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Simone Mazza Il passaggio a livello, di Elliot Sedgwick (genesi di un romanzo) 1

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Simone Mazza

Il passaggio a livello, di Elliot Sedgwick(genesi di un romanzo)

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30 Luglio. Idea per un nuovo romanzo (appunti). Romanzo breve o racconto lungo? Ci sono delle macchine che si accumulano in coda ad un passaggio a livello di campagna. È un punto di accesso ad un paese piuttosto laborioso, molti devono passare di là per andare al lavoro. È un grazioso scorcio di campagna, allʼinizio della primavera, ancora fresca. Ma verde. E fiorita. Si in-travedono i camini delle prime fabbriche in lontananza, ma la nebbiolina del mattino, persistente, le sfuma un poʼ. Punto di vista di uno di questi? Harry (o Henry) valuta se può tornare indietro, ma non si può: la strada è troppo stretta. Impreca. Molta gente ha ancora il motore acceso, pigia nervosamente - a scatti più o meno regolari - sull'acceleratore. Qualcuno fuma, con il finestrino abbassato; e si sente della musica (ritmo dance), da altri esce la voce della radio. Piano piano le macchine si spengono e anche i rumori delle radio; la-sciano il posto alle imprecazioni e alle domande senza risposta di qualche macchinista (cosa sarà successo? Ma quando passa il treno? Bisogna che chiami al lavoro! Porco qui porco là...). Le persone cominciano però a stufarsi anche delle loro sterili lamentele e cominciano a parlare tra loro più compostamente, raccontandosi i disagi della situazione, le conseguenze sulla loro giornata di lavoro, sugli appunta-menti; qualcuno doveva persino andare a trovare la vecchia zia malata al-lʼospedale di Xyz. Le discussioni si fanno a poco a poco meno banali e più interessanti. Per esempio, si riflette proprio sui ritmi di lavoro ossessivi, su come la perdita di un poʼ di tempo per un treno che non arriva ha allʼinizio una carica ansiogena eccessiva, ma poi tutto si sgonfia poco a poco. Qualcuno scopre che un altro abita vicino a lui e cominciano a parlare e a conoscersi meglio… Insomma, cominciano ad accadere delle cose “strane”, per cui le persone ferme al passaggio a livello COMUNICANO tra loro e scopriono che questo tempo usato per le relazioni è un tempo non perso, è qualcosa di divertente e gratificante, seppur temporaneo.

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Non solo, ma il silenzio della campagna prende il sopravvento sulle esclamazioni sguaiate e sui rumori della quotidianità industriale (le macchine, le radio a tutto volume), dagli alberi si sente persino il cinguettio di qualche uccellino, qualche cicala e il paesaggio diventa quasi più colorato. Questa compostezza della natura induce le persone a mantenere un tono garbato e un atteggiamento gentile, quasi ne fossero istruite. Quello spazio armonico di silenzio e di tempo da spendere diventa una specie di scuola, un luogo dove si scopre (o riscopre) il senso delle cose, dove si verificano i propri sogni, do-ve si ristabiliscono delle distanze, dei valori; e soprattutto dove i rapporti ac-quistano un significato prioritario su tutto il resto. A tal punto che, dopo diverse ore (?), quando arriva il treno, questi non hanno più tanta voglia di chiudere le macchine, riaccendere i motori e ripren-dere la routine che allʼinizio avevano interrotto così a malincuore. Quando si alza la sbarra sul passaggio a livello, nulla è più come prima (forse). NOTA: chiamare rappresentante dellʼeditore (Hanna)

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4 agosto. Telefonata allʼeditore (registrazione). “Senti, Hanna, ti devo dire di questa storia, non ne sono sicuro, perché sai, non scrivo da un poʼ, ma credo che sia una buona idea, la prima buona idea da un poʼ di tempo…” “Sì, ma dove è ambientata la storia?” “Io... Pensavo... in prossimità di un passaggio a livello.” “Scherzi?” “No, pensavo.. Davvero non importa il luogo esatto, voglio dire.. Ma vor-rei che fosse lì in un luogo fermo, dove ad agitarsi sono solo le persone…” “Tipo commedia teatrale?” “Sì, ma non un luogo chiuso. Vorrei che fosse un luogo dove solita-mente le persone hanno fretta e si arrabbiano.” “Ce ne sono molti, in coda alla stazione, dal medico…” “Sì, in effetti la logica del contesto è proprio un luogo di attesa e dove, per forza e non per scelta, le persone sono costrette a fermarsi.” “Mm.. ho capito.” “E qui avvengono delle cose, capisci? cioè le persone piano piano arri-vano a ringraziare di questo disguido perché tutto si ferma e loro sono co-strette a fermarsi e a raccontarsi qualcosa delle loro vite. Insomma, se vivia-mo senza raccontare la nostra vita, che vita è?” “Interessante. Insomma, questo passaggio a livello chiuso, interminabi-le, diventa l'occasione di una terapia di gruppo.” “Non solo, non c'è solo questo sfogo per cui ognuno racconta ad un altro i suoi problemi; c'è molto di più: è che le persone apprezzano il fatto che gli altri si consegnino un po' a loro e cerchino delle relazioni, alla fine percepi-scono che sono troppo soli e troppo abbandonati a loro stessi, che non hanno più tempo per fermarsi a riflettere: in questo tempo (imposto dalle circostan-ze) loro pensano ai loro valori, ai motivi per cui hanno fatto delle scelte o hanno preso una strada anziché un'altra.”

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“Ho capito… sto pensando se funzionerà…” “Cara mia… io non lo so… Lo spero. Dovrebbe. Insomma alla fine io penso che tutti quanti abbiamo la nostra vita e questa sia piuttosto ripetitiva, siamo anche noi che la vogliamo così perché nella routine cʼè sicurezza, sta-bilità. A parole, desideriamo una rottura, il brivido, le avventure e via discor-rendo, ma nella prassi siamo tutti piuttosto attaccati alle situazioni; insomma, dal neolitico in avanti tendiamo abbastanza alla sedentarietà, se ciò ci per-mette almeno di nutrirci. Ma una parte di noi rimane nostalgica della novità e per fortuna esistono le relazioni.” “Le relazioni…” “Sì, perché, vedi, se incontriamo una persona nuova e le raccontiamo cosa facciamo, le cose che facciamo ci sembrano più belle e interessanti. Cʼè tutta lʼessenza dellʼarte e della narrazione nelle relazioni con persone nuove, cioè quelle che non hanno già sentito mille volte la nostra morta vita.” “Questo ultimo punto lo trovo meno accessibile, ma va bene, Elliot, mi hai convinto, prova a buttare giù qualcosa. Ma non ho molto tempo, non ri-uscirò a farti un grosso lavoro di copy.” “Allora?” “Allora devi procedere come l'altra volta, scrivi, correggi da solo ed eventualmente ti avvali dell'aiuto di collaboratori tuoi, non della casa editrice. Voglio un lavoro già sostanzialmente corretto.” “Ma anche loro avranno bisogno di tempo!” “E tu sollecitali a fare in fretta…” “Ma poi mi ci dai un'occhiata seria, eh?” “Sì sì.. dai, che lo pubblichiamo…” NOTA: chiamare per lettura Patrick, Isa e Paul.

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6 agosto: telefonata agli amici: leggere la bozza entro metà set-tembre (registrazioni) “Pronto?” “Patrick? Ciao, sono Elliot”. “Seghetto! Quanto tempo!” “Eh sì! Come sta il mio correttore di bozze preferito?” “Di merda, seghetto. Proprio di merda.” “Ah, diavolo! Mi dispiace… Cosa ti è successo?” “Niente, ho sbagliato lavoro”. “Come? Ti è sempre piaciuto studiare antropologia, le ricerche univer-sitarie e tutto quel mondo un poʼ accademico e intellettuale.” “Hai ragione. Ho sbagliato specie, allora. Ecco, per lavoro devo osser-vare gli uomini e gli uomini sono uno spettacolo patetico. Avrei dovuto fare il botanico. Senti questa, oggi ho visto un tizio alla stazione che aveva una fac-cia da ebete allucinante, lo sguardo fisso e perso nel vuoto e si stava sgra-nocchiando delle patatine in un sacchetto con fare compulsivo: ora, ti pare sensata la sua vita?” “Ma che faceva di male?” “Niente, guardava quelli che passavano e divorava le sue fottute pata-tine.” “E poi?” “E poi basta, per lʼappunto. Non ti sembra una vita di merda?” “Cristo, Patrick!” “Pensi che esageri?” “Sì!” “Senti questa, allora. Lʼaltro giorno ero a un convegno a Philadelphia, quattro giorni sul pensiero post moderno. Un modo di dire che lʼarte e la vita non hanno più regole e che vale tutto. Comunque ero lì che facevo colazione

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e cʼerano due colleghi brutti come il peccato. E stavano parlando di strategie per arrivare in una certa posizione, per essere inviati come relatori di qua e di là, come aumentare il proprio reddito. Dio, che tristezza! Non sapevo se spa-rare a loro o a me stesso. Sto parlando di docenti universitari, non di una coppia di drogati. Non vedi come siamo tutti un branco di stupidi senza so-gni? Non ti accorgi come tutto è privo di logica e di significato? Cristo, ho do-vuto smettere di fare colazione!” “Ok, senti, Patrick, io… Io non so, forse hai ragione. Però per me que-sto libro non è poter pubblicare qualcosa o fare soldi. È il tempo che dedico a capire la realtà. Io, se non scrivo, sento che la realtà mi sfugge, non la posso più interpretare….” “Dio, come ti amo, Seghetto. Ecco, tu sei diverso. Tu dovresti vivere di più e pensare di meno. Per esempio, adesso dovresti farti una bella bistecca al sangue, alla faccia dei vegetariani e dei buddisti…” “Patrick! Cazzo!” “Dai, te lo leggo il libro, tu riesci sempre a farti ascoltare dalla gente, eh?” “Detto da te, è davvero un complimento, te lo invio domani. Solito me-se di tempo. Sta su di morale, eh? E grazie.” “Ciao Seghetto.”-- “Pronto?” “Ah, ciao! Non speravo richiamassi.. Non credi che sia giunto il mo-mento di dirmi cosa ti aspetti tu da me? Perché continui a pensare che ciò sia ininfluente? Il futuro sarà incerto, sconosciuto, in mano al destino, ma un po-co ce lo costruiamo, volendolo in un modo anziché in un altro, cercando di fare in modo che sia così come desideriamo…” “Isabelle…”

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“Sì, so che la mia situazione ti inibisce a esprimerlo chiaramente, ma forse agiresti comunque così, perché vuoi tutelarti da scelte troppo radicali o tutelarmi da un futuro che nuocerebbe al mio passato.” “Isabelle! Non sono quello che...” “..Insomma, io credo che anche se tu dici che mi stai dimenticando, che sei forte e indifferente, in realtà ti senti sempre a rischio, credi di poterti coinvolgere…” “Isabelle! Che cacchio dici? Sono Elliot! Ti chiamavo per una mia boz-za da leggere…” “O Elliot! Elliot? Dio che figura. È che ho appena sbattuto giù con Omar e credevo che fosse lui, capisci? Sono… sono confusa… credimi, in-somma… un tuo libro? Sai, scusami, ma non sono certa…. Mi piacerebbe molto, lo sai, perché mi piace come scrivi.. Sei così… Però non sono sicura di accettare, perché questo periodo è veramente un casino.” “Senti, Isabelle… io... io sono imbarazzato, ma vuoi parlarne? Vuoi che ci vediamo? Insomma, dopo tutto, non sei solo una correttrice di bozze… sei anche mia amica… credo.” “Non so, sono io a sentirmi imbarazzata, anche tu hai le tue storie, i tuoi casini, il tuo romanzo…” “Ma dai!” “Insomma, va bene, dai, forse mi farà bene avere qualcuno con cui parlarne, se no esco pazza. Se mi mandi la tua bozza, però, la leggo volentie-ri; così quando ci vediamo, ne parliamo anche...” “Non voglio più: insomma, se hai altri pensieri…” “Appunto. Mi aiuterà a distrarmi. Ti prego, lo desidero. Per quando ti serve una risposta?” “Bè, lo sai. Prima possibile, un mese.. Un mese e mezzo..”-- “Ciao Paul, sono Elliot, come stai?”

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“Elliot! Lo scrittore!” “Ah, che fai? Mi sfotti?” “No, ho ancora in mente quando tʼavevo letto quella raccolta di raccon-ti un poʼ surreali.. Un misto di pittura e poesia.” “Dio, ma quella cosa era ai tempi in cui scrivevo per quella rivista di letteratura…” “Era la gavetta.” “Sì, no, cioè, sono ancora ad uno stadio di gavetta, ma insomma quel-la era gavetta gavetta!”

“Vuoi dire che mi utilizzasti per cose di poca importanza?”“Avevo bisogno di un giudizio competente su cose che allora ritenevo

necessarie, ma che oggi giudico meno importanti di quelle che sto facendo ora, di quelle che ho fatto dopo…”

“E a quel punto non mi hai più contattato..”“Diavolo, Paul, non fare il permaloso, cosa ti prende? Ti chiamo ap-

punto per chiederti di leggere la cosa più importante che ho scritto da molto tempo a questa parte.”

“Sul serio?”“Scherzi? Tu sei quello che più di ogni altro mi sa dire dove esagero

con la spiegazione personale… ti ricordi quando mi dicevi che devo lasciare che il lettore capisca da solo dal dialogo o della narrazione? E che tendo a esagerare con le sequenze riflessive, saggistiche?”

“Sì, sei prolisso.”“Ecco, ho bisogno di uno che mi dica, qui sei prolisso. Diavolo, lo vedi

che ho bisogno di te?”

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1 settembre. Caffè con Isabella (registrazione) “Dai, dimmi di te.” “Niente. Mi sono preso una cotta per questo tizio, Omar. Però la sua storia è complicata e allora si è complicata anche la mia. Per semplificare il tutto, dovrei rinunciare. Quindi non per conformità ad unʼetica, io non credo che questo avvenga mai, per nessuno. Ma è perché è meglio così. Però mi fa incazzare, perché temo di perdere unʼoccasione. Purtroppo non ho mai avuto la possibilità di farmi coinvolgere in una situazio-ne che armonizzasse i due diversi tipi di amore. Cʼè lʼamore che ti sorprende, quello che ti meraviglia continuamente, ma che pare assorbito dalla sua poe-sia. Non ti permette di vivere bene, almeno non su questa terra. Però è entu-siasmante, ti dà una felicità piena, benché effimera. Lo incontri una volta nella vita, se va bene. Se non lo incontri, vivi a metà. Lʼaltro amore è quello più or-dinario, fatto di attenzioni e di preoccupazioni razionali, pratiche. È quello su cui è basata la società, ma ti chiedi continuamente se ciò per cui vale la pena vivere.” “E… Omar? È della prima specie, giusto?” “Mi pare di sì, ma lui è già accasato, quindi sono destinata a perderlo. Ora, sto passando i giorni a benedire la vita perché ho trovato la prima specie di amore; e a maledirla perché lʼho avuto con la sua variante più crudele: quello che poi sfugge. Cacchio, ho paura di passare il resto dei miei giorni a rimpiangerlo…” […] “Isabelle, sei una donna intelligente. Datti un poʼ di tempo, ti prego”. “Dai, parliamo del tuo romanzo…” “Sì, allora?” “Così così. Lʼidea è bella però devi trovare un pubblico a cui vada bene perché tutto si svolge sulla stessa scena.” “Bè?, come a teatro…”

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“Sì, ma non si vede mai la storia, la narrazione. Io credo che un libro necessiti di una narrazione.” “Sai, io non sono dʼaccordo. È unʼidea troppo classica, voglio dire: la narrazione si compone dei personaggi stessi, delle loro qualità, dei loro difetti, di ciò che fanno e dicono…” “Dicono parecchio.. Fanno pochino..” “Bè, sì, comunque… dai, terrò conto di quello che mi dici..” “Sì, secondo me devi cercare di mettere meglio in luce le storie dei personaggi. Per esempio, la donna, che si vede che è una falsa sicura di sé. Ti racconta subito di alcune sue avventure; va bè, a parte che è irrealistico e banalotto, ma poi: ma da dove viene? Dove va?” “Non va da nessuna parte, Isa… Nessuno va da nessuna parte: non cʼè direzione e quindi non cʼè nessun vento favorevole: il mare è agitato e le barche sono sbatacchiate di qui e di là. La storia consiste nel narrare come si resiste, non dove si va.” “E allora ti devi chiedere se sia interessante o no. Cosa vuole, uno che legge? Solo condividere unʼemozione? Potrebbe anche essere, ma devi pre-pararti allʼeventualità che questa logica non sia perfettamente capita. Le per-sone che vivono per il presente affascinano, ma se non vanno da qualche parte sono destinate a non destare interesse, alla lunga, perché… non co-struiscono, capisci? Credo che il lettore, sotto sotto, sia ancora affezionato alle fiabe, in cui cʼè un problema da risolvere e, bene o male, si risolve.. Sia-mo tutti in preda a questʼansia da prospettiva: o vediamo la strada davanti o diventiamo pazzi. Se non dai speranza, dai disperazione.” “Mm. Interessante. Ok, ti ringrazio. Farò tesoro dei tuoi suggerimen-ti…” “Non sbuffare, dai…”

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6 settembre: messaggio di Patrick sulla segreteria telefonica (registra-zione) “Seghetto, sono io. Devo partire domani per una conferenza sulla con-dizione delle donne nelle tribù della polinesia. Capito? Non sappiamo nulla neanche della bottegaia di fianco a casa, ma cerchiamo di capire la psicolo-gia delle massaie dellʼestremo oriente! Mi sa che prima o poi vado io in Poli-nesia. E ci resto. Veniamo al tuo piccolo gioiello, Seghetto. Sai che amo il tuo modo di descrivere: davvero pensi di riuscire a fare tutto il romanzo al presente, tipo macchina da presa? Beato te. Trovo il linguaggio delle sequenze narrative troppo diverso da quelle dialogiche. Insomma, si passa dalle stelle alle stalle. Sei lì tutto intento ad as-saporare il profumo delle rose nellʼaria ed ecco un meccanico che bestem-mia. Certo che la vita è così, Seghetto, ma se lo riesci a vendere allʼeditore, allora sei un dio in terra e puoi venire tu a fare le conferenze sulle psiche umana. Ah, il finale è troppo felice e troppo facile. Questi si fermano, parlano e sembra che siano stati toccati dallo spirito santo. Per me sarebbe più teatrale e moderno che, quando lo spazio del dialogo cessa, tutto ritorna come prima. In fondo, siamo degli idioti, Seghetto, non dimenticarlo. Dai, dai, che mi piace. Un abbraccio, ché devo andare.”

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7 settembre: messaggio di Paul (mail)-- Messaggio originale --Da: Paul Lester [mailto:[email protected]] Inviato: giovedì 07 settembre 2007 12.11A: [email protected]: tuo romanzo

Caro Elliot, Sono rimasto molto sorpreso del tuo stile. È alquanto diverso dal precedente. Nel complesso mi piace perché lo trovo originale, ma mi sembra che i personaggi siano un poʼ freddi. Insomma, sono lì che devono godere del conoscersi, giusto? Devono narrare la loro vita, perché è solo così che guariscono, giusto? Bene, e allora che narrino! Invece sono lì a dirsi qualche battuta di circostanza, oppure filosofeggiano. Fanno piccoli saggi, ma non narrano. Vorrei che narrassero della loro vita e che parlino dei loro sentimenti, dei loro problemi. Insomma, devono andare dritto al cuore. Perchè alla fine alla gente interessa solo questo. Sai come la penso, ci hanno addestrati fin da piccoli a ignorare questa cosa dei sentimenti e lʼarte si è presa lʼincarico di riconsiderarli. La realizzazione professionale, lo stimolo intellettuale, le conoscenze, lʼimpegno sociale, tutto è vero e importante; ma alla fine, stringi stringi, lʼunico evento della storia che sembra costante è la considerazione per i propri affetti fustigati. Il nostro pazzo cuore! È al centro del corpo e al centro dellʼuniverso.

Poi ti devo dire una cosa che non cʼentra niente col romanzo, ma insomma, è una cosa che mi è successa e che mi impedirà di stare oltre sul tuo lavoro, mi dispiace. Ma… mi sto separando da Sonia. Non ti ho detto mai nulla perché non è che ci sentiamo spesso e perché fino allʼultimo ho creduto di evitarlo. Ma era un poʼ che ci stavamo pensando e… è successo. Ti ricordi come ci siamo conosciuti, no? Venivamo entrambi da storie strazianti e quindi volevamo una situazione che fosse consolatoria, ma razionale, sobria, equilibrata. Nessuno scossone emotivo. Ecco. Alla fine lʼabbiamo pagata. Abbiamo sempre pensato che amarsi attraverso le responsabilità quotidiane, i

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figli, senza passare dalle passioni laceranti ed estenuanti dellʼinnamoramento, fosse stato un buon affare. Ci siamo sbagliati. Ora non riusciamo più a guardarci con tenerezza. Sono anni che i suoi messaggi sono “ricordati la spesa”, “passa dal benzinaio”, “Mary ha ancora bisogno di soldi”. Non le interesso più come partner, è evidente. E anchʼio non la desidero da tempo. A volte non la distinguo dal nostro cane da compagnia. Sul serio! Anzi il dialogo con Dolly è più gratificante: almeno lei mi lecca.Vabbè, comunque: se pubblichi, poi fammi avere una copia autografa!Ti saluto affettuosamente.P.

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20 settembre: annotazioni di Elliot

1) È accaduto a me quello che avevo pensato accadesse ai miei personaggi di “Passaggio a livello”!!

2) Non “vicenda” in senso classico... I mutamenti dellʼatteggiamento dei personaggi “fanno”, “sono” la vicenda. La parola non è solo il mezzo della narrazione: è la narrazione stessa.

3) Mediare nel linguaggio. Scegliere fra una prosa “bassa” e diretta; e una prosa lirica e allusiva. Però la realtà è così. Passi da meditazioni sul senso della vita, da momenti in cui ciò che ti accade diventa un simbolo, unʼoccasione per interpretare la vita e in cui rifletti su dove stai andando; a situazioni in cui scendi a compromessi con la concretezza, imprechi, reagisci istintivamente, non ti controlli, hai fame e sete e ti si rompe la macchina. In cui parli un linguaggio che è allo stesso tempo molto intimo - sgorga direttamente dalla collera -, meccanico - usa le parole dellʼabitudine - e popolare - viene scagliato fuori, con o contro gli altri, deve essere comunicato -.

4) Insomma, cosa cʼè di veramente nuovo in letteratura? Lʼipertesto concettuale è una forma dʼarte nuova. La non identità è unʼidentità. Lʼibrido è UNO.

5) Lʼamore, lʼamore, lʼamore!!!

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IL PASSAGGIO A LIVELLOdi Elliot Sedgwick

La quiete prelavorativa della mattina è interrotta solo da un campanello. Nulla di troppo insolito, annuncia che il treno delle 7.30 non è ancora passato e che la sbarra del passaggio a livello si sta per chiudere. Henry invidia per qualche secondo le prime macchine della fila che, ac-celerando, riescono a passare comunque e dirigersi verso la città. “Ma chi se ne frega! Sono in anticipo e voglio fare le cose con calma, il treno non dovrebbe tardare e così mi finisco di leggere quellʼarticolo per il ca-po. Ieri sera non ne ho avuto il tempo. È un poʼ che la sera non riesco a fare nulla, sono così stanco che praticamente crollo sul letto alle dieci.” E la campagna è bella, qui. A farla senza fermarsi non ci se ne accorge quasi, ma è uno di quegli angoli a ridosso della periferia che conservano il romanticismo del tempo che fu. Vicino alle rotaie i prati sono curati e in que-sta stagione persino fioriti: sembra che alcune piante rinfaccino orgogliosa-mente alla civiltà industriale la loro primogenitura: io cʼero prima del treno, prima della fattoria sulla destra, prima del quartierino popolare appena edifi-cato in periferia, prima delle fabbriche che stanno per ingoiare la gente, non mi volto neanche indietro a guardare le macchine, loro passano e io sono qui da sempre. Prendendo a prestito Sartre, io sono lʼessere e voi siete il nulla. Questo pensa lʼalbero. Sta proprio lì. In mezzo al verde della mattina, fresco e limpido, pulito, direi quasi purificato dalla rugiada, un battesimo quotidiano che le strada dʼasfalto non conoscono. Ma quelle stradine che ci passa co-moda solo una macchina e mezzo sono più rispettose, meno invadenti, ci stanno bene, sembra che stiano lì ad indicare la collina poco più avanti. Il so-le sta sulla sinistra ancora discreto, azzurro. A ovest la fattoria. Questi fino al-le tre si beccano il sole più bello, ma magari dietro la casa cʼè un tavolo per mangiare davanti al tramonto, quando di qua tutto è ammalato e logorato dal-la giornata.

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E sai che senza le macchine che passano ci sarebbe ancora silenzio, qui. Non il silenzio inquieto della notte, ma quello primordiale, carico di ener-gia ed effervescente dellʼalba. È bello il mattino qui. È fresco, giovane e genti-le. E verde. Proprio come in un quadretto. E sai cosa ti dico? Ci sta bene pure questo malandato passaggio a livello, che sembra antico quasi come lʼalbero, come il suo fratello minore o il cuginetto. Ci mette quella ruggine, quel drap-peggio rigido rosso e bianco che rende il paesaggio meno scontato, meno romanticamente enfatico. Ma non è nemmeno decadente, si è abituato al contesto, ecco. È come unʼonomatopea futurista dentro una poesia di Orazio. Orazio non avrebbe mai messo chiù chiù in un verso. Ma nemmeno Pascoli avrebbe usato clang clang, lui vira sempre verso il bucolico. I futuristi magari, ma loro non avrebbero mai messo il contesto campagnolo, troppo borgataro, troppo puzzolente di vacca. Qui cʼè una miscela che avrebbe contentato tutti, un contrasto così riu-scito che non ce nʼè. Fanno quasi tenerezza i comignoli delle fabbriche di lontano perché così distanti e scoloriti, come un dettaglio dipinto con lo sfumato di Leonardo, paiono persino innocenti. “Mm.. Si fa lunga. Io mi perdo qui con i colori di questo mattino immobile ma il treno ritarda troppo. Niente, ecco, lo sapevo, mi perdo, parlo, penso e cʼho già quattro macchine dietro; più le tre davanti… niente, così incolonnati come siamo su questa strada stretta ormai stiamo qui. Aspettiamo. Spengo la macchina, vaʼ. Ma cosa sgasa quello là? Cosa è, scemo? Ora scendo e glielo dico. No, cazzi suoi. Ma mi fa soffrire vedere quella bestia andare su di giri per nulla, col treno che non si vede neanche col binocolo; e poi noi siamo obbligati a mangiarci il fumo.” “Oè, la spegni quella cavolo di macchina?” “Cosa?! Dice a me!?” “Sì, la spegni, per favore? Ci stai ammorbando lʼaria!” “Ma si faccia i cazzi suoi: tenga su il finestrino”

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“Brutto pezzo di merda, ora scendo e gli mollo un ceffone così di primo mattino. Ah, meno male che ho man forte da qualcun altro, mica dà fastidio solo a me!” “Ma insomma, si può sapere cosa succede? Perché il treno non arriva?” “E che ne so io? Di solito passa al massimo ai trequarti, ma ormai sono quasi le otto. Porco d*** Oggi proprio non posso permettermi il ritardo…” “Ma Cristo! Lei la spegne quella macchina?!” “Signori, ho dei problemi a tenere il minimo… Se la spengo magari non parto più, è da ieri sera che mi dà problemi, devo tenerla un poʼ su di giri…” “Sciocchezze, sarà la batteria, io ho un carica batteria, se vuoi diamo unʼocchiata…” “Sicuro? Non mi sembra il posto da rimanere a piedi, mica mi posso spostare dalla strada.” “Si fidi, le dico. Prendo i cavetti…” “Mm. Non mi dispiace la solidarietà civica per strada. Ma speriamo che quello non resti davvero in panne su questo metro di carreggiata: se si pianta, restiamo qui tutta la mattina fino a che arriva un carro attrezzi.” Quando il signore della seconda macchina spegne il motore, Henry si accorge che tutte le macchine ora sono silenziose e che la campagna assu-me un tono ulteriormente lirico. Ha come preso possesso della situazione; perché le auto sono ferme e diventano parte dellʼEssere sartriano dellʼalbero. Da un certo punto di vista, quellʼimmobilismo parrebbe forse un poʼ cadaveri-co. La vita sembrava quella al di là del passaggio a livello e tutti i cyborg al di qua fermi, esclusi, morti. Foto dal titolo “Carcasse post fordiste”. Invece non è una non vita, ma unʼaltra vita, dove il movimento è unʼeccezione e il silenzio la regola. La conferma ogni tanto il cinguettio quasi impercettibile di un uccel-lino, il volo apparentemente casuale di una rondine, quasi dovesse andare a riferire le notizie del mattino allʼalbero.

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Per qualche minuto si sentono anche due autoradio dal finestrino di due macchine, in verità; una è quella che chiude la fila: sta finendo il giornale ra-dio del mattino. Da unʼaltra in mezzo si sente invece della musica dance, che non cʼentra un fico secco col resto dellʼuniverso. Ma il proprietario, quasi se ne avvedesse, imbarazzato dalla propria soli-tudine, lo spegne e cala un silenzio irreale, fantastico. Sembra la fine di una sigla teatrale, ora il palcoscenico si fa più bianco (il sole è più alto) e il silenzio sembra invitare gli attori sulla scena a improvvi-sare uno spettacolo. Ma, avverte, deve essere uno spettacolo sobrio e senza effetti speciali.

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DIALOGO TRA IL TIPO DELLA MACCHINA IN PANNE E QUELLO CHE LO STA AIUTANDO. “Pensi davvero che sia una cosa da nulla?” “È la batteria, questo è certo. Se è rotta, bisognerà chiamare qualcuno che la sostituisca. Se è solo scarica, la carichiamo e poi va in unʼofficina a far-le dare unʼocchiata.” “Non so come ringraziarla, anzi, come ringraziarti (ci possiamo dare del tu, vero?). Stamattina ero furioso.. Ora non mi importa granché. Ma stamatti-na ero furioso; hai presente .. Hai presente unghiate nel sedile? Se avessi avuto le unghie, ovviamente…” “Perché, anche tu ti mangi le unghie?” “Sì, non so perché lo faccio... Lo faccio da quando avevo sei anni. Anzi, mia madre dice che ho cominciato addirittura a tre, anche se non ne ero mol-to capace e mi limitavo a succhiarle un poʼ… Ho letto che è una forma di sfo-go rispetto allo stress, rispetto a delle tensioni che non si riescono a raziona-lizzare bene… Si chiama onicofagia.” “Onicofagia… Sì. La mia psicologa dice che ho una fase orale irrisolta e allora mi porto continuamente le mani in bocca perché ciò richiama metafori-camente lʼallattamento.” “Ma… Può darsi. Ci sono persone che fumano, altre che si toccano con-tinuamente i capelli, altre che continuano a tirare verso i polsi le maniche. Noi ci mangiamo le unghie. È lo stress, il disagio.” “Un medico mi ha detto che certi studi hanno dimostrato che è determi-nato da una disfunzione del sistema di trasmissione cerebrale; e tale disfun-zione si eredita geneticamente. Forse è una predisposizione, quindi. Ma mi piacerebbe sapere se è una predisposizione a essere più soggetti alle ten-sioni, come dici tu, o ad altro.” “Tu ti ritieni carente affettivamente?” “No, infatti. Si dice che un bambino si mangia le unghie più frequente-mente se vive in un ambiente dove ci sono incomprensioni, litigi o quando

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nasce un fratello e si ha lʼimpressione di perdere lʼattenzione dei genitori. Ma nel mio caso non è così. Forse ho un carattere un poʼ ansioso e sfogo in que-sto modo la mia ansia.” “È quello che dicevo io: stress. Poi ovviamente ci può essere una predi-sposizione, cioè è possibile che qualcuno sia più sensibile allo stress di un altro.” “Si dice anche che lʼonicofagia si manifesti specialmente in soggetti ti-midi e remissivi che esprimono la loro aggressività rivolgendola verso sé stessi piuttosto che allʼesterno…” “Una forma di autolesionismo?” “Precisamente. Il rosicchiare le unghie può essere quindi una strana forma di etica sociale, tale per cui, anziché esprimere unʼazione aggressiva o competitiva verso lʼesterno, si.. divora sé stessi.” “Una sorta di autoantropofagia… Interessante. Ora che mi ci fai pensare a me accade anche quando assisto ad eventi sportivi che mi trasmettono un particolare desiderio di partecipazione.” “Ma siccome non puoi partecipare direttamente, ti mangi le unghie per-ché lʼaccumulo di energia indotta deve pure trovare uno sfogo verso qualcuno o qualcosa…” “Proprio così!” “Io ho notato che succede anche quando ho fame. Ma in effetti la fame può essere sia una normale reazione fisiologica dellʼorganismo sia lʼespres-sione di una tensione. Pensa alle malattie alimentari…” “Ho come lʼimpressione che tu abbia unʼaltra teoria…” “In effetti sì. Io penso che anche il modo in cui si mangia le unghie sia importante ed esprima un sintomo particolare, una causa particolare. Per esempio ci sono persone che se le divorano fino alla radice o se le mangiano quasi violentemente, strappandosene letteralmente dei pezzi!” “Dio, sì, che orrore…”

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“...In questi casi lʼautolesionismo è evidente. Ma per la maggior parte dei casi il gesto del mangiarsi le unghie comincia con il desiderio di livellare le imperfezioni della curva dellʼunghia. Ho dovuto pensare molto a tutte le fasi della attività per capirlo, ci ho messo anni!” “Addirittura.” “Sì, ti devi mettere lì a pensare, ecco, lo sto facendo, perché?, cosa vo-glio? E così per tutto il tempo dellʼattività, fino al sopraggiungere del senso di colpa…” “Io non mi sento troppo in colpa.” “Forse è perché tu sei davvero un autolesionista, anche se moderato. Anziché nuocere agli altri, preferisci nuocere a te stesso. Per te lʼonicofagia è un gesto morale e quindi ti senti anzi sollevato perché non hai fatto del male a nessuno… Ma nel mio caso, come in molti altri casi che ho osservato, pen-so che sia una forma di perfezionismo patologico. Dicevo che comincio a li-vellare le piccole imperfezioni. Siccome però i denti non sono un bisturi e per di più la loro azione non è sorvegliata dallo sguardo, ci si affida al tatto della lingua o allʼimmaginazione. Dopo un poʼ ci si accorge che si è livellato troppo da un lato e lʼunghia, che prima aveva solo una lieve sporgenza sul lato sini-stro, ora ha un curva decisamente asimmetrica verso destra. A questo punto bisogna assolutamente rimediare e si ricomincia a rosicchiare dallʼaltra parte con maggiore foga, quella foga tipica di chi deve correggere un errore alla svelta per rimediare ad un guaio non voluto. Taglia di qua, lima di là e la fritta-ta è fatta: dopo venti minuti di lavoro di cesello (ma senza cesello), ti ritrovi quelle caratteristiche incisioni in punta che non avresti mai desiderato. Volevi la perfezione e ti ritrovi più imperfetto di prima, hai sbagliato i calcoli, le ope-razioni, gli strumenti, sei avvilito. Ma rimane sempre lʼobiettivo, la perfezione. E quindi, appena lʼunghia ricresce un poʼ, via che si ricomincia.” “Una teoria interessante, anche se, inconsciamente, potrebbe anche essere che, sotto la maschera della ricerca della perfezione, ci sia la volontà ad essere imperfetti in qualcosa che, tutto sommato, è innocuo…”

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“Ma confermerebbe - per rigetto - la teoria del perfezionismo patologico. Ad ogni modo il mangiarsi le unghie non è del tutto innocuo: sotto le unghie si va ad annidare lo sporco di tutte le cose che tocchiamo, tutti i germi e i batteri delle cose che usiamo, che sono a loro volta ricoperte di polvere e sporco di ogni tipo, visibile e invisibile. Chi si mangia le unghie, si ammala più facilmen-te. Se il vizio si protrae a lungo, poi, può venire intaccata la sostanza ada-mantina dei denti e ciò favorisce la carie. Non sottovaluterei davvero le con-seguenze dellʼonicofagia. Senza contare che, se qualcuno vuole sempre fic-carsi una mano in bocca, alcuni esercizi che richiederebbero un uso maggio-re di entrambe le mani (come scrivere, guidare, suonare uno strumento, ec-cetera) diventano difficili e frustranti: insomma rischiamo di essere, senza vo-lerlo, meno efficienti.” “Diavolo, un bel quadretto davvero. E poi anche il perfezionismo patolo-gico, come lo chiami tu, nasconde una profonda e insanabile infelicità: chi rie-sce ad essere perfetto infatti?” “Proprio nessuno. Anche perché chi raggiungesse la perfezione in qual-cosa, perderebbe subito interesse in quella stessa cosa.” “Questo significa che…” “...che anche lʼimperfezione è inconsciamente voluta. Non si può scap-pare.” “E chi scappa? Siamo bloccati qui.” “Ma non per colpa della tua macchina. Senti adesso il motore? Funzio-na!” “Ah, bene. Grazie, grazie ancora.”

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DIALOGO TRA I DUE CHE AVEVANO LʼAUTORADIO ACCESA. “Bè siamo qui e da nessuna altra parte” “Cosa fa, il filosofo? Lo sa che se arrivo tardi, mi licenziano?” “Per carità, se poi muore di fame…” “Ah, un filosofo spiritoso, pure!” “Insomma, seriamente: pensa davvero che sia così vitale per lei, oggi, arrivare al lavoro? Sta veramente dicendo sul serio quando dice che se arriva tardi, per oggi, la licenziano?” “Bè, si dice per dire… ho comunque delle responsabilità…” “Insomma, se fosse stato male? Se fosse stato male un suo familiare o qualcuno che le avesse chiesto aiuto?” “...ma qui è diverso: cʼè questo stupido treno…” “Va bene, ma poiché ha ammesso che è possibile relativizzare, in-somma, vede che ho ragione a dire che siamo qui…?” “Ma cosa significa?” “Siamo fermi, capisce?” “Lo capisco sì, porca m***a!” “No che non capisce. Questa situazione è pazzesca, metaforica: siamo fermi! Fermi! Vedo da come mi guarda che non capisce ancora: glielo faccio capire in un linguaggio a lei più familiare, si tratta di poche domande… In-somma, dove cazzo va? Cosa sta facendo? Avanti e indietro avanti e indietro, somma e sottrazione, prendere e dare. Totale, zero. Siamo fermi. Capisce, adesso?” “Sì.” … “Sa, mia figlia si sposa.” “Ah, davvero? Bè, è una notizia.” “Già.” “Intendo.. proprio una notizia. Una bella notizia, no?” “Bè, vede.. per la verità, a me lui non piace molto.” “Ah. E come mai, se non sono indiscreto?” “Bè… io non posso dire di conoscerlo così a fondo, in verità, ma io penso che sia un poʼ troppo forzato nei modi. Con noi è come se recitasse

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sempre una parte e ho la dannata sensazione che quello faccia così sempre, sul lavoro e anche a casa. Temo che sarà una persona che vuole sempre le cose in modo da non scoprirsi, perché se supera una certa soglia… bè, potrebbe diventare persino pericoloso..” “Non sta esagerando?” “Crede, eh? Dia retta, non sono un padre possessivo. Certo, sono preoccupato per i miei figli come lo sarebbe qualunque padre, insomma, li vorremmo sempre felici e contenti. Ma non sono quello che vorrebbe sempre evitar loro le fatiche. Mi piace e mi rende orgoglioso il fatto che i miei figli siano autonomi ed entrare troppo nei loro affari mi disgusterebbe. Ma qui è una faccenda diversa. Sara ha perso completamente la testa…” “Bè, sarà innamorata.” “Perciò è bene che non si sposi! Per sposarsi bisogna essere lucidi, mica innamorati.” “Ma se si è troppo lucidi, non ci si sposa mai.. Un poʼ pazzerella bisogna che la sia…” “Ah, sembra che la macchina del signore col vestito grigio sia tornata a funzionare…” “Bene, i nostri eroi hanno riacquistato il loro potere e possono riprendere il cammino verso la meta prestabilita… Peccato che la strada sia ancora sbarrata.” “Già già… Uhm… Un vero peccato, eh?”

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DIALOGO TRA UNO DEI DUE SIGNORI CHE AVEVANO LʼAUTORADIO ACCESSA E IL TIZIO CHE AVEVA LA MACCHINA IN PANNE

“Tutto bene, allora?” “Sì, per un momento ho creduto di inchiodarvi qui tutto il giorno…” “Bè, lo siamo comunque, grazie al treno” “...grazie?” “Ah, bè… intendevo per colpa del treno. Dunque la giornata non era iniziata sotto i migliori auspici…” “Se è per quello, nemmeno quella di ieri, coerentemente con la mia meteopatia: quanto è piovuto ieri! Pioveva pioveva a dirotto, senza tregua. Ma al crepuscolo mi ha preso una strana sensazione, che fosse più freddo dentro la mia stanza che fuori. E sono uscito nella pioggia, ben coperto. E il rumore mi cullava, quasi fosse un massaggio, un suono terapeutico, uno sguardo ipnotico. E infatti ho visto lei.” “Lei chi? Una donna?” “Sì. Mi accarezzavi una guancia, la sinistra, con la mano destra; e io le sussurravo nelle orecchie che è stato tutto vero e irripetibile; che eravamo nudi su un letto a contemplarci; che mi chiedeve di leggerle un racconto e che non si stancava mai di ascoltarlo; che giravamo la città sulla sua macchina; che mi baciava alla stazione; che avevamo deciso di rimanere qualcosa di speciale l'un per l'altro; che entrambi accettavamo Qualcosa, tra il Nulla e il Tutto e che andava bene così. Poi ho chiuso l'ombrello, come il novembre di due anni fa e ho pianto, perché qualcosa si è preso e qualcosa si è perso, perché, nonostante abbia imparato ad accettare la realtà, il rimpianto di quello che poteva (e forse doveva) essere fa capolino, nella sua romantica tristezza e nella sua incomparabile bellezza…” “Su, coraggio. Oggi cʼè il sole e la sua macchina è riparata: meno malinconia e più… prospettiva. Dʼaccordo?” “Sì, mi scusi… Le sono sembrato sopprapensiero?” “Un tantino… Ma capita a tutti. Anzi non capita mai che uno stia sopra un pensiero; adesso che ce lo possiamo permettere, ha fatto bene ad approfittarne. La saluto.”

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HENRY SCENDE DALLA MACCHINA E VA A PARLARE CON LA DONNA DELLʼAUTOVETTURA DIETRO

“Oggi è più lunga del solito. Non ha niente di urgente da fare?” “A parte il lavoro? No” “Nessuno che lʼaspetti a casa?” “Qualcuno aspetta, ma non a casa” (ride) “Ah, ecco una soluzione moderna: fidanzati, ma in case separate” “Già: sposati senza anello” “Non sono gli anelli che fanno le coppie così come lʼabito non fa il monaco” “E non sono le case condivise che fanno le famiglie, come non sono le nozze che fanno l'amore” “Non è nemmeno il calendario che scandisce il tempo, in realtà. Però, se non lavorassimo almeno otto ore, qualcuno se la prende” “Non dico che i simboli non abbiano una certa utilità, ma nel tentativo di realizzare una realtà attraverso i simboli c'è molto di fasullo, ipocrita, comodo, semplicistico, illusorio.” “Già, ma anche i valori sottintesi possono essere frustranti, perché per comunicare qualcosa di invisibile tu hai bisogno del visibile. Quando abbiamo a che fare con l'invisibile o con l'astratto (l'eternità, per esempio..), abbiamo bisogno di confortare i sensi, di vedere, sentire, toccare. Perché è questo che fa il simbolo: collega l'invisibile con un (possibile) visibile; è vero che gli occhi si possono ingannare, ma in questo tentativo potrebbe anche esserci il significato profondo dell'impegno, dell'umiltà, dell'anelito all'alto, dell'ambizione. Perché talvolta le parole sono parole di vita e talvolta i simboli sono fatti, o meglio parlano di fatti (che sono stati o che non sono ancora), sono l'espressione di una volontà che si vuole comunicare al di fuori del sé.” “Già. Credo di capire questo punto di vista.” (Si avvicina il tizio della macchina in panne, che nel frattempo è stata riparata) “Dunque, va meglio lʼautomobile?”

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“Sì, grazie a quel signore laggiù. Sono venuto per scusarmi, non volevo risponderle male, ma mi sono sentito lo scemo del villaggio e allora ho reagito male.” “Anchʼio ho pensato male di lei ingiustamente, ho pensato che… era lo scemo del villaggio, ma invece ha avuto solo un piccolo guasto al motore.” “Non ho potuto fare a meno di sentire cosa diceva alla signorina. Sa che un mio amico si è sposato, invece, ma oggi non è più tanto convinto di questa scelta. Se avesse fatto come la signorina, oggi forse sarebbe più libero di ri-cominciare.” “Non so. Ogni scelta comporta comunque delle conseguenze che ren-dono sempre difficile tornare indietro sui tuoi passi. Che gli è successo?” “Un giorno si è messo lì a dire: vorrei una ragazza fatta così e cosà, che ha questo carattere, con questi valori, ecc. Ha fatto un piano, insomma. Ed è stato fortunato, perché lʼha trovata e lʼha sposata. Però la fiamma, quella che prima o poi si spegne, non si è mai accesa. Oggi è un poʼ pentito; è come se avesse un vestito stupendo che non scalda…” (La donna interrompe) “Pensi che a una mia amica (si chiama Bella ed è molto bella) è accadu-to lʼopposto: ha rinunciato ad un corteggiatore gentile, premuroso, che avreb-be potuto farle conoscere le gioie della quotidianità, la serenità della routine e darle una vita di affetto tenero e profondo. Era un uomo straordinario, discre-tamente abbiente, colto, sincero, generoso. Ma lei gli ha preferito un poco di buono che “la sapeva prendere”, che la mandava fuori di testa e riusciva a scatenarle le più disperata passioni. È inutile aggiungere che la storia non è durata a lungo. Però lei ancora rimpiange più la perdita di questʼultimo.” “Dando per scontato che non si può ottenere tutto, cʼè qualcuno che mette al primo posto la sicurezza e la responsabilità, lʼamore e il tentativo di costruire qualcosa; qualcun altro che privilegia la passione, le emozioni che ti fanno battere il cuore, il succhiare avidamente la vita giorno per giorno e la possibilità di buttarsi a capofitto nelle avventure.”

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CONCLUSIONE (PROVVISORIA) Un treno lontano emette un sibilo, la gente ammutolisce, si gira e corre in macchina. Anche Henry obbedisce al richiamo e tira su il vetro della portie-ra. Si sentono di nuovo le autoradio e il rombo dei motori: lo stridore di un freno sembra dissolvere, come con uno strappo perentorio, lʼatmosfera un poʼ ovattata e morbida di qualche secondo prima. Henry ha un ultimo pensiero per quella mattina strana, così… diversa, chiedendosi se lascerà una traccia. Cosa diceva il tipo dellʼauto? Era lui che si mangiava le unghie per eccesso di perfezionismo? O cosa diceva la bionda? Parlava dʼamore? Ma poi un clac-son lo riporta subito al presente futuro, che è un presente troppo breve per durare anche soltanto un momento. Gli oggetti tornano oggetti, la strada è solo il segmento irregolare che collega la casa con lʼufficio. Il palcoscenico è di nuovo grigio e la sigla di chiusura assordante. Gli attori continuano a recitare, ma non improvvisano più. Recitano il copione che sanno così a memoria da non accorgersi più che è solo un co-pione, comunque. E come un sipario al contrario, la barra del passaggio a livello si alza.

FINE

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