DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA -...

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Dispense di DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA a cura del Partner: ASSOCIAZIONE ITALIANA per il CONSIGLIO dei COMUNI e delle REGIONI d’EUROPA SEZIONE ITALIANA DEL CCRE – FEDERAZIONE DELLA PUGLIA (“BiblioDoc-Inn”) Asse IV Misura 4.1 Azione 4 - Sub Azioni 4.1 e 4.2

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DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA

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ASSOCIAZIONE ITALIANA per il CONSIGLIO dei COMUNI e delle REGIONI d’EUROPA

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(“BiblioDoc-Inn”) Asse IV – Misura 4.1 – Azione 4 - Sub Azioni 4.1 e 4.2

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INDICE

1. Cenni sull’evoluzione storico-politica dell’Unione europea.

2. La struttura istituzionale della Comunità e dell’Unione europea.

3. Cenni al procedimento di formazione delle norme.

4. La stipulazione degli accordi internazionali.

5. Le norme di diritto comunitario e la gerarchia delle fonti.

6. Cenni ai rapporti tra diritto comunitario e diritto interno. L’effetto diretto e il primato.

7. La tutela giurisdizionale nel sistema comunitario.

8. Cenni alle novità introdotte dal Trattato costituzionale.

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1. CENNI SULL’EVOLUZIONE STORICO-POLITICA DELL’UNIONE EUROPEA. L’Unione europea è una delle organizzazioni internazionali più integrate attualmente esistenti nel panorama internazionale. Essa si fonda sulle forme di integrazione già previste nelle Comunità europee (il cui obiettivo principale era, ed è tuttora, lo sviluppo armonioso delle attività economiche degli Stati membri attraverso la realizzazione di un’unione doganale, di un mercato comune e della moneta unica nonché il graduale riavvicinamento delle politiche economiche degli Stati membri), sul coordinamento in materia di politica estera e di sicurezza comune e sulla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. L’unione europea ha dunque come obiettivi:

1. la promozione del progresso economico e sociale e di un elevato livello di occupazione e il raggiungimento di uno sviluppo equilibrato e sostenibile, in particolare mediante la creazione di uno spazio senza frontiere interne, il rafforzamento della coesione economica e sociale e l'instaurazione di una Unione economica e monetaria;

2. l’affermazione di una propria identità sulla scena internazionale, in particolare mediante l’attuazione di una politica estera e di sicurezza comune, ivi compresa la definizione progressiva di una politica di difesa comune;

3. il rafforzamento della tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini dei suoi Stati membri mediante l’istituzione di una cittadinanza dell’Unione;

4. la conservazione e lo sviluppo della stessa Unione quale spazio di libertà, sicurezza e giustizia in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone, insieme a misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l'asilo, l'immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta contro quest'ultima.

Il diritto dell’Unione europea è il complesso di norme che disciplina i rapporti tra le istituzioni comunitarie, gli Stati membri e i singoli, persone fisiche e giuridiche. Queste norme sono di origine sia internazionale (ovvero i trattati istitutivi delle Comunità con le successive integrazioni e modificazioni), che comunitaria (gli atti delle istituzioni comunitarie), che ancora nazionale (i provvedimenti legislativi e amministrativi degli Stati membri per dare attuazione al sistema giuridico comunitario). La specificità dell’esperienza comunitaria rispetto alle classiche organizzazioni internazionali si può cogliere da almeno quattro punti fondamentali:

1. l’utilizzo della regola della maggioranza in molte ipotesi di votazione all’interno del Consiglio dei ministri (nelle organizzazioni internazionali vige la regola dell’unanimità);

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2. la diretta applicabilità negli Stati membri di molti atti prodotti dalle istituzioni comunitarie (gli atti delle organizzazioni internazionali normalmente richiedono di essere recepiti singolarmente all’interno dei suoi Membri);

3. il primato del diritto comunitario sulle norme statali sia precedenti che successive (di regola, le norme delle organizzazioni internazionali recepite all’interno degli ordinamenti nazionali sono soggette al principio della successione delle leggi nel tempo e dunque prevalgono sulle norme statali precedenti ma non su quelle successive);

4. il controllo giurisdizionale completo ed effettivo, attivabile anche dalle persone fisiche e giuridiche (nella stragrande maggioranza delle organizzazioni internazionali di tipo classico sono solo gli Stati a poter attivare la procedura di accertamento del diritto).

La prima idea di realizzazione del progetto unitario europeo in epoca contemporanea si ritrova nel «Manifesto per un’Europa libera ed unita», sottoscritto nell’isola di Ventotene (nel mar Tirreno) da alcuni antifascisti italiani tra cui Altiero Spinelli. Il Manifesto di Ventotene segna una svolta rispetto alle elaborazioni precedenti in quanto non rappresenta solo una dichiarazione di principi ma anche un programma di azione. In particolare, il fattore principale della grave crisi provocata dalla Prima e soprattutto dalla Seconda guerra mondiale veniva individuato nell’esistenza degli Stati nazionali in perenne conflitto tra di loro, ragion per cui la creazione di uno Stato federale avrebbe risolto un massima parte i problemi politici e anche economici dell’Europa. La prima forma di organizzazione internazionale europea dopo la Seconda guerra mondiale si è avuta in campo economico mediante la creazione dell’ «OCSE» (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico). L’OCSE aveva infatti il compito di gestire in comune gli aiuti americani dello «European Recovery Program» (c.d. «Piano Marshall») e ne facevano parte anche gli Stati Uniti e il Canada. Successivamente fu creato il «Consiglio d’Europa», il cui Trattato è stato sottoscritto a Londra nel maggio 1949. Il Consiglio d’Europa si occupa attualmente della cooperazione giuridica tra 41 Stati europei soprattutto nel campo della protezione dei diritti umani. Tuttavia solo nel 1950 si ebbero le prime iniziative dirette alla creazione di un’organizzazione europea non più internazionale di tipo classico ma sovranazionale, in cui cioè alla cooperazione politica paritaria tra i Membri si sostituisse una vera e propria integrazione. Il 9 maggio 1950 il ministro degli esteri francese Shuman propose la creazione di un mercato comune del carbone e dell’acciaio tra la Francia e la Germania, aperto anche agli altri Paesi europei, gestito da una autorità comune con competenze circoscritte ma penetranti. La Dichiarazione Shuman, elaborata dal suo assistente Jean Monnet, si basava sui due principi della sovranazionalità e dell’integrazione. Tale idea fu condivisa dalla Germania, dall’Italia e dai tre Paesi del Benelux (Belgio, Olanda e Lussemburgo) e portò alla sottoscrizione il 18 aprile 1951 a Parigi del «Trattato istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio» (Trattato CECA), formato da un Preambolo e da 100 articoli.

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La CECA presentava una struttura istituzionale composta da un’Alta Autorità (che aveva il compito di attuare gli scopi del Trattato CECA), un’Assemblea comune (composta dai rappresentanti dei popoli degli Stati membri, cioè dai delegati dei Parlamenti nazionali), un Consiglio dei ministri (formato dai rappresentanti dei governi nazionali) e una Corte di giustizia (con il compito di assicurare il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme del Trattato e degli atti derivati). L’elemento della sopranazionalità della CECA era riscontrabile all’interno dell’Alta Autorità da tre punti di vista:

1) questa istituzione era formata da nove membri scelti dagli Stati ma indipendenti da questi ultimi;

2) con riferimento al procedimento di adozione degli atti, esso avveniva a maggioranza dei membri e non all’unanimità come nelle organizzazioni internazionali di tipo classico;

3) altro elemento di distinzione rispetto alle organizzazioni internazionali classiche era dato dalla obbligatorietà di alcuni atti dell’Alta Autorità (le decisioni) e dalla loro diretta applicabilità negli Stati membri senza necessità di un atto interno di esecuzione. L’elemento dell’integrazione era invece dato dall’istituzione di un mercato comune del carbone e dell’acciaio, in cui erano vietate le pratiche di concorrenza sleale e ogni forma di discriminazione basata sulla nazionalità con riferimento all’attività della manodopera nelle industrie del carbone e dell’acciaio nell’ambito della CECA. Poco dopo la creazione della CECA fu sottoposto all’attenzione dei Paesi europei il c.d. Piano Pleven che proponeva la creazione di una «Comunità europea di difesa» (CED). La CED intendeva organizzare le forze armate dei sei Paesi della CECA con la creazione di un unico esercito europeo sotto un’unica autorità sovranazionale, al fine di controllare e indirizzare l’ormai prossimo riarmo tedesco. Tuttavia il Trattato CED, sottoscritto a Parigi il 27 maggio 1952, non entrò mai in vigore a causa dell’opposizione del Parlamento francese. Non vide la luce neanche il progetto di statuto della «Comunità politica europea», che avrebbe dovuto assorbire la CECA e la CED con possibilità di coordinare la politica estera degli Stati membri. Dopo un paio di anni di stallo, il processo europeista riprese vigore in occasione della Conferenza di Messina del 3-4 giugno 1955, in cui si evidenziò la necessità di integrare altri settori economici e di definire le basi di un più generale mercato comune europeo. La Conferenza diede mandato ad una Commissione di esperti di elaborare progetti concreti. La Commissione lavorò quindi alla creazione di due nuovi Trattati, quello più settoriale dell’energia atomica e quello più generale della Comunità economica europea. Questi due Trattati videro la luce nella Conferenza di Roma del 25 marzo 1957 e presentavano gli stessi caratteri di sopranazionalità e di integrazione della CECA. Dal punto di vista strutturale le tre Comunità ebbero all’inizio istituzioni almeno in parte separate. Comuni erano la Corte di giustizia e l’Assemblea (poi chiamata Parlamento europeo), mentre rimanevano separate l’Alta Autorità CECA rispetto alla Commissione CEE e alla Commissione Euratom e i vari Consigli dei ministri. Nel

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1967, tuttavia, entrò in vigore il «Trattato sulla fusione degli esecutivi» del 1965 con previsione di un unico Consiglio dei ministri e l’assorbimento (non funzionale ma personale) dell’Alta Autorità nella Commissione unica. Per quanto riguarda gli Stati membri, accanto ai sei originari (Francia, Germania, Italia e Paesi del Benelux) si aggiunsero:

1) la Danimarca, il Regno Unito e l’Irlanda nel 1973; 2) la Grecia nel 1981; 3) la Spagna e il Portogallo nel 1986; 4) l’Austria, la Finlandia e la Svezia nel 1995; 5) Cipro, Estonia. Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria nel 2004.

Nel decennio dal 1957 a 1967 l’attività delle Comunità è stata indirizzata prevalentemente verso la realizzazione del mercato comune e della cosiddetta integrazione negativa, con l’abolizione delle barriere doganali dal luglio 1968. Dalla metà degli anni sessanta si sono cominciate a porre le basi per una più accentuata convergenza delle economie e per l’unione monetaria attraverso la creazione del Sistema Monetario Europeo. In questa fase viene rafforzato l’impegno per la progressiva riduzione delle disomogeneità regionali attraverso la realizzazione di programmi di sostegno delle regioni meno evolute e la creazione dell’apposito «Fondo europeo di sviluppo regionale» (FERS). Nel 1979 viene stabilito il suffragio universale e diretto del Parlamento europeo. Dalla seconda metà degli anni ottanta si sono accelerate le iniziative per la progressiva convergenza delle economie europee mediante il «Libro bianco della Commissione sul mercato interno» del 1985 e l’«Atto Unico Europeo» del 1986. Da qui parte la fase dell’integrazione «positiva» con la previsione di nuovi settori di intervento comunitario quali l’ambiente, i trasporti, l’energia, le telecomunicazioni e l’obiettivo ambizioso della coesione economica e sociale.

Il «Trattato di Maastricht» del 1992 ha poi accelerato questo processo di integrazione con la creazione dell’Unione europea. Questa prevede come suo organi il Consiglio europeo e si compone di tre parti o «pilastri»:

1) pilastro comunitario, che riunisce le tre Comunità precedenti: a) la CEE diventa Comunità europea e viene prevista la nuova “cittadinanza europea”;

b) si aggiungono i nuovi settori della protezione della salute, della protezione dei consumatori, della cultura, dello sviluppo delle reti transeuropee, dell’industria, della protezione civile e del turismo;

c) viene prevista l’Unione economica e monetaria. 2) pilastro della politica estera e di sicurezza comune (PESC): spettava al

Consiglio, sulla base degli orientamenti del Consiglio europeo, adottare azioni comuni in materia;

3) pilastro della cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni (GAI): comprendeva la politica di asilo e di immigrazione, la lotta contro la tossicodipendenza e contro la frode su scala internazionale, la cooperazione

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giudiziaria in materia civile e penale, la cooperazione doganale e quella di polizia contro il terrorismo e il traffico di droga.

Il «Trattato di Amsterdam» del 1996 ha introdotto alcune modifiche:

1) la previsione della cooperazione rafforzata, secondo cui si poteva iniziare una nuova azione in un determinato settore anche con il consenso di alcuni Stati e non di tutti, ma solo su autorizzazione del Consiglio dei ministri; 2) l’introduzione del nuovo Titolo IV nel Trattato CE con relativo passaggio dal terzo al primo pilastro della materia di «visti, asilo, immigrazione e altre politiche connesse con la libera circolazione delle persone»; 3) Il nuovo Titolo IV ha comportato anche la comunitarizzazione del settore della cooperazione giudiziaria in materia civile.

In occasione del previsto ingresso dei nuovi dieci Stati nel 2004, il «Trattato di Nizza» del febbraio 2001 (entrato in vigore nel 2003) ha comportato alcuni necessari aggiustamenti istituzionali per evitare la paralisi della futura Comunità a 25 membri. A Nizza è stata anche proclamata la «Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea». Quest’ultima – preparata da parte di una specifica «Convenzione» formata da rappresentanti dei Parlamenti nazionali, del Parlamento europeo, della Commissione e dei capi di Stato e di governo – prevede una serie di diritti fondamentali articolati sui valori della dignità, della libertà, dell’eguaglianza, della solidarietà, della cittadinanza europea e della giustizia. Tuttavia tale Carta non è vincolante. Nel dicembre 2001 il Consiglio europeo di Laeken ha affidato ad una nuova «Convenzione sul futuro dell’unione europea» il compito di esaminare le questioni essenziali per il futuro sviluppo dell’Unione europea e di ricercare le diverse soluzioni possibili. La Convenzione ha terminato i suoi lavori con la preparazione di un «Progetto di Costituzione europea» che con modificazioni è diventato il «Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa» (Trattato costituzionale), firmato a Roma il 29 ottobre 2004 e non ancora entrato in vigore per l’esito negativo dei referendum in Francia e in Olanda. 2. LA STRUTTURA ISTITUZIONALE DELLA COMUNITÀ E DELL’UNIONE EUROPEA. Unico organo dell’Unione europea è il Consiglio europeo. Esso è nato all’esterno della struttura comunitario dalla prassi delle riunioni dei capi di Stato e di governo degli Stati membri fin dagli anni sessanta, con l’obiettivo di dare nuovo impulso allo sviluppo dell’integrazione europea. Nel 1974 tale organo ha assunto la denominazione attuale. L’Atto Unico Europeo ha poi formalizzato tali riunioni, ribadendo che il Consiglio europeo riunisce i capi di Stato e di governo, il Presidente

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della Commissione e i ministri degli affari esteri. Infine il Trattato di Maastricht ha posto il Consiglio europeo al vertice della struttura dell’Unione europea. Il Consiglio europeo ha un ruolo di impulso e di definizione degli orientamenti politici generali. Pur non essendo istituzione comunitaria, esso svolge un ruolo importante quale protagonista della cooperazione politica tra gli Stati membri. Inoltre definisce gli orientamenti generali della PESC, le scelte progressive della politica comune di difesa, gli indirizzi delle politiche economiche della Comunità e le questioni relative alla cooperazione rafforzata. Le istituzioni comunitarie più importanti sono il Consiglio dei ministri, la Commissione, il Parlamento europeo e la Corte di giustizia. Il Consiglio dei ministri è composto dai rappresentanti di tutti gli Stati membri a livello ministeriale. È organo di Stati in quanto i membri che lo compongono seguono le indicazioni dei rispettivi governi e ad essi rispondono. È inoltre organo a composizione variabile perché, a seconda della materia trattata, siede in Consiglio il rappresentante nazionale competente. Da notare che il Consiglio dei ministri si può eccezionalmente riunire in composizione di capi di Stato e di governo per la nomina del Presidente della Commissione. La Presidenza del Consiglio spetta a ciascuno Stato membro per un semestre, a rotazione tra tutti gli Stati secondo un ordine prestabilito. Il Consiglio è assistito da un Segretario generale (che è anche Alto rappresentante della PESC) con compiti di supporto funzionale e amministrativo, e dal COREPER (Comitato dei rappresentanti permanenti) che è responsabile della preparazione del lavoro del Consiglio e della realizzazione dei compiti attribuiti da esso. Il COREPER compensa di fatto la composizione variabile del Consiglio assicurandone la continuità di funzionamento. La principale funzione del Consiglio è la funzione normativa mediante l’adozione di regolamenti e di direttive (in parte condivisa con il Parlamento europeo); nell’ambito dei rapporti esterni invece il Consiglio autorizza la Commissione a negoziare gli accordi internazionali e li conclude. Le deliberazioni del Consiglio sono prese sia all’unanimità, sia a maggioranza semplice che a maggioranza qualificata. La maggioranza qualificata con voto ponderato fa sì che ad ogni Stato sia attribuito non un solo voto (come nella maggioranza semplice e nell’unanimità) ma un certo numero di voti calcolati in funzione della popolazione e dell’estensione di esso. Attualmente, ad esempio, sono attribuiti 29 voti a Francia, Germania, Italia e Regno Unito, mentre Malta ne ha solo 3. Per l’adozione delle deliberazioni con la maggioranza qualificata sono necessari 232 voti e, su richiesta di ogni Stato, la prova che tale maggioranza comprenda almeno il 62% della popolazione totale dell’Unione (clausola demografica). La Commissione europea è invece un organo di individui perché i suoi membri esercitano le loro funzioni in piena indipendenza nell’interesse generale della Comunità. Attualmente è composta da 25 membri nominati per 5 anni con mandato rinnovabile. La Commissione ha sede a Bruxelles.

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Per quanto riguarda il procedimento di nomina, esso prevede la partecipazione sia del Consiglio (in composizione di capi di Stato e di governo) sia del Parlamento europeo. Il Consiglio innanzitutto designa a maggioranza qualificata il Presidente, designazione che deve essere approvata dal Parlamento. Successivamente il Presidente e il Consiglio adottano l’elenco degli altri commissari, e quindi l’intera Commissione è sottoposta ad un voto di approvazione del Parlamento. Ottenuta tale approvazione, il Consiglio nomina formalmente la Commissione a maggioranza qualificata. Al Presidente è affidata l’organizzazione interna e il coordinamento dell’attività della Commissione, la sua rappresentanza esterna, la ripartizione delle competenze ai singoli commissari e la possibilità di far rassegnare le dimissioni ai membri della Commissione. Nonostante ogni commissario abbia la responsabilità di un settore di attività (le Direzioni generali), tutte le deliberazioni devono essere prese dalla Commissione nel suo insieme. La Commissione ha quattro funzioni principali:

1. funzione di iniziativa legislativa: quasi tutti gli atti possono essere adottati dal Consiglio e dal Parlamento solo su proposta della Commissione. Tuttavia le altre istituzioni possono sollecitare la Commissione a presentare una proposta.

2. funzione di esecuzione del diritto comunitario: la Commissione esercita sia un potere di controllo (mediante la verifica dell’osservanza degli obblighi comunitari da parte degli Stati membri attraverso la procedura di infrazione) sia un potere generale di adottare le misure necessarie per dare esecuzione agli atti normativi, sia ancora un potere ispettivo con riferimento alla materia della concorrenza e degli aiuti di Stato.

3. funzione decisionale autonoma: la Commissione ha un autonomo potere di decisione nelle ipotesi elencate nel Trattato.

4. funzione di rappresentanza: la Commissione rappresenta la Comunità sia all’interno (con gli Stati membri) sia all’esterno (con tutti gli altri Stati e organizzazioni internazionali).

Il Parlamento europeo è composto dai rappresentanti dei popoli degli Stati riuniti nella Comunità. Il Parlamento rappresenta l’istituzione di maggiore specificità della Comunità in quanto è elemento di democratizzazione dei processi decisionali e di integrazione tra i popoli degli Stati membri. Prima del 1979 la rappresentatività del Parlamento era indiretta (poiché i parlamentari europei erano eletti dai parlamentari nazionali) e imperfetta (perché tale elezione non sempre rispettava la proporzione tra le forze politiche nazionali). Dal 1979 si sono invece svolte apposite elezioni europee su base universale e diretta. I membri del Parlamento sono attualmente 732 con mandato di cinque anni. I membri sono divisi non in gruppi nazionali ma politici. Mentre la struttura amministrativa è a Lussemburgo, le riunioni delle commissioni si svolgono a Bruxelles e la seduta plenaria mensile a Strasburgo. Il Parlamento:

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1. Ha un potere di controllo sulla Commissione in quanto approva la designazione del Presidente e della Commissione nel suo complesso, e inoltre può approvare una mozione di censura (con due terzi dei voti espressi e la maggioranza dei membri) a seguito della quale la Commissione cessa le sue funzioni; La Commissione deve inoltre presentare al Parlamento una relazione annuale sull’attività svolta e rispondere alle interrogazioni oralmente o per iscritto.

2. Partecipa alla funzione normativa insieme al Consiglio dei ministri sulla base delle diverse procedure legislative.

3. Può adire la Corte di giustizia in via generale. 4. Partecipa alla stipulazione di tutti gli accordi internazionali.

La Corte di giustizia è l’istituzione che esercita il controllo giurisdizionale, sia sulla legittimità degli atti e dei comportamenti delle istituzioni comunitarie e degli Stati membri, sia sull’interpretazione del diritto comunitario. È organo di individui, composto da un giudice per ogni Stato membro e da 8 avvocati generali. Ha sede a Lussemburgo. I membri sono nominati per 6 anni rinnovabili. Il Presidente della Corte viene eletto per 3 anni. L’avvocato generale ha il compito di presentare conclusioni scritte e motivate nelle cause trattate davanti alla Corte, e in questo senso ha il ruolo di difensore del diritto comunitario. La Corte si riunisce sia in seduta plenaria, sia in grande sezione (11 giudici), sia in sezioni di cinque o tre giudici. Dal 1989 alla Corte si è affiancato il Tribunale di primo grado che ha sede a Lussemburgo ed è composto da un giudice per Stato membro. La competenza del Tribunale è limitata ai ricorsi proposti dalle persone fisiche e giuridiche (dunque non Stati né istituzioni comunitarie). Il Trattato di Nizza ha anche attribuito una limitata competenza nell’ambito dei ricorsi in via pregiudiziale. Le sentenze del Tribunale possono essere impugnate davanti alla Corte solo per motivi di diritto. Il Trattato di Nizza ha creato infine le camere giurisdizionali competenti a conoscere in primo grado di alcune categorie di ricorsi in materie specifiche, le cui decisioni possono essere impugnate per motivi di diritto e di fatto davanti al Tribunale in grado d’appello. Tra le altre istituzioni si ricordano la Corte dei conti (cha ha il compito di assicurare il controllo sulla gestione finanziaria della Comunità), il Comitato economico e sociale (composto dai rappresentanti delle categorie economiche e sociali nazionali e avente funzione consultiva), il Comitato delle regioni (composto da membri titolari di un mandato elettorale nell’ambito di una collettività regionale o locale, con funzione consultiva), la Banca europea per gli investimenti (che opera come un istituto di credito nell’ottica dello sviluppo equilibrato del mercato comune), la Banca centrale europea e il Sistema europeo delle banche centrali (con funzioni di gestione della politica economica e monetaria della Comunità), il Mediatore europeo (che ha il compito di ricevere le denunce per casi di cattiva amministrazione da parte delle istituzioni comunitarie). Vi sono poi alcune Agenzie che si occupano di aspetti

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specifici. Infine nel terzo pilastro si ricorda l’Eurojust (Unità europea di cooperazione giudiziaria con competenze in materia di lotta alla criminalità organizzata). 3. CENNI AL PROCEDIMENTO DI FORMAZIONE DELLE NORME. La funzione normativa è esercitata sostanzialmente dal Consiglio, pur con la partecipazione di altri organi. Comune a tutte le procedure è la presentazione al Consiglio da parte della Commissione di una proposta legislativa. Su tale proposta si formerà la posizione comune del Consiglio in senso positivo o negativo. In alcuni casi (diritto di voto dei cittadini dell’Unione, politica di concorrenza armonizzazione fiscale) si ricorre alla procedura di consultazione, secondo cui un atto non può essere approvato dal Consiglio se il Parlamento non è stato consultato in merito alla posizione comune. La consultazione del Parlamento è obbligatoria ma non vincolante. In altri casi si ricorre alla procedura di concertazione (per atti di portata generale che abbiano implicazioni finanziarie notevoli). In questo caso a seguito della posizione comune si convoca una commissione di concertazione composta da membri del Consiglio e del Parlamento con la partecipazione della Commissione. Lo scopo è quello di trovare entro 3 mesi un accordo tra le istituzioni. La procedura di cooperazione è stata introdotta con l’Atto Unico Europeo ed è limitata a poche ipotesi. La posizione comune del Consiglio (c.d. prima lettura), adottata a maggioranza qualificata, viene trasmessa al Parlamento. Se il Parlamento approva la posizione comune, l’atto viene definitivamente adottato. Se invece il Parlamento respinge la posizione comune, l’atto può essere approvato dal Consiglio solo all’unanimità (c.d. seconda lettura). Qualora il Parlamento abbia proposto modifiche della posizione comune, infine, la Commissione deve riesaminare la sua proposta e trasmetterla al Consiglio, il quale (in seconda lettura) potrà adottare la nuova proposta a maggioranza qualificata oppure modificarla all’unanimità. La procedura di codecisione è quella in cui il Parlamento ha un vero e proprio potere di veto. Si applica in numerose materie quali ad esempio la libera circolazione dei lavoratori, il diritto di stabilimento, i programmi di ricerca e sviluppo tecnologico, la cooperazione giudiziaria, la politica commerciale comune. Questa procedura è simile a quella di cooperazione tranne che nel caso in cui il Parlamento respinga o proponga emendamenti. Nel caso la posizione comune (in prima lettura) venga respinta, il Consiglio può precisare la sua posizione (seconda lettura) ma se il Parlamento conferma il rifiuto l’atto non viene adottato. Nel caso in cui vengano proposti emendamenti, invece, il

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Consiglio potrà accoglierli a maggioranza qualificata (seconda lettura) se la Commissione è d’accordo oppure all’unanimità contro il parere della Commissione. Non potrà invece respingerli perché in quel caso l’atto non può essere adottato. Nel caso in cui il Parlamento respinga la proposta oppure i suoi emendamenti non vengano approvati, si convoca un Comitato di conciliazione composto da membri del Parlamento e del Consiglio con la partecipazione della Commissione al fine di trovare un compromesso. Se il Comitato definisce un progetto comune, l’atto potrà essere adottato (in seconda lettura) dal Parlamento a maggioranza assoluta e dal Consiglio a maggioranza qualificata. Se invece tale progetto non viene trovato, l’atto si considera definitivamente non adottato. Soprattutto nel caso della conclusione di accordi di associazione e dell’ingresso di nuovi Stati, si applica la procedura del parere conforme, secondo cui la posizione comune del Consiglio non viene adottata qualora il parere del Parlamento non sia conforme (parere obbligatorie e anche vincolante). Anche qui il Parlamento ha un potere di veto. 4. LA STIPULAZIONE DEGLI ACCORDI INTERNAZIONALI. La Comunità ha la capacità di stipulare accordi internazionali con Stati terzi e organizzazioni internazionali. Il Trattato stabilisce espressamente tale potere in materia di accordi tariffari e commerciali e di accordi di associazione. Inoltre, sulla base della “regola del parallelismo tra competenze interne e competenza esterna”, essa può stipulare tutti gli accordi finalizzati al perseguimento degli scopi del Trattato in quanto nelle materie di competenza della Comunità il potere esterno non appartiene più agli Stati membri. Tuttavia tale competenza interna deve essere stata effettivamente esercitata, altrimenti la competenza esterna sia pur temporaneamente rimane agli Stati membri. Per quanto riguarda la competenza a stipulare gli accordi dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC o WTO), la Comunità ha sottoscritto in via esclusiva quelli relativi allo scambio di merci, mentre per i servizi e la proprietà intellettuale si è proceduto ad accordi misti Comunità – Stati membri. La procedura è la seguente: il Consiglio delibera a maggioranza qualificata su proposta della Commissione. Tuttavia è prevista la regola dell’unanimità in specifiche ipotesi. Alla Commissione è affidata su delega del Consiglio la fase dei negoziati, mentre il Parlamento europeo è chiamato a formulare un parere sull’accordo nonché a dare il suo parere conforme nei casi richiesti dal Trattato. I potere di concludere l’accordo spetta al Consiglio, tranne nei casi particolari in cui è la stessa Commissione a procedere alla firma.

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5. LE NORME DI DIRITTO COMUNITARIO E LA GERARCHIA DELLE FONTI. Le norme primarie del diritto comunitario sono quelle convenzionali, ovvero i Trattati istitutivi e le loro modifiche ed integrazioni, nonché tutti quegli atti del Consiglio oggetto di procedure costituzionali per il loro recepimento. Tutti questi accordi internazionali devono pertanto essere interpretati sulla base delle regole stabilite nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969. La sfera di applicazione territoriale del diritto comunitario coincide con quella dei diritti nazionali degli Stati membri, benché alcuni territori particolari siano sottoposti a regole specifiche. La procedura per la revisione dei trattati comunitari può essere attivata sia dalla Commissione che da uno Stato membro. Consultati il Parlamento, la Commissione e se del caso la Banca centrale europea, il Presidente del Consiglio convoca una conferenza intergovernativa dei rappresentanti degli Stati membri al fine di sottoscrivere il testo delle modifiche, che poi saranno ratificate da tutti gli Stati membri secondo le loro disposizioni costituzionali. Tuttavia in alcuni casi sono previste procedure di revisione semplificate. Per quanto riguarda la ripartizione delle competenze tra Comunità e Stati membri, essa si basa sul principio delle competenze di attribuzione, secondo cui la Comunità agisce soltanto nei limiti delle competenze che le sono attribuite dai Trattati. Dunque sono le norme del Trattato a stabilire se la Comunità gode in una determinata materia di una competenza esclusiva oppure concorrente (che si affianca cioè a quella degli Stati membri). In linea di massima, la Comunità ha competenza esclusiva nelle politiche comuni (agricoltura, rapporti commerciali) e per la realizzazione del mercato interno. Tuttavia l’art. 308 CE stabilisce che il Consiglio può adottare all’unanimità su proposta della Commissione e consultazione del Parlamento le disposizioni opportune quando un’azione comunitaria non prevista nel Trattato (e dunque senza una base giuridica) sia necessaria per raggiungere uno degli scopi della Comunità (dottrina dei poteri impliciti). Per quanto attiene alle competenze concorrenti, inoltre, le azioni della Comunità devono rispettare il principio di sussidiarietà, ai sensi del quale la Comunità agisce solo qualora la sua azione sia necessaria e proporzionata. In particolare, l’azione a livello comunitario sarà intrapresa solo se l’obiettivo non può essere meglio raggiunto dagli Stati membri (elemento della necessità) e comunque graduando il mezzo prescelto rispetto alle caratteristiche dell’obiettivo da raggiungere (elemento della proporzionalità). Subito al di sotto dei Trattati vi sono i principi di diritto comunitario, veri e propri parametri di legittimità per gli atti e i comportamenti delle istituzioni comunitarie e degli Stati membri. Si ricordano:

1. il principio della certezza del diritto (la normativa comunitaria e quella nazionale devono essere chiare e la loro applicazione prevedibile);

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2. quello del legittimo affidamento (che vieta di ledere gli interessi dei soggetti a causa di modificazioni improvvise di atti e comportamenti);

3. quello di proporzionalità (secondo cui gli obblighi o le sanzioni non devono risultare eccessivi rispetto al risultato da raggiungere);

4. quello dell’effetto utile (che impone l’interpretazione e l’applicazione delle norme comunitarie che sia funzionale al raggiungimento delle loro finalità);

5. quello della leale cooperazione (ai sensi del quale gli Stati membri hanno l’obbligo di cooperare con le istituzioni comunitarie per l’esecuzione del diritto comunitario);

6. quello di uguaglianza (secondo cui sono vietate le discriminazioni dirette o indirette basate sulla nazionalità)

Per quanto riguarda la tutela dei diritti fondamentali, i Trattati nulla prevedevano. Tuttavia la Corte di giustizia dalla fine degli anni sessanta ha affermato che i diritti fondamentali risultanti dalle tradizioni costituzionali degli Stati membri e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) facevano parte integrante dei principi giuridici fondamentali della Comunità. In questo modo la Corte ha potuto controllare gli atti comunitari, gli atti e comportamenti nazionali in esecuzione del diritto comunitario, e le giustificazioni addotte dagli Stati per misure nazionali altrimenti incompatibili. Tra i diritti fondamentali riconosciuti dalla Corte si ricordano:

1. il diritto di proprietà, 2. il diritto al libero esercizio di un’attività economica o professionale, 3. l’irretroattività delle norme penali, 4. il principio del ne bis in idem, 5. la previsione legale dei reati e delle pene, 6. il rispetto dei diritti della difesa, 7. il principio del contraddittorio, 8. il diritto a un equo processo 9. il diritto al rispetto della vita privata e di quella familiare, 10. il diritto a non autoincriminarsi, 11. l’inviolabilità del domicilio, 12. la libertà di espressione, 13. il pluralismo nell’informazione, 14. il diritto ad una buona amministrazione, 15. il diritto ad una tutela giurisdizionale piena ed effettiva

La tutela dei diritti fondamentali è stata poi sancita formalmente con il Trattato di Maastricht. Nel 2000 la Carta dei diritti fondamentali di Nizza, pur non avendo valore giuridico obbligatorio, ha infine riprodotto il catalogo giurisprudenziale aggiungendo pochi altri diritti (libertà di informazione, parità uomo-donna). Gli atti derivati sono quelli adottati dalle istituzioni comunitarie, nei limiti delle competenze e con gli effetti che il Trattato prevede. Si distingue tra atti tipici

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vincolanti (regolamenti, direttive e decisioni) e atti tipici non vincolanti (raccomandazioni e pareri). Il più importante atto vincolante è il regolamento. Esso possiede tre caratteristiche:

1. la portata generale, nel senso che si rivolge a soggetti considerati astrattamente e riguarda situazioni oggettive.

2. l’obbligatorietà in tutti i suoi elementi, nel senso che un’applicazione solo parziale del regolamento è illegittima

3. la diretta applicabilità in ciascuno degli Stati membri. Tutti i regolamenti devono essere pubblicati sulla Gazzetta ufficiale, e in mancanza il regolamento non produce effetti giuridici. La direttiva invece ha portata individuale e produce obblighi di risultato, nel senso che vincola lo Stato o gli Stati membri destinatari a raggiungere lo scopo per cui la direttiva è stata posta in essere, lasciandoli invece liberi di adottare qualunque misura necessaria a tal fine. Dunque la direttiva nella generalità dei casi non è direttamente applicabile ma richiede un atto statale di trasposizione. La direttiva a tal fine prevede un termine entro cui lo Stato si deve adeguare. Anch’essa viene pubblicata sulla Gazzetta ufficiale. La decisione infine è atto obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile, ma non ha portata generale. Essa deve essere notificata al destinatario, sia esso uno Stato o un singolo. Gli atti non vincolanti sono la raccomandazione (dirette agli Stati membri e contenenti l’invito a conformarsi ad un certo comportamento) e il parere (con cui le istituzioni fanno conoscere il proprio punto di vista su una determinata materia). Elementi comuni a tutti gli atti vincolanti sono:

1. la motivazione, nel senso che l’atto deve contenere la specificazione degli elementi di fatto e di diritto sui quali l’istituzione si è fondata. La motivazione deve essere chiara e contenere tutti gli elementi per permettere ai destinatari di apprezzarne la portata e la fondatezza. La mancanza o la carenza di motivazione è censurabile dalla Corte di giustizia;

2. la base giuridica, ovvero il riferimento alla norma o alle norme del Trattato su cui si fonda l’azione di cui all’atto stesso. Ciò permette di capire se l’azione rientra nelle competenze della Comunità, se si è rispettata la ripartizione di competenze tra le varie istituzioni, e se si è rispettata la giusta procedura di deliberazione;

3. l’irretroattività come specificazione dei principi della certezza del diritto e del legittimo affidamento, salvo ipotesi eccezionali.

Tra gli atti atipici si ricordano i regolamenti interni delle istituzioni, i programmi generali, alcuni atti preparatori, le decisioni sui generis, gli accordi interistituzionali, le risoluzioni del Consiglio, le comunicazioni della Commissione, le dichiarazioni comuni a più istituzioni, le cosiddette dichiarazioni a verbale del Consiglio, gli accordi amministrativi.

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6. CENNI AI RAPPORTI TRA DIRITTO COMUNITARIO E DIRITTO INTERNO. L’EFFETTO DIRETTO E IL PRIMATO. I trattati istitutivi, al pari di ogni altra normativa internazionale convenzionale, per entrare in vigore ed essere applicabili richiedono l’esaurimento delle procedure costituzionali previste in ciascuno Stato membro. In Italia si è proceduto con una legge di ratifica ed esecuzione. Il diritto derivato, invece, non richiede di regola l’espletamento di tali procedure. Il regolamento e la decisione sono infatti direttamente applicabili, mentre è la stessa direttiva a richiedere l’ulteriore attività normativa statale. Una volta introdotto nell’ordinamento nazionale, il diritto comunitario si rapporta con quello statale sulla base dei due principi dell’effetto diretto e del primato, necessari a soddisfare l’esigenza fondamentale di uniformità di applicazione e di efficacia all’interno di tutti gli Stati membri. L’effetto diretto (o applicabilità diretta) consiste nell’idoneità della norma comunitaria a creare diritti e obblighi direttamente e utilmente in capo ai singoli, senza quindi necessità di una procedura di adattamento statale e con possibilità per i singoli di invocare dinanzi al giudice nazionale (o alla pubblica amministrazione) la sua posizione giuridica soggettiva vantata in forza della norma comunitaria stessa. Sono dotate di effetto diretto tutte le norme comunitarie che siano sufficientemente chiare, precise e non condizionate ad alcun provvedimento formale delle autorità nazionali. Hanno dunque effetto diretto alcune norme del Trattato, i regolamenti (tranne che in ipotesi specifiche) e le decisioni, sia quelle rivolte ai singoli sia quelle dirette agli Stati. La Corte di giustizia ha anche riconosciuto l’effetto diretto di quelle direttive non trasposte nel termine che siano chiare, precise e non condizionate a ulteriori provvedimenti statali. Ciò può avvenire quindi solo in caso di mancata o non corretta o intempestiva attuazione nel termine: poiché infatti la direttiva si è detto essere non direttamente applicabile e diventarlo solo con il provvedimento statale di attuazione, quest’ultimo può essere adottato in qualunque momento prima della scadenza del termine. Trascorso il termine, tuttavia, lo Stato si rende responsabile per violazione del diritto comunitario. Proprio in questo caso la Corte ha detto che quelle direttive non trasposte nel termine che non risultano condizionate all’attività normativa statale possono avere effetto diretto: si tratta in genere di tre tipi di direttive, e cioè quelle negative (che comportano obblighi di astensione a carico dello Stato), quelle specificative (che specificano obblighi già previsti nei Trattati) e quelle particolareggiate (che sostanzialmente si avvicinano ai regolamenti). Poiché l’effetto diretto appena considerato, però, risulta essere una specie di sanzione nei confronti dello Stato per la sua mancata o incorretta trasposizione nel termine, esso può essere invocato dai singoli solo nei confronti dello Stato stesso (effetto diretto verticale e unilaterale) e non nei rapporti tra singolo e singolo.

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Infine, possono essere dotate di effetto diretto anche le disposizioni contenute negli accordi stipulati dalla Comunità con Stati terzi. Però la Corte di giustizia non ha mai riconosciuto l’effetto diretto delle norme OMC. Le norme comunitarie dotate di effetto diretto devono avere prevalenza sulle norme statali sia precedenti che successive con esse contrastanti. Conseguenza pratica di tale primato è che la norma interna contrastante deve essere disapplicata, sia dal giudice nazionale che dalle amministrazioni, in modo da fornire al singolo la tutela che il diritto comunitario gli attribuisce. La Corte di giustizia è pervenuta molto presto all’affermazione del primato del diritto comunitario, mentre alcune giurisdizioni nazionali lo hanno fatto con più fatica. Per limitarci al caso italiano, vi è stata una lunga dialettica tra la Corte di giustizia e la Corte costituzionale italiana. Poiché i Trattati erano stati introdotti in Italia con una legge ordinaria di ratifica ed esecuzione, qualunque norma dei Trattati e qualunque atto di diritto derivato avevano conseguentemente il rango di legge ordinaria e pertanto potevano essere modificate da qualunque altra legge ordinaria in base al principio di successione delle leggi nel tempo, secondo cui una legge successiva deroga alla legge precedente con essa contrastante. Il problema si poneva dunque non tanto per una norma comunitaria successiva ad una italiana (che in base al principio di successione delle leggi nel tempo trovava agevole risoluzione) quanto per una norma italiana successiva a quella comunitaria. Nella sentenza Costa contro Enel del 1964 la Corte costituzionale affermò appunto che in base al principio di successione la legge interna prevaleva su quella comunitaria. Nella sentenza “gemella” Costa contro Enel del 1964, invece, la Corte di giustizia disse che il Trattato aveva creato un ordinamento giuridico proprio e che quindi gli Stati membri non potevano validamente opporre al diritto comunitario le leggi interne successive con esso contrastanti: in questo caso la normativa interna risultava priva di efficacia. La Corte costituzionale si è in parte avvicinata alla posizione della Corte di giustizia nelle successive sentenze Frontini (1973) e Industrie chimiche (1975). Nella prima sentenza la Corte costituzionale ha rilevato che l’ordinamento nazionale e quello comunitario erano autonomi e distinti ma coordinati per mezzo di una ripartizione di competenze, e che quindi lo Stato italiano doveva astenersi dal pregiudicare l’immediata applicazione delle norme comunitarie dotate di effetto diretto. Nella seconda sentenza la Corte costituzionale, sulla base di tale ripartizione di competenze e sul fatto che l’art. 11 della Costituzione dava copertura al Trattato, ha stabilito che la norma interna successiva violava indirettamente la norma comunitaria precedente in quanto illegittima rispetto all’art. 11 Cost. e quindi che il conflitto poteva essere risolto non con la disapplicazione ma solo attraverso un giudizio di legittimità costituzionale e l’eventuale abrogazione della legge interna successiva contrastante con diritto comunitario. Tuttavia la Corte di giustizia ha contestato tale orientamento nella sentenza Simmenthal (1978) affermando che l’obbligo per il giudice nazionale di sollevare un

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rinvio per illegittimità costituzionale era a sua volta incompatibile con il diritto comunitario, in quanto impediva l’immediata applicazione delle sue norme dotate di effetto diretto per attendere la sentenza della Corte costituzionale. Finalmente nella sentenza Granital (1984) la Corte costituzionale ha accolto la posizione della Corte di giustizia sostenendo che il giudice nazionale di fronte al contrasto di cui sopra doveva disapplicare la norma italiana contrastante con il diritto comunitario, fosse essa precedente o successiva a quest’ultimo. Tuttavia la Corte ha detto che la necessità di sollevare il rinvio per illegittimità costituzionale riemergeva nel caso in cui 1) il diritto comunitario violasse i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale italiano e i diritti inalienabili della persona, e 2) la norma italiana avesse l’obiettivo di impedire o pregiudicare la perdurante osservanza dei Trattati o il nucleo essenziale dei suoi principi. 7. LA TUTELA GIURISDIZIONALE NEL SISTEMA COMUNITARIO. Il meccanismo di tutela giurisdizionale comunitario non ha precedenti in nessuna esperienza organizzativa internazionale, in quanto garantisce la protezione delle posizioni giuridiche soggettive soprattutto dei singoli, persone fisiche o giuridiche. Il sistema si articola su due piani, e cioè quello del controllo diretto che si esaurisce con la pronuncia del giudice comunitario (azione di annullamento degli atti comunitari, azione in carenza, azione di infrazione, eccezione incidentale di invalidità, azione per danni da responsabilità extracontrattuale, contenzioso in materia di personale) e quello del controllo indiretto a seguito del quale è il giudice nazionale a decidere la causa nel merito (rinvio pregiudiziale). Nel prosieguo si analizzeranno l’azione di annullamento, l’azione di infrazione e il rinvio pregiudiziale. L’azione di annullamento consiste nell’impugnazione mediante ricorso di un atto adottato dalle istituzioni comunitarie che si pretende viziato e pregiudizievole. Gli atti impugnabili sono gli atti vincolanti definitivi, che non sono solo regolamenti, direttive e decisioni, ma anche qualunque atto e provvedimento che – pur diversamente denominato – produca o miri a produrre effetti giuridici vincolanti per i destinatari: la possibilità di impugnare è data quindi non dalla forma ma dalla sostanza dell’atto. Legittimati a impugnare qualunque atto sono gli Stati membri, il Consiglio, la Commissione e il Parlamento (ricorrenti privilegiati). La Corte dei conti e la Banca centrale europea possono impugnare gli atti comunitari solo per la salvaguardia delle proprie prerogative (ricorrenti semi-privilegiati). Infine possono impugnare anche le persone fisiche o giuridiche ma solo gli atti che li riguardino direttamente (cioè quando non è richiesto alcun provvedimento ulteriore per l’applicazione dell’atto) e individualmente (quando l’atto li tocchi a causa di determinate qualità personali o di particolari circostanze atte a distinguerlo dalla generalità): i singoli (ricorrenti non privilegiati) devono essere dunque identificati o identificabili come destinatari

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sostanziali dell’atto e vi deve essere un nesso di causalità tra la situazione individuale e la misura adottata. Il termine per l’impugnazione è di due mesi a decorrere dalla pubblicazione dell’atto, o dalla sua notificazione, o ancora dal giorno in cui il ricorrente ne è venuto a conoscenza. I motivi di impugnazione sono l’incompetenza (che può essere relativa o assoluta), la violazione delle forme sostanziali (ovvero la violazione di uno o più passaggi per l’adozione di un atto: difetto di motivazione, mancata consultazione di un’istituzione, difetto di base giuridica), lo sviamento di potere (quando l’istituzione o le istituzioni nell’adozione dell’atto esercitano un potere allo scopo determinante di raggiungere fini diversi da quelli per il quale il potere in questione è stato loro conferito) e la violazione di legge (che comprende la violazione di norme del Trattato, di disposizioni di diritto derivato, dei principi generali e di qualunque altra norma che vincola la Comunità come le norme di diritto internazionale convenzionale o consuetudinario). Il giudice comunitario esercita un controllo giurisdizionale completo sulla legittimità dell’atto. Il ricorso non ha effetto sospensivo, tranne qualora venga richiesta e ottenuta una misura cautelare in tal senso. Qualora l’esito del giudizio sia l’annullamento dell’atto, i suoi effetti decorrono dal momento in cui lo stesso è stato posto in essere (ex tunc) e l’istituzione o le istituzioni che lo avevano emanato hanno l’obbligo di prendere tutte le misure necessarie per dare piena esecuzione alla sentenza di annullamento. Tuttavia il giudice comunitario può decidere di salvaguardare i diritti degli interessati e dei terzi stabilendo la conservazione degli effetti dell’atto annullato fino al momento dell’annullamento (ex nunc) oppure finché l’atto annullato non viene sostituito. La procedura di infrazione ha l’obiettivo di porre termine alla violazione del diritto comunitario da parte degli Stati membri e ad assicurare l’uniformità di applicazione delle norme comunitarie in tutti gli Stati membri. Tale violazione può riguardare qualunque obbligo incombente su uno Stato membro, e può consistere in un comportamento commissivo oppure omissivo, in un atto normativo, in una prassi amministrativa o nella mancata attuazione di una sentenza della Corte. La fase precontenziosa si apre di regola su impulso e sotto la direzione della Commissione (sia d’ufficio che su esposto di terzi), ma può anche essere attivata da uno Stato membro nei confronti di un altro Stato membro. Se all’esito di una verifica la Commissione ritiene che lo Stato ha commesso un’infrazione può inviargli una lettera di messa in mora contenente l’indicazione delle ipotesi di inosservanza del diritto comunitario. Lo Stato ha la possibilità e l’onere di rispondere con le motivazioni del caso. Se la Commissione non è soddisfatta, può inviare allo Stato un parere motivato nel quale sono specificate le infrazioni commesse e gli elementi di fatto e di diritto che sostengono la contestazione, nonché il termine entro il quale lo Stato deve porre fine all’infrazione stessa. Il parere motivato è un passaggio importante in quanto delimita definitivamente l’oggetto della controversia, soddisfa l’esigenza del contraddittorio e stimola una soluzione non giudiziaria.

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Se entro il termine lo Stato non adempie, la Commissione può attivare in qualunque momento la fase contenziosa mediante un ricorso alla Corte di giustizia. I motivi di ricorso devono corrispondere a quelli di cui al parere motivato. L’inadempimento deve essere rigorosamente provato dalla Commissione. La Corte può adottare misure cautelari che di regola consistono nell’ordine di sospendere l’applicazione di una legge o di un atto amministrativo nazionali. Si ricorda che la procedura di infrazione viene condotta nei confronti dello Stato complessivamente considerato anche se l’inadempimento è stato posto in essere da un ente regionale o locale, e in questo senso lo Stato non può giustificarsi in base a motivazioni che riguardano la ripartizione nazionale delle competenze o altri problemi di natura interna. La sentenza della Corte è dichiarativa, nel senso che non prevede misure coattive per la sua attuazione, però lo Stato dichiarato inadempiente deve porre in essere tutti i provvedimenti necessari per la corretta esecuzione della sentenza. Se non lo fa, la Commissione può attivare di nuovo la procedura di infrazione, questa volta contestando l’inadempimento di una sentenza della Corte e chiedendo anche la condanna dello Stato al pagamento di una somma determinata (se l’inadempimento è isolato) e/o di una penalità di mora (nel caso in cui si tratti della mancata abrogazione o adozione di una norma). La sentenza della Corte è inoltre titolo esecutivo all’interno degli ordinamenti nazionali e in determinate ipotesi obbliga le amministrazioni e i giudici nazionali a disapplicare la norma interna dichiarata incompatibile con il diritto comunitario. Il rinvio pregiudiziale dà alle giurisdizioni nazionali la facoltà (oppure l’obbligo) di chiedere alla Corte di giustizia una pronuncia sull’interpretazione o sulla validità di una norma comunitaria, qualora siffatta pronuncia sia necessaria per risolvere la controversia ad esse sottoposta. Può essere infatti utile alla giurisdizione nazionale sapere quale sia la corretta interpretazione e la portata della norma comunitaria (rinvio pregiudiziale di interpretazione), come anche sapere se la norma comunitaria rilevante sia valida o invalida (rinvio pregiudiziale di validità). Le funzioni del rinvio pregiudiziale sono tre:

1. realizzare l’uniforme interpretazione e applicazione del diritto comunitario; 2. verificare l’indiretta legittimità di una legge nazionale o di un atto

amministrativo rispetto al diritto comunitario; 3. completare il sistema di controllo giurisdizionale sulla legittimità degli atti

comunitari. L’oggetto del rinvio è il più ampio. Se di interpretazione, esso riguarda tutto il sistema giuridico comunitario. Se di validità, gli atti vincolanti delle istituzioni comunitarie (ma non i Trattati). Il rinvio pregiudiziale può essere sollevato da qualunque giurisdizione nazionale. La nozione di giurisdizione si basa sull’origine legale e non convenzionale dell’organo, sulla stabilità, sull’obbligatorietà, sull’applicazione del diritto, sull’indipendenza e sulla terzietà. Da notare che, oltre ai giudici amministrativi, civili e penali, sono state comprese anche le Corti costituzionali qualora si pronuncino in via diretta.

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La valutazione sulla necessità del rinvio spetta alla giurisdizione nazionale, e il giudice comunitario è di regola tenuto a dare risposta. Tuttavia la Corte ha escluso alcune ipotesi:

1. una causa fittizia, in cui le parti erano già d’accordo sull’esito della causa ma volevano che fosse dichiarata l’incompatibilità con il diritto comunitario di una norma di un Paese diverso da quello in cui era pendente la causa;

2. una questione puramente ipotetica; 3. una questione oggettivamente non necessaria per la risoluzione della causa

nazionale; 4. una questione non collegata con l’oggetto della causa nazionale; 5. la mancanza di una sufficiente motivazione del rinvio.

I giudici non di ultima istanza (cioè quelli le cui decisioni sono impugnabili davanti a un giudice di grado superiore) hanno solo la facoltà di sollevare il rinvio pregiudiziale. I giudici di ultima istanza, invece, ne hanno l’obbligo e quindi tutte le volte che abbiano un dubbio sull’interpretazione o sulla validità del diritto comunitario devono rivolgersi alla Corte di giustizia, tranne nei casi in cui 1) la questione sia materialmente identica ad una già risolta dalla Corte, 2) vi sia una giurisprudenza costante sul punto, e 3) la norma sia chiara e non alimenti alcun dubbio interpretativo. Gli effetti della sentenza pregiudiziale sono diversi a seconda che sia di interpretazione o di validità. La sentenza interpretativa vincola sicuramente il singolo giudice che ha operato il rinvio pregiudiziale. Però tale sentenza può essere considerata al di fuori del contesto processuale che l’ha provocata in quanto si pronuncia su punti di diritto, e pertanto anche gli altri giudici e le amministrazioni nazionali dovranno tenerne conto (la sentenza dunque assume valore di precedente), anche se tutto ciò non esclude la possibilità di un ulteriore rinvio pregiudiziale sullo stesso punto. Nella sentenza di validità invece l’effetto è strettamente limitato al caso concreto e ai motivi specifici del rinvio. La sentenza di invalidità infine ha gli stessi effetti della sentenza di annullamento, e dunque da un lato obbliga l’istituzione o le istituzioni competenti a prendere tutte le misure necessarie per dare piena esecuzione alla sentenza mentre dall’altro vincola tutte le amministrazioni e i giudici nazionali. Per quanto riguarda gli effetti nel tempo della sentenza pregiudiziale, essi sono normalmente ex tunc in quanto la pronuncia definisce la portata della norma così come avrebbe dovuto essere interpretata e applicata fin dal momento della sua entrata in vigore, e pertanto si estende anche ai rapporti giuridici sorti in epoca anteriore alla sentenza stessa purché non esauriti. Tuttavia la Corte ha riconosciuto la possibilità di estendere anche alle sentenze pregiudiziali l’efficacia ex nunc (cioè dal momento della sentenza): per le sentenze di invalidità, ciò deriva dalla necessità di assicurare coerenza tra il rinvio pregiudiziale e il ricorso per annullamento; per le sentenze interpretative, tale possibilità è eccezionale (solo in presenza di circostanze specifiche e ben precise come il rischio di gravi ripercussioni economiche) e si basa sull’esigenza di limitare la possibilità per gli interessati di farla valere in relazione a rapporti sorti anteriormente alla sentenza stessa in modo da tutelare i terzi in buona fede.

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8. CENNI ALLE NOVITÀ INTRODOTTE DAL TRATTATO COSTITUZIONALE. I punti chiave del Trattato costituzionale sono i seguenti:

1) innanzitutto non viene istituito uno Stato unico ma si basa sull’accordo da parte dei suoi Stati membri (struttura sopranazionale e non federale);

2) vengono aboliti i tre pilastri (comunitario, PESC e GAI); 3) le competenze attribuite all’Unione in via esclusiva riguardano la politica

commerciale, quella monetaria, la pesca, l’unione doganale e la definizione delle regole di concorrenza per il funzionamento del mercato interno;

4) la Carta dei diritti fondamentali di Nizza è inserita a pieno titolo nel Trattato costituzionale come sua Parte II;

5) viene prevista la possibilità di aderire alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU);

6) nasce il ministro degli affari esteri che riunisce le funzioni dell’Alto rappresentante PESC, del Vicepresidente della Commissione e del Commissario alle relazioni esterne con l’ulteriore compito di presiedere il Consiglio dei ministri degli Affari esteri; tuttavia le deliberazioni PESC rimangono con il criterio dell’unanimità;

7) il Presidente del Consiglio europeo viene eletto per due anni e mezzo, rinnovabili una sola volta;

8) è prevista una clausola di recesso con la quale uno Stato membro può ritirarsi volontariamente dall’unione europea;

9) gli atti legislativi sono la legge europea (al posto del regolamento) e la legge quadro europea (al posto della direttiva): il procedimento di adozione degli atti è solo quello della codecisione;

10) gli atti non legislativi sono le decisioni europee del Consiglio europeo nonché i regolamenti e le decisioni di Consiglio e Commissione;

11) la Commissione può adottare anche i regolamenti europei delegati su delega del Consiglio e del Parlamento;

12) nasce la Procura europea con l’obiettivo di perseguire gli autori di reati contro gli interessi finanziari dell’Unione europea o di crimini vari su base transnazionale;

13) è prevista l’estensione (ma non la completa generalizzazione) del voto a maggioranza nel Consiglio dei ministri, considerando come tale il 55% dei membri del Consiglio che rappresentino almeno il 65% della popolazione dell’Unione;

14) il potere di eleggere il Presidente della Commissione viene attribuito in via esclusiva al Parlamento europeo a maggioranza dei membri;

15) i membri della Commissione sono corrispondenti ai due terzi del numero degli Stati membri a rotazione;

16) viene esteso il metodo della «Convenzione» alle future revisioni del Trattato costituzionale;

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17) nasce la nuova Agenzia europea per la difesa con il compito di predisporre azioni idonee a rafforzare l’industria europea della difesa;

18) nasce il Corpo volontario europeo di aiuto umanitario; 19) la nuova Corte di giustizia europea si compone della Corte di giustizia,

del Tribunale e dei Tribunali specializzati.