IL PROBLEMA DELL’AUTORE · il punto è: fosse Shakespeare o fosse Florio, questo cambia qualcosa...

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1 IL PROBLEMA DELL’AUTORE Materiali del modulo CRITICA TEORIA E COMPARATISTICA LETTERARIA I B a cura di Francesco Muzzioli

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IL PROBLEMA DELL’AUTORE

Materiali del modulo CRITICA TEORIA E COMPARATISTICA LETTERARIA I B

a cura di Francesco Muzzioli

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INTRODUZIONE

IL PRIMO ATTORE Ci vuole l’autore!

IL DOTTOR HINKFUSS No, l’autore no!

PIRANDELLO

Ogni testo ha un autore. Questa affermazione sembrerebbe degna di Monsieur de La Palice, reso famoso dal suo epitaffio (se non fosse morto sarebbe

ancora in vita). Insomma, è ovvio che il testo sia stato scritto da qualcuno. Possiamo non sapere chi sia stato, ma, a parte questo malaugurato però

raro caso, non sembrerebbero esserci altri particolari problemi. Al massimo, il “problema dell’autore” potrebbe essere interpretato nel senso soggettivo

del genitivo perché, sì, indubbiamente l’autore ha un problema, anzi più d’uno: deve decidere cosa scrivere e come scriverlo (si veda quell’immagine

tormentata che ho messo ironicamente nella copertina) e poi a chi chiedere di pubblicarlo; e quest’ultimo problema si trasforma spesso in una vera e

propria odissea e c’è chi alla fine si è suicidato. Ma invece qui il “problema dell’autore” vuole avere il senso di un genitivo oggettivo: là dove parrebbe

l’ovvietà più ovvia che ci sia, la figura dell’autore rappresenta un problema per il dibattito critico-teorico. Come è possibile e per quali vie si arriva a

un simile ribaltamento dello scontato nel problematico?

Cominciamo da quel piccolo “buco” che si scopriva già nella tela inamidata dell’ovvio: il testo può essere anonimo. Può essere anonimo perché il

tempo ha cancellato il nome dell’autore ma anche per volontà del medesimo (vedi il caso di Elena Ferrante, sulla identità della quale si sono fatte

diverse supposizioni, al momento in cui scrivo non confermate). Ora, è vero che i filologi o, nel caso della Ferrante, i giornalisti fanno di tutto per

risolvere il mistero, tuttavia il testo anonimo (o con pseudonimo non risolto) ci induce a riflettere su una verità: noi siamo in grado di leggere e di

parlare di un testo di cui non sappiamo chi è l’autore. Ciò significa che, se pure un autore ci deve essere stato, non è indispensabile conoscerlo e il

testo può fare a meno di lui o di lei. C’è anche un'altra storia istruttiva in proposito, quella della identità di Shakespeare: ci sono varie attribuzioni

della sua opera, secondo le quali il capocomico William sarebbe stato solo un prestanome in un’epoca in cui ai personaggi di riguardo non conveniva

apparire come autori di commedie. Tali ipotesi sono state rigettate anche per motivi di orgoglio nazionale: poiché, per esempio, Lamberto Tassinari

sostiene che il vero autore sia John Florio, di padre italiano, ecco che accettarlo toglierebbe all’Inghilterra la metà del suo classico più riverito… Ma

il punto è: fosse Shakespeare o fosse Florio, questo cambia qualcosa alla sua opera? Rispondere di sì o di no è cosa non di poco conto, vuol dire

appunto entrare nel problema dell’importanza del riferimento del testo al suo autore. Potrebbe anche cambiare tutto, se stiamo al racconto di Borges

Pierre Menard autore del Chisciotte: Borges immagina un fantomatico scrittore francese che si mette in testa di riscrivere il celebre romanzo

cervantino, o più precisamente «la sua ambizione mirabile era di produrre alcune pagine che coincidessero – parola per parola e riga per riga – con

quelle di Miguel de Cervantes»; l’autore commenta che, paradossalmente, i due testi sono identici, ma, per via del diverso contesto degli autori, il loro

senso diventa completamente diverso. Vediamo il passo cruciale:

Il raffronto tra la pagina dí Cervantes e quella di Menard è senz’altro rivelatore. Il primo, per esempio, scrisse (Don Chisciotte, parte I, capitolo IX):

... la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire.

Scritta nel secolo XVII, scritta dall’ingenio lego Cervantes, quest’enumerazione è un mero elogio retorico della storia. Menard, per contro, scrive:

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... la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire.

La storia, madre della verità; l’idea è meravigliosa. Menard, contemporaneo di William James, non vede nella storia l’indagine della realtà, ma la sua origine.

La verità storica, per lui, non è ciò che avvenne, ma ciò che noi giudichiamo che avvenne. Le clausole finali – esempio e notizia del presente, avviso

dell’avvenire – sono sfacciatamente pragmatiche.

Altrettanto vivido il contrasto degli stili. Lo stile arcaizzante di Menard resta straniero, dopo tutto, e non senza qualche affettazione. Non così quello del

precursore, che maneggia con disinvoltura lo spagnolo corrente della propria epoca. (Finzioni, p. 43)

Per Borges, dunque, sia pure nell’ironia complessiva, conoscere chi sia l’autore è essenziale. Ma basterebbe anche di meno, senza scomodare nessun

grande asutore; mi fu raccontato lo scherzo comminato a spese di alcuni critici che partecipavano a un dibattito in una scuola e uno studente chiese

un parere su un suo scritto: dopo che essi lo ebbero incoraggiato, tuttavia mostrandogli le numerose ingenuità, lo studente rivelò che si trattava invece

di uno scritto poco noto di Montale. Lo stesso si sarebbe potuto fare al contrario, presentando come un Montale minore un testo preparato ad hoc;

insomma, vuol dire che l’autore cambia il valore e il senso del testo?

Ora, per l’appunto, il senso del testo rimane appeso a un interrogativo che riguarda l’intenzione dell’autore: “cosa voleva dire?”. Se qualcuno ha scritto

qualcosa è perché aveva un qualche scopo. Risalire all’intenzionalità è per alcuni il percorso corretto della critica. Solo che in questo caso il critico

non sa niente di più di quanto l’autore non sapesse; e il problema è che tale intenzione originaria non sempre è raggiungibile e spesso riguarda solo

alcuni aspetti (per esempio, di fronte a un sonetto, siamo sicuri che l’autore aveva intenzione di scrivere un sonetto, ma non possiamo attribuire alla

sua coscienza tutti i risvolti del testo, comprese le eventuali ambiguità). Una facile obiezione al principio dell’intenzione autoriale è che allora non

potremmo analizzare i testi di cui non abbiamo notizie in proposito e neppure nel caso in cui lo stesso autore si dichiarasse inidoneo a darle: molto

spesso, in incontri pubblici, ho sentito autori che alla domanda di cosa avessero voluto dire, rispondevano piccati che avevano voluto dire esattamente

né più né meno di quello che avevano detto… Ed è chiaro, poi, che la volontà non garantisce del risultato e al critico dovrebbe interessare il secondo

e non la prima. Cercando di mettere ordine e di risolvere l’accanita querelle, Antoine Compagnon, nel suo Il demone della teoria, ha provato a

distinguere tra intenzionalità e premeditazione: non si può pensare al testo come calcolato nei minimi dettagli, ma come una realizzazione avviata da

una spinta iniziale che si muove cercando di raggiungere il suo obiettivo, ma senza sicure garanzie. Compagnon propone una analogia sportiva:

L’intenzione d’autore non si riduce quindi a un progetto o a una premeditazione pienamente cosciente (…). Scrivere, se il paragone è concesso, non è come

giocare a scacchi, attività in cui tutte le mosse sono calcolate; è piuttosto come giocare a tennis, uno sport in cui non si possono prevedere i movimenti nel

dettaglio, ma nel quale l’intenzione generale non è meno ferma: mandare la palla dall’altra parte della rete in modo da rendere il piú difficile possibile

all’avversario ribatterla. L’intenzione d’autore non implica una conoscenza di tutti i dettagli realizzati dalla scrittura, né costituisce un evento separato che

preceda o accompagni la prestazione, secondo il fallace dualismo di pensiero e linguaggio. Avere intenzione di fare qualcosa – ribattere la palla dall’altra

parte della rete o comporre versi –, non vuol dire fare coscientemente o progettare. (94)

Come suggerisce ancora Compagnon (nel paragrafo intitolato appunto La presunzione di intenzionalità) l’intenzione dell’autore andrebbe considerata

piuttosto come presupposizione a posteriori. Il testo viene verso di noi, chiede di essere letto e assunto e noi lo accogliamo come veicolo di una

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intenzione umana in forma di linguaggio. Ma in questo caso il problema dell’intenzione appare rovesciato: non si tratta più di interrogarsi sulle

motivazioni della genesi (perché lo ha scritto?), ma sulle conseguenze degli effetti (cosa vuole da me? di cosa mi vuole convincere?).

È vero che, in molti casi, i testi sono corredati di un ampio corredo di sostegni: possiamo disporre di dichiarazioni di pugno dell’autore, di suoi scritti

teorici e critici che contengono le sue idee sulla letteratura, e possiamo essere in grado di confrontare il testo con la sua poetica, sebbene la poetica

esplicita non possa dispensarci dalla lettura e dall’analisi, anzi possa essere un ostacolo ad una critica approfondita. Nel caso di avanguardie come il

Futurismo, spesso la critica si è fermata ai proclami dei manifesti, dispensandosi dal lavoro (più difficile) di verifica in atto dei procedimenti paroliberi.

La poetica non è un puro e semplice dato: va ricostruita nel suo rapporto dialettico con la poesia e quindi con una sorta di “poetica implicita” desunta

dal testo. Il massimo studioso in materia, Walter Binni, utilizzava una nozione di poetica assai lontana da sfumature psicologiche o di stato d’animo;

in Poetica, critica e storia letteraria scriveva:

sempre meglio la poetica mi si è chiarita (fra ripensamento ed esercizio operativo) non come elemento intellettualistico introdotto dall’esterno a infrangere

la forza della poesia, non come una stampella per fantasie difettive, ma come attiva coscienza che il poeta ha, e conquista, della sua forza poetica (essa stessa

in continuo fieri) e del suo impiego costruttivo nella prefigurazione e nell’attuazione delle opere cui tende, come atto di coscienza attiva e operativa dell’agire

poetico, della sua peculiarità e delle sue generali implicazioni, come momento concreto di confluenza, nel poeta, fra la presa di coscienza dei propri problemi

vitali e della propria esperienza totale, come disposizione a tradurli in direzione artistica, come Kunstwollen precisato e individuato, come rigore

dell’elaborazione inseparabile dalla mèta della sua destinazione.

Potrà a volte trattarsi di un’intenzione irrealizzata, nel senso delle buone intenzioni di cui è lastricata la via dell’inferno e della cattiva poesia, ma il vero

poeta ha sempre una forte coscienza e volontà poetica, essa stessa tanto più ricca e articolata e in sviluppo come la sua forza poetica mai generica, ma concreta

e legata a momenti e fasi del suo sviluppo personale-storico. (p. 28)

Come si vede, la poetica non è soltanto riflessione teorica (Binni vi include anche i “problemi vitali” e l’“esperienza totale”), però indubbiamente è

arte intellettualmente filtrata e indice di una consapevolezza riguardo al proprio fare a alla sua collocazione tra le altre direzioni in campo; sicché

quella “forte coscienza e volontà poetica” non sono un dato comune e per forza di cose attribuibile a un qualunque autore, bensì una caratteristica che

valuterà positivamente un critico (come io sono) che apprezza l’autocoscienza, e valuterà invece meno positivamente un critico che ritiene la poesia

un’ispirazione imperscrutabile alla quale il poeta dovrebbe abbandonarsi senza punto riflettere.

Il problema dell’autore si complica. Anche perché proprio lui, quando non è l’ingenuo scrivente estensore di memorie autobiografiche, ma uno scrittore

degno del nome, si diverte spesso e volentieri a nascondersi dietro non una, ma più mascherature. Non gli basta la finzione, ma vuole la finzione nella

finzione, con in fondo, perché no?, la verità nella finzione della finzione. Bisogna stare sempre molto attenti all’equazione protagonista=autore e a

quella narratore=autore. Zeno non è Svevo (e per giunta il titolo La coscienza di Zeno potrebbe anche significare, ironicamente, che Zeno non ha

nessuna coscienza…); e Svevo stesso è lo pseudonimo inventato da Ettore Schmitz, quindi non proprio coincidente con l’essere umano che scrive.

Mentre il senso comune, ancor oggi resistentissimo (e rilanciato dai nuovi social network) pensa alla scrittura come una forma di narcisismo esibito,

in cui l’io si mette in bella mostra e si afferma mettendo in pubblico la propria identità “autentica”, la letteratura più interessante ha sempre visto

l’autore sparire in un gioco di specchi. E non si tratta solo dell’espediente del manoscritto ritrovato! Valga per tutti il delizioso volteggio di Proust

attorno al proprio vero nome, nel volume al centro di Alla ricerca del tempo perduto intitolato La prigioniera: «ritrovata la parola, Albertine diceva:

“Mio”, oppure “Mio caro”, seguiti, l’uno e l’altro, dal mio nome di battesimo, che – se si attribuisse al narratore lo stesso nome dell’autore di questo

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libro – suonerebbe “Mio Marcel”, “Mio caro Marcel”» (vol. III, pp. 461-2). Si badi che lo sterminato romanzo proustiano è un lavoro di recupero del

ricordo da parte di un io narrante e siamo spontaneamente portati a identificarlo con l’autore: senonché ecco che nel bel mezzo e quando meno ce lo

si aspetta questo nome (che era sempre stato tenuto rigorosamente in serbo) esce fuori ma per essere immediatamente posto sul filo dell’ipoteticità;

quel “se” rischia far crollare con una minima falla tutto l’edificio della interpretazione autobiografica. E magistrale è anche il brano di Borges, ancora

lui, esperto in ribaltanti sorprese, dove l’io si smarca esattamente dalla figura dell’autore, come se questo fosse una costruzione che rischia di fagocitare

il suo stesso costruttore. Dunque Borges e io (compreso nella raccolta L’artefice):

All’altro, a Borges, accadono le cose. Io cammino per Buenos Aires e indugio, forse ormai meccanicamente, a guardare l’arco d’un androne e la porta che

dà a un cortile; di Borges ho notizie attraverso la posta e vedo il suo nome in una terna di professori o in un dizionario biografico. Mi piacciono gli orologi a

sabbia, le mappe, la stampa del secolo XVIII, il sapore del caffè e la prosa di Stevenson; l’altro condivide queste preferenze, ma in un modo vanitoso che le

muta negli attributi d’un attore. Sarebbe esagerato affermare che la nostra relazione è di ostilità; io vivo, mi lascio vivere, perché Borges possa tramare la sua

letteratura, e questa mi giustifica. Non ho difficoltà a riconoscere che ha dato vita ad alcune pagine valide, ma quelle pagine non possono salvarmi, forse

perché ciò che v’è di buono non appartiene a nessuno, neppure all’altro, ma al linguaggio o alla tradizione. D’altronde, io son destinato a perdermi,

definitivamente, e solo qualche istante mio potrà sopravvivere nell’altro. A poco a poco vado cedendogli tutto, sebbene conosca la sua perversa abitudine di

falsificare e ingigantire. Spinoza intese che tutte le cose vogliono perseverare nel loro essere; la pietra eternamente vuol essere pietra e la tigre, tigre. Io

resterò in Borges, non in me (seppure sono qualcuno), ma mi riconosco meno nei suoi libri che in molti altri e nell’elaborato arpeggio d’una chitarra. Anni

addietro cercai di disfarmi di lui e passai dalle mitologie dei sobborghi ai giuochi col tempo e con l’infinito, ma codesti giuochi ormai sono di Borges e dovrò

ideare altre cose. Così la mia vita è una fuga e io perdo ogni cosa e tutto è dell’oblio, o dell’altro.

Non so chi dei due scrive questa pagina. (Tutte le opere, vo. 1, p. 1169)

Borges coglie con grande profondità, e anche con crudele autoironia, il paradosso dell’autore. L’autore diventa un portavoce dell’essere umano, ma è

una figura dotata di una sua autonomia, che finisce per non rappresentare adeguatamente la persona (si noti l’atteggiarsi, la retorica sociale dell’autore):

e, per giunta, di esso non può parlare perché, come indica bene l’ultima frase, chi ne parla diventerebbe automaticamente un autore!

Paradossi, certo, ma istruttivi, i casi in cui l’autore parla di se stesso come altro da sé, tra i quali davvero ingegnoso è l’espediente del narratore

sudafricano J. M. Coetzee in Tempo d’estate, dove immagina che Coetzee sia morto e che uno studioso vada alla ricerca dei dati per scriverne la

biografia – ma, visto che il dato di partenza è falso (Coetzee è vivo ed è l’autore del libro!), anche tutto il resto potrebbe esserlo.

Ma la migliore obiezione all’intenzione dell’autore viene dai casi in cui l’autore è plurale; sono rari (la letteratura non è il cinema, in cui l’autore

singolo è impensabile) però ci sono: e allora come è concepibile una “intenzione collettiva” (cioè negoziata, concordata)? Non cade l’idea

dell’espressione individuale? Per altro, sempre più si sente parlare, nell’industria narrativa, di editing, quindi di interventi allotri anche pesanti, sicché

non siamo più certi che sia tutta farina del sacco del firmatario del volume. Nello stesso tempo, all’industria narrativa l’autore serve come personaggio

e così ecco che – cosa assai frequente nel nostro attuale contraddittorio sistema di vita – per un verso l’autore viene infirmato e per l’altro verso

ricostituito come una sorta di feticcio. Un discorso a parte andrebbe fatto per quanto riguarda le avanguardie novecentesche: in esse si fa strada l’azione

di gruppo, tendenzialmente il testo anonimo e collettivo. È vero che un certo tipo di testo illogico (diciamo, lo stile delirante) è ascrivibile a un autore

che compie un’esperienza estrema, ma, appunto, andando come dire fuori di sé… Mentre, dal lato dello sperimentalismo, ad esempio nell’esito dei

testi costruiti di citazioni, nel senso corrente l’autore scompare, in quanto non dice niente di se stesso e della propria vita, ma utilizza materiali

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preesistenti: tuttavia è evidente che il ruolo dell’autore si rafforza moltissimo e così la sua intenzione (talvolta resa manifesta – come accennavo prima

– nei manifesti); anche quando l’autore non si esprime, rimane come soggetto che guida l’operatività, un autore-operatore. Anche nel caso estremo

del testo fatto da una macchina, occorre pur sempre qualcuno che la progetti. Già in anticipo sulla diffusione dei computer nel 1967 il nostro Italo

Calvino si interrogava su questo prossimo futuro nel suo saggio Cibernetica e fantasmi. Aduso alle collaborazioni con i francesi dell’Oulipo

(sperimentatori legati a procedimenti combinatori regolati), Calvino non si scandalizzava del rinvio dell’autore in cabina di regìa; in fondo, egli nota

provocatoriamente, «lo scrittore quale è stato finora, già è macchina scrivente». Piuttosto, a suo parere il problema è un altro, cioè quale testo la

macchina avrebbe prodotto, perché c’è il rischio del ribadimento della norma:

Stabiliti questi procedimenti, affidato a un computer il compito di compiere queste operazioni, avremo la macchina capace di sostituire il poeta e lo scrittore?

Cosí come abbiamo già macchine che leggono, macchine che eseguono un'analisi linguistica dei testi letterari, macchine che traducono, macchine che

riassumono, cosí avremo macchine capaci di ideare e comporre poesie e romanzi? (…) in questo momento non penso a una macchina capace solo di una

produzione letteraria diciamo cosí di serie, già meccanica di per se stessa; penso a una macchina scrivente che metta in gioco sulla pagina tutti quegli elementi

che siamo soliti considerare i piú gelosi attributi dell'intimità psicologica, dell'esperienza vissuta, dell'imprevedibilità degli scatti d'umore, i sussulti e gli

strazi e le illuminazioni interiori. Che cosa sono questi se non altrettanti campi linguistici, di cui possiamo benissimo arrivare a stabilire lessico grammatica

sintassi e proprietà permutative?

Quale sarebbe lo stile d'un automa letterario? Penso che la sua vera vocazione sarebbe il classicismo: il banco di prova d'una macchina poetico-elettronica

sarà la produzione di opere tradizionali, di poesie con forme metriche chiuse, di romanzi con tutte le regole. (Una pietra sopra, p. 170)

La macchina sarà accettabile solo quando sarà in grado di soluzioni innovative e di combinazioni coerentemente abnormi:

La vera macchina letteraria sarà quella che sentirà essa stessa il bisogno di produrre disordine ma come reazione a una sua precedente produzione di ordine,

la macchina che produrrà avanguardia per sbloccare i propri circuiti intasati da una troppo lunga produzione di classicismo. Infatti, dato che gli sviluppi della

cibernetica vertono sulle macchine capaci di apprendere, di cambiare il proprio programma, di sviluppare la propria sensibilità e i propri bisogni, nulla ci

vieta di prevedere una macchina letteraria che a un certo punto senta l’insoddisfazione del proprio tradizionalismo e si metta a proporre nuovi modi d’intendere

la scrittura, e a sconvolgere completamente i propri codici. Per far contenti i critici che ricercano le omologie tra fatti letterari e fatti storici sociologici

economici, la macchina potrebbe collegare i propri cambiamenti di stile alle variazioni di determinati indici statistici della produzione, del reddito, delle

spese militari, della distribuzione dei poteri decisionali. Sarà quella, la letteratura che corrisponde perfettamente a un’ipotesi teorica, cioè finalmente la

letteratura. (ivi, p. 171)

Sarebbe quindi l’autore una “funzione” necessaria? Un altro caso istruttivo al riguardo è quello di Fernando Pessoa e dei suoi numerosi eteronimi: in

pratica Pessoa si costruisce diversi profili autoriali (diversi stili) e dà a ciascuno un nome diverso e anche una biografia inventata: classico con i panni

di Reis, avanguardista con quelli di De Campos, in quelli di Caeiro si fa precursore di se stesso, con il suo vero nome (quello che si dice l’ortonimo)

non scrive altro che parti residuali della sua opera. La separazione tra persona fisica e autore non potrebbe essere più forte, ma certo l’intenzione non

è abolita: anzi, il caso Pessoa dimostra che non è l’autore che ha un’intenzione, ma l’intenzione che ha (e fa) un autore.

In quanto funzione del testo, l’autore è ineliminabile. In una sua frase paradossale, Calvino ha scritto: «Come scriverei bene se non ci fossi!» (Se una

notte d’inverno un viaggiatore, p. 171); anche considerato come un ingombro, l’autore resiste e permane anche nei tentativi più impersonali che

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possiamo immaginare. E questo vale anche per il punto di vista critico: possiamo giustamente arginare la riduzione della critica a biografia dell’autore,

tuttavia il riferimento all’autore, quella metonimia che ci induce a pronunciare il suo nome al posto della sua opera, è indispensabile per i disegni

storici, così come per l’indicazione di canoni e anticanoni. Proprio tra i critici-teorici americani alla moda, dopo gli attacchi di Wimsatt alla intentional

fallacy, le posizioni si sono nettamente divaricate: per un Harold Bloom che ha costruito il Canone occidentale (1994) come una scelta dei migliori

autori e una valutazione gerarchica dei medesimi, il decostruzionismo di Paul de Man smonta le contraddizioni testuali attribuendo all’autore una

cecità che «è il correlativo necessario della natura retorica del linguaggio letterario» (Cecità e visione, p. 176); per arrivare a Stanley Fish che

attribuisce ogni potere al lettore che, al di là di ogni intenzione, vede poesia ogni qual volta sa di doverla vedere – cioè: non c’è poesia prima che

qualcuno la legga come tale.

L’interesse per l’autore è diventato, a un certo punto, una sorta di discrimine critico. Come scrive il canadese Northrop Frye: «Vi sono dei critici che

riescono a trovare delle cose interessanti negli uffici dell’anagrafe, e altri, come me, che non sanno trovare nemmeno gli uffici dell’anagrafe» (Favole

d’identità, p. 167). Personalmente mi situerei anch’io nel secondo gruppo, tuttavia ritengo utile, per una scelta ragionata, ripercorrere l’intera

problematica secondo i vari punti di vista. I materiali che qui si propongono sono stati scelti per illustrare appunto i diversi corni del dibattito. Si parte

con le posizioni contrarie all’autore, il provocatorio Roland Barthes de La morte dell’autore (1968, in Il brusio della lingua, Torino, Einaudi, 1988)

e il saggio di Michel Foucault sulla funzione-autore, Che cos’è un autore? (1969, in Scritti letterari, Milano, Feltrinelli, 1971). Poi arrivano i difensori

dell’autore: prima David Hirsch, che attribuisce all’intenzione autoriale il vero significato del testo (si leggerà In difesa dell’autore, che è il capitolo

iniziale di Teoria dell’interpretazione e critica letteraria, Bologna, Il Mulino, 1973, ma in edizione originale 1967); poi la risposta polemica di Carla

Benedetti a Barthes e Foucault con L’ombra lunga dell’autore (Milano, Feltrinelli, 1999; si leggerà il primo capitolo del libro, intitolato È morto

l’autore?). Un intermezzo è costituito dalla posizione femminista che, sostenendo che le scrittrici sono svantaggiate in quanto donne, attribuisce alla

differenza di genere dell’autore/autrice una importanza primaria e in qualche modo preventiva: tale posizione sarà rappresentata da Sandra Gubart e

Susan Gubar con il loro saggio Donna e poesia: creatività e genere sessuale (uscito 1979 in un’opera collettiva è stato tradotto in AA. VV., Letteratura

e femminismi, Napoli, Liguori, 2000). Si arriva, infine, ai tentativi di mediazione come quello di Umberto Eco che salva l’intenzionalità distinguendo

tra intentio auctoris, intentio operis e intentio lectoris (leggeremo il suo saggio Intentio lectoris, presentato nel 1985 e poi posto in apertura del libro

I limiti dell’interpretazione, Milano, Bompiani, 1990). E al saggio di Edoardo Sanguineti, La missione del critico (presentato a un convegno del 1986

e poi nel libro omonimo Genova, Marietti, 1987) che sposta la questione nella sua concezione marxista-benjaminiana della critica dimissionaria che

si fonderebbe su un processo di attribuzione, cioè una deduzione dell’autore dal testo e non viceversa.

Come si vedrà, nello svolgimento delle argomentazioni si potranno insinuare varie problematiche collaterali e sviluppi teorici imprevisti, come:

– il problema dell’inconscio. Uno dei paradossi della questione-autore è che la figura autoriale è stata sfruttata in modo particolarmente massiccio

dalla critica psicoanalitica, che spesso ha mescolato i testi letterari (senza porsi il problema della specificità) con i dati provenienti dai vari materiali

biografici. Nello stesso tempo, però, la psicoanalisi ha, tra le sue premesse, l’esistenza dell’inconscio, vale a dire che non sappiamo mai esattamente

cosa facciamo e perché (lo possiamo sapere solo attraverso il dialogo con l’analista e il transfert). Ma, allora, riportando ciò all’autore, dovremmo

ipotizzare che la sua intenzione deliberata non è quella giusta… Quindi, se la psicoanalisi è il metodo che maggiormente si avvicina all’autore e anche

quello che maggiormente si distanzia dalla sua intenzione.

– il problema del genere. Nei recenti studi femministi è diventato determinante il genere dell’autore. La premessa del femminismo (a partire da

Virginia Woolf) è che le scrittrici sono state penalizzate precisamente in quanto donne: conoscere l’autore (se è un autore o un’autrice) diventa allora

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di fondamentale importanza, prima ancora di prendere in considerazione il testo. Se poi si aggiungono altre discriminanti (nel caso delle posizioni

postcoloniali, la razza o l’ibridazione culturale nelle cosiddette “scritture migranti”) è ancora l’autore, le sue origini, il suo percorso di vita, a essere

posto in primo piano e il testo viene considerato in qualche modo l’esplicazione dell’autore.

– il problema dell’individuo borghese. L’emersione dell’autore – anche se autori esistono fin dall’antichità – nella sua configurazione moderna può

essere messa in relazione con la nascita dell’individuo, e con i risvolti giuridici ed economici della pubblicazione del testo. L’autore come responsabile

e beneficiario dell’opera (eventualmente ne risponde penalmente, così come può riceverne i diritti, non a caso detti “diritti d’autore”). Si potrebbe

anche legare, in una prospettiva marxista, il problema dell’autore con il problema della proprietà privata: il testo deve avere un autore poiché ogni

oggetto, nella società capitalista, deve avere un proprietario (di qui, i tentativi di uscire dalla singolarità dell’autore potrebbero essere visti come

pratiche di sabotaggio, spinte rivoluzionarie verso il collettivismo).

– il problema dell’antropomorfismo. C’è un modo di guardare alla letteratura cercando di vedervi non una sequenza di parole, ma una persona.

Diversamente dal testo scientifico che, anche se i teoremi sono intitolati al loro scopritore, tuttavia possiamo considerare impersonale, senza riferirci

a stati d’animo o a vicende private, la letteratura intesa come rappresentazione imita la vita e quindi il suo personaggio e il suo soggetto possono

essere riportati all’esperienza dell’autore, si tratti o meno di una identificazione ingenua. Naturalmente, nella modernità la questione è dibattuta e la

tesi della morte dell’autore deriva dalla pratica di una letteratura di avanguardia che destabilizza la rappresentazione e procede verso modalità

disantropomorfizzanti.

(F. M.)

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ROLAND BARTHES

La morte dell’autore

Nella sua novella Sarrasine Balzac, parlando di un castrato travestito da donna, scrive questa frase: «Era la donna, con le sue paure improvvise, i

suoi capricci irragionevoli, i suoi turbamenti istintivi, le sue audacie immotivate, le sue bravate e la sua deliziosa finezza di sentimenti». Chi parla in

questo modo? È forse l'eroe della novella, interessato a ignorare il castrato che si nasconde sotto la donna? È l'individuo Balzac, che l'esperienza

personale ha munito di una sua filosofia della donna? È l'autore Balzac, che professa idee «letterarie» sulla femminilità? È la saggezza universale?

La psicologia romantica? Non lo sapremo mai, per la semplice ragione che la scrittura è distruzione di ogni voce, di ogni origine. La scrittura è quel

dato neutro, composito, obliquo in cui si rifugia il nostro soggetto, il nero-su-bianco in cui si perde ogni identità, a cominciare da quella stessa del

corpo che scrive.

È stato senza dubbio sempre cosí: non appena un fatto è raccontato, per fini intransitivi, e non piú per agire direttamente sul reale - cioè, in ultima

istanza, al di fuori di ogni funzione che non sia l'esercizio stesso del simbolo -, avviene questo distacco, la voce perde la sua origine, l'autore entra

nella propria morte, la scrittura comincia. Il modo di sentire tale fenomeno è stato tuttavia variabile; nelle società etnografiche del racconto non si fa

mai carico una persona, ma un mediatore, sciamano o recitante, di cui si può al massimo ammirare la «performance» (cioè la padronanza del codice

narrativo) ma mai il «genio». L'autore è un personaggio moderno, prodotto dalla nostra società quando, alla fine del Medioevo, scopre grazie

all'empirismo inglese, al razionalismo francese e alla fede individuale della Riforma il prestigio del singolo o, per dirla piú nobilmente, della

«persona umana». È dunque logico che in Letteratura fosse il positivismo, summa e punto d'arrivo dell'ideologia capitalistica, ad attribuire la

massima importanza alla «persona» dell'autore. L'autore regna ancora nei manuali di storia letteraria, nelle biografie di scrittori, nelle interviste dei

settimanali e nella coscienza stessa degli uomini di lettere, tesi ad unire, con i loro diari intimi, la persona e l'opera; l'immagine della letteratura

diffusa nella cultura corrente è tirannicamente incentrata sull'autore, sulla sua persona, storia, gusti, passioni; nella maggior parte dei casi la critica

consiste ancora nel dire che l'opera di Baudelaire è il fallimento dell'uomo Baudelaire, quella di Van Gogh la sua follia, quella di Cajkovskij il suo

vizio: si cerca sempre la spiegazione dell'opera sul versante di chi l'ha prodotta, come se, attraverso l'allegoria piú o meno trasparente della finzione,

fosse sempre, in ultima analisi, la voce di una sola e medesima persona, l'autore, a consegnarci le sue «confidenze».

Anche se l'impero dell'Autore è ancora assai potente (molto spesso la nouvelle critique non ha fatto altro che consolidarlo), certi scrittori hanno

tentato da tempo, come è noto, di minarne le basi. In Francia Mallarmé, primo fra tutti, ha visto e previsto in tutta la sua ampiezza la necessità di

sostituire il linguaggio in se stesso a chi sino ad allora sembrava esserne il proprietario; per lui come per noi è il linguaggio a parlare, non l'autore;

scrivere significa, attraverso una preventiva spersonalizzazione - che non va assolutamente confusa con l'oggettività castrante del romanzo realista -,

raggiungere quel punto in cui solo il linguaggio agisce, nella «performance» sua e non dell'«io»: tutta la poetica di Mallarmé consiste nel sopprimere

l'autore a vantaggio della scrittura (il che significa, come si vedrà, restituire al lettore il ruolo che gli spetta). Valéry, impaniato in una psicologia

dell'Io, edulcora notevolmente la teoria di Mallarmé ma, riferendosi per amore del classicismo alle lezioni della retorica, mette incessantemente in

dubbio e in ridicolo l'Autore, accentua la natura linguistica e per così dire «casuale» della sua attività, e rivendica in tutta la sua opera in prosa la

condizione essenzialmente verbale della letteratura, di fronte alla quale ogni ricorso all'interiorità dello scrittore gli sembra pura superstizione. Lo

stesso Proust, nonostante il carattere apparentemente psicologico di quelle che si sogliono definire le sue analisi, si affida palesemente il compito di

mescolare e confondere inesorabilmente, affinandolo sino all'estremo, il rapporto tra scrittori e personaggi: facendo del narratore non colui che ha

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visito o sentito, e neppure colui che scrive, bensí colui che sta per scrivere (il giovane del romanzo - ma, in realtà, quanti anni ha e chi è? - vuole

scrivere, ma non può farlo, e il romanzo termina quando finalmente la scrittura diventa possibile), Proust ha dato alla scrittura moderna la sua

epopea: con un ribaltamento radicale, invece di mettere la propria vita nel romanzo, come troppo spesso è stato detto, ha fatto della sua vita stessa

un'opera di cui il libro è in un certo senso il modello, in modo che a noi risulti ben evidente come non sia Charlus a imitare Montesquiou, ma

Montesquiou, nella sua realtà aneddotica e storica, a costituire soltanto un frammento secondario, derivato, di Charlus. Il Surrealismo, infine, per

restare in questa preistoria della modernità, non poteva certo attribuire al linguaggio un posto di prima grandezza, in quanto il linguaggio è sistema,

mentre quel movimento si proponeva, romanticamente, una sovversione diretta dei codici - comunque illusoria, dal momento che un codice non può

essere distrutto, ma soltanto «giocato» -; raccomandando costantemente di deludere bruscamente il senso atteso (la famosa saccade surrealista),

affidando alla mano il compito di scrivere il piú rapidamente possibile quel che la mente stessa ignora (la scrittura automatica), accettando il

principio e l'esperienza di una scrittura a piú mani, il Surrealismo ha però contribuito a dissacrare l'immagine dell'Autore. Infine, al di fuori della

letteratura in senso stretto (per la verità, sono distinzioni che sempre piú vanno cadendo in disuso), la linguistica ha fornito alla distruzione

dell'Autore un prezioso strumento analitico, rivelando come l'enunciazione nel suo insieme sia un procedimento vuoto, che funziona perfettamente

senza che si renda necessario colmarlo con la persona degli interlocutori: dal punto di vista linguistico, l'autore non è mai nient'altro che colui che

scrive, proprio come io non è altri che chi dice io: il linguaggio conosce un «soggetto», non una «persona», e tale soggetto, vuoto al di fuori

dell'enunciazione stessa che lo definisce, è sufficiente a far «tenere» il linguaggio, cioè ad esaurirlo.

L'allontanarsi dell'Autore (con Brecht, si potrebbe parlare qui di una vera e propria «presa di distanza», dal momento che l'Autore si assottiglia come

una figurina sullo sfondo della scena letteraria) non è soltanto un fatto storico o un atto di scrittura: esso trasforma radicalmente il testo moderno (o -

ma è lo stesso il testo è ormai fatto e letto in modo tale elle in esso, a tutti i livelli, l’autore è assente). Innanzitutto, il tempo non è piú lo stesso.

L'Autore, finché ci si crede, è sempre visto come il passato del suo stesso libro: il libro e l'autore si dispongono da soli su una medesima linea,

organizzata come un prima e un dopo: all'Autore è riconosciuto il compito di nutrire il libro, in quanto lo precede, pensa, soffre, vive per esso; con

la propria opera intrattiene lo stesso rapporto di antecedenza che un padre ha con il figlio. Lo «scrittore» moderno - il soggetto della scrittura - nasce

invece contemporaneamente al proprio testo; non è in alcun modo dotato di un essere che precederebbe o travalicherebbe la sua scrittura, non è

affatto il soggetto di un libro che ne costituirebbe il predicato; non esiste altro tempo se non quello dell'enunciazione, e ogni testo è scritto per

sempre qui e ora. Il fatto è che (o ne consegue che) scrivere non può piú designare un'operazione di registrazione, di constatazione, di

rappresentazione, di «pittura» (come dicevano i Classici), bensí ciò che i linguisti, sulla scorta della filosofia analitica oxfordiana, chiamano un

performativo, forma verbale rara (esclusivamente data alla prima persona e al presente) nella quale l'enunciazione non ha altro contenuto (o altro

enunciato) che l'atto stesso con il quale si enuncia: un po' come il Io dichiaro dei re o il Io canto dei poeti piú antichi; lo «scrittore» moderno, dopo

aver sepolto l'Autore, non può più credere, come facevano pateticamente i suoi predecessori, che la sua mano sia troppo lenta per il suo pensiero o

per la sua passione e che di conseguenza, facendo di necessità virtú, egli debba accentuare tale ritardo e «lavorare» all'infinito la propria forma; per

lui, al contrario, la sua mano, staccata da qualsiasi voce, guidata da un puro gesto di inscrizione (e non di espressione), traccia un campo senza ori-

gine - o che, per lo meno, non ha altra origine che il linguaggio stesso, ovvero proprio ciò che rimette costantemente in discussione qualsiasi origine.

Sappiamo oggi che un testo non consiste in una serie di parole esprimenti un significato unico, in un certo senso teologico (che sarebbe il messaggio

dell'Autore-Dio), ma è uno spazio a piú dimensioni, in cui si congiungono e si oppongono svariate scritture, nessuna delle quali è originale: il testo è

un tessuto di citazioni, provenienti dai piú diversi settori della cultura. Come Bouvard e Pécuchet, eterni copisti al tempo stesso sublimi e comici, il

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cui comportamento profondamente ridicolo designa per l'appunto la verità della scrittura, lo scrittore può soltanto imitare un gesto sempre anteriore,

mai originale; il suo solo potere consiste nel mescolare le scritture, nel contrapporle l'una all'altra in modo da non appoggiarsi mai ad una in

particolare; se anche volesse esprimersi, dovrebbe almeno sapere che la «cosa» interiore che pretende di «tradurre» non è a sua volta nient'altro che

un dizionario preconfezionato, le cui parole possono essere spiegate solo attraverso altre parole, e cosí all'infinito: avventura capitata in maniera

esemplare al giovane Thomas de Quincey, cosí forte in greco che, per tradurre in quella lingua morta idee e immagini assolutamente moderne, come

ci dice Baudelaire, «aveva creato per sé un dizionario pronto per ogni occasione, ben più complesso ed esteso di quello che risulta dalla volgare

combinazione dei temi puramente letterari» (I paradisi artificiali); successore dell'Autore, lo «scrittore» non ha piú in sé passioni, umori, sentimenti,

impressioni, ma quell'immenso dizionario cui attinge una scrittura che non può conoscere pause: la vita non fa mai altro che imitare il libro, e il libro

stesso, a sua volta, non è altro che un tessuto di segni, imitazione perduta, infinitamente remota.

Una volta allontanato l'Autore, la pretesa di «decifrare» un testo diventa del tutto inutile. Attribuire un Autore a un testo significa imporgli un punto

fisso d'arresto, dargli un significato ultimo, chiudere la scrittura. E una concezione molto comoda per la critica, che si arroga cosí l'importante

compito di scoprire l'Autore (o le sue ipostasi: la società, la storia, la psiche, la libertà) al di sotto dell'opera: trovato l'Autore, il testo è «spiegato», il

critico ha vinto; non deve sorprendere, perciò, il fatto che storicamente il regno dell'Autore sia stato anche quello del Critico, e che la critica (per

quanto nouvelle) sia oggi, insieme all'Autore, minata alla base. Nella scrittura molteplice, in effetti, tutto è da districare, ma nulla è da decifrare; la

struttura può essere seguita, «sfilata» (come si sfila la maglia di una calza) in tutti i suoi «prestiti» e piani, ma non esiste un fondo; lo spazio della

scrittura dev'essere percorso, non trapassato; la scrittura esprime costantemente un certo senso, ma sempre in vista della sua evaporazione: essa

procede sistematicamente a una sorta di «esonero» del senso. Proprio per questo, la letteratura (ormai sarebbe meglio dire la scrittura), rifiutandosi

di assegnare al testo (e al mondo come testo) un «segreto», cioè un senso ultimo, libera un'attività che potremmo chiamare contro-teologica, o

meglio rivoluzionaria, poiché rifiutarsi di bloccare il senso equivale sostanzialmente a rifiutare Dio e le sue ipostasi, la ragione, la scienza, la legge.

Ritorniamo alla frase di Balzac. Nessuno (cioè nessuna «persona») la pronuncia: la sua fonte, la sua voce, non è il vero luogo della scrittura, ma la

lettura. Un altro esempio molto preciso può chiarirlo: recenti ricerche (J.-P. Vernant) hanno messo in luce la natura fondamentalmente ambigua

della tragedia greca; in essa il testo è intessuto di parole dal senso duplice, che ogni personaggio comprende unilateralmente (il «tragico» è per

l'appunto questo malinteso); esiste tuttavia qualcuno che intende ogni parola nella sua duplicità, e in piú intende quella che potremmo chiamare la

sordità dei personaggi che parlano di fronte a lui: questo qualcuno è appunto il lettore (o, in questo caso, l'ascoltatore). Si disvela cosí l'essere totale

della scrittura: un testo è fatto di scritture molteplici, provenienti da culture diverse e che intrattengono reciprocamente rapporti di dialogo, parodia o

contestazione; esiste però un luogo in cui tale molteplicità si riunisce, e tale luogo non è l'autore, come sinora è stato affermato, bensí il lettore: il

lettore è lo spazio in cui si inscrivono, senza che nessuna vada perduta, tutte le citazioni di cui è fatta la scrittura; l'unità di un testo non sta nella sua

origine ma nella sua destinazione, anche se quest'ultima non può piú essere personale: il lettore è un uomo senza storia, senza biografia, senza

psicologia; è soltanto quel qualcuno che tiene unite in uno stesso campo tutte le tracce di cui uno scritto è costituito. Per questo è ridicolo sentir

condannare la nuova scrittura in nome di un umanesimo che si erge ipocritamente a difensore dei diritti del lettore. Del lettore la critica classica non

si è mai occupata; per lei, nella letteratura non vi è altro uomo che chi scrive. Oggi cominciamo a non lasciarci piú ingannare da quella sorta di

antifrasi con cui la buona società è solita perorare in modo arrogante proprio in favore di ciò che in realtà mette al bando, ignora, soffoca o

distrugge; sappiamo che, per restituire alla scrittura il suo avvenire, bisogna rovesciarne il mito: prezzo della nascita del lettore non può essere che la

morte dell'Autore.

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MICHEL FOUCAULT

Che cos’è un autore

Ora debbo naturalmente giustificare ai vostri occhi il soggetto da me proposto: "Che cos'è un autore?"

Se ho scelto di trattare questa questione un po' strana, forse, è soprattutto perché volevo svolgere un certo lavoro critico nei confronti di ciò che mi è

capitato di scrivere in passato. E rivedere alcune imprudenze che mi è capitato di commettere. Ne Les Mots et les Choses (Le parole e le cose) avevo

tentato l'analisi delle masse verbali, dei vari tipi di strati discorsivi che non erano ritmati dalle solite unità fra libro, opera e autore. Parlavo in

maniera generica della "storia naturale", o dell'" analisi delle ricchezze" o dell’"economia politica", ma non di opere o di scrittori. Eppure in tutto

quel testo ho adoperato con ingenuità, e quindi con malvagità, dei nomi d'autori. Ho parlato di Buffon, di Cuvier, di Ricardo, ecc., lasciando

funzionare questi nomi in un'ambiguità alquanto imbarazzante. Tanto da rendere possibile la formulazione di due tipi di critiche che in effetti sono

state fatte. Da una parte mi è stato detto: "Lei non descrive né Buffon né l'insieme della sua opera come si deve, e ciò che lei dice di Marx è di

un'insufficienza derisoria nei confronti del pensiero di Marx". Tali critiche erano evidentemente fondate, ma non credo che fossero del tutto

pertinenti riguardo a ciò che avevo fatto; giacché il problema per me non era di descrivere Buffon o Marx, né di presentare ciò che essi avevano

detto o voluto dire: io cercavo semplicemente di scoprire le regole secondo le quali essi avevano formato un certo numero di concetti o di entità

teoriche che si riscontrano nei loro testi. Vi è stata anche un'altra obiezione: mi è stato detto: "Lei forma delle famiglie mostruose, accoppiando dei

nomi cosí chiaramente incompatibili come Buffon e Linneo, mette Cuvier accanto a Darwin, e ciò in contraddizione con il giuoco piú evidente delle

parentele e delle somiglianze naturali." Anche qui, direi che l'obiezione non mi sembra applicabile, dato che non ho mai tentato di stabilire un albero

genealogico delle individualità spirituali, non ho voluto costituire un dagherrotipo intellettuale dello studioso o del naturalista del XVII e XVIII

secolo; non ho voluto costituire alcuna famiglia né santa né perversa, ho semplicemente ricercato — molto piú modestamente — le condizioni del

funzionamento di pratiche discorsive specifiche.

Ora, voi mi direte, perché aver adoperato, in Les Mots et les Choses, dei nomi di autori? Bisognava non adoperarne neanche uno, o definire la

maniera di servirsene. Secondo me questa obiezione è assolutamente giustificata: ho tentato di misurarne le implicazioni e le conseguenze in un

testo che sta per essere pubblicato, dove cerco di dare uno statuto a certe grandi unità discorsive come quelle che chiamiamo Storia Naturale o

Economia Politica. Mi sono chiesto secondo quali metodi e quali strumenti si poteva individuarle, ritmarle, analizzarle e descriverle. È la prima

parte di un lavoro intrapreso alcuni anni fa e oggi portato a termine.

Ma c'è anche un'altra questione: quella dell'autore — ed è appunto su questa che voglio intrattenermi ora con voi. Questa nozione di "autore"

costituisce il punto forte dell'individualizzazione nella storia delle idee, delle conoscenze, delle letterature, nonché nella storia della filosofia e in

quella delle scienze. Ancora oggi, quando si traccia la storia di un concetto o di un genere letterario o di un determinato tipo di filosofia, penso che

si considerino ugualmente tali unità come scansioni relativamente deboli, secondarie e sovrapposte riguardo all'unità originaria, solida e

fondamentale che sarebbe quella dell'autore e dell'opera.

Lascerò da parte, almeno nel mio esposto di stasera, l'analisi storico-sociologica del personaggio dell'autore. In che modo l'autore si è

individualizzato in una cultura come la nostra, a partire da che momento, per esempio, ci si è messi a fare delle ricerche sull'autenticità e le

attribuzioni, in quale sistema di valorizzazione è stato intrappolato l'autore, a quale punto ci si è messi a raccontare la vita non piú degli eroi ma

degli autori, in che maniera si è instaurata quella categoria fondamentale della critica "l'uomo-e-l'opera" — tutto ciò meriterebbe certamente di

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essere analizzato. Per il momento vorrei affrontare soltanto il rapporto del testo con l'autore, la maniera in cui il testo riporta a questa figura che gli è

esteriore e anteriore, almeno in apparenza.

Del tema che sceglierei come punto di partenza trovo la formulazione in Beckett: "Che importa chi parla, qualcuno ha detto, che importa chi parla."

È in questa indifferenza, penso» che bisogna riconoscere uno dei principi etici fondamentali della scrittura contemporanea. Dico "etico" perché

questa indifferenza non è tanto un tratto che caratterizza la maniera di parlare o di scrivere, quanto piuttosto una sorta di regola immanente, sempre

ripresa e mai applicata del tutto, un principio che non segna la scrittura come risultato, ma che la domina come prassi. Questa regola è troppo

conosciuta perché sia necessario analizzarla a lungo; basterà quindi specificarla qui attraverso due suoi grandi temi.

Anzitutto possiamo dire che la scrittura oggi si è liberata del tema dell'espressione: essa si riferisce solo a se stessa senza tuttavia essere presa nella

forma dell'interiorità; essa si identifica con la propria esteriorità spiegata. Ciò significa che il linguaggio è un gioco di segni ordinato meno secondo

il suo contenuto significato che secondo la natura stessa del significante; ma anche che questa regolarità della scrittura è sempre sperimentata dalla

parte dei suoi limiti; si trova sempre nell'atto di trasgredire e di invertire tale regolarità, che accetta sfruttandola; la scrittura si dispiega come un

gioco che oltrepassa infallibilmente le proprie regole, passando cosí all'esterno. Nella scrittura il pericolo non sta nella manifestazione o

nell'esaltazione del gesto di scrivere; non si tratta di incastrare un soggetto in un linguaggio; si tratta dell'apertura di uno spazio in cui il soggetto

scrivente non cessi di sparire.

Il secondo tema è piú risaputo ancora, ed è quello della parentela della scrittura con la morte. Questo legame rovescia un tema millenario; il

racconto o l'epopea dei Greci aveva lo scopo di perpetuare l'immortalità dell'eroe, e se l'eroe accettava di morire giovane era perché la sua vita, cosí

consacrata e magnificata dalla morte, passasse all'immortalità; il racconto riscattava questa morte accettata. In maniera diversa il racconto arabo —

qui penso alle Mille e una Notte — aveva anch'esso come motivazione, come tema e pretesto, il non morire: si parlava, si narrava fino all'alba per

evitare la morte, per rimandare quella scadenza che avrebbe chiuso la bocca del narratore. Il racconto di Schèhèrazade è il contrario accanito

dell'assassinio, e lo sforzo ripetuto ogni notte per riuscire a mantenere la morte fuori del cerchio dell'esistenza. A questo tema del racconto o della

scrittura fatti per scongiurare la morte, la nostra cultura ha fatto subire una metamorfosi; ormai la scrittura è legata al sacrificio, al sacrificio stesso

della vita; è un eclissarsi volontario che non deve essere rappresentato nei libri poiché esso si compie nell'esistenza stessa dello scrittore. L'opera il

cui dovere era di conferire l'immortalità ha ormai acquisito il diritto di uccidere, di essere l'assassina del suo autore. Guardate Flaubert, Proust,

Kafka. Ma c'è anche dell'altro: questo rapporto della scrittura con la morte si manifesta anche nell'eclissarsi dei caratteri individuali del soggetto

scrivente; attraverso i litigi che egli stabilisce fra se stesso e ciò che scrive, il soggetto scrivente mette in rotta tutti i segni della sua particolare

individualità; la traccia dello scrittore sta solo nella singolarità della sua assenza; a lui spetta il ruolo del morto nel gioco della scrittura. Tutto questo

è noto; da tempo ormai la critica e la filosofia hanno preso atto di questa scomparsa o di questa morte dell'autore.

Tuttavia non sono sicuro che siano state tratte con rigore tutte le conseguenze esatte da questo verbale, né che sia stata misurata con precisione

l'ampiezza dell'avvenimento. Piú precisamente, a me sembra che un certo numero di nozioni, che oggi sono destinate a sostituirsi al privilegio

dell'autore, lo stiano in realtà bloccando, schivando tutto ciò che dovrebbe essere liberato. Prenderò semplicemente due di queste nozioni che sono,

secondo me, oggi, di singolare importanza.

In primo luogo la nozione di opera. Si dice in effetti (e anche questa è una tesi piú che conosciuta) che il ruolo della critica non è di individuare i

rapporti fra l'opera e l'autore, né di volere ricostituire attraverso i testi un pensiero o un'esperienza; essa dovrebbe invece analizzare l'opera nella sua

struttura, nella sua architettura, nella sua forma intrinseca e nel gioco dei suoi rapporti interni. Ora un problema si pone immediatamente: "Che cos'è

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un'opera?", che cos'è questa strana unità alla quale diamo il nome di opera? Quali elementi la compongono? Non è forse un'opera ciò che è stato

scritto da colui che ne è l'autore? Vediamo subito sorgere le difficoltà. Se un individuo non fosse un autore potremmo dire che ciò che egli ha scritto

o detto, ciò che egli ha lasciato fra le sue carte, ciò che è stato riportato dei suoi commenti potrebbe essere chiamata un'”opera"? Finché Sade non è

stato un autore che cosa erano le sue carte? Solo dei rotoli di carta sui quali, all'infinito, durante le sue giornate in carcere, egli elaborava i suoi

fantasmi.

Supponiamo invece che si abbia a che fare con un autore: tutto ciò che egli ha scritto o detto, tutto ciò che egli ha lasciato, fa parte della sua opera?

Il problema è insieme teorico e tecnico. Quando si intraprende la pubblicazione, diciamo, delle opere di Nietzsche, dove bisogna fermarsi?

Ovviamente bisogna pubblicare tutto, ma cosa significa questo "tutto"? Tutto ciò che è stato pubblicato da Nietzsche stesso, certamente. Gli abbozzi

delle sue opere? Senz'altro. I progetti di aforismi? Sí. Anche i ripensamenti, gli appunti in fondo ai taccuini? Sí. Ma quando, dentro un taccuino

pieno di aforismi, troviamo un riferimento, l'indicazione di un appuntamento o di un indirizzo, oppure il conto della lavandaia: è un'opera o non è

un'opera? E perché no? E avanti cosí all'infinito. Fra i milioni di tracce lasciate da una persona dopo la sua morte, come definire un'opera? La teoria

dell'opera non esiste, e coloro che ingenuamente intraprendono la pubblicazione delle opere non posseggono una simile teoria, il che paralizza ben

presto il loro lavoro empirico. E si potrebbe proseguire: possiamo dire che le Mille e una Notte costituisce un'opera? E gli Stromata di Clemente

Alessandrino o le Vite di Diogene Laerzio? Subito ci accorgiamo della profusione di domande che si pongono a proposito di questa nozione di

opera. Quindi non basta affermare: facciamo a meno dello scrittore, facciamo a meno dell'autore e andiamo a studiare l'opera in se stessa. La parola

"opera" e l'unità che essa designa sono probabilmente tanto problematiche quanto l'individualità dell'autore.

Secondo me c'è anche un'altra nozione che blocca il verbale di scomparsa dell'autore e ferma per cosí dire il pensiero sull'orlo di questa eclisse;

sottilmente essa mantiene ancora in vita l'esistenza dell'autore. È la nozione di scrittura. Nel senso piú rigoroso, essa dovrebbe consentirci non solo

di fare a meno di ogni riferimento all'autore, ma anche di dare uno statuto a questa sua nuova assenza. Nello statuto attribuito attualmente alla

nozione di scrittura non si tratta, infatti, né del gesto dello scrivere né dell'impronta (sintomo o segno) di ciò che qualcuno avrebbe voluto dire; si

cerca di pensare con notevole profondità la condizione in genere di qualsiasi testo, la condizione dello spazio in cui esso si disperde e del tempo in

cui esso si dispiega.

Io mi chiedo se, ridotta a volte a un uso corrente, questa nozione non trasponga, in un anonimato trascendentale, i caratteri empirici dell'autore.

Accade che ci si accontenti di cancellare le tracce troppo visibili dell'empiricità dell'autore facendo agire, ora, parallelamente in contrapposizione,

due maniere di caratterizzarla. La modalità critica e la modalità religiosa.

In effetti, attribuire alla scrittura uno statuto originario non è forse un modo di ritradurre in termini trascendentali, da una parte l'affermazione

teologica del suo carattere sacro e dall'altra l'affermazione critica del suo carattere creativo? Ammettere che la scrittura è in qualche modo, per via

della storia stessa che essa ha reso possibile, sottoposta alla prova dell'oblio e della repressione, non equivale forse a rappresentare in termini

trascendentali il principio religioso del significato nascosto (con la necessità di interpretare) e il principio critico dei significati impliciti, delle

determinazioni silenziose, dei contenuti oscuri (con la necessità di commentare)? Infine, pensare la scrittura come assenza non è nient'altro che

ripetere in termini trascendentali il principio religioso della tradizione, allo stesso tempo inalterabile e mai completamente adempiuta, e il principio

estetico della sopravvivenza dell'opera, della sua conservazione al di là della morte e del suo eccesso di enigma nei confronti dell'autore.

Secondo me, tale uso della nozione di scrivere rischia di conservare i privilegi dell'autore sotto l'egida dell'a priori: essa mantiene in vita, nella

grigia luce della neutralizzazione, il gioco delle rappresentazioni che hanno creato una certa immagine dell'autore. La scomparsa dell'autore, che dai

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tempi di Mallarmé è un avvenimento che non si arresta piú, si trova sottomessa alla prigionia trascendentale. Non è forse vero che vi è oggi una

linea importante che divide coloro che credono di poter ancora pensare le rotture di oggi secondo la tradizione storico-trascendentale del XIX

secolo, e coloro che cercano di liberarsene una volta per tutte?

Ma evidentemente non basta ripetere, come affermazione vuota, che l'autore è scomparso. Ugualmente non basta ripetere indefinitamente che Dio e

l'uomo sono morti, d'una morte comune. Bisognerebbe invece individuare lo spazio lasciato vuoto dall'autore scomparso, seguire con lo sguardo la

ripartizione delle lacune e delle crepe e scrutare i luoghi e le funzioni liberi che tale scomparsa ha reso visibili.

Per cominciare, vorrei accennare in poche parole ai problemi posti dall'uso del nome d'autore. Che cosa è un nome d'autore? Come funziona? Lungi

dal darvi una soluzione, indicherò soltanto alcune delle difficoltà che si presentano.

Il nome d'autore è un nome proprio, che pone gli stessi problemi di quest'ultimo. (Qui mi riferisco fra tante analisi diverse, a quelle di Searle.) Non è

possibile, ovviamente, fare di un nome proprio un riferimento puro e semplice. Le funzioni del nome proprio (e così anche del nome d'autore) non

sono soltanto indicatrici. Esso, piú che un'indicazione, è un gesto, un dito puntato verso qualcuno; fino a un certo punto esso equivale a una

descrizione. Quando si dice "Aristotele," si adopera una parola che è l'equivalente di una descrizione o di una serie di descrizioni specifiche di

questo tipo: "l'autore degli Analitici" o "il fondatore dell'ontologia" ecc. Ma non possiamo fermarci lì; un nome non ha un significato puro e

semplice; quando si scopre che Rimbaud non ha scritto la Chasse spirituelle, non si può pretendere che questo nome proprio o questo nome d'autore

abbia cambiato significato. Il nome proprio e il nome d'autore si situano fra i due poli della descrizione e della designazione; hanno senz'altro un

certo rapporto con ciò che essi nominano, ma non hanno completamente, nel modo di designare né nel modo di descrivere, un legame specifico.

Tuttavia — ed è qui che appaiono le difficoltà specifiche del nome d'autore — il legame del nome proprio con l'individuo nominato e il legame del

nome d'autore con ciò che esso nomina non sono isomorfi e non funzionano allo stesso modo. Ecco alcune di queste differenze.

Se mi accorgo, per esempio, che Pierre Dupont non ha gli occhi azzurri o non è nato a Parigi o non è medico ecc., rimarrà comunque il fatto che

questo nome, Pierre Dupont, continuerà sempre a riferirsi alla stessa persona; il legame di designazione non ne sarà modificato. I problemi posti dal

nome d'autore sono invece molto piú complessi: se io scopro che Shakespeare non è nato nella casa che oggi si visita, ecco una modificazione che,

evidentemente, non cambierà il funzionamento del nome d'autore; ma se venisse dimostrato che Shakespeare non ha scritto i Sonetti attribuitigli, il

cambiamento è di tipo diverso: esso non lascia intatto il funzionamento del nome d'autore. E se venisse dimostrato che Shakespeare ha scritto

l'Organon di Bacone semplicemente perché lo stesso autore ha scritto le opere di Bacone e di Shakespeare, questo sarebbe un terzo tipo di

cambiamento che modificherebbe totalmente il funzionamento del nome d'autore. Il nome d'autore non è quindi esattamente un nome proprio come

tanti altri.

Molti altri fatti rivelano la singolarità paradossale del nome d'autore. Non è affatto la stessa cosa dire che Pierre Dupont non esiste e dire che Omero

o Ermete Trismegisto non sono mai esistiti; nel primo caso si dice che nessuno porta il nome di Pierre Dupont; nel secondo caso si dice che piú

persone sono state confuse sotto un unico nome o che il vero autore non ha nessuno dei tratti attribuiti tradizionalmente al personaggio di Omero o a

quello di Ermete. Inoltre, non è la stessa cosa dire che Pierre Dupont non è il vero nome di X, che si chiama invece Jacques Duran, e dire che

Stendhal si chiamava Henri Beyle. Potremmo anche interrogarci sul significato e il funzionamento di una proposizione come questa: "Bourbaki è un

tale, un tale, ecc." o "Victor Eremita, Climaco, Anticlimaco, Frater Taciturnus, Constantin Constantius, sono Kierkegaard."

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Tali differenze sono dovute forse al fatto seguente: un nome d'autore non è semplicemente un elemento in un discorso (che potrebbe essere soggetto

o complemento, il quale può essere sostituito da un pronome ecc.); esso svolge in rapporto ai discorsi un certo ruolo: stabilisce una funzione

classificatoria; un tale nome permette di raggruppare un certo numero di testi, di delimitarli, di escluderne alcuni, di opporli ad altri. Inoltre esso

costruisce un rapporto fra gli stessi testi; Ermete Trísmegisto non esisteva, Ippocrate neanche — nel senso che si potrebbe dire che Balzac esiste —,

ma il fatto che piú testi siano stati posti sotto un unico nome indica che fra loro si è stabilito un rapporto di omogeneità o di filiazione o di

autentificazione degli uni attraverso gli altri, o di reciproca spiegazione o di utilizzazione concomitante. Infine il nome d'autore funziona per

caratterizzare un certo modo di essere del discorso: il fatto, per un discorso, di avere un nome di autore, il fatto che si possa dire "questo è stato

scritto da un tale," o "un tale ne è l'autore," indica che questo discorso non è una parola quotidiana, indifferente, una parola che se ne va, che vola e

passa, una parola immediatamente consumabile, ma che si tratta di una parola che deve essere ricevuta in un certo modo e che, in una data cultura,

deve ricevere un certo statuto.

Si potrebbe arrivare, in conclusione, all'idea che il nome d'autore non proceda come il nome proprio dall'interno di un discorso verso l'individuo

reale cd esteriore che lo ha prodotto, ma che esso giri, in un certo senso, al limite dei testi, conformandoli, seguendone le asprezze, manifestandone

il modo di essere o almeno caratterizzandolo. Esso manifesta l'avvenimento di un certo gruppo di discorsi e si riferisce allo statuto di tale discorso

all'interno di una società e all'interno di una cultura. Il nome d'autore non si situa nello stato civile degli uomini, ma non è neanche situato nella

finzione dell'opera; esso è situato nella rottura che dà vita a un certo gruppo di discorsi e al suo modo particolare di essere. Si potrebbe dire, dunque,

che ci sono in una civiltà come la nostra un certo numero di discorsi che sono dotati della funzione "autore," mentre altri ne sono sprovvisti. Una

lettera privata può benissimo avere un firmatario ma non ha un autore; un contratto può benissimo avere un garante ma non ha un autore. Un testo

anonimo che si legge per strada su un muro avrà un suo redattore, ma non un suo autore. La funzione-autore è quindi caratteristica di un modo di

esistenza, di circolazione e di funzionamento di certi discorsi all'interno di una società.

Bisognerebbe ora analizzare questa funzione-autore. Come si caratterizza, nella nostra cultura un discorso portatore della funzione-autore? In che

cosa questo discorso si diversifica da altri discorsi? Credo che si possa, se si prende in considerazione soltanto l'autore di un libro o di un testo,

riconoscergli quattro differenti caratteristiche.

Per prima cosa si tratta di oggetti di appropriazione; la forma di proprietà da cui queste caratteristiche prendono risalto è di un tipo del tutto

particolare; è una proprietà che è stata codificata, ora, dopo un certo numero di anni. Bisogna tener presente che (letta proprietà è stata storicamente

seconda, in rapporto a ciò che si potrebbe chiamare l'appropriazione penale. I testi, i libri, i discorsi hanno cominciato ad avere realmente degli

autori (invece che personaggi mitici, invece che grandi figure sacralizzate e sacralizzanti) nella misura in cui l'autore poteva essere punito, vale a

dire nella misura in cui i discorsi potevano essere trasgressivi. Il discorso, nella nostra cultura (e in altre probabilmente), non era, all'origine, un

prodotto, una cosa, un bene; era essenzialmente un atto — un atto posto nel campo bipolare del sacro e del profano, del lecito e dell'illecito, del

religioso e del blasfemo. Il discorso è stato storicamente un gesto carico di rischi prima di essere un bene assunto in un circuito di proprietà. E

quando si è instaurato un regime di proprietà per i testi, quando si sono decretate regole rigide sui diritti di riproduzione, ecc. — vale a dire alla fine

del XVIII secolo e all'inizio del XIX — è da quel momento che la possibilità di trasgressione che apparteneva all'atto di scrivere ha preso sempre

piú l'andamento di un imperativo proprio alla letteratura. Come se l'autore, a partire dal momento in cui è stato collocato nel sistema di proprietà che

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caratterizza la nostra società, compensasse lo statuto che riceveva ritrovando in questo modo il vecchio campo bipolare del discorso, praticando

sistematicamente la trasgressione, ripristinando il pericolo di una scrittura alla quale per un altro verso si garantissero i benefici della proprietà.

D'altra parte la funzione-autore non agisce affatto in una maniera uniforme e costante su tutti i discorsi. Nella nostra civiltà non sono stati sempre gli

stessi testi ad esigere un'attribuzione. Vi fu un tempo in cui quei testi che noi oggi chiamiamo "letterari" (narrazioni, racconti, epopee, tragedie,

commedie) erano ricevuti, messi in circolazione, valorizzati senza che fosse posta la questione del loro autore; il loro anonimato non costituiva

difficoltà; la loro antichità, vera o supposta, li garantiva a sufficienza. In compenso i testi che noi ora definiremmo scientifici, in quanto

concernevano la cosmologia e il cielo, la medicina e le malattie, le scienze naturali o la geografia non erano accolti nel Medio Evo, e non

costituivano valore di verità che alla condizione di essere segnati dal nome del loro autore. "Ippocrate ha detto," "Plinio racconta" non erano

specificamente le formule di un argomento d'autorità; erano le indicazioni con le quali venivano contrassegnati i discorsi destinati ad essere accolti

come provati. Un chiasmo si è prodotto nel XVII o nel XVIII secolo; si è cominciato a percepire i discorsi scientifici per se stessi, nell'anonimato di

una verità stabilita o sempre di nuovo dimostrabile; è la loro appartenenza ad un insieme sistematico che conferisce loro garanzia, e non la referenza

all'individuo che li ha prodotti. La funzione-autore si cancella, il nome dell'autore servendo tutt'al piú a battezzare un teorema, una proposizione, un

effetto notevole, una proprietà, un corpo, un insieme di elementi, una sindrome patologica. Ma i discorsi "letterari" non possono piú essere accolti se

non sono dotati della funzione-autore: ad ogni testo di poesia o di invenzione si domanderà da dove viene, chi l'ha scritto, in quale data, in quali

circostanze o a partire da quale oggetto.

Il senso che gli si dà, lo statuto o il valore che gli si riconosce dipendono dal modo con cui si risponde a queste domande. E se in seguito a un

incidente o a una volontà esplicita dell'autore, esso ci perviene nell'anonimato, il gioco consiste subito nel ritrovare l'autore, L'anonimato letterario

non ci è sopportabile; noi lo accettiamo solo come enigma. La funzione-autore svolge in pieno il suo ruolo ai nostri giorni per quel che riguarda le

opere letterarie. (Naturalmente, bisognerebbe vedere i particolari di tutto ciò: la critica ha cominciato, da un certo tempo, a considerare le opere

secondo il loro genere e il loro tipo, secondo gli elementi ricorrenti che vi figurano, secondo le loro variazioni proprie, intorno ad una invariante che

non è piú il creatore individuale. Allo stesso modo, se la referenza all'autore non è piú in matematica che una maniera di nominare dei teoremi o

degli insiemi di proposizioni, in biologia e in medicina l'indicazione dell'autore, e della data del suo lavoro, svolge un ruolo abbastanza diverso: non

si tratta semplicemente di una maniera di indicare la sorgente, ma di dare un certo indice di "credibilità" in rapporto con le tecniche e gli oggetti di

esperienze utilizzati in una data epoca e in un dato laboratorio.)

Terzo carattere di questa funzione-autore. Essa non si forma spontaneamente come l'attribuzione di un discorso ad un individuo. È il risultato di

un'operazione complessa che costruisce un certo essere ragionevole che chiamiamo autore. Senza dubbio a questo essere ragionevole si cerca di dare

uno statuto realista: ci sarebbe nell'individuo, una istanza "profonda," un potere "creatore," un "progetto," che costituirebbe il luogo originario della

scrittura. Ma in realtà, ciò che nell'individuo è designato come autore (o ciò che fa di un individuo un autore) non è che la proiezione, in termini

sempre più o meno psicologizzanti, del trattamento che si fa subire ai testi, dei paragoni che si operano, dei tratti che si stabiliscono come pertinenti,

delle continuità che si ammettono o delle esclusioni che si praticano. Tutte queste operazioni variano secondo le epoche, e i tipi di discorso. Non si

costruisce un "autore filosofico" come un "poeta"; e non si costruiva l'autore di un'opera romanzesca nel XVIII secolo allo stesso modo di come si fa

oggi. Tuttavia, si può ritrovare attraverso il tempo una certa invariante nelle regole di costruzione dell'autore.

Mi sembra, per esempio, che la maniera con cui la critica letteraria ha, per molto tempo, definito l'autore — o piuttosto costruito la forma-autore a

partire dai testi e dai discorsi esistenti —, sia derivata abbastanza direttamente dalla maniera con cui la tradizione cristiana ha autentificato (o al

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contrario rifiutato) i testi di cui disponeva. In altri termini, per "ritrovare" l'autore nell'opera, la critica moderna usa degli schemi molto vicini

all'esegesi cristiana quand'essa voleva provare il valore di un testo con la santità dell'autore. Nel De viris illustribus, San Girolamo spiega che

l'omonimia non è sufficiente a identificare in modo legittimo gli autori di opere diverse: individui diversi hanno potuto portare lo stesso nome,

oppure l'uno ha potuto, abusivamente, prendere in prestito il patronimico dell'altro. Il nome, come marchio individuale, non è sufficiente quando ci

si rivolge alla tradizione testuale. Come dunque attribuire molti discorsi a un solo e medesimo autore? Come far agire la funzione-autore per sapere

se si ha a che fare con uno o con piú individui? San Girolamo espone quattro criteri: se in mezzo a vari libri attribuiti a un autore, uno è inferiore

agli altri, bisogna ritirarlo dalla lista delle sue opere (l'autore allora è definito come un certo livello costante di valore); allo stesso modo, se alcuni

testi sono in contraddizione di dottrina con le altre opere di un autore (l'autore è allora definito come un certo campo di coerenza concettuale o

teorica); bisogna ugualmente escludere le opere che sono scritte in uno stile differente, con parole e giri di frasi che non s'incontrano generalmente

sotto la penna dello scrittore (è l'autore come unità stilistica); infine si devono considerare come interpolati i testi che si riferiscono ad avvenimenti o

che citano personaggi posteriori alla morte dell'autore (l'autore è allora momento storico definito e punto d'incontro di un certo numero di

avvenimenti). Ora la critica letteraria moderna, anche quando non è preoccupata di autentificazione (che è la regola generale), non definisce affatto

l'autore in maniera diversa: l'autore è ciò che permette di spiegare tanto bene la presenza di alcuni avvenimenti in un'opera quanto le loro

trasformazioni, le loro deformazioni, le loro diverse modificazioni (e questo attraverso la biografia dell'autore, il riconoscimento della sua

prospettiva individuale, l'analisi della sua appartenenza sociale o della sua posizione di classe, la messa in luce del suo progetto fondamentale).

L'autore è ugualmente il principio di una certa unità di scrittura, — tutte le differenze dovendo essere livellate almeno per quel che riguarda i

principi dell'evoluzione, della maturazione o dell'influenza. L'autore è inoltre ciò che permette di sormontare le contraddizioni che possono

svilupparsi in una serie di testi: ci deve appunto essere — a un certo livello del suo pensiero o del suo desiderio, della sua coscienza o del suo

inconscio — un punto a partire dal quale le contraddizioni si risolvono; gli elementi incompatibili si susseguono finalmente gli uni agli altri oppure

si organizzano intorno a una contraddizione fondamentale o originaria. Infine, l'autore è un certo centro di espressione che, sotto forme più o meno

compiute, si manifesta altrettanto bene, e con lo stesso valore, in opere, in brogliacci, in lettere, in frammenti, ecc. I quattro criteri dell'autenticità

secondo San Girolamo (criteri che sembrano molto insufficienti agli esegeti di oggi) definiscono le quattro modalità secondo le quali la critica

moderna fa agire la funzione-autore.

Ma la funzione-autore non è, in realtà, una pura e semplice ricostruzione che vien fatta di seconda mano a partire da un testo dato come un materiale

inerte. Il testo porta sempre in se stesso un certo numero di segni che rinviano all'autore. Questi segni sono ben conosciuti dai grammatici: sono i

pronomi personali, gli avverbi di tempo e di luogo, la coniugazione dei verbi. Ma bisogna tener presente che questi elementi non svolgono lo stesso

ruolo nei discorsi che sono provvisti della funzione-autore e in quelli che ne sono sprovvisti. In questi ultimi, tali "innesti" rinviano al reale locutore

e alle coordinate spazio-temporali del suo discorso (quando alcune modificazioni possono prodursi: e quando si riferiscono discorsi in prima

persona). Nei primi, al contrario, il loro ruolo è piú complesso e piú variabile. Si sa bene che in un romanzo che si presenta come il racconto di un

narratore, il pronome in prima persona, il presente indicativo, i segni della localizzazione non rinviano mai esattamente allo scrittore, né al momento

in cui egli scrive né al gesto stesso della sua scrittura; ma ad un alter ego la cui distanza nei riguardi dello scrittore può essere piú o meno grande e

variare nel corso stesso dell'opera. Sarebbe altrettanto falso cercare l'autore dalla parte dello scrittore reale quanto dalla parte di quel locutore

fittizio; la funzione-autore si effettua nella scissione stessa — in questa divisione e a questa distanza. Si dirà, forse, che si tratta soltanto di una

proprietà particolare del discorso romanzesco o poetico: un gioco in cui non si impegnano che questi "quasi discorsi." Infatti, tutti i discorsi che

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sono provvisti della funzione-autore comportano questa pluralità di ego. L'ego che parla nella prefazione di un testo di matematica — e che ne

indica le circostanze di composizione — non è identico né nella sua posizione né nel suo funzionamento a colui che parla nel corso di una

dimostrazione e che appare sotto la forma di un "Io concludo" o " Io suppongo": in un caso, l'"io" rinvia a un individuo senza equivalente che, in un

luogo e in un tempo determinati, ha compiuto un certo lavoro; nel secondo, l'"io" designa un piano e un momento di dimostrazione che ogni

individuo può occupare, purché egli abbia accettato lo stesso sistema di simboli, lo stesso gioco di assiomi, lo stesso insieme di dimostrazioni

preliminari. Ma si potrebbe anche, nello stesso trattato, rintracciare un terzo ego; quello che parla per dichiarare il senso del lavoro, gli ostacoli

incontrati, i risultati ottenuti, i problemi che ancora si pongono; questo ego si situa nel campo dei discorsi matematici già esistenti o ancora da

venire. La funzione-autore non è assicurata da uno di questi ego (il primo) a spese degli altri due, i quali non ne sarebbero piú allora che lo

sdoppiamento fittizio. Bisogna dire al contrario che in tali discorsi, la funzione-autore ha un tale ruolo che provoca la dispersione di questi tre ego

simultanei.

Probabilmente l'analisi potrebbe rintracciare ancora altri tratti caratteristici della funzione-autore. Ma oggi mi atterrò ai quattro che ho rilevato,

poiché essi appaiono i piú visibili e al tempo stesso í piú importanti. Li riassumerò cosí: la funzione-autore è legata al sistema giuridico e

istituzionale che racchiude, determina, articola l'universo dei discorsi; essa non si esercita uniformemente e nella stessa maniera su tutti i discorsi, in

tutte le epoche e in tutte le forme di civilizzazione; essa non è definita dall'attribuzione spontanea di un discorso al suo produttore, ma da una serie

di operazioni specifiche e complesse; non rinvia puramente e semplicemente ad un individuo reale; può dar luogo simultaneamente a molti ego, a

molte posizioni-soggetto che classi diverse di individui possono occupare.

(…)

L'autore — o ciò che ho provato a descrivere come la funzione-autore — è probabilmente soltanto una delle specificazioni possibili della funzione-

soggetto. Specificazione possibile o necessaria? Guardando le modificazioni storiche che si sono succedute, non sembra indispensabile,

assolutamente, che la funzione-autore rimanga costante nella sua forma, nella sua complessità e finanche nella sua esistenza. Si può immaginare una

cultura dove i discorsi circolerebbero e sarebbero ricevuti senza che la funzione-autore apparisse mai. Tutti i discorsi, qualunque sia il loro statuto,

la loro forma, il loro valore e qualunque sia il trattamento che si fa loro subire, si svolgerebbero nell'anonimato del mormorio. Non si ascolterebbero

piú le domande cosí a lungo proposte: "Chi ha realmente parlato? È veramente lui e nessun altro? Con quale autenticità o con quale originalità? E

che cosa ha espresso dal piú profondo di se stesso nel suo discorso?" Ma altre come queste: “Quali sono i modi di esistenza di questo discorso? Da

dove viene tenuto, come può circolare e chi può appropriarsene? Quali sono le ubicazioni predisposte per dei soggetti possibili? Chi può riempire

queste diverse funzioni del soggetto?" E dietro a tutte queste domande non si capterebbe altro che il rumore di un'indifferenza: "Cosa importa chi

parla?"

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DAVID HIRSCH

In difesa dell’autore

È stato detto di Boehme che i suoi libri sono come un pic-nic al quale l'autore

porta le parole e il lettore il significato. Può darsi che tale osservazione

intendesse essere una presa in giro di Boehme: in realtà è un'esatta descrizione

di tutte le opere letterarie, nessuna esclusa.

Northrop Frye

1. L'autore al bando

Spetta allo storico della cultura il compito di spiegare perché negli ultimi quarant'anni ci sia stato un pesante attacco, in larga misura vittorioso,

contro la sensata opinione che un testo significa ciò che ha voluto significare il suo autore. Nella primissima e piú decisiva ondata dell'attacco

(lanciato da Eliot, Pound e i loro alleati), il terreno dello scontro fu letterario: l'affermazione che il significato di un testo è indipendente dal

controllo dell'autore si combinava con la dottrina letteraria che la poesia migliore è impersonale, oggettiva e autonoma, e conduce una vita tutta

propria, totalmente separata dalla vita del suo autore. Questa idea programmatica di ciò che la poesia dovrebbe essere, finì insidiosamente per

identificarsi con l'idea di ciò che tutta la poesia, anzi tutte le forme di letteratura, devono necessariamente essere. Non si desiderava semplicemente

che la letteratura si staccasse dalla sfera soggettiva dei pensieri e dei sentimenti personali dell'autore; era piuttosto un fatto indubitabile che tutto il

linguaggio scritto restasse indipendente da quella sfera soggettiva. In un periodo di poco posteriore e per motivi diversi, questo stesso concetto

dell'autonomia semantica fu proposto da Heidegger e dai suoi seguaci. La stessa idea è stata sostenuta pure da autori i quali, d'accordo con Jung,

ritengono che le espressioni individuali possono esprimere in modo del tutto inconsapevole significati archetipi e comunitari. L'autonomia

semantica del linguaggio è stata un'ipotesi di lavoro in alcuni rami della linguistica, particolarmente nella cosiddetta teoria dell'informazione, ed è

stata anche accolta nell'opera di alcuni che, senza essere seguaci di Jung, si sono interessati (come già in precedenza Eliot) al simbolismo –

quantunque Cassirer, il cui nome è talvolta invocato da tali scrittori, non credesse all'autonomia semantica del linguaggio. È, come ho detto, compito

dello storico della cultura spiegare perché questa dottrina abbia acquistato in tempi recenti larga diffusione, ma è compito del teorico determinare

fino a che punto la teoria dell'autonomia semantica meriti di essere accettata.

Gli studiosi di letteratura hanno spesso asserito che la teoria della irrilevanza dell'autore tornò a tutto vantaggio della critica e degli studi letterari in

quanto spostava il centro della discussione dall'autore alla sua opera. Reso fiducioso da tale teoria, il critico moderno ha esaminato scrupolosamente

e attentamente il testo per scoprirne il significato indipendente anziché la sua presunta significanza in rapporto alla vita dell'autore. Sul fatto che

questo spostamento verso l'esegesi fosse auspicabile concorderà la piú parte dei critici, siano essi favorevoli o meno alla teoria dell'autonomia

semantica. Ma la teoria si accompagnò al movimento esegetico per motivi storici e non logici, poiché non v'è alcuna necessità logica che obblighi

un critico a mettere al bando l'autore al fine di analizzarne il testo. Nondimeno, a causa della sua associazione storica con la esegesi puntuale dei

testi, la teoria ha messo in evidenza molto acume e molta intelligenza. Purtroppo spesso ha pure incoraggiato nella critica accademica, ostinata

arbitrarietà e stravaganza, ed è stata una causa molto importante di quello scetticismo assai diffuso che mette in dubbio la possibilità di

un'interpretazione oggettivamente valida. Tali svantaggi sarebbero certo tollerabili se la teoria fosse vera: nelle questioni intellettuali lo scetticismo è

preferibile alle illusioni.

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Gli svantaggi della teoria non avrebbero potuto essere facilmente predetti nei giorni esaltanti in cui veniva sovvertito il vecchio ordine della critica

accademica. A quel tempo, ingenuità quali i pregiudizi positivistici della storia letteraria, l'affannosa ricerca di influenze e di altri schemi causali e la

passione post-romantica per le disposizioni di spirito, i sentimenti e le esperienze che accompagnano l'atto della composizione, furono a ragione

poste sotto accusa. Divenne sempre piú evidente che i fondamenti teorici della vecchia critica erano deboli e inadeguati. Non si può dire, pertanto,

che la teoria della irrilevanza dell'autore fosse inferiore alle teorie o semi-teorie alle quali si sostituiva, né si può dubitare che l'effetto immediato

della messa al bando dell'autore fu del tutto benefico e corroborante. Ora, a distanza di molti decenni, le difficoltà che accompagnano la teoria

dell'autonomia semantica sono chiaramente emerse e sono la causa di quel disagio che persiste nelle università, sebbene la teoria sia ormai da lungo

tempo vittoriosa.

Che tale stato di scetticismo e di confusione nel mondo accademico derivi in gran parte dalla teoria dell'irrilevanza dell'autore è, credo, un fatto della

nostra recente storia intellettuale. Infatti, una volta che l'autore fu spietatamente privato della prerogativa di determinare il significato del suo testo,

divenne a poco a poco evidente che non esisteva alcun principio adeguato per giudicare la validità di un'interpretazione. Per intrinseca necessità, lo

studio di «ciò che dice un testo» divenne studio di ciò che esso dice al singolo critico. Venne di moda parlare della «lettura» di un testo da parte di

questo o quel critico, e quel termine cominciò a comparire nei titoli di opere scientifiche. Esso sembrava implicare che, se l'autore era stato bandito,

rimaneva pur sempre il critico, e la sua nuova, originale, raffinata, ingegnosa o pertinente «lettura» aveva un suo interesse specifico.

Ciò che non si era notato nel primo entusiasmo per questo ritorno a «ciò che dice il testo», era che il testo doveva pur rappresentare il significato di

qualcuno, se non dell'autore, almeno del critico. Vero è che si costruí una teoria secondo la quale il significato del testo veniva identificato con tutto

ciò che si poteva plausibilmente ritenere significasse. (…). La teoria dell'autonomia semantica si rinchiuse entro formulazioni insoddisfacenti e

specifiche perché nella foga di mettere al bando l'autore essa ignorava che il significato è un fatto di coscienza e non di parole. In base alle

convenzioni della lingua, ogni sequenza di parole o quasi può legittimamente rappresentare piú di un complesso di significato. Una sequenza di

parole non ha alcun particolare significato finché qualcuno non voglia significare qualcosa mediante essa, o comprenda qualcosa da essa. Non esiste

una terra incantata dei significati fuori della coscienza umana. Ogni volta che il significato viene connesso alle parole, è una persona a operare la

connessione, e i significati particolari che essa dà a tali parole non sono mai gli unici legittimi in base alle norme e alle convenzioni della sua lingua.

Una prova che le convenzioni della lingua possono farsi garanti di significati diversi per la stessa sequenza di parole sta nel fatto che gli interpreti

possono essere (e spesso sono) in disaccordo. Quando si verificano discordanze del genere, come si potrà risolverle? Secondo la teoria

dell'autonomia semantica ciò è impossibile, in quanto il significato non è ciò che l'autore ha voluto significare, ma ciò che. la poesia significa per i

vari lettori sensibili. Nella misura in cui sono «sensibili», o «plausibili», tutte le interpretazioni sono ugualmente valide. Eppure il docente di

letteratura che aderisce alla teoria eliotiana è per professione anche il custode di un retaggio e un trasmettitore di conoscenza. Su che base pretenderà

che la sua «lettura» è piú valida di quella di un qualsiasi allievo? Su basi non molto salde. Questo impasse è una delle cause principali del

disorientamento talora avvertito, seppure non spesso confessato, dai critici accademici.

C'è una teoria specifica, avanzata per neutralizzare questa anarchia di «letture», che merita di essere qui espressamente ricordata, in quanto investe il

problema del valore, un problema che sta a cuore ad alcuni teorici moderni della letteratura. La lettura piú valida di un testo è quella «migliore». Ma

anche supponendo che un critico abbia avuto adito a criteri di giudizio divini mediante i quali determinare quale sia la lettura migliore, rimarrebbero

pur sempre davanti a lui due ideali normativi ugualmente vincolanti: il significato migliore e il significato dell'autore. Inoltre, se il significato

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migliore non fosse quello dell'autore dovrebbe essere quello del critico: nel qual caso il critico sarebbe l'autore del significato migliore. Ogni volta

che si conferisce significato a una sequenza di parole, è impossibile prescindere da un autore.

Cosí, quando i critici misero deliberatamente al bando l'autore originale, ne usurparono il posto essi stessi, e ciò condusse infallibilmente ad alcune

delle odierne confusioni teoriche. Laddove prima non v'era stato che un solo autore ora se ne levavano molti, tutti depositari di un'uguale autorità.

Togliere all'autore originale la prerogativa di determinare il significato volle dire rifiutare l'unico principio normativo vincolante che potesse

conferire validità a un'interpretazione. Potrebbe d'altronde darsi che in realtà non esista un ideale normativo vitale che governi l'interpretazione dei

testi. Ciò avverrebbe se dovesse aver valore qualcuno dei vari argomenti rivolti contro l'autore. Infatti, se il significato di un testo non è quello del

suo autore, nessuna interpretazione potrà mai corrispondere al significato del testo, dal momento che il testo non potrà avere alcun significato

determinato o determinabile. (…). Se un teorico vuol salvare l'ideale della validità deve salvare anche l'autore, e nel contesto odierno il suo primo

compito sarà quello di dimostrare che gli argomenti piú spesso portati contro l'autore sono discutibili e vulnerabili.

2. «Il significato di un testo muta — anche per il suo autore»

Una teoria che ha ottenuto vasto credito ai giorni nostri è quella per cui il significato di un testo muta. Secondo la concezione dello storicismo

radicale, il significato di un testo muta da epoca ad epoca; secondo quella dello psicologismo, esso muta da lettura a lettura. Poiché i presunti

mutamenti di significato di cui fa esperienza lo stesso autore sono necessariamente compresi in un tempo storico piuttosto breve, qui basterà che ci

occupiamo della concezione psicologistica. Certo, se una qualsiasi teoria della mutabilità semantica fosse vera, essa bandirebbe legittimamente il

significato dell'autore quale principio normativo dell'interpretazione; infatti, se il significato di un testo potesse sotto qualche aspetto mutare, non vi

sarebbe alcun principio per distinguere un'interpretazione valida da una falsa. Ma questo è un altro problema di cui si tratterà a suo luogo. Qui

basterà discutere non i problemi normativi generali (e insolubili) che sorgerebbero se il significato potesse essere mutevole, ma solamente le

condizioni che hanno fatto sí che i critici accusassero gli autori di tale volubilità.

Chiunque abbia scritto qualcosa, sa che la sua opinione sulla propria opera cambia e che le sue reazioni al proprio testo variano da una lettura

all'altra. Accade spesso che un autore si accorga di non essere piú d'accordo con il significato e la formulazione del suo testo, nel qual caso procede

a una revisione. Il nostro problema, ovviamente, non ha niente a che fare con simili revisioni e neppure col fatto che in momenti diversi un autore

può spiegare il significato del suo testo in modo diverso: gli autori infatti, come osservava Platone, sono talvolta incapaci di spiegare il significato

delle proprie opere. E nemmeno è pertinente al nostro problema lo sconcertante caso dell'autore che non comprende più il proprio testo, in quanto

una tale situazione è dovuta al fatto che anche un autore, come qualsiasi altra persona, può dimenticare ciò che ha voluto dire. Sappiamo tutti che

una persona a volte ricorda correttamente e altre volte no, e che a volte si possono riconoscere gli errori della propria memoria e correggerli: ma

niente di tutto questo ha il minimo interesse teoretico.

Quando i critici asseriscono che la comprensione di un testo da parte dell'autore muta, essi si riferiscono all'esperienza che fa ciascuno rileggendo la

propria opera: la sua risposta ad essa è diversa. E questo fenomeno ha indubbiamente importanza teoretica — sebbene non del tipo che ad esso si

attribuisce talvolta. Il fenomeno delle mutevoli reazioni dell'autore è importante in quanto illustra la differenza tra significato testuale e ciò che

approssimativamente si definisce la «risposta» al testo. (…). Ad ogni modo questi esempi non dimostrano che fosse mutato il significato dell'opera,

ma esattamente il contrario. Se a mutare fosse stato il significato dell'opera (invece che l'autore stesso, e il suo atteggiamento, nei confronti di esso),

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l'autore non avrebbe avuto bisogno di ripudiarlo e avrebbe potuto risparmiarsi il disagio di una pubblica sconfessione. Molto mutata era

indubbiamente la significanza dell'opera per l'autore, ma il significato non era mutato affatto.

È questo il punto cruciale della questione in tutti i casi di volubilità dell'autore di cui io sia a conoscenza: a mutare non è il significato del testo, ma

la sua significanza per l'autore. Troppo spesso si ignora questa distinzione: significato è ciò che è rappresentato da un testo, è ciò che l'autore ha

voluto significare mediante una particolare sequenza di segni, è ciò che rappresentano i segni; significanza indica invece un rapporto tra quel

significato e una persona o una concezione o una situazione o qualunque cosa si possa immaginare. Gli autori, che con l'andar del tempo mutano —

al pari di chiunque altro — atteggiamenti, sentimenti, opinioni e criteri di valutazione, con l'andar del tempo tenderanno ovviamente a considerare la

propria opera in contesti diversi. È evidente che ciò che muta per loro non è il significato dell'opera, ma piuttosto il loro rapporto con quel

significato. La significanza implica sempre un rapporto, e un termine costante e invariabile di tale rapporto è ciò che significa il testo. L'incapacità

di tener conto di questa semplice ed essenziale distinzione è stata fonte di enorme confusione nella teoria ermeneutica.

Se credessimo davvero che il significato di un testo è mutato per il suo autore, non ci sarebbe che un modo per saperlo: dovrebbe dircelo lui. In

quale altro modo potremmo sapere che la sua comprensione è cambiata, dal momento che quest'ultima è un fenomeno silenzioso e privato? Anche

se un autore annunciasse che la comprensione che egli ha del proprio significato è mutata, dovremmo non lasciarci sconcertare da un'affermazione

cosí poco plausibile, ma, in uno spirito di pacata indagine, seguirne le implicazioni fino in fondo. L'autore dovrebbe annunciare qualcosa del genere:

«Con queste parole volevo dire questo e quest'altro, ma ora mi accorgo che in realtà volevo dire qualcosa di diverso» oppure «Con queste parole

volevo dire questo e quest'altro, ma affermo che d'ora in poi esse significheranno qualcosa di diverso». Che succeda qualcosa del genere è

improbabile, perché di solito gli autori che vengono a trovarsi in tale situazione, al fine di comunicare piú efficacemente il nuovo significato

intraprendono una revisione del testo. Tuttavia è un'evenienza che potrebbe darsi, e proprio questa possibilità dimostra una volta di piú che una

stessa sequenza di segni linguistici può rappresentare piú di un complesso di significato.

(…) Questo esempio è, come ho detto, del tutto improbabile. Non conosco nessun caso in cui un autore sia stato cosí eccentrico da annunciare,

senza il proposito di ingannare, che col suo testo egli ora intendeva dire qualcosa di diverso da prima. (Le menzogne intenzionali sono ovviamente

un'altra cosa; esse non hanno maggiore interesse teoretico dei difetti di memoria). A questo improbabile esempio mi ha costretto l'improbabilità

della tesi originale: che cioè il significato di un testo muti per l'autore di esso. Ciò che l'esempio ha invece dimostrato è che il significato originario

non può mutare, nemmeno per il suo autore, benché questi possa certamente ripudiarlo. Quando i critici parlano di mutamenti di significato, in

genere si riferiscono a mutamenti di significanza. (…) Per il momento si è detto quanto basta a dimostrare che la nuova valutazione che un autore

può dare della significanza del suo testo, non ne muta il significato e, inoltre, che argomenti che fanno assegnamento su tali esempi, non sono armi

efficaci per attaccare né la stabilità né l'autorità normativa del significato originario dell'autore.

3. «Non importa ciò che vuol dire l'autore, ma solo ciò che dice il suo testo»

Come ho fatto notare nel paragrafo 1, questo dogma che occupa un posto centrale nella dottrina dell'autonomia semantica è di importanza cruciale

per il problema della validità. Se esso fosse vero, qualsiasi lettura di un testo sarebbe «valida», poiché ognuna corrisponderebbe a ciò che il testo

«dice» per un dato lettore. È inutile introdurre concetti normativi come «sensibile», «plausibile», «ricco», «interessante», poiché ciò che il testo

«dice» potrebbe in definitiva non essere alcuna di queste cose. Validità di interpretazione non equivale a inventività di interpretazione. Validità

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implica la corrispondenza di un'interpretazione a un significato rappresentato dal testo, e nessuno dei summenzionati criteri per distinguere le

interpretazioni sarebbe applicabile a un testo che fosse noioso, monotono, rozzo, non plausibile o non interessante. Un testo siffatto potrebbe non

meritare di essere interpretato, ma un criterio di validità incapace di misurarsi con esso non merita credito.

Si può star certi che i sostenitori inglesi e americani dell'autonomia semantica additeranno pressoché invariabilmente l'esempio di T. S. Eliot, il

quale ripetutamente si rifiutò di fare commenti sul significato dei propri testi. Tale rifiuto si fondava sull'opinione che l'autore non ha alcun potere

sulle parole che ha liberato per il mondo, né particolari privilegi come interprete di esse. Sarebbe stata un'incoerenza se Eliot avesse poi protestato

quando qualcuno interpretava in modo errato i suoi scritti; ma, per quanto mi consta, con stoica coerenza, egli non protestò mai. Non arrivò però

mai al punto di asserire di non aver voluto dire niente in particolare con i suoi scritti. Si può presumere che qualcosa abbia voluto dire, ed è impresa

lecita cercare di scoprire che cosa sia. Tale impresa ha un obiettivo determinato e pertanto può essere compiuta correttamente o incorrettamente; non

ha invece un obiettivo determinato quella di scoprire che cosa dice un testo, dato che il testo può dire cose diverse a diversi lettori. Una lettura è

altrettanto valida o non valida di un'altra. Comunque, l'obiezione decisiva alla teoria dell'autonomia semantica non è che purtroppo essa non riesce a

fornire un adeguato criterio di validità: l'obiezione decisiva va cercata all'interno della teoria stessa e nella difettosità degli argomenti adoperati per

sostenerla.

Uno di questi argomenti, ormai famoso, si fonda sulla distinzione tra la mera intenzione di fare qualcosa e il concreto compimento di tale

intenzione. L'aspirazione dell'autore a comunicare un particolare significato e il suo riuscirvi non sono necessariamente la stessa cosa. Poiché ciò

che egli ha effettivamente compiuto è visibile nel suo testo, qualsiasi tentativo di divinare la sua intenzione porrebbe erroneamente sullo stesso

piano il suo desiderio, che è privato, e la sua realizzazione, che è pubblica. Il significato di un testo è un fatto pubblico. L'ampia diffusione di questo

argomento e la sua accettazione come assioma della recente critica letteraria possono ricondursi all'influsso di quel vigoroso saggio, The Intentional

Fallacy, scritto da W. K. Wimsatt e Monroe Beardsley e pubblicato per la prima volta nel 1946. Chi voglia criticare le argomentazioni in esso

contenute, si trova di fronte al problema di distinguere tra il saggio in sé e l'uso che ne è stato fatto a livello divulgativo: infatti, ciò che si dà

largamente per scontato come verità provata non era discusso nel saggio, né avrebbe potuto esserlo con successo. Benché Wimsatt e Beardsley

distinguessero accuratamente tre tipi di prove riguardanti le intenzioni e riconoscessero che due di essi sono corretti e ammissibili, le loro accurate

distinzioni e precisazioni sono ormai svanite nella versione popolare che consiste nel falso e superficiale dogma secondo cui l'intenzione di un

autore è irrilevante per il significato del suo testo.

Il modo migliore di indicare che cosa c'è di errato in questa versione popolare è discutere prima la dimensione in cui essa è perfettamente valida,

quella cioè della valutazione. Sarebbe assurdo valutare l'appropriatezza stilistica di un testo senza distinguere tra l'intenzione dell'autore di

trasmettere un significato e la sua efficacia nel farlo. Analogamente, sarebbe assurdo voler giudicare la profondità di un trattato di morale senza

distinguere l'intenzione dell'autore di essere profondo dal suo riuscirvi. La valutazione distingue costantemente tra intenzione e realizzazione.

Facciamo un esempio: in una poesia di quattro versi, un poeta intende comunicare un senso di desolazione, ma ciò che riesce a comunicare ad alcuni

lettori è che il mare è bagnato, e ad altri che si avvicina il crepuscolo. È chiaro che la sua intenzione di comunicare desolazione non coincide con la

sua efficacia stilistica nel farlo, e gli anti-intenzionalisti hanno perfettamente ragione a farlo notare. Ma la fallacia intenzionalistica è propriamente

applicabile soltanto alla riuscita artistica e ad altri criteri normativi come la profondità, la coerenza e cosí via. Gli anti-intenzionalisti hanno tutte le

ragioni di difendere il diritto e il dovere del critico di giudicare liberamente in base ai propri criteri e di denunciare le discrepanze tra aspirazione e

fatto. Tuttavia, la fallacia intenzionalistica non ha la minima possibilità di applicarsi correttamente nel caso del significato verbale. Nell'esempio di

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cui sopra il solo significato della poesia universalmente valido è il senso di desolazione. Se il critico non ha compreso questo punto non potrà

neppure pervenire a un giudizio accurato — e cioè che il significato è stato espresso in modo inefficace e che, in primo luogo, non valeva forse la

pena esprimerlo.

Sotto la cosiddetta fallacia intenzionalistica e, piú in generale, sotto la dottrina dell'autonomia semantica sta un assunto che, se fosse vero, varrebbe

almeno a rendere plausibile l'opinione che il significato del testo è indipendente dall'intenzione dell'autore. Mi riferisco al concetto di consenso

pubblico. Se un poeta avesse inteso comunicare con la sua poesia un senso di desolazione, e ad ogni lettore competente essa comunicasse invece

solo un senso di crepuscolo imminente, tale dimostrazione di pubblica unanimità costituirebbe (in questo caso particolare) una tesi molto solida a

favore della irrilevanza pratica dell'intenzione dell'autore. Ma quando si è mai avuta una simile unanimità? Se essa fosse un fatto generale, non ci

sarebbero problemi di interpretazione. (…)

4. «Il significato dell'autore è inaccessibile»

Poiché ciascuno di noi è una persona diversa dall'autore, noi non possiamo riprodurre in noi stessi il significato che egli ha inteso, e anche se per

caso lo potessimo, non potremmo però esser certi di esservi riusciti. Perché dunque interessarci a un'impresa intrinsecamente impossibile quando

potremmo meglio impiegare le nostre energie in utili occupazioni quali rendere il testo rilevante per i nostri attuali interessi o giudicare la sua

conformità a elevati canoni di eccellenza? L'obiettivo di riprodurre un passato inaccessibile e privato va messo da parte come un'impresa inutile.

Certo, per non perdere allusioni o fraintendere i significati correnti delle parole, è essenziale comprendere un certo numero di fatti pubblici relativi

al linguaggio e alla storia, ma queste operazioni preliminari restano saldamente in un ambito pubblico e non interessano un mondo privato che esor-

bita dalla lingua scritta.

Prima di toccare il punto chiave di questo argomento — e cioè che il significato inteso dall'autore non può essere conosciuto — vorrei fare

un'osservazione a proposito dell'argomento sussidiario riguardante le dimensioni pubblica e privata del significato testuale. Secondo tale argomento

sarebbe un errore confondere un fatto pubblico — la lingua — con un fatto privato — cioè la mente dell'autore. Ma io non mi sono mai imbattuto in

un'interpretazione che inferisse dal testo significati veramente privati. Un interprete potrebbe senza dubbio inferire significati che a nostro giudizio

non possono assolutamente, in alcun caso, essere impliciti nelle parole dell'autore, ma in tal caso rifiuteremmo l'interpretazione non perché privata,

ma perché probabilmente errata: quel significato, diciamo, non può essere implicito in quelle parole. Se il nostro scetticismo fosse condiviso da tutti

i lettori dell'interpretazione, sarebbe ragionevole affermare che l'interpretazione è privata. Comunque è raro che un'interpretazione non abbia almeno

qualche sostenitore — nel qual caso, per pochi che ne abbia, il significato non è privato, ma alla peggio improbabile.

Tutte le volte che un'interpretazione riesce convincente per un'altra persona, ciò stesso senza dubbio prova che le parole dell'autore possono

implicare pubblicamente quel dato significato. Poiché il significato interpretato è stato comunicato a un'altra persona, anzi ad almeno due altre

persone, l'unico interrogativo importante ai fini dell'interpretazione è: «L'autore intendeva veramente quel significato pubblico con le sue parole?»

Obiettare che tale significato è strettamente personale e che l'autore non avrebbe dovuto intenderlo, è un legittimo giudizio di ordine estetico o

morale, ma è irrilevante al problema del significato. Quel significate, — se l'autore ha voluto realmente significarlo — si è dimostrato pubblico, e se

l'interprete riesce ad essere convincente, il significato può diventare accessibile a un vastissimo pubblico. Se uno del pubblico dice: «sì, mi rendo

conto che l'autore ha effettivamente voluto dire ciò, ma si tratta di un significato privato e non pubblico», questa non è che una contraddizione in

termini.

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L'impulso che sta alla base di un ragionamento cosi contraddittorio è una giusta intuizione che merita di essere espressa in termini piú appropriati

che non «pubblico» e «privato». La questione è innanzitutto di ordine morale ed estetico. È bene chiedere agli autori di dimostrare considerazione

per i lettori, e di usare il loro patrimonio linguistico avendo riguardo per la generalità degli uomini e non solo per pochi eletti. Eppure molti nuovi

usi sono destinati a sfuggire alla generalità degli uomini finché i lettori non si siano abituati ad essi. Quello di far ricorso a implicazioni semi-private

— accessibili dapprincipio solo a pochi — è un rischio che molto spesso vale la pena di correre, soprattutto se alla fine il nuovo uso diviene davvero

largamente compreso. La lingua si espande in virtù di tali rischiose innovazioni. Peraltro, la piú fondata obiezione ai cosí detti significati privati non

riguarda il giudizio morale ed estetico, ma la pratica dell'interpretazione. Quegli interpreti che cercano implicazioni personali in espressioni

formalizzate quali le poesie, molto spesso non fanno alcun conto delle convenzioni e delle limitazioni proprie del genere, di cui l'autore

era invece perfettamente consapevole. Quando un autore compone una poesia di solito la intende come un'espressione le cui implicazioni non sono

oscuramente autobiografiche. Possono esservi eccezioni a questa regola empirica, e i generi poetici sono troppo vari per autorizzare qualsiasi

generalizzazione incondizionata riguardo alle convenzioni poetiche e alle intenzioni degli autori, ma troppi interpreti in passato hanno cercato

significati autobiografici dove non era la minima intenzione che ve ne fossero. Tali interpreti sono stati insensibili alle convenienze osservate

dall'autore e alle sue intenzioni. In interpretazioni del genere l'errore non sta nel fatto che i significati inferiti sono privati, ma nel fatto che

probabilmente essi non sono i significati dell'autore. Se un significato sia o no autobiografico, è una questione indifferente nell'interpretazione e di

per sé irrilevante. La sola cosa che conti è se l'interpretazione abbia probabilità di essere giusta.

L'autentica distinzione tra significato pubblico e significato privato è contenuta nella prima parte dell'argomento, là dove si asserisce che il

significato inteso dall'autore non può essere conosciuto. Dal momento che non possiamo entrare nel cervello dell'autore, è inutile affliggersi per

un'intenzione che non può essere osservata, ed altrettanto inutile è tentare di riprodurre un'esperienza di significato che, essendo privata, non può

essere riprodotta. Ora, l'affermazione che il significato dell'autore non può essere riprodotto, presuppone la stessa teoria psicologistica del

significato che sta alla base dell'idea secondo cui il significato muta perfino per lo stesso autore. Neppure l'autore infatti può riprodurre il suo

significato originario, perché niente può restituirgli l'originaria esperienza di significato. Ma, come ho già indicato, irriproducibilità delle esperienze

di significato non è lo stesso che irriproducibilità del significato. L'identificazione psicologistica tra significato testuale e esperienza di significato è

inammissibile. Le esperienze di significato sono private, ma esse non sono significati.

L'argomento piú importante da considerare qui è quello che afferma che il significato inteso dall'autore non può essere conosciuto con certezza: non

si può controbattere questo argomento con successo perché è di una verità lapalissiana. Io non potrò mai conoscere con certezza il significato che ha

inteso un altro: infatti non posso entrargli nella testa per paragonare il significato che egli intende con il significato che comprendo io, mentre solo

con un confronto diretto di questo tipo, potrei esser certo che il suo significato e il mio sono identici. Ma che questo ovvio fatto non venga a sancire

la troppo affrettata conclusione che il significato inteso dall'autore è inaccessibile e pertanto inutile oggetto di interpretazione! È un errore di logica

confondere l'impossibilità di comprendere con certezza, con l'impossibilità di comprendere. Errore analogo, anche se piú insidioso, è identificare la

conoscenza con la certezza. Ci sono numerose discipline che non avanzano pretese di certezza, e quanto piú raffinata è la metodologia di una

disciplina, tanto meno probabile sarà che il suo fine sia definito come certezza di conoscenza. Poiché nell'interpretazione è impossibile un'autentica

certezza, obiettivo della disciplina deve essere quello di raggiungere il consenso che, sulla base di ciò che è noto, si è probabilmente conseguita una

corretta comprensione. La questione non è se all'interprete sia accessibile la certezza, ma se gli sia accessibile il significato che ha inteso l'autore. È

possibile una corretta comprensione? Questo è il problema sollevato dalla tesi in esame.

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La maggior parte di noi risponderebbe che il significato dell'autore è solo parzialmente accessibile all'interprete. Come si inferisce da due diverse

prove familiari a tutti, noi non possiamo conoscere tutti i significati che l'autore agitava nella sua mente mentre scriveva il suo testo. Ogni volta che

parlo, io presto generalmente attenzione a («ho in mente») significati che sono al di fuori dell'argomento del mio discorso. Inoltre sono sempre

consapevole che i significati che posso comunicare per via di discorso sono più limitati dei significati che posso avere in mente. Per esempio, non

posso adeguatamente comunicare a parole molte delle mie percezioni visive — benché tali percezioni siano significati, cioè a dire oggetti della

coscienza. È tutto sommato probabile che nessun testo possa mai comunicare tutti i significati che l'autore aveva in mente mentre scriveva.

Ma questo fatto evidente non è di importanza decisiva. Perché mai una persona di buon senso dovrebbe desiderare di assimilare il significato

testuale a tutti i significati che l'autore può aver avuto in mente mentre scriveva? Alcuni di essi, egli non aveva alcuna intenzione di comunicarli con

le parole. Ogni autore sa che le espressioni verbali scritte possono comunicare soltanto significati verbali, cioè significati che possono essere

comunicati ad altri mediante le parole che egli adopera. L'interpretazione di un testo si occupa esclusivamente di significati condivisibili, e non tutto

ciò che penso quando scrivo può essere condiviso con altri mediante le mie parole. Viceversa, molti dei miei significati condivisibili sono significati

ai quali non sto affatto pensando direttamente: essi sono i cosiddetti significati inconsci. Tradisce una concezione assolutamente inadeguata del

significato verbale il fatto di assimilarlo a ciò che l'autore «ha in mente». La sola questione che sia pertinente mettere in discussione è se il

significato verbale che un autore intende sia accessibile all'interprete del suo testo.

La maggior parte degli autori crede nell'accessibilità del proprio significato verbale, perché altrimenti la maggior parte di essi non scriverebbe. (…)

5. «L'autore spesso non sa ciò che ha voluto dire»

Fin da quando il Socrate di Platone, conversando con i poeti chiese loro, con risultati del tutto insoddisfacenti, di spiegare «alcuni dei passi piú

elaborati dei loro scritti», è un luogo comune quello secondo cui un autore spesso non sa ciò che ha voluto dire. Kant asserí decisamente che

neppure Platone sapeva ciò che voleva dire, e che egli poteva comprendere alcuni degli scritti di Platone meglio di Platone stesso. Esempi simili di

ignoranza dell'autore sono indubbiamente tra le armi piú dannose, nell'attacco contro l'autore. Se, come pare, è possibile dimostrare che in certi casi

l'autore non sa ciò che vuoi dire, sembrerebbe conseguirne che il significato dell'autore non può costituire un principio generale o una norma per

determinare il significato di un testo — mentre è proprio un principio normativo generale che si richiede nella definizione del concetto di validità.

Non tutti i casi di ignoranza da parte dell'autore sono dello stesso tipo. Platone, per esempio, sapeva senza dubbio molto bene che cosa voleva dire

con la teoria delle Idee, ma può darsi — come riteneva Kant — che la teoria delle Idee avesse implicazioni diverse e piú generali di quelle

enunciate da Platone nei suoi dialoghi. Benché questo fosse definito da Kant un caso in cui l'autore viene compreso da altri meglio di quanto egli

comprenda se stesso, il modo di esprimersi kantiano è inesatto, poiché non era il significato di Platone ciò che Kant comprendeva meglio di Platone

stesso, bensí l'oggetto che Platone cercava di analizzare. Il pensare che la comprensione delle Idee da parte di Kant fosse superiore a quella di

Platone implica l'esistenza di un oggetto rispetto al quale il significato di Platone era inadeguato. Se non operiamo questa distinzione tra oggetto e

significato, non abbiamo basi per giudicare che la comprensione di Kant è migliore di quella di Platone. L'affermazione di Kant sarebbe stata più

precisa se egli avesse detto di comprendere meglio di Platone, le Idee, e non il significato di Platone. Se non operiamo e manteniamo la distinzione

tra il significato e l'oggetto di un autore, non potremo distinguere tra significati veri e falsi, migliori e peggiori.

Quest'esempio illustra uno dei due principali tipi di ignoranza dell'autore. Esso ha la più grande importanza in quei generi di scritti che aspirano a

dire la verità intorno a un particolare oggetto. L'altro tipo di ignoranza dell'autore concerne non già l'oggetto, ma il significato stesso dell'autore, e

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può essere illustrato sottoponendo ad analisi stilistica una casuale conversazione: «Lo sapevi che quelle tue ultime due frasi avevano costruzioni

parallele che sottolineavano la loro analogia di significato?»; «Davvero? Come sono bravo! Credo che in realtà volessi davvero sottolineare

l'analogia, benché non ne fossi consapevole e non avessi idea che a tal fine stavo usando degli accorgimenti retorici».

Ciò che quest'esempio illustra è che nel significato inteso da un autore vi sono di solito delle componenti di cui egli non è cosciente. È proprio qui,

allorché rende espliciti tali significati intesi ma inconsci, che l'interprete può, a ragione, affermare di comprendere l'autore meglio dell'autore stesso.

Ma qui occorre di nuovo un chiarimento: l'interprete ha diritto di fare tale affermazione solo quando egli evita attentamente di confondere

significato e oggetto, come nell'esempio di Platone e Kant. L'interprete può credere di stare portando alla luce implicazioni che sono «necessari»

accompagnamenti del significato dell'autore, ma siffatti accompagnamenti necessari raramente sono componenti imprescindibili del significato di

chicchessia. Essi diventano associazioni necessarie soltanto all'interno di un dato oggetto. Per esempio, benché il concetto di «due» implichi

necessariamente tutto un complesso di concetti tra i quali quelli di successione, numero intero, insieme e cosí via, può avvenire che questi concetti

non siano implicati in un dato uso della parola, dal momento che tale uso potrebbe essere inadeguato o frutto di un fraintendimento per quanto

riguarda l'oggetto in cui rientra il «due». Solo entro quell'oggetto sussiste la necessità dell'implicazione. Quindi, sostenendo di scorgere implicazioni

di cui l'autore non era cosciente possiamo a volte distorcere e falsare il significato di cui egli era cosciente e questo non è un «migliore

intendimento», bensí solo un fraintendimento del significato dell'autore. (…)

Altre varietà di ignoranza dell'autore hanno pertanto scarso interesse teoretico. Osservando che i poeti non sapevano «spiegare» ciò che avevano

voluto dire, Platone voleva insinuare che i poeti erano inefficaci, poco intelligenti e vaghi — in particolare per quanto riguardava i loro «passi pii

elaborati». Ma egli non avrebbe certo sostenuto che un significato vago, incerto, nebuloso e pretenzioso non sia un significato o non sia il significato

del poeta. Anche quando un poeta dichiara che alla sua poesia si può attribuire qualsiasi significato (come nel caso di alcuni autori moderni che

credono nella corrente teoria del significato pubblico e della irrilevanza dell'autore), la sua poesia può indubbiamente non significare niente in

particolare. Eppure anche in un caso limite come questo è sempre l'autore che «determina» il significato.

Un ultimo esempio di ignoranza dell'autore, un esempio Prediletto dai critici letterari, si basa sull'esame delle prime stesure di un testo, le quali

spesso indicano che non di rado ciò che l'autore evidentemente intendeva quando cominciò a scrivere è del tutto diverso da ciò che significa l'opera

definitiva. Esempi del genere mostrano come considerazioni di stile, di genere e di dettagli di testura possano avere, rispetto al significato definitivo

dell'autore, una maggiore importanza che non l'intenzione originaria: ma queste interessanti osservazioni hanno ben scarso valore teoretico. Se nella

prima stesura un poeta vuol dire qualcosa di diverso da quel che dice nella stesura definitiva, ciò non implica che sia altri che il poeta a costituire il

significato. Se il poeta sfrutta appieno un particolare effetto che originariamente non aveva inteso, tanto meglio se ciò rende migliore la poesia. Ma

tutto questo non implica certo che l'autore non significhi ciò che vuoi dire o che il suo testo non significhi ciò che egli intende comunicare.

Se un insegnamento almeno si può trarre dalle analisi condotte in questo capitolo, esso è che il significato è un fatto di coscienza e non di segni

fisici o di cose. La coscienza, a sua volta, è un fatto di persone e, nell'interpretazione di un testo, le persone interessate sono un autore e un lettore. I

significati che vengono attualizzati dal lettore, o egli li condivide con l'autore o appartengono a lui solo. Questa formulazione del problema, anche se

può offendere la nostra inveterata opinione che la lingua è portatrice dei suoi significati autonomi, non mette affatto in questione il potere della

lingua. Al contrario, dà per scontato che ogni significato comunicato da testi è in certa misura vincolato alla lingua, che nessun significato testuale

può trascendere la possibilità significativa e il controllo della lingua in cui esso è espresso. Ciò che qui si è voluto negare è che i segni linguistici

possano in qualche modo comunicare da soli il loro significato un'idea mistica che non è stata mai difesa in modo persuasivo.

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CARLA BENEDETTI

È morto l’autore?

Qualche anno fa, un pallido volto d'autore che risponde al nome di Alfonso Luigi Marra è comparso ripetutamente nell'inserto libri di alcuni

quotidiani. Un'intera pagina della "Repubblica", poi del "manifesto", infine della "Stampa" era occupata dal suo messaggio pubblicitario: in alto la

fotografia, sotto un lungo brano tratto dal libro pubblicizzato. Di libri Marra ne ha scritti diversi, e di non facile classificazione a giudicare dai titoli

che si sono susseguiti: ad esempio Cucciolino, La storia di Aids. E a giudicare soprattutto da quelle tirate un po' pedanti, su temi presunti scomodi,

con cui riempiva il paginone: scritte in una singolare mescolanza di stile avvocatesco e di culture alternative, esse lasciavano capire poco o nulla

dell'argomento del libro. L'inserzione comparve molte volte, a intervalli più o meno regolari, nell'arco di un anno o due. Fuori da quel paginone però

nessuno parlava di Marra: la sua opera non era un evento, e il suo messaggio pubblicitario (di cui lascio immaginare i costi) faceva pensare a quel

"fragore senza suono" che Adorno diceva di trovare ogni mattina nelle pagine dei quotidiani.

Di che cosa trattavano dunque quei libri? Per saperne di più, una volta ne chiesi uno in edicola: non ne avevano mai sentito parlare. Andai a

controllare la pubblicità: diceva "in edicola a partire da ***", ed era una data futura. Qualche mese più tardi un altro paginone annunciava un nuovo

libro di Marra, sempre con la stessa formula — e la data era slittata in avanti. Cominciai a sospettare che l'oscura casa editrice napoletana (di cui si

dava l'indirizzo) non esistesse; che Marra non avesse mai scritto niente; e che quei paginoni pubblicitari con i lunghi testi fossero la sua unica opera.

L'ipotesi era suggestiva, ma poi un amico mi assicurò di aver avuto tra le mani almeno uno di quei libri, distribuito gratuitamente in una qualche

manifestazione a Napoli.

Tuttavia, anche se quei libri esistono, le cose non cambiano di molto. L'opera di Marra continua e probabilmente continuerà a essere ignorata dai più

- ed è quindi come se non esistesse -, mentre il suo nome d'autore esiste ed è forse ancora noto a molti. È un curioso effetto di sparizione che

colpisce non l'autore - come vorrebbero i teorici della letteratura -, bensì l'opera, e che potremmo chiamare "effetto Marra" in omaggio allo

stravagante avvocato napoletano che sperperava il patrimonio in autopromozione.

Autore senza opera

Marra incarna la condizione di esistenza di un'incredibile quantità di autori della nostra epoca (anche di quelli che non hanno bisogno di pagarsi la

promozione), e che non è riservata ai soli scrittori, ma anche a saggisti, filosofi e artisti: esistono come autori in quanto se ne parla in quel salotto a

distanza costituito dall'insieme dei luoghi deputati, dai talk show alle pagine culturali - piuttosto che come autori di opere lette, fruite, concretamente

esperite. Il fenomeno è l'opposto di ciò che le teorie letterarie degli ultimi decenni, dallo strutturalismo alla semiotica, dall'ermeneutica al

decostruzionismo, fino alle nuove teorie dell'ipertesto informatico, predicano da tempo. Esse non fanno che ripeterci che l'autore si è eclissato dietro

la presenza anonima dei testi e delle "reti creative"; che quel che conta per il lettore non è l'autore ma il testo, nella sua architettura interna e nei suoi

rimandi ad altri testi. Ebbene, le cose sembrerebbero stare in modo un po' diverso. Non il testo senza autore raggiunge il lettore dagli intricati

circuiti della comunicazione letteraria; semmai l'autore senza opera.

Gli autori senza opera non sono semplici nomi: essi possono avere un'esistenza piena, "strutturata", popolata di fatti e di opinioni. Di loro

conosciamo i volti: volti d'autore in copertina fissano il lettore esitante. Di loro conosciamo le opinioni: voci "autorevoli" ci parlano dalle pagine

culturali o dagli schermi televisivi, ghiottamente sollecitate oppure spontaneamente donantisi; parlano dei propri libri, di che cosa significano e di

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come vadano letti; ma anche dei libri degli altri, degli autori del passato e delle sorti della letteratura. Qualche volta parlano anche dei costumi, delle

guerre e di dove va il mondo. Degli autori però conosciamo soprattutto una cosa: come si collocano nella grande partita della letteratura. I loro nomi

riempiono le pagine culturali raggruppati e contrapposti, con tanto di diagrammi, differenziati in genealogie e tipologie poetiche. In altre parole di

essi conosciamo sempre e innanzitutto la "poetica": cioè quel concetto che si suppone racchiudere il senso e il valore della loro operazione artistica.

Talvolta si tratta di una poetica dichiarata dagli stessi scrittori; ma sempre più spesso non è che un'etichetta attribuita dalla promozione editoriale,

oppure dai giornalisti culturali e dai critici nelle loro dispute quotidiane.

Da secoli il fenomeno della conoscenza per fama è un fatto di ordinaria amministrazione: quanti autori classici ci sono noti in maniera indiretta, per

ciò che se ne racconta nelle storie letterarie o nel sentito dire, senza che se ne sia mai letta una riga! Ma ciò di cui sto parlando è qualcosa di più

singolare. L'autore senza opera è lui stesso la propria opera. Il suo nome è un segno, o, se si vuole - prendendo un po' provocatoriamente a prestito

un termine che la semiotica riservava al testo letterario un "ipersegno", ricco di rimandi interni ("già autore di ***") ed esterni ("sulla linea del tale

autore", "molto diverso dal talaltro"). Esso si offre al lettore in quanto dotato di sue proprie "marche differenziali": in che cosa questo autore si

distingue dagli altri; quale progetto sorregge la sua operazione; per che cosa viene considerato nuovo o originale ecc.; talvolta la sua marca

differenziale è persino portata dall'età anagrafica, come mostra la categoria di "giovane narratore", ormai corrente in Italia a partire dagli anni

ottanta. Sono questi fitti rimandi all'autore, e dall'autore ad altri autori, che fanno esistere il testo per lettori e acquirenti. Come sa bene l'industria

editoriale, dove la costruzione dell'immagine dell'autore ha acquistato un'importanza decisiva ai fini della promozione. Una qualche singolarità dello

scrittore, reale o fittizia che sia, da far rimbalzare sulle pagine culturali (l'effigie corporea o, al contrario, una misteriosa invisibilità; un'opinione, una

presa di posizione, un qualche dato biografico) sono gli ingredienti più usati per le strategie di vendita del libro. Fenomeni analoghi si riscontrano

anche in altri settori dell'industria culturale, dal mercato dell'arte all'industria cinematografica.

(…)

L'ipocrisia dei giornalisti culturali si sposa bene con i sonni tranquilli dei teorici che parlano ormai solo di testi e di lettori, e mai di autori. Per loro è

come se l'autore non esistesse più; quando invece è proprio l'autore a fare da pilastro all'istituzione letteraria, e a sorreggerne i vari momenti, dalla

produzione alla promozione, dalla critica alla fruizione. L'effetto Marra potrebbe risvegliarli e infondere loro almeno un dubbio: se l'autore è

davvero morto, che cosa è mai questa figura che continua a vagare, come un revenant, nel vecchio continente letterario? E se quella rete di testi,

ipertesti e intertesti di cui sono popolati i loro sogni fosse solo una letteratura di autori senza opera?

Un mito tardomoderno

Se ci si chiede come sia stato possibile che di fronte a fenomeni così macroscopici la teoria letteraria abbia potuto per tanto tempo rimuovere

l'autore dai suoi studi (e dal suo campo visivo), occorrerà ritornare un po' indietro negli anni, a quando ha iniziato a prendere corpo uno dei miti più

singolari che la nostra epoca abbia prodotto. Eccolo concentrato in una fulminea frase di Roland Barthes: «Quando la scrittura comincia, l'autore

entra nella propria morte». Ciò che ne fa un "mito" non è solo il magico colpo di spugna con cui cancella l'ingombrante entità dell'autore, ma anche

il fatto che parla molto di questa scomparsa. È una singolare epopea negativa il cui protagonista indiscusso resta l'autore, sia pure nel ruolo del

morto. Il suo motto è "che importa chi parla", poiché è il linguaggio a parlare; che importa chi scrive, poiché la scrittura apre lo spazio in cui il

soggetto si disperde; che importa chi firma, giacché l'importante è il testo nella sua strutturazione interna, o nei suoi rimandi ad altri testi.

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La data di nascita del mito possiamo fissarla convenzionalmente negli anni sessanta, anche se bisogna risalire più indietro, e in direzioni molteplici,

per ritrovarne la genesi. Quando Barthes scriveva La morte dell'autore, nel 1968, il New Criticism americano aveva già da tempo attaccato la

nozione di "intenzione dell'autore"; Benveniste aveva già iniziato gli studi sulla soggettività nel linguaggio che ebbero un forte influsso sul mito; e

Blanchot già intessuto la sua epopea sulla scrittura come spazio impersonale, anonimo, in cui lo scrittore esperisce la propria morte. Ma è nei tardi

anni sessanta che il tema della morte dell'autore esplode in trattazioni filosofiche, critiche e poetiche. Il suo epicentro è la Francia, dove si lega

anche ai nomi di Derrida, Kristeva, Sollers, ed è amplificato da riflessioni concomitanti come quella di Lacan sulla "sovversione del soggetto". Da lì

si dirama in diverse teorie letterarie, dalla semiotica al decostruzionismo, dando origine a un dogma teorico da cui non ci siamo più liberati. Esso

vuole che per comprendere, interpretare e valutare i testi letterari l'autore non sia un termine di riferimento necessario. Nemmeno l'ermeneutica,

l'altra koinè filosofica del nostro tempo, ne è aliena: in contrasto con la propria tradizione ottocentesca e diltheyana (che intendeva la comprensione

come ricostruzione psicologica dell'orizzonte dell'autore da parte del lettore), essa sviluppa un analogo rigetto della categoria dell'autore. Con la

cosiddetta "svolta linguistica" di Gadamer anche l'ermeneutica si sbarazza della necessità di ricorrere alla coscienza intenzionante dell'autore, e

incomincia a parlare solo di intenzione del testo, in piena consonanza con il mito. Così anche il lettore dell'ermeneutica non dialoga più con gli

autori ma con la rete acefala dei testi.

A seconda delle teorie in cui viene inglobato, il mito porta in primo piano, in opposizione all'autore, ora il linguaggio, ora la scrittura, ora la lettura

e, in ogni caso, il testo e i testi. All'opera - nozione che implica pur sempre un autore, in quanto creata da qualcuno - si sostituisce il testo: un tessuto

connettivo, senza organi né muscoli, senza centri nervosi superiori. Il testo è poi in contatto con una miriade di altri testi, assieme ai quali forma uno

strano organismo, pulsante di vita propria, come un ammasso di esseri unicellulari che si fagocitano e si riproducono per partenogenesi. Questo

organismo reticolare è l'intertestualità. L'idea dell'intertestualità, che ogni teoria specifica a suo modo, ma che tutto sommato costituisce un'ideologia

omogenea, fa da pendant al tema della morte dell'autore: essa ratifica la non pertinenza del soggetto creatore, e dunque la sua eclisse. L'idea di

letteratura che si afferma è quella di una fitta rete di testi che rimandano l'uno all'altro, presi in un'intertestualità dialogante.

Infine, in tempi più recenti, il mito è stato rilanciato dai cantori delle nuove tecnologie informatiche, che si sono appropriati dei concetti della teoria

letteraria post-strutturalista, dando loro, assieme a una sorta di "convalida empirica", anche la possibilità di una divulgazione di massa. Il cosiddetto

lettore interattivo creato dall'ipertesto avrebbe infatti, secondo l'opinione di molti, inferto l'ultimo colpo alla figura agonizzante dell'autore. Dando al

lettore la possibilità di scegliere il proprio cammino attraverso il metatesto, di annotare testi scritti da altri e di creare collegamenti tra di essi, si

sarebbero vanificate molte delle tradizionali prerogative dell'autore (autorità, autonomia dell'opera, proprietà intellettuale), disperdendone

ulteriormente il ruolo e rendendo antiquato ogni approccio ai testi incentrato sull'autore.5 E c'è addirittura chi sostiene che "è il network il futuro

della scrittura creativa". Così, oggi, dovunque ci si volga, si parla ormai solo di testi, ipertesti, intertesti e metatesti, di lettori che dialogano con i

testi, e di testi che dialogano con altri testi. L'autore non c'è più - o meglio, si fa come se non ci fosse.

Scopo principale di questo libro è liberare la teoria da quel dogma e dall'ipocrisia che lo alimenta. L'autore non è affatto scomparso, anzi la sua

funzione non è mai stata tanto forte e centrale come nella comunicazione letteraria odierna. Per quanto talvolta svuotato di opera e quasi ridotto a

immagine, a simulacro senza corpo, è proprio l'autore a sorreggere l'istituzione letteratura e, più in generale, l'istituzione arte. Una tale affermazione

avrà naturalmente bisogno di essere argomentata con pazienza, attraverso un'analisi di quelli che possono essere considerati i tratti specifici dell'arte

moderna, e della maniera in cui la tarda modernità li ha rielaborati. Procedendo in quella direzione, potremo così anche rispondere alla domanda che

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probabilmente starà ora affiorando in chi legge: come spiegare il fatto che la cultura contemporanea, proprio mentre dà all'autore un ruolo così forte

e centrale, ne abbia nello stesso tempo sognato e teorizzato l'estinzione? Come spiegare una tale discrepanza tra i fatti e la loro descrizione da parte

della teoria? Che cosa è stato in realtà il mito della morte dell'autore? La teoria letteraria post-strutturalista ha lasciato fuori dalle sue descrizioni

un'incredibile quantità di fenomeni legati all'autore, al suo ruolo dentro le procedure di classificazione e di ordinamento della comunicazione

artistica, alla sua valorizzazione, alla sua trasformazione in immagine; e soprattutto, come vedremo, ha cancellato con un colpo di spugna i

malesseri che tali fenomeni hanno prodotto negli artisti. Perciò tutto il suo armamentario teorico non può non apparirci sospetto: non solo è carente

ma anche poco "innocente", in quanto denegatorio. È ovvio che nessuna teoria è innocente, ma la teoria della morte dell'autore, con tutto il suo

corpus di nozioni e metodologie correlate (che sfociano nella ridefinizione della letteratura come intertestualità), riveste questa condizione in un

senso più pregnante: nel senso in cui non è innocente un'ideologia dilagante. (…)

Autorialismo

Molti dei fenomeni che prima ho evocato sono in gran parte legati al mercato del libro. Ciò potrebbe far pensare che l'ipertrofia dell'autore sia solo

un epifenomeno provocato dall'industria culturale. Questa è del resto l'opinione più diffusa - o meglio, è l'opinione più diffusa fra quei pochi che

negli ultimi vent'anni si sono interrogati sul problema. Ne è un esempio interessante la distinzione che Bernard Pingaud traccia fra l'autore come

figura pubblica (quella che viene data in pasto ai media e alle strategie di promozione) e lo scrittore, la cui caratteristica sarebbe invece di

"scomparire dietro al testo". Tra i due ruoli ci sarebbe perciò un conflitto, e allo scrittore, a cui l'industria culturale impedisce di scomparire, non

resterebbe che astenersi da ogni genere d'intervento, persino dal parlare di ciò che scrive, per non trasformarsi in "agente pubblicitario della propria

opera".7 Non si discosta da una tale diagnosi, anche se non tocca solamente l'arte e la letteratura, la pratica più radicale del no-copyright diffusa tra i

post-situazionisti, o l'invenzione di nomi d'autore che chiunque può assumere, come Luther Blisset. Anche qui si ritiene infatti che l'autore sia solo

la conseguenza del sistema economico-giuridico basato sui diritti di proprietà delle opere, sopprimendo i quali si sopprimerebbe anche l'autore. C'è

infine da registrare l'opinione secondo cui l'autore sarebbe il frutto della vecchia tecnologia del libro a stampa e degli interessi editoriali che le sono

legati, e dunque in procinto di eclissarsi man mano che si diffonderanno le nuove tecnologie dell'ipertesto informatico. La persistenza dell'autore

viene dunque vista di solito come un processo mostruoso innescato dall'industria culturale, dal mercato del libro e dal mercato dell'arte - e dunque

come un fenomeno da indagare in sede di sociologia della letteratura. L'autore che ha tanto peso nella comunicazione letteraria odierna non sarebbe

altro che una muffa che ricopre dal di fuori il tessuto dell'arte. Ma l'arte e la letteratura resterebbero altra cosa: qui, al riparo dall'industria (e

ammesso che esista un tale luogo riparato), a contare sarebbero solo i testi.

La mia opinione è diversa. Come del resto è diversa l'esperienza che molti artisti e scrittori hanno del fenomeno, soprattutto quando essa si esprime

attraverso un disagio più o meno esplicito. Calvino ad esempio intuisce con straordinaria acutezza come la figura dell'autore e la sua persistenza in

immagine non siano solo un fenomeno di mercato, o del copyright, ma siano inscritte e radicate negli stessi meccanismi della fruizione e della

lettura. Come fa dire allo scrittore Silas Flannery in Se una notte d'inverno un viaggiatore: "I lettori sono i miei vampiri". Persino Barthes, nelle sue

riflessioni più tarde, si renderà conto che la figura dell'autore, ben lontana dal cancellarsi, è tenuta in vita proprio dal lettore e dal suo "desiderio". Io

credo dunque che l'ipertrofia dell'autore, prima che un effetto di mercato, sia un fenomeno specificamente artistico che affonda le sue radici in certi

tratti peculiari dell'arte moderna e nel tipo di fruizione che essa attiva. Se l'autore, nella forma di autore-immagine e di autore strategico, è diventato

una funzione così importante dell'arte e della letteratura contemporanea, non è solo per quei volti in copertina o per quei nomi d'autore lanciati come

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marche d'automobili. L'industria culturale - di cui questo libro non si occupa se non marginalmente - non fa che amplificare e sfruttare ai propri fini

qualcosa che già c'è nella comunicazione artistica moderna. Qualcosa che data almeno da due secoli, e che nel Novecento si è acuito fino a diventare

problematico. Qualcosa che è stato spesso avvertito dagli artisti come opprimente, vissuto sotterraneamente come una minaccia per l'arte, ma che

non è mai stato descritto con precisione, e dunque nemmeno mai nominato. Dovremo perciò innanzitutto trovargli un nome. Lo chiameremo

autorialismo.

L'autorialismo è un particolare investimento sulla funzione-autore che fa sì che un'opera d'arte non possa esistere se non in quanto prodotto di un

autore. Non è semplicemente una questione di paternità dell'opera (sapere chi l'ha prodotta e quando), né della sua corretta comprensione (sapere

ciò che l'autore ha voluto dire), ma innanzitutto di sua valorizzazione artistica (sapere se questo oggetto che ho di fronte è o non è un'opera d'arte).

Per poter attribuire statuto d'arte non solo a un testo, ma anche a un quadro, a un film, a una fotografia, a una video-installazione, abbiamo bisogno

di considerarli come il frutto di un'intenzione artistica. Solo a questa condizione possiamo avvicinarli come opere d'arte. Di essi diremo allora, e non

a caso, che sono d'autore. Tra il valore artistico e l'essere d'autore si è stabilito nella modernità un nesso così stretto da restare addirittura

sedimentato nel linguaggio comune.

Anche le opere classiche venivano ovviamente guardate come il prodotto di un'intenzione artistica. Anche l'uomo premoderno sapeva ad esempio

distinguere la scultura (frutto dello scalpello, di abilità manuale e di immaginazione) dalla bella conchiglia, opera della natura, alla cui "produzione"

non aveva presieduto alcun intento d'arte. Ma quel che avviene in epoca moderna è qualcosa di più peculiare. Oggi persino una conchiglia potrebbe

essere guardata come opera d'arte, purché venga esposta in una galleria: in altre parole, purché sia percepita attraverso l'intenzione artistica che si è

"sedimentata", in questo caso non nell'oggetto, non nella sua fattura, ma nel gesto di esporlo. Insomma, un qualsiasi oggetto può essere arte se - e

solo se - il fruitore può supporre che esistano delle ragioni artistiche che hanno spinto l'autore a esibire come opera un oggetto trovato in natura, che

nessuno ha scolpito, o addirittura un oggetto d'uso come lo scolabottiglie di Duchamp: ragioni forse provocatorie, paradossali, ma pur sempre

ragioni d'arte, sulle quali comunque, anche se indecidibili, egli è indotto a interrogarsi - e dunque a supporre che esistano. L'esempio è certamente

assai particolare, e a ragione si dirà che l'arte moderna non è solo questo. Ma è proprio in questa possibilità estrema di trasformare un oggetto non

intrinsecamente artistico in opera d'arte che si misura la diversa portata e l'incredibile potenza che l'intenzione artistica ha acquistato per l'arte

moderna. E laddove c'è intenzionalità non può non esserci un soggetto. L'autore moderno altro non è che quell'istanza o ipostasi a cui viene at-

tribuita quell'intenzione artistica senza la quale non si dà opera d'arte.

Se dunque l'autore oggi resiste non è semplicemente perché l'editoria o il mercato dell'arte gli impediscono di scomparire, ma perché la sua funzione

è richiesta dalle stesse modalità di valorizzazione artistica. Che cos'è che fa di un testo un testo letterario? che cos'è che fa di un oggetto un'opera

d'arte? Ecco la domanda da cui bisogna partire per impostare tutta la questione; perché è a questo scoglio che nel mare agitato della modernità resta

ancorato l'autore. Ciò che lo mantiene in vita sono, nel nostro tempo, le modalità stesse della valorizzazione artistica. La letteratura e l'arte

premoderne conoscevano altre modalità di valorizzazione. C'erano pur sempre delle marche "oggettive", intrinseche all'oggetto, a segnalarne lo

statuto di arte. Non solo certe qualità di fattura ma anche e soprattutto delle marche di genere: un sonetto, una tragedia, una sacra conversazione.

Nella modernità invece il discrimine tra arte e non arte passa prevalentemente, e in certi casi esclusivamente, per la valorizzazione dell'intenzione

autoriale supposta all'origine dell'opera. Non si dà opera d'arte in sé. L'opera viene costruita dalla comunicazione artistica. E i processi attraverso cui

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viene costruita richiedono dei processi di attribuzione a un autore: cioè la supposizione che vi sia, all'origine dell'opera, un'intenzione artistica -

consapevole o inconsapevole -, una selezione significativa entro i possibili artistici, capace di dare senso e valore d'arte a ciò che ci troviamo a

leggere o a guardare.

L'intenzione artistica che l'arte moderna ha per molto tempo valorizzato è inoltre di un tipo particolare: non è semplicemente l'intenzione di fare

un'opera, ma di farne una diversa, sorprendente, che fuoriesca dai canoni presenti. Essa è stata insomma investita in quanto portatrice di un valore

differenziale. Ed è soprattutto qui che l'autorialismo si rivela un tratto specificamente moderno, legato all'inserimento delle opere d'arte in una

consecuzione, in cui si dà evoluzione, accumulazione e differenza. La modernità non riesce a concepire l'arte se non attraverso la sua storia, né

valore artistico che non sia basato sulla differenza. Da qui quella sua peculiare dialettica incentrata sul nuovo e sull'originale, e il forte ruolo che

essa attribuisce alle poetiche. Dell'opera ci si chiede dunque ogni volta non solo quale intenzione artistica la sorregga, ma anche in che cosa

differisca da altre, in che cosa si distingua dal già visto, per che cosa possa essere considerata originale ecc. L'autore è l'impalcatura a cui si

appoggia un tale valore differenziale.

Il termine "intenzione" non deve far pensare a selezioni necessariamente programmatiche o consapevoli. Anche se l'artista soggettivamente non

sceglie, è comunque il fruitore ad avvicinarsi all'opera e ad apprezzarla come prodotto di una scelta d'autore: una selezione tra i possibili artistici

dovuta a una sua necessità espressiva, oppure attuata in base alla "poetica" che guida il suo fare artistico e che l'opera implicitamente incarna.

Quando parliamo di scelta, l'ottica in cui ci collochiamo quella della fruizione, e dunque dell'attribuzione (il che, come sarà più chiaro in seguito, è

altra cosa dalla ricezione - nel senso dell'ermeneutica -, la quale non presuppone alcuna attribuzione a un autore). È il fruitore a trasformare le

selezioni dell'artista, che di per sé possono anche essere aleatorie o obbligate, in scelte soggettive, dotate di un'intenzionalità - quell'intenzionalità

che è capace di dare un senso e un valore artistico a ciò che guardiamo o leggiamo. Da questo punto di vista il termine "scelta inconsapevole", a cui

spesso ricorre la critica per tenere a bada le sue aporie, si può rivelare utile per la fruizione, ma inutile per la teoria. Non c'è bisogno di chiamare in

causa l'inconscio dell'artista. La scelta dell'autore altro non è che la scelta attribuitagli dal lettore sulla base di certe caratteristiche dell'oggetto, alle

quali egli dà valore nel considerarlo opera d'arte. Allo stesso modo, anche tutte le altre mediazioni concettuali che sono indispensabili alla fruizione

moderna per poter considerare artistico un "prodotto" (poetica, stile dell'autore ecc.) e che necessitano la supposizione di una scelta da parte dello

scrittore, sono da considerarsi un fenomeno di attribuzione.

L'autore e l'opera

L'autore così inteso ha dunque poco a che fare con il soggetto intenzionante, donatore di senso, a cui si riferiva la pratica critica pre-strutturalista (o

l'ermeneutica prima di Gadamer) e di cui oggi, dopo un lungo ostracismo, si torna di nuovo timidamente a parlare. Questa nozione che per molto

tempo ha sonnecchiato in panchina, di recente è stata precipitosamente risvegliata e richiamata in campo da teorici e filologi a garanzia di

un'interpretazione corretta del testo, contro le derive interpretative del post-strutturalismo. Insomma una sorta di garante del significato di un testo e

di criterio per la sua corretta interpretazione. E anche in quest'uso difensivo essa si rivela legata a un'idea di autore molto lontana da quella che qui

cerchiamo di descrivere. L'intenzione a cui mi riferisco, oltre che essere un'intenzione attribuita, è anche di tipo assai diverso, perché non è

semplicemente un'intenzione di senso ma un'intenzione artistica. Non si tratta tanto di ciò che l'autore ha voluto dire, ma di ciò che egli ha voluto

fare artisticamente. Non riguarda semplicemente il senso del testo, il significato che l'autore vi avrebbe depositato e di cui l'interprete va in cerca.

Riguarda invece il come l'opera è fatta, la forma in cui si è incarnata, lo stile, la poetica, e tutte quelle altre caratteristiche dell'opera a cui si può

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attribuire un valore artistico. In altre parole l'autore oltrepassa i problemi dell'interpretazione del testo per toccare quelli della valorizzazione

artistica dell'opera. E per quanto l'interprete possa decidere di non farsi vincolare da ciò che l'autore ha voluto dire (come molti oggi sostengono),

della sua intenzione artistica, della sua progettualità, vera o supposta che sia, invece non è possibile disfarsi, poiché senza presupporla il testo in

questione neppure esisterebbe, cioè non sarebbe un'opera letteraria.

L'autore di cui parlo non può perciò coincidere neppure con quelle nozioni che sono in qualche modo "sopravvissute" nella teoria letteraria del

secondo Novecento: mi riferisco all'autore implicito" degli studi sul racconto e all'"autore modello" della semiotica. Tali nozioni sono inutilizzabili

ai fini del nostro studio (…) perché fanno dell'autore semplicemente una funzione del testo, considerato dallo strutturalismo e dalla semiotica come

una sorta di "dato primo" e autoevidente della comunicazione letteraria. Per me invece l'autore è una funzione dell'opera. E l'opera non coincide con

il testo: anch'essa è il frutto di processi di attribuzione. Né l'autore né il testo possono essere considerati elementi primi del sistema artistico

moderno, e tanto meno dunque costituire il punto di appoggio per una teoria dell'arte. Punto di appoggio per la teoria può essere solo la tolda

traballante della nave su cui si naviga (come scriveva Gadda parlando dell'attività conoscitiva), vale a dire la comunicazione letteraria stessa nella

sua natura processuale. Il sistema artistico moderno come qui viene descritto non si fonda né sull'autore né sul testo, ed è composto solo di processi

comunicativi che si riproducono sulla base di precedenti comunicazioni. Autore e opera sono delle costruzioni, frutto di attribuzioni. E ognuna delle

due costruzioni presuppone l'altra. I processi attraverso i quali l'opera moderna viene "costruita" richiedono dei processi di attribuzione a un autore:

attribuzione di un'intenzione artistica, di una scelta, di una progettualità, consapevole o inconsapevole, di una poetica, di un'idea di letteratura, o

anche di uno stile (nozione che quelle teorie hanno addirittura preteso di eliminare). E per tali processi di attribuzione non c'è niente che non possa

diventare rilevante: talvolta persino alcuni dati biografici dell'autore possono essere richiamati per sorreggere un valore artistico, cosa che per lo

strutturalismo e la semiotica tonerebbe come una bestemmia.

In quanto funzione richiesta dai processi di costruzione dell'opera, l'autore sembrerebbe così, per lo meno finché si resta in questo tipo di logica

artistica, qualcosa che non può scomparire. Non basta rendere anonimi o pseudonimi i testi per far scomparire quell’“essere ragionevole” e

progettuale a cui diamo il nome di autore, e a cui attribuiamo scelte, intenzioni, programmi, o anche semplicemente selezioni inconsapevoli, perché

la sua funzione è resa necessaria da vincoli più ampi, riguardanti il sistema della comunicazione artistica nelle sue leggi di funzionamento e nella

sua stessa condizione di esistenza. E neppure basta, da parte della critica, mettere tra parentesi i dati biografici o psicologici dell'artista, smettere di

andare a cercare nella scrittura il sintomo o il segno di ciò che qualcuno avrebbe voluto dire, concentrarsi esclusivamente sull'architettura dei testi

(sui loro elementi ricorrenti e sulle loro variazioni). Qualunque decisione prenda la critica (o l'interprete), essa partirà pur sempre dal presupposto

che i testi di cui parla sono opere letterarie, e per quanto abolisca dai suoi discorsi ogni riferimento all'autore, è proprio la nozione di opera a

implicare quel riferimento all'autore di cui pretende di fare a meno in sede di spiegazione e di interpretazione critica. Come aveva ben mostrato

Foucault, non basta ripetere come affermazione vuota che l'autore è scomparso, perché l'autore scompaia davvero. La stessa nozione di opera

presuppone quella di autore. E persino quella di scrittura, che avrebbe dovuto deporre l'autore dal suo trono, ne arresta invece la scomparsa,

conservando essa stessa "i privilegi dell'autore sotto l'egida dell'a priori”. L'utopia della morte dell'autore e della dispersione del soggetto riceve qui,

e per mano di un filosofo che certamente non stava dalla parte dell'autore né da quella del soggetto, la sua critica più forte.

Il breve saggio di Foucault resta però solo l'abbozzo di un lavoro di analisi che non è stato proseguito né da lui né da altri. Certamente esso viene

spesso ricordato dagli studiosi di letteratura come riferimento bibliografico d'obbligo; ma, come avremo modo di notare, è stato più frainteso che

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utilizzato. (…) La teoria letteraria pecca spesso di generalizzazioni metastoriche. La funzione-autore che qui stiamo descrivendo è invece, nello

spirito di Foucault, del tutto storica, legata al sistema artistico che si è attestato nella modernità.

Questo libro si pone dunque, idealmente, come la continuazione dello studio di Foucault, soffermandosi però esclusivamente sul discorso letterario

(che per Foucault era invece solo un caso particolare tra tutti i possibili discorsi dotati di una funzione-autore). La nostra scelta, dovuta ovviamente

alla specificità dei fenomeni che ci interessano, non è però un semplice restringimento di campo. Anzi, in un certo senso ne è un'estensione. La

funzione-autore per Foucault era implicata da tutti i discorsi caratterizzati da certe modalità di circolazione e di valorizzazione, per noi è invece

richiamata da tutte le opere d'arte, anche non verbali. Cercando i luoghi di iscrizione della funzione-autore nei testi letterari in quanto opere d'arte,

finiremo così per indagare qualcosa di cui Foucault invece non si occupa: i processi di attribuzione di un valore artistico. Ciò che nei testi letterari

moderni rende necessario un riferimento all'autore è infatti, secondo la mia ipotesi, indissolubilmente legato al loro investimento artistico, ossia

proprio a ciò che ne fa non dei semplici discorsi ma delle opere d'arte. Ed è una necessità che la letteratura condivide con le altre arti della

modernità. Il forte ruolo di mediazione svolto dalle poetiche, ad esempio, è un fenomeno che colpisce gran parte della produzione artistica, non solo

la letteratura. (…)

Guerra all'autore

Va da sé che questa particolare logica artistica basata sull'autore e le sue supposte scelte di poetica oggi non scorre più liscia come un tempo. Tutta

una serie di "sintomi" ci mostrano che l'arte contemporanea la percepisce ormai come qualcosa di estenuato e di imprigionante, da contrastare o da

schivare. Il postmoderno, con il suo rifiuto della poetica univoca e con il suo distacco ironico dall'idea di autenticità dello stile, ne è stato il segnale

più vistoso. Ma molti altri segnali, e più arretrati nel tempo, si possono rintracciare nel Novecento, tanto che si può dire che quella logica artistica

abbia incominciato a "far problema" fin dagli inizi del secolo. L'inizio di quei sintomi - che poi altro non sono che i segni di una problematizzazione

dell'autore - coincidono, secondo la periodizzazione che qui propongo, con l'inizio della tarda modernità.

L'autorialismo è come una malattia cronica, lentamente progressiva, della modernità. Esso conduce l'arte nell'impasse di una pratica totalmente

riflessa e "razionalizzata". L'autore progettuale supposto all'origine dell'opera ha ormai preso il posto del genio; l'autore strategico si è mangiato

ogni margine di irriflesso concesso alla pratica artistica; lo scrittore, ridotto a occhio che si autosserva, è preso nella gabbia della sua stessa

autosservazione. E ciò viene vissuto da molti artisti come fonte di paralisi. C'è poi, a provocare disagio, anche quell'immagine d'autore costruita

dalla fruizione e amplificata dalle strategie di promozione, che ritorna indietro sul soggetto scrivente intrappolandolo in un'identità non voluta,

fastidiosa, pietrificante, come si palesa paradigmaticamente nel "vissuto autoriale" di uno scrittore come Calvino, costantemente impegnato a

mascherarsi e nello stesso tempo a rivelarsi in un'identità controllata.

Ma proprio perché provoca malesseri, l'autorialismo spinge anche alla ricerca di "rimedi". Nel tentativo di allentarne il dominio, la pratica artistica

novecentesca ha messo a punto una ricca gamma di procedimenti e di espedienti che vanno ad agire proprio nella "zona" dell'autore, là dove si

suppone abbia luogo la "scelta" dell'artista, rendendola problematica, talvolta paradossale. Si tratta di stratagemmi, tattiche di evitamento, volti a

liberare almeno in parte l'atto creativo dall'egemonia dell'autore progettuale, oppure a impedire al lettore di presupporlo all'origine dell'opera, e di

rendergli complicata se non addirittura impossibile la costruzione di una sua immagine. Le chiamo perciò tattiche di de-autorializzazione perché ne

sia più chiara la natura reattiva; ma spesso diventano vere e proprie poetiche, comuni a più scrittori e dotate di una certa complessità e articolazione

interna, che si ripetono e si perfezionano nel tempo, e che talvolta attraversano le arti, riguardando in pari misura sia la letteratura, sia le arti

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figurative, e persino la musica. Per fissare una griglia assai generale, le potremmo raggruppare in tre grandi classi: le scritture vincolate, la ricerca

della grazia e l'effetto di apocrifo (…). Quel che davvero si verifica nel Novecento non è dunque - come vorrebbe il mito - la catartica scomparsa

dell'autore (tragica per il soggetto, ma liberatoria per l'arte); è invece la persistenza, per nulla catartica, di un autore progettuale (e, di conseguenza,

di un autore-immagine) resistentissimo e ipertrofico, contro cui la pratica artistica si batte in una guerra senza quartiere. Il che ci prova non solo che

l'autore ha un ruolo capitale; ben di più, ci dice che esso è ormai diventato il campo problematico dell'arte. (…)

Merci d'autore

La logica artistica basata sull'autore e sulle sue supposte scelte di poetica ha cominciato a far problema fin dagli inizi del secolo. C'è però un luogo

in cui essa continua a funzionare senza intoppi né conflitti, ed è l'industria culturale, che l'ha incorporata nei suoi stessi meccanismi. Facendo

dell'autore e della sua supposta poetica un mezzo efficace di promozione, essa non fa che ripetere, grottescamente amplificati nei propri circuiti,

quei tratti tipicamente moderni verso cui l'arte contemporanea ha sviluppato allergia.

E anche questa è, per certi versi, un'ironia della storia. L'industria culturale si è appropriata di ciò che, in origine, l'arte ha usato proprio per

contrapporsi a essa. La categoria "letteratura d'autore" ha cominciato a funzionare come categoria oppositiva, e proprio in opposizione ai feuilletons,

ai romanzi d'appendice, alla letteratura "bassa" fatta per il grande pubblico, degradata a oggetto di consumo: in altre parole, in opposizione ai pro-

dotti dell'industria culturale di allora. Ma se nel secolo scorso l'"essere d'autore" era un criterio sufficiente per distinguere l'arte dalla merce, già

quando Adorno ha introdotto l'espressione le merci culturali presentavano caratteristiche inedite: ogni prodotto - scriveva Adorno nel 1963 - si offre

come "individuale", tanto che se si assume l'"aura" di Benjamin come fattore determinante dell'opera d'arte tradizionale, l'industria culturale viene

definita dal fatto che essa non contrappone al principio dell'aura un principio diverso, ma conserva l'aura, putrefatta, come alone fumogeno.

I prodotti dello spirito stilizzati dall'industria culturale non erano dunque già più, nemmeno allora, dei prodotti fatti in serie - cosa che sarebbe poi

diventata ancor più visibile nelle merci estetizzate dell'era postfordista. L'industria culturale odierna è mutata di molto rispetto all'era della

produzione seriale, e nel campionario dei suoi prodotti non spiccano più solamente i romanzi d'appendice o le telenovelas; ci sono anche ormai, e in

gran risalto, proprio i prodotti d'autore: racconti d'autore, quadri d'autore, film d'autore, video d'autore... Anzi, si potrebbe quasi dire che ciò che essa

promuove è innanzitutto l'autore - la sua immagine, la sua progettualità, la sua intenzionalità artistica, la sua "poetica".

Si dice spesso che il postmoderno abbia messo in discussione l'opposizione tra cultura di massa e cultura di élite. Ma quello che bisognerebbe

aggiungere è che l'opposizione è stata contemporaneamente azzerata dall'industria dell'arte. La letteratura di massa ha incorporato il suo contrario:

essa può essere "d'autore" tanto quanto la supposta alta letteratura. La quale, a sua volta, pretende talvolta di distinguersi da ciò con cui ormai fa

fatica a non coincidere, sorreggendosi su quello stesso pilastro. L'istituzione artistica (il museo, il teatro, la letteratura) oggi non ha più la

prerogativa di luogo deputato all'esperienza estetica. l'estetico sta dappertutto fuori dell'arte: nei media, nella televisione, nei messaggi pubblicitari,

nella moda, nella musica pop, nell'incessante spettacolo metropolitano. Sta soprattutto in una miriade di oggetti con cui entriamo in rapporto quoti-

dianamente: auto, caffettiere, orologi, confezioni di biscotti. Nell'era postindustriale lo styling è ormai entrato nella produzione in serie, e il

consumatore è diventato "fruitore". Egli è ormai capace di apprezzare il bello, o per meglio dire il nuovo, l'up-to-date, il trendy - anche se non

nell'arte, bensì nell'oggetto di consumo. Ma in un simile contesto in cui l'estetizzazione del mondo della vita ha dissolto i confini tradizionali

dell'estetico, la sopravvivenza dell'arte come istituzione specifica viene più che mai garantita dalla funzione-autore. Abbiamo così da un lato merci

d'autore, dall'altro feticci d'autore.

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SANDRA M. GUBART-SUSAN GUBAR

Donna e poesia: creatività e genere sessuale

Ahimè! Una donna che tenta la penna,

usurpatrice dei diritti degli uomini

creatura tanto presuntuosa è ritenuta,

che la macchia da nessuna virtù può esser redenta...

Come siamo cadute in basso, cadute per false regole,

vittime della Cultura più che della Natura;

escluse da ogni progresso della mente,

che fossimo ottuse hanno sperato e destinato.

Questi versi sono stati scritti alla fine del diciassettesimo secolo da Anne Finch, contessa di Winchilsea, e dopo più di due secoli persino un'artista di

successo come Virginia Woolf continuava a interrogarsi sul loro significato. Se Shakespeare avesse avuto «una sorella meravigliosamente dotata»,

ella meditava nel 1928, la società avrebbe scoraggiato con severità le sue aspirazioni letterarie. Judith Shakespeare sarebbe potuta fuggire a Londra

per diventare un poe t a drammaturgo, perché «gli uccelli che cantavano dalla siepe non erano più musicali di lei». Tuttavia ben presto si sarebbe

accorta della impossibilità di seguire la propria vocazione, «e allora (chi può misurare la passione e la violenza del cuore del poeta quando

intrappolato e aggrovigliato nel corpo di una donna?) si uccise una sera d'inverno e giace sepolta in un incrocio, dove ora si fermano gli omnibus

davanti ad Elephant and Castle». Con queste parole implicitamente riconosceva che la poesia era inadatta alle donne, disdicevole per una signora,

impudica. E nel 1928, come a commentare l'osservazione di Barrett Browning e la rimostranza-di Dickinson, Woolf inventò una storia tragica per

«Judith Shakespeare» perché era profondamente convinta che fosse alla «poesia che venisse ancora negato uno sbocco».

Perché queste tre letterate ritenevano che la poesia fosse in qualche modo proibita o problematica per le donne? Woolf stessa, dopo tutto, ripercorse

la carriera di Anne Finch e Margaret Cavendish, ammirò la «selvaggia poesia» delle Brontë, sottolineò le qualità poetiche del romanzo in prosa di

Barrett Browning Aurora Leigh, con il quale nessuna opera in prosa poteva competere, e parlò quasi con soggezione del «canto complesso» di

Christina Rossetti. Perché, allora, ella sentì che «Judith Shakespeare» era stata «catturata e imbrigliata», «negata», soffocata, si era sepolta da sé o

non era ancora nata? Possiamo cominciare a rispondere a questi interrogativi passando brevemente in rassegna i modi in cui alcuni prestigiosi lettori

maschi e critici hanno reagito alla poesia di donne illustri come Barrett Browning e Dickinson.

Nell'introduzione ai Selected Poems of Emily Dickinson del 1959, James Reeves cita l'affermazione di un «amico» che esprime, in maniera ancora

più concisa di quanto abbia fatto Woolf con la sua storia, l'atteggiamento dominante fra i letterati maschi nei confronti della poesia scritta dalle

donne: «un amico che è anche un critico letterario ha suggerito forse non troppo seriamente che una 'donna poeta' è una contraddizione in termini».

In altre parole, secondo quello che Woolf definirebbe il punto di vista «maschilista», la natura stessa della poesia lirica è costitutivamente

incompatibile con la natura o l'essenza della femminilità. Osservazioni di altri lettori e critici «maschilisti» non sono che rielaborazioni di questo

concetto. Nel bel mezzo di una recensione favorevole dell'opera della sua amica Louise Bogan, ad esempio, Theodore Roethke indugia sulle diverse

«accuse più frequentemente rivolte alla poesia scritta dalle donne». Nonostante la pretesa di obiettività, appare subito evidente che anch'egli vi si

associa:

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Due delle accuse (più frequenti)... riguardano la mancanza di varietà nella materia, nel tono emotivo e la mancanza di senso dell'umorismo. E, riferendosi a

esempi specifici ricavati da scrittrici dotate di vero talento, si potrebbero aggiungere altri limiti estetici e morali: la prolissità; la tendenza ad abbellire temi

banali; l'interesse verso gli aspetti superficiali dell'esistenza — un territorio riservato nella prosa al talento femminile — la fuga dai reali tormenti dello

spirito; il rifiuto di guardare all'esistenza per quello che è; la posa lirica o religiosa; la tensione fra boudoir e altare; la protesta infantile contro Dio o

l'abbandono a uno stile sentenzioso che implicitamente attribuisce all'autrice una reinventata integrità; l'enfasi eccessiva sul Fato, sul tempo; il rammarico

per il destino delle donne; il lamento; l'abitudine a scrivere una cinquantina di volte la stessa poesia e così via...

Anche a una lettura rapida il brano rivela la sua incoerenza: alle donne vengono rimproverate allo stesso tempo banalità e sentenziosità, sciocca

superficialità ed enfasi «melodrammatica» su temi profondi. Più significativo, tuttavia, è il fatto che Roethke accusi le poetesse di fare esattamente

quello che fanno i poeti — cioè, scrivere di Dio, del fato, del tempo e dell'integrità; scrivere ossessivamente degli stessi argomenti o temi e così via.

Ma il linguaggio che usa ci fa comprendere che è proprio il sesso di queste letterate l'elemento sovversivo della loro arte. Agitare prometeicamente

un pugno maschile «contro Dio» è, all'apparenza, una strategia estetica perfettamente ragionevole, ma protestare contro Dio lasciando la

«minuscola» impronta di un piede femminile è tutt'altra cosa.

Sulla stessa falsariga John Crowe Ransom, in un saggio del 1956 su Emily Dickinson, nota senza disapprovazione che «è opinione comune fra i

lettori (almeno fra gli uomini) che la donna poeta come tipo si lanci un po' troppo facilmente in discorsi sulla natura o in imprese che non hanno uno

spessore metafisico tale da giustificare una strategia così radicale». Altrove nello stesso saggio, descrivendo Dickinson come una «piccola persona

dalle abitudini casalinghe», azzarda che «poco più» di «una fra diciassette» delle sue millesettecentosentattacinque poesie era destinata a diventare

«proprietà pubblica» e osserva che la sua vita era «un affare banale, poco degno di nota», nonostante il fatto che «nella comunità protestante di cui

era parte alle zitelle miti fosse riservato un ruolo sicuro e utile nel circolo familiare, esse possedevano quella che era virtualmente una vocazione»

(ma come era possibile, sembrava chiedersi, che una persona con un destino sociale così banale avesse scritto della grande poesia?). Ugualmente

interessato alla problematica relazione fra la poesia di Dickinson e il suo essere donna — con quello che sembrava essere l'irrimediabile conflitto fra

la sua «mitezza» di zitella e la fierezza della sua poesia — R.P. Blackmur decise nel 1937 che ella «non era un poeta professionista ma neppure un

dilettante, era un poeta del privato che scriveva instancabilmente, così come alcune donne cucinano o lavorano a maglia. Il talento della parola e la

situazione culturale della sua epoca la guidarono verso la poesia piuttosto che verso il ricamo».

Persino nel 1971 i lettori (maschi) di Dickinson riflettevano sull'apparente dicotomia fra poesia e femminilità. After Great Pain (Dopo gran dolore)

di John Cody analizza acutamente la sofferenza che molti dei biografi e critici di Dickinson hanno rifiutato di riconoscere. Ma la sua conclusione

pone in risalto quella che egli considera per una donna l'incompatibilità fra la passione artistica e la piena realizzazione di sé.

Se la signora Dickinson fosse stata più dotata di calore, più affettuosa, più intelligente, più capace e degna di ammirazione, Emily Dickinson si sarebbe

precocemente identificata con lei, avrebbe sviluppato virtù domestiche e avrebbe adottato il ruolo femminile convenzionale. Sarebbe diventata un membro

della chiesa, avrebbe preso parte attivamente alla vita della comunità, si sarebbe sposata e avrebbe avuto dei bambini. Le potenzialità creative naturalmente

sarebbero rimaste intatte, ma le avrebbe scoperte? Quale motivazione alla scrittura avrebbe potuto sostituire l'incentivo rappresentato dalla solitudine e

dalla sofferenza? Se, nonostante i doveri di madre e di moglie, ella avesse avvertito ugualmente il bisogno di esprimersi in versi, quali sarebbero stati i suoi

temi? L'arte sarebbe scaturita con tale abbondanza dall'appagamento, dalla gratificazione, dalla completezza così come è scaturita dal desiderio, dalla

frustrazione e dalla privazione?

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È interessante notare che questi interrogativi ripropongono una posizione all'apparenza molto diversa assunta da Ransom quindici anni prima:

«Molto probabilmente le poesie (di Dickinson) non sarebbero state gran cosa se l'autrice alla fine avesse vissuto la sua storia d'amore, e fosse

riuscita a realizzarsi come ogni altra donna». Sebbene Ransom parli della presenza e dell'appagamento della «storia d'amore», mentre Cody discute

della sua tormentosa assenza, nessuno dei due immagina che la poesia stessa possa appagare una donna. Al contrario, entrambi credono che l'arte di

una donna poeta debba in qualche maniera derivare da sentimenti «romantici» (nell'accezione popolare e sentimentale del termine): o come risposta

a una «storia» realmente vissuta o per compensarne la mancanza.

Alla luce di questa ossessione dei critici nei confronti della «realizzazione» della donna, — un concetto di chiara origine ottocentesca, modificato

dai pensatori di questo secolo per le proprie finalità non costituisce una sorpresa la scoperta che quando la poesia delle donne è stata apprezzata lo è

stata appunto in quanto «femminile», così come la si è accusata di mancare di «femminilità». Elizabeth Barrett Browning, ad esempio, la poetessa

più analizzata, criticata, apprezzata, lodata e attaccata della sua epoca, veniva non a caso ammirata «per la sua capacità di cogliere la profondità, la

tenerezza e l'umiltà dell'amore delle donne» e perché «era poeta in ogni fibra del suo essere ma femminile in maniera adorabile...». In qualità di

«Shakespeare del suo sesso», inoltre, si guadagnò un particolare rispetto perché «pura e amorevole» nella «vita privata», tenendo conto del fatto che

«le vite delle donne di genio sono state spesso macchiate dal peccato... e le loro doti intellettuali sono state (di solito) una maledizione piuttosto che

una benedizione». E significativo, tuttavia, che quando in Poems Before Congress, (Poesie davanti al Congresso) la raccolta del 1860, Barrett

Browning scrisse versi politici, non romantici e «non femminili», almeno un critico dichiarò che ella era stata «vittima di un ... attacco di pazzia»

spiegando che «compito della donna è quello di benedire e non di maledire».

Evidentemente, come suggerisce questa breve rassegna della critica ad feminam, c'è qualcosa nella poesia lirica femminile che invita a

riflessioni sulla realizzazione della donna o, in alternativa, sulla sua follia. La stessa Woolf, dopo tutto, quando ha inventato la storia di «Judith

Shakespeare» è stata indotta a costruire un intreccio violento culminante nella sepoltura dell'eroina suicida sotto una fermata d'autobus vicino a

Elephant and Castle. Woolf sembra suggerire simbolicamente che la Londra moderna, con i suoi vapori tecnologici e il ruggito patriarcale, sorge da

quel macabro crocevia dove giace il corpo della mitica poetessa. E a rafforzare la morbosa ferocia di questa immagine, Woolf aggiunge che tutte le

volte che, leggendo di storia o ascoltando un pettegolezzo, veniamo a sapere di streghe e maghe «credo che siamo sulle tracce di... una poetessa

messa a tacere... che si è fracassata il cervello sulla brughiera o andava facendo boccacce per le strade, impazzita per la tortura procuratale dal suo

talento». Perché, sebbene «l'impulso originale [fosse] per la poesia» e «il 'capo supremo', la Musa del canto [fosse] una poetessa», le donne di lettere

in Inghilterra e in America hanno quasi sempre preferito scrivere romanzi piuttosto che poesie proprio per il timore di quella follia che Woolf

attribuisce a Judith Shakespeare. «Sicuramente la povera donna è un po' matta ...» cita una contemporanea di Margaret Cavendish che osserva:

«altrimenti non si sarebbe resa tanto ridicola azzardandosi a scrivere un libro, e in versi per giunta; neanche se non dovessi dormire per quindici

giorni arriverei a tanto». In altre parole, mentre la donna che scrive romanzi, al riparo della prosa, può dare corpo alle sue fantasie di libertà con una

certa impunità (visto che le alternative alla realtà in cui vive che ella costruisce sono esclusivamente fantastiche), la donna poeta sembra essere in un

certo senso costretta a diventare ella stessa la propria eroina e, assumendo il ruolo diabolico della strega o della maga, pare che ella rischi

letteralmente o in senso figurato una morte melodrammatica nel punto in cui si incrociano tradizione e genere letterario, società e arte.

Senza aver la pretesa di esaurire un argomento profondamente controverso, dobbiamo qui rilevare che esistono numerose differenze legate al genere

sessuale fra scrittura romanzesca e scrittura poetica le quali confermano le distinzioni che la storia di Virginia implica. Per prima cosa, come già

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notato in precedenza, scrivere un romanzo è un’attività utile (perché remunerativa), mentre la poesia, ad eccezione forse dei poemi narrativi di

Byron e Scott, tradizionalmente ha avuto uno scarso valore economico. Tuttavia, la convinzione che l'attività del romanziere sia stata e sia una

occupazione finalizzata al sostentamento ha fatto sì che le venisse attribuito un valore intellettuale e spirituale più scarso rispetto alla poesia, di tutte

le possibili attività letterarie l'unica alla quale la cultura europea abbia tradizionalmente riservato lo status più elevato. Senza dubbio quando Walter

Pater nel 1868, spiegando ai suoi contemporanei l'estasi disinteressata prodotta dall'arte, osservò che «l'arte viene a voi proponendosi onestamente di

non fare altro se non di conferire la più alta qualità all'istante che state vivendo (nel suo trascorrere) e semplicemente a quell'istante», stava parlando

di quella che in precedenza aveva chiamato «passione poetica», alludendo alle odi di Keats piuttosto che ai romanzi di Thackeray o George Eliot. La

creazione di versi — frutto di un'«ispirazione misteriosa», di un afflato divino, di un rituale da bardo — è stata storicamente una vocazione sacra.

Prima del diciannovesimo secolo il poeta rivestiva un ruolo quasi sacerdotale, allorché i teorici romantici applicarono all'estetica il lessico della

teologia «egli» ricoprì un ruolo completamente sacerdotale. Ma se la cultura occidentale non permette alle donne di diventare preti, allora come è

possibile che esse diventino poeti, dal momento che i poeti sono preti? La domanda può sembrare sofistica ma molti fatti dimostrano che uomini e

donne l'hanno posta sia in passato che più di recente in maniera consapevole o inconsapevoli, ogniqualvolta le donne affette da «passione poetica»

hanno fatto la loro apparizione nell'anticamera della letteratura.

Come dimostra Woolf, tuttavia, quella del romanziere non un'attività «inferiore» e perciò più adatta alle donne perché commerciale piuttosto che

estetica, pratica invece che sacra. Mentre la stesura di un romanzo dipende dall'osservazione minuziosa, la composizione di versi ha

tradizionalmente richiesto un'educazione aristocratica. «Impara... a osservare correttamente le regole degli antichi; imitare la natura significa

imitarle», così ammoniva Alexander Pope rivolto agli aspiranti critici e (di conseguenza) poeti nel 1709, osservando che «Omero e la natura» sono

la stessa cosa. Obbedendo doverosamente, anche il fiero iconoclasta Percy Bysshe Shelley tradusse assiduamente Eschilo e gli altri «maestri» greci.

Secondo la definizione elaborata dalla società occidentale, il poeta lirico deve avere dei modelli estetici, deve, in un certo senso, parlare il

linguaggio esoterico delle forme letterarie. Ella o egli non possono semplicemente registrare o descrivere i fenomeni naturali e sociali, perché i

teorici della letteratura hanno ritenuto per lungo tempo che in poesia la natura deve essere mediata dalla tradizione — vale a dire, dalla conoscenza

delle «regole degli antichi». Ma naturalmente, come hanno compreso con sgomento molte donne scrittrici, i tradizionali classici greci e latini –

intendendo con questo l'essenza platonica della letteratura, della storia e della filosofia occidentali – costituivano quelle che George Eliot definiva

«la sfera del sapere maschile», irrimediabilmente chiusa alle donne ad eccezione di circostanze straordinarie. È interessante che fra le poetesse

maggiori soltanto Barrett Browning, grazie al sacrificio dei piaceri ordinari e all'isolamento in quanto invalida, sia stata capace di dedicarsi

seriamente allo studio degli «antichi». Come Shelley, ella tradusse il Prometeo liberato di Eschilo e fece ancora di più, producendo uno studio

insolitamente erudito dei poco noti poeti greci cristiani. Tuttavia, la cosa più interessante è che le doti di studiosa dei classici di Barrett Browning

furono quasi del tutto ignorate ai suoi tempi e oggi sono state completamente dimenticate.

Di recente Susanne Juhasz ha convincentemente parlato di una «duplice contraddizione» della donna poeta, ma in questo caso sembra quasi che

esista una triplice contraddizione. Da una parte, la donna poeta che impara a «rispettare correttamente» Omero è ignorata o fatta oggetto di scherno

— come accadde, ad esempio, alle «Blue Stockings» del diciottesimo secolo. Dall'altra, la donna poeta che non studia Omero (perché non le viene

permesso) è disprezzata. Tuttavia, qualsiasi tradizione alternativa la donna tenti di sostituire alle «regole degli antichi» viene sottilmente svalutata.

Ransom, ad esempio, afferma che i metri utilizzati da Dickinson, appresi dal «libro degli inni del padre», sono tutti basati sul «folk line, quella

forma di verso popolare, la più antica della nostra lingua», aggiungendo che «i grandi classici di questa forma sono le ballate inglesi e la filastrocca

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di Mamma Oca». Il fatto che istintivamente avvertiamo l'ambiguità di questo complimento è confermato dalla considerazione che «il folk line

presenta degli svantaggi... se impedisce al poeta l'uso del pentametro inglese», che è «il fulcro di quella che possiamo chiamare poesia dotta o

'accademica', e... che è capace di accogliere e formalizzare molti contenuti che sarebbero troppo complessi per il folk line. Non sembra che Emily

Dickinson vi si sia mai cimentata». Se al posto del «pentametro» sostituiamo qui le «regole degli antichi» comprendiamo come ancora una volta

«donna» e «poeta» vengano definiti come termini antitetici.

Infine, e questo è forse l'elemento decisivo, mentre il romanzo consente — addirittura incoraggia — la modestia e la ritrosia che la società ha

tradizionalmente alimentato nelle donne, la poesia lirica è in un certo senso l'espressione di un «io» forte e assertivo. Gli artisti, da Shakespeare a

Dickinson, da Yeats a T. S. Eliot, hanno naturalmente definito questo «io», enfatizzando, come ha fatto T.S. Eliot l’«estinzione della personalità»,

che comporta la costruzione da parte del poeta di una persona fittizia e artificiale, o insistendo, come ha fatto Dickinson, che colui/colei che parla

nei versi è una «persona immaginata». Ma nondimeno il sé la cui parola e il cui canto risuonano nella poesia ha la necessità di essere definito,

indipendentemente dal fatto che sia reale o immaginario. Se l'autrice di romanzi, perciò, inevitabilmente si guarda dall'esterno, come un oggetto, un

personaggio, una piccola figura in un ampio disegno, la poetessa deve essere sempre consapevole di sé dall'interno, come soggetto, come voce:

deve essere, cioè, assertiva, autorevole, emanare una sensazione di potenza e allo stesso tempo essere assorbita nella propria coscienza e pertanto

profondamente «non femminile», quasi uno scherzo di natura. Per la donna poeta, in altre parole, la contraddizione fra la propria vocazione e il

genere sessuale può diventare intollerabile, costringendola a negare o l'una o l'altro, spingendola addirittura al suicidio (come nel caso di «Judith

Shakespeare»). Poiché, con le parole di Woolf, «chi può misurare la passione e la violenza del cuore del poeta quando è intrappolato e aggrovigliato

nel corpo di una donna?» Nel 1935 Louise Bogan scrisse a John Hall Wheelock, il suo curatore:

Circa un mese fa Malcolm Cowley mi ha chiesto di mettere insieme per le pagine di New Republic una breve antologia di versi scritti da donne. Come lei

sa hanno già pubblicato raccolte di poesie del Middle West e un po' di tutto. Al momento si stanno occupando di dividere l'umanità in orizzontale invece

che in verticale, sulla base del sesso e non della geografia. Come può ben immaginare ho rifiutato l'incarico; l'idea di entrare in corrispondenza con una

quantità di uccelli canterini femmine mi procurava un acuto malessere. È già abbastanza difficile gestire la mia parte lirica.

Naturalmente, come ha sottolineato Gloria Bowles, Bogan ha interiorizzato proprio quelle interdizioni patriarcali che storicamente hanno procurato

alle poetesse, da Anne Finch a Sylvia Plath, ansia e senso di colpa quando si sono cimentate con la penna. In un certo senso, allora, servendoci di

Bogan come di un caso paradigmatico, possiamo affermare che nel suo aspetto più doloroso la storia della poesia femminile è la storia di una lotta

contro il sentimento di disprezzo di sé che la lettera di Bogan esemplifica, mentre nel suo aspetto vittorioso questa storia letteraria è la cronaca dei

processi evolutivi attraverso cui «Judith Shakespeare» ha ogni volta imparato che, secondo le parole di Plath, «Io ho un sé da scoprire, una regina».

Fino a poco tempo fa gran parte della critica alla poesia femminile non è riuscita a trascendere la misoginia implicita nella lettera di Bogan e nelle

definizioni sessiste in essa espresse, così come non è riuscita a esplorare, se non in modo superficiale, la relazione cruciale fra identità sessuale e

arte. Se non sono cadute nell'oblio, le poetesse sono ancora descritte sentimentalmente come «vittime di amori infelici», vecchie zitelle nevrotiche o

romantiche apprendiste della letteratura. Che i temi, le strutture e le immagini della loro arte siano stati almeno in parte imposti dai vincoli specifici

legati al ruolo sessuale o dall'incerto rapporto con una tradizione «maschilista» dominante è una questione che la critica femminista ha appena

cominciato a indagare.

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UMBERTO ECO

Intentio lectoris

Negli ultimi decenni si è affermato un cambio di paradigma rispetto alle discussioni critiche precedenti. Se in clima strutturalistico si privilegiava

l'analisi del testo come oggetto dotato di caratteri strutturali propri, descrivibili attraverso un formalismo più o meno rigoroso, in seguito si è

orientata la discussione verso una pragmatica della lettura. Dagli inizi degli anni sessanta in avanti si sono così moltiplicate le teorie sulla coppia

Lettore-Autore, e oggi abbiamo, oltre al narratore e al narratario, narratori semiotici, narratori extrafittizi, soggetti della enunciazione enunciata,

focalizza-tori, voci, metanarratori, e poi lettori virtuali, lettori ideali, lettori modello, superlettori, lettori progettati, lettori informati, arcilettori,

lettori impliciti, metalettori e via dicendo.

(…) In ogni caso orientamenti diversi come l'estetica della ricezione, l'ermeneutica, le teorie semiotiche del lettore ideale o modello, il cosiddetto

"reader oriented criticism" e la decostruzione hanno eletto a oggetto d'indagine non tanto gli accadimenti empirici della lettura (oggetto di una

sociologia della ricezione) ma la funzione di costruzione — o di decostruzione — del testo svolta dall'atto della lettura, visto come condizione

efficiente e necessaria della stessa attuazione del testo in quanto tale.

L'asserto soggiacente a ciascuna di queste tendenze è: il funzionamento di un testo (anche non verbale) si spiega prendendo in considerazione, oltre

o invece del momento generativo, il ruolo svolto dal destinatario nella sua comprensione, attualizzazione, interpretazione, nonché il modo in cui il

testo stesso prevede questa partecipazione.

1. Archeologia

Il fantasma del lettore si è inserito al centro di diverse teorie, per filoni indipendenti. Il primo che ha parlato esplicitamente di "implied author

(carrying the reader with him)" è stato Wayne Booth nel 1961 con il suo The rhetoric of fiction. Ma dopo si sviluppano, ignorandosi reciprocamente,

una linea semiotico-strutturale e una linea ermeneutica.

La prima si rifà anzitutto ai saggi di Communications 8, 1966, dove Barthes parla di un autore materiale che non si può confondere con il narratore,

Todorov evoca la coppia "immagine del narratore-immagine dell'autore" e ripropone le distinzioni di Pouillon (1946) tra i vari punti di vista (ma

dietro a Pouillon ci sono Lubbock, Forster, James) e Genette accenna appena a quella che poi nel 1972 sarà la sua teoria delle "voci" e della

focalizzazione. Di qui si passa attraverso alcune indicazioni di Kristeva sulla "produttività testuale" (Le texte du roman, 1970), il Lotman della

Struttura del testo poetico (1970), la poetica della composizione di Uspenskij (A Poetics of Composition, 1973), il concetto ancora empirico di

"arcilettore" in Riffaterre (Essais de stylistique strutturale, 1971), la polemica in negativo di Hirsch (Validity in interpretation, 1967), sino alla

nozione di autore e lettore implicito di Maria Corti (Principi della comunicazione letteraria, 1976) e di Seymour Chatman (Story and discourse,

1978) — entrambi questi ultimi derivando la loro nozione direttamente da Booth — e alla mia nozione di lettore modello (Lector in fabula, 1979),

che peraltro traevo anche da suggerimenti elaborati nell'ambito di una logica modale della narratività da van Dijk e Schmidt, nonché da Weinrich,

per non dire dell'idea pareysoniana di un "modo di formare" quale ipostasi autoriale iscritta nell'opera. Ma ricorda Maria Corti che, per quanto

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riguarda l'autore, anche un testo di Foucault del 1969 (Qu'est-ce-qu'un auteur?) poneva in ambito post-strutturalistico il problema di un autore come

"modo di essere del discorso", campo di coerenza concettuale e unità stilistica.

Dall'altro lato c'è la proposta dí Iser (Der implizite Leser, 1972), che riprende la terminologia di Booth, ma sulla base di una tradizione del tutto

diversa (Ingarden, Gadamer, Mukarovsky, Jauss e la narratologia di Stanzel — avendo altresì presenti i teorici anglosassoni della narratività e la

critica joyciana). Iser inizierà poi a riannodare i fili delle due tradizioni in Der Akt des Lesens del 1976, riferendosi a Jakobson, Lotman, Hirsch,

Riffaterre e ad alcuni miei accenni degli anni sessanta.

Questa insistenza ormai quasi ossessiva sul momento della lettura, dell'interpretazione, della collaborazione o cooperazione del ricevente, segna un

interessante momento nella storia tortuosa dello Zeitgeist. Si noti che nel 1981, palesemente all'oscuro di tutta questa letteratura, e partendo da

analisi di semantica generativa e da ricerche di Intelligenza Artificiale, Charles Fillmore (sia pure a livello di testi quotidiani non letterari) scrive un

saggio su "Ideal readers and real readers".

Jauss (1969) già annunciava un cambiamento radicale nel paradigma degli studi letterari, e di questo rivolgimento è stato indubbiamente uno dei

protagonisti. Ma siccome i mutamenti di paradigma nascono da un accumulo di discussioni precedenti, di fronte alle nuove teorie della lettura

dobbiamo chiederci se si tratti di un orientamento nuovo, e in che senso.

Quanto al primo problema occorre riconoscere che la storia dell'estetica può essere ricondotta a una storia delle teorie dell'interpretazione o

dell'effetto che l'opera provoca nel destinatario. Sono a orientamento interpretativo l'estetica aristotelica della catarsi, l'estetica pseudolonginiana del

sublime, le estetiche medievali della visione, le riletture rinascimentali dell'estetica aristotelica, le estetiche settecentesche del sublime, l'estetica

kantiana, numerose estetiche contemporanee (fenomenologia, ermeneutica, estetiche sociologiche, l'estetica dell'interpretazione di Pareyson).

Nel suo Reception theory (1984) Robert Holub trova i precedenti delle indagini della scuola di Costanza nelle nozioni formaliste di artificio, di

straniamento e di dominante; nella nozione di Ingarden di opera come scheletro o schema che deve essere completato dall'interpretazione del

destinatario, ovvero come insieme di profili tra cui il destinatario deve scegliere; nelle teorie estetiche dello strutturalismo praghese e in particolare

di Mukarovsky; nell'ermeneutica di Gadamer; nella sociologia della letteratura. (…)

Quindi, sin dagli anni sessanta le teorie della ricezione sono nate come reazione: (i) agli irrigidimenti di certe metodologie strutturalistiche che

presumevano di poter indagare l'opera d'arte o il testo nella sua obiettività di oggetto linguistico; (ii) alla naturale rigidità di certe semantiche formali

anglosassoni che presumevano di astrarre da ogni situazione, circostanza d'uso o contesto nel quale i segni o gli enunciati venivano emessi — era il

dibattito fra semantica a dizionario e semantica a enciclopedia; (iii) all'empirismo di alcuni approcci sociologici.

Per questo direi che, nei due decenni successivi, il mutamento nel paradigma degli studi letterari si è manifestato come rivalutazione di una

tradizione precedente che sino ad allora era stata lasciata in penombra.

Per fare questo è stato anche necessario avvalersi di nuovi strumenti approntati dalla linguistica teorica, e Iser (1972) è stato il primo ad affrontare i

problemi proposti da Austin e Searle (…).

A ridosso di una diversa tradizione vorrei citare anche il mio Opera aperta, e quindi un libro che — scritto tra il 1958 e il 1962, con strumenti

ancora impropri — poneva alla base del funzionamento stesso dell'arte il rapporto con l'interprete, un rapporto che l'opera istituiva,

autoritariamente, come libero e imprevedibile, per quel che l'ossimoro vale. (…)

2. Tre tipi di intenzione

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Veniamo ora alla situazione attuale. L'opposizione fra approccio generativo (che prevede le regole di produzione di un oggetto testuale indagabile

indipendentemente dagli effetti che provoca) e approccio interpretativo (…) non è omogenea con un altro tipo di opposizione che circola

nell'ambito degli studi ermeneutici, e che di fatto si articola come una tricotomia, e cioè quella fra interpretazione come ricerca della intentio

auctoris, interpretazione come ricerca della intentio operis e interpretazione come imposizione della intentio lectoris.

Se negli ultimi tempi il privilegio conferito all'iniziativa del lettore (come unico criterio di definizione del testo) acquista eccezionali caratteristiche

di visibilità, di fatto il dibattito classico si articolava anzitutto intorno all'opposizione fra questi due programmi:

(a) si deve cercare nel testo ciò che l'autore voleva dire;

(b) si deve cercare nel testo ciò che esso dice, indipendentemente dalle intenzioni del suo autore.

Solo accettando il secondo corno dell'opposizione si poteva successivamente articolare l'opposizione fra:

(b1) bisogna cercare nel testo ciò che esso dice in riferimento alla propria coerenza contestuale e alla situazione dei sistemi di significazione a

cui si rifà;

(b2) bisogna cercare nel testo ciò che il destinatario vi trova in riferimento ai propri sistemi di significazione e/o in riferimento ai propri

desideri, pulsioni, arbitrii.

Questo dibattito sul senso del testo è di capitale importanza, ma non è affatto sovrapponibile al dibattito precedente fra approccio generativo e

approccio interpretativo. Infatti si può descrivere generativamente un testo, vedendolo nelle sue caratteristiche presunte oggettive – e decidendo

tuttavia che lo schema generativo che lo spiega non intende riprodurre le intenzioni dell'autore, bensì la dinamica astratta per cui il linguaggio si

coordina in testi in base a leggi proprie e crea senso indipendentemente dalla volontà di chi enuncia.

Del pari si può assumere un punto di vista ermeneutico, ammettendo tuttavia che il fine della interpretazione sia cercare ciò che l'autore voleva

realmente dire, oppure ciò che l'Essere dice attraverso il linguaggio, senza peraltro ammettere che la parola dell'Essere sia definibile in base alle

pulsioni del destinatario. Quindi si dovrebbe studiare la vasta tipologia che nasce dall'incrociarsi dell'opzione tra generazione e interpretazione con

l'opzione tra intenzione dell'autore, dell'opera o del lettore, e soltanto in termini di combinatoria astratta questa tipologia darebbe adito alla

formulazione di almeno sei potenziali teorie e metodi critici profondamente diversi.

Recentemente (…) ho cercato di mostrare che, di fronte alle indubbie possibilità che un testo ha di suscitare infinite o indefinite interpretazioni, il

Medioevo era andato alla ricerca della pluralità dei sensi tuttavia attenendosi a una nozione rigida di testo come qualcosa che non può essere

autocontraddíttorio, mentre il mondo rinascimentale, ispirato dall'ermetismo neoplatonico, ha cercato di definire il testo ideale, sotto forma di testo

poetico, come quello che può permettere tutte le interpretazioni possibili, anche le più contraddittorie.

Su questa frontiera si combatte oggi la battaglia teorica per una ridefinizione del ruolo dell'interpretazione. Ma l'opposizione Medioevo-

Rinascimento genera a propria volta un polo di contraddizione secondario all'interno del modello rinascimentale. Perché la lettura ermetico-

simbolica del testo può procedere secondo due modalità:

- cercando l'infinito dei sensi che l'autore vi ha immesso;

- cercando l'infinito dei sensi di cui l'autore era all'oscuro (e che probabilmente vengono immessi dal destinatario, ma senza che sia ancor detto

se in conseguenza o a dispetto della intentio operis).

Anche dicendo che un testo può stimolare infinite interpretazioni e che il n'y a pas de vrai sens d'un texte (Valéry), non si decide ancora se l'infinità

delle interpretazioni dipenda dalla intentio auctoris, dalla intentio operis o dalla intentio lectoris.

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Per esempio i cabalisti medievali e rinascimentali asserivano che la Kabbala non solo avesse infinite interpretazioni ma potesse e dovesse essere

riscritta in infiniti modi secondo infinite combinazioni delle lettere che la costituivano. Ma l'infinità delle interpretazioni, certamente dipendente da

iniziative del lettore, era peraltro voluta e pianificata dall'autore divino. Non sempre il privilegio conferito all'intenzione del lettore è garanzia

dell'infinità delle letture. Se si privilegia l'intenzione del lettore si deve prevedere anche un lettore che decida di leggere un testo in modo

assolutamente univoco, e alla ricerca, magari infinita, di questa univocità. Come conciliare l'autonomia conferita al lettore con la decisione di un

lettore singolo che la Divina Commedia debba essere letta in senso assolutamente letterale e senza andare alla ricerca di sensi spirituali? Come

conciliare il privilegio dato al lettore con le decisioni del lettore fondamentalista della Bibbia?

Quindi può esistere un'estetica dell'infinita interpretabilità dei testi poetici che si concilia con una semiotica della dipendenza dell'interpretazione

dalla intenzione dell'autore, e ci può essere una semiotica dell'interpretazione univoca dei testi che tuttavia nega la fedeltà alla intenzione dell'autore

e si rifà piuttosto a un diritto della intenzione dell'opera. Si può infatti leggere come infinitamente interpretabile un testo che il suo autore ha

concepito come assolutamente univoco (sarebbe il caso di una lettura delirante e derivante del catechismo cattolico o, per non correre il rischio di

ipotesi fantascientifiche, della lettura che Derrida dà di un testo di Searle). Si può leggere come infinitamente interpretabile un testo che è

certamente univoco quanto alla intenzione dell'opera, almeno se ci si attiene alle convenzioni di genere: un telegramma spedito come tale che dice

arrivo domani martedì 21 alle 22.15 può essere caricato di sottintesi minacciosi o promettenti.

D'altra parte qualcuno può leggere come univoco un testo che il suo autore ha deciso come infinitamente interpretabile (sarebbe il caso del

fondamentalismo se il Dio di Israele fosse quale lo pensavano í cabalisti). Si può leggere come univoco un testo che sia di fatto aperto a varie

interpretazioni dal punto di vista della intenzione dell'opera, almeno se ci si attiene alle leggi della lingua: sarebbe (…) il caso di chi leggesse Edipo

re come un romanzo poliziesco in cui l'unica cosa interessante fosse trovare il colpevole.

Sotto questo profilo dovremmo riconsiderare alcune delle correnti che si presentano oggi come orientate all'interpretazione. Per esempio, la

sociologia della letteratura privilegia ciò che un singolo o una comunità fanno dei testi. In tal senso prescinde dall'opzione fra intenzione dell'autore,

dell'opera o del lettore, perché di fatto registra gli usi che la società fa dei testi, corretti o meno che essi siano. Invece l'estetica della ricezione fa

proprio il principio ermeneutico che l'opera si arricchisce lungo i secoli delle interpretazioni che se ne danno; tiene presente il rapporto tra effetto

sociale dell'opera e orizzonte d'attesa dei destinatari storicamente situati; ma non nega che le interpretazioni che si danno del testo debbano essere

commisurate a un'ipotesi sulla natura della intentio profonda del testo. Del pari una semiotica dell'interpretazione (teorie del lettore modello e della

lettura come atto di collaborazione) di solito cerca nel testo la figura del lettore costituendo, e quindi cerca anch'essa nella intentio operis il criterio

per valutare le manifestazioni della intentio lectoris.

Al contrario, le varie pratiche di decostruzione spostano vistosamente l'accento sull'iniziativa del destinatario e sull'irriducibile ambiguità del testo,

cosicché il testo diventa un puro stimolo per la deriva interpretativa. (…)

3. Difesa del senso letterale

Bisogna iniziare ogni discorso sulla libertà dell'interpretazione da una difesa del senso letterale. Anni fa Reagan, provando i microfoni prima di una

conferenza stampa, aveva detto a un dipresso: "Fra pochi minuti darò l'ordine di bombardare la Russia." Se i testi dicono qualcosa, quel testo diceva

esattamente che l'enunciatore, in un breve spazio di tempo susseguente all'enunciazione, avrebbe ordinato di far partire dei missili a testata atomica

contro il territorio dell'Unione Sovietica. Pressato dai giornalisti, Reagan ha poi ammesso di aver scherzato: aveva detto quella frase ma non

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intendeva dire quello che essa significava. Quindi ogni destinatario che avesse creduto che la intentio auctoris coincidesse con la intentio operis si

sarebbe sbagliato.

Reagan fu criticato, non solo perché aveva detto ciò che non intendeva dire (un presidente degli Stati Uniti non può permettersi giochi di

enunciazione), ma soprattutto perché, si era insinuato, dicendo quel che aveva detto, anche se poi aveva negato di aver avuto l'intenzione di dirlo, di

fatto lo aveva detto, ovvero aveva delineato la possibilità che egli avrebbe potuto dirlo, avrebbe avuto il coraggio di dirlo e, per ragioni performative

legate al suo ufficio, avrebbe avuto la potestà di farlo.

Questa storia concerne ancora una normale interazione conversazionale, fatta di testi che si correggono l'uno con l'altro. Ma proviamo ora a

trasformarla in una storia in cui sia la reazione del pubblico sia la correzione di Reagan facciano parte di un unico testo autonomo, una storia

concepita per porre il lettore di fronte a delle scelte interpretative. Questa storia presenterebbe molte possibilità interpretative, per esempio:

– è la storia di un uomo che scherza;

– è la storia di un uomo che scherza quando non dovrebbe;

– è la storia di un uomo che scherza ma che di fatto sta emettendo una minaccia;

– è la storia di una tragica situazione politica in cui anche scherzi innocenti possono essere presi sul serio;

– è la storia di come lo stesso enunciato scherzoso possa assumere diversi significati a seconda di chi lo enunci.

Questa storia avrebbe un solo senso, tutti i sensi elencati, o solo alcuni, privilegiati rispetto alla sua interpretazione "corretta"?

Nel 1984 Derrida mi ha scritto, comunicandomi che stava istituendo con alcuni amici un Collège International de Philosophie e chiedendomi una

lettera di sostegno. Io scommetto che Derrída assumeva che:

io dovevo assumere che lui dicesse la verità;

io dovevo leggere il suo programma come un messaggio univoco, sia per quello che concerneva il presente (stati di fatto) sia per quello che

concerneva il futuro (propositi dello scrivente);

la firma che veniva richiesta in calce alla mia lettera avrebbe dovuto essere presa più sul serio della firma di Derrida alla fine di "Signature,

événement, contexte".

È ovvio che la lettera di Derrida avrebbe potuto assumere per me altri significati, stimolandomi a fare sospettose congetture su quello che egli

voleva "farmi intendere". Ma ogni altra inferenza interpretativa (per quanto paranoica) sarebbe stata basata sopra il riconoscimento del primo livello

di significato del messaggio, quello letterale.

D'altra parte Derrida stesso nella Grammatologie ricorda che, senza tutti gli strumenti della critica tradizionale, la lettura rischia di svilupparsi in

tutte le direzioni e di autorizzare ogni interpretazione possibile. Naturalmente Derrida, dopo avere parlato di questo necessario "guard-rail"

dell'interpretazione, aggiunge che esso protegge la lettura, ma non la apre.

Nessuno più di me è favorevole ad aprire le letture, ma il problema è tuttavia di stabilire ciò che si deve proteggere per aprire, non ciò che si deve

aprire per proteggere. La mia opinione è che, per interpretare la storia di Reagan, sia pure nella sua versione narrativa, e per essere autorizzati a

estrapolarne tutti i sensi possibili, occorre prima di tutto cogliere il fatto che il presidente degli USA ha detto – grammaticalmente parlando – che

intendeva bombardare l'URSS. Se non si comprende questo non si comprenderebbe neppure che (non intendendo farlo, per sua ammissione) egli

aveva scherzato.

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Ammetto che questo principio possa suonare, se non conservatore, almeno banale, ma non intendo defletterne a nessun costo. E su questa ferma

intenzione si gioca oggi molto del dibattito sul senso, sulla pluralità dei sensi, sulla libertà dell'interprete, sulla natura del testo, in una parola, sulla

natura della semiosi.

4. Lettore semantico e lettore critico

Prima di procedere occorre però mettere in chiaro una distinzione, che dovrebbe risultare implicita dai miei scritti precedenti ma che occorre forse

delineare con maggior precisione. Dobbiamo distinguere fra interpretazione semantica e interpretazione critica (o, se si preferisce, fra

interpretazione semiosica e interpretazione semiotica).

L'interpretazione semantica o semiosica è il risultato del processo per cui il destinatario, di fronte alla manifestazione lineare del testo, la riempie di

significato. L'interpretazione critica o semiotica è invece quella per cui si cerca di spiegare per quali ragioni strutturali il testo possa produrre quelle

(o altre alternative) interpretazioni semantiche.

Un testo può essere interpretato sia semanticamente che criticamente, ma solo alcuni testi (in generale quelli a funzione estetica) prevedono

entrambi i tipi di interpretazione. Se io dico il gatto è sul tappeto a chi mi domanda dove sia il gatto, prevedo solo un'interpretazione semantica. Se

chi lo dice è Searle, che vuole attirare l'attenzione sulla natura ambigua di quell'enunciato, prevede anche un'interpretazione critica.

Quindi dire che ogni testo prevede un lettore modello significa dire che in teoria, e in certi casi esplicitamente, esso ne prevede due: il lettore

modello ingenuo (semantico) e il lettore modello critico. Quando Agatha Christie in Dalle nove alle dieci racconta attraverso la voce di un narratore

che alla fine si scopre essere l'assassino, essa cerca prima di indurre il lettore ingenuo a sospettare di altri, ma quando alla fine il narratore invita a

rileggere il suo testo per scoprire che, in fondo, egli non aveva nascosto il suo delitto, salvo che il lettore ingenuo non aveva posto attenzione alle

sue parole, in tal caso l'autrice invita il lettore critico ad ammirare l'abilità con cui il testo ha indotto in errore il lettore ingenuo (…).

5. Interpretazione e uso dei testi

(…) In Lector in fabula ho proposto una distinzione fra interpretazione e uso dei testi e ho definito come corretta interpretazione la lettura che

Derrida ha dato (in "Le facteur de la vérité") della "Lettera rubata" di Poe. Derrida osserva, per condurre la sua lettura psicoanalitica in polemica con

la lettura lacaniana, che egli intende analizzare l'inconscio del testo e non l'inconscio dell'autore. Ora, la lettera viene trovata in un portacarte che

ciondola appeso a un minuscolo pomo d'ottone sotto la cornice del camino. Non è importante sapere quali conclusioni Derrida tragga dalla

posizione della lettera. Il fatto è che il pomo d'ottone e il centro del camino esistono come elementi dell'ammobiliamento del mondo possibile de-

lineato dalla storia di Poe e che, per leggere la storia, Derrida ha dovuto rispettare non solo il lessico inglese ma anche il mondo possibile descritto

dalla storia.

In questo senso ho insistito sulla distinzione fra interpretazione e uso di un testo, e ho detto che quella di Derrida era interpretazione mentre quello

di Maria Bonaparte, che usava il testo per trarre inferenze sulla vita privata di Poe, immettendo nel discorso prove che ricavava da informazioni

biografiche extratestuali, era semplice uso. Questa distinzione torna ora buona per discutere della differenza tra ricerca della intentio operis

(Derrida) e sovrapposizione della intentio lectoris (Bonaparte).

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L'interpretazione di Derrida è sostenuta dal testo, indipendentemente dalle intenzioni di Poe autore empirico, perché il testo afferma e non esclude

che il punto focale della storia sia il centro del camino. Si può ignorare questo centro del camino nel corso della prima lettura, ma non si può fingere

di averlo ignorato alla fine della storia, salvo raccontare un'altra storia. (…)

6. Interpretazione e congettura

L'iniziativa del lettore consiste nel fare una congettura sulla intentio operis. Questa congettura dev'essere approvata dal complesso del testo come

tutto organico. Questo non significa che su un testo si possa fare una e una sola congettura interpretativa. In principio se ne possono fare infinite. Ma

alla fine le congetture andranno provate sulla coerenza del testo e la coerenza testuale non potrà che disapprovare certe congetture avventate.

Un testo è un artificio teso a produrre il proprio lettore modello. Il lettore empirico è colui che fa una congettura sul tipo di lettore modello postulato

dal testo. Il che significa che il lettore empirico è colui che tenta congetture non sulle intenzioni dell'autore empirico, ma su quelle dell'autore

modello. L'autore modello è colui che, come strategia testuale, tende a produrre un certo lettore modello.

Ed ecco che a questo punto la ricerca sulla intenzione dell'autore e quella sulla intenzione dell'opera coincidono. Coincidono, almeno, nel senso che

autore (modello) e opera (come coerenza del testo) sono il punto virtuale a cui mira la congettura. Più che parametro da usare per validare

l'interpretazione, il testo è un oggetto che l'interpretazione costruisce nel tentativo circolare di validarsi in base a ciò che costituisce. Circolo

ermeneutico per eccellenza, certo. C'è il lettore modello dell'orario ferroviario e c'è il lettore modello di Finnegans Wake. Ma il fatto che Finnegans

Wake preveda un lettore modello capace di trovare infinite letture possibili non significa che l'opera non abbia un codice segreto. Il suo codice

segreto sta in questa sua volontà occulta, che diventa palese quando sia tradotta in termini di strategie testuali, di produrre questo lettore, libero di

azzardare tutte le interpretazioni che vuole, ma obbligato ad arrendersi quando il testo non approva i suoi azzardi più libidinali.

7. La falsificazione delle misinterpretazioni

Per prendere un testo come parametro delle proprie interpretazioni, dobbiamo ammettere che, almeno per un istante, ci sia un linguaggio critico che

agisce come metalinguaggio e che permetta la comparazione fra il testo, con tutta la sua storia, e la nuova interpretazione.

Capisco che questa posizione possa parere offensivamente neopositivistica. È infatti contro la nozione stessa di metalinguaggio interpretativo che si

pone l'idea derridiana di decostruzione e deriva. Ma io non sto dicendo che ci sia un metalinguaggio diverso dal linguaggio ordinario. Sto dicendo

che la nozione di interpretazione richiede che un pezzo di linguaggio possa essere usato come interpretante di un altro pezzo dello stesso linguaggio.

Questo è in fondo il principio peirciano di interpretanza e di semiosi illimitata.

Un metalinguaggio critico non è un linguaggio diverso dal proprio linguaggio oggetto. È una porzione dello stesso linguaggio oggetto, e in tal senso

è una funzione che qualsiasi linguaggio svolge quando parla di se stesso.

L'unica prova della validità della posizione che sostengo è data dalla autocontraddittorietà della posizione alternativa.

Supponiamo che ci sia una teoria che asserisce che ogni interpretazione di un testo ne è una misinterpretazione. Supponiamo che ci siano due testi

Alfa e Beta, e che Alfa sia proposto a un lettore affinché lo fraintenda ed esprima questo suo fraintendimento in un testo Sigma. Somministriamo

Alfa, Beta e Sigma a un soggetto X normalmente alfabetizzato. Istruiamo X dicendogli che ogni interpretazione è una misinterpretazione.

Chiediamogli ora se Sigma sia una misinterpretazíone di Alfa oppure di Beta.

Ora supponiamo che X dica che Sigma è una misinterpretazione di Alfa. Diremo che ha ragione?

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Supponiamo invece che X dica che Sigma è una misinterpretazione di Beta. Diremo che ha torto?

In entrambi í casi, chi approvasse o disapprovasse la risposta di X mostrerebbe di credere non solo che un testo controlli e selezioni le proprie

interpretazioni ma anche le proprie misinterpretazioni. Chi approvasse o disapprovasse le risposte si comporterebbe dunque come qualcuno che non

ritiene affatto che ogni interpretazione sia una misinterpretazione, perché userebbe il testo originale come parametro per definire le sue buone e

corrette misinterpretazioni. Ogni accenno di approvazione o disapprovazione nei confronti della risposta di X presupporrebbe da parte nostra sia una

precedente interpretazione di Alfa, da ritenersi la sola corretta, sia la fiducia in un metalinguaggio critico, che useremmo per dire perché Sigma è

una misinterpretazione di Alfa e non di Beta.

Sarebbe imbarazzante sostenere che di un testo si danno solo misinterpretazioni salvo nel caso della sola interpretazione (buona) del garante delle

misinterpretazioni altrui. Ma a questa contraddizione non si sfugge: così il sostenitore di una teoria della misinterpretazione rischia,

paradossalmente, di presentarsi come colui che, più di ogni altro, crede che un testo incoraggi un'interpretazione migliore delle altre.

In effetti si sfuggirebbe alla contraddizione solo attraverso una versione mitigata della teoria della misinterpretazione, e cioè assumendo che il

termine "misinterpretazione" vada preso in senso metaforico. Oppure ci sarebbe un modo di uscire radicalmente dalla contraddizione. Si dovrebbe

assumere che qualsiasi risposta di X sia buona. Sigma potrà essere sia una misinterpretazione di Alfa che una misinterpretazione di Beta, a piacere.

In tal caso sarebbe anche la misinterpretazione di qualsiasi altro testo possibile. A questo punto però Sigma sarebbe indubbiamente un testo, e molto

autonomo, ma perché definirlo misinterpretazione di un altro testo? Se è la misinterpretazione di qualsiasi testo non lo è di nessuno: Sigma

esisterebbe per se stesso e non esigerebbe alcun altro testo come proprio parametro. (…)

8. Conclusioni

Difendere un principio di interpretanza, e una sua dipendenza dalla intentio operis, non significa certo escludere la collaborazione del destinatario. Il

fatto stesso che si sia posta la costruzione dell'oggetto testuale sotto il segno della congettura da parte dell'interprete mostra come intenzione

dell'opera e intenzione del lettore siano strettamente legate. Difendere l'interpretazione contro l'uso del testo non significa che i testi non possano

essere usati. Ma il loro libero uso non ha nulla a che vedere con la loro interpretazione, per quanto sia interpretazione sia uso presuppongano sempre

un riferimento al testo-fonte, se non altro come pretesto.

Uso e interpretazione sono certamente due modelli astratti. Ogni lettura risulta sempre da una commistione di questi due atteggiamenti. Talora

accade che un gioco iniziato come uso finisca col produrre lucida e creativa interpretazione — o viceversa. Talora misinterpretare un testo significa

disincrostarlo da molte interpretazioni canoniche precedenti, rivelarne nuovi aspetti, e in questo processo il testo risulta tanto meglio e tanto più

produttivamente interpretato, secondo la propria intentio operis, attenuata e oscurata da tante precedenti intentiones lectoris camuffate da scoperte

della intentio auctoris.

C'è infine una lettura pretestuale, che assume le forme dell'uso spregiudicato, per mostrare quanto il linguaggio possa produrre semiosi illimitata o

deriva. In tal caso la lettura pretestuale ha funzioni filosofiche, e tali mi sembrano gli esempi di decostruzione provvisti da Derrida. Ma

"decostruzione non significa muoversi da, un concetto all'altro, bensì nel rovesciare e spiazzare un ordine concettuale o il non-ordine concettuale

con cui il testo è articolato" (Derrida 1972). Derrida è più lucido del derridismo. Credo vi sia differenza tra questo gioco filosofico (la cui posta non

è un testo singolo, ma l'orizzonte speculativo che esso rivela o tradisce) e la decisione di applicarne il metodo alla critica letteraria — o di fare di

tale metodo il criterio di ogni atto di interpretazione.

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EDOARDO SANGUINETI

La missione del critico

Voglio incominciare raccontando un minimo aneddoto. Taluno, avendo visto in programma, a Roma, il titolo di questo mio intervento, che reca per

insegna, «La missione del critico», mi interrogò al telefono, alquanti giorni or sono, onde conoscere se una siffatta iscrizione dovesse intendersi

gravemente o ironicamente, e se dovesse insomma prendersi, per dirla poeticamente, o quasi, «dassenno oppur da burla». Gli risposi che entrambe

le interpretazioni erano corrette, e che il mio titolo, meglio ancora che ambiguamente, doveva suonare ambivalentemente, poich'era, voleva essere,

tonalmente, meditatamente anfibio. Quello che al telefono non dissi, ma che ora posso confidare tranquillamente a voi tutti, era l'essere mia

intenzione, in questa breve comunicazione, non dirò l'analizzare, ma l'indicare, l'ostentare appena, il sintagma che sta in etichetta e, al limite,

pronunciarlo. Era mio programma elementare la semplice evocazione di un tormentoso fantasma. (…)

Diciamo che la circostanza aneddotica funge qui da povero modello elementare di una situazione universale, della situazione critica in assoluto,

(…). Un soggetto, che nella fattispecie è sempre il telefonante interrogante, si pone un problema interpretativo dinanzi a un testo. E un lacerto di

testo, lo sappiamo, ma è dotato di singolare valore esponenziale, come inscriptio, che è un vecchio genere rettorico, per sé. E il telefonante desidera,

avvalendosi del complesso delle proprie multiformi competenze: a) accertarsi della correttezza di esso testo; b) offrirsene un'esegesi accettabile; c)

valutarlo equamente. È uno schemino arcaico, anzi addirittura primitivo, che non sarà forse esaustivo, ma che non ritengo nemmeno, pesato il tutto,

irreparabilmente obsoleto, giacché quello che per solito pensiamo come processo critico, comunque si configuri, è ancora descrivibile

tollerabilmente come composto di questi tre elementi, connessi indissolubilmente tra loro, anche se, nella divisione del lavoro, è accaduto e accade

di continuo che tendano a autonomizzarsi in maniera forte e pronunciata, e anzi a ulteriormente vivisezionarsi, o necrosezionarsi, in specialismi

sempre più speciali, sempre più specialissimi. E poi, le tante volte, un elemento, che pare assente, al primo sguardo, si nasconde e si camuffa dietro

un altro, dentro l'altro. Nella cattiva infinità di una scissione perpetua, per quanto avanzata e alienata essa possa dimostrarsi, nessun elemento va

perduto mai. Sarà travestito, sarà decentrato, ma non scompare, non si annichila.

E adesso non mi perdo in quello che pure, nell'exemplum in questione, è un dettaglio capitale. Cercando di non impiegare soltanto le proprie pur

ricche competenze, ma, come è nobile, di estenderle, il telefonante, fruitore del lacerto testuale, si rivolge direttamente all'autore, confidando di

meglio eseguire, mediante un così ultimativo ricorso e riscontro, il proprio compito. Trattandosi di autore vivente, si risparmia di fabbricarsi al

computer insino le concordanze dei giornali intimi e dell'epistolario completo. Semplicemente, da buon telefonante, telefona. Lo so, stiamo entrando

in un labirinto senza uscita. Ma è ormai stanca ovvietà, per fortuna, che un produttore di testi non ha da vantare privilegio alcuno sopra i sensi che

un proprio testo, una volta partorito, produce per forza propria, come dispositivo autogeno, camminando sopra le proprie gambe robotiche. E

riconosciuto che un autore, purché mangi, beva, dorma e vesta panni, o tali operazioni svolgesse sino a un mezzo secolo fa, incirca, può vantare la

proprietà di un testo, del suo testo, per sé e per gli eredi (diritto d'autore), ma non può esercitare una piena autorità autoesplicativa e autoanalitica.

Può portare, anzi è tenuto a farlo, un critico in se stesso, ma questi ha giurisdizione limitata al nudo foro interiore. Del resto, parliamoci schietti, se

altro non fosse, un autore può benissimo mentire, anche sapendo di mentire. Il genere dei vati non è soltanto irritabile, ma è falso e bugiardo. Allora,

poiché questo è pure un punto delicato, desidero, proprio per meglio accantonarlo, sbrigarlo per mezzo di alcune svelte degnità, e fare un buon passo

innanzi, intanto:

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la degnità) La nozione di testo, come macchina autogena, è un mero feticcio, come la merce, peggio di qualsiasi merce, in cui si nasconde,

cosificata, la relazione pratico-concreta tra due soggetti. Ho detto tra due soggetti, prego notare, e non tra un Robinson e un Venerdì. È questa

relazione pratico-concreta, non altro, quella che anzi, in un momento determinato, prende una determinata forma oggettuale, materializzandosi, per

quel che ci interessa, in un testo. E questa relazione sempre quella che, ponendosi, pone in distribuzione i ruoli di autore e di letto re, se vogliamo

così tradizionalmente configurarli, ovvero di locutore e di auditore, di soggetto emittente e di soggetto ricevente. La centralità del testo, insomma,

non è di ordine ontologico, ma situazionalmente intersoggettivo.

2a degnità) Non soltanto la pratica sociale concreta decide come, dove, quando, perché, ecc., nel flusso degli scambi segnici relazionali, si ritagli un

testo, ma ne decide, con il ritaglio, nel ritaglio, la significazione sociocategoriale. La pratica intersoggettiva, ritagliando, dice: questo testo (questo

ritaglio) è magicamente significante, quello giuridicamente, quello letterariamente, ecc. Quest'altro testo, invece, e finalmente, non ha senso alcuno,

sono parole gettate a vanvera, e al vento. Le ritaglio, se le ritaglio, per destituirle di senso. Ma niente va perduto, ovviamente, se si vuole. Basta

volere. Le parole vanverose e ventose sono riciclabili, cioé sensificabili, come non-sense apprezzabile, poniamo, come attività surrealista, e della

meglio automatica e squisitamente cadaverica, come protocollo psichiatrico, come vi piace, se vi piace. Posso anche proporre un ritaglio segnico

come titolo. Come titolo, è possibile che sia accolto e, come titolo sempre, decodificato. Prudentemente, il telefonante può consultare il locutore,

con intenzioni interpretative, con aspirazioni critiche. E così è andata, in effetti, secondo che vi narro.

3a degnità) In forza di quanto precede, se non si può dedurre un testo da un autore — anche se è più che legittimo, e verificabile sperimentalmente,

un certo sistema di attese, e magari un certo calcolo previsionale: dato il mio io, ci si può aspettare un certo tipo di titolo, per esempio — si può però

benissimo, anzi si deve, dedurre un autore dal testo. L'importante è che il pensiero, così correttamente orientandosi, seguendo una giusta corrente

deduttiva, non corra subito alla prima robinsonata che gli capita. Considero, per me, definitivamente acquisita la lezione di Lucien Goldmann,

intorno al gruppo sociale come vero autore e produttore testuale e ideologico. Detto questo, si può dire, e forse si deve dire, che il primo problema

che un testo pone, appena posto il testo, è un problema attributivo. L'importante è non scambiare questo solenne problema con la ricerca minimale

di un'etichetta nominale semplice, di un timbro anagrafico, anche se, in via sbrigativa, l'insegnante che apre un'indagine in classe, per sapere chi

abbia mai scritto con il gesso, sopra la lavagna, una proposizione irriguardosa o indecente, può innalzarsi al grado di attante paradigmatica, in simile

procedimento. Perché ormai lo sappiamo tutti da un pezzo che la caccia all'autore è, in origine, e in essenza, una ricerca di responsabilità, a fini

normalmente persecutori. Ma sappiamo pure che, risolta l'indagine, designato il reo, è per la nota sul diario o sul registro, è per l'espulsione da

comminarsi eventualmente, che tutto questo basta e avanza. Ma poi c'è la famiglia, precisamente, e i cattivi compagni, e la storia intiera dello

sciagurato alunno, e il consiglio dei genitori, e i rappresentanti di classe, e il signor preside, e l'assistente sociale. Si deduce un cosmo, quando si

deduce un autore. È questa folla di persone che sono le veraci figure di un'attribuzione in senso forte. Ed è questa che ho in testa, appunto.

4a degnità) La missione del critico può, a fini semplificativi, ma non necessariamente semplicistici, riassumersi allora, non più in tre gesti, ma in

uno. La missione del critico è di ordine attributivo, un point c'est tout. Il momento filologico (lettura corretta, e corretta decrittazione della frase alla

lavagna, come gesto scrittorio, e con escussione di testimoni), il momento interpretativo (sensificazione puntuale della frase medesima, come

rivelatrice di un mondo intenzionale e di un mondo effettuale), e il momento valutativo (considerazione di aggravanti e attenuanti, enunciazione

della sentenza, provvedimenti pratici da assumere in conseguenza della comminazione della pena), possono essere descritti come tre momenti,

massime in una cultura ossessivamente trinitaria come risulterebbe essere la nostra, almeno nel senso di Georges Dumézil. In tre momenti il gesto

critico può articolarsi ed esprimersi, organizzarsi e argomentarsi. Ma il critico, infine, è sì il giudice, ma, prima di tutto, un giudice indiziario,

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un'autorità inquirente. Se volete, è un'immagine meno garbata, ma perfettamente autorizzata dagli sviluppi contemporanei del discorso sul metodo, è

un manovratore di spie, per non dire, che sarebbe probabilmente proprio troppo, è una spia, in prima persona.

5a degnità didattica, postrema e parentetica). Ogni prova di esame, nell'ordinamento scolastico superiore in genere, in quello universitario per certo,

sarebbe giusto e salutare che consistesse in un esercizio attributivo. Assegnato un testo, dica il candidato, con pensate argomentazioni, a quale

soggetto gli pare che possa essere ragionevolmente attribuito. Dove non importerebbe molto, si capisce, l'astratta conclusione ultima (il testo può

essere preconosciuto dal candidato, il compagno avveduto può suggerire il nome fatale), ma sarebbe decisivo il decorso procedurale. Del resto, se ci

pensate un momento, qualunque prova d'esame, scritta o orale, è riconducibile, di fatto, a questo nucleo essenziale. Esprimo l'auspicio, non

disperando che possa essere raccolto, che si renda manifesto, e venga lealmente evidenziato, a vantaggio dei discenti come dei docenti, un

meccanismo che oggidì si mette in movimento sotto il velame di un informe e inorganico cerimoniale promozionale.

Non sarà invece una degnità, ma una minima postilla, quanto ora aggiungo, essendo riuscito a pronunciare, senza virgolettarla, e più di una volta,

ormai, la parola «missione», in modi che spero siano riusciti indolori. Che «missione» (sto riprendendo le virgolette) sia voce che è riuscita

vittoriosamente a secolarizzarsi, può essere segnato come un benefico indizio di riuscita laicizzazione di un concetto, nel nostro universo mentale

come nel nostro esperire quotidiano. Ma è indispensabile precisazione dialettica il considerare che ciò è avvenuto a prezzo di una estensiva e

intensiva sacralizzazione, mediante spostamento (anche nell'accezione freudiana) sopra gli statuti corporativi dominanti (e sopra altro, che ometto).

Missione del professore, missione del netturbino. Se le cose stanno così, avremo raggiunto, d'un colpo, una prima individuazione della missione

stessa del critico. E potremo esprimerla dicendo che, contro la bestia trionfante della «critica critica», dell'ancienne come della nouvelle, e in vista di

un onesto spaccio della medesima, il critico sans phrase ha una missione di dimissione. Ne consegue, storicamente, che il modello di una critica

dimissionante, in guerra contro ogni «critica critica», sarà l'analisi marxiana dei Mystères de Paris. Che si tratti, per giunta, di un modello di

metacritica, è quasi un accidente provvidenziale.

Vengo alla considerazione quarta e suprema, che non è male che sia formulata in termini interrogativi. Il telefonante, interrogandosi e

interrogandomi sul titolo, poneva una domanda letteraria? Operava come opera un critico letterario? Faceva il critico letterario, addirittura? Si

muoveva nell'universo del discorso letterario? Credo di aver usato una sola volta, sin qui, ma posso anche sbagliarmi, l'epiteto di «letterario», e

avverbialmente, di sbieco, quando ho fugacemente accennato all'eventualità, così frequente, che un testo sia ritagliato, e sensificato, nella pratica

sociale, come «significante letterariamente». Che un testo, accada che sia computato tra quelli che significano «letterariamente», in esclusiva, e non

significano dunque altrimenti, è un fatto. È anche un fatto, ovviamente, che un testo sia deciso, cioè proprio ritagliato, come significante a diversi

livelli, in pratiche diverse, opzionalmente, così sincronicamente come diacronicamente. Suppongo che la lunga e tormentosa quête intorno ai tratti

specifici di letterarietà, reificatamente depositati in un testo, possa darsi unanimemente per conclusa. È una supposizione un po' ardita, e

probabilmente un segno di mio candido ottimismo soggettivo, ma preferisco muovermi proprio da questa supposizione, in tutto il mio presente

discorso, senza per questo dover misconoscere i mutevoli segnali socializzati, in senso letterario, di cui tanti testi si condiscono. Ma non è questo

uno specifico letterario, è chiaro. E tuttavia, che simile prolungata quête non sia risultata vana, mi pare comprovabile, se non altro, alla luce di due

risultati, che non voglio attribuirle consaputamente, ma che possiamo immaginare consolidati da una tale esperienza:

1° risultato) Qualunque testo, con un minimo di sagace buona volontà, è praticabile letterariamente, qualunque significato si voglia, da chiunque,

attribuire a questo polivalente avverbio, in qualunque società dotata di istituzioni letterarie. Il più brillante risultato di questo risultato è che la

categoria letteraria, facendosi onnicomprensiva, ha dissolto finalmente sé medesima. Posti ormai come siamo, come penso che siamo, dinanzi alla

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nuda segnicità dei nudi segni verbali, ricondotta la letterarietà alla prassi sociale in atto, concretamente intersoggettiva, e verificatala come

naturalmente priva di argini e confini predeterminati e predeterminabili, ogni interrogazione non può che rivolgersi, da ultimo, alla prassi,

frontalmente. L'oggetto della critica letteraria sarebbe insomma la critica della letterarietà come istituzione pratica e storica. È un istituto critico del

proprio essere istituto. Se la cosa dovesse apparire eccessivamente ovvia, non mi resta che scusarmi, e passare al:

2° risultato) Qualunque testo verbale è ambiguabile. Ora, è altamente persuasiva l'idea che la letteraturizzazione di un testo riposi tutta, secondo che

è stato variamente e replicatamente suggerito da tanti suggeritori teorici, sopra un conferimento di ambiguità, ex novo o in supplemento, radicale o

addizionale, per grazia, che si deposita, o si suppone depositato, in un ritaglio testuale. La produzione di testi senza fine ambiguabili forma un

circolo socialmente stretto con la domanda, la circolazione, la distribuzione e il consumo di simili testi. La critica letteraria, in quest'ottica, si

presenta come l'istituto normativo che formula, a livello di più alta autorità e autoritarietà formale, la richiesta di testi ambiguabili, e ne esercita il

controllo. È qui, per me, che può bene entrare il secondo modello di critica dimissionante, e sarà, come da manuale, ovviamente, la Traumdeutung

freudiana, integrata, per chiarezza didattica, dalla Gradiva. L'analisi di un testo è interminabile. L'arresto, sempre relativo, problematico e

provvisorio, sarà dato soltanto da un certo grado di richiesta, socialmente determinato, di disambiguamento dell'ambiguato, e corrispondente

soddisfazione, ovvero da una conseguita, sempre in certo grado, normalizzazione.

Morale provvisoria, riformulata in modo definitivo: una critica in dimissione non potrà che muovere, come «critica della critica critica», che dalla

Heilige Familie, avvalendosi di tutta la strumentazione procurata dalla appena menzionata Deutung, per le diagnosi ivi condotte intorno ai protocolli

del simbolismo del sogno verbalizzato. La «dimissione» che suggerisco può allora designarsi come una onirocritica sociale pratica.

Ancora Marx e Freud? si dirà però giustamente, e sconfortatamente, con il gesto tipico delle braccia che cascano. Ebbene, ancora, sì — rispondo, e

non soltanto in ossequio al principio per cui una decente critique de la critique è anche, come ormai è rivelato, un roman d'apprentissage, anche se

epitomato in minimo compendio. Spero tutta via, soprattutto, che sia abbastanza evidente che il richiamo a questi venerabili e veteri esemplari di

formazione (Bildung), non si pronuncia qui a sostegno e conforto di canone alcuno, quale che esso sia. La Familie, come la Deutung, non si

evocano, per l'ennesima volta, come ancillae litterarum, assumibili come utili colf tra le pareti dei nostri laboratori. Al contrario, sono additati come

strumenti di una missione di dimissione. Pour en finir avec.

E adesso rispondo alla domanda lasciata in sospeso. L'interrogante telefonante poneva una questione che, comunque fosse orientata, trovava

riscontro, se ancora lo rammentate, in un contegno assolutamente letterario. Che cosa poteva desiderare di più e di meglio, infatti, se non sentirsi

dire che il mio lacerto testuale era, prima che ambiguabile, ambiguato in partenza, ambivalente, meditatamente anfibio, politonale? Egli era

rassicuratamente invitato, apertis verbis, per quel che può valere la testimonianza del produttore testuale, a problematizzarsi tranquillamente la mia

insegna, mediante quello che vulgatamente è, per eccellenza, secondo che si è detto, l'invito alla letteraturizzazione di un testo. Troppa grazia, se

volete, visto che a un dubbio empiricamente limitato, io porgevo il soccorso, se non altro implicito, di un intiero apparato teorico. Ma è meglio

abbondare, in certi casi, e forse in ogni caso. E qui richiamerò di corsa, allora, a complemento di quanto appena enunciato, tre mie rapide tesi, che

altrove ho già definito, nel tempo, e che posso qui dunque compendiare così:

I) Dicesi testo letterario un testo verbale che è ritagliato per essere fatto funzionare come un test. Dimmi quello che ci leggi, e ti dirò chi sei.

II) Dicesi testo letterario un testo classificabile come forma praticamente orientata in senso perlocutorio, ma organizzata secondo i principi

della condensazione e dello spostamento. Il maggiore risultato dell'estetica di questo secolo nostro è riconoscibile, chi lo sappia riconoscere, in quel

dimesso libello di reclamistica spiegata al popolo che è rappresentato dai Persuasori occulti di Vance Packard. Egli credeva, ingenuamente, l'autore,

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di discorrere di seduzione pubblicitaria. Egli discorreva, tanto meglio se ignaro, tanto più acutamente e sottilmente perché ignaro, di sociose-

miologia estetica generale.

Dicesi testo letterario un testo che si presenta nella forma dell'enigma. Dove c'è la poesia, lì c'è un indovinello. La differenza, minimale ma

determinante, è che un enigma è supposto, in assunzione non letteraturizzata, possedere una soluzione, e una soltanto, ed essere dunque univoco. Un

testo letterario è un testo che è assunto come potenzialmente capace, per sé, di infinite risoluzioni, anche se ovviamente è poi raro che non si levi

qualcuno, e spesso sono tanti, e sono infatti tutti in una volta, per solito, poiché si tratta di pretesa universale, a pretendere che la propria risoluzione

sia la sola corretta e autenticabile. Dove c'è la poesia, lì c'è un equivoco. E se così non accadesse, sarebbe poi impossibile, per un testo, agire come

un test. Con il che, effettivamente, il circolo ermeneutico si chiude, e fa il fatidico suo clic. Sempre a patto che, poiché qui è il nodo vero, che si

riconosca che la sorgente ultima di ogni e qualunque letteraturizzazione è da collocarsi nella discoverta che un messaggio verbale, quale che esso

sia, in ritaglio, è portatore di una latente e subliminare valenza pratico-suasoria, al minimo proiettivamente coltivata. Questa valenza, così costituita

e/o alimentata, per dirla in fretta, può dirsi ideologica. Costituzione e alimentazione, è superfluo avvertire, giuocano in perpetua conversione

dialettica, ancora una volta interminabilmente.

Ecco perché, finalmente, la dimissione del critico di belle lettere può assumere la forma, che mi pare attraente, della sua conversione, senza residuo,

in un analista della persuasione ideologica, quale agisce eminentemente in materia di messaggi segnici verbalmente organizzati. All'orizzonte,

malgré tout, è inevitabile, per quel che si accennava, che si affacci dunque il miraggio di un testo spiegato sino in fondo, esaustivamente esplicato

una volta per tutte, disenigmatizzato, che poi significa deletteraturizzato ultimativamente, e insomma, come si sarebbe detto ancora qualche anno fa,

demistificato senza appello. E questa è pure un'utopia rispettabile, nel genere delle utopie. E minacciosamente totalizzante, quando non è addirittura

totalitaria, come tutte le utopie di riguardo. Ma, accolta come utopia, gestita come un'illusione, può pure valere, all'orizzonte appunto, come una

estrema idea regolatrice. Assumerla come praticabile, è spaventevole. Negarla come utopia, è impossibile. E poi, per forza, è infalsificabile.

Demistificato senza appello. Cioè, giudicato. E questa volta, più che a una strategia indiziaria, non si può non pensare a un criterio di valore. Ma

quel tribunale del gusto, quella corte della ragione, alla cui presenza sono convocati sempre i sogni, i deliri della poesia, quello stesso che, al grado

zero, si pronuncia quotidianamente e ruvidamente con le sen tenze del tipo «questo è bello» (o «brutto»), «questo mi piace» (o «non mi piace affatto

»), non è che la forma, come si potrebbe tornare a dire, aurorale, di un possibile testo secondo, dispiegato e argomentato come metatesto

metaletterario. Ma i meccanismi della metaletteraturizzazione non posso che affidarli ai ragionamenti proporzionalmente deduttivi dei miei presenti

narratari, a partire dai meccanismi sopra descritti della letteraturizzazione.

Qui, se mai, conviene riportare in causa uno statuto professionale, per cui dovrà valere l'eterna e immancabile parafrasi della troppo nota

proposizione gramsciana, per cui tutti siamo, in un certo senso, intellettuali e filosofi, e siamo critici e giudici, come tutti possiamo essere, e

all'occorrenza siamo, e sarti e cuochi. E operatori ecologici, naturalmente Ma non tutti, altrettanto naturalmente, esercitiamo una tale funzione

sociale. Non tutti, fortuna o sventura che sia, siamo delegati socialmente alla selezione, all'amministrazione e alla tutela del cosiddetto patrimonio

letterario. Né siamo tutti demandati a elaborare canoni e criteri, e storie e enciclopedie, a gerarchizzare i massimi, i minori e i minimi, a

antologizzare e glossare e prefare e postfare. Non tutti sono incaricati di definire la vera missione del critico. Né a fungere, come mi è accaduto di

dire qui a Roma, di recente, in un incontro seminariale alla «Sapienza», — né a fungere, dico, da braccio secolare dei valori socialmente, anzi

statalmente legalizzati, dei valori riconosciuti, dei valori egemoni, onde a chiunque è concesso, per fare un caso trasparente, il diritto di non amare

Dante, e persino di detestarlo, e di sognare di rimetterne in discussione tutte le eventuali qualità poetiche, espressive, letterarie, rettoriche, — ma

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non è concesso il diritto di ignorarlo, e nemmeno di possederne una conoscenza che sia imputabile di riuscire anche soltanto lacunosa, imperfetta,

inadeguata nei confronti di determinati standard predeliberati. Ci sono, per questo, al di là di una generale e generica pressione collettiva, che grava

intorno, e specialmente dall'alto, gli esami e le tesi. E c'è il titolo condizionato di dottore, come ci sono, concorsualmente, titoli maggiori e più

ambiti, affinché questa delega sociale, questa funzione, innalzandosi realmente a missione esecutiva, produca l'apparato scolastico di controllo, e

questo possa serenamente riprodursi, al possibile, con più o meno solerti interventi riformatori, decretariamente sanciti, che aggiustino il tiro.

Ma se dovessimo soffermarci sopra questa centralità scolastica della funzione critica, della missione del critico, che lotta da una parte contro i

residui superstiti del saggismo selvaggio da liberi professionisti, e dall'altra contro l'evidenza mercantile della coazione all'acquisto esercitata dalle

comunicazioni di massa, faremmo notte, fatalmente. Qui mi è bastato accennare così, di passaggio, all'autoposizione giudicante, in merito alla

cernita e al valore, della classe degli scolastici, in armonia con l'eteroposizione, costituita per delega dalla funzione pubblica, a una corporazione di

solidalmente e solidariamente cooptati, in idea, per criteri di competenza scientifica. Nel cielo delle aule universitarie, la tempesta dei conflitti

ideologici, per tacere dei conflitti immediatamente pratici, che è poi l'essenza stessa dell'economia testuale in genere e in ispecie, si placa sotto la

copertura rasserenante del dibattito metodologico.

E dunque, perché scrivi, tu, oggi? Per trovare spazio, con lo spoglio nome almeno, con dieci righe se possibile, con un paragrafo se mi va pur con le

dovute cautele, che è la moderna incarnazione del canone, e che assume infine le sembianze domestiche, e come si è visto duramente coercitive, del

manuale di storia letteraria. Dove funziona il consenso, meglio. Ma dove occorre la coazione, essa è pronta a intervenire con tutta quell'energia

selettiva che l'occasione impone, onde i voti e i giudizi, le commissioni e le valutazioni.

Ma lasciamo da parte, è tempo, la missione del docente. Osserviamo soltanto che a nessuno sfuggirà comunque la mirabile analogia manifesta, per

cui si accede alla storia letteraria esattamente come si accede a una cattedra, presentando le pubblicazioni. Anche se il giudizio storiografico, al

momento, si presenta meno burocraticamente irrigidito, occorre ammetterlo.

Ma c'è giustizia, a questo mondo, finalmente, se toccherà poi allo storiografo, a sua volta, scavarsi la propria nicchia, anzi il proprio loculo,' nelle

storie della critica, e segnatamente nelle storie della storia della letteratura.

E poi, devo concludere. E sarò sobrio come ancora dovessi conversare al telefono, e in teleselezione. Perché, infine, che cosa resta da fare al critico,

dopo che abbia presentato le proprie dimissioni? Per me, gli rimane da farsi storico. E non parlo, è chiaro, dello storico della storiografia letteraria.

Parlo dell'historicus, senza ulteriore determinazione. Parlo dello scriptor rerum, che mi pare, intanto, uno splendido stemma. Questo scrittore di

cose sarà colui che ha innalzato a proprio motto e divisa le note proposizioni basilari dell'Ideologia tedesca: «La morale, la religione, la metafisica e

ogni altra forma ideologica, e le forme di coscienza che ad esse corrispondono, non possono più conservare una parvenza di autonomia. Esse non

hanno storia, non hanno sviluppo, ma gli uomini, che sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali, trasformano, insieme con

questa loro realtà, anche il loro pensiero». Ovvero, altra citazione equipollente: «Non c'è una storia della politica, del diritto, della scienza, ecc.,

dell'arte, della religione, ecc.». E in questi eccetera è compresa, a pieno titolo, se non vogliamo dire per eccellenza, ma non è nemmeno necessario

esagerare, la cosiddetta pratica letteraria, in genere.

Ma, e questo punto è capitalissimo, la dimissione del critico non ri posa su questo principio come sopra un gesto preliminare, come sopra un'opzione

teorica. Questo non è un postulato, ma un obiettivo, un ri cercabile risultato di ricerca. Sopprimendo l'autonomia del proprio o getto, il suo fittizio

statuto ontologico, e tutti i diversi fantasmi di una storica separatezza, la missione del critico dimissionario potrà epigrammarsi, se in epigramma

vogliamo finire, dicendo che egli non è un decostruttore di testi, ma un decostruttore di storia, tout court. E penso, così dicendo, è inevitabile, a quel

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tipo di decostruzione che aveva in mente Benjamin quando, proprio come historicus, discorreva del dovere di «forzare la continuità storica», di far

saltare il continuum storico stesso. Era scrittore di cose, di fatti empirici, quando dichiarava, precisamente: «La storiografia materialistica non

prende i suoi oggetti, ma li fa deflagrare dal corso della storia». E più radicalmente, se volete: «L'esposizione materialistica della storia ha lo scopo,

per dirla con Engels, di uscire 'fuori dall'ambito del pensiero'». Per tornare un istante all'Ideologia tedesca, si tratta di un lavoro in forza del quale

qualunque problema teorico si risolve semplicemente in un «fatto empirico».

È questa scrittura di semplici fatti empirici, la missione che Benjamin ha cercato di assumersi, segnatamente, nel suo interminato e interminabile

lavoro su Parigi, sulla «capitale del XIX secolo». E voglio segnalare, dal momento che ora possiamo agevolmente giovarci dell'edizione italiana

dell'opera, almeno questo tratto (N, 1 a, 6): «Marx espone la connessione causale tra economia e cultura. Qui è in questione una connessione

espressiva. Non si tratta di esporre l'origine economica della cultura, ma l'espressione dell'economia nella sua cultura. Si tratta, in altre parole, del

tentativo di afferrare un processo economico come un protofenomeno ben visibile, dal quale procedono tutte le manifestazioni vitali dei passages (e,

in questa misura, del XIX secolo)». E da cui procedono, del pari, come tutti sappiamo bene, Baudelaire come Luigi Filippo, Grandville come

Haussmann, Fourier come Daguerre. E i panorami, i boulevards, le barricate, gli intérieurs, le esposizioni universali. E Les fleurs du mal.

Questa nota può anche confortare, mediante il concetto di «connessione espressiva», chi si senta minacciato da prospettive disoccupazionali, a

dimissioni avvenute. Posso addurre anche conforti più consistenti, poiché Benjamin scrive, tra l'altro: «Nella storiografia materialistica il momento

distruttivo o critico si fa valere forzando la continuità storica, poiché soltanto così l'oggetto storico si costituisce per la prima volta. All'interno del

corso continuo della storia è, infatti, impossibile identificare un oggetto storico. D'altra parte la storiografia ha da sempre semplicemente estrapolato

il suo oggetto dal corso continuo della storia. Tuttavia, questo accadeva in modo infondato, come un espediente, poiché per essa era pur sempre

prioritario reinserire l'oggetto nel continuum che essa creava nuovamente nell'immedesimazione».

Lo scrittore di fatti empirici, lo storico di cose, come critico dimissionante, è uno scrittore straniante. Questo può essere il suo supremo tratto

distintivo. E se comunque ho potuto rincuorare qualcuno, in direzione professionale, mediante un'idea di riconversione produttiva della sua forza

lavoro intellettuale, sarà più difficile tentare di rincuorare chi si senta minacciato, piuttosto, dai caratteri terribilmente impegnativi di una simile

prospettiva operativa.

Ma la mia missione comunicante è conclusa, ormai, e non ho spazio supplementare per un'altra consolatio, a uso del critico insidiato da pulsioni

depressive. Posso, però, almeno come critico comunicativo, dimissionare in pace, rinviando, per una tale consolatio, come per ogni ulteriore

informazione, direttamente alla Parigi di Benjamin, in blocco. E giovandomi, allora, motteggevolmente, di un suo motto sublime, dirò con lui:

«Non ho niente da dire. Solo da mostrare».