Il progetto FavFil - favolefilosofiche.com · qualcuno cominciava a raccontare una favola perché...

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Il Progetto favole filosofiche

Storia e finalità

Obiettivi

Il Progetto oggi

Parte prima: Favole filosofiche, intercultura, filosofia con i bambini

Parte seconda: Fasi e struttura del progetto

Appendice: Contributi critici e Rassegna stampa

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Progetto Favole Filosofiche

Tanto tempo fa, quando nasceva una domanda troppo grande,

qualcuno cominciava a raccontare una favola perché la domanda non

andasse perduta e perché ognuno, ascoltandola, si esercitasse a

rispondere.

La cosa ebbe un tale successo che la gente, non solo invitava i poeti e i

narratori alle feste e ai banchetti, ma presto si riunì nei teatri per

ascoltare le loro storie. Gli spettatori più abili a riconoscere le domande

contenute in quei racconti erano detti “filosofi”, che in greco significa

amici del sapere, ma che erano anche molto amici dei poeti.

progetto di Alessandro Pisci e Pasquale Buonarota

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Storia e finalità

Nel 2006 a Torino – grazie al supporto della Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani Onlus

e al sostegno dei Servizi Educativi della Città di Torino – nasce un progetto pioneristico

denominato Progetto Favole Filosofiche che ha già ricevuto premi e riconoscimenti a

livello nazionale per la sua originalità e unicità nel panorama culturale e formativo,

approdando - con gli spettacoli prodotti - nei più grandi teatri italiani.

Il Progetto Favole Filosofiche nasce con l’obiettivo di offrire il teatro alla filosofia con i

bambini e i ragazzi, avvicinando i più giovani e gli adulti al piacere di pensare insieme.

Le favole filosofiche sono infatti un vasto repertorio narrativo che include miti, parabole,

fiabe, leggende e ogni genere di racconto che riecheggi i grandi interrogativi della vita:

chi siamo? Perché le cose cambiano? Cos’è giusto o ingiusto? Come riconosco la

bellezza?

Il Progetto Favole Filosofiche offre l’esperienza teatrale dei suoi attori alla definizione di

un metodo di intervento nelle scuole, nelle biblioteche e nei teatri per divulgare e favorire

un avvicinamento alla filosofia con i bambini. L’approccio popolare e teatrale al formarsi

di un’assemblea pensante, nel gioco e nel dialogo filosofico tra adulti, bambini e ragazzi,

è stato riconosciuto come uno dei contributi più originali e innovativi di un settore – quello

della “filosofia con i bambini” - in forte espansione in Europa e nel mondo, con il sostegno

internazionale dell’UNESCO.

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Il Progetto: Obiettivi Il Progetto Favole Filosofiche promuove da anni diverse iniziative artistiche, didattiche e

divulgative, per avvicinare il mondo del teatro e quello della formazione alla Filosofia con

i bambini. Obiettivo specifico e caratterizzante del Progetto è dunque quello di

lavorare per e con i ragazzi e le famiglie - in collaborazione con le scuole, gli enti e le

istituzioni culturali del territorio -, utilizzando un percorso di tipo teatrale, per favorire

l'incontro tra pensieri e culture diverse; cercando, nelle favole filosofiche di varie civiltà,

argomenti universali con cui giocare a fare domande universali.

La definizione di un metodo, capace di contaminare competenze artistiche e

pedagogiche in un’offerta culturale più ampia della pura “didattica”, ha motivato la ricerca

del nostro gruppo di lavoro, accogliendo sempre nuovi contributi dagli operatori sociali e

culturali coinvolti nell’obiettivo.

A tal fine il Progetto propone un insieme d’iniziative, articolate per coinvolgere il tessuto

sociale e culturale a più livelli, mettendo in contatto operatori del settore formativo,

editoriale e mediatico con giovani studenti, attori e le famiglie dei ragazzi. Ad oggi il

Progetto favole filosofiche promuove:

Didattica: laboratori nelle scuole di primo e secondo grado, con relativa

pubblicazione del percorso creativo e didattico

Teatro e editoria: feste teatrali all’interno delle biblioteche e dedicate alle

famiglie: un’occasione per promuovere iniziative editoriali, rivolte al mondo dei

ragazzi e specificamente impegnate nel settore della filosofia con i bambini, sia in

forma didattica che narrativa.

Spettacoli teatrali nel circuito nazionale ed europeo del settore.

Formazione: stages su Teatro e Filosofia con i bambini, indirizzati a educatori e

docenti.

Convegni e seminari: per creare momenti d’incontro, scambio e riflessione in

città fra istituzioni, artisti, operatori culturali e mediatici.

Rete nazionale di contatti fra operatori culturali interessati alla filosofia con

bambini, grazie all’interazione di:

I. circuito teatrale della Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani con scuole,

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biblioteche civiche, festivals teatrali, letterari e filosofici;

II. partecipazione a - e promozione di - seminari e convegni fra artisti, educatori ed

esperti della formazione sul territorio nazionale;

III. crescente rete di contatti web sul proprio sito e su “social network” con tutti i

protagonisti della formazione della cultura che agiscono o vorrebbero agire sul

proprio territorio con finalità analoghe o complementari

Il Progetto Oggi

Il Progetto Favole Filosofiche in questi anni il ha realizzato:

257 recite

118 laboratori

17 feste teatrali

5 letture teatrali

Nei suoi primi tre anni il progetto ha coinvolto in totale

48.646 ragazzi

Inoltre ha presentato:

5 Percorsi Espositivi, una Tavola Rotonda, due Libri, un Sito Internet

Ed è stato ospite:

Seminario su “Favolosofia e Bellezza” per le GIORNATE DI FORMAZIONE ED INCONTRO

al Teatro Nuovo “Giovanni Da Udine”

5° Convegno Internazionale E’ VIETATO UCCIDERE LA MENTE DEI BAMBINI a

Montegrotto Terme (Pd)

Convegno OLTRE CAPPUCCETTO ROSSO. Como. Teatro e filosofia con i bambini.

L’esperienza del Progetto Favole Filosofiche

Festival di Filosofia FILOSOFARTI, Gallarate.

Seminario per LE ARTI, LA SCENA, Prato. Ciclo d’incontri a cura di Edoardo Donatini

Convegno: “DARE PAROLE AL MONDO, Riflessioni ed esperienze sulla pluralità linguistica

e culturale”, nell’ambito del progetto “LE MIE LINGUE” e promosso dalla Città di Torino:

RACCONTI CONSENTITI: Raccontarsi villaggio

Ha ricevuto: • Premio Eolo Awards 2009 per il Miglior Progetto Produttivo.

Premio Migliore Spettacolo per “Favolosofia numero uno – La favola dei cambiamenti

Festival “Giocateatro Torino 2008”

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Parte prima

Le favole filosofiche

Le favole filosofiche sono un vasto repertorio narrativo che include miti, parabole, fiabe,

leggende, ogni genere di racconto che si proponga di esemplificare le domande cruciali per

ogni comunità: Chi siamo? Perché viviamo? Come dovremmo vivere? Cos'è bello? Cos'è

giusto? Cos'è amore? Le risposte variano nel tempo e anche per appartenenza a culture e

civiltà diverse. Ma le domande sono universali e nascono imparando a parlare.

Filosofia e intercultura Ogni favola è racconto di un mondo. È un testo che è proiezione di un contesto di esperienze,

relazioni, pensieri, costumi, leggi e religioni. Ha un immaginario in cui prende forma e una lingua

che forma questo immaginario. Questo contesto dell’immaginario e dei valori forma ovunque

identità e differenze: conosciamo favole zen, favole esopiche, quelle indiane e quelle maya,

quelle sassoni e quelle celtiche, del centrafrica piuttosto che quelle ebraiche; ma anche

romantiche invece che illuministe, classiche, medievali o ancestrali. La favola “parla”, traduce,

tramanda quella cultura e la identifica per le sue differenze.

La filosofia invece aspira all’universalità del sapere attraverso l’universalità delle domande:

interroga il sapere in quanto tale, in quanto storia e in quanto progetto. Le domande sono

universali perché si ripropongono nella differenza: di spazio, di tempo, di identità.

La composizione multietnica del nostro tessuto scolastico e sociale è quindi un’opportunità,

prima che una necessità filosofica, del “fare filosofia”. È un’esigenza di dialogo nella differenza, di

accettazione di sé “con l’altro”, di com-prensione e di progetto; questo è il principio che sottende

il bisogno di una filosofia con i bambini: è proprio la “differenza” nella convivenza fra adulto e

bambino a pretendere un pensiero “contemporaneo” ovvero un progetto comune di cultura.

L'obiettivo del Progetto favole filosofiche è dunque quello di cercare nei racconti quotidiani, come

in quelli di civiltà antiche o lontane, argomenti universali con cui giocare a farsi domande

universali, in modo da creare uno spazio utile alla conoscenza critica e al confronto.

Giocare a cercar la risposta a un quesito comune può permettere:

- di entrare in contatto con il punto di vista altrui;

- di concepire ed esternare idee personali senza inibizioni;

- di conoscere le ragioni del disaccordo e della differenza;

- di accettare le obiezioni nel dialogo;

- di cambiare la propria scala di priorità;

- di prendersi cura dell'altro,

- di accettare e desiderare di essere trasformato, alterato, contaminato dall'altro.

- di sperimentare la democrazia come esigenza etica e teoretica

La filosofia con i bambini Potremmo dire che è l'esercizio quotidiano di ogni genitore, insegnante, adulto

impegnato a raccontare la vita e il mondo a un bambino. Il problema, se sia possibile o

utile approcciare alla filosofia i più piccoli, è antico quanto lo sono la filosofia e la

pedagogia, ma negli ultimi decenni si è caratterizzato per una diffusa ricerca di metodo:

segno di una nuova fiducia, se non addirittura di un’esigenza. Il metodo dell’americano

prof. Lipman, meglio noto come metodo P4C (Philosophy for Children) ha dato

sicuramente impulso a partire dagli anni ’70 a questa ricerca, e negli stessi anni il

movimento GREPH in Francia, con i filosofi Derrida e Lyotard, ha segnato il contesto

della ricerca nell’esigenza di una nuova politica dell’educazione.

L’Italia, non estranea al dibattito per esempio già con don Milani o Danilo Dolci, ha

sicuramente beneficiato – con qualche ritardo – dell’emergere di un movimento

internazionale per dare nuovo impulso a esperienze analoghe sul territorio. L’insieme di

queste esperienze di ricerca o divulgazione di metodo, in Italia come in tutto il mondo,

rientrano nella denominazione di “Filosofia con i bambini”, e l’Unesco – da sempre

attenta al ruolo della filosofia nella scuola - organizza a Parigi dal 2006 una conferenza

internazionale dal titolo “Filosofare come pratica educativa e culturale”.

L’UNESCO affronta la questione in senso ampio con riferimento al “diritto alla filosofia”

affermato da Derrida, declinato nelle varie pratiche filosofiche (nelle relazioni di aiuto, nel

lavoro, nel sociale), in particolare nell’ambito strategico dell’educazione. Qui L’UNESCO

raccomanda l’introduzione della filosofia e del filosofare sin dai livelli prescolari e primari,

trovando supporto nella Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia del 1989.

Il documento UNESCO riconosce Lipman come “precursore” e vede nell’adozione del

suo curricolo il vantaggio di disporre immediatamente di un metodo completo e

assodato, e di un supporto concreto. Non manca però di sottolineare la possibilità di

adattarlo e modificarlo, auspicando esplicitamente la realizzazione di percorsi pedagogici

e didattici diversificati.

(da C. Calliero e A. Galvagno – Abitare la domanda, 2010 Perugia)

“...In generale, tutte le pratiche che sviluppano l’elaborazione del pensiero

critico, l’autonomia del giudizio e il libero esame delle idee, sono da

difendere. Tutte le pratiche che promuovono la ricerca del senso e della

verità illuminata dalla ragione, che coltivano la domanda e la

problematizzazione, che rendono consapevoli delle proprie opinioni al

fine di esaminare i fondamenti, sono da incoraggiare. Queste pratiche di

tipo filosofico possono realizzarsi attraverso percorsi pedagogici e

didattici differenziati. In effetti, tutte le standardizzazioni troppo rigide di

queste pratiche rischiano di renderle sterili, poiché ciò che è in gioco è la

formazione alla libertà intellettuale.

(UNESCO, La Philosophie. Une Ècole de la liberté, 2007)

Un principio metodologico: l’ascolto

Se dunque è possibile fare filosofia con le favole, ed è importante fare filosofia “con” -

cioè insieme - adulti e bambini, quale filosofia fare? Il teatro è un linguaggio che veicola,

con le storie, pensieri e visioni del mondo. Ma è anche uno straordinario strumento di

educazione all’ascolto, per tutti: adulti, ragazzi, bambini. È un momento di comunità

realizzata nell’ascolto e nel consenso all’ascolto. L’ascolto è diventato così per questo

progetto un metodo per aprire sempre il discorso alle domande prima che alle risposte,

all’incontro prima che allo scontro, alla conoscenza di sé attraverso la conoscenza degli

altri. Un principio etico di metodo.

Per un’educazione all’ascolto Inteso come principio etico, un’educazione all’ascolto è certamente un’educazione alla

democrazia: presuppone non solo l’esistenza dell’altro, ma il rispetto per il suo diritto alla

parola, per la diversità di pensiero, di gusti, di ambizioni; per il suo mondo accanto al mio.

Presuppone, nel diritto alla parola come all’opinione, che esistano delle regole collettive

che garantiscano questo diritto individuale dall’indifferenza e dalla prepotenza.

Presuppone, per il rispetto delle regole, che le regole siano condivise e cioè accolte nel

proprio interesse. Ma a differenza del silenzio, che può essere imposto - senza quindi un

consenso - l’ascolto presuppone una motivazione; un interesse per l’altro che è lo stadio

più alto di una democrazia partecipata.

E il teatro? Il teatro è il riflesso della comunità che lo esprime, e come tale può essere

festoso come autoritario, religioso o dissacrante, ma è sempre un sistema di regole

condivise. Esattamente come un gioco, educa a partecipare, ora nell’ascolto ora

nell’azione o nella parola. Come tutti i giochi, promette un interesse e un ruolo, e

pretende la difesa di entrambi: pena la fine del gioco. Il teatro è una responsabilità

comune e comunitaria. Lo spettacolo, la festa, il laboratorio del nostro progetto,

raccontano diverse regole di questo gioco, che possono variare per funzione e rituale,

modificando e alternando tempi e ruoli opportuni. Il piacere di ascoltare coincide con la

consapevolezza di un tempo opportuno per parlare. Nella sala teatrale come a scuola.

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Teatro, favole e filosofia Perché offrire il teatro alla filosofia? Chi dei due ha bisogno dell’altro? Questo progetto di

favole filosofiche vede sicuramente gli attori interpreti, e spesso anche autori, di un

racconto offerto ai ragazzi, agli insegnanti e alle famiglie. Ma può l’insegnante o il

genitore sostituirsi all’attore? E quando - come prevedono i laboratori in classe – devono

giocare o raccontare i ragazzi? Se tutti possono fare tutto, l’arte che c’entra?

Un gioco di ruoli

Chi è attore e chi è spettatore? Per rispondere a questa domanda, apparentemente

banale, bisognerebbe chiarire di quale spettacolo si sta parlando: del bambino che imita

la madre per condividerne le espressioni; oppure del libero gioco carnevalesco che vede

due bambini fingersi esseri mostruosi e prestarsi a vicenda la conduzione del gioco nel

chiuso della loro stanza; oppure ancora del genitore che interpreta i personaggi di una

storia fantastica per intrattenere il suo bambino? In tutti i casi, è stato deliberatamente

indicato il bambino protagonista e fruitore di una teatralità che gli appartiene come il più

familiare dei linguaggi, e deliberatamente si è circoscritto il numero dei protagonisti al

minimo teatrale: due. Qualunque nozione si voglia dare di teatro e di teatralità non si

potrà prescindere da questi due elementi: il teatro si manifesta come esigenza

espressiva primaria e si realizza solo nel cerchio di una condivisione del gioco

comunicativo. Basta essere in due ma bisogna essere almeno in due perché un racconto

possa vivere. Basta vivere per aver bisogno di raccontare.

Consenso

Fare teatro, come ricorda l’inglese to play o il francese jouer, è questo gioco della

comunicazione del quale la favola – fabula, che traduce la parola greca mito, viene dal

latino fari, cioè parlare: favola, “la cosa detta” – è una memoria collettiva.

Dunque fare teatro è raccontare favole, farle vivere in un gioco della finzione condiviso,

consentito. È un consenso alla magia della finzione, al gioco, ed è un consenso al

linguaggio che nei suoi elementi primari è universale - per esempio l’espressione

mimetica del viso, della voce, dei gesti - e in quelli secondari è culturale ovvero l’insieme

di competenze tecniche, stilistiche e linguistiche che identificano una comunità di saperi.

Nei suoi elementi primari il teatro contiene “il sapere del mondo”, che è espressione di

sentimenti ed è il linguaggio attraverso cui opera “la magia” della visione/ascolto - teatro

deriva dal verbo greco théaomai: vedo - condivisa oltre ogni steccato culturale, oltre ogni

competenza specifica. È quel linguaggio attraverso cui l’infans, colui cioè che non sa

parlare, può comunicare con la madre e con il mondo.

Il linguaggio secondario invece è il racconto di un’identità specifica, la sua favola.

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Il teatro, il gioco, la favola e la filosofia Che una favola teatrale sia una favola filosofica non è dunque una contraddizione.

In entrambe potremmo dire che l’amicizia (filia) è il contesto che le unifica, se l’amicizia è

quel terreno di accoglienza e consenso al sapere, di ascolto e tensione alla condivisione

di sentimenti e conoscenze; la massima apertura intellettuale ed emotiva di cui siamo

capaci. Teatro e filosofia sono universali, ma solo entro i termini di questa comprensione,

di questa apertura all’incontro fra un io e un altro io, di piacere nella ricerca di un terreno

comune, di un senso comune, di una comune cultura. Sono anche l’incontro di un

narratore e di un ascoltatore: sono quell’evento prima che quel racconto, perché senza

relazioni il sapere è sterile, afono, è una recita davanti allo specchio.

Ma allora chi fa l’attore in questo gioco di ruoli, chi lo spettatore? In entrambe i casi è la

necessità del gioco a chiarirne le regole. È il gioco a stabilire le competenze.

Il Progetto favole filosofiche nasce sul presupposto che la filosofia, come l’arte, stimolano

saperi prima che tecniche; e la stessa tecnica è un offerta di sapere. Se è l’ “amicizia-per-

il-sapere” a muovere quel determinato incontro tra un padre e un figlio, un insegnante e i

suoi alunni, basterà saper ascoltare per rendere possibile il gioco delle parti; come sarà

sufficiente una favola per rendere possibile quell’incontro. Il teatro è un invito a questo

incontro che l’arte, come abilità, favorisce svelandone il piacere.

La nostra offerta di sapere è questa consapevolezza, maturata nella competenza

artistica in tanti anni di “Teatro Ragazzi”, in Italia e all’estero. Una competenza narrativa

nutrita nel rispetto del nostro interlocutore e del suo mondo. Compresi gli adulti.

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Parte seconda

Un progetto articolato

Il Progetto favole filosofiche elabora ogni anno un percorso tematico di studio e

intervento, un vero e proprio programma artistico e didattico. L’individuazione dei temi,

ovvero delle “grandi domande” su cui interrogarci, è il primo “atto” filosofico del gruppo di

lavoro e nasce nel confronto fra stimoli letterari, teatrali e istanze di dialogo maturate

durante i dibattiti nelle scuole e nei teatri. Tutte le fasi del Progetto volgono a realizzare occasioni di incontro e contatto fra i

bambini e gli adulti: attori, insegnanti, familiari. Il cuore pulsante di queste iniziative sono

dunque i Laboratori nelle scuole e le Feste teatrali, occasioni cioè proprie all’interazione

e al confronto. Sintesi artistica di questo percorso sono gli spettacoli o Favolosofie.

Le ulteriori articolazioni del Progetto ruotano intorno alla necessità di ricerca e confronto

continui, fra tutti i soggetti interessati a contaminare le competenze, per la formazione di

un pensiero critico nel dialogo fra generazioni. Quindi scuola, università, teatri, musei,

biblioteche, editoria, stampa, istituzioni sono coinvolte in seminari, festival, pubblicazioni

ed eventi artistici o formativi.

Struttura e fasi del progetto

• Ricerca e analisi bibliografica: Aggiornamenti e tematiche

• Ricerca drammaturgica e laboratoriale

• Laboratorio nelle scuole

• Feste teatrali nelle biblioteche, nei teatri o in spazi non convenzionali.

• Produzione di spettacoli teatrali: le Favolosofie.

• Internet e Social network

• Sintesi e pubblicazione dell’esperienza Favolosofia

• Settimana delle Favole Filosofiche

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Fasi e metodo del progetto

• Ricerca e analisi bibliografica

Aggiornamenti

Saggi e studi di filosofia.

Saggi e pubblicazioni sulla filosofia per bambini.

Saggi e studi sulla multiculturalità.

Tematica

Testi filosofici e saggi tematici sull’argomento.

Miti antichi e favole, romanzi, proverbi e canzoni della culturale orale e letteraria, italiana

e internazionale, utili all’argomentazione e alla creazione artistica.

• Ricerca drammaturgica e laboratoriale

Selezione e studio del repertorio tematico “narrativo”.

Selezione delle domande strutturali per il dialogo con i ragazzi e le famiglie.

Studio, definizione e prove dei personaggi principali.

Selezione e studio del repertorio ludico: canzoni, giochi teatrali, giochi linguistici.

Selezione e studio del repertorio iconografico e simbolico (arti figurative, architettura,

costume) sia in funzione scenografica che di materiale didattico.

• Laboratori nelle scuole

Laboratori nelle classi, variabili per numero e di durata non superiore alle due ore.

Gli attori:

1. Incontrano gli insegnanti delle classi per presentare il lavoro che verrà fatto

nelle loro classi. In questa occasione viene offerto agli insegnati un dossier

didattico con le storie e gli argomenti trattati e il suggerimento di ulteriori

domande, giochi e spunti bibliografici.

2. Intervengono in classe presentando una riflessione preliminare su cosa sia e

cosa possa essere la filosofia: al termine di questo primo gioco filosofico viene

presentata la “grande domanda” tematica che attraverserà tutta la durata del

laboratorio.

3. Interpretano i personaggi di una storia madre suddivisa per episodi. Questa

storia è cosiddetta “madre” perché è selezionata e pensata per contenere tutte le

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tappe della riflessione tematica e tutti i racconti utili a confermare o generare

ipotesi.

4. Escono dal tappeto narrativo della storia madre e animano un confronto sui

problemi suggeriti dall’episodio. Prendono forma le domande, le ipotesi, le

analogie che sfaccettano la “grande domanda” del laboratorio in esperienze

personali e collettive.

5. Propongono altri brevi racconti utili a indagare o confermare nuove ipotesi di

confronto.

6. Propongono giochi teatrali che favoriscano, nell’interazione fisica e ludica, la

riflessione, prima personale e quindi collettiva.

7. Invitano i ragazzi al racconto orale, scritto e/o figurativo, per favorire

l’espressione libera e soggettiva.

8. Invitano i ragazzi e gli insegnanti a proseguire - nei giorni che separano dal

successivo intervento degli attori - sia il dibattito, sia la creazione e la ricerca di

nuovi racconti sul tema, coinvolgendo possibilmente anche le famiglie a casa.

9. Lasciano alla classe un progetto da elaborare collettivamente, in vista della

grande festa finale con tutte le classi della città, che hanno condiviso le domande

e i pensieri sulla stessa favola e lo stesso argomento. La conclusione di ogni

laboratorio coincide con una traduzione progettuale delle riflessioni fatte.

Quest’ultima fase non risolve l’analisi e, con essa, la riflessione; ma propone una

“ipotesi di lavoro” attraverso un’azione condivisa e argomentata. Una scelta - e

quindi un’azione - che può essere raccontata.

10. Documentano e archiviano il materiale cartaceo, audio o video degli interventi.

In occasione della grande festa in teatro, viene organizzata l’esposizione dei pensieri, dei

racconti e dei disegni espressi dai ragazzi durante il laboratorio.

• Feste teatrali nelle biblioteche, nei musei e in spazi non convenzionali

Un incontro teatrale festoso e interattivo di poco più di un’ora: i bambini con i propri

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familiari dialogano e giocano con gli attori a interrogarsi e interrogare il racconto con le

sue immagini e i vari episodi che hanno come comune denominatore la “grande

domanda”. In questa situazione di base si inseriscono letture, canzoni e giochi teatrali

che creano una interazione non meno seria che festosa con il pubblico e dove gli adulti

scoprono il gusto di farsi le stesse domande dei loro bambini.

• Produzione di spettacoli teatrali: le Favolosofie Al termine del percorso di laboratori nelle scuole, il Progetto riassume l’esperienza filosofica e

narrativa in una produzione teatrale, idonea al circuito nazionale e internazionale di teatro

cosiddetto “Tout publique”. L’obiettivo di queste creazioni narrative, denominate “Favolosofie”, è

quello di rendere rintracciabile il discorso filosofico sperimentato nelle scuole, nelle biblioteche e

nelle feste teatrali, in un evento poetico unitario, destinato a un pubblico numeroso ed

eterogeneo di bambini, ragazzi e adulti.

Queste favolosofie in teatro hanno, fra le altre specificità, quella di contemplare un breve dibattito

finale con il pubblico: tale da rendere evidente e consapevole l’evento speculativo comunitario;

utile a generare spesso un secondo, ulteriore e “problematico”, finale di spettacolo.

Favolosofia è una parola nuova, che abbiamo inventato per giocare, con le favole e il teatro, a

fare della filosofia. La “favola dei cambiamenti” è la numero Uno, perché è solo la prima

favolosofia, in ordine cronologico, di questo progetto. In seguito sono state messe in scena, e

sono ancora oggi in tournée, altre tre favole filosofiche.

Il progetto è stato premiato nel 2009 con il premio nazionale Eolo Awards

“Eolo Awards 2009 per il Miglior Progetto Produttivo”

Perché attraverso il teatro, Pasquale Buonarota e Alessandro Pisci, intendono

avvicinare i piccoli spettatori alle problematiche fondamentali della vita, la capacità di

scegliere, il senso della bellezza. Un progetto che stimola a fare domande più che

trovare risposte, a interrogare per comprendere. Insomma a realizzare un incontro tra

il teatro e la filosofia per avvicinare i più giovani e gli adulti al piacere di pensare

insieme.”

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FAVOLOSOFIA NUMERO UNO, LA FAVOLA DEI CAMBIAMENTI

Debutto: Aprile 2008 Uno spettacolo di e con: Pasquale Buonarota e Alessandro Pisci Scenografia: Lucio Diana Suono e luci: Bruno Pochettino Collaborazione all'allestimento: Monica Delmonte Tecnica Utilizzata: Teatro D'attore Fascia d'età: dai 6 anni - per tutti Durata Spettacolo: 60 minuti

Il primo spettacolo del Progetto “Favole Filosofiche” è un viaggio teatrale, comico e filosofico,

sull’esperienza dei cambiamenti. Due personaggi, favolosi e divertenti, invitano il pubblico dei

ragazzi ad interagire durante il racconto e a condividere i pensieri stimolati dalle loro avventure:

sono due mendicanti, uno cieco e l’altro zoppo, che si decidono a cercare nuove strade e miglior

fortuna. Capovolgimenti, conflitti, risate, accompagnano una riflessione aperta sulla

testimonianza che i ragazzi danno dei cambiamenti intorno a loro e di loro stessi, di quanti ne

possono decidere, scongiurare o progettare.

Migliore Spettacolo Festival “Giocateatro Torino 2008” "Perché sottolinea ed esplicita, attraverso

un’alta e matura qualità dell’espressione teatrale, la necessità di condividere, con il mondo

dell’infanzia e non solo, una riflessione sui grandi temi dell’esistenza".

FAVOLOSOFIA NUMERO DUE, LA FAVOLA DELLE OCCASIONI

Debutto: Aprile 2009 Uno spettacolo di e con: Pasquale Buonarota e Alessandro Pisci Scenografia: Lucio Diana Suono e luci: Bruno Pochettino Collaborazione all'allestimento: Monica Delmonte Tecnica Utilizzata: Teatro D'attore Fascia d'età: dagli 8 anni - per tutti Durata Spettacolo: 60 minuti

Due uomini, una fila. È la civiltà. Una regola così semplice non prevede abilità. Al contrario

l’attesa è un arte, un difficile equilibrio di attività e passività. “Favolosofia numero due, la favola

delle occasioni” è uno spettacolo divertente sul paradosso delle regole dietro cui perdiamo il

senso del diritto, della competizione, del progetto. Il tema delle occasioni e delle attese è

sembrato una sfida per affrontare il nocciolo razionale di un sentimento di giustizia, che tocca

tutti: ora come vittime, ora come privilegiati. Per questo i due protagonisti si attardano a ricordare

e discutere storie drammatiche, grottesche e paradossali, utili ad aprire un confronto con i

ragazzi sul valore della diversità, della scelta e quindi della responsabilità. “Favolosofia numero

due” vuole essere un’occasione per pensare insieme a teatro, senza rinunciare a sorridere.

Menzione Speciale Festival “Giocateatro Torino 2009”: “Per la sensibilità e l’intelligenza con cui si

rivolge alla sensibilità e all’intelligenza del suo giovane pubblico”.

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FAVOLOSOFIA NUMERO TRE, LA FAVOLA DELLA BELLEZZA

Debutto: Aprile 2010 Uno spettacolo di e con: P. Buonarota, A. Pisci & L. Diana Ideazione costumi: Monica Di Pasqua Suono e luci: Bruno Pochettino Ricerca e documentazione: Monica Delmonte Tecnica Utilizzata: Teatro D'attore Fascia d'età: dai 6 anni - per tutti Durata Spettacolo: 60 minuti

“Fra le sale di un Museo del Bello, l’avventura favolosa e rocambolesca di un Re e del suo

Buffone alla ricerca di quella bellezza che renderà migliore il proprio Regno, ovunque.”

Un giovane Re aveva promesso al vecchio Re, suo Padre, che avrebbe fatto del suo regno un

regno più bello. Ma a distanza di anni, il nuovo Re sentì di non essere riuscito nel suo impegno e

vide, negli occhi dei suoi sudditi e di sua figlia Gertrude, solo noia e tristezza. Un giorno ebbe

un’idea un po’ bizzarra e, insieme al suo buffone, diede inizio a dei cambiamenti che portano i

due protagonisti a vedere il mondo e le persone con occhi nuovi.

Menzione speciale "Festival Giocateatro Torino 2010": "Per la validità del percorso e della ricerca

su tematiche non comuni nell’orizzonte teatrale per ragazzi e giovani"

RACCONTO ITALIANO, FAVOLOSOFIA NUMERO QUATTRO

Uno spettacolo di: Alessandro Pisci, Pasquale Buonarota & Lucio Diana Disegni: Claudio Dughera Ideazione costumi: Monica Di Pasqua Creazione luci: Bruno Pochettino Ricerca e documentazione: Monica Delmonte Collaborazione: Francesca Alongi, Alice De Bacco Con: Claudio Dughera, Elena Campanella, Alessandro Pisci Fascia d'età: dai 6 anni Durata Spettacolo: 1 ora Tecnica utilizzata: teatro d'attore

Il “sentimento di comunità” è il nuovo tema affrontato dal Progetto Favole Filosofiche: Racconto

Italiano. È la storia di due fratelli e di un piccolo villaggio; amici e nemici, separazioni e

ricongiungimenti, consentono a una piccola comunità di raccontarsi, riconoscersi e progettare il

suo avvenire. Una favola immaginaria che si fa specchio di molti racconti di piccoli villaggi

italiani, una storia pensata riflettendo e giocando sulle ragioni e le difficoltà dello “stare insieme”,

nell’anno delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia.

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• Internet e Social network

Il Progetto Favole Filosofiche è presente sul web con il sito www.favolefilosofiche.com dove

viene raccolto tutto il materiale didattico, documentale e informativo su tutte le iniziative del

Progetto. Il sito prevede, inoltre, spazi liberi di interazione per adulti e ragazzi, dove confrontare

ed esprimere pensieri e testimonianze utili a mantenere vivo il contatto tra ragazzi, attori e

insegnanti.

Collegata al sito da Facebook è anche la pagina Diario di favolosofia: un quaderno digitale delle

iniziative e delle contaminazioni del Progetto, aperto a tutti e in contatto con numerosi operatori

del settore teatrale, accademico e formativo.

• Sintesi e pubblicazione dell’esperienza Favolosofia Oltre alla regolare produzione di un “dossier” o “materiale didattico” sui laboratori e le favolosofie,

offerto agli insegnanti coinvolti per un sussidio al proseguimento del lavoro con le classi, il

Progetto Favole Filosofiche ha pubblicato, e pubblicherà, il libro conclusivo di una favolosofia.

Un racconto in prosa della favola tematica, che si rivolge al lettore ragazzo – e all’adulto che

voglia leggere e giocare con lui - per invitarlo a ripercorrere il tracciato di riflessioni, giochi e

domande sperimentato nelle classi e nelle feste teatrali.

• Settimana delle Favole filosofiche

Una settimana del cartellone stagionale della Casa del Teatro interamente dedicata alle Favole

filosofiche e all’omonimo progetto. Una piccola vetrina dell’evoluzione e delle potenzialità del

Progetto: in collaborazione tra la Fondazione TRG, il Circolo dei Lettori di Torino e i Servizi

Educativi della Città di Torino.

Stages per studenti ed insegnanti, tavole rotonde, presentazione di libri: un’occasione per

confrontare progetti artistici con finalità analoghe, ma anche per mettere in contatto scrittori,

registi, docenti universitari; vari operatori del settore formativo, editoriale e mediatico; giovani

studenti e giovani attori. Una rete sociale e culturale di interessi intorno al teatro e alla filosofia

con i bambini.

Eventuali sbocchi e sviluppi del progetto

• Feste teatrali in occasione di Festivals culturali e Fiere Editoriali

• Letture e interventi nei Circoli letterari.

• Seminari e convegni su teatro e filosofia con bambini

• Stages per insegnanti, studenti e tirocinanti di Scienze della formazione.

• Stages per attori e animatori interessati al rapporto fra teatro e scuola.

• Biblioteca di teatro e filosofia per bambini presso la Casa del Teatro Ragazzi.

21

22

Appendice

Contributi su

Favola filosofica e intercultura

ARISTOTELE: LA FAVOLA

“Le argomentazioni comuni sono di due generi: l’esempio e l’entimema; ... Degli esempi le

specie sono due: l’una specie di esempio è il citare fatti anteriori, l’altra è l’inventarli

direttamente. Di quest’ultima specie: un tipo è la parabola, l’altra sono le favole (oi mythoi). “

“ Le favole sono appunto adatte ai discorsi pubblici e presentano questo vantaggio: che mentre

è difficile trovare dei fatti simili realmente accaduti, è invece facile inventare delle favole; e

bisogna comporle come le parabole; solo cioè se si sanno vedere le analogie, il che è più facile

partendo dalla filosofia”. (Retorica II, 20)

“Della Poetica in sé e dei suoi generi, e qual funzione abbia ciascuno di essi; come debbano

essere costituite le favole se si vuole che l’opera del poeta riesca perfetta. (Poetica I, incipit)

“Il poeta può imitare in due modi diversi: e cioè, o in forma narrativa - e in questo caso egli può

assumere personalità diverse, come fa Omero; o può parlare in persona propria, rimanendo

sempre lo stesso senza alcuna trasposizione - o in forma drammatica: e allora sono gli attori i

quali rappresentano direttamente tutta intiera l’azione, come se ne fossero essi medesimi i

personaggi viventi e operanti.”(Poetica III)

“Una azione implica un certo numero di persone che agiscono, le quali non possono non avere

o questa o quella qualità sia riguardo al loro carattere, sia riguardo al loro pensiero; per questo

noi usiamo dire che anche le azioni hanno certe loro qualità; e due sono naturalmente le cause

determinanti delle azioni: pensiero e carattere, dalle quali, e cioè dalle azioni che ne risultano,

dipendono la buona e la mala fortuna di tutti gli uomini; così dunque mimesi dell’azione è la

favola, e qui appunto io intendo per favola la composizione di una serie di atti o di fatti.”

(Poetica VI)

HANS GADAMER - IL TEMPO DELLA VITA

È opportuno ricordare che alla fine del 19º secolo, sono apparsi i primi segnali di una nuova

problematica, che via via ha messo in rilievo la validità universale dell’ermeneutica. Abbiamo

già parlato di Husserl, sottolineando come il suo metodo fenomenologico si caratterizzi per il

dettaglio, per la finezza descrittiva, che guarda con sospetto alle grandi costruzioni teoriche,

conferendo invece, a ciò che viene esibito mediante l’analisi descrittiva, una peculiare presenza

e una nuova plasticità. Questa fu proprio l’impressione che suscitò in me, da studente, la figura

di Husserl: che egli fosse in grado di mostrare le cose di cui parlava con una tale completezza

da farle essere “presenti”. Ho provato questa stessa sensazione di fronte a Heidegger. Ma

perché ricorrere qui, proprio al termine “ermeneutica”? Perché (vorrei far osservare) per la

prima volta constatiamo che in altre discipline è già operante, come ausilio, una dottrina

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dell’interpretazione dei testi, la cui portata è assai più ampia della sola comprensione testuale.

Ovvero, per meglio dire, siamo di fronte al “testo del mondo”, o forse persino al “testo” della

storia universale, che abbiamo il compito di interpretare a modo nostro, e ciò comporta

innanzitutto la conquista di una comprensione di noi stessi.

Pertanto non deve destare meraviglia che soprattutto il problema del tempo, la questione

filosofica del tempo, non si limiti più al solo ovvio significato che possiede nella fisica

newtoniana (che pure ha ricevuto una sorprendente e significativa svolta con la teoria della

relatività di Einstein). Oggi siamo interessati anche e soprattutto al tempo vissuto, non a quello

misurato; ci sta a cuore il modo in cui la vita umana e le sue imprese si articolano nel mondo, e

il modo in cui le creazioni culturali – anche quelle della poesia, dell’arte figurativa, oppure del

mondo concettuale – riescono a trovare un’espressione.

(Hans Gadamer – Il cammino della filosofia)

MARC AUGE’ – RUOLO ANTROPOLOGICO DELLA LETTERATURA

Jean-Pierre Vernant, leninista, ha mostrato - a proposito della mitologia greca - come le figure

divine potevano scomporsi e ricomporsi, associarsi o sdoppiarsi, essendo Potenze più che

Persone, fino al momento in cui si cristallizzavano in racconti che li trasformavano in

personaggi identificabili; e insisteva su questo paradosso: “i greci hanno pienamente aderito

alla loro religione solo quando l’hanno percepita attraverso dei racconti come l’epopea o la

tragedia, che erano per loro delle finzioni”. Trasmessi oralmente, poi per iscritto, i racconti mitici

suscitavano una credenza del tipo di quella che si accorda a un racconto di cui si sa che è solo

un racconto. La credenza distaccata che ne deriva non è meno intensa, giacché la

trasformazione del mito, dunque il suo parziale oblio, si presenta come l’espressione di una

memoria collettiva che rinsalda il gruppo. In tal modo si produce l’uscita dalla religione, di cui

Cornelius Castoriadis seguirà l’evoluzione, mostrando come, da Eschilo a Sofocle, si passi da

una storia di dèi e di miti a una storia fatta di uomini, di polis e di logos.

Benjamin sottolinea il ruolo liberatorio della letteratura quando vede nella fiaba uno dei primi

tentativi attuati dall’uomo per dissipare l’incubo mitico, facendo notare come i personaggi del

racconto – l’ingenuo, il fratello minore, il viaggiatore - mettono in scacco le violenze della natura

e fanno di essa la loro complice. Da parte sua Propp nella Morfologia della Fiaba osserva

“...una cultura muore, una religione muore, e il loro contenuto si trasforma in racconto”.

(Marc Augé, Lectio magistralis, Festival della Filosofia di Modena 2010)

VATTIMO – POESIA E FILOSOFIA

Come a Marx interessava capire l'ideologia che sta dietro le nostre descrizioni del mondo, così

a Heidegger, alla filosofia di origine heideggeriana interessa cercare di risalire a questa verità

come apertura alla quale apparteniamo, a questo paradigma. Ora, questo risalire è un dialogo

con la poesia. Heidegger ha spesso parlato di filosofia, di pensare, come dialogo di filosofia e

poesia. Questo dialogo non dà mai luogo ad una conclusione ultima, come se si dicesse:

adesso i filosofi hanno capito cosa han detto i poeti, lo mettono giù chiaro in termini oggettivi e

siamo a posto. No, il dialogo di filosofia e poesia è sempre ancora in corso e in questo dialogo,

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potremmo pensare, entra in gioco questo modo di vedere la verità come orizzonte a cui

apparteniamo, che non è molto lontano dalla religione. A mio parere una riflessione intensa,

approfondita, sul rapporto di filosofia e poesia per il pensiero, non può che condurre anche a

ritrovare una certa valenza religiosa di ciò con cui la filosofia ha da fare. Se ciò che ci si svela

nella poesia è quella verità che ci è data come dono, come grazia, se volete, e con cui siamo in

un rapporto di dialogo - certo chiarificatore, interrogativo, non puramente contemplativo e

passivo -, però tutto questo ha da fare con quell'altra forma della vita spirituale che Hegel, come

ricorderete, metteva insieme a filosofia e arte, che è la religione. Io credo che il pensiero

contemporaneo, attraverso l'esperienza dell'ermeneutica che ci ha riaperto il discorso - perché

è molto popolare nella filosofia di oggi, anche in dimensioni diverse da quelle che io ho potuto

illustrare qui, il dialogo della filosofia con la poesia -, nella misura in cui abbiamo accesso di

nuovo, pensando, ad una ricerca della verità, ad un ascolto della verità che si dà nella poesia,

forse siamo richiamati anche ad un'esperienza religiosa, in qualche modo. Ciò che caratterizza

il pensiero di oggi in una larga fetta della filosofia - non voglio dire in tutta, ma in una larga parte

della filosofia -, è dapprima un nuovo ascolto della poesia, ma sempre più anche una nuova

sensibilità religiosa che non mette da parte la poesia. Questo è il punto. Probabilmente se c'è

una nuova esperienza religiosa del pensiero oggi, essa dovrà essere sempre più intensamente

collegata con l'esperienza estetica, dunque anche verso una ridefinizione dell'esperienza

religiosa stessa. (G. Vattimo - Tratto dall’intervista "Poesia e Ontologia"20 giugno 1996, RAI)

P. RICOEUR – LA METAFORA VIVA

“Le creazioni metaforiche sarebbero davvero puri artifici ornamentali se non avessero, entro la

totalità dell’opera poetica, la funzione di lasciar affiorare un nuovo modo di essere.”

(Da Paul Ricoeur, La metafora viva)

MARTIN NKAFU NKEMKIA - IL PENSARE AFRICANO COME VITALOGIA

“Una filosofia è sempre legata ad una cultura, è sempre una filosofia determinata. In questo

senso si può parlare della Grecia come culla della filosofia in Occidente, in quanto la filosofia è

nata e si è sviluppata seguendo la cultura greca nella sua evoluzione. La riflessione filosofica

nasce dal mettere in questione l'esistenza e il valore dell'uomo. Tale messa in questione non è

tanto nel dubitare della realtà quanto nel dialogare con essa. Chi è l'Uomo, che cosa è il

Mondo, chi è Dio? Sono domande che inducono alla riflessione filosofica, sono domande sul

senso. Il filosofo è colui che cerca la verità, che pensa la verità nella sua totalità, ovvero la

verità su queste domande e, dato che tutti gli uomini pensano, si può dire che in certo qual

modo ogni uomo è filosofo "sui generis". Tutti gli uomini possono rispondere a modo proprio

alle domande riguardanti l'Uomo, Il Mondo e Dio. In ogni caso, la sapienza accumulata nella

tradizione orale costituita da miti, proverbi e racconti, riti, nomi, proibizioni e da tutte le

manifestazioni della parola e del pensiero sono ciò che si può chiamare pensiero filosofico della

tradizione orale africana. Non emerge qui il nome di qualche particolare personalità, ma il

soggetto è la tradizione, la comunità, il popolo.

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I miti. Tutte le forme letterarie africane usano dei simboli anche se alcune storie sono più ricche

di simboli di altre, in quanto rappresentano tradizioni arcaiche. In genere ogni storia si struttura

attorno ad un tema generale dal quale e verso cui tutto il racconto si svolge. Ogni mito ha un

senso profondamente religioso anche quando tratta di argomenti cosmologici ed antropologici.

Tutti i miti hanno valore morale e religioso. Essi sono vere e proprie creazioni del pensiero

aventi fondamento immaginativo e speculativo. Ogni mito nasce dalla vita e la sua struttura una

logica ben precisa. In questo senso, i miti stimolano il pensiero e sono oggetto di speculazione.

Proverbi e racconti. I proverbi ed i racconti, spesso di tipo eziologico o popolare, seguono

un'altra logica. Mirano a giustificare lo stato attuale di ogni cosa. Se un bambino domanda

come mai la capra cammina con quattro zampe e mangia sempre erba, il vecchio deve trovare

una spiegazione convincente per non lasciare il bambino nel dubbio. Il racconto può essere

detto eziologico quando risponde alla domanda: "perché", e dato che l'età dei fanciulli varia, e

con essa la comprensione, il narratore alle volte usa un tono di voce variamente

drammatizzante e un atteggiamento corrispondente alla verità del racconto. L'esempio e la

testimonianza di vita che l'anziano conduce giocano un ruolo importante per la trasmissione del

contenuto. Un racconto è detto popolare quando rientra nella tradizione. Nel racconto la storia

non cambia a secondo dell'età e della maturità del bambino, i personaggi del racconto sono

spesso gli animali che giocano il ruolo dell'uomo. Il bambino deve poi svolgere un suo lavoro

mentale, un'astrazione intellettuale, perché in tale racconto non ci sono risultati o conclusioni.

Alla fine del racconto, la domanda viene rivolta al bambino che deve tirare le proprie

conclusioni. In questo senso i proverbi sono carichi di insegnamenti morali e determinano

spesso la modalità dell'inserimento dell'individuo nella società.

Leggende e favole. Le leggende o favole sono pure creazioni fantastiche che mirano ad un

insegnamento morale e servono per coltivare la vita intellettuale favorendo la riflessione.

Spesso sono storie vere del passato, degli antenati, che vengono tramandate di generazione in

generazione. Il maestro che racconta è già un modello di certezza tradizionale e deve

insegnare comportamenti buoni. L'allievo da parte sua dovrebbe capire quali possono essere i

comportamenti negativi da evitare. Queste leggende sono spesso ricche di figure eroiche che

hanno fatto propri i valori della vita del popolo del quale ognuno è chiamato a fare parte

integrante, pronto anche a dare la vita per difenderlo quando fosse necessario”.

(Martin Nkafu Nkemkia - Il pensare africano come Vitalogia)

LEOPARDI: FAVOLA FILOSOFICA

Leopardi preferisce usare nel sottotitolo il termine “favole” e non mito, sottolinea l’autore,

rinviando ancora a Vico per l’etimo della parola fabula che significa “parlare” e quindi

“comunicare”, “esprimere”. Nel caso di Leopardi, si tratta quindi di considerare i miti come

facoltà per parlare con la natura: un dialogo che va inteso in tutta la sua leggerezza, secondo

l’interpretazione delle Lezioni americane di Calvino, in quanto proprio la leggerezza, divina, si

addice ai miti delle Favole antiche, che appartengono alla primavera dell’umanità.

(Da: F. Cacciapuoti / L. Felici - L' Olimpo abbandonato )

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I. CALVINO – LIVELLI DELLA REALTA’ NELLA LETTERATURA

I vari livelli di realtà esistono anche in letteratura, anzi la letteratura si regge proprio sulla

distinzione di diversi livelli di realtà e sarebbe impensabile senza la coscienza di questa

distinzione. L’opera letteraria potrebbe essere definita come un’operazione nel linguaggio

scritto che coinvolge contemporaneamente più livelli di realtà. Da questo punto di vista una

riflessione sull’opera letteraria può essere non inutile allo scienziato e al filosofo della scienza.

(I. Calvino, I livelli della realtà in letteratura, Saggi)

I. CALVINO – LETTERATURA: DIVERSI SAPERI IN UNA VISIONE PLURIMA

L'eccessiva ambizione dei propositi può essere rimproverabile in molti campi d'attività, non in

letteratura. La letteratura vive solo se si pone degli obiettivi smisurati, anche al di là d'ogni

possibilità di realizzazione. Solo se poeti e scrittori si proporranno imprese che nessun altro osa

immaginare la letteratura continuerà ad avere una funzione. Da quando la scienza diffida dalle

spiegazioni generali e dalle soluzioni che non siano settoriali e specialistiche, la grande sfida

per la letteratura è il saper tessere insieme i diversi saperi e i diversi codici in una visione

plurima, sfaccettata del mondo.

(I. Calvino, Lezioni americane)

Contributi su

La filosofia con i bambini

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Perché, oltre l'inglese, non si introduce anche la filosofia nelle scuole elementari? I bambini si

pongono domande filosofiche intorno ai 4 anni, età che gli psicologi definiscono dei "perché".

Sono dei perché a cui di solito gli adulti non sanno rispondere o liquidano nel repertorio delle

ingenuità. Ma non è così, perché a 4 anni, quindi con 2 anni d'anticipo sull'età scolare, i bambini

s'aprono allo stupore del mondo e, come Aristotele insegna: "La filosofia nasce dalla

meraviglia" e perciò pone domande e interrogativi. A scuola si trasmette un sapere strutturato

che non sempre corrisponde all'interrogazione che ha sollecitato la curiosità del bambino, per

cui tra il sapere impartito e la domanda iniziale inevasa si produce quella distanza che genera

disinteresse. Infatti non si può avere una vera partecipazione a risposte che evadono le

domande con cui il bambino cerca di orientarsi nel mondo, chiedendo chi l'ha fatto, e perché è

così malvagio, e che necessità c'è di morire, e perché non tutti i bambini sono bianchi, e non

tutte le parole si capiscono. Queste domande non sono ingenue, sono radicali; offrono pochi

giri di parole alle risposte e vanno evase non con un discorso che dice: "Le cose stanno così",

come di solito fanno i saperi che si impartiscono a scuola, ma con un discorso, come quello

filosofico, che insinua il sospetto che potrebbero anche essere diversamente. Questo sospetto,

che non sigilla la domanda in una risposta, ma la tiene aperta a un ventaglio di possibili

risposte, tutte giustificate dalle rispettive argomentazioni, apre il campo alla pluralità delle

opinioni, quindi alla tolleranza, quindi alla democrazia, figlia della tolleranza. Il sospetto, inoltre,

consente alla mente di ospitare il dubbio, che evita il dogmatismo e dispone alla ricerca, che

non è un corto circuito di domanda e risposta, come la televisione ogni sera diseducativamente

insegna con i suoi quiz, ma è un saper stare nella domanda, finché una risposta non si

presenta come plausibile e, nella sua provvisorietà, superabile. La scuola insegna risposte,

spesso a domande che non ci siamo mai poste, ma è la domanda e non la risposta il vero

motore della ricerca e della costruzione del sapere. Amiche della domanda sono sia la curiosità

infantile, sia la condotta filosofica. E se l'infanzia genera l'interrogazione nella sua radicalità, la

filosofia insegna a mantenersi nell'interrogazione, per non seppellire il cervello tra le opinioni

diffuse, che rispondono non tanto alle nostre domande, quanto al desiderio di evitare il più

possibile la fatica del pensiero. Quest'anno il Festival della filosofia di Modena promuove la

filosofia tra i bambini, con l'intenzione non tanto di fornire risposte, quanto di insegnar loro

l'atteggiamento filosofico, che è poi quello di non accontentarsi mai della risposta. Quando

questo atteggiamento entrerà nelle nostre scuole? Se ciò non dovesse accadere dovremo dire

che nelle nostre scuole, quando va bene, si impartisce solo istruzione, e non educazione della

mente, con tutte le conseguenze disastrose in età adulta, come ogni giorno ci è dato

constatate.

(U. Galimberti: Se i bimbi studiassero Platone Tratto da “la Repubblica”, 11 settembre 2004)

"Già da piccolo il bambino si pone tutte le questioni filosofiche che sono dotate di un senso:

intorno alla vita, alla morte, all' amore, al tempo, al pensiero... I bambini interrogano il mondo

molto precocemente ed è qui il punto di partenza della pratica filosofica. La filosofia è intesa qui

come questione e non come sapere che accompagna la meraviglia e lo stupore di fronte al

mondo" (Helene Schidlowsky, docente di filosofia alla Haute Ecole F. Ferrer di Bruxelles)

“Fin dall’antichità la filosofia è stata parte integrante del percorso educativo elitario dei

giovani, in seguito essa è stata esclusa dall’orario scolastico in molti indirizzi di studio e, in

Italia, rimane nelle classi superiori dei licei.

Da alcuni anni si sta diffondendo nelle scuole di parecchi stati del pianeta l'esigenza di

stimolare gli alunni a pensare su temi di significato fondamentale per la vita e per l'uomo. Si fa

strada con energia l'interesse a "filosofare" come riconquista delle potenzialità più profonde

dell'essere umano contro la spersonalizzazione della società moderna.

Si tratta di un movimento che suscita ampio interesse all'estero, al quale ha dato impulso fin dai

primi anni Settanta l'americano M. Lipman (Institute for the Advancement of Philosophy for

Children, Montclair University, New Jersey). Indicazioni relative al rapporto fra filosofia e

ragazzi sono state espresse da numerosi pensatori nel corso dei secoli.

(…) Il parere dei filosofi sul rapporto fra soggetti in età evolutiva e filosofia non è univoco.

Freese identifica nella storia della filosofia fondamentalmente tre posizioni:

1. la filosofia viene consigliata come fonte di ammaestramento e di introduzione alla vita, come

pure per le potenzialità di training intellettuale da M. de Montaigne, da I. Kant e da Epicuro, che

considera il filosofare indispensabile per la vera gioia a tutte le età;

2. le domande spontanee dei bambini sono profondamente metafisiche secondo K. Jaspers, B.

Groethuysen.

3. la filosofia viene sconsigliata ai bambini da A. Schopenhauer e da Aristotele, che riteneva la

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saggezza irraggiungibile da parte dei minori, giudicati esseri incompiuti.”

(da: Olga Bombardelli - Educazione del pensiero, Filosofare con i ragazzi)

La strada è quella di non insegnare la filosofia, così come non si insegnano le scienze, la

matematica, la storia ecc., ma di farle fare: fare filosofia, fare matematica, fare storia…

Riferendosi a Kant, la Montesarchio scrive: “Egli raccomandò esplicitamente che i bambini

fossero coinvolti nella ricerca filosofica. Essi non dovrebbero imparare la filosofia ma proprio

farla. Dovrebbero “imparare a fare filosofia”.

(da La filosofia con i bambini proposta da Pina Montesarchio,

di Umberto Tenuta - Rivista Digitale della Didattica)

Contributi su

Un principio metodologico: l’ascolto

ALBERTO GALVAGNO – LO SPAZIO DELL’ASCOLTO

In primis l’ascolto. Il filosofare con i bambini si nutre dell’ascolto dell’insegnante perché le

parole dei bambini e i loro pensieri possano dipanare il dialogo filosofico, possano trovare la

loro ragione e il loro posto nel circolo ermeneutico della discussione. Si tratta di un ascolto

attento alle parole dell’altro, capace di cogliere le assonanze e le dissonanze rispetto al tema di

discussione, un ascolto che coglie le sfumature, il “palpitare di nessi” direbbe Danilo Dolci, le

sottili argomentazioni dei bambini che si infilano timidamente o spavaldamente nelle trame del

filosofare che tesse la tela delle cose dette ma che sempre si rigenera grazie all’ascolto, a

quella capacità di ascolto che Giuseppe Ferraro chiama “parlare ascoltando” e che alimenta un

“percorso nel quale il soggetto ha cura di sé e dell’altro, sviluppando quel sentimento di philia

caro agli antichi greci, che vi riconoscevano la relazione più importante”.

I bambini spesso vogliono dire ciò che pensano senza ascoltare l’intervento precedente, che

quindi non riesce ad interpellarlo, non lo smuove alla replica e neppure a un possibile legame di

pensiero e parole. La fune dei pensieri è sfilacciata, l’intreccio delle parole è sfumato. Ma cosa

dovrebbe fare l’insegnante per riuscire a “parlare ascoltando”? Lo sguardo, intanto. L’attenzione

del bambino è rivolta all’interlocutore, più che all’insegnante e l’insegnante si rivela attento nello

sguardo proteso e intenso verso il bambino. Lo sguardo e l’attenzione colmano la distanza dello

spazio che separa i dialoganti. (…) Il silenzio della riflessione e il tempo per il pensiero da

formulare diventano indispensabili condizioni di una parola che attende a manifestarsi nel

circolo. “Una comunità – scrive Pier Aldo Rovatti in Abitare la distanza - si riconosce nella

differenza e nella distanza. Mai però stabilmente. L’ascolto, infatti, non può che essere esso

stesso ondulatorio e intermittente, una costellazione di tempi opportuni e di pause nel continuo

temporale”.

E molto spesso il temporale lo crea l’insegnante con il suo incalzante domandare inquisitorio e

non inquisitivo, per il quale l’ansia della risposta attesa dal docente si trasferisce in ansia del

bambino che è costretto a ribattere comunque perché pressato. Attraverso l’ascolto invece il

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bambino che parla rimane attento alle parole dell’altro perché quello che ha da dire non sia solo

ciò che inevitabilmente lo attanaglia e che segue il suo legittimo ma personale ragionamento,

ma anche e soprattutto risposta e rilancio con una nuova domanda alle parole dell’altro. Solo

così la corda è ricomposta nei suoi fili di discorso filosofico. La trama della filosofia con le sue

domande esistenziali e i suoi tentativi di risposta risiede in questa piacevole commistione di tra

ascolto e parola, nella continuità tra il detto e il non detto.

Da un punto di vista strettamente pedagogico, vorrei sottolineare come oggi ci troviamo

inevitabilmente in contesti dove l’ascolto non è assolutamente un aspetto importante della vita

quotidiana, a livello cognitivo, ma anche a livello familiare e scolastico. Viviamo una vita

accelerata e la vita familiare dal punto di vista affettivo è relegata a momenti molto brevi, specie

al tramonto della giornata. Le situazioni precarie del lavoro creano poi ansie nelle famiglie e

non inducono i genitori ad un ascolto attento, perché uno dei presupposti dell’ascolto è la

tranquillità, anche economica. La famiglia immigrata poi vive le problematiche legate anche alla

casa, all’integrazione, alla fatica di capire l’ambiente culturale in cui noi viviamo. Quindi è

importante che la scuola attivi condizioni positive di ascolto, anche se la scuola sta facendo

delle scelte “efficientiste” che non facilitano la creazione di uno spazio progettuale dell’ascolto.

Inoltre, l’immagine, anche quella televisiva, ha un impatto emotivo forte e si imprime nella

memoria e diventa memoria del corpo, perché non c’è sufficiente distanza tra l’immagine e il

mio sentire. Invece nel dialogo la parola fa da zona intermedia tra me e l’interlocutore così

come nel testo scritto la parola fa da zona intermedia tra me e il testo, una distanza che mi

permette di avvicinarmi comunque all’altro dialogante oppure al testo, alla luce delle mie

riflessioni. Noi invece siamo abituati ad essere spettatori passivi di fronte alle immagini: si

rischia la tribalizzazione della società perché non si riesce a stabilire la giusta distanza emotiva

dalle cose che permette la crescita dell’individuo. Abbiamo una buona parte di bambini che non

agisce, ma soltanto reagisce a degli stimoli esterni: di qui i fenomeni di bullismo. Occorre allora

evitare modelli chiusi in cui non si contempla più la possibilità della diversità, recuperando il

valore dell’ascolto.

L’ascolto è una relazione che innesca un processo di cambiamento nelle due parti che

ascoltano. L’ascolto è un esploratore di mondi possibili, è un viaggio in cui noi ci poniamo con

le nostre valigie cariche di cornici culturali. L’ascolto è una ricerca che parte dal desiderio di

conoscere lo sconosciuto dove paura e curiosità si mescolano. (…) In una relazione di ascolto

è importante ascoltare l’altro come se avesse ragione. In una relazione educativa, occorre

partire dalla percezione della realtà dell’altro e confrontarla con la mia.

(C. Calliero - A. Galvagno, Abitare la domanda)

HANS GADAMER - L’ARTE DI ASCOLTARE

L’ermeneutica è l’arte di saper ascoltare: io dico “l’arte (di saper ascoltare)” per alludere alla

grande difficoltà di imparare a farlo. Tutti noi siamo vincolati dalla relazione con noi stessi: in

psicoanalisi si parla di “narcisismo”, riferendosi al celebre mito antico di un bel giovane che si

specchia nell’acqua e non sa più separarsi dalla propria immagine, tanto è innamorato di sé.

30

Questo non è certo l’atteggiamento di cui si sta parlando; nel nostro caso si tratta piuttosto del

fatto che gli uomini imparino ad ascoltare gli altri, astenendosi dal volerne anticipare il pensiero

(credendo magari di averlo già inteso), e siano quindi disposti a prestare attenzione. L’arte

dell’ermeneutica è l’arte di lasciarsi rivolgere la parola, e con ciò ci si accorge, quasi senza

volerlo, di rispondere a una precisa esigenza: si tratta cioè di quell’istanza di cui aveva parlato

Kant, sottolineando la nozione di rispetto per gli altri: in questa deferenza c’è anche una sorta di

rifiuto di quella smisurata e opprimente autostima che insegna a non considerare gli altri al pari

di se stessi. Qui è riconoscibile anche il precetto cristiano dell’amore: “ama il prossimo tuo

come te stesso!”. È chiaro che in entrambe queste dottrine affiora un elemento comune, che

conferisce al linguaggio la sua piena realtà. È proprio questo aspetto che ha sempre più

occupato i miei pensieri: ossia come il linguaggio possa arrivare a tanto.

Da Heidegger ho appreso il significato della “frònesis”, di quel sapere pratico che ci è

necessario per agire e per prendere decisioni nelle varie situazioni della vita: non possiamo

infatti interrogare gli esperti quando dobbiamo deliberare in una situazione concreta della vita.

Possiamo però prendere tali decisioni nella misura in cui la circostanza lo consenta: ma quale

contesto lo permette? Vi sono ormai certe società in cui il grado di anonimato è arrivato a tal

punto che può accadere, per esempio in America, che uno studente venga a domandare, se

debba sposare o meno questa o quella studentessa.… Secondo me è chiaro che qui bisogna

superare uno stato di spersonalizzazione, in cui domina esclusivamente la mentalità scientifica,

ormai consolidata. Insomma, abbiamo a che fare con un mondo nel quale vi sono delle

comunanze evidenti, persino ovvie, ed è – oserei dire – un universo a disposizione di chiunque

lo sappia trovare.… Dico queste cose non solo richiamandomi al mondo antico e ad Aristotele,

che ha scritto un’opera sull’etica in dieci libri, tre dei quali dedicati all’amicizia; Kant ha redatto

un’Antropologia che invece riserva all’amicizia poco più di una pagina. Nel nostro mondo

moderno questi concetti, che non appartengono al bagaglio personale del singolo, bensì

scaturiscono dall’umana convivenza, risultano quasi incomprensibili, sotto il peso di

un’educazione scientifica interamente affidata a quel sapere esatto che all’inizio dell’età

moderna abbiamo imparato a sviluppare come disciplina del metodo. Vorrei dunque cercare di

dimostrare che la nozione di linguisticità costituisce l’anima stessa dell’Ermeneutica. In altre

parole, le cose che vengono dette… non pretendono di assurgere al rango di verità definitive, e

soprattutto l’interlocutore non considera in questi termini ciò che gli viene comunicato: in

entrambi c’è invece l’esigenza di spingersi a pensare ciò che non si sa esprimere, per

incontrarsi proprio nel punto in cui il linguaggio viene a costituirsi.

È così che si crea, per esempio, tra amici o tra innamorati, quella solidarietà che costituisce un

vincolo reale e che risiede proprio nel fatto di capirsi. Abitualmente si usa quest’espressione:

“con quella persona m’intendo bene”, e ciò significa: “abbiamo molte cose in comune, al punto

che non c’è bisogno di tante parole: ci intendiamo perfettamente!”. Ma qui agisce appunto la

“linguisticità”, cioè quella facoltà di imparare vicendevolmente a capirsi, che costituisce la

solidarietà. Traduco sempre la parola “amicizia”, in riferimento al nostro mondo, con l’idea di

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“solidarietà”, e ciò vale in molti settori della nostra esperienza quotidiana: c’è solidarietà tra

bambini,… in una classe di studenti,… nel corpo docente, c’è solidarietà in ogni altra

professione, e questo è importante nella vita pubblica e sociale, e, naturalmente, in famiglia,…

tra genitori e figli. Limiti, divergenze, ostacoli alla solidarietà ci saranno sempre, ma essa

esprime esattamente il concetto per cui, pur nella divergenza, non si può mai abbandonare un

terreno comune. In questo senso ho cercato di considerare la nozione di dialogo – in cui prende

forma il linguaggio – come il linguaggio vero e proprio: non si tratta della lingua che si impara

nelle grammatiche o che si trova nei dizionari, ma di quella in cui si verifica una reale intesa

reciproca, e che è pur sempre codificabile secondo certe regole, nei lessici, nelle sintassi e

nelle testimonianze letterarie. Ma una reciproca comprensione, avrà luogo sempre e solo

nell’irripetibilità della situazione dialogica, quando cioè si ascolta e ci si esprime, come può

avvenire solo nell’istante, in maniera ponderata (e quindi anche vincolante). Platone ha

descritto così l’essenza della filosofia, e io ammetto di essere rimasto, in un certo senso, un

platonico: egli affermava infatti che vi sono molti mezzi dei quali ci serviamo parlando fra di noi.

Vi sono le parole, con i loro significati, poi le proposizioni con la loro costruzione semantica, e

poi ancora gli esempi intuitivi con i quali ci intendiamo reciprocamente. Ma alla fine il

presupposto fondamentale è che tutti questi mezzi intervengano realmente solo nello scambio

immediato del dialogo, in riferimento al quale Platone afferma che è così repentino da farci

esclamare: “ho capito”. È così che diciamo, per comunicare all’interlocutore di averlo già inteso.

Io non ho più niente da dimostrargli, bensì gli offro, con le mie parole, l’opportunità di capire. Il

“dire” è sempre solo un’offerta di comprensione. Poiché, però, l’interlocutore è sempre un altro

rispetto a me che parlo, e l’intesa avviene sempre fra un “io” e un “tu”, entrambi partecipiamo

realmente al formarsi di una dimensione comune: questa è l’ermeneutica: l’esercizio dell’arte –

o, se si vuole, della virtù – di tale reciproca, volontaria comprensione. Questa nozione può

conoscere svariati ampliamenti, che io ritengo opportuni.

PRESTARE ASCOLTO ALL’ARTE

Un ruolo davvero importante nella nostra società, così regolata – in cui si cerca di presentare

anche il linguaggio come osservanza di leggi – spetta all’essenza dell’arte e all’esperienza

dell’arte. Indubbiamente, nessuno può spiegare, mediante regole, perché un oggetto sia bello;

è poi altrettanto indubitabile che nella poesia il linguaggio si faccia parola, realizzando così la

propria essenza. Nessuno può negare che in ciò la poesia è affine alla musica: la musica

bisogna suonarla; la semplice lettura delle note non equivale a far musica. Così, leggere una

poesia non è ancora la vera “lettura” della poesia; la lettura della poesia si ha soltanto quando

questa, leggendola, scioglie il suo canto. Non per nulla si parla di “canto”, poiché si tratta di una

sorta di esecuzione che ogni volta è irripetibile, e che tuttavia torna a far risuonare la sua unicità

in forme sempre nuove. Qualcosa di analogo accade nella letteratura, nell’opera d’arte

figurativa, e lo stesso vale per tutte le esperienze che coinvolgono la sfera artistica: da una

molteplicità di istanti improvvisi scocca un attimo di sospensione, in cui si affaccia una nuova

“presenza”, che fa parte di noi stessi. È una sorta di amicizia con le cose della vita, un’intimità

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che stabiliamo con le creazioni spirituali; è ciò che Schelling ha definito, in maniera molto bella,

“il puro immemorabile”, cioè qualunque forma di autentica comunanza (come è ad esempio la

madre patria). Ho ricordato l’immagine della madre patria nella conversazione su Schelling per

offrire un esempio del significato di questa realtà, nella quale si forma il linguaggio, vale a dire

la facoltà di fondersi reciprocamente in una comunione e, in questa, forgiare le possibilità della

vita.

COME SI SUONA, COSÌ SI BALLA

Potrei continuare a mostrare come questo principio dell’ermeneutica risulti ovunque essenziale

in quelle discipline che noi chiamiamo “scienze dello spirito”. In ogni grammatica vi sono delle

regole, ma scrivere in buono stile col solo aiuto delle regole, non è possibile. L’eloquenza

s’impara in qualsiasi scuola di retorica, ma essere convincenti, quando si parla, unicamente con

gli strumenti e gli artifici della persuasione, anche questo è impossibile. Vi è insomma ovunque,

al di là di ciò che può essere generalmente appreso e insegnato, la dimensione della

“formazione reciproca”, che ho cercato di esprimere come ricerca di un linguaggio comune nel

dialogo. Mi sembra che qui si annidi una questione, la cui portata filosofica è fondamentale:

risulta, infatti, che le scienze moderne toccano ovunque ambiti, nei quali si possono costruire

nuove comunanze: ad esempio, si pensi al modo in cui la cultura tecnica irrompe nella nostra

vita, chiedendoci di familiarizzare con il suo mondo. Quando la tecnica ci stupisce con i suoi più

recenti progressi, facciamo – è vero – un’esperienza intellettuale molto importante, ma il suo

significato è ancora maggiore laddove la tecnica è tale da farci dimenticare il suo operato, il suo

stesso intervento. In molti altri ambiti è possibile cercare questo medesimo principio, che ci

consente di affermare che la nostra cultura europea, a causa della grande unilateralità della

concezione monologica del sapere, non ha saputo sufficientemente valutare l’orizzonte

dialogico in tutta la sua legittimità. Per fortuna, nella vita vi è una saggezza maggiore di quella

raggiunta dalla scienza. Prendiamo un esempio che allude al mondo musicale. Dice un celebre

proverbio: “come si suona, così si balla!”. In queste parole la sapienza popolare fa riecheggiare

insieme propensione e avversione, accettazione e rifiuto, simpatia e antipatia, gioia e irritazione

– tutte cose che riempiono la nostra vita e che si richiamano a vicenda, tanto che possiamo

affermare che ci vogliono grandi doti per far sì che questo nostro mondo umano (in cui vige un

enorme controllo della realtà, della natura e della stessa esistenza dell’uomo) venga anche

colmato di quella vita che ci fa sentire, in esso, come a casa nostra. L’ermeneutica è dunque, in

ultima analisi, l’arte – e insieme, la svolta – della filosofia, che consiste nel coltivare quanto di

“immemorabile” abbiamo in comune, e nel superare la ristrettezza della civilizzazione

scientifica, così da dischiudere, magari, un futuro per l’umanità, che coinvolga anche le altre

culture, le altre lingue, gli altri uomini – e forse gli animali stessi – nel nostro universo vitale, e

per poter infine affermare: “questo mondo è il nostro mondo!”.

(Hans Gadamer, Il cammino della filosofia)

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Contributi su

Il teatro, il gioco, la favola e la filosofia

G. R. MORTEO - IL TEATRO, FORMA ORIGINARIA DI SPETTACOLO

Ogni forma di spettacolo è recupero del passato, progettazione del futuro, messa in

discussione del presente. (...) È lecito supporre che le tre operazioni, così come la loro

attuazione simulata, costituiscano un bisogno fondamentale per ogni individuo e per ogni

gruppo in quanto non soltanto si riscontrano presso ogni popolo e in tutte le epoche, ma anche

perché considerate in ogni caso fonte di piacere.

Il Teatro - forma originaria dello spettacolo – implica la compresenza, in un determinato luogo e

in un determinato tempo, sia degli autori (attori), sia dei destinatari (gli spettatori) della

simulazione, non escludendo, soprattutto nelle manifestazioni più primitive, la possibilità di uno

scambio di ruolo tra i due gruppi. (...) L’uscire “sperimentalmente” dal rapporto quotidiano

(come attori o come spettatori) per manifestare eredità, desideri e strati profondi della propria

identità, mettendoli in giuoco attraverso il confronto con quelli altrui, è una autentica esperienza

cognitiva, anche se diversa da quella proposta dalla scuola: una è analogica, l’altra è sistemica.

Non sembra assurdo pensare che la loro sintesi potrebbe rappresentare un perfezionamento

del modello didattico.

“Perché mettere in quarantena tutto ciò che si considerava una vacanza della ragione? – si

domanda il Durand – È vero che dal bambino all’adulto avviene un restringimento e

impoverimento del senso delle metafore? Il nostro dovere più imperioso è di lavorare ad una

pedagogia della pigrizia, del riaffioramento di istanze rimosse e degli svaghi... Troppi uomini in

questo secolo dell’illuminismo si vedono usurpare il loro imperscrittibile diritto al lusso notturno

della fantasia”. Tutto ciò – di là dalla provocatorietà dell’espressione “pedagogia della pigrizia” –

sta a ribadire che il teatro, analogico, come dicevamo, costituisce l’oggettivazione dinamica di

un travaglio vitale in cui i bisogni, aspirazioni, inquietudini, principi, valori sacrificati dal

sistema... cercano con la totalità delle risorse umane – razionali e irrazionali, intellettuali e

corporee, speculative e operative, individuali e collettive – una risposta agli interrogativi,

esistenziali e storici.

È in questo senso che recentemente uno studioso, Emanuele Severino, ha salutato Eschilo non

soltanto sublime poeta, ma anche grandissimo filosofo e uno dei massimi costruttori della civiltà

greca (cfr. Eschilo, Orestea, introduzione e traduzione di E. Severino, Rizzoli 1985).

(...) La naturale complessità del fenomeno teatrale, cioè il suo essere finzione e ricerca della

verità, avvenimento e prodotto, “filosofia” e divertimento, fatto individuale (coinvolgimento

dell’intera persona) e collettivo, ragione ed emozione, immaginario ed azione, coordinamento di

linguaggi, espressione e comunicazione, modello storicamente elaborato e da rielaborare

continuamente (sia a livello concettuale che a livello tecnico).

[G. R. Morteo - Documento conclusivo del Convegno di studi per insegnanti operatori teatrali, Teatro in

classe (Alessandria 20-22 novembre 1987), ciclostilato - pubblicato su Nozione di Teatro ed. 1994]

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Ipotesi sulla nozione di teatro: linguaggio

Gli elementi possono combinarsi nei modi e nelle forme più svariati. (...) Tali elementi sono:

1. Il Linguaggio, o meglio lo strumento espressivo, che nel caso specifico è l’uomo nel suo

insieme (vale a dire corpo, intelligenza, possibilità varie, ecc.), usato non a fini utilitaristici,

bensì di comunicazione, autorealizzazione e rapporto con la realtà. Questo presupposto

stabilisce la fondamentale uguaglianza tra teatro e attore e la conseguente accessorietà

degli altri fattori scenici (dalle luci alle scenografie, allo stesso testo nella misura in cui non si

identifica con l’attore. Qui evidentemente è rifiutata una delle tesi care a Gordon Craig).

Mediante il linguaggio teatrale l’uomo:

- Si sente vivere (utilizzando tutte le proprie risorse), sicché al limite finisce per sentirsi parte

della realtà;

- Comunica con il prossimo (sempre utilizzando tutte le proprie risorse), sino a coinvolgere, al

limite, il prossimo nella propria realtà, restando per converso, nel rapporto, egli stesso

modificato.

Lo schema operativo di tale linguaggio è il seguente:

- Presentazione di un altro Io: l’attore si esprime trasformandosi in altro da sé, vale a dire

utilizzando la forma elementare di “conoscenza”, sia a livello magico che a livello logico;

- Potenziamento del proprio Io, in quanto è proprio mediante l’uso dei propri mezzi intellettuali

e corporali che l’attore si manifesta.

Questa contraddizione procura un doppio piacere: quello di uscire da sé e quello di essere più

completamente se stessi. La pienezza del linguaggio teatrale è raggiunta quando i suoi codici:

gesto, parola, movimento, ecc., vengono adoperati in modo creativo, cioè in forma non

convenzionale, ritrovandone il vigore ed il significato elementari.

2. La riflessione critica sulla realtà (elemento questo comune a tutte le manifestazioni culturali)

realizzata mediante il linguaggio di cui si è detto, in una proiezione sperimentale. Con ciò si

intende dire che il teatro mette in azione, a titolo di modello proposto, l’idea di realtà che il

soggetto possiede.

(...) La proiezione sperimentale – che nell’uomo è un istinto innato: basti pensare al gioco del

bambino – può essere:

- Rappresentazione (cioè imitazione, riflesso, descrizione della realtà effettiva o ipotizzata);

- Creazione (cioè realizzazione di un modo di essere che nella proiezione stessa e non in un

modello esterno ha la sua giustificazione ed il suo baricentro; spettacolo quindi come

momento della realtà e non come succedaneo).

Si noti che qui la distinzione tra rappresentazione e creazione concerne il modo e non il

contenuto e per tale effetto non è sufficiente una realtà “ipotizzata” (la mera ipotesi politica o

fiabesca, ad esempio) ad autorizzare l’uso della parola creazione.

(...) Linguaggio e proiezione sperimentale della riflessione critica costituiscono dunque i due

elementi caratterizzanti il teatro considerato in astratto; sono cioè le costanti reperibili nelle

varie sintesi drammatiche. (...)

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Imitazione

Ma, a rigore, che cosa significa imitazione? Fondamentalmente, presa di coscienza della realtà.

Il bambino impara imitando ed il giuoco è l’aspetto ludico di tale operazione. Presa di coscienza

equivale a: lettura della realtà, quindi il modo dell’imitazione (parte integrante di quest’ultima)

testimonia della visione che il soggetto ha della realtà. L’imitazione, pertanto, non esclude la

valutazione, il rifiuto e la trasformazione del modello.

(G: R. Morteo, Ipotesi sulla nozione di Teatro, Torino 1977)

GADAMER: IL GIOCO

... Il dire poetico ci è apparso come un caso particolare caratterizzato dal fatto che il senso, in

esso, è totalmente calato e incarnato nell’espressione. Nella poesia, il venire all’espressione è

come entrare in certi rapporti di ordine, dai quali la “verità” del detto è sorretta e garantita. Ogni

venire all’espressione nel linguaggio, e non solo il dire poetico, ha un po’ questo carattere di

attestazione. “Non c’è cosa, dove vien meno il linguaggio.” Il parlare, come abbiamo

sottolineato, non è mai solo l’assunzione del particolare sotto concetti generali. Nell’uso delle

parole non accade solo che il dato intuitivo venga reso dominabile come caso particolare di un

universale; esso diventa invece presente nella parola stessa - allo stesso modo in cui l’idea del

bello è presente in ciò che è bello. Ciò che in questa prospettiva si intende per verità si può

ancora definire nel modo più adeguato attraverso il concetto di gioco. Giochi linguistici sono

quelli con cui impariamo - e di imparare non cessiamo mai - a capire il mondo. Possiamo qui

richiamarci ai risultati della nostra analisi del gioco, in base ai quali si è visto che

l’atteggiamento del giocatore non può essere inteso come un atteggiamento della soggettività,

giacché è piuttosto il gioco stesso che gioca, includendo in sé i giocatori e facendosi esso

stesso l’autentico subjectum del gioco. Conformemente a ciò, anche qui non si deve parlare

tanto di un giocare con il linguaggio o con i contenuti dell’esperienza o della trasmissione

storica, bensì del gioco che gioca il linguaggio stesso, il quale ci si rivolge, ci si offre e si

sottrae, pone domande e si dà esso stesso le risposte, acquietandosi. Il comprendere non è

dunque un gioco nel senso che ci comprende, mantenga un atteggiamento di ludico

disimpegno e rifiuti di prendere una precisa posizione rispetto all’appello che gli viene rivolto.

Questa libertà di riserva e di disimpegno non è qui possibile, ed è questo che si voleva appunto

dire con l’applicazione del concetto di gioco al comprendere. Chi comprende è già sempre in

un accadere in cui un determinato senso si fa valere. È così pienamente giustificato che per il

fenomeno ermeneutico si adoperi lo stesso concetto di gioco che si è usato per l’esperienza

del bello. Quando comprendiamo un testo, il significato di esso ci si impone esattamente come

ci avvince il bello. Esso si fa valere e si impone già sempre, prima che noi, per così dire, ce ne

accorgiamo e siamo in grado di verificare esplicitamente la legittimità della sua pretesa di

significare. Ciò che ci viene incontro nell’esperienza del bello e nella comprensione del senso

del dato storico trasmesso ha davvero qualcosa della verità del gioco. Nel comprendere siamo

inclusi entro un accadere di verità.

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(H. G. Gadamer, Verità e metodo, trad. it. di G. Vattimo, Studi Bompiani, Milano 1995)

Rassegna stampa

Sul “PROGETTO FAVOLE FILOSOFICHE”

Nuovo nell’impianto e negli obiettivi, il lavoro di Buonarota/ Pisci - la vera novità della rassegna, che ha ottenuto il premio per il miglior spettacolo - apre dunque una strada originale che si propone di avvicinare i più giovani e gli adulti - come dicono gli autori -“al piacere di pensare insieme”. Un inedito incontro, dunque, tra filosofia e teatro, che prova a sovvertire pigri schemi mentali e a stimolare la riflessione. Una proposta indubbiamente interessante che parte dal presupposto che uno stimolo estetico /emotivo come quello proposto dalla scena possa aprire orizzonti sorprendenti. ... MAFRA GAGLIARDI, Eolo 2008 Semplice e complesso, quotidiano ed assurdo, contemporaneo ed arcaico: gli opposti convergono in Favolosofia numero due – La favola delle occasioni di e con Alessandro Pisci e Pasquale Buonarota. Che il teatro ragazzi utilizzi il repertorio delle fiabe non è una novità, ma che si rappresentino favole filosofiche, cucite a storie di oggi inventate ad hoc, per ritrovarsi piacevolmente a riflettere con gli spettatori, è sicuramente una via mai percorsa. .... MAURA SESIA, STT 2009 Al Festival abbiamo potuto gustare l'ultimo tassello del progetto Favole Filosofiche di Pasquale Buonarota e Alessandro Pisci legato alla Bellezza. Un progetto, quello dei due attori torinesi, nato 5 anni fa unico e stimolante nel panorama culturale del Teatro ragazzi italiano che ha inteso promuovere, attraverso il teatro, una “filosofia con i bambini” per un ’educazione reciproca al reciproco ascolto fra ragazzi e adulti, intorno ai grandi argomenti della vita: perché le cose cambiano, come riconosco un’occasione, cosa è bello, come fare comunità? Dopo la Favola deiCambiamenti e quella delle Occasioni eccoci di fronte a quella della Bellezza, forse il nucleo centrale delle problematiche del nostro tempo che ha perso in modo ragguardevole il senso della bellezza naufragato verso lidi consumistici ed esteriori ... MARIO BIANCHI – Eolo 2010 La «Favolosofia » è il progetto di allestire favole filosofiche per bambini: un’idea preziosa rientrante nel programma «Filosofia per bambini». Si propongono storie divertenti, in grado però di stimolare, con la fantasia, anche la riflessione: parafrasando un celebre titolo di Edward Albee («Chi ha paura di Virginia Woolf?», 1962) chi ha paura di usare il cervello? Fin qui, il gruppo di lavoro della compagnia torinese ha prodotto tre spettacoli: la «Favolosofia n. 1» metteva in scena la storia del cieco e dello storpio, che reagiscono alla sventura unendo le forze. La «N. 2» affrontava la questione della giustizia e delle regole, ovvero dell’attesa e delle occasioni. Quanto alla Favolosofia n.3», essa parla di politica, nell’unico modo in cui se ne dovrebbe parlare. PIERGIORGIO NOSARI – Eco di Bergamo 2010 Lo spettacolo butta , come accade ai protagonisti nel gioco finalmente condiviso dei sassi lanciati nel fiume, continue domande nella grande acqua della conoscenza dei piccoli spettatori che assistono allo spettacolo e che alla fine sono invitati anche ad assistere in scena a diversi finali. A differenti possibilità a cui dare risposte magari solo parziali, ma risposte dove la sorella come donna (si sa sono meglio dei maschi in questo) ha ovviamente sempre motivazioni più adeguate per esigenze condivise. E' ancora una volta dunque un teatro che semina germogli di pensiero da condividere quello di Pasquale Buonarota , Alessandro Pisci e Lucio Diana, come del resto il buon teatro per ragazzi dovrebbe fare e proprio in un tempo come il nostro dove regnano sovrani il mal costume e le barzellette oscene. ... intrigante e ben costruito dove il necessario sottotesto didascalico ben si accompagna con l'incessante divenire degli eventi. Per uno spettacolo da vivere insieme, tra attori e pubblico come avveniva una volta, tanto tempo fa nella Grecia, dove il teatro è nato ed ha avuto la sua massima funzione civile. Ed è da qui che nonostante tutto l'Italia dovrà e potrà incominciare ad essere “rifatta” Mario Bianchi, Eolo 2011

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L’Eco di Bergamo 22 novembre 2010

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E’ un progetto della FondazioneTRG Onlus

a cura di

Alessandro Pisci e Pasquale Buonarota

In collaborazione con

Città di Torino

Documentazioni a cura di

Monica Delmonte

Direttore artistico e progettuale Graziano Melano