Kokott), sentenza 16 giugno 2005 nella causa C-105/03, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Firenze nel procedimento penale a carico di Pupino (in Raccolta, p. I-5285). La decisione quadro del Consiglio n. 2001/220/GAI del 15 marzo 2001, che doveva essere

attuata entro il 22 marzo 2002, mira a che nei sistemi giudiziari penali degli Stati membri sia previsto «un ruolo effettivo e appropriato delle vittime», garantendo nell’ambito del procedimento penale un trattamento debitamente rispettoso della loro dignità personale e riconoscendone i diritti e gli interessi giuridicamente protetti (art. 2 par. 1). Ai sensi dell’art. 3, alla vittima deve essere garantita la possibilità di essere sentita durante il procedimento e di fornire elementi di prova. Per converso, gli Stati membri devono adottare le misure necessarie «affinché le autorità competenti interroghino la vittima soltanto per quanto è necessario al procedimento penale». Con riguardo poi alle «vittime particolarmente vulnerabili», l’art. 2 par. 2 dispone in generale che esse «beneficino di un trattamento specifico che risponda in modo ottimale alla loro situazione». In particolare, l’art. 8 par. 4 dispone che «ove sia necessario proteggere le vittime, in particolare le più vulnerabili, dalle conseguenze della loro deposizione in udienza pubblica, ciascuno Stato membro garantisce alla vittima la facoltà, in base ad una decisione del giudice, di rendere testimonianza in condizioni che consentano di conseguire tale obiettivo e che siano compatibili con i principi fondamentali del proprio ordinamento».

Secondo il diritto processuale penale italiano, la prova deve di regola formarsi nella fase dibattimentale. Solo in via d’eccezione, il giudice per le indagini preliminari può decidere l’assunzione anticipata della prova, nel corso delle indagini preliminari, attraverso l’istituto dell’incidente probatorio. Questo strumento è esperibile tuttavia nei soli casi previsti all’art. 392 cod. proc. pen., e segnatamente, per quanto concerne l’assunzione della prova testimoniale: quando vi è fondato motivo di ritenere che il testimone non potrà essere esaminato nel dibattimento per

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infermità o altro grave impedimento (par. 1 lett. a); «quando, per elementi concreti e specifici, vi è fondato motivo di ritenere che la persona sia esposta a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità affinché non deponga o deponga il falso» (par. 1 lett. a); o, infine, anche al di fuori delle ipotesi summenzionate, quando il testimone sia persona minore di sedici anni e il procedimento penale riguardi i delitti di prostituzione minorile, pornografia minorile, iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile, violenza sessuale, atti sessuali con minorenne, corruzione di minorenne e violenza sessuale di gruppo (par. 1-bis). In queste ultime ipotesi, l’art. 398 par. 5-bis cod. proc. pen. consente al giudice di ordinare l’assunzione della testimonianza del minore mediante incidente probatorio secondo modalità particolari che mirano a tutelare, da un lato, la dignità, il pudore e la personalità del teste e, dall’altro lato, la genuinità della prova.

Nel caso di specie, nell’ambito di un procedimento penale intentato a carico della sig.ra Pupino, insegnante di scuola materna, le venivano contestati i reati di abuso dei mezzi di disciplina (art. 571 cod. pen.) nei confronti di alcuni suoi alunni, di età inferiore a cinque anni all’epoca dei fatti, e di lesioni aggravate (artt. 582, 585 e 576 cod. pen.), per aver colpito un’alunna provocandole una lieve tumefazione nella regione frontale. Nel corso delle indagini preliminari, il p.m. aveva richiesto al g.ip. presso il Tribunale di Firenze di raccogliere mediante incidente probatorio le deposizioni di otto bambini, testimoni e vittime dei reati contestato alla sig.ra Pupino. Alla luce della disciplina processuale vigente, la richiesta non avrebbe potuto essere accolta, non ricorrendo nessuno dei casi previsti all’art. 392 cod. proc. pen. Il g.i.p. riteneva tuttavia che, escludendo i reati per i quali si procedeva nel caso di specie, gli artt. 392 par. 1-bis e 398 par. 5-bis cod. proc. pen. fossero incompatibili con gli artt. 2, 3 e 8 della decisione-quadro n. 2001/220/GAI. Sollevava pertanto, ai sensi dell’art. 35 UE, una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia relativa all’interpretazione di tali disposizioni della decisione-quadro. La Corte di giustizia ha interpretato le suddette disposizioni «nel senso che il giudice nazionale deve avere la possibilità di autorizzare bambini in età infantile che, come nella causa principale, sostengano di essere stati vittime di maltrattamenti a rendere la loro deposizione secondo modalità che permettano di garantire a tali bambini un livello di tutela adeguato, ad esempio al di fuori dell’udienza pubblica e prima della tenuta di quest’ultima».

Preliminarmente, tuttavia, la Corte ha dovuto pronunciarsi su un’eccezione di irricevibilità del rinvio pregiudiziale, fondata sull’argomento che, non essendo il giudice a quo tenuto né ad applicare direttamente la decisione-quadro né a interpretare il diritto nazionale in senso conforme alla stessa, la soluzione della questione pregiudiziale non sarebbe stata utile alla definizione della controversia nella causa principale. La Corte di giustizia ha rigettato l’eccezione, affermando che il principio dell’interpretazione conforme opera anche per le decisioni-quadro di cui all’art. 34 par. 2 lett. b UE, così motivando:

«31. Riguardo agli argomenti svolti dai governi italiano, francese, dei Paesi Bassi, svedese

e del Regno Unito, occorre esaminare se, come presuppone il giudice nazionale e come sostengono i governi ellenico, francese, portoghese e la Commissione, l’obbligo che incombe alle autorità nazionali di interpretare il loro diritto nazionale per quanto possibile alla luce della lettera e dello scopo delle direttive comunitarie si applichi con gli stessi effetti e limiti qualora l’atto interessato sia una decisione quadro presa sul fondamento del titolo VI del Trattato sull’Unione europea. (…)

«33. Occorre subito rilevare che la formulazione dell’art. 34 par. 2 lett. b UE è

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strettamente ispirata a quella dell’art. 249, terzo comma CE. L’art. 34 par. 2 lett. b UE attribuisce un carattere vincolante alle decisioni quadro nel senso che queste ultime “sono vincolanti” per gli Stati membri “quanto al risultato da raggiungere, salva restando la competenza delle autorità nazionali in merito alla forma e ai mezzi”.

«34. Il carattere vincolante delle decisioni quadro, formulato in termini identici a quelli dell’art. 249, terzo comma CE, comporta, in capo alle autorità nazionali, ed in particolare ai giudici nazionali, un obbligo di interpretazione conforme del diritto nazionale.

«35. La circostanza che le competenze della Corte, in forza dell’art. 35 UE, sono meno estese nell’ambito del titolo VI del trattato sull’Unione europea di quanto non lo siano ai sensi del trattato CE e il fatto che non esista un sistema completo di rimedi giuridici e di procedure destinato ad assicurare la legittimità degli atti delle istituzioni nell’ambito del detto titolo VI non ostano a questa conclusione.

«36. Infatti, indipendentemente dal grado di integrazione considerato dal trattato di Amsterdam nel processo di creazione di un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa ai sensi dell’art. 1, secondo comma UE, è perfettamente comprensibile che gli autori del trattato sull’Unione europea abbiano ritenuto utile prevedere, nell’ambito del titolo VI di tale trattato, il ricorso a strumenti giuridici che comportano effetti analoghi a quelli previsti dal trattato CE, al fine di contribuire efficacemente al perseguimento degli obiettivi dell’Unione.

«37. L’importanza della competenza pregiudiziale della Corte ai sensi dell’art. 35 UE è confermata dal fatto che, in forza del par. 4 di quest’ultimo, ogni Stato membro, che abbia o meno fatto una dichiarazione a norma del par. 2 del detto articolo, ha la facoltà di presentare alla Corte memorie od osservazioni scritte nei procedimenti di cui al par. 1 della stessa disposizione.

«38. Tale competenza sarebbe privata dell’aspetto essenziale del suo effetto utile se i singoli non avessero il diritto di far valere le decisioni quadro al fine di ottenere un’interpretazione conforme del diritto nazionale dinanzi ai giudici degli Stati membri.

«39. A sostegno della loro tesi, i governi italiano e del Regno Unito fanno valere che, a differenza del trattato CE, il trattato sull’Unione europea non comporta alcun obbligo analogo a quello previsto all’art. 10 CE, sul quale la giurisprudenza della Corte si è tuttavia in parte fondata per giustificare l’obbligo di interpretazione conforme del diritto nazionale alla luce del diritto comunitario.

«40. Questo argomento dev’essere respinto. «41. L’art. 1, secondo e terzo comma del trattato sull’Unione europea dispone che tale

trattato segna una nuova tappa nel processo di creazione di un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa e che il compito dell’Unione, che è fondata sulle Comunità europee, integrate dalle politiche e forme di cooperazione instaurate dal detto trattato, consiste nell’organizzare in modo coerente e solidale le relazioni tra gli Stati membri e tra i loro popoli.

«42. Sarebbe difficile per l’Unione adempiere efficacemente alla sua missione se il principio di leale cooperazione, che implica in particolare che gli Stati membri adottino tutte le misure generali o particolari in grado di garantire l’esecuzione dei loro obblighi derivanti dal diritto dell’Unione europea, non si imponesse anche nell’ambito della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, che è del resto interamente fondata sulla cooperazione tra gli Stati membri e le istituzioni, come ha giustamente rilevato l’avvocato generale al

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paragrafo 26 delle sue conclusioni. «43. Alla luce di tutte le considerazioni che precedono occorre concludere che il principio

di interpretazione conforme si impone riguardo alle decisioni quadro adottate nell’ambito del titolo VI del trattato sull’Unione europea. Applicando il diritto nazionale, il giudice del rinvio chiamato ad interpretare quest’ultimo è tenuto a farlo per quanto possibile alla luce della lettera e dello scopo della decisione quadro al fine di conseguire il risultato perseguito da questa e di conformarsi così all’art. 34 par. 2 lett. b UE».

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3. I limiti all’obbligo dell’interpretazione in senso conforme Il ricorso da parte dei giudici nazionali alla tecnica dell’interpretazione in senso

conforme quale strumento per assicurare la piena efficacia delle norme dell’Unione incontra taluni limiti invalicabili nei principi generali del diritto, quali il principio della certezza del diritto e della non retroattività. Invero, da un punto di vista generale, pur dovendo il giudice nazionale fare tutto il possibile per applicare il diritto nazionale, nel suo complesso, in modo da assicurare il risultato perseguito dalle norme dell’Unione europea, esso non può tuttavia spingersi fino a un’interpretazione contra legem del diritto nazionale.

Con specifico riguardo poi alla materia penale, l’interpretazione in senso conforme

incontra un limite invalicabile nel principio di legalità, il quale implica tra l’altro il divieto di interpretazione analogica in malam partem, cioè in senso sfavorevole al reo, della norma incriminatrice, in ossequio al principio di tassatività, e il divieto di applicazione retroattiva delle norme penali, salvo che non siano più favorevoli al reo. Il principio di legalità, compresi i due corollari summenzionati, è consacrato nel nostro ordinamento dall’art. 25 Cost., dagli artt. 1 e 2 cod. pen. e dall’art. 14 preleggi. Esso trova inoltre riconoscimento nell’ordinamento dell’Unione europea, non solo quale principio generale di diritto, ma anche in quanto espressamente sancito dall’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che recita:

«1. Nessuno può essere condannato per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. Se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima.

«2. Il presente articolo non osta al giudizio e alla condanna di una persona colpevole di un’azione o di un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un

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crimine secondo i principi generali riconosciuti da tutte le nazioni».13

CORTE DI GIUSTIZIA, sentenza 16 giugno 2005 nella causa C-105/03, Pupino cit. «44. Occorre tuttavia rilevare che l’obbligo per il giudice nazionale di far riferimento al

contenuto di una decisione quadro quando interpreta le norme pertinenti del suo diritto nazionale trova i suoi limiti nei principi generali del dirit to, ed in particolare in quelli di certezza del diritto e di non retroattività.

«45. Questi principi ostano in particolare a che il detto obbligo possa condurre a determinare o ad aggravare, sul fondamento di una decisione quadro e indipendentemente da una legge adottata per l’attuazione di quest’ultima, la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni (v., per quanto riguarda le direttive comunitarie, in particolare, sentenze X, citata, punto 24, e 3 maggio 2005, cause riunite C-387/02, C-391/02 e C-403/02, Berlusconi e a., non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 74).

«46. Occorre tuttavia rilevare che le disposizioni che formano oggetto della presente domanda di pronuncia pregiudiziale non vertono sulla portata della responsabilità penale dell’interessata, ma sullo svolgimento del procedimento e sulle modalità di assunzione della prova.

«47. L’obbligo per il giudice nazionale di fare riferimento al contenuto di una decisione quadro nell’interpretazione delle norme pertinenti del suo diritto nazionale cessa quando quest’ultimo non può ricevere un’applicazione tale da sfociare in un risultato compatibile con quello perseguito da tale decisione quadro. In altri termini, il principio di interpretazione conforme non può servire da fondamento ad un’interpretazione contra legem del diritto nazionale. Tale principio richiede tuttavia che il giudice nazionale prenda in considerazione, se del caso, il diritto nazionale nel suo complesso per valutare in che misura quest’ultimo può ricevere un’applicazione tale da non sfociare in un risultato contrario a quello perseguito dalla decisione quadro.

«48. Ora, come rilevato dall’avvocato generale al punto 40 delle sue conclusioni, non è evidente che, nella causa principale, un’interpretazione del diritto nazionale conforme alla decisione quadro sia impossibile. Spetta al giudice nazionale verificare se, nella detta causa, un’interpretazione conforme del suo diritto nazionale sia possibile».

13 Cfr. le spiegazioni elaborate sotto l'autorità del Praesidium della Convenzione che ha redatto la Carta e

aggiornate sotto la responsabilità del Praesidium della Convenzione europea (in Gazz. Uff. Un. eur., n. C 303 del 14 dicembre 2007), che devono essere tenute in debito conto, ai sensi del preambolo della Carta, dai giudici dell’Unione e degli Stati membri nell’interpretazione della Carta stessa, le quali, sub art. 49, si riferiscono espressamente alla «regola classica della irretroattività delle leggi e delle pene in materia penale», cui «è stata aggiunta la regola della retroattività della legge penale più mite, esistente in vari Stati membri e che figura nell’art. 15 del Patto relativo ai diritti civili e politici».

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CAPITOLO III

LA RESPONSABILITÀ DEGLI STATI MEMBRI PER I

DANNI CAUSATI AI SINGOLI DALLA VIOLAZIONE DEL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA

1. Fondamento e portata del principio della responsabilità degli Stati membri per i danni derivanti dalla violazione degli obblighi posti dal diritto dell’Unione

CORTE DI GIUSTIZIA, sentenza 19 novembre 1991 nelle cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich e Bonifaci cit. La responsabilità dello Stato per i danni causati ai singoli da violazioni del diritto dell’Unione a

esso imputabili quale principio «inerente al sistema del Trattato» si trova compiutamente sancita, per la prima volta, nella sentenza Francovich e Bonifaci. Nel caso di specie, la Corte di giustizia nega la diretta applicabilità delle disposizioni della direttiva 80/987/CEE, mancandone il presupposto della sufficiente chiarezza e precisione (supra, capitolo I, par. 3.2), ma afferma tuttavia che dal sistema comunitario deriva all’individuo il diritto al risarcimento dei danni sofferti a causa della violazione, da parte dello Stato italiano, dell’obbligo di attuazione della direttiva, così motivando in ordine al fondamento di tale diritto:

«31. Va innanzitutto ricordato che il Trattato CEE ha istituito un ordinamento giuridico

proprio, integrato negli ordinamenti giuridici degli Stati membri e che si impone ai loro giudici, i cui soggetti sono non soltanto gli Stati membri, ma anche i loro cittadini e che, nello stesso modo in cui impone ai singoli degli obblighi, il diritto comunitario è altresì volto a creare diritti che entrano a far parte del loro patrimonio giuridico; questi diritti sorgono non solo nei casi in cui il Trattato espressamente li menziona, ma anche in relazione agli obblighi che il Trattato impone ai singoli, agli Stati membri e alle istituzioni comunitarie (v. sentenze 5 febbraio 1963, Van Gend & Loos, causa 26/62, in Raccolta, p. 3, e 15 luglio 1964, Costa, causa 6/64, p. 1127).

«32. Va altresì ricordato che, come risulta da una giurisprudenza costante, è compito dei giudici nazionali incaricati di applicare, nell’ambito delle loro competenze, le norme del diritto comunitario, garantire la piena efficacia di tali norme e tutelare i diritti da esse attribuiti ai singoli (v. in particolare sentenza 9 marzo 1978, Simmenthal, punto 16 della motivazione, causa 106/77, in Raccolta, p. 629, e sentenza 19 giugno 1990, Factortame, punto 19 della motivazione, causa C-213/89, ibidem, p. I-2433).

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«33. Va constatato che sarebbe messa a repentaglio la piena efficacia delle norme comunitarie e sarebbe infirmata la tutela dei diritti da esse riconosciuti se i singoli non avessero la possibilità di ottenere un risarcimento ove i loro diritti siano lesi da una violazione del diritto comunitario imputabile ad uno Stato membro.

«34. La possibilità di risarcimento a carico dello Stato membro è particolarmente indispensabile qualora, come nella fattispecie, la piena efficacia delle norme comunitarie sia subordinata alla condizione di un’azione da parte dello Stato e, di conseguenza, i singoli, in mancanza di tale azione, non possano far valere dinanzi ai giudici nazionali i diritti loro riconosciuti dal diritto comunitario.

«35. Ne consegue che il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario ad esso imputabili è inerente al sistema del Trattato .

«36. L’obbligo degli Stati membri di risarcire tali danni trova il suo fondamento anche nell’art. 5 del Trattato , in forza del quale gli Stati membri sono tenuti ad adottare tutte le misure di carattere generale o particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi ad essi derivanti dal diritto comunitario. Orbene, tra questi obblighi si trova quello di eliminare le conseguenze illecite di una violazione del diritto comunitario (v., per quanto riguarda l’analogo disposto dell’art. 86 del Trattato CECA, la sentenza 16 dicembre 1960, Humblet, causa 6/60, in Raccolta, p. 1093).

«37. Da tutto quanto precede risulta che il diritto comunitario impone il principio secondo cui gli Stati membri sono tenuti a risarcire i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario ad essi imputabili».

CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Rodríguez Iglesias, avv. gen. Tesauro), sentenza 5 marzo 1996, nelle cause riunite C-46/93 e C-48/93, sulle domande di pronuncia pregiudiziale proposte dal Bundesgerichtshof (Germania) nella causa Brasserie du pêcheur SA contro Germania e dalla High Court of Justice, Queen’s Bench Division, Divisional Court (Gran Bretagna) nella causa The Queen contro Secretary of State for Transport, ex parte: Factortame Ltd. e a. (c.d. Factortame III ) (in Raccolta, p. 1029). La Corte ha innanzitutto chiarito che l’obbligo degli Stati membri di risarcire i danni ai singoli

sorge anche in caso di violazione di disposizioni comunitarie direttamente efficaci: «20. …secondo la giurisprudenza costante, la facoltà degli amministrati di far valere

dinanzi ai giudici nazionali disposizioni del Trattato aventi effetto diretto costituisce solo una garanzia minima e non è di per sé sufficiente ad assicurare la piena applicazione del Trattato (v., segnatamente, sentenze 15 ottobre 1986, causa 168/85, Commissione/Italia, in Raccolta, p. 2945, punto 11; 26 febbraio 1991, causa C-120/88, Commissione/Italia, ibidem, p. I-621, punto 10; e 26 febbraio 1991, causa C-119/89, Commissione/Spagna, ibidem, p. I-641, punto 9). Questa facoltà, intesa a far prevalere l’applicazione di norme di diritto comunitario rispetto a quella di norme nazionali, non è idonea a garantire in ogni caso al singolo i diritti attribuitigli dal diritto comunitario e, in particolare, ad impedire il verificarsi di un danno

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conseguente ad una violazione di tale diritto imputabile ad uno Stato membro. Orbene, come si evince dal punto 33 della citata sentenza Francovich, la piena efficacia delle norme comunitarie sarebbe messa a repentaglio se i singoli non avessero la possibilità di ottenere un risarcimento ove i loro diritti fossero lesi da una violazione del diritto comunitario.

«21 Ricorre un’ipotesi di tal genere allorché un singolo, che sia rimasto vittima della mancata attuazione di una direttiva e si trovi nell’impossibilità di far valere direttamente dinanzi al giudice nazionale determinate disposizioni di quest’ultima, per via del loro carattere insufficientemente preciso e incondizionato, intenta un’azione di risarcimento danni contro lo Stato inadempiente per violazione dell’art. 189, terzo comma del Trattato. In siffatta ipotesi, che si verificava nella menzionata causa Francovich e a., il risarcimento è diretto a rimuovere le conseguenze dannose causate ai beneficiari di una direttiva dalla mancata attuazione di quest’ultima da parte di uno Stato membro.

«22 Tale è inoltre il caso della lesione di un diritto direttamente conferito da una norma comunitaria che i singoli possono per l’appunto invocare dinanzi ai giudici nazionali. In tale ipotesi, il diritto al risarcimento costituisce il corollario necessario dell’effetto diretto riconosciuto alle norme comunitarie la cui violazione ha dato origine al danno subito».

La Corte ha inoltre precisato che la responsabilità dello Stato sussiste anche qualora la violazione

del diritto comunitario sia imputabile ad atti o omissioni del legislatore nazionale, respingendo l’obiezione sollevata dal governo tedesco secondo cui un diritto generale al risarcimento per i singoli potrebbe essere sancito solo in via legislativa e che il riconoscimento di siffatto diritto ope judicis sarebbe incompatibile con la ripartizione delle competenze tra le istituzioni della Comunità e gli Stati membri e con l’equilibrio istituzionale risultante dal trattato CE:

«25. …occorre sottolineare che la questione dell’esistenza e della portata della

responsabilità di uno Stato per danni scaturenti dalla violazione degli obblighi che gli incombono in forza del diritto comunitario attiene all’interpretazione del Trattato e come tale rientra nella competenza della Corte. (…)

«27. Poiché nel Trattato mancano disposizioni che disciplinano in modo diretto e puntuale le conseguenze delle violazioni del diritto comunitario da parte degli Stati membri, spetta alla Corte, nell’espletamento del compito conferitole dall’art. 164 del Trattato (CEE, poi art. 220 CE, cfr. ora art. 19, secondo comma TUE) di garantire l’osservanza del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del Trattato, statuire su tale questione avvalendosi dei canoni interpretativi generalmente accolti, facendo ricorso in particolare ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico comunitario e, se necessario, ai principi generali comuni agli ordinamenti giuridici degli Stati membri.

«28. Del resto, è ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri che l’art. 215, secondo comma del Trattato (CEE, poi art. 288 CE, ora art. 340 TFUE) fa rinvio in tema di responsabilità extracontrattuale della Comunità per i danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni.

«29. Il principio della responsabilità extracontrattuale della Comunità, che l’art. 215 del Trattato sancisce dunque espressamente, altro non è se non un’enunciazione del generale principio, riconosciuto negli ordinamenti giuridici degli Stati membri, in forza del quale un’azione o un’omissione illegittima comporta l’obbligo della riparazione del

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danno arrecato. Questa disposizione pone altresì in evidenza l’obbligo, incombente alle pubbliche autorità, di risarcire i danni cagionati nell’esercizio delle loro funzioni.

«30. Va rilevato, del resto, che in un gran numero di ordinamenti giuridici nazionali il regime giuridico della responsabilità dello Stato è stato elaborato, in maniera determinante, in via giurisprudenziale.

«31. Sulla scorta di queste considerazioni la Corte ha già rilevato, al punto 35 della citata sentenza Francovich e a., che il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario ad esso imputabili è inerente al sistema del Trattato.

«32. Ne consegue che il principio ha valore in riferimento a qualsiasi ipotesi di violazione del diritto comunitario commessa da uno Stato membro, qualunque sia l’organo di quest’ultimo la cui azione od omissione ha dato origine alla trasgressione.

33 Oltretutto, avuto riguardo alla fondamentale esigenza dell’ordinamento giuridico comunitario costituita dall’uniforme applicazione del diritto comunitario (v., segnatamente, sentenza 21 febbraio 1991, cause riunite C-143/88 e C-92/89, Zuckerfabrik, in Raccolta, p. I-415, punto 26), l’obbligo di risarcire i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario non può dipendere da norme interne sulla ripartizione delle competenze tra i poteri costituzionali.

«34. Al riguardo, si deve rilevare, concordemente con quanto ha osservato l’avvocato generale al paragrafo 38 delle sue conclusioni, che nell’ordinamento giuridico internazionale lo Stato, la cui responsabilità sorgerebbe in caso di violazione di un impegno internazionale, viene del pari considerato nella sua unità, senza che rilevi la circostanza che la violazione da cui ha avuto origine il danno sia imputabile al potere legislativo, giudiziario o esecutivo. Tale principio deve valere a maggior ragione nell’ordinamento giuridico comunitario, in quanto tutti gli organi dello Stato, ivi compreso il potere legislativo, sono tenuti, nell’espletamento dei loro compiti, all’osservanza delle prescrizioni dettate dal diritto comunitario e idonee a disciplinare direttamente la situazione dei singoli.

«35. Del pari, la circostanza che, per effetto delle norme interne, l’inadempimento contestato sia imputabile al legislatore nazionale non può compromettere le esigenze relative alla tutela dei diritti dei singoli che fanno valere il diritto comunitario e, nel caso di specie, il diritto di ottenere dinanzi ai giudici nazionali la riparazione del danno originato dal detto inadempimento.

«36. Conseguentemente, si deve rispondere ai giudici nazionali che il principio in forza del quale gli Stati membri sono tenuti a risarcire i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario ad essi imputabili trova applicazione allorché l’inadempimento contestato è riconducibile al legislatore nazionale».

CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Rodríguez Iglesias, avv. gen. Léger), sentenza 30 settembre 2003 nella causa C-224/01, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Landesgericht für Zivilrechtssachen Wien (Austria) nella causa Köbler contro Austria (in Raccolta, p. I-10239). Il sig. Köbler, professore universitario in Austria, aveva chiesto l’attribuzione di un’indennità

speciale di anzianità di servizio, sostenendo che non tener conto a tal fine anche della durata del suo

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servizio nelle università di altri Stati membri costituisse, a decorrere dall’adesione dell’Austria alla Comunità europea, una discriminazione indiretta ingiustificata e perciò contraria al diritto comunitario. L’istanza era però respinta dal Verwaltungsgerichtshof (l’organo austriaco di giustizia amministrativa che decide in ultimo grado), il quale non riscontrava la contrarietà della legislazione austriaca al diritto comunitario e non riteneva peraltro opportuno sollevare una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia. Il sig. Köbler citava allora la Repubblica d’Austria per il risarcimento dei danni subiti dinanzi al Landesgericht für Zivilrechtssachen Wien, che sottoponeva alla Corte di giustizia alcune questioni pregiudiziali, chiedendo in particolare se gli Stati membri sono responsabili per le violazioni del diritto comunitario derivanti da una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado. La Corte ha risposto affermativamente in base ai seguenti argomenti:

«30. Occorre ricordare innanzi tutto che la Corte ha già dichiarato che il principio della

responsabilità di uno Stato membro per danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario ad esso imputabili è inerente al sistema del Trattato...

«31. La Corte ha anche dichiarato che questo principio ha valore in riferimento a qualsiasi ipotesi di violazione del diritto comunitario commessa da uno Stato membro, qualunque sia l’organo di quest’ultimo la cui azione od omissione ha dato origine alla trasgressione...

«32. Se nell’ordinamento giuridico internazionale lo Stato la cui responsabilità sorgerebbe in caso di violazione di un impegno internazionale viene considerato nella sua unità, senza che rilevi la circostanza che la violazione da cui ha avuto origine il danno sia imputabile al potere legislativo, giudiziario o esecutivo, tale principio deve valere a maggior ragione nell’ordinamento giuridico comunitario, in quanto tutti gli organi dello Stato, ivi compreso il potere legislativo, sono tenuti, nell’espletamento dei loro compiti, all’osservanza delle prescrizioni dettate dal diritto comunitario e idonee a disciplinare direttamente la situazione dei singoli (sentenza Brasserie du pêcheur e Factortame cit., punto 34).

«33. In considerazione del ruolo essenziale svolto dal potere giudiziario nella tutela dei diritti che ai singoli derivano dalle norme comunitarie, la piena efficacia di queste ultime verrebbe rimessa in discussione e la tutela dei diritti che esse riconoscono sarebbe affievolita se fosse escluso che i singoli possano, a talune condizioni, ottenere un risarcimento allorché i loro diritti sono lesi da una violazione del diritto comunitario imputabile a una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado di uno Stato membro.

«34. Occorre sottolineare a tale riguardo che un organo giurisdizionale di ultimo grado costituisce per definizione l’ultima istanza dinanzi alla quale i singoli possono far valere i diritti ad essi riconosciuti dal diritto comunitario. Poiché normalmente non può più costituire oggetto di riparazione una violazione di questi diritti in una decisione di un tale organo giurisdizionale che è divenuta definitiva, i singoli non possono essere privati della possibilità di far valere la responsabilità dello Stato al fine di ottenere in tal modo una tutela giuridica dei loro diritti.

«35. Del resto, in particolare, al fine di evitare che siano violati diritti conferiti ai singoli dal diritto comunitario, l’art. 234, terzo comma CE (ora art. 267 TFUE) prevede che un giudice avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno è tenuto a rivolgersi alla Corte.

«36. Pertanto, dalle esigenze relative alla tutela dei diritti dei singoli che fanno valere il diritto comunitario deriva che essi devono avere la possibilità di ottenere dinanzi ai

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giudici nazionali la riparazione del danno originato dalla violazione di questi diritti in seguito a una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado (v., in tal senso, sentenza Brasserie du pêcheur e Factortame cit., punto 35).

«37. Taluni dei governi che hanno presentato osservazioni nell’ambito del presente procedimento hanno fatto valere che il principio della responsabilità dello Stato per i danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario non poteva essere applicato alle decisioni di un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado. A tal fine essi hanno dedotto argomenti relativi, in particolare, al principio di certezza del diritto, più in particolare all’autorità della cosa definitivamente giudicata, all’indipendenza e all’autorità del giudice nonché all’assenza di un giudice competente a statuire sulle controversie relative alla responsabilità dello Stato per tali decisioni.

«38. A tale riguardo occorre rilevare che l’importanza del principio dell’autorità della cosa definitivamente giudicata non può essere contestata (v. sentenza Eco Swiss cit. [1° giugno 1999, causa C-126/97, in Raccolta, p. I-3055], punto 46). Infatti, al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione.

«39. Occorre considerare tuttavia che il riconoscimento del principio della responsabilità dello Stato per la decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado non ha di per sé come conseguenza di rimettere in discussione l’autorità della cosa definitivamente giudicata di una tale decisione. Un procedimento inteso a far dichiarare la responsabilità dello Stato non ha lo stesso oggetto e non implica necessariamente le stesse parti del procedimento che ha dato luogo alla decisione che ha acquisito l’autorità della cosa definitivamente giudicata. Infatti, il ricorrente in un’azione per responsabilità contro lo Stato ottiene, in caso di successo, la condanna di quest’ultimo a risarcire il danno subito, ma non necessariamente che sia rimessa in discussione l’autorità della cosa definitivamente giudicata della decisione giurisdizionale che ha causato il danno. In ogni caso, il principio della responsabilità dello Stato inerente all’ordinamento giuridico comunitario richiede un tale risarcimento, ma non la revisione della decisione giurisdizionale che ha causato il danno.

«40. Ne deriva che il principio dell’autorità della cosa definitivamente giudicata non si oppone al riconoscimento del principio della responsabilità dello Stato per la decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado.

«41. Non possono essere accolti nemmeno gli argomenti basati sull’indipendenza e sull’autorità del giudice.

«42. Per quanto riguarda l’indipendenza del giudice, occorre precisare che il principio di responsabilità di cui trattasi riguarda non la responsabilità personale del giudice, ma quella dello Stato. Ora, non sembra che la possibilità che sussista, a talune condizioni, la responsabilità dello Stato per decisioni giurisdizionali incompatibili con il diritto comunitario comporti rischi particolari di rimettere in discussione l’indipendenza di un organo giurisdizionale di ultimo grado.

«43. Per quanto riguarda l’argomento relativo al rischio che l’autorità di un giudice di ultimo grado sia pregiudicata dal fatto che le sue decisioni divenute definitive possano essere rimesse in discussione implicitamente mediante un procedimento che consente di far dichiarare

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la responsabilità dello Stato a causa di tali decisioni, occorre constatare che l’esistenza di un rimedio giuridico che consenta, a talune condizioni, la riparazione degli effetti dannosi di una decisione giurisdizionale erronea potrebbe senz’altro essere considerata nel senso che corrobora la qualità di un ordinamento giuridico e quindi in definitiva anche l’autorità del potere giurisdizionale.

«44. Diversi governi hanno anche sostenuto che costituiva un ostacolo all’applicazione del principio della responsabilità dello Stato alle decisioni di un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado la difficoltà di designare un giudice competente a statuire su controversie relative al risarcimento dei danni derivanti da tali decisioni.

«45. A tale riguardo occorre considerare che, dato che, per motivi collegati essenzialmente alla necessità di assicurare ai singoli la tutela dei diritti ad essi riconosciuti dalle norme comunitarie, il principio della responsabilità dello Stato che è inerente all’ordinamento giuridico comunitario dev’essere applicato nei confronti delle decisioni di un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, spetta agli Stati membri consentire agli interessati di far valere questo principio mettendo a loro disposizione un rimedio giuridico adeguato. L’attuazione del detto principio non può essere compromessa dall’assenza di un foro competente.

«46. Secondo una costante giurisprudenza, in mancanza di una disciplina comunitaria, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare il giudice competente e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto comunitario (v. sentenze 16 dicembre 1976, causa 33/76, Rewe, in Raccolta, p. 1989, punto 5; 45/76, Comet, ibidem, p. 2043, punto 13; 27 febbraio 1980, causa 68/79, Just, ibidem, p. 501, punto 25, Francovich e a. cit., punto 42, e 14 dicembre 1995, causa C-312/93, Peterbroeck, ibidem, p. I-4599, punto 12).

«47. Fermo restando che gli Stati membri devono assicurare, in ogni caso, una tutela effettiva dei diritti soggettivi derivati dall’ordinamento giuridico comunitario, non spetta alla Corte intervenire nella soluzione dei problemi di competenza che può sollevare, nell’ambito dell’ordinamento giudiziario nazionale, la definizione di determinate situazioni giuridiche fondate sul diritto comunitario (sentenze 18 gennaio 1996, causa C-446/93, SEIM, in Raccolta, p. I-73, punto 32, e Dorsch Consult cit., punto 40).

«48. Occorre ancora aggiungere che, se considerazioni collegate al rispetto del principio dell’autorità della cosa definitivamente giudicata o dell’indipendenza dei giudici possono avere ispirato ai sistemi giuridici nazionali restrizioni, talvolta severe, alla possibilità di far dichiarare la responsabilità dello Stato per danni causati da decisioni giurisdizionali erronee, considerazioni di tale tipo non sono state tali da escludere in maniera assoluta questa possibilità. Infatti, l’applicazione del principio della responsabilità dello Stato alle decisioni giurisdizionali è stata ammessa anche se sotto forme diverse dalla maggior parte degli Stati membri, come l’avvocato generale ha rilevato ai paragrafi 77-82 delle sue conclusioni, anche se solo a condizioni restrittive ed eterogenee.

«49. Si può ancora rilevare che, nello stesso senso, la CEDU [convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950], e più in particolare il suo art. 41, consente alla Corte europea dei diritti dell’uomo di condannare uno Stato che ha violato un diritto fondamentale a compensare i danni che sono derivati da questo comportamento per la parte lesa. Dalla giurisprudenza della detta Corte

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deriva che una tale compensazione può essere concessa anche allorché la violazione deriva dal contenuto di una decisione di un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado (v. sentenza Cour eur. D. H. 21 marzo 2000, Dulaurans/Francia, non ancora pubblicata).

«50. Da quanto precede deriva che il principio secondo cui gli Stati membri sono obbligati a riparare i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario che sono loro imputabili si applica anche allorché la violazione di cui trattasi deriva da una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado. Spetta all’ordinamento giuridico di ciascuno Stato membro designare il giudice competente a risolvere le controversie relative a tale risarcimento.

CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Skouris, avv. gen. Léger), sentenza 13 giugno 2006 nella causa C-173/03, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale di Genova (Italia) nella causa Traghetti del Mediterraneo s.p.a., in liquidazione, contro Italia (in Raccolta, p. I-5177). Nel caso di specie, la Corte di giustizia ha avuto l’occasione di precisare e chiarire la

giurisprudenza Köbler con specifico riguardo alle strette condizioni poste dal diritto nazionale per il risarcimento dei danni causati agli individui nell’esercizio delle funzioni giudiziarie. In particolare, in Italia la legge 13 aprile 1988 n. 117, sul risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati, pone delle condizioni decisamente restrittive laddove, all’art. 2, dispone che «1. Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale. 2. Nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove».

La società Traghetti del Mediterraneo, che operava nel settore del trasporto marittimo da e verso la Sicilia e la Sardegna in concorrenza con la Tirrenia, citava quest’ultima dinanzi al Tribunale di Napoli per il risarcimento del danno da concorrenza sleale e da abuso di posizione dominante, vietato dall’art. 82 CE (ora art. 102 TFUE), sostenendo che la Tirrenia avrebbe applicato tariffe notevolmente inferiori al prezzo di costo grazie a sovvenzioni pubbliche concesse in spregio della disciplina comunitaria sugli aiuti di Stato (artt. 87 ss. CE, ora artt. 107 ss. TFUE). La domanda era respinta sia in primo sia in secondo grado. Era inoltre respinto il ricorso in cassazione per errore di diritto, consistente nell’erronea interpretazione delle norme comunitarie applicabili, nonché non accolta dalla Cassazione l’istanza per un rinvio pregiudiziale di interpretazione alla Corte di giustizia. La Traghetti del Mediterraneo, nel frattempo posta in liquidazione, citava dunque per danni, in base alla legge n. 117/1988, lo Stato italiano dinanzi al Tribunale di Genova, che sottoponeva alla Corte di giustizia alcune questioni pregiudiziali. La Corte, dopo aver confermato il principio espresso nella sentenza Köbler che la responsabilità dello Stato può sussistere «solo nel caso eccezionale» in cui un organo giurisdizionale che ha statuito in ultimo grado abbia violato «in modo manifesto» il diritto comunitario (punto 32), si pronuncia così su eventuali limitazioni a tale responsabilità, come quelle poste dalla legislazione italiana:

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«33. Considerazioni… connesse alla necessità di garantire ai singoli una protezione giurisdizionale effettiva dei diritti che il diritt o comunitario conferisce loro… ostano… a che la responsabilità dello Stato non possa sorgere per il solo motivo che una violazione del diritto comunitario imputabile ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado risulti dall’interpretazione delle norme di diritto effettuata da tale organo giurisdizionale.

«34. Da un lato, infatti, l’interpretazione delle norme di diritto rientra nell’essenza vera e propria dell’attività giurisdizionale poiché, qualunque sia il settore di attività considerato, il giudice, posto di fronte a tesi divergenti o antinomiche, dovrà normalmente interpretare le norme giuridiche pertinenti – nazionali e/o comunitarie – al fine di decidere la controversia che gli è sottoposta.

«35. Dall’altro lato, non si può escludere che una violazione manifesta del diritto comunitario vigente venga commessa, appunto, nell’esercizio di una tale attività interpretativa, se, per esempio, il giudice dà a una norma di diritto sostanziale o procedurale comunitario una portata manifestamente erronea, in particolare alla luce della pertinente giurisprudenza della Corte in tale materia (v., a questo riguardo, la summenzionata sentenza Köbler, punto 56), o se interpreta il diritto nazionale in modo da condurre, in pratica, alla violazione del diritto comunitario vigente.

«36. Come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 52 delle sue conclusioni, escludere, in simili circostanze, ogni responsabilità dello Stato a causa del fatto che la violazione del diritto comunitario deriva da un’operazione di interpretazione delle norme giuridiche effettuata da un organo giurisdizionale equivarrebbe a privare della sua stessa sostanza il principio sancito dalla Corte nella citata sentenza Köbler. Tale constatazione vale, a maggior ragione, per gli organi giurisdizionali di ultimo grado, incaricati di assicurare a livello nazionale l’interpretazione uniforme delle norme giuridiche.

«37. Si deve giungere ad analoga conclusione nel caso di una legislazione che escluda, in maniera generale, la sussistenza di una qualunque responsabilità dello Stato allorquando la violazione imputabile ad un organo giurisdizionale di tale Stato risulti da una valutazione dei fatti e delle prove.

«38. Da un lato, infatti, una simile valutazione costituisce, così come l’attività di interpretazione delle norme giuridiche, un altro aspetto essenziale dell’attività giurisdizionale poiché, indipendentemente dall’interpretazione effettuata dal giudice nazionale investito di una determinata causa, l’applicazione di dette norme al caso di specie spesso dipenderà dalla valutazione che egli avrà compiuto sui fatti del caso di specie così come sul valore e sulla pertinenza degli elementi di prova prodotti a tal fine dalle parti in causa.

«39. Dall’altro lato, una tale valutazione – che richiede a volte analisi complesse – può condurre ugualmente, in certi casi, ad una manifesta violazione del diritto vigente, sia essa effettuata nell’ambito dell’applicazione di specifiche norme relative all’onere della prova, al valore di tali prove o all’ammissibilità dei mezzi di prova, ovvero nell’ambito dell’applicazione di norme che richiedono una qualificazione giuridica dei fatti.

«40. Escludere, in tali casi, ogni possibilità di sussistenza della responsabilità dello Stato poiché la violazione contestata al giudice nazionale riguarda la valutazione effettuata da quest’ultimo su fatti o prove equivarrebbe altresì a privare di effetto utile il principio sancito nella summenzionata sentenza Köbler, per quanto riguarda le manifeste violazioni del diritto comunitario che sarebbero imputabili agli organi giurisdizionali nazionali di ultimo grado.

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«41. Come rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi 87-89 delle sue conclusioni, ciò avviene, in particolare, in materia di aiuti di Stato. Escludere, in tale settore, qualunque responsabilità dello Stato poiché la violazione del diritto comunitario commessa da un organo giurisdizionale nazionale risulterebbe da una valutazione dei fatti rischia di condurre a un indebolimento delle garanzie procedurali offerte ai singoli in quanto la salvaguardia dei diritti che essi traggono dalle pertinenti disposizioni del Trattato dipende, in larga misura, da successive operazioni di qualificazione giuridica dei fatti. Orbene, nell’ipotesi in cui la responsabilità dello Stato fosse esclusa in maniera assoluta, a seguito delle valutazioni operate su determinati fatti da un organo giurisdizionale, tali singoli non beneficerebbero di alcuna protezione giurisdizionale ove un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado commettesse un errore manifesto nel controllo delle summenzionate operazioni di qualificazione giuridica dei fatti.

________________

2. Le condizioni necessarie perché sorga la responsabilità degli Stati membri

2.1. Considerazioni generali.

CORTE DI GIUSTIZIA, sentenza 19 novembre 1991 nelle cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich e Bonifaci cit. «38. Se la responsabilità dello Stato è così imposta dal diritto comunitario, le condizioni in

cui essa fa sorgere un diritto a risarcimento dipendono dalla natura della violazione del diritto comunitario che è all’origine del danno provocato.

«39. Qualora, come nel caso di specie, uno Stato membro violi l’obbligo, ad esso incombente in forza dell’art. 189, terzo comma del Trattato, di prendere tutti i provvedimenti necessari a conseguire il risultato prescritto da una direttiva, la piena efficacia di questa norma di diritto comunitario esige che sia riconosciuto un diritto a risarcimento ove ricorrano tre condizioni .

«40. La prima di queste condizioni è che il risultato prescritto dalla direttiva implichi l’attribuzione di diritti a favore dei singoli . La seconda condizione è che il contenuto di tali diritti possa essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva. Infine, la terza condizione è l’esistenza di un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi.

«41. Tali condizioni sono sufficienti per far sorgere a vantaggio dei singoli un diritto ad ottenere un risarcimento, che trova direttamente il suo fondamento nel diritto comunitario.

«42. Con questa riserva, è nell’ambito delle norme del diritto nazionale relative alla responsabilità che lo Stato è tenuto a riparare le conseguenze del danno provocato. Infatti,

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in mancanza di una disciplina comunitaria, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare il giudice competente e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto comunitario (v. le seguenti sentenze: 22 gennaio 1976, Russo, causa 60/75, in Raccolta, p. 45; 16 dicembre 1976, Rewe, causa 33/76, ibidem, p. 1989; 7 luglio 1981, Rewe, causa 158/80, ibidem, p. 1805).

«43. Occorre rilevare inoltre che le condizioni, formali e sostanziali, stabilite dalle diverse legislazioni nazionali in materia di risarcimento dei danni non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano reclami analoghi di natura interna e non possono essere congegnate in modo da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento (v. per quanto concerne la materia analoga del rimborso di imposte riscosse in violazione del diritto comunitario, in particolare la sentenza 9 novembre 1983, San Giorgio, causa 199/82, in Raccolta, p. 3595).

«44. Nella fattispecie, la violazione del diritto comunitario da parte di uno Stato membro a seguito della mancata attuazione entro i termini della direttiva 80/987 è stata accertata con una sentenza della Corte. Il risultato prescritto da tale direttiva comporta l’attribuzione ai lavoratori subordinati del diritto ad una garanzia per il pagamento di loro crediti non pagati relativi alla retribuzione. Come risulta dall’esame della prima parte della prima questione, il contenuto di tale diritto può essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva.

«45. Stando così le cose, spetta al giudice nazionale garantire, nell’ambito delle norme di diritto interno relative alla responsabilità, il diritto dei lavoratori ad ottenere il risarcimento dei danni che siano stati loro provocati a seguito della mancata attuazione della direttiva».

CORTE DI GIUSTIZIA, sentenza 5 marzo 1996, nelle cause riunite C-46/93 e C-48/93, Brasserie du pêcheur e Factortame cit. «38. …se la responsabilità dello Stato è imposta dal diritto comunitario, le condizioni in cui

essa fa sorgere un diritto al risarcimento dipendono dalla natura della violazione del diritto comunitario che è all’origine del danno provocato (sentenza Francovich e a., citata, punto 38).

«39. Per determinare tali condizioni occorre tener conto anzitutto dei principi propri dell’ordinamento giuridico comunitario che costituiscono il fondamento per la responsabilità dello Stato, vale a dire la piena efficacia delle norme comunitarie e l’effettiva tutela dei diritti da esse garantiti, da un lato, e l’obbligo di cooperazione incombente agli Stati membri in forza dell’art. 5 del Trattato, dall'altro (sentenza Francovich e a., citata, punti 31-36).

«40. Inoltre, come hanno sottolineato la Commissione e i vari governi che hanno presentato osservazioni, è pertinente il riferimento alla giurisprudenza della Corte relativa alla responsabilità extracontrattuale della Comunità.

«41. Invero, da un lato, l’art. 215, secondo comma del Trattato (poi art. 288 CE, ora art.340 TFUE) fa rinvio, in tema di responsabilità extracontrattuale della Comunità, ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri, ai quali la Corte fa del pari riferimento, in mancanza di norme scritte, in altri settori del diritto comunitario.

«42. Dall’altro, i presupposti del sorgere della responsabilità dello Stato per danni cagionati ai singoli in conseguenza della violazione del diritto comunitario non debbono

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essere diversi, in mancanza di specifica giustificazione, da quelli che disciplinano la responsabilità della Comunità in circostanze analoghe. Infatti, la tutela dei diritti attribuiti ai singoli dal diritto comunitario non può variare in funzione della natura, nazionale o comunitaria, dell’organo che ha cagionato il danno.

«43. Il regime enunciato dalla Corte alla luce dell’art. 215 del Trattato, in ispecie per quanto riguarda la responsabilità derivante da atti normativi, tiene segnatamente conto della complessità delle situazioni da disciplinare, delle difficoltà di applicazione o interpretazione dei testi e, più in particolare, del margine di valutazione discrezionale rimesso all’autore dell' atto controverso.

«44. È tenendo conto dell’ampio potere discrezionale devoluto alle istituzioni per l’attuazione delle politiche comunitarie che è stata elaborata la giurisprudenza della Corte in tema di responsabilità extracontrattuale della Comunità, con particolare riferimento agli atti normativi che implicavano scelte di politica economica.

«45. Invero, la concezione restrittiva della responsabilità della Comunità derivante dall’esercizio delle proprie attività normative si spiega con la considerazione che l’esercizio del potere legislativo, anche nei casi in cui esiste un controllo giurisdizionale sulla legittimità degli atti, non deve essere ostacolato dalla prospettiva di azioni risarcitorie ogni volta che esso deve adottare, nell’interesse generale della Comunità, provvedimenti normativi che possono ledere interessi di singoli e che, per l'altro verso, in un contesto normativo caratterizzato dall’esistenza di un ampio potere discrezionale, indispensabile per l’attuazione di una politica comunitaria, la responsabilità della Comunità può sussistere solo se l’istituzione di cui trattasi ha disconosciuto, in modo palese e grave, i limiti che si impongono all'esercizio dei suoi poteri (sentenza 25 maggio 1978, cause riunite 83/76, 94/76, 4/77, 15/77 e 40/77, HNL e a./Consiglio e Commissione, in Raccolta, p. 1209, punti 5 e 6).

«46. Ciò premesso, si deve constatare che il legislatore nazionale, così come del resto le istituzioni comunitarie, non dispone sistematicamente di un ampio potere discrezionale quando si tratti di un settore disciplinato dal diritto comunitario . Quest’ultimo può imporgli obblighi di risultato o di condotta o di astensione che riducono, talvolta in maniera considerevole, il suo margine di valutazione. Tale è in particolare il caso quando, come avveniva nella fattispecie oggetto della sentenza Francovich e a., lo Stato membro è obbligato, in forza dell’art. 189 del Trattato, ad adottare entro un certo termine tutti i provvedimenti necessari per conseguire il risultato prescritto da una direttiva. In tal caso, la circostanza che i provvedimenti da adottare incombano al legislatore nazionale è, ai fini del sorgere della responsabilità dello Stato membro per la mancata attuazione della direttiva, priva di pertinenza.

«47. Diversamente, allorché uno Stato membro opera in un settore nel quale dispone di un ampio potere discrezionale, paragonabile a quello del quale si avvalgono le istituzioni comunitarie per l’attuazione delle politiche comunitarie, i presupposti della sua responsabilità debbono essere, in via di principio, i medesimi di quelli dai quali dipende il sorgere della responsabilità della Comunità in una situazione analoga.

«48. Nella fattispecie della causa a quo di cui al procedimento C-46/93, il legislatore tedesco aveva legiferato nel settore dei prodotti alimentari, in particolare in quello della birra. In mancanza di armonizzazione comunitaria, il legislatore nazionale disponeva, in tale settore, di un ampio potere discrezionale per adottare una disciplina sulla qualità della birra in commercio.

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«49. Quanto alla fattispecie all’origine del procedimento C-48/93, il legislatore del Regno Unito disponeva del pari di un ampio potere discrezionale. Infatti, la normativa controversa concerneva, da un lato, l’immatricolazione dei pescherecci, settore che, tenuto conto dello stadio di sviluppo del diritto comunitario, rientra nella sfera di competenza degli Stati membri, e, dall’altro, la disciplina delle attività di pesca, settore nel quale l’attuazione della politica comune consente un certo margine di valutazione agli Stati membri.

«50. Risulta quindi che, in entrambe le fattispecie, i legislatori tedesco e del Regno Unito avevano di fronte situazioni che comportavano scelte paragonabili a quelle operate dalle istituzioni comunitarie nell’adozione di atti normativi rientranti in una politica comunitaria.

«51. Stando così le cose, un diritto al risarcimento è riconosciuto dal dirit to comunitario in quanto siano soddisfatte tre condizioni, vale a dire che la norma giuridica violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli, che si tratti di violazione sufficientemente caratterizzata e, infine, che esista un nesso causale diretto tra la violazione dell’obbligo incombente allo Stato e il danno subito dai soggetti lesi.

«52. Infatti, in primo luogo, queste condizioni soddisfano le esigenze della piena efficacia delle norme comunitarie e dell’effettiva tutela dei diritti da esse garantiti.

«53. In secondo luogo, esse corrispondono in sostanza a quelle enunciate dalla Corte in ordine all’art. 215 nella sua giurisprudenza relativa alla responsabilità della Comunità per danni cagionati ai singoli da atti normativi illegittimi adottati dalle sue istituzioni. (…)

«66. Le tre condizioni sopra richiamate sono necessarie e sufficienti per attribuire ai singoli un diritto al risarcimento, senza tuttavia escludere che la responsabilità dello Stato possa essere accertata, a condizioni meno restrittive, sulla base del diritto nazionale.

«67. Come si rileva dai punti 41-43 della sentenza Francovich e a., fermo restando il diritto al risarcimento che trova direttamente il suo fondamento nel diritto comunitario, purché siano soddisfatte le condizioni descritte in precedenza, è nell’ambito delle norme del diritto nazionale relative alla responsabilità che lo Stato è tenuto a riparare le conseguenze del danno provocato, restando inteso che le condizioni fissate dalle norme nazionali in materia di risarcimento dei danni non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano reclami analoghi di natura interna e non possono essere tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento (v., altresì, sentenza 9 novembre 1983, causa 199/82, San Giorgio, in Raccolta, p. 3595)».

2.2. Il fatto generatore del danno: la violazione «sufficientemente caratterizzata» (cioè, «grave e manifesta») di norme dell’Unione.

CORTE DI GIUSTIZIA, sentenza 5 marzo 1996, nelle cause riunite C-46/93 e C-48/93,

Brasserie du pêcheur e Factortame cit. «55. Quanto alla seconda condizione, sia per quanto riguarda la responsabilità della

Comunità ai sensi dell’art. 215 sia per quanto attiene alla responsabilità degli Stati membri per violazioni del diritto comunitario, il criterio decisivo per considerare sufficientemente caratterizzata una violazione del diritto comunitario è quello della violazione manifesta e grave, da parte di uno Stato membro o di un’istituzione comunitaria, dei limiti posti al loro

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potere discrezionale. «56. Al riguardo, fra gli elementi che il giudice competente può eventualmente prendere in

considerazione, vanno sottolineati il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, l’ampiezza del potere discrezionale che tale norma riserva alle autorità nazionali o comunitarie, il carattere intenzionale o involontario della trasgressione commessa o del danno causato, la scusabilità o l’inescusabilità di un eventuale errore di diritto, la circostanza che i comportamenti adottati da un’istituzione comunitaria abbiano potuto concorrere all’omissione, all' adozione o al mantenimento in vigore di provvedimenti o di prassi nazionali contrari al diritto comunitario.

«57. In ogni caso, una violazione del diritto comunitario è manifesta e grave quando continua nonostante la pronuncia di una sentenza che ha accertato l’inadempimento contestato, di una sentenza pregiudiziale o di una giurisprudenza consolidata della Corte in materia, dalle quali risulti l’illegittimità del comportamento in questione».

CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Rodríguez Iglesias, avv. gen. Tesauro), sentenza 8 ottobre 1996 nelle cause riunite C-178/94, C-179/94, C-188/94, C-189/94 e C-190/94, sulle domande di pronuncia pregiudiziale proposte dal Landgericht Bonn (Germania) nelle cause Dillenkofer e a. contro Germania (in Raccolta, p. I-4845). «24. Affermando che le condizioni in cui la responsabilità fa sorgere un diritto a

risarcimento dipendono dalla natura della violazione del diritto comunitario che è all’origine del danno provocato, la Corte ha in effetti considerato che la valutazione di tali condizioni dipendeva da ciascun tipo di situazione.

«25. Infatti, anzitutto una violazione è sufficientemente grave e manifesta quando un’istituzione o uno Stato membro, nell’esercizio del suo potere normativo, ha violato in modo grave e manifesto i limiti posti al suo potere discrezionale (v. sentenze 25 maggio 1978, cause riunite 83/76, 94/76, 4/77, 15/77 e 40/77, HNL e a./Consiglio e Commissione, in Raccolta, p. 1209, punto 6; Brasserie du pêcheur e Factortame, citata, punto 55, e British Telecommunications, citata, punto 42) e, in secondo luogo, nell’ipotesi in cui lo Stato membro di cui trattasi, al momento in cui ha commesso la trasgressione, non si fosse trovato di fronte a scelte normative e disponesse di un margine di discrezionalità considerevolmente ridotto, se non addirittura inesistente, la semplice trasgressione del diritto comunitario può essere sufficiente per accertare l’esistenza di una violazione sufficientemente grave e manifesta (v. sentenza Hedley Lomas, citata, punto 28).

«26. Pertanto, qualora, come nella causa Francovich e a., uno Stato membro, in violazione dell’art. 189, terzo comma del Trattato, non prenda alcuno dei provvedimenti necessari per raggiungere il risultato prescritto da una direttiva, entro il termine fissato da quest’ultima, tale Stato membro viola, in modo grave e manifesto, i limiti posti all’esercizio dei suoi poteri.

«27. Di conseguenza, una siffatta violazione fa sorgere, a favore dei singoli, un diritto ad ottenere un risarcimento se il risultato imposto dalla direttiva comporta l’attribuzione, a loro favore, di diritti il cui contenuto possa essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva e se esiste un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi, senza che debbano essere prese in considerazione altre

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condizioni. «28. In particolare non si può subordinare il risarcimento del danno al presupposto di una

previa constatazione, da parte della Corte, di un inadempimento del diritto comunitario imputabile allo Stato (v. sentenza Brasserie du pêcheur, punti 94-96) né all’esistenza di una condotta dolosa o colposa dell’organo statale al quale è imputabile l’inadempimento (v. punti 75-80 della stessa sentenza).

«29. Occorre quindi risolvere l’ottava, la nona, la decima, l’undicesima e la dodicesima questione nel senso che la mancanza di qualsiasi provvedimento d’attuazione di una direttiva per raggiungere il risultato prescritto da quest’ultima entro il termine a tal fine stabilito costituisce di per sé una violazione grave e manifesta del diritto comunitario e pertanto fa sorgere un diritto a risarcimento a favore dei singoli lesi qualora, da un lato, il risultato prescritto da una direttiva implichi l’attribuzione, a favore dei singoli, di diritti il cui contenuto possa essere individuato e, dall’altro, esista un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello Stato e il danno subito».

CORTE DI GIUSTIZIA, sentenza 30 settembre 2003 nella causa C-224/01, Köbler cit. «53. Per quanto riguarda più in particolare la seconda di queste condizioni e la sua

applicazione al fine di stabilire un’eventuale responsabilità dello Stato per una decisione di un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, occorre tener conto della specificità della funzione giurisdizionale nonché delle legittime esigenze della certezza del diritto come hanno fatto valere anche gli Stati membri che hanno presentato osservazioni in questo procedimento. La responsabilità dello Stato a causa della violazione del diritto comunitario in una tale decisione può sussistere solo nel caso eccezionale in cui il giudice abbia violato in maniera manifesta il diritto vigente.

«54. Al fine di determinare se questa condizione sia soddisfatta, il giudice nazionale investito di una domanda di risarcimento dei danni deve tenere conto di tutti gli elementi che caratterizzano la controversia sottoposta al suo sindacato.

«55. Fra tali elementi compaiono in particolare il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, il carattere intenzionale della violazione, la scusabilità o l'inescusabilità dell'errore di diritto, la posizione adottata eventualmente da un'istituzione comunitaria nonché la mancata osservanza, da parte dell'organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 234, terzo comma CE.

«56. In ogni caso, una violazione del diritto comunitario è sufficientemente caratterizzata allorché la decisione di cui trattasi è intervenuta ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in questa materia (v., in tal senso, sentenza Brasserie du pêcheur e Factortame cit., punto 57)».

CORTE DI GIUSTIZIA, sentenza 13 giugno 2006 nella causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo s.p.a. cit. «42. Riguardo, infine, alla limitazione della responsabilità dello Stato ai soli casi di dolo o

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di colpa grave del giudice, occorre ricordare, come rilevato al punto 32 della presente sentenza, che la Corte, nella summenzionata sentenza Köbler, ha dichiarato che la responsabilità dello Stato per i danni arrecati ai singoli a causa di una violazione del diritto comunitario imputabile ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado poteva sorgere nel caso eccezionale in cui tale organo giurisdizionale avesse violato in modo manifesto il diritto vigente.

«43. Tale violazione manifesta si valuta, in particolare, alla luce di un certo numero di criteri quali il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, il carattere scusabile o inescusabile dell’errore di diritto commesso, o la mancata osservanza, da parte dell’organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234, terzo comma CE, ed è presunta, in ogni caso, quando la decisione interessata interviene ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in materia (sentenza Köbler cit., punti 53-56).

«44. Pertanto, se non si può escludere che il diritto nazionale precisi i criteri relativi alla natura o al grado di una violazione, da soddisfare affinché possa sorgere la responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, tali criteri non possono, in nessun caso, imporre requisiti più rigorosi di quelli derivanti dalla condizione di una manifesta violazione del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della summenzionata sentenza Köbler.

«45. Il diritto al risarcimento sorgerà, dunque, se tale ultima condizione è soddisfatta, non appena sarà stato stabilito che la norma di diritto violata ha per oggetto il conferimento di diritti ai singoli e che esiste un nesso di causalità diretto tra la violazione manifesta invocata e il danno subito dall’interessato (v., segnatamente, a tale riguardo, le summenzionate sentenze Francovich e a., punto 40; Brasserie du pêcheur e Factortame, punto 51, nonché Köbler, punto 51). Come risulta, in particolare, dal punto 57 della citata sentenza Köbler, tali tre condizioni sono, in effetti, necessarie e sufficienti per attribuire ai singoli un diritto al risarcimento, senza tuttavia escludere che la responsabilità dello Stato possa essere accertata a condizioni meno restrittive in base al diritto nazionale».

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CAPITOLO IV

LA TUTELA GIURISDIZIONALE EFFETTIVA DEI DIRITTI

CONFERITI AI SINGOLI DAL DIRITTO DELL’UNIONE

Come si è visto, le norme dell’Unione possono conferire agli individui dei diritti soggettivi nei confronti degli Stati membri ma anche, sebbene con maggiori limitazioni, nei confronti di altri individui. Ciò si verifica innanzitutto nel caso in cui le norme dell’Unione hanno diretta efficacia (supra, capitolo I). Abbiamo inoltre visto che la violazione del diritto dell’Unione può comportare, a prescindere dalla diretta efficacia della norma violata, un autonomo diritto del singolo al risarcimento del danno da parte dello Stato (supra, capitolo III). Infine, ogni volta che il diritto derivato dell’Unione, in specie mediante direttive, impone agli Stati membri, sul piano del diritto sostanziale, l’attribuzione ai singoli di determinate situazioni di vantaggio, esso richiede altresì, espressamente o implicitamente, che sia garantita agli interessati la possibilità di far valere tali diritti dinanzi ai giudici nazionali. In tutti questi casi, si pone dunque il problema della tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive che trovano la loro fonte, diretta o indiretta, nell’ordinamento dell’Unione.

Bisogna muovere dalla constatazione che, secondo l’indirizzo consolidato della Corte di giustizia, il diritto effettivo di rivolgersi a un giudice per la tutela dei propri diritti costituisce un diritto umano fondamentale e, come tale, un principio generale di diritto dell’Unione (v. infra, par. 1).

Si deve ricordare a tal proposito che, come abbiamo precedentemente illustrato (v. supra, capitolo I, par. 1) agli individui è garantito un accesso tutto sommato limitato agli organi giurisdizionali dell’Unione. Brevemente riepilogando le principali ipotesi, infatti, essi possono ricorrere per l’annullamento degli atti adottati nei loro confronti o che li riguardano direttamente e individualmente (art. 230, quarto comma CE; ora art. 263, quarto comma TFUE) e per la responsabilità extracontrattuale delll’Unione (artt. 235 e 288, secondo comma CE, ora artt. 268 e 340, secondo comma TFUE). In ogni caso, come abbiamo già ribadito, un soggetto privato non può agire davanti agli organi giurisdizionali dell’Unione per far valere una pretesa fondata sul diritto dell’Unione nei confronti di uno Stato membro o di un altro soggetto privato.

Ne consegue, in primo luogo, che spetta agli ordinamenti nazionali garantire al singolo

la tutela giurisdizionale dei diritti attribuitigli dalle norme dell’Unione. Gli individui, infatti, devono avere la concreta possibilità di far valere tali diritti dinanzi ai giudici nazionali, i quali dovranno assicurarne una tutela giurisdizionale effettiva, in forza del principio

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generale di leale cooperazione. In secondo luogo, anche quando si avanzi una pretesa fondata su una norma dell’Unione, tutti gli aspetti procedurali e sostanziali – quali, ad esempio, le condizioni dell’azione, il giudice competente, i termini di prescrizione o decadenza, le forme della domanda, gli oneri processuali, la ripartizione dell’onere della prova o la quantificazione del danno risarcibile – rimangono disciplinati dalle norme nazionali del giudice adito, sempre che e nella misura in cui essi non siano stati armonizzati a livello europeo della materia, in ossequio al c.d. «principio dell’autonomia procedurale degli Stati membri» (v. infra, par. 2). L’applicazione delle norme interne in forza di siffatto principio incontra tuttavia, anche in assenza di armonizzazione, due limiti generali e fondamentali posti dall’ordinamento dell’Unione, che consistono nella necessità di rispettare i principi di equivalenza e di effettività (infra, par. 3).

1. Il diritto alla tutela giurisdizionale effettiva quale principio generale del diritto dell’Unione

CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Mackenzie-Stuart, avv. gen. Darmon), sentenza 15 maggio

1986 nella causa 222/84, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dall’Industrial Tribunal of Northern Ireland (Regno Unito) nella causa tra Johnston e Chief Contestable of the Royal Ulster Constabulary (in Raccolta, p. 1651). Nel caso di specie veniva, tra l’altro, in rilievo l’art. 6 della direttiva n. 76/207/CEE del 9

febbraio 1976, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, che recita: «Gli Stati membri introducono nei rispettivi ordinamenti giuridici interni le misure necessarie per permettere a tutti coloro che si ritengano lesi dalla mancata applicazione nei loro confronti del principio della parità di trattamento, ai sensi degli articoli 3, 4 e 5, di far valere i propri diritti per via giudiziaria, eventualmente dopo aver fatto ricorso ad altre istanze competenti». Al riguardo la Corte osserva:

«17. …si deve innanzitutto ricordare che l’art. 6 della direttiva fa obbligo agli Stati membri

di introdurre nei rispettivi ordinamenti giuridici interni i provvedimenti necessari per consentire a chiunque si ritenga vittima di una discriminazione “di far valere i propri diritti per via giudiziaria”. Da detta disposizione deriva che gli Stati membri sono tenuti ad adottare provvedimenti sufficientemente efficaci per raggiungere lo scopo della direttiva e a garantire che i diritti in tal modo attribuiti possano essere effettivamente fatti valere dagli interessati dinanzi ai giudici nazionali.

«18. Il sindacato giurisdizionale che il succitato articolo vuole sia garantito costituisce espressione di un principio giuridico generale su cui sono basate le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. Detto principio è stato del pari sancito dagli artt. 6 e 13 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, stipulata il 4 novembre 1950. Come si riconosce nella dichiarazione comune 5 aprile 1977 del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione (Gazz. Uff. Com. eur., n. C 103, p. 1), e come è dichiarato nella giurisprudenza della Corte, si deve tener

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conto, nell’ambito del diritto comunitario, dei pri ncipi ai quali è ispirata la convenzione suddetta.

«19. A norma dell’art. 6 della direttiva, interpretato alla luce del predetto principio generale, qualsiasi persona ha il diritto di esperire un ricorso effettivo dinanzi a un giudice competente avverso gli atti che essa ritenga contrastanti col principio della parità di trattamento fra uomini e donne stabilito dalla direttiva 76/207. Tocca agli Stati membri garantire un sindacato giurisdizionale effettivo sul rispetto delle vigenti disposizioni del diritto comunitario e della normativa nazionale destinata ad attuare i diritti contemplati dalla direttiva».

CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Skouris, avv. gen. Sharpston), sentenza 13 marzo 2007 nella causa C-432/05, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale sottoposta dallo Högsta domstolen (Svezia) nella causa Unibet (London) Ltd , Unibet (International) Ltd contro Justitiekanslern (in Raccolta, p. I-2271). «37. …in base ad una giurisprudenza costante, il principio di tutela giurisdizionale

effettiva costituisce un principio generale di diritto comunitario che deriva dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, che è stato sancito dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (sentenze 15 maggio 1986, causa 222/84, Johnston, in Raccolta, p. 1651, punti 18 e 19; 15 ottobre 1987, causa 222/86, Heylens e a., ibidem, p. 4097, punto 14; 27 novembre 2001, causa C-424/99, Commissione c. Austria, ibidem, p. I-9285, punto 45; 25 luglio 2002, causa C-50/00 P, Unión de Pequeños Agricultores c. Consiglio, ibidem, p. I-6677, punto 39, e 19 giugno 2003, causa C-467/01, Eribrand, ibidem, p. I-6471, punto 61) e che è stato ribadito anche all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 (Gazz. Uff. Un. eur., n. C 364, p. 1)».

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2. Il principio dell’autonomia procedurale degli Stati membri

CORTE DI GIUSTIZIA, sentenza 13 marzo 2007 nella causa C-432/05, Unibet cit. «38. …è compito dei giudici nazionali, secondo il principio di collaborazione enunciato

dall’art. 10 CE, garantire la tutela giurisdizionale dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme di diritto comunitario (v., in tal senso, sentenze 16 dicembre 1976, causa 33/76, Rewe, in Raccolta, p. 1989, punto 5, e causa 45/76, Comet, ibidem, p. 2043, punto 12; 9 marzo 1978, causa 106/77, Simmenthal, ibidem, p. 629, punti 21 e 22; 19 giugno 1990, causa C-213/89, Factortame e a., ibidem, p. I-2433, punto 19, nonché 14 dicembre 1995, causa C-

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312/93, Peterbroeck, ibidem, p. I-4599, punto 12). «39. Occorre altresì ricordare che, in mancanza di una disciplina comunitaria in materia,

spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto c omunitario (v., in particolare, sentenze citate Rewe, punto 5; Comet, punto 13; Peterbroeck, punto 12; 20 settembre 2001, causa C-453/99, Courage e Crehan, in Raccolta, p. I-6297, punto 29, nonché 11 settembre 2003, causa C-13/01, Safalero, ibidem, p. I-8679, punto 49).

«40. Infatti, nonostante il Trattato CE abbia istituito un certo numero di azioni dirette che possono essere eventualmente esperite dai singoli dinanzi al giudice comunitario, non ha comunque inteso creare mezzi d’impugnazione esperibili dinanzi ai giudici nazionali, onde salvaguardare il diritto comunitario, diversi da quelli già contemplati dal diritto nazionale (sentenza 7 luglio 1981, causa 158/80, Rewe, in Raccolta, p. 1805, punto 44).

«41. La situazione sarebbe diversa solo se risultasse dall’economia dell’ordinamento giuridico nazionale in questione che non esiste alcun mezzo di gravame che permette, anche in via incidentale, di garantire il rispetto dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto comunitario (v., in tal senso, sentenza 16 dicembre 1976, Rewe cit., punto 5, e citate sentenze Comet, punto 16, nonché Factortame e a., punti 19-23).

«42. Pertanto, anche se in via di principio spetta al diritto nazionale determinare la legittimazione e l’interesse ad agire di un soggetto dell’ordinamento, il diritto comunitario richiede tuttavia che la normativa nazionale non leda il diritto ad una effettiva tutela giurisdizionale (v., in particolare, sentenze 11 luglio 1991, cause riunite da C-87/90 a C-89/90, Verholen e a., in Raccolta, p. I-3757, punto 24 e Safalero cit., punto 50). Spetta infatti agli Stati membri prevedere un sistema di rimedi giurisdizionali e di procedimenti inteso a garantire il rispetto di tale diritto (sentenza Unión de Pequeños Agricultores c. Consiglio cit., punto 41)».

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3. I limiti all’autonomia procedurale: i principi di equivalenza e di effettività

CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Rodríguez Iglesias, avv. gen. Jacobs), sentenza 14 dicembre

1995 nella causa C-312/93, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Cour d'Appel di Bruxelles (Belgio) nella causa tra Peterbroeck e a. e Belgio (in Raccolta, p. I-4599). La società olandese CBT aveva percepito, in qualità di socio della società belga Peterbroeck, un

reddito assoggettato in Belgio ad imposta all'aliquota prevista per i non residenti. La Peterbroeck, in veste di legale rappresentante in Belgio della CBT, aveva pertanto presentato reclamo dinanzi al direttore regionale delle imposte dirette, che veniva respinto. La Peterbroeck proponeva allora un

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ricorso dinanzi alla Corte d’Appello di Bruxelles, con il quale faceva valere, per la prima volta, che l’applicazione a una società olandese di un’aliquota d’imposta maggiore di quella applicabile alle società belghe costituiva una restrizione alla libertà di stabilimento, vietata dall’art. 52 CEE (poi art. 43 CE, ora art. 49 TFUE). Lo Stato belga convenuto eccepiva che si trattava di un nuovo motivo, in quanto non dedotto in sede di reclamo né esaminato d'ufficio dal direttore, e quindi irricevibile, poiché proposto dopo la scadenza del termine previsto, a pena di decadenza, dalle norme processuali nazionali. Il giudice belga sollevò pertanto un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia sulla compatibilità con il diritto dell’Unione del divieto, posto al giudice belga dalle sue norme processuali nazionali, di valutare d'ufficio la contrarietà di un atto di diritto nazionale al diritto dell’Unione, qualora quest'ultima non fosse stata invocata dalla parte interessata entro un determinato termine. La Corte risolse la questione alla luce del principio di effettività, affermando:

«12. …va ricordato che, per giurisprudenza costante, è compito dei giudici nazionali,

secondo il principio di collaborazione enunciato dall’art. 5 del Trattato, garantire la tutela giurisdizionale spettante ai singoli in forza delle norme di diritto comunitario aventi effetto diretto. In mancanza di disciplina comunitaria in materia, spetta all'ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme di diritto comunitario aventi effetto diretto. Tuttavia, dette modalità non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comuni tario (v., in particolare, sentenze 16 dicembre 1976, causa 33/76, Rewe, in Raccolta, p. 1989, punto 5, e causa 45/76, Comet, ibidem, p. 2043, punti 12-16; 27 febbraio 1980, causa 68/79, Just, ibidem, p. 501, punto 25; 9 novembre 1983, causa 199/82, San Giorgio, ibidem, p. 3595, punto 14; 25 febbraio 1988, cause riunite 331/85, 376/85 e 378/85, Bianco e Girard, ibidem, p. 1099, punto 12; 24 marzo 1988, causa 104/86, Commissione c. Italia, ibidem, p. 1799, punto 7; 14 luglio 1988, cause riunite 123/87 e 330/87, Jeunehomme e EGI, ibidem, p. 4517, punto 17; 9 giugno 1992, causa C-96/91, Commissione c. Spagna, ibidem, p. I-3789, punto 12, e 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich e a., ibidem, p. I-5357, punto 43).

«13. Al riguardo, occorre altresì ricordare che la Corte ha già dichiarato che una norma di diritto nazionale la quale impedisce l'attivazione del procedimento ex art. 177 del Trattato deve essere disapplicata (v. sentenza 16 gennaio 1974, causa 166/73, Rheinmuehlen, in Raccolta, p. 33, punti 2 e 3).

«14. Alla luce di detti principi, ciascun caso in cui si pone la questione se una norma processuale nazionale renda impossibile o eccessivamente difficile l'applicazione del diritto comunitario dev'essere esaminato tenendo conto del ruolo di detta norma nell'insieme del procedimento, dello svolgimento e delle peculiarità dello stesso, dinanzi ai vari organi giurisdizionali nazionali. Sotto tale profilo si devono considerare, se necessario, i principi che sono alla base del sistema giurisdizionale nazionale, quali la tutela dei diritti della difesa, il principio della certezza del diritto e il regolare svolgimento del procedimento.

«15. Nel caso di specie, in base alle norme di diritto nazionale il singolo non può più far valere, dinanzi alla Cour d’appel, un nuovo motivo di ricorso fondato sul diritto comunitario dopo la scadenza del termine di sessanta giorni dalla data di deposito da parte del direttore delle

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imposte della copia autentica del provvedimento impugnato. «16. Sebbene il termine di sessanta giorni così imposto ai singoli non sia di per sé

censurabile, occorre tuttavia sottolineare le peculiarità del procedimento di cui trattasi. «17. In primo luogo, la Cour d’appel è il primo giudice che può sottoporre una questione

pregiudiziale alla Corte di giustizia, poiché il direttore, dinanzi al quale si svolge il procedimento in prima istanza, fa parte dell’amministrazione finanziaria e non è, di conseguenza, un giudice ai sensi dell'art. 177 del Trattato (v., in tal senso, sentenza 30 marzo 1993, causa C-24/92, Corbiau, in Raccolta, p. I-1277).

«18. In secondo luogo, il termine, la cui scadenza ha impedito al giudice nazionale di valutare d’ufficio la compatibilità di un atto di diritto nazionale con il diritto comunitario, ha iniziato a decorrere dalla data di deposito da parte del direttore delle imposte della copia autentica del provvedimento impugnato. Ora, risulta dagli atti di causa che, per questa ragione, il lasso di tempo durante il quale il ricorrente poteva dedurre motivi nuovi era già trascorso quando si è svolta l'udienza dinanzi alla Cour d’appel, di modo che essa è stata privata della possibilità di procedere d’ufficio a tale valutazione.

«19. In terzo luogo, non risulta che un altro giudice nazionale possa, nell’ambito di un ulteriore procedimento, esaminare d’ufficio la compatibilità di un provvedimento nazionale con il diritto comunitario.

«20. Non risulta, infine, che l’impossibilità per i giudici nazionali di esaminare d’ufficio motivi fondati sul diritto comunitario possa essere ragionevolmente giustificata in base a principi quali quello della certezza del diritto o dello svolgimento regolare del procedimento.

«21. Di conseguenza, la questione posta dalla Cour d’appel di Bruxelles deve essere risolta dichiarando che il diritto comunitario osta all’applicazione di una norma processuale nazionale che, in condizioni analoghe a quelle del procedimento di cui trattasi nella causa davanti al giudice a quo, vieta al giudice nazionale, adito nell'ambito della sua competenza, di valutare d'ufficio la compatibilità di un provvedimento di diritto nazionale con una disposizione comunitaria, quando quest'ultima non sia stata invocata dal singolo entro un determinato termine».

CORTE DI GIUSTIZIA, sentenza 13 marzo 2007 nella causa C-432/05, Unibet cit. «43. …le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai

singoli in forza del diritto comunitario non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna (principio di equivalenza), né devono rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività ) (v., in particolare, sentenza 16 dicembre 1976, Rewe cit., punto 5, e citate sentenze Comet, punti 13-16; Peterbroeck, punto 12; Courage e Crehan, punto 29; Eribrand, punto 62, nonché Safalero, punto 49).

«44. Inoltre, spetta ai giudici nazionali interpretare le modalità procedurali applicabili ai ricorsi di cui essi sono investiti, quali l’esigenza di un rapporto giuridico concreto tra il ricorrente e lo Stato, per quanto possibile in modo tale che dette modalità possano ricevere un’applicazione che contribuisca al perseguimento dell’obiettivo, ricordato al punto 37 della presente sentenza, di garantire una tutela giurisdizionale effettiva dei diritti spettanti ai singoli

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in forza del diritto comunitario».

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CAPITOLO V

IL PRIMATO DEL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA SUL

DIRITTO NAZIONALE

1. L’orientamento della Corte di Giustizia CORTE DI GIUSTIZIA (pres., avv. gen. Lagrange), sentenza 15 luglio 1964 nella causa

6/64, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Giudice conciliatore di Milano (Italia) nella causa Costa contro ENEL (in Raccolta, p. 1129). L’avv. Costa aveva convenuto il neo-istituito Ente nazionale energia elettrica (ENEL) davanti al

Giudice conciliatore di Milano con un’azione di accertamento negativo, sostenendo di non essere tenuto a pagare l’ENEL per la somministrazione di energia elettrica, a motivo del fatto che la legge 6 dicembre 1962 n. 1643, che aveva istituito l’ENEL nazionalizzando la produzione e la distribuzione dell’energia elettrica, e i conseguenti provvedimenti legislativi delegati per il trasferimento delle società elettriche al nuovo Ente erano in contrasto con gli artt. 102, 93, 53 e 37 CEE e quindi, indirettamente, anche con l’art. 11 Cost., in forza del quale l’Italia aveva ratificato il Trattato CEE. Aderendo alle tesi attoree, il Giudice conciliatore sollevava sia un ricorso incidentale di illegittimità costituzionale alla Corte Costituzionale sia un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia per l’interpretazione delle suddette disposizioni comunitarie.

Davanti alla Corte di giustizia il governo italiano eccepì l’«inammissibilità assoluta» del rinvio pregiudiziale de quo, assumendo che il Giudice conciliatore non avesse motivo di valersi di tale strumento, essendo tenuto ad applicare comunque – cioè, anche laddove dovesse ritenerla incompatibile con il diritto comunitario, così come interpretato dalla Corte di giustizia – la legge italiana. L’eccezione sollevata dal governo italiano si spiega invero se solo si tiene conto della sentenza resa pochi mesi prima dalla Corte Costituzionale italiana (7 marzo 1964 n. 14, in Giur. Cost., p. 129), sul ricorso sollevato nell’ambito della stessa causa a qua. Applicando i principi classici in materia di adattamento al diritto internazionale, infatti, la nostra Corte Costituzionale aveva affermato che l’art. 11 Cost., in quanto «norma permissiva», non poteva conferire alla legge ordinaria di esecuzione del Trattato CEE (l. 14 ottobre 1957 n. 1023) un valore superiore a quello delle altre leggi; con la conseguenza che il rapporto tra la legge di esecuzione del Trattato CEE e la successiva legge di nazionalizzazione dell’energia elettrica doveva essere risolto, secondo i principi della successione delle leggi nel tempo, dando prevalenza alla lex posterior, che non sollevava una questione di legittimità costituzionale pur importando la responsabilità dello Stato sul piano internazionale per violazione del Trattato CEE.

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Quasi dialogando a distanza con la Corte Costituzionale, la Corte di giustizia afferma il principio del primato del diritto comunitario, per forza propria, sul diritto nazionale:

«…a differenza dei comuni trattati internazionali, il trattato CEE ha istituito un proprio

ordinamento giuridico, integrato nell’ordinamento giuridico degli Stati membri all’atto dell’entrata in vigore del trattato e che i giudici nazionali sono tenuti ad osservare. Infatti, istituendo una Comunità senza limiti di durata, dotata di propri organi, di personalità, di capacità giuridica, di capacità di rappresentanza sul piano internazionale, ed in ispecie di poteri effettivi provenienti da una limitazione di competenza o da un trasferimento di attribuzioni degli Stati alla Comunità, questi hanno limitato, sia pure in campi circoscritti, i loro poteri sovrani e creato quindi un complesso di diritto vincolante per i loro cittadini e per loro stessi.

«Tale integrazione nel diritto di ciascuno Stato membro di norme che promanano da fonti comunitarie, e più in generale, lo spirito e i termini del trattato, hanno per corollario l’impossibilita per gli Stati di far prevalere , contro un ordinamento giuridico da essi accettato a condizione di reciprocità, un provvedimento unilaterale ulteriore, il quale pertanto non potrà essere opponibile all’ordine comune. Se l’efficacia del diritto comunitario variasse da uno Stato all’altro in funzione delle leggi interne posteriori, ciò metterebbe in pericolo l’attuazione degli scopi del trattato contemplata nell’art. 5, secondo comma e causerebbe una discriminazione vietata dall’art. 7.

«Gli obblighi assunti col trattato istitutivo della Comunità non sarebbero assoluti, ma soltanto condizionati, qualora le parti contraenti potessero sottrarsi alla loro osservanza mediante ulteriori provvedimenti legislativi. I casi in cui gli Stati hanno diritto di agire unilateralmente sono espressamente indicati (v. ad es. gli articolo 15, 93 par. 3, 223 e 225) e d’altronde le domande di deroga degli Stati sono soggette a procedure d’autorizzazione (v. ad es. gli articoli 8 par. 4, 17 par. 4, 25, 26, 73, 93 par. 2, terzo comma e 226) che sarebbero prive di significato qualora essi potessero sottrarsi ai loro obblighi mediante una semplice legge interna.

«La preminenza del diritto comunitario trova conferma nell’art. 189, a norma del quale i regolamenti sono obbligatori e direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri. Questa disposizione, che non è accompagnata da alcuna riserva, sarebbe priva di significato se uno Stato potesse unilateralmente annullarne gli effetti con un provvedimento legislativo che prevalesse sui testi comunitari.

«Dal complesso dei menzionati elementi discende che, scaturito da una fonte autonoma, il diritto nato dal trattato non potrebbe, in ragione appunto della sua specifica natura, trovare un limite in qualsiasi provvedimento interno senza perdere il proprio carattere comunitario e senza che ne risultasse scosso il fondamento giuridico della stessa Comunità.

«Il trasferimento, effettuato dagli Stati a favore dell’ordinamento giuridico comunitario, dei diritti e degli obblighi corrispondenti alle disposizioni del trattato implica quindi una limitazione definitiva dei loro diritti sovrani, di fronte alla quale un atto unilaterale ulteriore, incompatibile col sistema della Comunità, sarebbe del tutto privo di efficacia. L’art. 177 va quindi applicato, nonostante qualsiasi legge nazionale, tutte le volte che sorga una questione d’interpretazione del trattato».

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CORTE DI GIUSTIZIA (pres. , avv. gen. Reischl), sentenza 9 marzo 1978 nella causa

106/77, sulle domande di pronuncia pregiudiziale proposte dal Pretore di Susa (Italia) nella causa tra Amministrazione delle finanze dello Stato e Simmenthal s.p.a. (in Raccolta, p. 629). L’occasione per la Corte di giustizia di precisare la sua dottrina della prevalenza del diritto

dell’Unione fu offerta nuovamente dalla Corte Costituzionale italiana che, mutando l’orientamento espresso nella sentenza n. 14 del 1964, aveva affermato che il contrasto delle leggi italiane con il diritto comunitario ponesse una questione di legittimità costituzionale per violazione indiretta dell’art. 11 Cost (sentenze n. 232/75 e n. 205/76, ordinanza n. 206/76). In sede di opposizione al decreto ingiuntivo che condannava l’Amministrazione delle finanze dello Stato a rimborsare i diritti di visita sanitaria indebitamente percepiti sulle importazioni di carni bovine in forza del testo unico delle leggi sanitarie italiane in violazione di norme comunitarie, il Pretore di Susa si chiedeva, pertanto, se disposizioni di legge posteriori e in contrasto con norme comunitarie dovessero essere direttamente disapplicate, senza attendere la loro rimozione ad opera del legislatore nazionale (abrogazione) o di altri organi costituzionali (dichiarazione di illegittimità costituzionale). La Corte di giustizia risolse positivamente la questione, affermando:

«13. La prima questione mira in sostanza a far precisare le conseguenze dell’applicabilità

diretta di una disposizione di diritto comunitario in caso d’incompatibilità con una disposizione successiva facente parte della legislazione di uno Stato membro.

«14. Considerata sotto questo profilo, l’applicabilità diretta va intesa nel senso che le norme di diritto comunitario devono esplicare la pienezza dei loro effetti, in maniera uniforme in tutti gli Stati membri, a partire dalla loro entrata in vigore e per tutta la durata della loro validità.

«15. Dette norme sono quindi fonte immediata di diritti e di obblighi per tutti coloro ch’esse riguardano, siano questi gli Stati membri ovvero i singoli, soggetti di rapporti giuridici disciplinati dal diritto comunitario.

«16. Questo effetto riguarda anche tutti i giudici che, aditi nell’ambito della loro competenza, hanno il compito, in quanto organi di uno Stato membro, di tutelare i diritti attribuiti ai singoli dal diritto comunitario.

«17. Inoltre, in forza del principio della preminenza del diritto comunitario, le disposizioni del trattato e gli atti delle istituzioni, qualora siano direttamente applicabili, hanno l’effetto, nei loro rapporti col diritto interno degli Stati m embri, non solo di rendere ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, ma anche – in quanto dette disposizioni e detti atti fanno parte integrante, con rango superiore rispetto alle norme interne, dell’ordinamento giuridico vigente nel territorio dei singoli Stati membri – di impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali, nella misura in cui questi fossero incompatibili con norme comunitarie.

«18. Il riconoscere una qualsiasi efficacia giuridica ad atti legislativi nazionali che invadano la sfera nella quale si esplica il potere legislativo della Comunità, o altrimenti incompatibili col diritto comunitario equivarrebbe infatti a negare, sotto questo aspetto, il carattere reale d’impegni incondizionatamente ed irrevocabilmente assunti, in forza del Trattato, dagli Stati

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membri, mettendo cosi in pericolo le basi stesse della Comunità. «19. La stessa concezione si desume dalla ratio dell’art. 177 del trattato (ora art. 267

TFUE), secondo cui qualsiasi giudice nazionale ha la facoltà di rivolgersi alla Corte, ogniqualvolta reputi necessaria, per emanare la propria sentenza, una pronunzia pregiudiziale su questioni d’interpretazione o di validità relative al diritto comunitario.

«20. L’effetto utile di tale disposizione verrebbe ridotto, se il giudice non potesse applicare, immediatamente, il diritto comunitario in modo conforme ad una pronunzia o alla giurisprudenza della Corte.

«21. Dal complesso delle precedenti considerazioni risulta che qualsiasi giudice nazionale, adito nell’ambito della sua competenza, ha l’obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario e di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, disapplicando le disposizioni eventualmente contrastanti della legge interna, sia anteriore sia successiva alla norma comunitaria.

«22. È quindi incompatibile con le esigenze inerenti alla natura stessa del diritto comunitario qualsiasi disposizione facente parte dell’ordinamento giuridico di uno Stato membro o qualsiasi prassi, legislativa, amministrativa o giudiziaria, la quale porti ad una riduzione della concreta efficacia del diritto comunitario per il fatto che sia negato al giudice, competente ad applicare questo diritto, il potere di fare, all’atto stesso di tale applicazione, tutto quanto e necessario per disapplicare le disposizioni legislative nazionali che eventualmente ostino alla piena efficacia delle norme comunitarie.

«23. Ciò si verificherebbe qualora, in caso di conflitto tra una disposizione di diritto comunitario ed una legge nazionale posteriore, la soluzione fosse riservata ad un organo diverso dal giudice cui e affidato il compito di garantire l’applicazione del diritto comunitario, e dotato di un autonomo potere di valutazione, anche se l’ostacolo in tal modo frapposto alla piena efficacia di tale diritto fosse soltanto temporaneo».

CORTE DI GIUSTIZIA (pres. Due, avv. gen. Tesauro), sentenza 19 giugno 1990 nella causa C-213/89, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla House of Lords (Regno Unito) nella causa tra The Queen e Secretary of State for Transport, ex parte: Factortame Ltd e a. (in Raccolta, p. I-2433). Allo scopo di porre termine alla cosiddetta pratica del “quota hopping”, vale a dire la prassi che

consiste nel “saccheggio” ad opera di navi battenti bandiera britannica, ma non effettivamente tali, delle quote di pesca assegnate al Regno Unito, questo Stato aveva radicalmente modificato nel 1988 il Merchant Shipping Act, ossia la normativa che disciplina l'iscrizione nel registro delle navi da pesca britanniche, imponendo condizioni più restrittive (che il proprietario fosse britannico; che la nave fosse gestita, e le sue operazioni dirette e controllate, dal territorio del Regno Unito; che il noleggiatore, l'armatore o l'esercente della nave fosse una persona o una società qualificata). Alcune società, che erano proprietarie o gestivano navi da pesca che non rispondevano ai nuovi requisiti, contestavano, dinanzi alla High Court of Justice, Queen's Bench Division, la compatibilità col diritto comunitario della nuova normativa e chiedevano del pari la concessione di provvedimenti provvisori per tutto il periodo durante il quale non si sarebbe statuito definitivamente sulla loro domanda. L’ordinanza di sospensione dell’applicazione nei confronti dei ricorrenti della nuova

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normativa veniva però annullata dalla Court of Appeal, avverso la cui decisione era quindi proposto ricorso alla House of Lord. Quest’ultima osservava che, in forza del diritto nazionale, i giudici britannici non avevano il potere di pronunciare provvedimenti provvisori nel caso di specie, a ciò ostando, in particolare, l’antica norma di Common Law secondo la quale nessun provvedimento provvisorio può essere emesso contro la Corona, vale a dire contro il governo, in combinato disposto con la presunzione secondo cui le leggi nazionali sono conformi al diritto comunitario finché non si sia statuito sulla loro compatibilità con questo diritto. Ritenendo tuttavia che tale limite al sindacato giurisdizionale potesse essere in contrasto con il diritto comunitario, la Suprema Corte inglese sollevava apposita questione pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia, che così si pronunciava:

«18. Per risolvere la questione si deve ricordare che la Corte, nella sentenza 9 marzo 1978,

Simmenthal (causa 106/77, in Raccolta, p. 629), ha dichiarato che le norme di efficacia diretta del diritto comunitario “devono esplicare la pienezza dei loro effetti in maniera uniforme in tutti gli Stati membri, a partire dalla loro entrata in vigore e per tutta la durata della loro validità” (punto 14 della motivazione), e che, “in forza del principio della preminenza del diritto comunitario, le disposizioni del Trattato e gli atti delle istituzioni, qualora siano direttamente applicabili, hanno l'effetto, nei loro rapporti col diritto interno degli Stati membri (...) di rendere ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale” (punto 17 della motivazione).

«19. Dalla giurisprudenza della Corte risulta che è compito dei giudici nazionali, secondo il principio di collaborazione enunciato dall’art. 5 del Trattato CEE, garantire la tutela giurisdizionale spettante ai singoli in forza delle norme di diritto comunitario aventi efficacia diretta ( vedasi, da ultimo, le sentenze 10 luglio 1980, Ariete, causa 811/79, in Raccolta, p. 2545, e Mireco, causa 826/79, ibidem, p. 2559 ).

«20. La Corte ha del pari considerato che è incompatibile con le esigenze inerenti alla natura stessa del diritto comunitario qualsiasi disposizione facente parte dell'ordinamento giuridico di uno Stato membro o qualsiasi prassi, legislativa, amministrativa o giudiziaria, la quale porti ad una riduzione della concreta efficacia del diritto comunitario per il fatto che sia negato al giudice, competente ad applicare questo diritto, il potere di fare, all'atto stesso di tale applicazione, tutto quanto è necessario per disapplicare le disposizioni legislative nazionali che eventualmente ostino, anche temporaneamente, alla piena efficacia delle norme comunitarie (vedasi la già citata sentenza 9 marzo 1978, Simmenthal, punti 22 e 23 della motivazione ).

«21. Va aggiunto che la piena efficacia del diritto comunitario sarebbe del pari ridotta se una norma di diritto nazionale potesse impedire al giudice chiamato a dirimere una controversia disciplinata dal diritto comunitario di concedere provvedimenti provvisori allo scopo di garantire la piena efficacia della pronuncia giurisdizionale sull'esistenza dei diritti invocati in forza del diritto comunitario. Ne consegue che in una situazione del genere il giudice è tenuto a disapplicare la norma di diritto nazionale che sola osti alla concessione di provvedimenti provvisori.

«22. Questa interpretazione trova conferma nel sistema istituito dall'art. 177 del Trattato CEE, il cui effetto utile sarebbe ridotto se il giudice nazionale che sospende il procedimento in attesa della pronuncia della Corte sulla sua questione pregiudiziale non potesse concedere provvedimenti provvisori fino al momento in cui si pronuncia in esito alla soluzione fornita

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dalla Corte. «23. La questione pregiudiziale va pertanto risolta dichiarando che il diritto comunitario

dev’essere interpretato nel senso che il giudice nazionale chiamato a dirimere una controversia vertente sul diritto comunitario, qualora ritenga che una norma di diritto nazionale sia l'unico ostacolo che gli impedisce di pronunciare provvedimenti provvisori, deve disapplicare detta norma».

________________

2. La posizione del Trattato di Lisbona Dichiarazione n. 17 relativa al primato, allegata all’Atto finale della Conferenza intergovernativa che ha adottato il Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007 (in Gazz. Uff. Un. eur., n. C 115 del 9 maggio 2008, p. 344).14

La conferenza ricorda che, per giurisprudenza costante della Corte di giustizia dell’Unione europea, i trattati e il diritto adottato dall’Unione sulla base dei trattati prevalgono sul diritto degli Stati membri alle condizioni stabilite dalla summenzionata giurisprudenza.

Inoltre, la conferenza ha deciso di allegare al presente atto finale il parere del Servizio giuridico del Consiglio sul primato, riportato nel documento 11197/07 (JUR 260):

«Parere del Servizio giuridico del Consiglio del 22 giugno 2007 «Dalla giurisprudenza della Corte di giustizia si evince che la preminenza del diritto

comunitario è un principio fondamentale del diritto comunitario stesso. Secondo la Corte, tale principio è insito nella natura specifica della Comunità europea. All'epoca della prima sentenza di questa giurisprudenza consolidata [Costa contro ENEL, 15 luglio 1964, causa 6/64 (1)] non esisteva alcuna menzione di preminenza nel trattato. La situazione è a tutt’oggi immutata. Il fatto che il principio della preminenza non sarà incluso nel futuro trattato non altera in alcun modo l'esistenza del principio stesso e la giurisprudenza esistente della Corte di giustizia.

«(1) “(...) discende che, scaturito da una fonte autonoma, il diritto nato dal trattato non potrebbe, in ragione

appunto della sua specifica natura, trovare un limite in qualsiasi provvedimento interno senza perdere il proprio carattere comunitario e senza che ne risultasse scosso il fondamento giuridico della stessa Comunità.”»

14 Il Trattato di Lisbona è in vigore dal 1° dicembre 2009. Cfr. l’art. I-6, Diritto dell’Unione, del trattato che

adotta una Costituzione per l’Europa, firmato a Roma il 29 ottobre 2004 (in Gazz. Uff. Un. eur., n. C 310 del 16 dicembre 2004): «La Costituzione e il diritto adottato dalle istituzioni dell’Unione nell’esercizio delle competenze a questa attribuite prevalgono sul diritto degli Stati membri».