Il processo creativo di y. yamamoto
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1
Sommario
Introduzione: il Processo Creativo ....................................................................2!
Il corpo per l’Abito, l’abito per il Corpo: gli anni Ottanta ..............................4!
Materiali..............................................................................................................8!
Colori ................................................................................................................11!
La Forma ..........................................................................................................12!OverSize................................................................................................................... 14!UniForme: ............................................................................................................... 14!Forma dell’Abito, Forma dell’Uomo...................................................................... 15!
Moda e Cinema: Yohji Yamamoto e Win Wenders........................................17!
Città e Immagine..............................................................................................18!
Disegnare il Tempo..........................................................................................19!
Lo Stile .............................................................................................................21!
Trovare l’Essenza della Cosa nel Processo .....................................................22!Dalla Firma al Logo ................................................................................................ 22!Il Puntaspilli ............................................................................................................ 23!
Il processo creativo di Yohji Yamamoto: Biografia del designer...................30!
Il processo creativo di Yohji Yamamoto : Bibliografia...................................35!
2
Introduzione: il Processo Creativo
Sfogliare pagine, fare un disegno, confezionare un abito, dirigere un film.
Alzarsi, camminare, andare avanti e tornare indietro. Comprare un abito,
guardarsi allo specchio. Fare la spesa, prendersi cura di qualcuno, lasciare
qualcun altro. Queste azioni e molte altre ancora rispecchiano il concetto di
“processo”; indipendentemente dal risultato e dalla riuscita.
Noi stessi non esisteremmo se tutti i nostri organi non fossero collegati tra
loro, con qualche strano meccanismo, e biologicamente parlando appena
qualcosa s’inceppa andiamo in tilt.
Per creatività invece prendo in considerazione, (per semplicità e comodità) la
definizione data dal matematico Henry Poincarè:
"Creatività è unire elementi esistenti con connessioni nuove, che siano utili".
Le categorie di "nuovo" e "utile" radicano l'attività creativa nella società e
nella storia. Il "nuovo" si riferisce al periodo storico in cui è concepito;
l'"utile" è connesso con la comprensione e il riconoscimento sociale. Nuovo e
utile illustrano adeguatamente l'essenza dell'atto creativo: un superamento
delle regole esistenti (il nuovo) che istituisca un’ulteriore regola condivisa
(l'utile).
S’individuano anche le due dimensioni del processo creativo che unisce
disordine e ordine, paradosso e metodo.
Processo Creativo, dunque. Ho cercato di rendere anche in questo scritto,
un’idea di processo, tramite un certo tipo di carta, che non permette di
“vedere tutto e subito” e tramite la “scaletta” di tutto l’elaborato.
Sin dal titolo, infatti, si inizia con l’idea del “percorso”, esso non è concentrato
tutto nella stessa pagina.
3
Poi, nella prima parte tratto del processo creativo di Yohji Yamamoto,
designer giapponese, partendo da un’introduzione generale sul contesto
storico degli anni Ottanta, per poi passare a materiali, colori, forme da lui
utilizzate e scelte per i suoi abiti.
Nella seconda parte invece tratterò sempre lo stesso tema, però visto attraverso
il al film dedicato a Yamamoto e diretto da Wenders (1989), dove si può
riscontrare una vera propria intervista poetica al fashion designer, e dove il
processo creativo è raccontato da Yamamoto in prima persona, e commentato
dal regista, famoso anche per altri film come The Million Dollar Hotel.
La terza e ultima parte, la più “rischiosa e azzardata” forse, è completamente
ripresa dal libro Talking to Myself (2002) che Yamamoto commissiona al
filosofo giapponese Kiyokazu Washida e che è redatto da Carla Sozzani.
Questa biografia, è presente in tutto il mio scritto, tramite citazioni e
interviste, ma nell’ultima parte ho il riportato una sezione dell’auto intervista
che Yamamoto propone nel libro.
L’immagine utilizzata per separare le pagine in questa parte riporta un
figurino disegnato da Yamamoto, ritrovato all’interno di Talking to Myself.
Ho fatto questa scelta perché tutte quelle frasi, citazioni, e riflessioni mi
sembrano rispecchiare il suo percorso creativo, più personale, e non solo
relegato all’interno del suo lavoro, che per quanto interessante esso sia, non
completa la sua formazione di uomo. La creatività, come il processo, riguarda
la vita, e non solo la formazione lavorativa, per quanto straordinaria essa sia.
Veronica Piersanti
4
Il corpo per l’Abito, l’abito per il Corpo: gli anni
Ottanta
Il mondo della moda parigina ha attraversato una crisi di identità verso il 1980,
con l’affacciarsi di stilisti come Miyake, Kawakubo, e Yohji Yamamoto che
hanno messo in discussione i criteri consolidati e venerabili circa la struttura
dell’abito, proponendo una concezione diversa dell’abbigliamento rispetto al
corpo.
I principi su cui si reggeva la moda dell’Occidente europeo esigevano tecniche
di taglio complesse, imbottitura e precisione nella tecnica sartoriale per
esaltare i contorni della figura. Diversamente gli artisti giapponesi si
ispiravano al carattere del costume nipponico tradizionale per drappeggiare ed
avvolgere il corpo con stoffe che ne occultavano o addirittura ne cancellavano
la linea.
Il disordine, l’anarchia, lo sconvolgimento percepiti nell’opera dei tre stilisti
colpì in modo particolare il mondo della moda che si era trovato fino allora a
proprio agio seguendo il formulario della tradizione sartoriale dell’haute
couture fissato nella prima metà del Novecento.
Basti, infatti, pensare alla prima collezione di Christian Dior del 1947 definita
“The New Look”, la quale restituiva alla donna il profilo a clessidra dettato
dalla linea di fine Ottocento. È ovvio che il disegno dell’abito non dipendesse
dalla forma naturale del corpo: era il corpo ad essere in funzione dell’ abito. Il
couturier costruiva l’abito partendo dall’interno, per ottenere un corpo
“scolpito”. Proporzioni estreme e una forma idealizzata, cuciture, imbottiture,
vari metraggi di teletta di crine e crinoline creavano strutture complesse.
Sfidando la tradizione nei procedimenti di costruzione e di esecuzione
sartoriale, Miyake, Kawakubo e Yamamoto, sono risaliti alle singole tappe del
5
processo costruttivo, portando alla luce dettagli nascosti, i quali sebbene
appartengano a una fase del “non finito”, hanno altrettanto interesse artistico
quanto l’essere ultimato. Mettere a nudo i segreti del sarto equivaleva a
rivelare l’intimo che si porta sotto il vestito1. Le tecniche e i materiali adottati
all’interno dell’indumento che gli conferivano forma e tenuta sono stati così
legittimati come elementi ornamentali. Baveri, bottoni e colletti hanno
cominciato a essere montati in modo diverso rispetto alla posizione e alla
funzione tradizionale.
Spiegazzature e increspature sono servite per creare motivi ornamentali, in
analogia con il ruolo delle linee in un disegno. Orli sfilacciati, tessuti
incompatibili, hanno dato un nuovo assetto alle parti che costituiscono la
forma tradizionale di un abito, facendo dell’astrazione e dell’asimmetria i
criteri prevalenti.2
Il dinamismo con cui è cambiato l’approccio alla moda, le novità nella
costruzione, nel materiale e nella forma hanno creato percezioni nuove di ciò
che oggi è indossato: gli abiti che negli anni Ottanta sembravano appartenere
a un estremismo radicale, oggi sono diventati patrimonio acquisito.
Yohji Yamamoto nasce a Tokyo nel 1943. La prima collezione presentata a
Parigi, nel 1981, dopo quella di Tokio del 1972, passò alla storia.
Ora produce le collezioni Yohji Yamamoto, Y’s, Y’s for Men, Yohji Yamamoto
+ Noir, ed è partner di Adidas nella linea Y-3, una serie di collezioni
sportswear .
1 K. D. Spilker, S. S. Takeda, Contromoda: la moda contemporanea della collezione permanente del
Los Angeles County Museum of Art, Firenze Fondazione Palazzo Strozzi; Milano, Skira, 2007,
Introduzione 2 K. D. Spilker, S. S. Takeda, Contromoda: la moda contemporanea della collezione permanente del
Los Angeles County Museum of Art, Firenze Fondazione Palazzo Strozzi; Milano, Skira, 2007,
Introduzione
6
Yamamoto tramite il suo processo di creazione dell’abito rivoluzionò il
rapporto tra capo e persona. La specificità dell’uomo e della donna, del loro
essere umani, il loro stile di vita, più che i loro corpi, furono proiettati
sull’abito. Non solo il rapporto designer/abito cambia; ma spesso, nelle
collezioni di Yamamoto, si legge una nuova idea del corpo e della femminilità
che sostiene questi abiti: il corpo cui fa riferimento dal primo momento, non è
il corpo della donna, e nemmeno quello dell’uomo. Non è un corpo reso
oggetto attraverso segni e codici di riconoscimento del genere, ma è un corpo
che agisce sull’abito e lo trasforma. La moda di Yamamoto valorizza
l’interiorità di chi li indossa. Le riviste hanno definito il suo come uno:
“Stile poverissimo e misterioso che si nutre di materiali poveri ed elaboratissimi, che si alimenta di un corpo da velare e non da svelare, che valorizza più
l’intelligenza che la bellezza.”3
Baudot, noto giornalista, individua, infatti, nell’arte povera la maggior
influenza nell’approccio stilistico di Yamamoto4; anch’egli, dice il giornalista,
ha cercato, infatti, di rompere la concezione fossilizzata di ciò che erano gli
abiti.
Lo stesso Yamamoto si esprime chiaramente sulla necessità di trascendere
non solo il corpo connotato sessualmente ma il corpo in assoluto:
“Per me il corpo è nulla.
Muta senza tregua.
Invecchia in ogni istante, non ci si può affidare ad esso
perché non si può controllare il tempo.
Io non credo al corpo umano. Non lo trovo bello.”5
3 G. Buttazzi e A. Mottola Molfino, L’Androgino, Novara, De Agostini, 1992, p. 81 4 B. Polan, R. Tredre, The great fashion designers, New York, Oxford, 2009, p. 179
5 Y. Yamamoto, Talking to myself, Milano, Carla Sozzani Editore, 2002
7
Nuove dimensioni, nuovi spazi, nuovi volumi, nuove forme e nuovi tessuti.
Nuovi tempi, e nuovi esseri umani dunque. E’ tutto questo, ciò che si pone
“durante”, a metà, che interessa di più a Yamamoto: il processo. E non il
prodotto finito.
“ Che cos’è più importante nel tuo lavoro? Il procedimento o il prodotto?”
“Questa è la migliore delle domande.
Non posso essere più felice che all’inizio del processo di sviluppo.
Poi il prodotto è una realtà. E la realtà colpisce.
Il mio cuore batte durante il procedimento.
Anche se il giorno decisivo arriva sempre.”6
6 T. Jones, S. Rushhton, Fashion Now, Cologne, Taschen, 2005, p. 521.
8
Materiali
Yohji Yamamoto, appropriatosi di aspetti della sua particolare cultura e
abbracciando sia nuovi sviluppi tecnologici sia nuove metodologie nel campo
dei tessuti, inizia il suo processo creativo dal tessuto, dalla stoffa: indicando il
tatto come il principale tra i cinque sensi.
Nelle sue creazioni è spesso promossa la mussola, di solito usata dagli stilisti
per le “prime stesure” dei loro modelli. La collezione Primavera/Estate del
2000 (intitolata “Mussola”) rappresenta bene il concetto di abito non finito, e
l’idea di processo. Yamamoto voleva mostrare il processo di confezione
dell’abito, il suo “momento più felice”.
Il fashion designer, a volte, trova la mussola finale più bella del vestito finito,
perché in quel momento le emozioni sono più percepibili. Tutti i capi sono
fatti in tessuto bianco o nero e mostrano le cuciture in costruzione. Questa
collezione è stata ispirata in gran parte dalle creazioni in mussola di Charles
James che aveva visto durante un suo viaggio a New York.
Usando questa tecnica ci si può trovare di fronte ad un completo in due pezzi
(Autunno-Inverno 93-94, Fig 1) dove le imbastiture (essenziali nel processo
creativo e costruttivo) creano un motivo intricato per decorare la superficie.
Qui la controfodera, un tessuto strutturante, che di solito rimane nascosto pur
avendo un ruolo importante nel definire l’aspetto di un abito, compare sul
bavero, dove è trattata come finitura esterna. 7
Anche nella collezione Primavera Estate 2003 (Fig.2), Yamamoto con una
gonna rovesciabile, ci presenta l’abito decostruito; la vita sfilacciata, le finiture
a vista, e le imbastiture usate per creare motivi in superficie. Una particolarità
7 K. D. Spilker, S. S. Takeda, Contromoda: la moda contemporanea della collezione permanente
del Los Angeles County Museum of Art, Firenze Fondazione Palazzo Strozzi; Milano, Skira, 2007,
Introduzione
9
di questo capo è che la sua forma a doppio strato fa si che se si porta a
rovescio, la sopraggonna bianca diventa elemento strutturale: un sott’abito
rigido.8
Le diverse peculiarità dei tessuti sono l’elemento principale della sua
progettazione: i materiali rigidi chiamano tagli spigolosi, i tessuti che cadono
dolcemente vogliono invece forme rotonde e morbide.
Yamamoto ridefinì anche le forme di abbigliamento maschile, quando nella
collezione “L’uomo Destrutturato” introdusse pantaloni molto larghi, quasi
cadenti, con pieghe. Un look drappeggiato, molto somigliante a quello degli
harem turchi. Le giacche da uomo persero la loro vita a cono, furono private
di imbottiture e fodere, e anche il modo di montare le maniche fu cambiato.
Fatte di viscosa, filati crespi, che ridefinirono le forme, portarono conforto e
semplicità.
Se le forme di Yamamoto sono per la maggior parte rigorosamente
asimmetriche, (la simmetria dice “non è umana”), non sono umane nemmeno
quelle scarpe a punta con i tacchi a spillo che bandisce dai suoi completi
femminili, adottando per questi ultimi, calzature rasoterra anch’esse
essenziali, silenziose e piatte9.
In diverse occasioni, compresa la sua “autobiografia”, Yamamoto sostiene la
bellezza di tutto ciò che è sporco, rotto, appassito. Il termine giapponese
“Hifu” è ciò che si addice di più a questo, rispecchiando proprio l’esiguità
dello spirito o una sorta di “tristezza” nelle persone che indossano quegli abiti.
8 K. D. Spilker, S. S. Takeda, Contromoda: la moda contemporanea della collezione permanente
del Los Angeles County Museum of Art, Firenze Fondazione Palazzo Strozzi; Milano, Skira, 2007,
Introduzione 9 P. Calefato, Moda e Cinema: Macchine di senso e scritture del Corpo, Ancona, Costa & Nolan,
1999, p. 57
10
In altre parole, lo scompiglio del tessuto, rispecchia la fragilità emotiva di chi
lo indossa.
Una caratteristica che accomuna numerose collezioni di Yamamoto, è la
necessità di un approccio più umano nella creazione e nell’utilizzo dei tessuti,
dato l’aumentare di nuove e sempre più complesse tecnologie. Una
predilezione per l’uso del cotone, del lino e del rayon, scelti dal fashion
designer per la loro apprezzabilità nelle pieghe, nelle superfici di ordito e
trama.
11
Colori
Nel processo creativo di Yamamoto e in tutto il suo atteggiamento, un ruolo
centrale è giocato dal colore nero; il buio definitivo e la silhouette universale.
Nella cultura giapponese, è un colore tradizionalmente associato al contadino
e allo spirito del samurai, oltre che al famoso teatro del Bunraku. Le collezioni
di Yamamoto sono dei veri inni all’oscurità, all’eliminazione dei gioielli, della
decorazione e del dettaglio.
Il nero è anche l’insieme di tutti i colori:
“E’ come se li mischiassi tutti; come se buttassi tutti i colori nel water; questo mi provoca una sensazione isterica.”10
Il nero è il colore delle ombre, il colore di sua madre vedova. Tutti capi di
colore nero ma con tessuti e forme diverse. Ogni altro colore lo disturba. Gli
provoca un’emozione.
Nonostante ciò, con il trascorrere degli anni, le sue collezioni si sono
arricchite di altre tinte; come il bianco, a volte il blu, e il rosso vivo:
quest’ultimo usato come “una traccia di rossetto”, come una pura luce in
mezzo all’oscurità. Ogni colore, nei lavori di Yamamoto deve essere forte come
il nero, altrimenti non c’è contrasto.
In Giappone, ogni difetto e imperfezione in un tessuto è considerato prezioso.
Mentre questo, in termini di Post-Modernità è chiamato col termine di
Decostruzione. 11
10 Y. Yamamoto nel film “Notebook on City and Clothes” di Win Wenders, Tokio - Parigi, 1989
11L. Mithchell (edited by), The cutting edge: Fashion from Japan, Sidney, Powerhouse
Publishing, 2005, p. 29
12
La Forma
Quando Yamamoto presentò le sue prime collezioni a Parigi, nell’inverno del
1981/82, la moda dei trionfanti anni ‘80 era caratterizzata da una forte scultura
del corpo e della corsetteria, taglie aderenti, e silhouette accennate, un look
che era altezzoso e aggressivo. In contrasto con queste dimostrazioni rumorose
e abbaglianti di forma, le sue strane e nuove idee avrebbero proposto una
nuova geografia del corpo.
Nei suoi abiti non ci sarebbe più stato né un inizio né una fine, poiché l’aria si
era insinuata fra il corpo e il tessuto. L’aria, elemento che per sua natura è
intangibile, diventa una componente chiave del rapporto corpo/vestito,
preparando la piattaforma per una concezione di come la figura si sarebbe
strutturata in rapporto ai volumi e all’equilibrio della massa corporea.
L’abbigliamento secondo Yohji Yamamoto trovò una nuova faccia della moda:
un certo tipo di moda che non aveva più aspetto preciso e delineato. Egli creò
forme che diventarono misura dello spazio che le circonda. 12
La forma dei capi, per quanto nuova e sorprendente poteva essere, rimaneva
eminentemente vestibile; più volte Yamamoto dichiarò di quanto i suoi abiti
dovessero essere utili ed efficienti. Nonché durare nel tempo.
Queste sue continue trasformazioni di forma, spesso descritte come “mutanti”,
con le loro nuove proporzioni, si allearono con nuove forme umane; furono
dichiarate dal designer stesso attraverso un attacco ferrato alla perfezione di
forma e di immagine:
“Voglio cicatrici, fallimenti, disordine (…)
Penso che la perfezione sia brutta.” 13
12 E. Fiorani, Abitare il Corpo: La Moda, Milano, Lupetti, 2004, p. 124 13 Y. Yamamoto, Talking to myself, Milano, Carla Sozzani Editore, 2002
29
1) Inverno ‘08, 2) Inverno ‘08, 3) Estate ’08 4) Inverno ’04, 5)
Inverno ‘11
13
L’importanza che Yamamoto dà alle emozioni e alle sensazioni, interesse che
ripercorre tutto il suo processo creativo, emerge anche nella forma: oltre
all’imperfezione, è anche l’asimmetria a provocargli benessere e piacere. Ed è
proprio tramite l’asimmetria che ricerca l’imperfezione, producendo una
forma progressivamente distillata.14
Un essere umano non sarà mai in grado di produrre la perfezione; anzi,
Yamamoto afferma di più: quando un uomo proverà a fare qualcosa di
perfetto o simmetrico, tenderà sempre a distruggerlo.
Yohji Yamamoto spesso descrive i suoi vestiti come “abiti logori”. Quello che
intende dire è che non sono associabili ad alcuno stereotipo sociale:
l'impiegato o l'artista, il giornalista o lo studente, il vecchio e il giovane.
I suoi abiti, a un primo sguardo, sono difficili da associare a una qualsiasi
concreta immagine, com’è difficile associarli a una forma predefinita.
Piuttosto, come sfida a ognuna di queste identificazioni, essi sono
peculiarmente astratti.15
Egli ha sempre mantenuto una posizione all’avanguardia, e pur conoscendo
perfettamente lo stile del tempo e degli abiti a “la moda”, ha rotto con questo
stile fino all'estremo limite, per esempio, nel caso degli abiti maschili, il suo
tratto esclusivo è stato senza dubbio la “gonfiezza e la sconnessione”16. Dietro
all'incongruità di taglia, dietro all’asimmetria, c’è la prova che siamo degli
esseri umani.
C’è una “compostezza coraggiosa”17 negli abiti che dicono:
“Non voglio diventare una persona che si conforma al suo status sociale, che indossa la taglia giusta, che è facile da maneggiare”.18
14 A. Vaccari – lezione sul Film di Win Wenders “Appunti di viaggio su Moda e Città” 15 Y. Yamamoto, Talking to myself, Milano, Carla Sozzani Editore, 2002 16 Y. Yamamoto, Talking to myself, Milano, Carla Sozzani Editore, 2002 17 Y. Yamamoto, Talking to myself, Milano, Carla Sozzani Editore, 2002
14
Sembra che ci sia stato un momento in cui Yohji Yamamoto cucisse vestiti che
sosteneva essere proprio al limite. Pensava che se li avesse ulteriormente
“abbattuti”, avrebbero smesso di essere vestiti. Pensava che se li avesse “rotti”
ulteriormente, sarebbero diventati poco più che stracci.19
OverSize
Il capo ideale di Yamamoto non ha taglia, e com’è già stato rilevato egli non
ami una taglia perfetta sul corpo. I capi dovrebbero essere diversi su ogni
persona: a volte troppo piccoli, spesso larghi abbastanza da lasciare che l’aria
passi fra il corpo e il tessuto, lasciando l’immaginazione libera di indovinare la
forma del corpo all’interno.
“Qual è la caratteristica del tuo Design?”
“Cappotti oversize, t-shirt oversize, giacche oversize… Tuttavia niente di veramente oversize.”20
UniForme:
Un particolare che percorre gran parte della storia di Yamamoto è la sua
dedizione alle “uniformi”. Nel corso degli anni prese come riferimento la
scuola e l’esercito; gli abiti da lavoro e persino le vesti ecclesiastiche. Una delle
ragioni dietro la fascinazione di Yamamoto per le uniformi è che sono dei
vestiti che hanno una funzione, tessuti per essa e concepiti per durare a
lungo.21 Diventano parte dell’identità di chi li veste.
Al tema abito e uniforme fu dedicata una mostra di Pitti Immagine dal titolo:
“Uniforme: Ordine e Disordine” alla quale prese parte anche Yohji
Yamamoto.
18 Y. Yamamoto, Talking to myself, Milano, Carla Sozzani Editore, 2002 19 Y. Yamamoto, Talking to myself, Milano, Carla Sozzani Editore, 2002, (intermezzo 2) 20 T. Jones, S. Rushhton, Fashion Now, Cologne, Taschen, 2005, p. 521 21 A. Giannone, P. Calefato, Manuale di Comunicazione, Sociologia e Cultura della Moda Vol.5,
Roma, Meltemi, 2007, p. 79
25
1)Primavera-Estate 2003; 2)Primavera-Estate 2003; 3)Primavera-Estate
2003; 4)Primavera-Estate 2006; 5)Primavera-Estate 2006
1 2 3
4 5
26
1)Autunno-Inverno ’03-’04; 2)Autunno-Inverno ’02-’03; 3)Autunno-Inverno ’05-
‘06
1 2 3
15
Forma dell’Abito, Forma dell’Uomo
Nella biografia dedicata a Yamamoto, “Talking to Myself”, Kiyokazu Washida
(studioso giapponese) dedica attenzione alla forma dell’abito maschile e in
parte a quello femminile. Durante il processo creativo, Yamamoto tramite la
forma degli abiti, cerca anche di definire il tipo d’uomo che dovrebbe
indossarli.
L’unico obiettivo dell’abito del fashion designer è:
“Dare uno shock alla vera realtà dell’uomo.”22
Yamamoto non intende cambiare nessuno, come non vuole cambiare la forma
e le proporzioni del corpo attraverso gli abiti che compone. Parlando
dell’uomo che indossa i suoi abiti, continua:
“Egli non deve cambiare niente (…) perché provare a diventare qualcosa è troppo vergognoso. Io non farò nessuna chirurgia. È già abbastanza essere se
stessi.” 23
Per il fashion designer giapponese è imbarazzante essere particolari nelle cose,
non c’è nulla di più vergognoso del fatto che la gente ti veda particolare.
Quando, durante il processo creativo, Yamamoto decide la forma dei suoi
abiti, ricorda l’importanza della distanza che si pone tra abito e corpo:
“La distanza deve essere cucita negli abiti da uomo”.24
Allora, a che tipo di uomo pensa Yamamoto, durante il suo processo creativo?
“Imbronciato, anche se facilmente ferito, piagnucoloso anche se in qualche modo sfrontato, delicato ma rozzo, irresponsabile e indifferente, goffo e agile,
stranamente genuino ma in qualche modo dubbioso, che è in qualche modo amabile e che ha anche un’inconfondibile aria di timido, di profondità, di
dignità che ci appare, quando guardiamo attraverso le crepe nel suo carattere, come spinta fuori dalla sua sfrontatezza.”25
22 Y. Yamamoto, Talking to myself, Milano, Carla Sozzani Editore, 2002 (Intermezzo 1) 23 Y. Yamamoto, Talking to myself, Milano, Carla Sozzani Editore, 2002 (Intermezzo 1) 24 Y. Yamamoto, Talking to myself, Milano, Carla Sozzani Editore, 2002 (Intermezzo 1) 25 Y. Yamamoto, Talking to myself, Milano, Carla Sozzani Editore, 2002 (L’uomo romantico)
16
Yamamoto rispecchia tutto ciò anche nella forma dei suoi abiti, attraverso,
crepe e asimmetrie, attraverso un uomo e una donna che sono incapaci di
essere strizzati in abiti troppo stretti.
Sono uomini e donne, quelli che indossano gli abiti di Yamamoto, che non:
“Sanno di cosa hanno sete e fingendo di essere cattivi, si convincono per il momento di essersi curati, pur rimanendo, ovviamente, sempre a brandelli.” 26
Solo quando riusciremo ad allontanarci da tutte le forme stabilite, troveremo
il vero cuore selvaggio dell’uomo e della donna moderna.
26 Y. Yamamoto, Talking to myself, Milano, Carla Sozzani Editore, 2002 (L’uomo romantico)
17
In questa seconda parte il processo creativo di Yamamoto sarà presentato
attraverso il film “Appunti di viaggio su Moda e Città”, diretto da Win
Wenders, definibile come un’intervista poetica allo stilista giapponese e datato
1989.
Moda e Cinema: Yohji Yamamoto e Win Wenders
La fine degli anni Ottanta rappresenta il momento in cui il cinema inizia a
costituire, uno degli universi più completi dell’immaginario sociale, e inizia a
rivestire, in rapporto alla moda, un ruolo forse anche più importante di quello
della fotografia, perché capace di potenziare enormemente la sensibilità
umana, attraverso segni, discorsi, e forme della percezione che mette in
azione.
Il processo creativo di Yamamoto s’intreccia con quello del regista, che a suo
modo, come voce fuori campo, è presente in tutto il film. L’identità è un tema
che percorrerà tutto il lungometraggio: sarà riflessa nel percorso creativo e
nell’immagine di moda del fashion designer giapponese e in quella
alternativamente riprodotta dalla cinepresa e dalla videocamera elettronica di
Wenders.
Identità (…) Ma cos’è l’identità?
Sapere dov’è il proprio posto, conoscere il proprio centro, il proprio valore?
Sapere chi siamo? (…)
Noi costruiamo un’immagine di noi stessi, e ci sforziamo di somigliare a quest’immagine…
E’ questa, l’identità?
Il corrispondere dell’immagine che ci costruiamo e di…
Sì, noi stessi?
Chi è noi stessi? (Wenders 1992 pag. 73-74)27
27 P. Calefato, Moda e Cinema: Macchine di senso e scritture del Corpo, Ancona, Costa & Nolan, p.
51
18
Città e Immagine
Se Wenders all’inizio del lungometraggio sostiene di essere interessato al
mondo e non alla moda, con questa frase ci introduce altri concetti
fondamentali: il progetto del film, quello della moda e quello della città.
Immagine che il regista riprende con la sua cinepresa elettronica.
Città-mondo, città-moda, città strutturata secondo un immaginario al tempo
stesso tecnologico e nostalgico, la metropoli ha in se tutto il presente,
compreso il passato che è nel presente, come dimostrano le inquadrature, dei
vecchi ponti sulla Senna, intramezzate alle immagini di Parigi di fine
millennio. 28
Moda che si sviluppa nella metropoli, che è Parigi ma anche Tokio, che
raccoglie nello stesso tempo l’indifferenziato e l’anonimo, ma anche la
multiculturalità.
Sia Wenders sia Yamamoto amano la confusione della città: perché entrambi
sanno che esiste un problema d’immagine nelle metropoli. Il riconoscersi
nella folla; l’“Essere per gli altri”29. Così sia il regista che Yamamoto, artefici di
due processi creativi, ne hanno benissimo colto il senso: entrambi trovano una
presenza simultanea di memoria e inventiva, nonostante le due cose sembrino
in contrasto, vanno invece di pari passi in completa armonia, come
rispecchiano per esempio gli abiti dello stilista.
Ritorna il tema dell’immagine, non solo nel percorso creativo del sarto/stilista,
ma nelle tecniche wenderseniane. Mentre i due sono in viaggio in auto, è
presa in considerazione Tokio. Tokio ripresa dalla cinepresa di Wenders.
Tokio come immagine reale. Tokio come immagine elettronica. Il regista
28 P. Calefato, Moda e Cinema: Macchine di senso e scritture del Corpo, Ancona, Costa & Nolan,
1999, p. 53 29 Y.Yamamoto nel film “Notebooks on City and Clothes” di Win Wenders, Tokio – Parigi, 1989
19
s’interroga sulla possibilità di come l’immagine elettronica possa sembrare e
diventare reale, e su come moda e cinema possano scambiarsi i ruoli. La moda
resterà artigianato? Esiterà mai davvero un artigianato del digitale e
dell’elettronica? La moda sta severamente diventando industria.
Disegnare il Tempo
Quando compone un abito, Yamamoto, non è mai solo: non ha la percezione
di un inizio né di una fine. Il fluttuare continuamente da uno spazio all’altro,
lo porta a confessare a Wenders, che durante il suo percorso creativo egli ha
sempre “una sensazione di un qualcosa che continua”. Anche la seconda guerra
mondiale durante la quale il fashion designer ha perso il padre, in un certo
senso non è mai finita: “Dentro di me non esiste un dopo guerra” sostiene
Yamamoto.
Per descrivere la vera essenza del suo processo prende in esame una camicia
bianca: vero esempio di anonimato forse, ma un abito difficile nella sua
composizione. Yamamoto dovrebbe spiegare, infatti, ai suoi assistenti, dove si
trova la piega più bella di quella camicia, dov’è il taglio della vera spalla.
Spiegare l’essenza di tutto il processo; la vera artigianalità della cosa.
“Altrimenti non ci si può occupare della moda”.30 Dichiara nel film il fashion
designer. Tutto questo, gli provoca immenso piacere, il concentrarsi, è
un’esperienza molto bella dice, ci si dimentica del tempo che passa.
Il tempo come processo quindi, come un continuum. Anche la fotografia
esprime il concetto di tempo. E Yamamoto trae ispirazione da quelle
fotografie di August Sander, fotografo progressista di Colonia dei primi anni
venti del 1900.
Il maestro del taglio, infatti, cerca la sua ispirazione negli abiti di lavoro di
tutte quelle centinaia di figure anonime che rispecchiano diversi gruppi
30 Y.Yamamoto nel film “Notebooks on City and Clothes” di Win Wenders, Tokio – Parigi, 1989
20
sociali: dai contadini agli artigiani, operai, studenti, professionisti, artisti e
uomini politici. Essi sono tutti chiamati a svolgere il delicato ruolo di archetipi
e testimoni della loro epoca.
Quello che sorprende da queste fotografie è l’atteggiamento dei personaggi,
così distaccato dall’istante dello scatto, come se l’espressione delle persone
così riprese fossero conformi all’idea che quelle avevano di sé, anziché
l’adozione di una posa più artefatta. Essi sembravano designati a incarnare la
figura dell’archetipo.
Yamamoto ne interpreta l’essenza ispirandosi ai vestiti, di uso professionale,
come quelli protettivi, usati per esempio nelle fabbriche dalle donne che
producevano munizioni negli anni quaranta.
“Le persone scelgono i miei vestiti come forma di affermazione”.31
Ha dichiarato il fashion designer.
Nel film sono numerose le riprese di Wenders al libro-raccolta di Sanders,
che Yamamoto conserva sin dal 1981, pieno di post-it e appunti, dal quale
inizia, o meglio “passa attraverso”, il processo creativo del fashion designer.
In quelle fotografie, Yamamoto trova uomini e donne vere, esseri umani che
non indossano abiti, ma indossano la realtà. Gli individui ritratti da Sanders,
non consumano gli abiti, potrebbero vivere tutta la vita con quei vestiti. E
Yamamoto, già nel 1989 dichiara che è proprio quello il suo scopo: creare un
cappotto che duri per sempre, creare così un amico, un parente stretto, un
abito che sia “stupendo perché fuori fa freddo, e quindi (tu) lo devi indossare in
quanto ti serve”32. Non si può, quindi, continuare a vivere senza quel cappotto.
La funzionalità dell’abito, l’utilità di quest’ultimo, sono caratteristiche
fondamentali per il percorso creativo di Yamamoto.
31 Y. Yamamoto, Talking to Myself, Milano, Carla Sozzani Editore, 2002 32 Y. Yamamoto, Talking to Myself, Milano, Carla Sozzani Editore, 2002
21
“Se delle persone potessero indossare i miei vestiti così, io ne sarei felicissimo.”33
Dichiara a quel punto il fashion designer.
Già nel 1989, a Tokio, si era abituati a consumare tutto, si era convinti di poter
consumare tutto.
“Pensano addirittura di poter consumare la propria vita.”34
Conclude Yamamoto. Senza capire il significato degli oggetti.
Le foto di Sanders permettono così di risalire a un’epoca in cui si era
circondati di cose semplici, in cui si dava credito a un cappotto che aveva un
valore “eterno”. Se si vuole capire davvero che cosa sia un abito, bisognerebbe
aspettare dieci anni prima di usarlo, poiché il tessuto durante quest’intervallo
è “ancora vivo”: aspettare dunque, non significa trovare l’essenza di quel
tessuto, prima di utilizzarlo?
“Io voglio disegnare il tempo.” 35
Dichiara Yamamoto. Il tempo del suo processo creativo, il tempo che
indossano le persone nelle fotografie di August Sanders, il tempo che
trascorre tra materiali, forme e abiti. Il tempo che quindi sarà indossato, e che
farà dell’indossatore una forma di affermazione, il tempo che intercorre tra le
numerose prove che il fashion designer fa durante tutte le sue creazioni. Il
tempo che è racchiuso nel suo portaspilli che a me sembra quasi un orologio.
Lo Stile
Lo stile fa parte di ogni processo creativo. Definibile, o no, esso entra a far
parte di una persona, nel momento in cui essa se ne appropria, nel momento
in cui ne è caratterizzato. Nel film, Yamamoto, non da una definizione chiara
di stile, ci propone un semplice ed esplicito paragone: dichiara a Wenders di
33 Y.Yamamoto nel film “Notebooks on City and Clothes” di Win Wenders, Tokio – Parigi, 1989 34 Y.Yamamoto nel film “Notebooks on City and Clothes” di Win Wenders, Tokio – Parigi, 1989 35 Y.Yamamoto nel film “Notebooks on City and Clothes” di Win Wenders, Tokio – Parigi, 1989
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quanto lo stile possa diventare un problema. Di come possa trasformarsi in
una prigione, in una stanza di specchi, in una specie di trappola, in cui ci si
imita a vicenda.
Anche Yamamoto sostiene di esserci caduto, senza rivelarci quando. Se n’è
liberato solo nel momento in cui “è diventato il guardiano della sua prigione
anziché rimanerne prigioniero”.36. Ha, infatti, imparato ad accettare il suo stile.
La sua prigione si è aperta, e gli ha permesso di vivere in una grande libertà.
Se si fa un passo indietro, ci si accorge, infatti, di quando, già all’inizio del
film, egli avesse dichiarato l’importanza non del singolo gesto, ma del tutto;
questo per ripresentare il concetto che anche lo stile non si trova copiando
l’altro (designers) nello schizzo, nel tessuto, o nel taglio. L’essenza della cosa
non può essere riprodotta. Il sarto non può essere copiato.
A proposito, di stile, nel film ricompare il tema fondamentale di asimmetria:
una “sensazione preziosa”. Ogni sua creazione è il frutto di quest’“equilibrio
asimmetrico”. Definizione paradossale ma che invece si esplica nelle battute
successive. Il simmetrico non rispecchia il sudore delle mani di un essere
umano. Dietro ciò che è simmetrico, non si cela un uomo. L’uomo tenderà a
distruggere tutto ciò che è perfetto.
Attraverso gli abiti di Yamamoto l’essere umano riuscirà ad accettare meglio il
proprio corpo, la propria figura, la propria storia, e in definitiva se stesso.
Come essere imperfetto.
Trovare l’Essenza della Cosa nel Processo
Dalla Firma al Logo
Il processo creativo di Yamamoto, trova un punto focale anche nel momento
in cui dalla sua firma si passa al suo logo. Nel film, questo è quanto più
36 Win Wenders nel film “Notebooks on City and Clothes” di Win Wenders, Tokio – Parigi, 1989
23
evidente, nelle riprese dei ripetuti tentativi di apporre la sua firma sull’insegna
del nuovo negozio di Tokio. Una prova continua, che non accontenta il
fashion designer né al primo, né al secondo, né al terzo tentativo: la sua
assistente, poi definita “traduttrice e angelo custode”, continua a cancellare i
suoi continui tentativi.
Quando la firma diventa marchio di fabbrica è come se ogni volta con quel
gesto si voglia riprodurre, dire e mostrare tutto dall’inizio.
E’ un processo lungo, ma solo così il suo processo creativo riuscirà a mostrarsi
anche nella firma, a non esaurirsi in un semplice marchio.
Egli firma con le sue stesse mani e un semplice gesso la sua boutique. È
proprio questa l’essenza, che poi la fissa con lo spray; il quale non toglie nulla
all’artigianalità del suo processo creativo.
Il Puntaspilli
Il processo continua, e continua tutte le volte che Yamamoto prova addosso a
una modella un abito. Nella scena del film è come se scrivesse addosso alla
donna, tagliando, allontanandosi, e avvicinandosi, misurando, senza mai
staccare lo sguardo da lei.
La prova dell’abito su misura, è per Yamamoto sempre un modo per andare
alla ricerca di un gesto pulito ed essenziale, se mi è permesso il termine,
formalmente “puro”.
Gli abiti di Yamamoto sono forme pure, anche perché come sostiene Barthes,
ci riportano all’haiku giapponese, e riescono a essere descritti, infatti, con la
medesima definizione:
“Sono eventi brevi che tutt’a un tratto trovano la loro forma esatta”. (Barthes 1970a, pag. 88)37.
37 P. Calefato, Moda e Cinema: Macchine di senso e scritture del Corpo, Ancona, Costa & Nolan,
1999, p. 55
27
28
30
Il processo creativo di Yohji Yamamoto: Biografia
del designer
1943 Nasce a Tokio. La madre Fumi Yamamoto è una vedova di guerra. Lavora
sedici ore al giorno come sarta per pagare il mantenimento e l’educazione del
figlio.
1966 Studia legge all’università di Keio ed è premiato per il suo diploma finale.
1969 Si diploma alla prestigiosa scuola di moda giapponese Bunka Fashion College.
1971 Apre la sua prima casa di moda, la Y’s Company Ltd.
1972 Presenta la sua collezione Y’s.
1977 Dopo aver prodotto per alcuni anni molte collezioni ogni stagione, decide di
adottare la pratica di altri importanti designer giapponesi e di partecipare alle
sfilate con loro a Tokio.
1979 Nasce la prima collezione “Y’s for men”.
1981 Il momento decisivo della sua carriera arriva quando il suo lavoro è visto a
Parigi, durante la settimana della moda dedicato alle collezioni del prè-à-
porter di stilisti e designers. Sfila anche a New York.
1982 Yohji Yamamoto riceve il premio del ventiseiesimo Fashion Editors Club
Award a Tokio.
1984
31
Fonda la Yohji Yamamoto Inc. e lancia la prima linea Yohji Yamamoto pour
homme, quindi apre anche una boutique a Parigi.
1988 Il centro di creazione industriale del Museo di Arte Moderna George
Pompidou commissiona al regista Win Wenders di fare un film su Yohji
Yamamoto. Il film che ne risulta è un lungometraggio girato in 35 mm a
colori, intitolato “Appunti di viaggio su moda e città”.
1990 Gli viene commissionato il disegno dei costumi di Madame Butterfly di
Puccini, per una produzione dell’opera di Lione.
1991 Riceve il premio del 35 Fashion Editors Club Awards a Tokio.
1993 Gli sono commissionati i costumi per il “Tristano e Isotta” di Wagner, per la
produzione di Muller.
1994 Firma i diritti per Patou, una linea di diritti. Il Ministero della Cultura
Francese gli conferisce il titolo di Cavaliere delle Arti e delle Lettere.
1995 Lancio di Yohji, il primo profumo del designer, creato e adottato in marmo
rosso in Belgio da Jean Patou.
1997 Riceve il 4° premio del Fashion Editors Club Awards di Tokio, e anche il
Night of Stars Awards from the Fashion Group di New York. Apre un nuovo
negozio a Londra.
1998 Premio “Arte e Moda” al Pitti Immagine di Firenze. Secondo profumo da
donna Yohji Essential.
1999
32
Riceve il premio The International Award from the Council Designers of
America di New York.
Disegna i costumi per “Life” di Ryuchi Sakamoto. Debutta il primo profumo
per uomo Yohji homme come la sua prima boutique autonoma a New York
nel quartiere di Soho.
2000 È esposto un suo abito da sposa al Victoria & Albert Museum di Londra per la
mostra “Radical Fashion” e inizia una collaborazione con il regista Takeshi
Kitano per il quale creerà costumi per numerosi film. A Parigi sempre in
quell’anno, propone una”elaborata celebrazione dell’amore” concretizzatasi
nella linea chiamata “ Womans’s Wear daily” (29 febbraio 2000). Questa
collezione comprendeva cappotti, vestiti di velluto drappeggiati e tagliati con
inventiva.
2002 Pubblica “Talking to Myself” (Carla Sozzani Editore). È nominato come
direttore creativo di Y-3, divisione sportiva di Adidas Sport Style. Ottiene un
successo strepitoso non solo con le scarpe ma anche con le felpe, le tute e tutti
i capi sportivi dimostrando come un grande stilista può avere un successo
planetario uscendo dalle passerelle del prèt-a-porter.
Premiato con la medaglia di bronzo per il miglior libro del mondo, della
Leipzig Stiftung Bunchkunst, per “Talking to Myself”.
2003 Mostra “Can I help you?” presso l’Hara Museum of Contemporary Art di
Tokio. Debutta nei circa 290 punti vendita della catena giapponese, una
catena di abbigliamento che lo stilista ha disegnato per i negozi Muji. Il tipico
Yohji style viene espresso in una serie di costumi per uno show di Elton Jhon
chiamato “ The Red Piano” a Las Vegas. In quest’occasione disegna oltre a
150 maglie e abiti decostruiti per i cantanti. Tutte le maglie sono come seta, ed
Elton in un intervista al giornale GQ Magazine dichiara: “ Tutto quello che è
33
stato fatto prima di ora è brutto e sbagliato”. Nel 2007 suona a Tokio e dedica
il suo concerto al suo amico Yohji, il genio.
2004 È premiato dall’Ordine della Cultura Giapponese.
2005 Prime mostre internazionali: “Juste des Vetements”a Parigi. È fondata la
rivista belga A-Magazine Yamamoto come art-director.
2005/2006 “Corrispondenze” Gallerie d’Arte Moderna a Palazzo Pitti, Firenze.
2006 Mostra ad Anversa intitolata “Dream Shop” dove il pubblico poteva
addirittura provare gli abiti in mostra.
2007 È annunciata la collaborazione tra Yamamoto e lo storico brand Dr Martens,
che si concretizzerà in una collezione di cinque modelli, per l’autunno/inverno
2007-08.Nel giugno 2007 Y’s Mandarina, ovvero una collezione di pezzi
bivalenti, frutto di una fusione avveniristica di design, elementi funzionali e
couture. Le borse da corriere da donna prendono la forma da grembiuli,
canottiere e minigonne in satin rosso o beige. Mentre gli zaini da uomo si
allargano per diventare giacche da pioggia o antivento.
2008 Dopo Y-3, Yamamoto, lancia Coming Soon realizzata in partnership con
l’italiana Sinv Spa. Linea di abiti e accessori casual ultra-sofisisticati e dal
prezzo notevolmente accessibile. La novità sta nel fatto che il nome dello
stilista non è menzionato nel brand, perché pensato per un consumatore più
interessato allo stile e alla qualità del prodotto che unicamente al marchio.
2009
34
Yohji Yamamoto collabora con Salvatore Ferragamo alla realizzazione di una
nuova linea di calzature. I modelli proposti comprendono stivaletti dalle linee
pulite e scarpe allacciate caratterizzate da tomaie in pelle elaborate a formare
design di fantasia e offerte in tinte bicolori. La piccola raccolta è in vendita da
luglio presso le boutique Yohji Yamamoto e Salvatore Ferragamo.
2010
Dopo due stagioni di assenza dalle passerelle parigine, l'uomo firmato Yohji
Yamamoto va a sfilare a Tokyo. La collezione Yohji Yamamoto homme, al
momento presentata soltanto in showroom esclusivamente su appuntamento,
tornerà, infatti, sotto i riflettori il prossimo 1° aprile.
Sabato 20 marzo è stato inaugurato il nuovo store Y-3 all'interno dell'Art Mall K11 nel quartiere Tsimshatsui. Il pubblico ha osservato le celebrità Yohji Yamamoto, Andy Lau e Du Juan, che, con una folla di giornalisti locali e di fan entusiasti, hanno brindato al nuovo punto vendita Y-3 di Hong Kong. Nel corso di un evento che ha visto la partecipazione di numerose stelle, Y-3 e il suo Direttore Creativo, Yohji Yamamoto, hanno lanciato la nuova collezione uomo e donna per la Primavera-Estate 2010, insieme alla nuova campagna di comunicazione.
35
Il processo creativo di Yohji Yamamoto :
Bibliografia
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A. Mottola Molfino, L’ Androgino, Novara, De Agostini, 1992, pp.64-83.
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Milano : Costa & Nolan, 1999
Durland Spilker Kaye, Sharon Sadako Takeda (a cura di), Contromoda. La
moda contemporanea della collezione permanente del Los Angeles County Museum of
Art, Milano, Skira, 2007
Fiorani Eleonora, Abitare il corpo: la moda, Milano, Lupetti, 2004
Frisa Maria Luisa, Stefano Tonchi, Excess: Moda e underground negli anni 80,
Milano, Charta, 2004
Giannone Antonella, Calefato Patrizia, Manuale di Comunicazione, Sociologia e
Cultura della moda: Vol.5, Roma, Meltemi, 2007
Mithchell Louise, The cutting edge: Fashion from Japan, Sidney, Powerhouse
Publishing, 2005
Orsi Landini Roberta, L’Abito per il corpo, il Corpo per l’abito: Islam e Occidente a
confronto, Firenze, Artificio, 1998
Poincarè Jules-Henri, Scienza e Metodo, Einaudi, 1997
Vaccari Alessandra, “Glossario”, in Frisa Maria Luisa, Stefano Tonchi, Excess:
Moda e underground negli anni 80, Milano, Charta, 2004, pp.441-451
Yohji Yamamoto, Talking to Myself, Milano, Carla Sozzani Editore, 2002
Sitografia
http://www.ablogcuratedby.com/yohjiyamamoto
36
http://www.adidas.com/campaigns/y-3/
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http://www.centroarte.com/Sander%20August.htm
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http://www.wgsn.com/
http://www.yohjiyamamoto.co.jp/