Il po'sf-agricolo e··l'antropologia - FOCSIV 2016/testimonianze/MANI... · 2019-12-30 · "la...

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chiar'1 3 Il po'sf-agricolo e··l'antropologia Buon ultimo, dopo i tanti prefissi post cresciuti a dismisura nella fretta di dare un nome ad esperienze di mutazione vissute come epocali e non governate dai contemporanei, arriva il post-agricolo. Lo proponiamo con evidente az- zardo e indubbia fragilità per segnalare l'apertura di un nuovo orizzonte culturale che solo in questi ultimi anni sta prendendo consistenza. Ci appoggiamo a una scansione temporale per immaginare una qualche convergenza, o semplice simpatia, in una congerie di fenomeni assai diversi. In comune avrebbero il riferimento privilegiato al pae- saggio agrario come contesto economico, tecnologico, sociale, estetico e morale. Siamo testimoni di un ritorno alla centralità della questione agraria del tutto inimmaginabile sino a poco tempo fa e che comunque rappresenta una sfida per noi antropologi abituati a frequentare con più assiduità di altri ricercatori i terreni extraurbani. Il nostro punto di partenza sono stati i musei etnografici (demologici o etnologici). La loro gran parte ha tratto ori- gine, ispirazione e alimento dal passaggio radicale e traumatico alla modernità che le aree rurali hanno vissuto. Gli allestimenti, gli archivi e i magazzini hanno consentito di documentare fenomeni di lunga durata - paesaggi, assetti tecnologici, complessi sociali, tratti psicoculturali - che il Novecento ha radicalmente messo in crisi. In pochi decenni i mutamenti intercorsi hanno reso lontana e arcaica la memoria narrata dai musei. Le forme di vita evocate sono di- ventate fatalmente distanti rispetto all'esperienza sociale di quanti sono rimasti nelle aree rurali e tanto più di quanti abitano i centri urbani o abbiano deciso di ritornare a vivere con nuovi atteggiamenti e strumenti nelle campagne. Pur essendo l'etnografia una prospettiva che, a differenza della storia, documenta soprattutto la contemporaneità, i musei etnografici raramente oggi riescono a stare al ritmo del cambiamento, a narrare storie che si sintonizzano con l'esperienza attuale, ad individuare e valorizzare le forme della vitalità culturale dei mondi locali, oggi esposti a flussi globali devastanti e/o rigenerativi. È apparso così necessario iniziare ad impegna rsi per colmare il gap emerso, prima che la distanza diventi insanabile frattura e i musei etnografici alla deriva, non rinnovandosi sul piano della ricerca e dei linguaggi, diventino esposi- zioni storiche (per tema e per prospettiva). Ci siamo rivolti allora a colleghi ricercatori antropologi per rinnovare le ca- tegorie interpretative e documentare con uno sguardo ad un tempo intimo ed estraniato (appunto etnografico) fe trasformazioni in atto nelle realtà locali e il protagonismo particolare delle nuove generazioni rispetto alla mem?ria - talora resa monumento e identità tout court - di quelle precedenti. Mostrare come si produca e come si viva oggi - talvolta resistendo e innovando - nei territori rurali e montani. L'impresa di documentazione e di rinnovamento trovava un'ulteriore legittimazione nel fatto che [e aree rurali - de- cadute le illusioni della modernizzazione automatica e dell'industrializzazione univoca - non sono. più presenti nell'immaginario contemporaneo come il fanalino di coda della Storia, come isole di arretratezza rispetto ai centri urbani. Sono luoghi dove si danno innovative sperimentazioni in ambito produttivo e in termini di cittadinanza, luo- ghi dove è legittimo pensare il divenire. Non con l'astratta attitudine del futurologo ma con la postura operativa dì un 'contadino' ormai sempre meno isolato, sempre più a diversi livelli connesso a reti sociali, a vecchie e nuove co- munità. Qui entra in ballo il post-agricolo (e non post-rurale), neologismo di nostra artigianale fattura che segnala del settore produttivo primario la nuova complessa vitalità: il suo rinascere come fonte di immaginario morale, di orgoglio dì me- . \ st1ere, di appartenenza identitaria al territorio; il suo costituirsi come formidabile arena mondiale, nazionale, locale di conflitti sociali e normativi (si pensi al land grabbing, alla gentrificazione, alla questione dei semi e alle procedure di autentificazione); il suo farsi contenitore slargato di narrative, di rappresentazioni e pratiche di cui è esempio stra- bordante la crescita in presenza e in densità simbolica del cibo, ingrediente base di nuovi fenomeni sociali totali (EXPO 2015 docet). Il post-agricolo è per noi soprattutto una nozione passe-partout grazie alla quale accedere alla visione della matassa multicolore che si è andata a formare intrecciando in modi inediti e bizzarri il rurale con l'urbano, l'agricolo con 1··1n- dustriale, il finanziario con i! produttivo, il tecno logico con il tradizionale, il locale con il globale. Un groviglio dal quale in evidenza compaiono nodi e lacerazioni a segnalare contrapposizioni dall'incerto esito. Quale ad esempio il con- flitto sotto gli occhi di tutti tra l'egemonia delle multinazionali del cibo contemporaneo - protese a definire insieme al gusto contemporaneo gli scenari mondiali del paesaggio, della ricchezza, della povertà e della salute - e un atti- vismo etico-politico di resistenza e creatività che cerca di aprirsi una strada nella distribuzione (es. equoesolidale) ma opera soprattutto a livello locale dimostrando inedite potenz ialità di mobilitazione e penetrazione. Ecco detto l'obiettivo del numero speciale di AM - Antropologia museale. Assecondando una sensibilità connettiva già più volte sperimentata dalla nostra rivista, abbiamo pensato di allestirlo chiamando a contribuire un significativo e rilevante numero (oltre.60) di colleghi italiani, differenti per provenienza, per generazione ed interessi. Accomuna la redazione (Pietro Clemente, Alessandra Broccolini, Sandra Ferracutì, Marco D'Aurei i, Vito Lattanzi, Vincenzo Padiglione) e gli autori la consapevolezza che l'antropologia abbia da dire qualcosa di inedito e di importante rispetto

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Il po'sf-agricolo e··l'antropologia Buon ultimo, dopo i tanti prefissi post cresciuti a dismisura nella fretta di dare un nome ad esperienze di mutazione vissute come epocali e non governate dai contemporanei, arriva il post-agricolo. Lo proponiamo con evidente az­zardo e indubbia fragilità per segnalare l'apertura di un nuovo orizzonte culturale che solo in questi ultimi anni sta prendendo consistenza. Ci appoggiamo a una scansione temporale per immaginare una qualche convergenza, o

semplice simpatia, in una congerie di fenomeni assai diversi. In comune avrebbero il riferimento privilegiato al pae­saggio agrario come contesto economico, tecnologico, sociale, estetico e morale. Siamo testimoni di un ritorno alla centralità della questione agraria del tutto inimmaginabile sino a poco tempo fa e che comunque rappresenta una

sfida per noi antropologi abituati a frequentare con più assiduità di altri ricercatori i terreni extraurbani. Il nostro punto di partenza sono stati i musei etnografici (demologici o etnologici). La loro gran parte ha tratto ori­gine, ispirazione e alimento dal passaggio radicale e traumatico alla modernità che le aree rurali hanno vissuto. Gli allestimenti, gli archivi e i magazzini hanno consentito di documentare fenomeni di lunga durata - paesaggi, assetti tecnologici, complessi sociali, tratti psicoculturali - che il Novecento ha radicalmente messo in crisi. In pochi decenni i mutamenti intercorsi hanno reso lontana e arcaica la memoria narrata dai musei. Le forme di vita evocate sono di­ventate fatalmente distanti rispetto all'esperienza sociale di quanti sono rimasti nelle aree rurali e tanto più di quanti abitano i centri urbani o abbiano deciso di ritornare a vivere con nuovi atteggiamenti e strumenti nelle campagne. Pur essendo l'etnografia una prospettiva che, a differenza della storia, documenta soprattutto la contemporaneità, i musei etnografici raramente oggi riescono a stare al ritmo del cambiamento, a narrare storie che si sintonizzano con l'esperienza attuale, ad individuare e valorizzare le forme della vitalità culturale dei mondi locali, oggi esposti a flussi

globali devastanti e/o rigenerativi.

È apparso così necessario iniziare ad impegnarsi per colmare il gap emerso, prima che la distanza diventi insanabile frattura e i musei etnografici alla deriva, non rinnovandosi sul piano della ricerca e dei linguaggi, diventino esposi­zioni storiche (per tema e per prospettiva). Ci siamo rivolti allora a colleghi ricercatori antropologi per rinnovare le ca­

tegorie interpretative e documentare con uno sguardo ad un tempo intimo ed estraniato (appunto etnografico) fe trasformazioni in atto nelle realtà locali e il protagonismo particolare delle nuove generazioni rispetto alla mem?ria - talora resa monumento e identità tout court - di quelle precedenti. Mostrare come si produca e come si viva oggi

- talvolta resistendo e innovando - nei territori rurali e montani. L'impresa di documentazione e di rinnovamento trovava un'ulteriore legittimazione nel fatto che [e aree rurali - de­

cadute le illusioni della modernizzazione automatica e dell'industrializzazione univoca - non sono. più presenti nell'immaginario contemporaneo come il fanalino di coda della Storia, come isole di arretratezza rispetto ai centri urbani. Sono luoghi dove si danno innovative sperimentazioni in ambito produttivo e in termini di cittadinanza, luo­ghi dove è legittimo pensare il divenire. Non con l'astratta attitudine del futurologo ma con la postura operativa dì un 'contadino' ormai sempre meno isolato, sempre più a diversi livelli connesso a reti sociali, a vecchie e nuove co­

munità. Qui entra in ballo il post-agricolo (e non post-rurale), neologismo di nostra artigianale fattura che segnala del settore produttivo primario la nuova complessa vitalità: il suo rinascere come fonte di immaginario morale, di orgoglio dì me-

. \ st1ere, di appartenenza identitaria al territorio; il suo costituirsi come formidabile arena mondiale, nazionale, locale di conflitti sociali e normativi (si pensi al land grabbing, alla gentrificazione, alla questione dei semi e alle procedure di autentificazione); il suo farsi contenitore slargato di narrative, di rappresentazioni e pratiche di cui è esempio stra­bordante la crescita in presenza e in densità simbolica del cibo, ingrediente base di nuovi fenomeni sociali totali

(EXPO 2015 docet). Il post-agricolo è per noi soprattutto una nozione passe-partout grazie alla quale accedere alla visione della matassa multicolore che si è andata a formare intrecciando in modi inediti e bizzarri il rurale con l'urbano, l'agricolo con 1··1n­

dustriale, il finanziario con i! produttivo, il tecno logico con il tradizionale, il locale con il globale. Un groviglio dal quale in evidenza compaiono nodi e lacerazioni a segnalare contrapposizioni dall'incerto esito. Quale ad esempio il con­flitto sotto gli occhi di tutti tra l'egemonia delle multinazionali del cibo contemporaneo - protese a definire insieme al gusto contemporaneo gli scenari mondiali del paesaggio, della ricchezza, della povertà e della salute - e un atti­vismo etico-politico di resistenza e creatività che cerca di aprirsi una strada nella distribuzione (es. equoesolidale) ma

opera soprattutto a livello locale dimostrando inedite potenz ialità di mobilitazione e penetrazione.

Ecco detto l'obiettivo del numero speciale di AM - Antropologia museale. Assecondando una sensibilità connettiva già più volte sperimentata dalla nostra rivista, abbiamo pensato di allestirlo chiamando a contribuire un significativo e rilevante numero (oltre.60) di colleghi italiani, differenti per provenienza, per generazione ed interessi. Accomuna la redazione (Pietro Clemente, Alessandra Broccolini, Sandra Ferracutì, Marco D' Aurei i, Vito Lattanzi, Vincenzo

Padiglione) e gli autori la consapevolezza che l'antropologia abbia da dire qualcosa di inedito e di importante rispetto

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ai d iscorsi che si danno negli spazi pubblici e qu indi pretende un ruolo attivo e fondamentale nel pensiero sociale contempor aneo e nelle iniziative che, come EXPO 201 5, intendono valorizzare la cultu ra della prod uzione agricola.

Nel mettere a fuoco la tematica del post-agricolo, il numero intende segnalare la ricchezza di una prospettiva che ri­chiama i musei alla condivisione di una loro specifica responsabil ità nelle contemporanee politiche d i salvaguardia del paesaggio culturale, una responsabilità ben awer t ita dal corpo dei professionisti di museo italiani che, con la 'Carta' adottat a a Siena il 7 luglio 20 14, hanno indicat o nel rapporto tra musei e paesaggi cultura li il tema di rife rimento della Conferenza mondiale di ICOM prevista a Milano nel 2016.

L'insieme delle voci redatte compone uno scenario suggestivo nei tanti singoli approfondimen ti e denso negli impli­citi rinvii, nelle convergenze e divergenze tra gli autor i, nelle connessioni t ra dettagli etnografici e quadri d i insieme teorici, nella possibile ma ardua azione di comparazione e ricomposizione lasciata in mano al letto re. Non senza az­zardo, volendo sintetizzare con alcuni aggett ivi, ci sembra di poter affer mare che nella contemporaneità l'agr icolo si è reso più dinamico, variegato, relativistico, inclusivo, comunit ario, paradossale. Dinamico, per l'intensità deglì inve­stimenti, delle innovazioni e delle trasformazion i che con inedita rapidità hanno avuto per oggetto e come nuova fron t iera il mondo delle campagne e delle selve che era segnato nel recente passato dai caratteri della permanenza, della conservatività. Variegato, per la struttu rale compresenza di diff erenti assetti produttivi, forme di convivenza so­ciale, strategie nella relazione con l'ambiente, soggetti vità impegnate (impresario, agricoltore, contadino, ortista, ecc.). Relativistico, perché ritenuto ormai stabilmente plurale, imprevedibile nelle sue linee di sviluppo e nel perse­

guire modelli diversi e originali (es. agricoltura convenzionale, biolog ica, biodina mica, sinergica, ecc.). Inclusivo, per la capacità in modo ricorrente dimost rata, di attrarre e coinvolgere soggetti deboli, persone fragil i e irrequiete, di darsi una missione non solo produtt iva (es. fattorie sociali, agriturismi, ecc.) owero una valenza didatt ica, ricreativ~. patri moniale e sociale spesso in supplenza rispetto allo Stato e agli Enti locali. Comunitario, perché sia livello di sal­vaguardia, di produzio ne, di distribuzion e e consumo, un ruolo inedito vanno assumendo le reti, le comunità reali e quelle digital i. Dai processi di patrimonializzazione delle risorse genetiche alle fo rme di autocert ificazione e di cond i­visione delle scelte del consumo (si pensi ai GAS o alla ret e 'Genuino clandestino') il riferimento ad un orizzon te col­lettivo di condivisione è un segno vistoso di novità. Inf ine paradossale, per il successo economico che in parte hannc raggiunto , in parte è legittimo sperare che possano conseguire, imprese agricole apparentemente arretrate ma ir grado di valorizzare il pat rimonio immateria le dei saperi nat uralistici tradizio nali. L'innovazione è oggi intravista nell,

capacità di t radurre con linguaggi contemporanei art i e competenze che contadini radicati in culture locali· ed estra nei alla modernizzazione hanno saputo conservare valorizzando variet à antiche con tecniche di coltura ~ostenibili.

Nell'inte rrogarsi sul 'senso di post ', Jean-François Lyotard, autore della fortu nata nozione di postmoderno, diffi dav delle cronologie lineari, delle 'ro tture' quali modi per dimenticare e rimuovere il passato. Invitava a cogliervi un'elé

borazione realizzata anche con mezzi espressivi, un "processo di analisi, di anamnesi. di anagogia e di anamorfo che elabora un 'ob lio iniziale" ' (J.-F. Lyotard, 1/ postmoderno spiegato ai bambini, Milano, Fe!trinelli , 1987 [1986] J

91 ); indicazione che ben riflett e i modi plurimi, sbiechi, slargati che hanno caratterizzato lo stile interpretat ivo d postmoderno. Consiglio che abbiano fatt o nostro seguendo indizi, fermando dettag li, suggerendo punt i di vis

particolari senza badare ai possibili effetti complessivi di parzialità e di distorsione. Suggerimento, quello di Lyotar che ritenia·mo ancor più che ott imale se verrà applicato a rifl essioni d i ampio respiro in tema di post-agrico, Troviamo molta eterogenea materia per un processo di elaborazione cultura le ancora da compiere se solo ci lin tiamo ad accostare a) al destino misero e residuale, che il moderno aveva affibbiato a.I mondo agricolo, b) l'orgog sfacciato e solenne di una canzone ribelle: la Canzone della Rabata (quartiere popo lare di Tricarico, in Basilicat a) e

'poeta conta dino' Rocco Scotellaro, ascoltata in un'osteria e trascritta da Ernesto de Martino (d r. "Not e lucane", Furore, Simbolo, Valore, Milano, Il Saggiatore, 1962).

"Ce chiammeno Zulù e beduine I ca nuie mangiamme assieme a lè galline. lnt'a' Rabata nun ce sò signure I nun Turati nè Santoro. Nuie simme a' mamma d'a' bellezza I nun simme nè trifugghie e neanche avezza. Voi che t l'intelligente I non capite proprio niente. Se nun fosse p_e' li cafoni I ve mangiassive li cuglioni" .

Annun cio di un'era nuova e miglior e che sarebbe potuta nascere a patto di riconoscere ai contadin i in lotta n anni Cinquanta, al loro saperci fare come prod uttori di cibo e di istanze di equità, un patrimonio, appunte

bellezza.

Vincenzo Padig li

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"la prima cosa che i nomadi della st oria [coloni inglesi] fann o quando arrivano da qualche parte, è mettere in ordine il 'paesaggio' per imporre la loro 'visione' del paese, mettendoci dentro quello che vogliono che sia nel loro campo visivo, e to­gliendo il resto. Ciò che fanno, in realtà, è mettere in subbug lio il paese, str appan­

dolo alla propr ia storia. Scrivono il copione che vog liono" (Milroy - Mi lroy 201 O: 34).

Gladys Milroy è un'anz iana dei palkyu, il suo paese è nella regione Pilbara dell' Austra­lia occidenta le. In un t esto collettaneo di cui è co-curat rice Sally Morgan (20 1 O), Gladys insieme alla fi glia racconta delle prat iche devastanti di intervento dei prim i coloni in­

glesi, che legitt imarono il loro operato tramandando memorie incentrate sulla messa in ord ine del paesaç)gio, ment re dal punto di vista indigeno l' impeto devastatore dei coloni produsse solo disordine nel paese. La narrazione contra ppone due visioni della terra/ter ritor io - dai pr imi concepita in un'o tt ica di sfr uttamento ecologico ed econo­mico, dai secondi invece "pensata, respirata, amata" - difficilme nte conciliabili, a cui corrispondono anche modi diversi di intendere la proprietà: gli indigen i australiani si considerano infatti custodi e non proprietari del creato. Stili di vita sobri, legati a una

concezione relazionale della vita, che permett e di pensare in termin i d i connessioni e non di disgiunzioni, unendo insieme umani-antenati -creature vivent i (Paini 201 O). Una diversità insormontabile che sottende anche i tentat ivi di resistenza alle forme di agricolt ura moderna da parte degli indigen i orticoltori di altre parti del Pacifico. Ad

esempio sull'iso la di Lifou i kanak hanno resisti to alle propost e dei vari promotor i di svi­luppo rurale; nella maggior parte dei casi gli ort i cont inuano a restare lontani dalle abi­tazioni e la disposizione delle sementi cont inua a seguire un andamento 'locale', so­prattutto per quello che riguarda il tubero per eccellenza: l'igname, che non prevede

la colt ivazione in file poste a distanze regolari, considerate più reddit izie perché ott i­mizzano il lavoro'. Le montagnole di un campo di ignam i hanno un andamento ordi­

nato che non è quello delle linee retti linee cosi care all'Occidente, come ci ricorda Sally Morgan parlando del suo place2: " Le linee rett e, quelle.erano una roba nuova. Se vedi una linea retta , capisci che non è stata tracciata da noi. Noi seguiamo i fium i, le col­line, e le curve della terra" (Morgan - Tjalaminu - Keaymull ina 201 O: 234). Il dare valore a pratiche agricole che si sott raggono al modello central izzato predomi­nante a livello planetario basato, come sostiene Jan D. van der Ploeg (2009), sul "pr in­cipio ordinatore che gestisce, in modo sempre crescente, la produzione, la trasforma­zione, la distribuzione e il consumo degli aliment i" (p . 24), e che egli chiama "I mpero", è un processo che investe il locale anche alle nostre latitudini. Dà infatti forma a uno scenario che raccont a per un verso di mest ieri come quel lo del contad ino e dell'arti-

1 ·· A f ine anni Ottanta­

Novanta del Novecento 11

ricorso a prodotti chimici per

difendersi da alcuni insett i

era diventata una pratica

abbastanza diffusa, oggi in

gran parte abbandonata .

2 - My Piace è il tito lo del

libro di Sally Morgan edito

nel 1987 e pubblicato in

italiano da Theoria nel 1997

con il t ito lo La mia Australia.

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3 - Il Parmigiano-Reggiano e il Prosciutto di Parma insieme al Salarne Felino e al pomodoro fanno parte del circuito dei Musei del cibo della p,rovincia di Parma www.museidelcibo.it/. 4 - Ancorare il cibo ai diritti è

necessario per sottrarlo al ruolo di merce sostengono, tra gli altri, Onorati -Colombo (2009).

5 - Oggi fanno parte della Rete una trentina di realtà associative e cooperative. 6 - Secondo Salmon (2008)

anche la politica oggi è un terreno di scontro non più tra ideologie ma tra narrazioni. 7 - Kumìnda negli anni ha ricevuto il sostegno della Provincia di Parma, della Regione Emilia Romagna e il supporto dell'Università degli Studi di Parma e della Fondazione Cariparma. Il festival si regge sull'impegno del Centro Servizi per il Volontariato di Parma Forum Solidarietà. 8 - Ringrazio Francesca Bigliardi, Mour.ia El Fasi, Fabio Faccini, Matilde Marchesini, Elena Olivieri per aver accolto la proposta di una conversazione organizzata presso Forum Solidarietà di Parma ai f ini di questo contributo (5 dicembre 20 14). Le espressioni virgolettate che seguono la nota, laddove non diversamente indicato, si riferiscono a questo incontro.

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giano nella fase di lavorazione, trasformazione e distribuzione che sono andati distrutti dal punto di vista culturale ed economico, per l'altro di biografie legate a una nuova piccola imprenditor ialità agricola, che connettono la cura delle relazioni e la passione per il proprio lavoro con la sostenibilità ambientale, economica e sociale. Storie che coinvolgono vecchi e nuovi abitanti del territorio, vecchi e nuovi contadini e contadine. La provincia di Parma - una realtà nota per le sue industrie agroalimentari e per alcuni prodotti di eccellenza come il Parmigiano-Reggiano e il Prosciutto di Parma3, per la ma­nifestazione internazionale Cibus - dal 2003 è sede dell'EFSA, l'autorità della UE per la tutela del cibo e della sicurezza alimentare. Meno conosciute, o note solo in circoli più ristretti, sono altre situazioni di eccellenza che compongono un'altra storia, come quella che nel 1994 vede un gruppo di Fidenza dar vita al primo GAS (gruppo d'acqui­sto solidale) a livello nazionale o Cibopertutt i, una rete di organizzazioni di Parma e Reggio Emilia attiva dal 2003 sul territorio "p er promuovere il diritto al cibo secondo il principio della sovranità alimentare" 4

. È in questo contesto che maturano pratiche er i­flessioni sfociate nel 2006 nel festival Kuminda ("cibo condiviso" nella lingua creola di alcune isole delle Ant ille), promosso dalla rete Cibopertutt i' insieme con il Comitato Italiano per la Sovranità Alimentare e Terre di Mezzo, editore di strada e organizzatore della fiera Fa la cosa giusta! L'idea generativa, come si legge svi sito web della rete (Kuminda.org), nasce da un'as- , sunzione di responsabilità da parte di chi, vecchio o nuovo abitante di un territor io " che ha fatto della qualità alimentare la propria mission - non sempre riuscendoci -. abbia il dovere di contribuire all'affermazione del diritto al cibo, attraverso i principi della sovra­nità alimentare." La questione della qualità del cibo non può essere disgiunta da quella della tut ela del!' agricoltura e di coloro che vivono dei prodott i della terra. Una simile visione restituisce centralità alla fig ura del contadino (Pérez-Vitoria 2007) non considerandolo, come afferma van der Ploeg, "u na reminiscenza del passato, ma una parte integrante del nostro tempo e della nostra società" (2009: 7); l'autore smonta infatti la retorica che, appoggiandosi alla connotazione negat iva che il termine contad ino ha assunto, ha costruito un'immagine di invisibilità delle piccole realtà agri­cole. Egli ritiene che lo sfruttamento ecologico e socioeconomico che caratterizza l'a­vanzata dell'Impero si colleghi alla "degradazione della natura, del lavoro agricolo, del cibo e della cultura" (p. 25), tutte dimensioni che considera trasversali alla narrazione egemonica contemporanea6. Retorica che, come ha messo in evidenza Vandana Shiva, ha fatto ricorso all'immagine della malerba per eliminare la ricchezza delle varietà lo­cali, sferzando così un pesante attacco alla biodiversità: "Def inire malerba una specie utile a scala locale è un altro aspetto della politica che riduce lo spazio dei saperi locali fin o a farli scomparire" (1995: 30), una visione distorta che, sost iene la scienziata, porta a negare la creatività presente nei sistemi di conoscenza indigena (2002: 50). Kuminda ha fatto del pensiero e della pratica del movimento contadino l'o rizzonte en­t ro cui agire. Le giornate del festiva 17, la punta di un iceberg di situazioni e pratiche che si dipanano lungo tutto il corso dell'anno, hanno messo al centro temi legati a "u n cambio di paradigma", come sostiene da tempo Latouche, quali la decrescita (2010), gli sprechi alimentari e il packaging (2013), il diritto a! cibo, l'agricoltura familiare e i migrant i (2014). \ li lavoro di rete di Kuminda negli ultimi anni si snoda lungo tre fi loni1complementari: i percorsi di garanzia partecipata (PGS, Participatory Guarantee Systems), le sementi, il co-sviluppo. I PGS nel territorio parmense nascono tre anni fa dalla necessità di dotarsi di uno strumento per costruire più fiducia rispetto alla produzione; si t ratta di un per­corso elaborato in itinere tra produttori, cittadin i non produttori dei GAS e tecnici. Spesso i piccoli produtto ri non considerano aff idabile la cert if icazione istit uzionale per­ché i controll i sono scarsi e al contempo gli aspetti burocratici troppo onerosi in ter­mini di energie richieste. I percorsi di garanzia partecipata coinvolgono i protagonisti in incontr i per stabilire quelli che, a giudizio dei produttori presenti, sono criteri impor­tanti per una produzione biol?gica che sia anche rispettosa del lavoro. Il disciplinare bio non prevede infatt i, ·come sottolinea Francesca Bigliardi8, alcun riferimento alla questione dei lavoratori e delle lavoratrici agricole, una dimensione che invece in que­sto caso acquista una rilevanza significativa. La scheda, che ciascun produttore com­pila, serve da presentazione della propria attività. L'obiett ivo non è tanto quello di "escludere" quanto quello di forni re indicazioni migliorative, ad esempio come ridurre un eccessivo uso d'acqua. Oppure nel caso di piccoli produttori che si trovano vicino a fonti di inquinamento, "insieme si prova a pensare ad altri percorsi", tra cui anche la

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ricerca di nuovi terreni. La convalida della scheda è preceduta da una visita di gruppo ali' azienda durante la quale si verifica la coerenza con quanto dichiarato, un momento saliente della relazione che si instaura tra produttori e consumatori. Se la scheda è con­validata l'azienda viene presentata dal Distretto di Economia Solidale (DES, a Parma at­tivo dal 2008) e per i GAS diventa un ulteriore strumento per scegliere se inserire l'a­zienda tra i propri fornitori. ! produttori che partecipano ai percorsi di garanzia parte­cipata si dichiarano "contenti" di poter ricevere visite a sorpresa, mentre per i cittadini non produttori i PGS sono strumenti conoscitivi della filiera corta. Per i! momento non esiste un logo, anche se i produttori ci tengono a presentarsi e riconoscersi come ap­partenenti al DES e ai PGS. Un altro vasto ambito rispetto al quale Kuminda ha messo in circolo saperi ed espe­rienze è quello delle sementi. La questione dei semi, ormai brevettati in modo da ren­dere illegale la loro riproduzione da parte degli agricoltori, lega indissolubilmente Nord e Sud del mondo, contrapponendo multinazionali a contadini e contadine. Kuminda 2014 ha visto la partecipazione di Debal Deb, biologo di Calcutta, tra gli ideatori di una banca che conserva le sementi di 900 varietà autoctone di riso e le fornisce ai conta-dini locali, gratuitamente, permettendo loro l'autosufficienza. Ciò che affascina nell'a­scoltare Debal Deb è la sua capacità di tenere insieme varie dimensioni: le conoscenze scientifiche con le pratiche agricole e i saperi culturali locali9. L'anno precedente era stato organizzato uno scambio di semi portati da vari produt­tori. "Per non vendere ciò che naturalmente è senza proprietà condividilo con la co-

Ì munità", intesa come 'comunità di pratiche', recitava lo slogan che annunciava i'e-1 àt;,> vento, collocato un sabato mattina nella centrale Piazza Pilotta.

\) Infine la complessa questione del ca-sviluppo, che ha visto impegnate varie associa­

}! zioni tra cui Pon..!:1~_9L_g_L!_<L~--dLl_à_10 e coinvolto produttrici del Marocco di olio di argan. ì \ Le visite alle Ùieri'de--di ·produtfori del DES sono state "formative" per le donne e "di­i\ rompenti" per i partecipanti; hanno portato non solo a un travaso di competenze eco­l:/ noscenze, ma hanno anche messo in moto un "lavoro di apertura" del mondo dell'e-1 . \ ì, conomico solidale che spesso, nelle parole di una delle donne presenti alla conversa-: \ zione, "è autoreferenziale". L'olio di argan è stato riconosciuto come un prodotto che f ! ha le caratteristiche dell'economia solidale, frutto del lavoro, cura e passione delle pro­[l duttrici. L'avvio di una impresa sociale di rifugiati, Sciame, attiva nella produzione di ri miele, ha presentato altre conflittualità e riflessioni nel rapporto tra vecchi e nuovi abi­~ tanti del territorio. L'antropologia interessata ai fermenti dei territori locali dovrebbe

/! prestare attenzione a queste diverse e sfaccettate narrazioni11, restituendo resoconti

\; etnografici attenti a dinamiche che attraversano contesti produttivi agricoli radical­

'/ mente modificati ma non relegati nell' oblio, e alla "natura multidimensionale, multili­U{ vello e multisoggettiva delle realtà contadine" (Ploeg 2009: 40), in continuo muta­[/ mento, fatte di passione, lavoro, fatica; etica, cura, intuizioni creative. \;_'--_,

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9 - Rimando al.suo intervento tenuto nell'ambito di Kuminda il 18 ottobre 2014 (Kuminda.org) e anche al piccolo ma intenso libro di Anna Kauber (2014).

L\10_; Si tra_~~9i_uo_a_, -asso~·iaiione . di donne"' marocchine, fondata alcuni

anni fa a Parma ~a.Mou_~il_, El f.i!s1..,,allo scopo di costr"uire =······. occasioni di dialogo e di scambio tra donne migranti, spesso casalinghe, e il territorio che abitano, col duplice intento di permettere loro di muoversi con più agio nel nuovo contesto e al contempo di favorire la conoscenza dei saperi arabi e così stemperare i pregiudizi spesso attivi nei loro confronti. 11 - In questi anni ho potuto verificare come da parte delle e degli studenti universitari l'interesse nell'affrontare questi temi sia presente a tutti i livelli, segnalo tra le altre la tesi triennale di Stefano Fantelli: Stanno tornando su. il ritorno dei giovani ai favori

'tradizionali' di alta montagna. Il caso della Valle

di Sole discussa a Verona (a.a. 2006/2007); quella magistrale di Elena Olivieri discussa a Modena: R1torn1

al!' agricoltura tra

burocratizzazione e r-esistenze: un'analisi del ' cqntesto parmense (a.a.

2012-13, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia). Infine la ricerca in corso di Bianca Pastori nell'ambito del corso di dottorato interateneo in Studi Storici, Geografici, Antropologici (Padova, Venezia, Verona) sui percorsi di vita e di lavoro delle produttrici agricole del compre:isorio di Primiero (Trentino orientale).

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1 - Ad esempio, il dor come

turno e 'tempo sociale'

dell'acqua diffuso in Medio

Oriente.

Parlare di irrigazione nelle diverse culture significa inevitabilmente guardare a ciò che rimane spesso nascosto dietro la produzione del cibo e nei saperi contadini; questo an­

cor più nei processi contemporanei dì modernizzazione rurale dove la maggior parte dell'acqua disponibile in molti stati nazionali è assorbita dalla produzione irrigua,

spesso intensiva, a discapito di alt re tecniche e reti d'acqua. L'irrigazione è diventata, nell'accezione comune e specialistica, un settore tecnico, di­screto e isolato in quanto tale dalle sue dimen sioni socio-culturali. Molto si nasconde dietro questa settorializzazione tecnico-economica: i 'mondi sociali' dell'acqua sono stati costretti negli ultimi decenni all'interno di ideologie irrigazioniste e dinamiche di 'gestione efficiente' delle risorse idriche, in una visione riduzionistica tanto delle istitu­zioni locali preposte all'acqua quanto delle dimensioni ambientali ad essa riconducibili.

Le nuove reti idriche, alla base di progetti di agricoltura intensiva, hanno spesso ridotto o astratto t re aspetti centrali di ogni rete d'acqua: la complessità (ambientale e sociale),

la diversità (delle acque e del loro ut ilizzo nelle diverse culture) e la multidimensionalità del!e reti sociali che ad essa fanno riferimento. Reti tecniche, ma anche politiche ed eco­

nomiche assieme, che attorno alla captazione, canalizzazione e distribuzione dell 'acqua - la dinamica culturalmente più complessa - hanno scolpito paesaggi, definito identità e intimità culturali oltre ad essere alla base di sistèmi econqmici locali. Attorno ad un ca­nale irriguo, scorre diluita ben più che 'efficacia tecnica', ma relazioni politiche, altre

idee di ambiente e importanti forme di organizzazione sociale e religiosa. Nell'esperienza comune, l'acqua è data oggi per 'scontata' come oggetto di 'manage­ment' tecnico, desocializzato e spesso deterritorializzato dai contesti locali in quanto

merce, tanto più nei radicali cambiamenti che han vissuto i cont esti rurali. Spesso de­nominiamo l'acqua con la traduzione H

20 in una coincidenza di significati che na­

sconde però le diverse concezioni costruite attorno ad essa e ai sistemi di negoziazione

elaborati nelle reti idriche con cui tutte le culture si sono confrontate. Guardiamo spe5so a questo campo, e ai campi irrigui, attraverso uno sguardo indifferente all'ac­

qua, nascondendo la diversità del pensare e gest'lre questa risorsa in altre culture ma anche le molteplici dimensioni, sociali e culturali, spesso rimosse, del nostro coinvolgi­

mento quotidiano con essa. La nostrél idea di H

20 monodimensionale, alla base dei processi di moderni zzazione ru­

rale nel Nord e, tanto più, nel Sud del mondo, ha spesso reso invisibili, o tradotto in ostacoli da superare, le reti socio-tecniche locali: altre modalità di misurare l'acqua ri­

spetto ai metri cubi1, altri nomi della "diversità delle acque" (Van Aken 2012), altre

tecniche e sistemi di lavoro agricolo. La nostra nozione di 'acqua moderna' ha incontrato, prima nell'esperienza coloniale e, in seguito, nell'era dello sviluppo, altre modalità di tessere l'antico rapporto tra l'acqua

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ardare a ciò che 3dini; questo an­a maggior parte ,duzione irrigua,·

ttore tecnico, di­olto si nasconde dell'acqua sono

? e dinamiche di anto delle istitu­ssa riconducibili. 10 spesso ridotto entale e sociale), dtidimensionalità politiche ed eco-1zione dell'acqua definito identità ,ttorno ad un ca­li politiche, altre ,sa. ?tto di 'manage­locali in quanto urali. Spesso de­Jnificati che na­di negoziazione ate. Guardiamo differente al!'ac­altre culture ma 1ostro coinvolgi-

lernizzazione·ru­ili, o tradotto in urare l'acqua ri­ken 2012), altre

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e società; si è trattato di un incontro intensamente politico proprio per la necessità di distribuire eguaglianza, correggere l'iniquità o affrontare la competizione. L'idea stessa di spazio rurale è stata radicalmente modificata in seguito ai miti irrigazionisti della Rivoluzione Verde: H20 è spesso un'acqua contesa più che discreta, che trascende al­tre esperienze storiche di questa intensa relazione ambienta/e, ponendo come univer­sale la nostra concezione di acqua come roba "a disposizione"2•

Missioni irrigue

L'esperienza coloniale è stata in buona parte un'esperienza idraulica. I progetti idrici nell'impero britannico, seppur nella loro diversità, erano definiti "canali civilizzatori" (Gilmartin 1994), cioè, "missioni" idrauliche e di estensione agricola atte a fondare co­lonie agricole come base della stabilità degli imperi coloniali, prima, e della stabilità de­gli stati nazionali, poi. Le trasformazioni sociali che hanno preso piede con la moder­nizzazione idrica nel Sud del mondo sono state definite "rivoluzioni del rubinetto": si è imposto un modello urbano e culturalmente dato dell'acqua in aree rurali, immet­tendo radicali cambiamenti tanto da ridefinire la stessa nozione di 'rurale'. La dimensione immaginale del connettersi alla modernità occidentale attraverso nuove infrastrutture idriche nei Sud del mondo è stata centrale nel legittimare opere risultate spesso fallimentari dal punto di vista economico ma sicuramente ad alta "performance simbolica" (Berna/ 1997): fegittimare nuove élite attraverso monu~enti di modernità, so­stituire le istituzioni locali, incorporare lo spazio rurale all'interno di nuovi centri politici, definire le fondamenta dei rapporti tra Stato e cittadino e tra città e campagne proprio attraverso l'erogazione dell'acqua3• Il caso giordano da questo punto di vista è emblema­tico: l'agribusiness irriguo in Giordania assorbe circa il 75% delle acque disponibili an­nualmente e, date le previsioni di mancanza di autonomia idrica nel 2025, l'acqua è tra­dotta negli ultimi anni da settore di sviluppo rurale a settore di "sicurezza nazionale", aprendo la strada a politiche d'emergenza che esulano dalla possibilità di un dibattito pubblico (Van Aken 2012)\ Ciò ha portato ad una "costruzione della scarsità": modelli di sviluppo idrovori, innestati in ambienti aridi, hanno fortemente contribuito allo stato di emergenza idrica attuale5. Anche attorno alle grandi dighe, come mostra il lavoro di Mehta (2001) nel Gujarat in India, la scarsità d'acqua mostra la sua realtà multidimensio­nale e socialmente costruita0

; una questione. questa, centrale ancor più nelle società idrauliche del Nord, come mostrano gli studi di Worster (1985) e Waller (1994).

La desocializzazione dell'acqua

Le nuove tecnich~ e reti idriche immesse e le nuove autorità preposte alla loro gestione, hanno spesso desocializzato l'acqua dai contesti e relazioni locali. Per questo motivo sono state spesso percepite come un atto di espropriazione e di 'spaesamento'. L'irrigazione, proprio per la dimensione liquida dell'acqua (straripante, difficile da con­tenere, ma anche facile da condurre) e per la sua pesantezza (un metro cubo pesa una tonnellata) è mediata da complessi sistemi sociali e istituzioni culturali che Mollinga de­finisce "reti socio-tecniche" (2003), come interrelazione dì relazioni politiche, simboli­che e ambientali assieme. Poco vale un'infrastruttura tecnica senza sistemi cooperativi, senza istituzioni sociali çhe organizzino la 'vita sociale' di queste reti; e, a dispetto della logica di grandi opere, è molto meno complesso costruire un'infrastruttura idrica che reinventare una rete politica e sociale irrigua dopo che è stata frammentata 7.

La crisi dei mondi d'acqua è una crisi dell'acqua moderna, come prodotto del para­digma modernista (Scott 1998) nel pensare il cambiamento di territori e popolazioni: la risorsa più relazionale, negoziata e mediata nell'ambiente è stata delimitata all'inter­vento tecnico-economico in sistemi rigidi e centralizzati, poco flessibili e adattabili al cambiamento.

Vicinati idrici e common Le reti idriche definiscono spesso l'organizzazione del territorio, la costruzione di un paesaggio e il 'senso del luogo'. Come ha mostrato nel suo studio balinese Geertz (1973), "l'intricata organizzazione idraulica" è composta da "vicinati d'acqua" come sotto-unità non unicamente tecniche ma anche sociali e politiche, chiamate subbak. La distribuzione dell'acqua è coordinata da elaborati sistemi rituali e tecnici assieme8,

dove i templi d'acqua svolgono, infatti, un ruolo centrale attraverso un complesso ca­lendario rituale nel sincronizzare una sua equa distribuzione per un grande numero di irrigatori interdipendenti9.

2 - Raramente l'acqua è

stata pensata come mero oggetto di gestione passivo e muto, roba come la definisce lllich (1988), spogliata della sua materiale e simbolica m u ltidim ension a!ità. 3 - L'irrigazione, con i suoi usi e abusi, è al centro dei

sistemi produttivi t~

agroalimentari globali ed è

una questione strategica di sicurezza alimentare come dell'autonomia idrica di molti stati nazionali. 4 - In Medio Oriente, ad esempio, i progetti idrici, già in epoca mandataria, e ancor più negli ultimi decenni, sono stati espi ic1ti progetti di sedentarizzazione delle tribù pastorali prima, e di rifugiati poi: irrigare per 'stabilizzare' aree marginali e fuori dal controllo delle nuove autorità statali. 5 - Ciò sostituendo tecniche e semenze di agricoltura piovana, sistemi agro-pastorali multi-funzionali o istituzioni irr:gue locali interdipendenti alla variabilità e

all'imprevedibilità delle piogge (Lancaster - Lancaster 1999).

6 - Il Sardar Sarovan ProJect, una grande diga la cui costruzione è stata al centro di aspri conflitti e causa di forti migrazioni forzate, è

stato legittimato proprio per affrontare la 'scarsità' d'ijcqua visto come feri.omeno 'naturale' e incontrovertibile, mentre ha di fatto accentuato la suddivisione ineguale delle fonti d'acqua e del controllo della terra in un contesto di segmentazione catastale. 7 - Un aspetto non triviale del l'acqua è che l'estrazione, la deviazione, la conduzione, il mantenimento e la riabilitazione del sistema sono attività socialmente complesse; ma è nella distribuzione dei turni di uso che si accentua il

suo carattere relazionale e negoziale.

8 - I saperi dell'acqua sono anche saperi religiosi, e gli

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'esperti' dell'acqua come conoscitori di tecniche di distribuzione sono anche, e non solo, identificati in ruoli religiosi. 9 - Lansing, sempre a Bali. mostra come i turni irrigui dipendano una "tecnologia rituale" , dove l'attività irrigua e agricola non è una serie di procedure tecniche, ma un "insieme significativo di interazioni tra gruppi sociali e il mondo naturale" (1991:

1 O, T.d.A.). L'irrigazione, in sintesi, è un processo sociale quanto tecnico, che è

strutturato da una " sequenza di riti agricoli " (2001: 11, T.d.A.). I templi d'aèqua non organizzano semplicemente la distribuzione dell'acqua, ma mantenevano complessi eco­sistemi artificiali e controllano l'umidità a scopo 'anti-parassitario'. 10 - Mosse, ad esempio, mostra come nel sud del Tamil, in India, la rete d'acqua non sia unicamente un'infrastruttura tecnica ma un bagaglio di risorse simboliche cruciali nel definire la dimensione pubblica. Le cisterne e i templi di villaggio, alla base della gestione irrigua, sono "istituzioni che esprimono relazioni sociali. di status, di prestigio e di onore. Sono parte della produzione simbolica della località" (1999: 472, T.d.A.) Il sistema di cisterna è un "dominio pubblico del villaggio". dove l'aspetto economico è

intessuto nelle dinamiche sociali e politiche. 11 - Difendere l'acqua come diritto o bene comune, astratta però da un subbak, da una cisterna d'acqua indiana, da un sistema tribale Medio Oriente, da un sistema di gestione comune di una cisterna palestinese, o da un acquedotto locale sulle Alpi italiane, può essere molto rischioso, come la storia della modernizzazione ha mostrato.

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Una rete tecnica è sempre una rete sociale: difendere la dimensione pubblica dell'ac­qua, in una prospett iva antropologica, vuol dire resistere non solo alla sete di potere o alle for me di accaparramento esclusivo, ma difendere anche le istituzioni locali dell'ac­qua, che oggi si trovano sempre più messe a repentaglio o 'sostitu ite' in nome dello sviluppo 'tecnico' . Molt i sistemi di gestione irrigua hanno investito sulla dimensione pubbl ica dell'util izzo dell'acqua, soprattutto nel renderne t rasparente !a distribuzione, le appropriazioni in­debite e le forme di negoziazione come risorsa comune'0•

Non è l'acqua in sé ad essere una commo n, ma le sue interrelazioni stor iche e culturali con istituzioni, saperi e modalità comunitarie di organizzarsi attorno a questa risorsa comune 11

• La perdita dei sistemi di gestion e comune significa la frammentazione di isti­tuzioni pubbliche, di autorità e sistemi di cooperazione, di saperi e pratiche del territo-­rio : e spesso, la distruzione di una common dell'acqua. come interfaccia tra natura/cul­tura, coincide con la perdita di spazi pubblici che non concernono solo quella risorsa, ma la comunità morale nel suo insieme. Nell' irrigazione si è ridefinita non solo l'idea dell'acqua e della sua relazione con la società, ma lo stesso rapporto con la 'natura': ma nella ridefinizione dell 'acqua, ci dobbiamo chiedere con urgenza come ridefiniamo 'noi stessi' . l'idea di uomo e la sua capacità di cura di un ambiente a cui è quot idiana­mente interrelato.

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10 entità relazio­:nti critici (la cre­ni più scadent i il 'Tligranti (vietna­

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1. Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascon i fior1. Una te nsione messianica

non ha mai f inito di trarre alimento da luoghi oscurati dalla storia, dai boschi e dalle sperdute campagne rendendo protagon isti persone capaci di mobi litare un potente immaginario grazie alla loro marginalità, alla alterità culturale di cui erano t esti mo­nianza vivente. Questo nucleo f igurale ci serve ancora per capire alcuni tratt i della nostra sto ria re­cente? li mondo rurale, oggi che stenta ad essere ident ifi cabile nella diffe renza con il mondo urbano, mantiene un denso statuto simbolico e morale? È legitti mo ricercare in nicchie extraurbane il senso di una comunità futura , l'alim ento della d iversità cult u­rale e della giustizia sociale? Mi servirò _di una nozione minore di Walter f;lenjamin per segnalare come la marginalità e l'arretratezza , che - a livello delle rappresentazioni - il moderno ha attribuito al mondo agropastorale, abbiano f avorito che lì vi si insediassero attese di effervescenza socialeL che si riattivasse l' idea di una seconda vita non solo per quei territori, per quelle genti. Riflettendo sul collezionismo o sul surrealismo, Benjamin prefigurò per le persone, ma anche per gli oggetti, una liberazione da un destino già fissato nelle loro storie pas­sate. Interrogando gli spazi berlinesi della sua infanzia, ricordava un luogo trascurato dello zoo dove egli passava ore a ''gettare lo sguardo olt re l'or lo di una vasca" (2007: 42). Aspettava che affiorasse di colpo da una pozza nera una lontra. Quell'angolo di mondo proprio perché oscuro e negletto rivelava per incanto uno stravolgimento, "mo ­strava già i tratti del!' avvenire" (p. 41 ). Era un 'luogo profet ico' . L' improvviso guizzo del luccicante anima le appariva un'apertura inedita di possibilità, uno scarto rispetto a una storia anonim a e negativa: un meraviglioso risarcimento da un dest ino apparenteme nte chiuso. Per Benjamin gli spazi antichi, abbandonati, degradati dove "è come se tutto ciò che propriamente deve accaderci fo sse già passato", avrebbero " il potere di lasciare scrutare nel f uturo" (p. 42). li divenire, in quanto lì presupposto inatti vo, scont ato nella sua assenza, si rivela fatalment e atteso. È dunque inedita e sorprendente la sua irru­zione: in grado di fa r immaginare effetti di liberazione più generale. Ebbene, è mia convinzione che la nozione di luogo profetico percepito si presti per in­terpretare la forza propu lsiva e messianica proietta ta su spazi decadut i e marginali. Riesca cioè ad intercettare domande di riscatto e redenzione: quelle idealizzazioni che hanno investito il mondo rurale ne/l'ultimo secolo e che in qual ità di dispositivi dell'im­maginario sono apparsi capaci di aprire alla storia nuovi orizzont i, di mett ere in circo­lazione poetiche popolari e culte, sensibilità locali e globali .

2. Le campagne sono oggi diventate un paesaggio instab ile e lacerato tra mono colture e nuova agricoltura, relitti di illusioni industrial i e degrado, aree abbandon ate alle ra­gioni della natura spontanea. Molt o di questo processo è cominci ato negli anni

1 - Via del campo, Fabrizio De Andrè, Enzo Jannacci,

Dario Fo 1967.

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2 - Dietro quel nome cosi

potente e mitico di Civiltà contadina era ravvisabile, nel

riferimento all'opera di Carlo

Levi, uno strappo rispetto

all'accademra e alla retorica

dell'unità del proletariato (e

fu per ciò oggetto di critiche

quel suo indugiare sulla

autonomia della cultura

popolare contadina, dr. Cirese 1977)

3 · Arte Sella (V\11/Vw.artesella.

it) e Opera Bosco (www.

operabosco.eu) ne sono un

esempio: due parchi a !oro

modo living museum che

accolgono al loro interno

opere di artisti intenti a eseguire performances o

interventi di !and o organic art. Questi luoghi

diventeranno spesso il

palcoscenico ideale di azioni

teatrali che mettono rn scena

miti antichi per rievocare il

profondo legame con la

natura rivisitato in chiave

ambientalista (si veda

l'Associazione Culturale O

Thiasos TeatroNatura). Altre

volte mitigano l'enfasi in

direzione della wilderness favorendo incontri sulla

biodiversità coltivata e

allestendo un ibrido tra arte

colta e contadina, con

giardini che diventano

stupefacenti orti.

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Cinquanta allorquando si attendeva anche dall'agricoltura il ~ontributo a qualcosa di radicalmente innovativo (benessere e liberazione per tutti, non solo redenzione per gli ultimi della ter ra). Gli anni che seguirono confermarono le trasformazioni radicali ma

non risposero alle istanze di giustizia sociale. La redistribuzione della terra perseguita dalla Riforma Agraria si rivelò del tutto interna ad una logica di depotenziamento del movimento delle campagne. Incapace di far sperimentare nuovi rapporti di produ­zione, frammentò il latifondo in piccole aziende familiari di pochi ettari, creando un soggetto sociale isolato e dal debole potere contrattuale. Sempre in quegli anni fu poi promessa e avviata anche in Italia la Rivoluzione Verde. La sua retorica assicurava che ci sarebbe stata una crescita esponenziale della produzione agricola sostituendo agli uomini e agli asini i trattori e facendo ricorso a varietà vegetali geneticamente selezio­

nate, a fertilizzanti e fitofarmaci (Barberis 1973). Anche questa profezia solo in minima parte si verificò. Tanti contadini furono costretti ad emigrare, ad abbandonare terrehi considerati ormai improduttivi secondo una logica imprenditoriale. Altri sopravvissero nelle zone montuose e interne grazie ai sacrifici e all'agricoltura di sempre. Nelle aree pianeggianti dove l'innovazione fu radicale crebbe di certo maggior benessere ma si

resero piano piano palesi molteplici effetti dirompenti.

3. A risollevare dalla condizione marginale e residuale nella quale era caduto il ruolo morale ed estetico dei contadini (che nel passato aveva avuto non pochi cantori tra intellettuali e politici sensibili al populismo rurale) ci provò un'invenzione ribelle. Nel 1973 a S. Marino di Bentivoglio in Emilia saranno dei contadini, per l'esattezza 'ex',

ex mezzadri, che insieme a ricercatori fonderanno il primo Museo della Civiltà Contadina: 'un luogo profetico' per le discontinuità che introdusse nell' idea di mu­

seo e di patrimonio; storie di vita di anonimi contadini acquistavano dignità di narra­zione istituzionale; strumenti di lavoro e oggetti quotidiani ormai abbandonati trova­vano un'inedita messa in valore2. L'alterità antagonista dei contadini e dei mezzadri ormai vinta incominciava a ricevere l'omaggio del ricordo: un riconoscimento inat­

tuale e pr·1vo di intenti pragmatici, ovvero svincolato da ogni intenzione di mobilita­

zione delle campagne. L'iniziativa di S. Marino di Bentivoglio ebbe ben presto vasta risonanza e divenne mo­dello esemplare di un riconoscimento - politicamente allora significativo - del ruolo fon­damentale svolto dai lavoratori della terra nella storia dell'umanità e, più in particolare, nel paesaggio e nella cultura del territorio. Nella gran parte dei casi queste istituzioni lo­cali sì eressero a resilienti eredi dell'alterità del mondo agricolo tradizionale: la loro stessa immagine di artefatti miseri e patetici radicati in aree marginali affe rmava ad un tempo una domanda non altrimenti espressa di democrazia patrimoniale e una pro­

fonda estraneità rispetto al moderno e alla pompa crescente della scena museale (Padiglione 2008). I musei della condizione agricola agirono per decenni come se non

esistessero più coltivatori della terra e pastori. Resero cioè sfuocata l'immagine (depri­mente?) del presente per narrare il passato, per raccontare ·i1 primo Novecento e di esso

una storia epica di fame e fatica, di astuzie e lotte sociali dove i contadini erano (stati considerati ) i protagonisti. Evidentemente era la memoria di una generazione , ormai fuori dal ciclo produttivo che reclamava dì essere messa in valore nello scontro epocale

che la modernizzazione aveva aperto nelle nostre campagne e nelle famig lie contadine. Ben pochi avrebbero però scommesso che di lì a pochi decenni molte di'. queste istitu­

zioni considerate estranee ad ogni innovazione, e dove il divenire era rad:ontato come già accaduto, avrebbero resistito alle sferzate della crisi e manifestato spesso uno

scatto in avanti divenendo agente nella formazione di comunità e identità locali (ibi­dem; Lattanzi - Padiglione - D'Au reli 2015).

4. Negli ultimi decenni del XX secolo lo scenario culturale mutò ulteriormente. La bellezza migrò lontano dalle città e dalle opere dell'uomo. Un diverso verde colorò di sé orienta­

menti politici, sensibilità culturali, progetti urbanistici. Si trasformò in parola magica inca­ricata di annunciare - ogni volta che veniva ripetuta - la profezia ecologica: non più lo sfruttamento intensivo della terra (perpetrato dalla stessa agricoltura industriale della rivo­luzione verde) bensì un rinnovato equilibrio dell'uomo con l'ambiente, questa volta netta­mente sbilanciato a favore del rispetto della natura (Lanternari 2003). Boschi, campagne

incolte, montagne selvagge conquistarono nell'immaginario allora contemporaneo un forte appeal estetico. Certo questi ambienti dovevano apparire il più wild possibile, epu­rati della presenza umana, rappresentati come opera esclusiva della natura e semmai dell'arte3. Furono questi spazi residuali extra urbani, pre o post rurali ad assumere lo sta­tuto di profetici (subentra in anni appena successivi e conquisterà una crescente attualità

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4 - Verso la fine degli anni Ottanta Fulco Pratesi, allora Presidente del IMNF Italia, proponeva sulle pagine di "Nuova Ecologia", 11 periodico più seguito dal movimento verde, le condotte più coerenti con il nuovo credo, allora in piena diffusione. L'homo ecologicus avrebbe dovuto rifiutarsi di percorrere boschi o di scalare montagne per non disturbare gli abituali siti d: cinghiali, cervi e rapaci. In quei luoghi residuali del moderno vivevano comunità biotiche che dovevano essere conservate nella loro integrità, stabilità e bellezza. Alla loro permanenza era affidata l'unica possibilità di nostra soprawivenza. Il comportamento prudente ed empatico del visitatore dei parchi, quel piacere di osservare e di contemplare la natura più che di manipolarla, si sarebbe dovuto diffondere e soprattutto generalizzare sino a costituire l'esperienza mentale paradigmatica, il modello ideale da seguire per un buon rapporto con l'ambiente. 5 - Riassumibili ner seguenti punti: "Diritto dei popoli ad alimenti nutritivi e culturalmente adeguati, accessibili, prodotti in forma sostenibile ed ecologica, ed anche il diritto d1 poter decidere il proprio sistema alimentare e produttivo" (Desmarais 2009; 49 e segg.).

103

anche la nozione di terzo paesaggio di Gilles Clément (2005; cfr. Lai - Breda 2011 ), in quanto appariva allora legittimo coltivare li un rinnovamento etico e culturale•. Questo scenario immaginato come edificante dai 'verdi' rimetteva in discussione poteri e diritti di uso. Trattava con sospetto i contadini e in generale tutti coloro che in cam­pagna e in montagna avevano le loro radici culturali ed esistenziali. Raramente i con­tadini riuscirono così a trarre riconoscimenti culturale e vantaggi economici dal movi­mento ambientalista. In Toscana o in Umbria le terre e i casali venduti acquisirono va­lore dopo aver subito un restyling green. Certo è che dagli anni Novanta insieme con il crescente processo di appropriazione e di privatizzazione delle terre si affermano nuove forme di turismo (es. agriturismo) che sem­brano mettere a sistema (e a profitto) estetiche ambientaliste, ricerca di prodotti ge'?_U­ini, sostenibilità economica, radicamento nella memoria e nel territorio. In tal modo - pl.ir tra ambiguità e fattibili infingimenti - si rende possibile recuperare la centralità dei con­tadini e reinsediare l'azienda agricola nell'immaginario contemporaneo tra i luoghi do­tati di agency, che hanno cioè il potere di trasformarci, di farci pensare diversamente.

5. I luoghi profetici sono in prima istanza spazi simbolicamente densi, segnati dalla di­versità rispetto all'egemonia, eterotopie (Foucault 1967), situazioni concrete di vita che rendono relativo ciò che altrimenti appare scontato. Luoghi che aggregàno: conden­sano idee e desideri di trasformazione, dilatano /'angusto orizzonte offrendo un altrove rispetto sia al vuoto di senso che alle visioni apocalittiche che si fronteggiano nel pre­sente culturale. Di questi luoghi è possibile farne diretta esperienza all'interno del pae­saggio rurale contemporaneo, che chiamiamo post-agricolo, per la metamorfosi radi­cale che sta vivendo. Un paesaggio che nel giro di un paio di decenni - owero da quando si riteneva che ormai l'agricoltura industriale fosse vincente e senza più osta­coli - ha visto convergere sulla terra e l'agricoltura movimenti di risonanza locale e in­ternazionale impegnati a sperimentare e verificare le alternative ambientali, economi­che, sociali, morali, filosofiche ai processi di globalizzazione, di centralizzazione econo­mica e di egemonia culturale. Chi lo avrebbe mai detto che il più forte avanzamento nella battaglia per i diritti (si veda la costituzior.e dell'Equador e il dibattito al parla­mento inglese) sarebbe venJto in questi anni proprio dalla Via Campesina, rete dei pic­coli minoritari mondi contadini con la tesi della sovranità alimentare (1996) 5. Nel sito http://www.mierdadevacas.com/ si predica l'agricoltura organica, si offrono consiglj su come conservare l'humus della terra e si segnalano statistiche che invitano a modifi­care abitudini consolidate: il 75% dei contadini in America latina usa il letame per ar­ricchire il terreno e non fa ricorso alla chimica che con l'idea di curarlo lo impoverisce. In altri tempi avremmo parlato di un ritorno al fascino del terzomondismo, di populi­smo rurale o della capacità del movimento contadino di farsi egemone anticipando forme di relazione e di vita 'liberate' dall'oppressione. Oggi vi possiamo cogliere la per­durante intenzionalità di fare della terra agricola un luogo profetico, dal quale imma­ginare al meglio il futuro.

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ono. Così la valorizza­tteggiame nto passati­on la crisi economica ? anche senza passare oro e contribuendo a lità rurale legata all'e­•orurali che dalla città jeuta 2013); la rafìa

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"È cosa di pecorari", mi rispondevano i miei amici quando, di fronte a ville settecente­

sche abbandonate su distese di prati verdi, in inverno awo lte dalla muffura, o di colore giallo cupo nelle arse giornate d'estate, o arroccate tra le scoscese balze di Catàlfaro che Luigi Capuana descrive in Scarpiddu, chiedevo di chi fossero. Conoscevano, loro, il senso della mia domanda: questa terra dalla bellezza solitaria e struggente', quelle case custodi di antiche frequent azioni, potrei mai averle? Ho imparato, io, solo con il tempo il signif icato vero della loro risposta: "togl ici mano" , ossia lascia perdere. Ottanta chilomet r i più a sud. sempre negli lblei, ma nel loro lato apparentement e (più) a! sole che guarda a sud-est e si affaccia sul mare da Siracusa a Capo Passero, con la sua Isola delle Correnti e le vane speranze di corpi neri incatenat i sul fondo, di spazio libero non ve ne è più2

.

La gent rifiçazione delle campagne è il versante classista della fet icizzazione patrimo­niale che ha awolto quei mon di negli ultimi due decenni in una bolla globale, produ­cendo d istrett i cultu r~li, campagne pubb licitarie, flussi tu ristici e qualche etichettatura

UNESCO. Un tuttopieno, quello del Sud-Est, saturato da agenzie int ernazionali e serial televisivi, att raversat o da speculazioni fondiar ie e rivendicazioni ident itarie, da speri­

mentazioni pol it iche e razionalizzazion i paesaggistiche. Andando verso nord, lo spazio gentrif icato della campagna iblea si dissolve in un punto' preciso del terr ito rio, laddove le cave cedono il passo, per una ventina di chilometri , ' alla montagna. Buccheri a mille metri di altit udine è il confine, lo spartiacque, dal quale si scende poi verso Vizzini, con le sue Cunzerie rust icane e le sue capre, o verso la Mineo dei poeti con la loro pietra. Mineo, paese di (apua na e dì Bonaviri, ma anche del poeta satirico seicentesco Maura, che nella contr ada di Camuti possedeva una di

quelle ville ru rali og gi abbandonate che marcano il paesaggio agrarìo3.

Salendo da Militello verso un balcone natu rale che guarda Mineo e i suoi Poggi, dopo aver lasciato sulla sinistra e sulla destra della strada asfaltata - destinata ad interrom ­persi qualche chilomet ro più in là per cedere il passo a un 'int ricata tra ma di sent ieri scoscesi che scendono verso valle - le ult ime case di campagna degli abitanti del pa­ese. si aprono allo sguardo colline di un verd.e intenso, in inverno, con resti di costru­zioni rurali antiche oggi coperte da improw isate tetto ie in eternit, adattate a stalle e

prot ette da cani guard inghi. Nessuna colt ivazione, pochissimi alberi, qualche piccolo vi­

gneto, e fi lari di fichi d' India occupano quello spazio vuoto, lasciato libero al pascolo dì vacche e capre fino a perdita d'occhio. Qui, preso dall'incanto del paesaggio, ho chiesto per la prima volta di chi fo ssero quelle colline (per me) abbandona te e qui, per la prima volta, ho ricevuto la risposta: "è cosa di pecorari". " Per parlare con me" , che non capivo, ma chiedevo, mi hanno dett o di volta in volta quello che potevo al momento capire e che loro ritenevano, a quel punto del nostro

1 - In molt i anni d i terreno in

quell a parte degli lblei che

fi nisce a settentr ione per

affacciarsi sulla Piana d i

Catania e guardare il

Vulcano, ho imparato a

conoscere quei paesaggi,

fa tt i d i cave profonde di

roccia bianca, canyon lunghi

anche chilom etri. con corsi

d'acqua sul fondo , nascosti,

a volte, da un fitto intreccio

di canne, cespugli e alberi,

esposti, altre, da alt i balzi

che for mano cascate nelle

quali è possib ile bagnarsi; di

vasti pianor i, ancora colt ivati

a grano negli anni Cinquanta

del secolo scorso, ogg i

abbandonati al fior ire dei

color i di papaveri,

margherite, cardi rossobrun i

e biancospini rosat i e solcati

da necropo li sicule e greche,

da capanne del bronzo e da

ipogei bizanti:"Ii, lungo i qual!

puoi camminare per giorni

senza incontrare nessuno ,

scrutato solo da fa lch i e

poiane che f issano il vento; e

di lunghe colline, un tempo

colt ivate a vite, ulivi o ancora

a grano, e oggi pascolo per

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grandi mandrie di vacche indigene, spazi di pecorari, appunto, su cui vegliano, immobili e insieme roteanti, f ile interminabili di donchisciottesche pale eoliche. 2 - Da San Corrado di Noto, fino alle masserie di Palazzolo Acreide, di lì, verso occidente e attraverso la Cava Grande del Cassibile, fino alla piana di Frigintini e alle marine televisive della Samperi montalbaniana, uomini inglesi e donne francesi, svizzeri calvinisti e non puritani imprenditori lombardi, dirigenti d'industria torinesi alla ricerca di ulivi millenari e neoruralì romani certi della presenza, in quelle che furono loro verrine colonie, della Grande Madre mediterranea, abili investitori catanesi e preveggenti universitari, hanno comprato o comunque preso possesso di balze e colline e della terra del carrubo e del sommacco femminino. 3 - Qui si racconta riunisse una congrega di poeti a recitare versi intorno ad una pietra, la Pietra di Camuti, appunto, le cui virtù magiche sono ancora oggi attive se -si dice a Mi neo - le donne in attesa di un bimbo vanno a sedersi sopra, nella speranza che il figlio o la figlia possa nascer poeta. Mineo, l'antica Ména i, capitale della Lega Sicula costituita da Ducezio per cacciare i Greci invasori che venivano dalle marine di Noto e di Gela, con i poggi ondulati di Catalfàro e della Nicchiara degradanti, verso nord, fino al Tempio siculo dei Pàlici, luogo di culto della sicula Lega, e verso nord-est in direzione di Militello che, appunto, li chiama i Pop di

Mineo.

186

rapporto, opportuno dirmi. "Ma chi sono questi pecorari?", chiedevo. "Gente che viene dal messinese, dalla zona dei Nebrodi", rispondevano, aggiungendo che alcuni tratturi collegavano storicamente quelle montagne con la Piana di Catania e che da qui i peco­rari risalivano verso l'interno, spingendosi fino a Scordia, Militello, Palagonia e Caltagirone. I pecorari nebroidei (gente di Tortorici, Mistretta, San Fratello) in inverno usavano portare le proprie greggi verso sud e, non potendo fermarsi né nella Piana, né intorno al biviere (un lago artificiale) di Lentini (corrispondente agli antichi agri /eonti­not), che erano territori prima malarici, quindi occupati da agricoltura intensiva, risali­vano i contrafforti settentrionali dei monti, dove trovavano pascolo abbondante. Anche quando tale transumanza interna non ha più seguito i tratturi, ma si è servita di più ra­pidi camion, la gente di Tartarici e degli altri paesi dei Nebrodi ha continuato a portar~ le proprie greggi negli stessi luoghi. Con il progressivo abbandono delle terre di alta col­lina e delle coltivazioni anche le più specializzate (gelso, vite, ulivo, agrumi - concentra­tisi questi ultimi sui versanti degli lblei che degradano da sud verso Catania e nella Piana) i pecorari hanno man mano acquistato terreni, da lasciare incolti per il pascolo di pe­core, capre e vacche, fino a diventare i. padroni di una parte importante del territorio. Una simile ricostruzione 'storiografica' della presenza dei pecorari nell'area mi tranquil­lizzò per un po', ma certo non spiegava quel l'aria di timore e reticenza con la quale mi si parlava di loro e quel senso di negativo sospetto che avvolgeva la loro presenza nello spazio rurale. Ugo, ex assessore comunale, professore ai liceo, ha una proprietà agri­cola di famiglia poco fuori il paese che confina con una posseduta da pecorari. Qualche volta l'ho accompagnato a dare da mangiare ai cani che lì tiene e ho provato a chie­dergli notizie dei vicini: "non fanno niente, apparentemente, non si vedono nemmeno. Tengono le bestie libere e poi ogni tanto c'è qualcuno che va ad accudirle. Non mi hanno mai dato problemi, ma meglio non averci a che fare". Altri, con il tempo, hanno sottolineato il carattere violento del mondo e degli stili di vita dei pastori in genere, ma mai un qualche riferimento preciso a quei pecorari che avevano occupato le parti più pregiate delle loro campagne. Qualcuno si era spinto a dire che, per fare pascolo, po­tevano arrivare a bruciare dei terreni, ma mai un'accusa precisa o circostanziata. A un certo punto ho pensato che quello in atto fosse uno scontro in qualche modo 'classico' tra agricoltori, che abbandonano la terra, e pastori che occupano gli spazi lasciati vuoti dai primi e che tale tensione fosse in qualche misura strutturale di un'area che sulla pa­storizia e la concia delle pelli aveva costruito, tra XIV e XVI secolo, una parte cospicua della propria ricchezza. Ma anche questa ipotesi non bastava a render conto del timo­roso rispetto che circondava le famiglie di pecorari, attitudine che si spingeva fino al punto di non indicarne nemmeno il cognome. Con il trascorrere dei mesi e degli anni passati in paese le ho conosciute anch'io quelle persone: si vedevano in paese con i loro fuoristrada, li incrociavo nella bottega del mio amico barbiere, sindaco del paese, al bar dove ci scambiavamo il saluto, per strada: per­sone gentili, evidentemente benestanti, difficili da associare a quell'universo di negativa e violenta alterità cui la parola pecorari e l'espressione "cosa da pecorari" sembrava rin­viare. Poi ho iniziato a pensare di poter comprare della terra, in paese, con forse una co-

i struzione da poter ristrutturare e a quel punto tutte le cautele e i. timori sono riemersi: è difficile, non conviene, se sanno che sei tu (comunque un foresti~ro) a voler comprare, anche chi ha terreni abbandonati ti chiederà cifre enormi, e poi devi trovare la persona giusta che faccia da intermediario. Anche quando riuscissi a comprare e a realizzare quel che vuoi fare, se non ci abiterai stabilmente ti entreranno in casa, ti prenderanno le cose. Avresti bisogno di un guardiano sicuro che sappia trattare. Più recentemente, qualche anno fa, nel corso di una discussione nella quale gli chiedevo esplicitamente perché nel territorio rurale del paese, certo non meno bello e affasci­nante di quello di Noto, Modica o Ragusa, non si realizzasse quel processo di vendita delle campcigne a una tipologia diversa di acquirenti, un amico è stato alla fine esplicito: "qui le terre migliori sono in mano !oro, dei pecorari, e quelli non vendono, anzi conti­nuano a comprare e rion hanno alcuna intenzione di avere gente tra i piedi. Finché ci sono loro nessuno comprerà e nessuno potrà essere al sicuro in campagna". Fu chiaro, dunque, il mio amico, per poi ritornare nel vago quando gli chiesi cosa facessero i pe­corari nelle loro proprietà, oltre ad allevare animali. In altre occasioni, però, avevamo parlato degli stessi spazi, ma senza riferimenti specifici né ai proprietari, né ai loro modi di agire. Ad esempio quando discutevamo, con una persona interessata a seguirne le tracce, delle molte discariche abusive di materiali tossici provenienti dal Nord, create nel corso degli anni Ottanta in alcune cave, O quando, insieme ad altri, si vagheggiava delle

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case di campagna che avevano ospitato, negli anni, latitanti vari o che erano seNite come nascondigli di armi di questa o quella fazione dello scenario criminale catanese. In realtà, alcuni anni fa, un maturo e alternativo signore tedesco, docente universitario ad Amburgo ha comprato della terra in paese, ha rist rutturato una casa rurale, ci è andato ad abitare e ha iniziato una serie di (Oltivazioni biologiche, ma aveva stabilito per tempo i giusti rapporti prima di intraprendere la sua nuova vita da pioniere. Qualche paesano, come Pippo che ha un vasto agrumeto in uno dei posti più belli del territorio di Militello, si ostina a viverci, in campagna, ma si tratt a di persone del posto che sanno come gestire gli inconvenienti (furti, danneggiamenti, minacce) che intervengono a interrompere i loro ritmi quotidiani. Niente dunque lascia pensare che, a breve. quelle campagne abbando­nate dai contadini nel corso del secolo scorso possano subire trasformazioni analoghe a quelle avvenute da qualche anno in altre aree degli lblei e in territori da tempo gentrificati del centro-nord Italia. A Militello e nei paesi vicini, il vuoto causato dall'abbandono delle campagne (coltivate in parte a grano, ma soprattutto da alberi pregiati e viti fino a cin­quant'anni fa) non viene riempito da alcuna trasformazione nemmeno quando l'intera area, tra il 2002 e il 2005, entra ufficialmente nell'heritagescape grazie ad una serie di ri­conoscimenti UNESCO. Il vuoto storico lasciato dalla scomparsa dell'antica e specializzata agricoltura di collina non viene gradualmente riempito e ristrutturato da una qualche forma di patr imonializzazione, ma saturato dalla presenza invasiva del mondo dei peco­rari, che lo parassitizza, congelandolo in uno stato di perenne assenza. Da tempo il lavoro di alcuni storici ha most rato che l'area dei Nebrodi. e in part icolare i circondari di Mistretta e Tortorici, t ra il XVIII e il XIX secolo costituiscono uno snodo decisivo per le reti sociali e criminali che dal palermitano si spingono verso Messina. Legate al mondo pastorale e alla pratica dell'abigeato, le part i criminali di tali reti svol­gono, fino a tutta la metà del Novecento (e in realtà ancora oggi, come vedremo) un ruolo di cerniera tra due mondi da sempre connessi. Abbiamo appena visto come l'at­tività pastorale e i percorsi di transumanza connettano questo snodo anche all'area ca­tanese e sud-orientale della Sicilia, tessendo trame e legami restat i, spesso, sotto t rac­cia. Non è del resto un caso che simili connessioni, sul versante della storia criminale, finiscano per annodare rapporti tra cent ri di antica e consolidata presenza mafiosa, come appunto, Mistretta e Tortorici, da un lato, Caltagirone e Palagonia, dall'alt ro. I lavori storiograf ici hanno reso possibile fornire un contesto di senso sia alla presenza dei pecorari nel territorio da me frequentato, sia sopratt utto all'alone di timore che la avvolgeva. Il mondo dei pecorari evocato dalle parole ambigue dei miei amici militel­lesi era in realtà la mano invisibile di Cosa Nostra che si posava negli spazi disertati dai contadini paras?itandoli e immobilizzandoli in un impenetrabile vuoto . Visto dall'altra parte dell'eff imera linea di confine tra economia legale e illegale, quel vuoto, in realtà, è un pieno, denso di interessi, strategie, investimenti. Fin dal 2008 e ancora negli ultimi mesi del 20 14 la Magist ratura e la DIA di Messina e Catania hanno effett uato sequestri di terreni, aziende agricole e agrituristiche, imprese edili e di mo­vimento terra, dal valore di svariate centinaia di milioni di euro, nei confronti di due fratelli originari di Tortorici ma residenti da alcuni decenni e sposati a Militello, en­t rambi poi arrestat i. L'accusa è di associazione mafiosa e riciclaggio, ovvero di essere i rappresentati e prestanome, nell'area del calatino, della potente famiglia maf iosa di Mistretta, a capo della quale vi sono i due fratelli Rampulla. Originari di Caltagirone, ma t rasferitisi da tempo a Mistretta, i due Rampul\a sono in carcere, uno all'ergastolo', per essere stato riconosciuto colpevole di aver fabbricato il detonatore della strage di Capaci. I fratelli Scinardo, questo il nome dei pecorari che i miei amici militellesi face­vano fatica anche a pronunciare, curavano quindi gli interessi della cosca di Mistretta, reinvestendone il denaro in terreni, att ività agricole e imprenditoriali. Il pieno-di-senso dell'impresa illegale produce il vuoto-di-senso dello spazio rurale e, impo­nendo sul territorio una sorta di tabu mafioso, ne impedisce l'ingresso nella nascente eco­nomia politica di quello scenario patrimoniale che, altrove, sta radicalmente riconfigurando lo spazio socio-politico e il paesaggio stesso del sud-est siciliano. Si potrebbe allora essere tentati di pensare che gli arresti , i sequestri di beni e le azioni di polizia di questi ult imi anni abbiano creato le condizioni per eliminare il divieto e rompere un malevolo incantesimo. Forse, anche se le lunghe pale dei gigant i eolici che roteano veloci tra le nebbie invernali lungo i crinali delle colline calatine color smeraldo - tac, tac, tac, tac, tac, ... - sono lì a ricordare a tutti che la mano invisibile dal capitalismo neoliberista di fine millennio, anche nella sua declinazione criminal-mafiosa, è sempre in movimento. Le energie pulite e l'eo­lico sono infatti t ra i principali investimenti della famiglia mafiosa Rampulla-Scinardo.