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A mia mamma Rosy A mio fratello Patrick A Francesca A Maria Rosa Grazie per il vostro sostegno e il vostro affetto

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A mia mamma Rosy A mio fratello Patrick

A Francesca A Maria Rosa

Grazie per il vostro sostegno e il vostro affetto

INDICE

Introduzione pag.01

CAPITOLO I: IL REPORTING DEGLI ATTENTATI

Quel 3 settembre 1982 pag.07

Cronaca di una morte annunciata pag.09

Istantanee sulla morte di Dalla Chiesa pag.10

La strage di Capaci: 23 maggio 1992 pag.12

Istantanee della strage di Capaci pag.18

L’autobomba di via D’Amelio: 19 luglio 1992 pag.19

La televisione sempre più tempestiva pag.24

CAPITOLO II: UN ANNO DOPO

Le commemorazioni di Carlo Alberto Dalla Chiesa… pag.26

…e le polemiche pag.29

Falcone e Borsellino, ancora insieme pag.31

La televisione pag.35

CAPITOLO III: LA COSTRUZIONE DELLA MEMORIA

Dieci anni nel ricordo di Carlo Alberto Dalla Chiesa pag.40

Il 1986: l’anno del non ricordo e del maxiprocesso pag.42

Proseguono le commemorazioni pag.44

Dalla carta stampata alla televisione pag.45

Giovanni Falcone commemorato da quattordici anni pag.47

Le commemorazioni televisive su Falcone pag.52

La stampa ricorda Paolo Borsellino pag.55

CAPITOLO IV: QUANDO FILM E FICTION PARLANO DI MAFIA

Giuseppe Ferrara, cineasta sensibile alla mafia pag.59

I film pag.60

I fruitori dei film su Dalla Chiesa e Falcone pag.64

Le fiction pag.66

I dati auditel delle due fiction pag.69

Le recensioni pag.69

CAPITOLO V: PAGINE DI MAFIA

In nome del popolo italiano pag.72

Storia di Giovanni Falcone pag.74

Il valore di una vita pag.76

Confronti pag.77

BIOGRAFIE pag.79

ELENCO MATERIALI pag.92

In quest’articolo pubblicato da "L'Unità" il 31 maggio 1992, otto giorni dopo la strage di Capaci, il giudice Giovanni Falcone traccia con chiarezza un quadro dell'evoluzione di Cosa Nostra a partire dal dopoguerra e denuncia la sottovalutazione che, per molto tempo, ha caratterizzato l'approccio delle istituzioni al problema della mafia.

IO, FALCONE, VI SPIEGO COS’È LA MAFIA

Nella relazione finale della Commissione d'inchiesta Franchetti-Sonnino del

lontano 1875/76 si legge che «la mafia non è un'associazione che abbia forme stabili e

organismi speciali... Non ha statuti, non ha compartecipazioni di lucro, non tiene riunioni,

non ha capi riconosciuti, se non i più forti ed i più abili; ma è piuttosto lo sviluppo ed il

perfezionamento della prepotenza diretta ad ogni scopo di male». Si legge ancora: «Questa

forma criminosa, non... specialissima della Sicilia», esercita «sopra tutte queste varietà di

reati»...«una grande influenza» imprimendo «a tutti quel carattere speciale che distingue

dalle altre la criminalità siciliana e senza la quale molti reati o non si commetterebbero o

lascerebbero scoprirne gli autori»; si rileva, inoltre, che «i mali sono antichi, ma ebbero ed

hanno periodi di mitigazione e di esacerbazione» e che, già sotto il governo di re

Ferdinando, la mafia si era infiltrata anche nelle altre classi, cosa che da alcune

testimonianze è ritenuta vera anche oggidì». Già nel secolo scorso, quindi, il problema

mafia si manifestava in tutta la gravità; infatti si legge nella richiamata relazione:«Le forze

militari concentrate per questo servizio in Sicilia risultavano 22 battaglioni e mezzo fra

fanteria e bersaglieri, due squadroni di cavalleria e quattro plotoni di bersaglieri montani,

oltre i Carabinieri in numero di 3120». Da allora, bisogna attendere i tempi del prefetto

Mori per registrare un tentativo di seria repressione del fenomeno mafioso, ma i limiti di

quel tentativo sono ben noti a tutti. Nell'immediato dopoguerra e fino ai tragici fatti di

sangue della prima guerra di mafia degli anni 1962/1963 gli organismi responsabili ed i

mezzi di informazione sembrano fare a gara per minimizzare il fenomeno. Al riguardo,

appaiono significativi i discorsi di inaugurazione dell'anno giudiziario pronunciati dai

Procuratori Generali di Palermo. Nel discorso inaugurale del 1954, il primo del

dopoguerra, si insisteva nel concetto che la mafia «più che una associazione tenebrosa

costituisce un diffuso potere occulto», ma non si manca di fare un accenno alla gravissima

vicenda del banditismo ed ai comportamenti non ortodossi di “qualcuno che avrebbe

dovuto e potuto stroncare l'attività criminosa”; il riferimento è chiaro, riguarda il

Procuratore Generale di Palermo, dottor Pili espressamente menzionato nella sentenza

emessa dalla Corte d'Assise di Viterbo il 3/5/1952: «Giuliano ebbe rapporti, oltre che con

funzionari di Pubblica Sicurezza, anche con un magistrato, precisamente con chi era a capo

della Procura Generale presso la Corte d'appello di Palermo: Emanuele Pili». Nella

relazioni inaugurali degli anni successivi gli accenni alla mafia, in piena armonia con un

clima generale di minimizzazione del problema, sono fugaci e del tutto rassicuranti. Così,

nella relazione del 1956 si legge che il fenomeno della delinquenza associata è scomparso

e, in quella del 1957, si accenna appena a delitti di sangue da scrivere, si dice ad «opposti

gruppi di delinquenti». Nella relazione del 1967, si asserisce che il fenomeno della

criminalità mafiosa era entrato in una fase di «lenta ma costante sua eliminazione» e, in

quella del 1968, si raccomanda l'adozione della misura di prevenzione del soggiorno

obbligato, dato che «il mafioso fuori del proprio ambiente diventa pressoché innocuo».

Questi brevissimi richiami storici danno la misura di come il problema mafia sia stato

sistematicamente valutato da parte degli organismi responsabili benché il fenomeno, nel

tempo, lungi dall'esaurirsi, abbia accresciuto la sua pericolosità. E non mi sembra

azzardato affermare che una delle cause dall'attuale virulenza della mafia risieda, proprio,

nella scarsa attenzione complessiva dello Stato nei confronti di questa secolare realtà.

Debbo registrare con soddisfazione, dunque, il discorso pronunciato dal Capo della Polizia,

Vincenzo Parisi, alla Scuola di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza. In tale

intervento, particolarmente significativo per l'autorevolezza della fonte, il Capo della

Polizia, in sostanza, individua nella criminalità organizzata e in quella economica i

proventi della maggior parte delle attività illecite del nostro paese tra le quali spiccano

soprattutto il traffico di stupefacenti e il commercio clandestino di armi. Sottolineando che

la criminalità organizzata - e quella mafiosa in particolare - è, come si sostiene in

quell'intervento, «la più significativa sintesi delinquenziale fra elementi atavici... e

acquisizioni culturali moderne ed interagisce sempre più frequentemente con la criminalità

economica, allo scopo di individuare nuove soluzioni per la ripulitura ed il reimpiego del

denaro sporco». L'argomentazione del prefetto Parisi, ovviamente fondata su dati concreti,

ha riacceso l'attenzione sulla specifica realtà delle organizzazioni criminali e denuncia, con

toni giustamente allarmanti, il pericolo di una saldatura tra criminalità tradizionale e

criminalità degli affari: un pericolo che minaccia la stessa sopravvivenza delle istituzioni

democratiche come ci insegnano le esperienze di alcuni paesi del Terzo mondo, in cui i

trafficanti di droga hanno acquisito una potenza economica tale che si sono perfino offerti -

ovviamente, non senza contropartite - di ripianare il deficit del bilancio statale. Ci si

domanda allora, come sia potuto accadere che una organizzazione criminale come la mafia

anziché avviarsi al tramonto, in correlazione col miglioramento delle condizioni di vita e

del funzionamento complessivo delle istituzioni, abbia, invece, vieppiù accresciuto la sua

virulenza e la sua pericolosità. Un convincimento diffuso è quello - che ha trovato ingresso

perfino in alcune sentenze della Suprema Corte - secondo cui oggi saremmo in presenza di

una nuova mafia, con le connotazioni proprie di un'associazione criminosa, diversa dalla

vecchia mafia, che non sarebbe stata altro che l'espressione, sia pure distorta ed esasperata,

di un “comune sentire” di larghe fasce delle popolazioni meridionali. In altri termini, la

mafia tradizionale non esisterebbe più e dalle sue ceneri sarebbe sorta una nuova mafia,

quella mafia imprenditrice per intenderci, così bene analizzata dal prof. Arlacchi.

Tale opinione è antistorica e fuorviante. Anzitutto, occorre sottolineare con vigore che

Cosa Nostra (perché questo è il vero nome della mafia) non è e non si è mai identificata

con quel potere occulto e diffuso di cui si è favoleggiato fino a tempi recenti, ma è una

organizzazione criminosa - unica ed unitaria - ben individuata ormai nelle sue complesse

articolazioni, che ha sempre mantenuto le sue finalità delittuose. Con ciò, evidentemente,

non si intende negare che negli anni Cosa Nostra abbia subito mutazioni a livello

strutturale e operativo e che altre ne subirà, ma si vuole sottolineare che tutto è avvenuto

nell'avvio di una continuità storica e nel rispetto delle regole tradizionali. E proprio la

particolare capacità della mafia di modellare con prontezza ed elasticità i valori arcaici alle

mutevoli esigenze dei tempi costituisce una della ragioni più profonde della forza di tale

consorteria, che la rende tanto diversa. Se oltre a ciò, si considerano la sua capacità di

mimetizzazione nella società, la tremenda forza di intimidazione derivante dalla

inesorabile ferocia delle “punizioni” inflitte ai trasgressori o a chi si oppone ai suoi disegni

criminosi, l'elevato numero e la statura criminale dei suoi adepti, ci si può rendere però

conto dello straordinario spessore di questa organizzazione sempre nuova e sempre uguale

a sé stessa. Altro punto fermo da tenere ben presente è che, al di sopra dei vertici

organizzativi, non esistono “terzi livelli” di alcun genere, che influenzino e determinino gli

indirizzi di Cosa Nostra. Ovviamente, può accadere ed è accaduto, che, in determinati casi

e a determinate condizioni, l'organizzazione mafiosa abbia stretto alleanze con

organizzazioni similari ed abbia prestato ausilio ad altri per fini svariati e di certo non

disinteressatamente; gli omicidi commessi in Sicilia, specie negli ultimi anni, sono la

dimostrazione più evidente di specifiche convergenze di interessi fra la mafia ed altri centri

di potere. “Cosa Nostra” però, nelle alleanze, non accetta posizioni di subalternità;

pertanto, è da escludere in radice che altri, chiunque esso sia, possa condizionarne o

dirigerne dall'esterno le attività. E, in verità, in tanti anni di indagini specifiche sulle

vicende di mafia, non è emerso nessun elemento che autorizzi nemmeno il sospetto

dell'esistenza di una “direzione strategica” occulta di Cosa Nostra. Gli uomini d'onore che

hanno collaborato con la giustizia, alcuni dei quali figure di primo piano

dell'organizzazione, ne sconoscono l'esistenza. Lo stesso dimostrato coinvolgimento di

personaggi di spicco di Cosa Nostra in vicende torbide ed inquietanti come il golpe

Borghese ed il falso sequestro di Michele Sindona non costituiscono un argomento “a

contrario” perché hanno una propria specificità tutte ed una peculiare giustificazione in

armonia con le finalità dell'organizzazione mafiosa. E se è vero che non pochi uomini

politici siciliani sono stati, a tutti gli effetti, adepti di “Cosa Nostra”, è pur vero che in seno

all'organizzazione mafiosa non hanno goduto di particolare prestigio in dipendenza della

loro estrazione politica. Insomma Cosa Nostra ha tale forza, compattezza ed autonomia che

può dialogare e stringere accordi con chicchessia mai però in posizioni di subalternità.

Queste peculiarità strutturali hanno consentito alla mafia di conquistare un ruolo

egemonico nel traffico, anche internazionale, dell'eroina. Ma, per comprendere meglio le

cause dell'insediamento della mafia nel lucroso giro della droga, occorre prendere le mappe

del contrabbando di tabacchi, una delle più tradizionali attività illecite della mafia. Il

contrabbando è stato a lungo ritenuto una violazione di lieve entità perfino negli ambienti

investigativi e giudiziari ed il contrabbandiere è stato addirittura tratteggiato dalla

letteratura e dalla filmografia come un romantico avventuriero. La realtà era però ben

diversa, essendo il contrabbandiere un personaggio al soldo di Cosa Nostra, se non

addirittura un mafioso egli stesso ed il contrabbando si è rivelato un'attività ben più

pericolosa di quella legata ad una violazione di un interesse finanziario dello Stato, in

quanto ha fruttato ingenti guadagni che hanno consentito l'ingresso nel mercato degli

stupefacenti della mafia ed ha aperto e collaudato quei canali internazionali - sia per il

trasporto della merce sia per il riciclaggio del danaro - poi utilizzati per il traffico di

stupefacenti.

Occorre precisare, a questo proposito, che già nel contrabbando di tabacchi, si realizzano

importanti novità della struttura mafiosa. È ormai di comune conoscenza che Cosa Nostra è

organizzata come una struttura piramidale basata sulla “famiglia” e ogni “uomo d'onore”

voleva intrattenere rapporti di affari prevalentemente con gli altri membri della stessa

“famiglia” e solo sporadicamente con altre famiglie, essendo riservato ai vertici delle varie

“famiglie” il coordinamento in seno agli organismi direttivi provinciali e regionale.

Assunta la gestione del contrabbando di tabacchi - che comporta l'impiego di consistenti

risorse umane in operazioni complesse che non possono essere svolte da una sola famiglia

- sorge la necessità di associarsi con membri di altre famiglie e, perfino, con personaggi

estranei a Cosa Nostra. Per effetto dell'allargamento dei rapporti di affari con altri soggetti

spesso non mafiosi sorge la necessità di creare strutture nuove di coordinamento che, pur

controllate da Cosa Nostra, con la stessa non si identificassero. Si formano, così,

associazioni di contrabbandieri, dirette e coordinate da “uomini d'onore”, che non si

identificavano, però, con Cosa Nostra, associazioni aperte alla partecipazione saltuaria di

altri “uomini d'onore” non coinvolti operativamente nel contrabbando, previo assenso e

nella misura stabilita dal proprio capo famiglia. In pratica, dunque, l'antica, rigida

compartimentazione degli “uomini d'onore” in “famiglie” ha cominciato a cedere il posto a

strutture più allargate e ad una diversa articolazione delle alleanze in seno

all'organizzazione. Cosa Nostra però non si limita ad esercitare il controllo indiretto su

altre organizzazioni criminali similari, specialmente nel Napoletano, per assicurare un

efficace funzionamento delle attività criminose. Il fatto che esiste anche a Napoli una

“famiglia” mafiosa dipendente direttamente dalla “provincia” di Palermo, non deve stupire

perché la presenza di “famiglie” mafiose o di sezioni delle stesse (le cosiddette “decine”),

fuori della Sicilia, ed anche all'estero, è un fenomeno risalente negli anni. La stessa Cosa

Nostra statunitense, in origine, non era altro che un insieme di “famiglie” costituenti diretta

filiazione di Cosa Nostra siciliana. Quando Cosa Nostra interviene sul contrabbando presso

la malavita napoletana, dunque, lo fa allo scopo dichiarato di sanare i contrasti interni ma

più verosimilmente con l'intenzione di fomentare la discordia per assumere la direzione

dell'attività.

Ecco perché, nel corso degli anni, sono stati individuati collegamenti importanti tra

esponenti di spicco della mafia isolana e noti camorristi campani, difficilmente spiegabili

già allora con semplici contatti fra organizzazioni criminali diverse.

Ed ecco, dunque, perché il contrabbando di tabacchi costituì una spinta decisiva al

coordinamento fra organizzazioni criminose, tradizionalmente operanti in territori distinti;

coordinamento la cui pericolosità è intuitiva. Nella seconda metà degli anni '70, pertanto,

Cosa Nostra con le sue strutture organizzative, coi canali operativi e di riciclaggio già

attivati per il contrabbando e con le sue larghe disponibilità finanziarie, aveva tutte le carte

in regola per entrare, non più in modo episodico come nel passato, nel grande traffico degli

stupefacenti.

In più, la presenza negli Usa di un folto gruppo di siciliani collegati con Cosa Nostra

garantiva la distribuzione della droga in quel paese. Non c'è da meravigliarsi, allora, se la

mafia siciliana abbia potuto impadronirsi in breve tempo del traffico dell'eroina verso gli

Stati Uniti d'America. Anche nella gestione di questo lucroso affare l'organizzazione ha

mostrato la sua capacità di adattamento avendo creato, in base all'esperienza del

contrabbando, strutture agili e snelle che, per lungo tempo, hanno reso pressoché

impossibili le indagini. Alcuni gruppi curavano l'approvvigionamento della morfina-base

dal Medio e dall'Estremo Oriente; altri erano addetti esclusivamente ai laboratori per la

trasformazione della morfina-base in eroina; altri, infine, si occupavano dell'esportazione

dell'eroina verso gli Usa. Tutte queste strutture erano controllate e dirette da “uomini

d'onore”. In particolare, il funzionamento dei laboratori clandestini, almeno agli inizi, era

attivato da esperti chimici francesi, reclutati grazie a collegamenti esistenti con il “milieu”

marsigliese fin dai tempi della cosiddetta “French connection”. L'esportazione della droga,

come è stato dimostrato da indagini anche recenti, veniva curata spesso da organizzazioni

parallele, addette al reclutamento dei corrieri e collegate a livello di vertice con “uomini

d'onore” preposti a tale settore del traffico. Si tratta dunque di strutture molto articolate e

solo apparentemente complesse che, per lunghi anni, hanno funzionato egregiamente,

consentendo alla mafia ingentissimi guadagni. Un discorso a sé merita il capitolo del

riciclaggio del danaro. Cosa Nostra ha utilizzato organizzazioni internazionali, operanti in

Italia, di cui si serviva già fin dai tempi del contrabbando di tabacchi, ma è ovvio che i

rapporti sono divenuti assai più stretti e frequenti per effetto degli enormi introiti, derivanti

dal traffico di stupefacenti. Ed è chiaro, altresì, che nel tempo i sistemi di riciclaggio si

sono sempre più affinati in dipendenza sia delle maggiori quantità di danaro disponibili, sia

soprattutto dalla necessità di eludere investigazioni sempre più incisive.

Per un certo periodo il sistema bancario ha costituito il canale privilegiato per il riciclaggio

del danaro. Di recente, è stato addirittura accertato il coinvolgimento di interi paesi nelle

operazioni bancarie di cambio di valuta estera. Senza dire che non poche attività illecite

della mafia, costituenti per sé autonoma fonte di ricchezza (come, ad esempio, le cosiddette

truffe comunitarie), hanno costituito il mezzo per consentire l'afflusso in Sicilia di ingenti

quantitativi di danaro, già ripulito all'estero, quasi per intero proveniente dal traffico degli

stupefacenti.

Quali effetti ha prodotto in seno all'organizzazione di Cosa Nostra la gestione del traffico

di stupefacenti? Contrariamente a quanto ritenevano alcuni mafiosi più tradizionalisti, la

mafia non si è rapidamente dissolta ma ha accentuato le sue caratteristiche criminali.

Le alleanze orizzontali fra uomini d'onore di diverse “famiglie” e di diverse “province”

hanno favorito il processo, già in atto da tempo, di gerarchizzazione di Cosa Nostra ed al

contempo, indebolendo la rigida struttura di base, hanno alimentato mire egemoniche.

Infatti, nei primi anni '70 per assicurare un migliore controllo dell'organizzazione, veniva

costituito un nuovo organismo verticale, la “commissione” regionale, composta dai capi

delle province mafiose siciliane col compito di stabilire regole di condotta e di applicare

sanzioni negli affari concernenti Cosa Nostra nel suo complesso. Ma le fughe in avanti di

taluni non erano state inizialmente controllate. Esplode così nel 1978 una violenta contesa

culminata negli anni 1981-1982. Due opposte fazioni si affrontano in uno scontro di una

ferocia senza precedenti che investiva tutte le strutture di Cosa Nostra, causando centinaia

di morti. I gruppi avversari aggregavano uomini d'onore delle più varie famiglie spinti

dall'interesse personale - a differenza di quanto accadeva nella prima guerra di mafia

caratterizzata dallo scontro tra le famiglie - e ciò a dimostrazione del superamento della

compartimentazione in famiglie. La sanguinaria contesa non ha determinato - come

ingenuamente si prevedeva - un indebolimento complessivo di Cosa Nostra ma, al

contrario, un rafforzamento ed un rinsaldamento delle strutture mafiose, che, depurate

degli elementi più deboli (eliminati nel conflitto), si ricompattavano sotto il dominio di un

gruppo egemone accentuando al massimo la segretezza ed il verticismo. Il nuovo gruppo

dirigente a dimostrazione della sua potenza, a cominciare dall'aprile 1982, ha iniziato ad

eliminare chiunque potesse costituire un ostacolo. Gli omicidi di Pio La Torre, di Carlo

Alberto Dalla Chiesa, di Rocco Chinnici, di Giangiacomo Ciaccio Montalto, di Beppe

Montana, di Ninni Cassarà, al di là delle specifiche ragioni della eliminazione di ciascuno

di essi, testimoniano una drammatica realtà. E tutto ciò mentre il traffico di stupefacenti e

le altre attività illecite andavano a gonfie vele nonostante l'impegno delle forze dell'ordine.

La collaborazione di alcuni elementi di spicco di Cosa Nostra e la conclusione di inchieste

giudiziarie approfondite e ponderose hanno inferto indubbiamente un duro colpo alla

mafia. Ma se la celebrazione tra difficoltà di ogni genere di questi processi ha indotto Cosa

Nostra ad un ripensamento di strategie, non ha determinato l'inizio della fine del fenomeno

mafioso.

Il declino della mafia più volte annunciato non si è verificato, e non è, purtroppo,

prevedibile nemmeno. È vero che non pochi “uomini d'onore”, diversi dei quali di

importanza primaria, sono in atto detenuti; tuttavia i vertici di Cosa Nostra sono latitanti e

non sono sicuramente costretti all'angolo. Le indagini di polizia giudiziaria, ormai da

qualche anno, hanno perso di intensità e di incisività a fronte di una organizzazione

mafiosa sempre più impenetrabile e compatta talché le notizie in nostro possesso sulla

attuale consistenza dei quadri mafiosi e sui nuovi adepti sono veramente scarse.

Né è possibile trarre buoni auspici dalla drastica riduzione dei fatti di sangue peraltro

circoscritta al Palermitano e solo in minima parte ascrivibile all'azione repressiva. La

tregua iniziata è purtroppo frequentemente interrotta da assassinii di mafiosi di rango,

segno che la resa dei conti non è finita e soprattutto da omicidi dimostrativi che hanno

creato notevole allarme sociale; si pensi agli omicidi dell'ex sindaco di Palermo, Giuseppe

Insalaco e dell'agente della PS Natale Mondo, consumati appena qualche mese addietro. Si

ha l'eloquente conferma che gli antichi, ibridi connubi tra criminalità mafiosa e occulti

centri di potere costituiscono tuttora nodi irrisolti con la conseguenza che, fino a quando

non sarà fatta luce su moventi e su mandanti dei nuovi come dei vecchi “omicidi

eccellenti”, non si potranno fare molti passi avanti. Malgrado i processi e le condanne,

risulta da inchieste giudiziarie ancora in corso che la mafia non ha abbandonato il traffico

di eroina e che comincia ad interessarsi sempre più alla cocaina; e si hanno già notizie

precise di scambi tra eroina e cocaina già in America, col pericolo incombente di contatti e

collegamenti - la cui pericolosità è intuitiva - tra mafia siciliana ed altre organizzazioni

criminali italiane e sudamericane. Le indagini per la individuazione dei canali di

riciclaggio del denaro proveniente dal traffico di stupefacenti sono rese molto difficili, sia a

causa di una cooperazione internazionale ancora insoddisfacente, sia per il ricorso, da parte

dei trafficanti, a sistemi di riciclaggio sempre più sofisticati. Per quanto riguarda poi le

attività illecite, va registrato che accanto ai crimini tradizionali come ad esempio le

estorsioni sistematizzate, e le intermediazioni parassitarie, nuove e più insidiose attività

cominciano ad acquisire rilevanza. Mi riferisco ai casi sempre più frequenti di imprenditori

non mafiosi, che subiscono da parte dei mafiosi richieste perentorie di compartecipazione

all'impresa e ciò anche allo scopo di eludere le investigazioni patrimoniali rese obbligatorie

dalla normativa antimafia. Questa, in brevissima sintesi, è la situazione attuale che, a mio

avviso, non legittima alcun trionfalismo. Mi rendo conto che la fisiologica stanchezza

seguente ad una fase di tensione morale eccezionale e protratta nel tempo ha determinato

un generale clima, se non di smobilitazione, certamente di disimpegno e, per quanto mi

riguarda, non ritengo di aver alcun titolo di legittimazione per censurare chicchessia e per

suggerire rimedi. Ma ritengo mio preciso dovere morale sottolineare, anche a costo di

passare per profeta di sventure, che continuando a percorrere questa strada, nel futuro

prossimo, saremo costretti a confrontarci con una realtà sempre più difficile.

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INTRODUZIONE

Qual è la reale potenza dei mass-media? Possono televisione, giornali, editoria,

cinema osannare o dimenticare dei personaggi che hanno dato un contributo tangibile

all’Italia, o riuscire a commemorarli a dovere?

Sono stati questi i primi quesiti che mi sono posta quando ho deciso di intraprendere

l’argomento della costruzione della memoria collettiva legata alle stragi di mafia quale

tema per la mia dissertazione finale.

Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono accomunati da un

medesimo destino: essere stati assassinati dalla mafia che cercavano di sconfiggere, rei di

aver creduto in ideali che li avevano indotti a pensare di poter raggiungere, prima o poi, il

loro obiettivo.

Ognuno di noi ha cognizione di chi siano queste tre personalità: ne conosce gli estremi

biografici, le cause della morte, le battaglie intraprese. Tuttavia, se periodicamente i mass-

media, tramite diversi espedienti, non avessero continuato a ragionare di loro,

probabilmente molti ricordi a loro legati sarebbero offuscati. Un impegno importante, che

non sempre è stato assolto in maniera puntuale e doverosa, soprattutto per quanto riguarda

la televisione e la carta stampata.

L’obiettivo di questo lavoro è dunque dimostrare come i quotidiani, la televisione,

l’editoria, il cinema e le fiction abbiano commemorato Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino,

e con quale tempistica. Per ottenere un simile risultato, ho preso in considerazione tutti i

diversi medium sopra elencati.

Per quanto attiene la carta stampata, ho esaminato il quotidiano “La Stampa”. Dal 1982 al

2006 ho raccolto tutti gli articoli relativi a queste tre personalità e alle commemorazioni a

loro legate: le stesse peraltro non si svolgevano solo in occasione degli anniversari, ma

anche nel corso dell’anno.

Nell’analizzare gli articoli ho inoltre tenuto conto della loro collocazione all’interno del

quotidiano: quando occupavano la prima pagina, quando vi era su di essa solo un richiamo

alle pagine interne, che tipo di taglio veniva dato, se vi era o meno la presenza di fotografie

all’interno di tali articoli. Ciò che ho potuto notare è che, con il passare degli anni, sempre

più spesso le notizie relative alle commemorazioni di Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino

apparivano solamente nelle pagine interne, spesso sottoforma di un trafiletto a destra della

pagina, che in alcuni casi al primo colpo d’occhio potrebbe persino sfuggire.

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Dalla lettura di tali articoli si evince che la stesura degli stessi è affidata da sempre agli

stessi giornalisti, gli unici che hanno deciso di scrivere di mafia e di fare dei loro scritti un

atto di denuncia sociale. Ritornano quindi le firme di Francesco La Licata, Saverio Lodato,

Attilio Bolzoni, Antonio Ravidà, riscontrabili anche nel campo dell’editoria attinente

all’argomento.

La sezione relativa alla televisione si è concretizzata grazie al supporto dell’Archivio Rai

di Torino. La sede valdostana della tv di Stato non ha infatti prestato attenzione alle mie

richieste, al contrario di quanto avvenuto nel capoluogo piemontese. Mi è stata quindi

offerta la possibilità di visionare tutti i documenti relativi alle morti di Dalla Chiesa,

Falcone e Borsellino, oltre che tutte le trasmissioni confezionate per commemorarli,

soprattutto in occasione dei loro anniversari di morte. Un lavoro che ha fatto emergere le

diversità di realizzazione dei filmati mutate nel corso degli anni: si passa dalla notizia

statica e asciutta della morte del generale Dalla Chiesa data con l’edizione della notte del

telegiornale di Rai Uno alle immagini in diretta delle stragi di Capaci e di via D’Amelio:

un confronto risultato sicuramente interessante dal punto di vista personale.

La carta stampata e la televisione hanno giocato un ruolo primario per la diffusione delle

notizie delle stragi e per la cronaca dei giorni che seguirono tali eccidi; sempre questi due

mass-media sono stati presi come riferimento per quanto attiene le diverse

commemorazioni, in quanto a loro spettava il compito immediato di divulgare le

informazioni relative a cortei e manifestazioni indetti in memoria di Dalla Chiesa, Falcone

e Borsellino.

Il mio lavoro dunque si è basato sull’analisi di questi due medium per quanto riguarda il

“come” sono state diffuse le notizie delle tragiche morti e delle commemorazioni mensili o

annuali, ma non solo. Ho inoltre analizzato le pellicole cinematografiche, le fiction e i libri

legati a tali uomini antimafia, anche se tali prodotti non sono quasi mai stati confezionati in

occasione di commemorazioni legate alle tre date: 3 settembre, 23 maggio e 19 luglio.

Per ciò che concerne i film, ho riscontrato che ne sono stati prodotti solamente due,

dedicati rispettivamente a Carlo Alberto Dalla Chiesa e Giovanni Falcone, proiettati per la

prima volta rispettivamente nel 1984 e nel 1993. Nel visionarli ho cercato di comprendere

il punto di vista del regista: che cosa ha voluto raccontare, quali aspetti ha posto in rilievo e

quali ha trascurato, che figura è emersa dal racconto del cineasta; nel capitolo dedicato ai

film e alle fiction non vi saranno quindi solamente recensioni degli stessi, ma analisi di tali

lavori.

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La stessa scelta è stata adoperata per l’esame delle due fiction su Falcone e Borsellino. Non

ho ritenuto opportuno confrontare il film e la fiction su Falcone in quanto ritengo che i due

prodotti siano a priori molto diversi tra loro, per tempi di realizzazione, per costi, ma

soprattutto per fruizione.

I libri, che rappresentano l’ultimo capitolo della mia tesi, sono in realtà il primo medium al

quale mi sono interessata. Quando infatti ho iniziato, diversi anni fa, ad appassionarmi

all’argomento criminalità organizzata e alle figure di uomini antimafia, per prima cosa ho

iniziato a documentarmi leggendo vari libri sull’argomento. Anche in questo caso la lettura

è stata di tipo critico, per capire personalmente in prima istanza e successivamente spiegare

ai fruitori del mio scritto le intenzioni degli autori dei vari libri esaminati.

La parte che maggiormente mi ha coinvolta è stata quella relativa all’analisi delle raccolte

de “La Stampa”. Leggere diversi articoli scritti da grandi firme e verificare come tali lavori

siano stati impaginati ha rappresentato per me una lieve crescita dal punto di vista

professionale, considerato il fatto che collaboro da anni per un settimanale locale della

Valle d’Aosta.

Dal punto di vista umano sono stata più colpita dalla visione dei film e delle fiction, dove

spesso ho piacevolmente riscontrato delle analogie con i testi letti a riguardo; si tratta a mio

giudizio di un aspetto rilevante, in quanto sinonimo di fedele trasposizione della realtà.

In questa sede ritengo opportuno anticipare una serie di considerazioni. Posso infatti

affermare che vi sono delle diversità di costruzione della memoria dei tre diversi

personaggi. Semplificando il concetto, dal mio lavoro è emerso che Carlo Alberto Dalla

Chiesa è stato il personaggio meno ricordato e commemorato, mentre Giovanni Falcone

incarna l’uomo anti mafia per eccellenza, l’eroe di un’Italia che lotta contro la mafia.

A supporto di quanto sopra dichiarato, sottolineo che le commemorazioni relative alla

morte del Generale si sono svolte sino al 1991: nel 1992, nonostante ricorresse il suo

decennale, non vi sono né messe né celebrazioni ufficiali, e credo che questo sia da

imputare al fatto che quell’anno sono avvenute le stragi di Capaci e via D’Amelio.

Quest’aspetto tra l’altro è tipico del modo attuale di fare giornalismo: la notizia più recente

fa dimenticare quella passata, anche se di uguale importanza o inerente al medesimo

argomento.

Anche la memoria di Paolo Borsellino non gode della stessa attenzione che i mass-media

rivolgono verso quella del suo amico e collega Giovanni Falcone. A questo punto viene da

chiedersi perché. Perché i mezzi di comunicazione hanno in qualche modo eletto il

magistrato di Palermo simbolo della lotta alla mafia, discriminando altre due personalità

4

che si erano battute per lo stesso obiettivo e che hanno pagato la loro scelta nello stesso

modo di Falcone? Di fatto Giovanni Falcone è l’uomo maggiormente nominato sui

quotidiani, soprattutto a lui vengono dedicati convegni, messe, cerimonie, sia il piccolo che

il grande schermo realizzano dei prodotti sulla sua biografia, e anche l’editoria si occupa

maggiormente della sua figura.

Secondo il mio punto di vista, la strage di Capaci rappresenta una svolta. Una sorta di

spartiacque tra la vecchia e la nuova mafia, quella che prima colpiva a volto scoperto

uccidendo in mezzo a una strada a colpi di fucile (come Dalla Chiesa) e che ora preferisce

nascondersi dietro il tasto di un detonatore. Non più proiettili ma tritolo, non più assassini

che affrontano la loro vittima ma esecutori che spiano da lontano i movimenti del loro

bersaglio e colpiscono a distanza, come per Falcone e per Borsellino.

La strage di Capaci ha anche cambiato il modo di fare notizia, per quanto attiene i delitti

mafiosi. Scompaiono i sotto pancia, le notizie delle edizioni notturne dei telegiornali per

fare spazio alle edizioni in diretta di questi ultimi: ai cittadini vengono spesso fornite

notizie sommarie, appena reperite da agenti di polizia presenti sul posto o dai passanti, ma

esse sono supportate da immagini molto eloquenti destinate a rimanere indelebili nella

memoria e nel tempo.

La televisione e i giornali hanno veicolato una serie di messaggi visivi, in qualche modo

universali. L’autostrada divelta, il rumore delle sirene, polvere e macerie ovunque, ma non

solo. Dei funerali delle tre personalità si ricordano gli applausi della folla rivolti ai feretri,

ma anche i fischi e gli insulti all’indirizzo dei politici presenti alle funzioni religiose. Di

quei momenti, tuttavia, rimane scolpito nella memoria il discorso della vedova di Vito

Schifani, uno degli agenti della scorta di Falcone. Come se quelle parole potessero fare in

qualche modo comprendere ai lettori e ai telespettatori il dolore di quelle famiglie, vittime

a loro volta della mafia; si vuole far intendere di una collusione tra mafia e politica, ed è

emblematica la scena in cui il prete toglie la parola alla vedova che stava pronunciando il

suo discorso dal pulpito: come se stesse dicendo delle verità scomode che non dovevano

essere ascoltate, come se la Chiesa si vergognasse per quelle dichiarazioni, o, peggio,

avesse paura. Il messaggio del rapporto tra mafia e politica e il fatto che questi tre

personaggi siano stati abbandonati al loro destino era già stato fatto passare nel 1982,

quando, durante i funerali del generale Dalla Chiesa, la figlia Rita chiese che venisse tolta

una corona di fiori inviata dal Presidente della Regione Sicilia.

Tuttavia, perché Giovanni Falcone è l’uomo anti mafia per antonomasia? Forse per la sua

aria sorniona, opposta a quella per certi versi austera del generale Dalla Chiesa o a quella

5

riservata del giudice Borsellino, che lo fa sembrare più vicino alla gente comune. O forse

perché ha fondato con il suo collega Rocco Chinnici il pool antimafia, e quindi la

popolazione identifica con questa nascita la sua volontà manifesta di combattere la

criminalità organizzata. O ancora, e qui ritorna il ruolo dei mass-media, perché tutti i mezzi

di comunicazione, quando si parla di debellare la lotta alla mafia, fanno riferimento a

Falcone, e dunque la gente associa questa figura al tema di cui sopra.

Mi sono infine posta un quesito: tutto questo è servito a qualcosa? Hanno avuto un senso le

morti di Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino, oppure tutto è tornato come prima? L’Italia è

stata definitivamente scossa dal suo torpore, è capace di distinguere la mafia in tutte le sue

sfaccettature? Perché essa non si manifesta solamente attraverso gli agguati o le sparatorie,

ma anche attraverso i ricatti, le estorsioni, i sequestri, gli abusi, la lotta al potere.

Sono riusciti, almeno in parte, questi tre personaggi a centrare gli obiettivi che si erano

prefissati di raggiungere? Considerato che ancora oggi di loro se ne parla, anche se

purtroppo non abbastanza spesso, credo che un timido sì lo si possa affermare.

6

CAPITOLO I IL REPORTING DEGLI ATTENTATI

Nel corso degli anni, l’avvicendarsi delle nuove tecnologie ha mutato anche il

modo e i tempi di dare e diffondere le notizie. I giornali hanno da sempre ricoperto un

ruolo preponderante, ma sono stati surclassati dalla televisione che a sua volta risulta

spesso (a meno per quanto riguarda l’immediatezza di diffusione delle notizie) superata dal

web. Nel 1982, nonostante gli italiani avessero appreso della morte del generale Carlo

Alberto Dalla Chiesa attraverso un sottopancia – ovvero una scritta in sovrimpressione

sullo schermo - trasmesso sulla seconda rete Rai intorno alle 21.30, fu la carta stampata a

seguire da vicino l’avvenimento, non limitandosi al racconto dei fatti, ma divulgando la

biografia del prefetto di Palermo e seguendo la cronaca dei funerali e delle polemiche che

li hanno contraddistinti.

Per Giovanni Falcone e Paolo Borsellino fu diverso. Vi furono interruzioni di programmi

ed edizioni speciali dei telegiornali (speciali non solamente per l’orario della messa in onda

ma anche per la gravità dell’evento che trattavano), mentre la carta stampata, suo

malgrado, non poteva fare altro che raccontare, il giorno dopo i tragici fatti, quello che gli

italiani già avevano appreso e impresso nella mente attraverso immagini eloquenti e

significative delle stragi. Credo che si tratti di un fenomeno normale, e se tali avvenimenti

fossero successi a distanza di qualche anno, ritengo opportuno affermare che con ogni

probabilità la gente sarebbe venuta a conoscenza delle tragedie dal web, anche se per

maggiori informazioni ed approfondimenti si sarebbe precipitata, se possibile, ad

accendere i televisori alla ricerca di maggiori informazioni.

Entrando nel merito della questione, vediamo come gli italiani hanno saputo della morte di

queste tre personalità.

7

1 QUEL 3 SETTEMBRE 1982

Erano da poco trascorse le 21, quando l’Italia fu scossa da una terribile notizia.

Avevano assassinato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e la moglie Emmanuela Setti

Carraro, mentre il loro autista Domenico Russo era rimasto gravemente ferito (sarebbe

morto in ospedale, dopo dieci giorni di coma).

A dare la notizia una scritta in sovrimpressione trasmessa dalle reti Rai: «Palermo. Questa

sera alle 21.10 il generale Dalla Chiesa è stato ucciso»1.

Poche righe che gettano l’intera penisola nello sconforto, ma soprattutto una regione in

particolare, la Sicilia. Una Sicilia che negli ultimi anni era stata devastata da una serie di

omicidi di matrice mafiosa che avevano avuto come vittime politici, magistrati, giudici,

nonché gli stessi mafiosi ma di bande rivali a quelle dei mandanti.2 In modo particolare,

come è elementare presupporre, la città maggiormente colpita fu il capoluogo regionale,

Palermo.

La notizia viene letta da milioni di italiani, ma in questi numeri sono compresi, purtroppo,

anche i famigliari delle vittime. Nando, figlio del generale, e Gianmaria, fratello della

seconda moglie di Dalla Chiesa, apprendono dalla televisione la tragedia che si è abbattuta

su di loro. Solamente un’ora prima dell’attentato, la famiglia Setti Carraro aveva sentito

telefonicamente Emmanuela, che telefonava ogni sera per augurare la buonanotte ai suoi

cari. Quel 3 settembre 1982 aveva parlato con la madre rassicurandola (anche se non

poteva svelare dove si trovava e gli spostamenti che effettuava con il marito) e affermando

che a quella telefonata fatta dalla Prefettura ne sarebbe seguita un’altra, una volta rientrati

a casa, per la buonanotte. Così non fu.3 Emmanuela Setti Carraro si trovava infatti in

Prefettura, aspettando che il marito terminasse la sua lunga giornata di lavoro. Il generale,

per depistare chi secondo lui lo teneva sotto controllo, aveva prenotato un tavolo per due in

un ristorante a Mondello, anche se in realtà era sua intenzione cenare a casa con la moglie.4

Carlo Alberto Dalla Chiesa e la moglie escono da Villa Withaker poco prima delle 21: la

donna sale al posto di guida della sua A112, seguiti dall’agente Domenico Russo a bordo

di un’Alfetta.

1 P.BENEDETTO, La famiglia di Emmanuela apprende dalla tv la notizia del tragico agguato di Palermo, «La Stampa», 5 settembre 1982, pag.1. 2 P.SAPEGNO, M.VENTURA, Generale, Città di Castello, Limina, 1997, pag.165. 3 P.SAPEGNO, M.VENTURA, Generale, Città di Castello, Limina, 1997, pag.4. 4Ibidem.

8

Quando le due automobili imboccano via Isidoro Carini, si scatena l’inferno.

Improvvisamente, dal buio e dai vicoli deserti di Palermo giungono due automobili – una

Bmw e una 131 – e una motocicletta Suzuki di grossa cilindrata, i sicari alla loro guida

cominciano a sparare contro l’automobile dell’agente Russo. In un attimo il prefetto Dalla

Chiesa comprende cosa sta per accadere, ma è troppo tardi. L’auto sbanda nell’intento di

scappare e termina la sua corsa contro il cordolo del marciapiede di via Isidoro Carini. A

causa del violento impatto i fari si frantumano e le gomme scoppiano Il generale tenta di

fare da scudo con il suo corpo alla sua giovane moglie, invano. Le raffiche di mitra e di

Kalashnikov piovono da qualsiasi angolazione, trucidando i due corpi: le due automobili e

la motocicletta avevano accerchiato la piccola utilitaria, impossibile sopravvivere. Uno

degli omicida scende dalla moto imbracciando il mitra con l’intento, riuscito, di sfigurare

con i proiettili il viso del generale. Tutt’intorno, il silenzio. Imposte socchiuse, nessuno

accorso in strada. Solo dopo che il martirio fu finito, la gente cominciò ad affacciarsi, a

lasciare le proprie abitazioni per avvicinarsi a quella A112.5

Le ricetrasmittenti delle forze dell’ordine gracchiavano: «Omicidio in via Carini…nota

personalità…uccisa nota personalità». La stessa notizia giungeva alle redazioni dei giornali

palermitani, come ricorda Saverio Lodato, allora cronista de “L’Unità”.6

5 S.LODATO, Trent’anni di mafia, Bergamo, Bur, 2006, pag.99. 6Ibidem.

9

CRONACA DI UNA MORTE ANNUNCIATA

4 settembre 1982. Il compito di dare la notizia della strage di via Carini spetta ora

alla carta stampata. Per quanto riguarda “La Stampa”, la prima pagina apre con la notizia

della morte del generale e della moglie, proponendo una fotografia che ritraeva i due

coniugi in un momento di relax7. La spalla – ovvero l’articolo pubblicato nella parte alta

della prima pagina, a destra – di quell’edizione è riservata al commento dell’allora

Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che lo stesso aveva inviato a Giovanni

Spadolini, a quel tempo presidente del Consiglio. Pertini aveva dichiarato:

Con Carlo Alberto Dalla Chiesa scompare un esemplare ed eroico servitore dello Stato, una figura

rappresentativa della volontà del popolo italiano di non arrendersi alla nuova barbarie che ci

minaccia.8

Il richiamo rimanda alla lettura in seconda pagina di altri articoli dedicati alla figura del

generale dei Carabinieri: l’apertura, il centro pagina ed il taglio basso. Diversi articoli

all’interno dei quali viene descritta la figura del generale, il suo impegno profuso nella

lotta al terrorismo prima e alla mafia poi, la sua carriera da carabiniere, e il suo tentativo

riuscito di far parlare, per la prima volta nella storia, un pentito di mafia, Patrizio Peci.9

L’edizione del giorno successivo è ovviamente ancora incentrata sulla morte del generale

Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emmanuela Setti Carraro In questo caso il

giornale pubblica una foto moto eloquente e significativa che ritrae Rita, primogenita del

generale, accanto alla bara del padre, il volto distrutto e trasfigurato dal dolore.10

Domenica 5 settembre 1982. La prima pagina è dedicata alla cronaca dei funerali di Carlo

Alberto Dalla Chiesa, i quali furono celebrati primariamente a Palermo e il giorno dopo a

Parma, poiché il generale era di origini romagnole (anche se era nato a Saluzzo).

Un giorno di collera e di lacrime, titola “La Stampa” in apertura. Una fotografia che ritrae

Rita Dalla Chiesa, figlia del generale, in lacrime davanti al feretro del padre, occupa il

taglio alto della pagina.

Il racconto della celebrazione dei funerali è affidato al giornalista Giovanni Cerruti. Senza

remore è descritto il disprezzo espresso dalla folla di cittadini nei confronti dei politici di

7 Assassinati Dalla Chiesa e la moglie, «La Stampa», 4 settembre 1982, pag.1. 8 Pertini, Una sfida non più tollerabile, «La Stampa», 4 settembre 1982, pag.1. 9 P.P BENEDETTO, Fece parlare Peci, il primo pentito, «La Stampa», 4 settembre 1982, pag.2. 10 Un giorno di collera e di lacrime, «La Stampa», 5 settembre 1982, pag.1.

10

allora presenti alla messa funebre, concretizzatosi con lanci di monetine e bottigliette

d’acqua, insulti all’indirizzo degli uomini dello Stato. La gente urla la sua rabbia, puntando

il dito accusatore al grido: «Voi, li avete assassinati voi». Gli stessi figli del generale non

apprezzano la visita di tutte quelle autorità, ree di aver lasciato il loro padre da solo a

combattere una battaglia troppo importante: significativo a tal proposito il gesto, riportato

dal giornalista Cerruti, della primogenita Rita, che chiese di far portare via una corona

inviata dalla Giunta regionale. È sempre la figlia a deporre il berretto da carabiniere sul

feretro del padre e a non degnare di uno sguardo alcuno dei politici che si trovavano in

prefettura prima e in chiesa poi per dare l’estremo saluto al generale11.

L’omelia del cardinale Pappalardo a Palermo è di quelle che lasciano il segno, destinate a

essere ricordate col passare degli anni.

Mentre a Roma si pensa sul da farsi, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici. Sagunto ora è

Palermo, ma Roma è sempre Roma.12

ISTANTANEE SULLA MORTE DI DALLA CHIESA

Saverio Lodato, che peraltro aveva conosciuto il generale Carlo Alberto Dalla

Chiesa e dal quale aveva ottenuto il rilascio di alcune interviste, della sera del 3 settembre

1982 ricorda «un impressionamene dispiegamento di forze, un’autobomba dei pompieri

messa di traverso in Via Carini per impedire l’afflusso di automobilisti curiosi».13

Questa è stata parte della scena che si era presentata agli occhi del giornalista, delle forze

dell’ordine, dei curiosi e degli abitanti del quartiere che in quel momento stavano

affollando la via. Ma c’era un’altra scena, destinata a rimanere indelebile nella memoria

delle persone, tanto dei presenti come delle persone che hanno appreso dell’omicidio dalla

televisione e dai giornali. La A112 bianca di Emmanuela Setti Carraro era schiacciata

contro il cordolo del marciapiede, i fari frantumati e i pneumatici scoppiati a causa del

violento urto con l’asfalto. La portiera dell’utilitaria era spalancata, il braccio della donna

pendeva inerme, la testa era abbandonata sullo schienale; a fianco a lei il marito, Carlo

Alberto Dalla Chiesa, che in un impeto di estremo amore aveva tentato di fare da scudo

con il proprio corpo alla moglie: la parte destra del volto del prefetto era stata sfigurata da

11 P.SAPEGNO, M.VENTURA, Generale, Città del Castello, Limina, 1997, pp.185-186. 12 G.CERRUTI, Interminabile applauso alle due bare ma fischi e monetine contro i politici, «La Stampa», 5 settembre 1982, pag.1. 13 S.LODATO, Trent’anni di mafia, Bergamo, Bur, 2006.

11

una scarica di proiettili, e aveva ancora la borsa appoggiata sulle ginocchia. Qualcuno dei

soccorritori aveva coperto parte della macchina con un lenzuolo bianco, per evitare di

mostrare un simile spettacolo.14

Quella stessa immagine è quella che più facilmente si associa alla morte del generale, e che

viene riproposta ogni qualvolta si tratta l’argomento della strage di via Carini. Ed è sempre

quell’icona ad apparire su “La Stampa”, il giorno dopo dell’omicidio, in seconda pagina.15

Il fatto che a un determinato fatto si associno delle immagini – siano esse fotografie

piuttosto che sequenze cinematografiche – è indubbiamente frutto dell’utilizzo dei mass-

media. In qualche modo loro influenzano la memoria collettiva di specifici eventi, poiché

veicolano alcune informazioni – grafiche e testuali – relative agli stessi avvenimenti. La

scelta di telegiornali e quotidiani di riproporre continuamente quell’immagine – quella

della A112 subito dopo l’agguato – credo sia ponderata e oculata. Si tratta sicuramente di

una fotografia ad alto impatto emotivo e visivo, capace di colpire ma anche di essere

ricordata con facilità.

I mass-media, in questo caso particolare uno nello specifico, la televisione, hanno

provveduto all’immediata diffusione di una tragica notizia che ha scosso l’intero Paese;

parallelamente, le linee telefoniche di questura, comandi di polizia, redazioni

giornalistiche, si infuocavano per annunciare che «hanno ammazzato una nota

personalità»16.

I mezzi d’informazione non hanno solamente raccontato la notizia, la tragica notizia, ma

hanno cercato di trasmettere i sentimenti di quei giorni, sempre attraverso le colonne dei

quotidiani, i servizi dei telegiornali. La figlia Rita che non stacca la mano dalla bara del

padre mentre con l’altra si porta al petto la sciabola dello stesso, la rabbia provata e non

celata nel giorno dei funerali nei confronti dei politici, il calore dimostrato verso i

famigliari – straziati dal dolore - delle vittime dell’agguato famoso, i mazzi di fiori deposti

sul luogo della tragedia, oltre ad un cartello che recitava:

Qui è morta la speranza dei siciliani onesti17.

14 M. SAPEGNO, M. VENTURA, Generale, Città del castello, Limina, 1997. 15 R.S., Nel 1948 in Sicilia, poi al Nord. Catturò Curcio e i capi delle Br, «La Stampa», 4 settembre 1982, pag.2. 16 S.LODATO, Trent’anni di mafia, Bergamo, Bur, 2006, pag.100. 17 Cfr «La Stampa», 4 e 5 settembre 1982, pp.1-5.

12

2 LA STRAGE DI CAPACI: 23 MAGGIO 1992

La notizia della morte del giudice Falcone, ultimo baluardo insieme al collega ed

amico Paolo Borsellino della lotta alla mafia, del bene contro il male, entrò nelle case degli

italiani intorno alle 22 di sera, nuovamente con una striscia in sovrimpressione trasmessa

dalla rete ammiraglia della Rai mentre imperversava Scommettiamo che…? condotta da

Fabrizio Frizzi18.

Le prime immagini di quanto avvenne furono trasmesse con l’edizione ridotta di uno

speciale su Falcone condotto da Bruno Vespa, durante una pausa della trasmissione

goliardica di Rai Uno. Una manciata di minuti per raccontare quanto avvenuto, con le

prime immagini della strage, quelle stesse immagini che diventeranno il simbolo

dell’eccidio di Capaci.

Ulteriori informazioni si appresero con l’edizione della notte del Tg1. In studio Angela

Buttiglione, che ripropose le medesime immagini, le prime sequenze girate dopo lo

scoppio, dopo che la Fiat Croma del giudice Falcone era saltata in aria. La strada era un

cumulo di macerie e detriti, l’auto bianca era divelta, girata su una fiancata; in alto

spiccava l’indicazione verde che avvisava gli automobilisti che a destra ci sarebbe stato lo

svincolo per Capaci. Decine di soccorritori, vigili del fuoco, poliziotti e carabinieri erano

accorsi sul luogo dello scoppio, mentre le sirene continuavano a echeggiare in lontananza:

erano quelle delle volanti ma anche delle autoambulanze che stavano trasportando

Giovanni Falcone e Francesca Morvillo. I guard-rail erano ridotti in un ammasso informe

di lamiere, ovunque c’era fumo ed un’aria che l’inviato aveva descritto «irrespirabile, non

solo in senso fisico ma anche in senso psicologico». I presenti insomma avevano

l’impressione di essere soffocati da quanto li circondava, incapaci di capire fino in fondo

una simile scena19.

La potenza della televisione in quel caso fu devastante. I telespettatori ebbero quasi

l’impressione di essere lì, in mezzo a quei detriti: si tratta peraltro di sensazioni che con il

passare del tempo si sono acuite in quanto quelle sopra descritte sono le immagini che

vengono riproposte ogni qualvolta si parli del giudice Falcone e della sua tragica morte.

18 M.G. BRIZZONE, Il TG1 attacca lo show di Frizzi, «La Stampa», 25 maggio 1992, pag.5. 19 Tg1 edizione straordinaria, 23 maggio 1992, Archivio Rai Torino, identificazione teca: M92144/007.

13

Le stesse raffigurazioni furono riproposte come fotografie a supporto degli articoli apparsi

sui quotidiani italiani all’indomani dell’agguato. “La Stampa” ne è un esempio. La sua

prima pagina del 24 maggio 1992 titolava: Falcone ammazzato dalla mafia.

L’editoriale di Paolo Mieli, Il simbolo decapitato, offre invece un’immagine inedita di

Falcone: una sorta di magistrato giornalista, che pochi mesi prima aveva deciso di

collaborare con l’importante testata torinese, proprio nello spazio dedicato agli editoriali.

L’allora direttore ricorda il giudice con affetto, non solo sotto il profilo professionale ma

soprattutto dal lato umano.

La terza pagina è interamente dedicata all’avvenimento del giorno prima, con articoli di

Francesco La Licata, Roberto Martinelli e Giovanni Bianconi.

Mi uccideranno a costo di una strage. Il presagio dell’agguato nella sua vita sotto tiro.

Così Francesco La Licata titola il suo articolo di apertura, lui che Falcone lo conosceva

bene; il magistrato e il giornalista avevano instaurato un rapporto di amicizia e di fiducia,

nonostante la diffidenza dimostrata da Falcone verso la categoria. I giornalisti non li

capiva, perché a parer suo svolgevano con leggerezza il proprio lavoro e con gli articoli

costituivano un varco di profitti per la mafia, come ha ricordato l’articolista proprio tra le

righe dello scritto in oggetto. Anche il loro primo incontro non era stato tra i più cordiali,

con il giudice che aveva liquidato il giornalista dopo due minuti senza che avesse rilasciato

alcuna dichiarazione20.

L’articolo del 24 maggio però fa comprendere quanto tra le due persone ci fosse amicizia,

stima e rispetto, e questo si evince già dall’incipit:

Non è possibile. Non può essere vero che Giovanni Falcone sia morto. Cerco di convincermene

contro ogni evidenza, come se il rifiuto potesse davvero servire ad esorcizzare la morte.

Racconta della telefonata ricevuta da parte di un suo collega, che lo informa dell’attentato

e della morte dei tre agenti della scorta; Falcone risultava essere ancora vivo, e La Licata

immagina di incontrarlo in ospedale per rimproverarlo bonariamente: «Possibile che tu ti

cacci sempre dove ci sono i guai?».

Le agenzie battono la notizia della morte del giudice, alle 19.43. La moglie morirà poco

dopo durante l’intervento chirurgico che le avrebbe dovuto salvare la vita.

Francesco La Licata ricorda con affetto la figura del giudice, della sua voglia di lottare

contro la mafia, del suo sdegno nel non essere creduto, specie dopo l’attentato a Mondello. 20 F.LA LICATA, Storia di Giovanni Falcone, Milano, Rizzoli, 1993.

14

Era stato accusato di aver inscenato l’attentato: la mafia non sbaglia, specie se il bersaglio

è un uomo come Giovanni Falcone. Il giornalista racconta che il magistrato rimaneva

profondamente amareggiato e ferito da simili affermazioni, e che era consapevole che la

mafia prima o poi l’avrebbe ucciso, pagando un prezzo alto come quello di una strage,

unico modo a suo giudizio, fondato, per eliminarlo. Un articolo dunque di ricordi, capace

di far conoscere il lato non solo professionale ma anche umano di Giovanni Falcone, un

ritratto dipinto da chi l’aveva conosciuto e gli voleva bene.21 Non a caso, il giornalista La

Licata è stato scelto da Anna e Maria Falcone per scrivere la biografia ufficiale del giudice.

I restanti due articoli della pagina raccontano invece della corsa alla Superprocura, piena di

ostacoli e dissapori: Giovanni Falcone avrebbe dovuto essere nominato a capo della stessa

all’incirca dopo due mesi dall’agguato.22

La quinta pagina è dedicata alla figura del magistrato: viene ricordato attraverso i racconti

di Marcello Sorgi, che l’aveva incontrato per l’ultima volta il mercoledì precedente

all’attentato di Capaci23; tramite la recensione del libro Cose di Cosa Nostra che lo stesso

Falcone aveva scritto a quattro mani con Marcello Padovani, e che era stato pubblicato

l’anno prima24; attraverso il ricordo del fallito agguato nella sua villa all’Addaura, nel

luglio del 198925.

25 maggio 1992. La rabbia di Palermo per Falcone. Questo il titolo della prima pagina, il

giorno dei funerali del magistrato, di sua moglie e dei tre agenti della scorta. Un articolo

all’interno del quale non mancano i nomi dei politici, andati a Palermo a rendere omaggio

alle salme ed accolti da fischi, insulti e lanci di monetine, tra i quali spiccano quelli di

Spadolini e Martelli, senza dimenticare Oscar Luigi Scalfaro, allora presidente della

Camera e che dopo pochi giorni sarebbe stato eletto Capo dello Stato, che non presenziò

alla cerimonia funebre ma pronunciò il discorso di commemorazione alla Camera.. Viene

nuovamente ripresa la questione della Superprocura, e l’articolo si conclude riportando i

titoli dell’Observer e dell’agenzia di stampa Nuova Cina di Pechino riguardo al 23 maggio

e al giudice, a dimostrazione di quanto Giovanni Falcone fosse conosciuto ed apprezzato in

tutto il mondo.

21 F.LA LICATA, Mi uccideranno a costo di una strage. Il presagio dell’agguato nella sua vita sotto tiro, «La Stampa», 24 maggio 1992, pag.3. 22 G.BIANCONI, Superprocura, una corsa tra i veleni, «La Stampa», 24 maggio 1992, pag.3. 23 M.SORGI, Svelò il patto mafia-politica e tentarono di emarginarlo, «La Stampa», 24 maggio 1992, pag.5. 24 L.SUGLIANO, Il mio conto con i boss è aperto e lo salderò soltanto con la morte, «La Stampa», 24 maggio 1992, pag.5. 25 Una bomba vicino a casa, «La Stampa», 24 maggio 1992, pag.5.

15

Giuseppe Zaccaria firma l’imponente articolo che occupa oltre la metà della terza pagina,

scritto che racconta i funerali di Stato delle vittime di Capaci. Celebrazioni dal clima

rovente: la gente fischia i politici presenti e quelli che arrivano con le auto di scorta, molte

di più di quelle che erano state date in dotazione al giudice assassinato, applaude i feretri

all’uscita della chiesa di Palermo. In prima fila i parenti delle vittime, i colleghi poliziotti, i

magistrati amici di Falcone, ma anche politici e persone che avevano osteggiato la carriera

del giudice alla guida della Superprocura. Viene ricordato l’attentato, che ha dato luogo ad

una voragine «profonda 3 metri per 13 di diametro» come riporta l’inviato nel suo

articolo.26

Il taglio basso della pagina rivela, attraverso l’articolo di Francesco La Licata, una

sconcertante verità: la leggerezza con cui il Ministero aveva affrontato la problematica

della sicurezza del giudice. Un poliziotto, che aveva fatto parte del corpo della scorta e che

anche quel fatidico 23 maggio avrebbe dovuto prestare servizio a fianco del magistrato,

racconta di come la situazione sia peggiorata dall’istituzione del servizio di scorta.

All’inizio dodici auto oltre a un elicottero che sorvolava l’intero percorso, alla fine tre

agenti e null’altro. Viene reso noto della presenza di un’auto staffetta che avrebbe dovuto

perlustrare il percorso teatro dell’agguato, in quanto ultimamente era molto frequentato dal

giudice e soprattutto era l’unico modo per arrivare a Palermo, mentre le altre mete

potevano essere raggiunte attraverso continui spostamenti di rotta. Un’auto staffetta che

sicuramente quel 23 maggio 1992 non aveva percorso l’autostrada teatro della strage27.

Non è mafia, questo è terrorismo.

A pronunciare tale frase, titolo di apertura della quinta pagina de “La Stampa” del 25

maggio 1992, Oscar Luigi Scalfaro, durante la commemorazione in Parlamento rivolta al

giudice, alla moglie e agli uomini della scorta, che vengono presentati ai lettori attraverso

tre foto tessera, in modo che anche loro abbiano un degno tributo, che siano ricordati dalla

memoria collettiva. L’articolo di Tonio Attino, Martirio di uomini del Sud, è stato

concepito proprio con quest’obiettivo: sono raccontate le tre brevi vite di Montinari,

Schifani e Di Cillo, gli agenti della scorta fedeli al giudice, fino alla morte.28

26 G.ZACCARIA, Basta, tornatevene a Roma, «La Stampa», 25 maggio 1992, pag.3. 27 F.LA LICATA, A terra (troppo caro), l’elicottero di scorta, 25 maggio 1992, pag.3. 28 T.ATTINO, Martirio di uomini del Sud, «La Stampa», 25 maggio 1992, pag.5.

16

In alto a destra un articolo rivela che le intere strutture palermitane sciopereranno per

l’intera giornata del 25, in occasione dei funerali di Stato, mentre nel resto d’Italia i

lavoratori hanno incrociato le braccia solo per la durata della funzione, dalle 10 alle 11 del

mattino29. Articoli sociali dunque che si alternano con quelli di politica (sempre

nell’ambito dell’omicidio Falcone, come ricorda la scritta in alto a fianco del numero della

pagina), ma anche giornali che affrontano tematiche televisive. Nella stessa pagina, in

basso a sinistra, infatti, viene affrontata la questione spiacevole che si era venuta a creare la

sera dell’attentato: la tv di Stato non aveva interrotto la programmazione abituale (quella

sera veniva trasmesso Scommettiamo che…?) per dare spazio ad uno speciale inerente a

Falcone condotto da Bruno Vespa. Il TG1 attacca lo show di Frizzi, titola l’articolo. Dalla

sua lettura si evince che la rete ammiraglia della Rai non ha interrotto lo show di prima

serata per dare spazio all’approfondimento del giornalista, che peraltro avrebbe potuto per

primo informare i cittadini di quanto era avvenuto, considerato il fatto che l’edizione del

telegiornale fu trasmessa a mezzanotte. Tutto questo avvenne tra la stizza del conduttore

del programma mancato e l’amarezza di Fabrizio Frizzi, non solo come presentatore ma

anche come cittadino, particolarmente coinvolto a livello personale visto che allora era il

compagno di Rita Dalla Chiesa, figlia del generale30. Persino Adriano Celentano,

nell’articolo La Rai non porta il lutto, pubblicato in prima pagina il 27 maggio 1992, si

chiede se sia questo il modo di portare rispetto verso chi è morto per lo Stato, e se sia

questo il modo di insegnare la cultura alla gente, senza darle nemmeno il tempo di

rifletterle per quanto accaduto, visto che dopo un’edizione ridotta di pochi minuti dello

speciale di Vespa è ripresa la normale programmazione.

«Uomini della mafia, inginocchiatevi». È il grido di Rosalia, vedova di Vito Schifani, che

dal pulpito grida il suo dolore ai presenti, alla folla che si ammassa all’interno e all’esterno

della chiesa. La televisione ha riproposto il discorso della donna con un’immagine

eloquente che è entrata a far parte della memoria collettiva quando il pensiero corre ai

funerali del giudice Falcone: una donna distrutta dal dolore che chiede ai colpevoli di

redimersi, di ricordarsi della loro situazione di cristiani e che come tali devono riconoscere

il proprio peccato. Il prete continua a spostarle il microfono, e la vedova prosegue con il

suo lamento, con le sue lacrime, cercando di farsi forza, di riavvicinarsi al microfono. Gli

applausi sono tutti per lei, per suo marito e per i suoi colleghi, per il giudice e la moglie

che da loro sono stati protetti fino all’ultimo istante; le urla e gli insulti sono invece tutti

29 Oggi l’Italia si ferma, «La Stampa», 25 maggio 1992, pag.5. 30 M.G.BRIZZONE, Il TG1 attacca lo show di Frizzi, «La Stampa», 25 maggio 1992, pag.5.

17

rivolti ai politici, rei di aver abbandonato anche Giovanni Falcone, come fu per Carlo

Alberto Dalla Chiesa e come sarà, neanche due mesi dopo, per Paolo Borsellino. Perché

alla vedova era stato chiesto di leggere parole non sue, di giurare perdono per i mafiosi, e

lei aveva aggiunto che forse ci sarebbe stato se loro si fossero inginocchiati. Non solo31.

L’argomento viene ripreso a pagina 9, dedicata alla cronaca per esteso dei funerali.

Vengono riproposte le parole del cardinale Pappalardo, che si domanda in maniera retorica

quali fossero le persone che affiancavano Falcone ma che contemporaneamente tramavano

alle sue spalle, e sentenzia:

Chi ha ammazzato con tanta ferocia merita di far parte della Sinagoga di Satana.

Le fotografie della pagina mostrano la folla inferocita contro i politici, la vedova di Vito

Schifani durante la lettura del testo incriminato, e i cinque feretri32. Lo scritto viene

pubblicato integralmente all’interno dell’articolo Quelle tredici righe concordate che la

rabbia ha fatto cambiare, spiegando quali fossero le righe originali che la vedova avrebbe

dovuto leggere e che cosa invece la stessa ha modificato, in un momento di estremo dolore.

Sicuramente questa rappresenta l’immagine simbolo dei funerali del giudice Falcone,

trasmessa dalle varie televisioni in numerose occasioni, e ripresa dalla carta stampata

attraverso le immagini della donna al microfono. La televisione trasmise in diretta i

funerali di Stato. Secondo i dati pubblicati a pagina 7 de “La Stampa” del 27 maggio, 5

milioni e mezzo di persone seguirono la funzione funebre trasmessa da Rai Uno, Studio

Aperto e Retequattro. La prima superò i tre milioni e mezzo di telespettatori, mentre i

telegiornali di Italia 1 e Rete4 registrarono rispettivamente poco più di un milione di

spettatori e 784.000 telespettatori.33

Sempre nell’edizione del 27 maggio del ‘92, la prima pagina esalta la figura del presidente

della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, eletto in concomitanza con i giorni di lutto

nazionale e subito recatosi a Palermo per rendere omaggio alle vittime della strage di

Capaci: Antonio Ravidà racconta della sua visita ai luoghi dell’attentato, alle vedove degli

agenti, ovunque accolto da applausi. Un clima opposto rispetto a quello a lui indirizzato nel

1985, quando, ministro degli Interni, si era recato ai funerali di Stato di Ninni Cassarà, vice

questore e membro del pool antimafia voluto da Falcone e Chinnici34.

31 L.TORNABUONI, Quando il dolore si ribella, «La Stampa», 26 maggio 1992, pag.1. 32 Mafiosi, vi perdono, ma inginocchiatevi, «La Stampa», 26 maggio 1992, pag.9. 33 Funerali in TV, «La Stampa», 27 maggio 1992, pag.7. 34 A.RAVIDÀ, Scalfaro prega sulle tombe di Palermo, «La Stampa», 27 maggio 1992, pag.1.

18

Giovedì 28 maggio la terza pagina è ancora per Falcone, al quale rende omaggio anche la

regina Elisabetta, che si doveva recare a Malta e che decise di fare tappa a Palermo per

visitare i luoghi della strage; ha anche inviato un messaggio a Scalfaro con il quale

dimostrava tutta la sua vicinanza ai famigliari delle vittime35.

Stessa pagina, ma a destra, Francesco La Licata ricorda che Falcone era condannato a

morte da tre anni (come recita il titolo dell’articolo), da quando cioè scampò all’attentato a

Mondello: da quel momento il giudice era perfettamente consapevole di essere nell’occhio

del mirino della mafia, e che prima o poi sarebbe morto assassinato anche lui. Purtroppo

aveva ragione36.

ISTANTANEE DELLA STRAGE DI CAPACI

Per quattro giorni consecutivi, almeno per quanto riguarda “La Stampa”, l’omicidio

di Giovanni Falcone ha occupato le pagine principali del quotidiano. Solitamente la prima

pagina era una sorta di rimando a quelle interne che trattavano in maniera più approfondita

l’argomento del giorno, cioè la strage di Capaci. Ciò che si può evincere dalla lettura di tali

articoli è che la loro stesura è stata affidata a dei giornalisti che avevano conosciuto bene

Giovanni Falcone, la sua storia e parte della sua vita privata, come nel caso di Francesco

La Licata. Curando quest’aspetto, ritengo che “La Stampa” abbia operato una scelta

oculata: tale linea editoriale ha infatti permesso ai fruitori dell’informazione, i lettori, di

conoscere non solamente quanto avvenuto il 23 maggio 1992, ma anche chi era realmente

il giudice Falcone, accrescendo la memoria collettiva degli italiani.

Tuttavia, l’imponenza della televisione e la sua immediatezza hanno scavalcato il ruolo

della carta stampata. Le notizie fornite dai giornali spesso erano già conosciute dalla

maggior parte dei lettori, e non dimentichiamo che la stessa notizia della strage è stata

appresa attraverso il piccolo schermo nell’immediato e, per ovvi motivi, il giorno

successivo dai giornali.

Anche in questo caso, come avvenne per l’omicidio del generale Dalla Chiesa, vi sono

scene legate alla strage di Capaci che tornano alla mente ogni qualvolta si parli del giudice

Falcone. Come non ricordare il cumulo di macerie dell’autostrada, o la vedova dell’agente

Schifani che pronunciava il suo discorso sul pulpito della chiesa in occasione dei funerali

di Stato, trasmessi in diretta televisiva. Un dettaglio non trascurabile, considerato il fatto

35 A.RAVIDÀ, Elisabetta commossa: che atrocità, «La Stampa», 28 maggio 1992, pag.3. 36 F.LA LICATA, Condannato a morte da tre anni, «La Stampa», 28 maggio 1992, pag.3.

19

che il ricordo della donna straziata dal dolore per avere perso il marito in un modo così

atroce è ancora così vivo proprio perché trasmesso e riproposto in diverse occasioni dalla

televisione. Nuovamente dunque i mass-media hanno in qualche modo deciso quali

immagini trasmettere, quali notizie divulgare affinché diventassero parte della memoria

collettiva. Si tratta di immagini forti, che sicuramente scuotono gli animi, ma che

altrettanto sicuramente sono difficili da dimenticare.

3 L’AUTOBOMBA DI VIA D’AMELIO: 19 LUGLIO 1992

In una calda domenica di luglio, i palinsesti televisivi furono stravolti dalle

edizioni straordinarie dei diversi telegiornali. Era il 19 luglio 1992, e ciò avvenne al fine di

informare gli italiani su quanto era accaduto a Palermo: una Fiat 126 imbottita di tritolo era

stata fatta esplodere in Via D’Amelio, uccidendo il giudice Paolo Borsellino e i suoi agenti

della scorta.

Riguardo ai telegiornali, l’edizione più dettagliata fu trasmessa dalla terza rete Rai, con una

diretta che iniziò intorno alle 17.30. La giornalista Mariolina Sattanino ebbe il difficile

compito di dare la notizia dell’agguato di matrice mafiosa, per poi lasciare spazio alle

immagini della strage. A queste si avvicendarono documenti visivi del giudice Borsellino

impegnato al lavoro o nelle commemorazioni del suo amico Giovanni Falcone, e interviste

telefoniche che la giornalista intrattenne con personaggi famosi quali Nando Dalla Chiesa,

politico e docente universitario, ma soprattutto figlio del generale ucciso dalla mafia nel

1982, e Mino Fuccillo, giornalista de “La Repubblica”37.

Il giorno dopo la strage di via D’Amelio, le pagine dei quotidiani furono ovviamente

dedicate alla figura del giudice Borsellino e alla sua morte.

La mafia dichiara guerra allo Stato. Dopo Falcone, uccisi Borsellino e 5 agenti della

scorta. Questo il titolo che compariva sulla prima pagina de “La Stampa”, il 20 luglio

1992. A supporto dell’articolo un’immagine dell’attentato e, sotto, una del giudice intento

ad accendersi una sigaretta, sua inseparabile compagna. L’articolo spiega brevemente la

dinamica dell’attentato, una conferma delle notizie apprese il giorno prima in televisione,

per poi rimandare agli approfondimenti delle pagine successive.

La seconda pagina si apre con un ampio articolo a firma di Francesco La Licata, lo stesso

autore degli articoli sulla morte di Giovanni Falcone. Il giornalista ricorda che Borsellino 37 Tg1 edizione straordinaria, 19 luglio 1992, Archivio Rai Torino, identificazione teca: M92201/012.

20

era l’unico capace di raccogliere l’eredità del suo amico Falcone, e che di questo la mafia

ne era consapevole. Focalizza l’attenzione sui destini-gemelli dei due magistrati, e

definisce il procuratore di Marsala «l’ultimo simbolo dell’antimafia», frase che diventa

anche il titolo del suo articolo. Uno scritto che racconta la vita di Paolo Borsellino,

facendolo apprezzare ulteriormente. Per la sua lealtà, per il suo coraggio, per il suo amore

verso i figli e la moglie, che voleva preservare da ogni pericolo ma che per cause di forza

maggiore vivevano sulla propria pelle i rischi del lavoro del magistrato. Il giornalista, a

proposito di questo, ricorda che la più provata dalla situazione era la figlia Lucia, che si

ammalò di anoressia durante il soggiorno sull’Asinara del padre e di Falcone in occasione

della stesura della requisitoria da presentare al maxiprocesso. Ricorda anche che i due

giudici (da qui la definizione di destini-gemelli) avevano trascorso insieme l’infanzia, negli

stessi luoghi palermitani, e frequentato le stesse scuole. La carriera forense non è all’inizio

la medesima, ma entrambi potranno vantare gli stessi maestri, come il presidente del

tribunale di Palermo Angelo Piratino Leto e il consigliere Morvillo, in forze sempre presso

lo stesso foro. Ironia della sorte Agnese, la figlia del primo, divenne la moglie di

Borsellino, mentre la figlia di Morvillo, Francesca, sposò in seconde nozze Falcone. La

Licata prosegue con la biografia di Borsellino, senza mai perdere di vista il fatto che ormai

l’Italia non possiede più uomini capaci di contrastare la mafia. Della strage di Capaci

poche righe iniziali: la mente ritorna al 23 maggio, e, ancora più lontano, al 1983, anno in

cui fu assassinato Rocco Chinnici, padre del pool antimafia. Allora Palermo fu paragonata

a Beirut, e la definizione, dopo quasi un decennio, risulta ancora essere calzante38.

Gli articoli inerenti alla strage e pubblicati in prima pagina si occupano poi della questione

della Superprocura, dato che dopo la morte di Falcone si era pensato di affidarla a

Borsellino. «Noi giudici non siamo al sicuro», dichiarava quest’ultimo, come ricordava il

titolo dell’articolo di Francesco La Licata affrontando il ricordo del pericolo costante al

quale i magistrati che combattevano la mafia erano sottoposti. Le paure del procuratore di

Marsala erano state pubblicate anche in un libro di Luca Rossi, del quale si parla sempre a

pagina 5, dal titolo: I disarmati. Falcone, Cassarà e gli altri, ma si evincevano anche

nell’ultima intervista che il magistrato aveva rilasciato a La Licata e che la testata torinese

ripropone in maniera integrale nel taglio basso della pagina.

Il 21 luglio è il giorno dei funerali di Stato, ma non per Paolo Borsellino. La famiglia

infatti, come informa il sottotitolo dell’articolo di apertura della prima pagina de “La

38 F.LA LICATA, L’ultimo simbolo dell’antimafia, «La Stampa», 20 luglio 1992, p.2.

21

Stampa”, ha detto no ai funerali di Stato; le esequie saranno dunque celebrate in forma

privata, l’unica autorità presente sarà, per volontà della stessa famiglia, il presidente della

Repubblica Scalfaro. I funerali di Stato saranno celebrati alle 15.30 di quella stessa

giornata, per rendere omaggio ai cinque agenti di scorta che hanno perso la vita per

difendere fino all’ultimo, senza mezzi ma con coraggio, spirito di sacrificio e rispetto, il

magistrato39.

Tra le tante notizie drammatiche vi è anche quella relativa al fatto che Fiammetta, la figlia

più giovane del giudice, non era ancora a conoscenza della strage, dato che in quei giorni si

trovava in Indonesia in vacanza. La figlia e i fratelli hanno deciso che i funerali non si

svolgeranno fino a quando la terzogenita del giudice non rientrerà in patria; in tale

occasione la vedova Borsellino si scaglia contro le amministrazioni pubbliche:

Anche da questo si vede l’efficienza dello Stato, non riescono nemmeno a trovare la mia

Fiammetta,

sentenzia di fronte ai tentativi vani di ambasciate e consolati fatti per rintracciare la

ragazza.40

L’articolo Ai funerali non vogliamo lo Stato è anche l’angosciante cronaca dell’andirivieni

di persone nell’abitazione del giudice Borsellino per rendere omaggio alla famiglia

distrutta. Una famiglia che ribadisce la volontà di non celebrare i funerali di Stato ma in

forma privata, nella chiesa di Santa Maria Marillac, lontani da politici e «farisei di Palazzo

di Giustizia», come li ha definiti Antonino Caponnetto, che nel corso degli anni ha visto

morire tutti i suoi più fidati collaboratori e colleghi.

Al numero 21 di via Cilea sono stati deposti numerosi mazzi di fiori, la gente comune

vorrebbe entrare per fare le condoglianze alla vedova del giudice, ma sono veramente tanti.

Arrivano anche la vedova di Vito Schifani, la donna coraggiosa che ai funerali del giudice

Falcone (e quindi di suo marito, agente di scorta), aveva urlato ai mafiosi che si sarebbero

dovuti inginocchiare e chiedere perdono, e la madre di Francesca Morvillo, moglie di

Falcone. Sono momenti di grande commozione, come racconta lo stesso giornalista.

Della figlia Fiammetta ancora non si hanno notizie; Manfredi, laureando in

Giurisprudenza, si era recato poche ore prima sul luogo della strage, come a cercare le

spoglie del padre, mentre Lucia, che aveva da sempre sofferto in maniera pesante ed

39 F. LA LICATA, Ai funerali non vogliamo lo Stato, «La Stampa», 21 luglio 1992, pag.3. 40 C. MARTINELLI, E la figlia del giudice non sa ancora niente, «La Stampa», 21 luglio 1992, pag.7.

22

evidente la situazione di pericolo che circondava il padre, con un atto di coraggio decide di

recarsi nell’ufficio del padre per raccogliere i suoi effetti personali.

La pagina 5 offre una lunga intervista – a firma di Paolo Guzzanti - a Giuseppe Ayala,

anche egli impegnato in prima linea contro la mafia, amico da sempre di Falcone e

Borsellino. Si evince che la paura accompagnava sempre i loro spostamenti, e che i tre

giudici sapevano sempre guardare oltre, leggere oltre le righe, capire che un attentato di

matrice mafiosa come l’omicidio di Salvo Lima per loro costituiva un monito, un

avvertimento a lasciare perdere, perché prima o poi la mafia li avrebbe fermati.41

La carta stampata si occupa della televisione anche durante la strage di via D’Amelio.

Sono infatti resi noti i dati relativi agli ascolti registrati dai sei telegiornali delle reti Rai ed

allora Fininvest: oltre 40 milioni di italiani si sono sintonizzati, in momenti diversi, sulle

reti di Stato e su quelle private, per ottenere continui aggiornamenti su quanto era avvenuto

a Palermo. Un risultato significativo, segno di un’ Italia che vuole essere informata ma che

soprattutto non rimane indifferente di fronte a simili eccidi. E per dimostrare il proprio

sdegno, le diverse emittenti televisive hanno sospeso le loro programmazioni, dalle 11 alle

11.10 di lunedì 20 luglio.42

I funerali di Stato dei cinque agenti della scorta diventano nuovamente teatro di rabbia e

sdegno. I portavoce questa volta però sono le forze dell’ordine, che si proclamano «carne

da macello» e che denunciano la grave situazione lavorativa che stanno vivendo. Le

esequie dei cinque poliziotti si consumano così, tra urla rivolte ai politici e applausi al

passaggio dei feretri. 43

Nel frattempo si consuma anche il dramma della famiglia Borsellino, chiamata a ricevere

le condoglianze a Palazzo di Giustizia, dove è stata allestita la camera ardente come fu per

Giovanni Falcone. Migliaia di persone rendono omaggio alla salma del magistrato, alla

presenza dei famigliari e degli amici più cari di Borsellino come Ayala e Caponnetto.

Intanto, prosegue una protesta spontanea nata nella serata di domenica e che ha come

fulcro via Notarbartolo, e più precisamente l’albero di magnolia che campeggia sotto

l’abitazione che era dei coniugi Falcone.44

La cronaca dei funerali di Stato è affidata, per quanto attiene il quotidiano piemontese, a

Paolo Guzzanti, che racconta, attonito e frastornato, di non aver mai assistito in trenta anni

di carriera giornalistica a una simile rabbia cittadina, che si traduce a pugni e calci alle 41 P. GUZZANTI, Paolo, quel cadavere eri tu, «La Stampa», 21 luglio 1992, pag. 5. 42 Tv oscurate per dieci minuti, «La Stampa», 21 luglio 1992, pag. 5. 43 P. SAPEGNO, La rabbia delle scorte travolge Parisi, «La Stampa», 21 luglio 1992, pag. 7. 44 A.R.,Mille braccia sorreggono Agnese, «La Stampa», 21 luglio 1992, pag. 7.

23

maggiori autorità politiche, compreso il presidente della Repubblica. Ma il giornalista non

vuole certamente condannare chi ha dato vita alla sommossa, anzi trova nella chiusura dei

portoni di accesso alla chiesa il motivo scatenante dei tafferugli.45

L’articolo in basso a destra ricorda invece che l’intera Italia si è fermata in concomitanza

con l’inizio dei funerali di Stato: da Milano a Palermo, una manifestazione che ha

coinvolto televisioni di Stato e private, scuole ed uffici, traffico cittadino, forze dell’ordine,

persino Piazza Affari.46

Nuovamente a Francesco La Licata sono invece affidati i pensieri rivolti agli ultimi giorni

di vita di Paolo Borsellino, che era consapevole di avere le ore contate e che a Palermo era

arrivato un carico di esplosivo proprio per lui, come aveva confessato al prete il giorno

prima della sua morte.

Una partita a scacchi. E la vita come posta in palio. Quanto devono essere stati penosi per lui, i suoi

figli, la sua povera moglie, i suoi amici, gli ultimi giorni di vita di Paolo Borsellino.

Questo il cappello dell’articolo, che si conclude con i ricordi della vedova, che definisce

«irrequieto ed assente» il marito i pochi giorni prima della strage, e del suo amico

Giuseppe Tricoli, uno degli ultimi personaggi a vedere Paolo Borsellino in vita.47

La parte bassa della pagina è invece dedicata ad altre notizie afferenti la strage: in primo

luogo il fatto che si è riusciti a raggiungere la figlia del giudice, Fiammetta, e che quindi è

stata fissata la data dei funerali del padre; il fatto che gli inquilini di via D’Amelio non

avranno risarcimenti per i danni subiti in seguito allo scoppio dell’autobomba che ha

divelto decine di automobili e di palazzi.

Il 23 luglio, Paolo Guzzanti dedica idealmente una lettera a Manfredi Borsellino,

primogenito del giudice, nella prima pagina (con prosecuzione nella successiva). Il tutto

scaturisce dall’affermazione della vedova che lo esorta a osservare il ragazzo per rendersi

conto di quanto assomigli al padre, fisicamente, mentalmente. E il giornalista raccoglie

l’invito, e si rivolge, tra le righe dell’articolo, al giovane che improvvisamente si ritrova

uomo, a dover affrontare un lutto grave per la sua età (diciannove anni) e a dover prendere

in mano le redini dell’intera famiglia Borsellino. E su tutti veglia ancora Caponnetto,

“padre” di Chinnici, Cassarà, Montana, ed ovviamente di Falcone e dello stesso Borsellino.

45 P. GUZZANTI, A Palermo la Norimberga dello Stato, «La Stampa», 22 luglio 1992, pag. 3. 46 L.SUGLIANO, Ore 11, l’Italia si ferma, «La Stampa», 22 luglio 1992, pag.3. 47 F. LA LICATA, Adesso il tritolo è pronto per me, «La Stampa», 22 luglio 1992, pag. 5.

24

Il tutto supportato da una fotografia del giudice a fianco della figlia Fiammetta, durante i

funerali di Falcone.48

I funerali si svolgono dunque il 23 luglio, in forma privata. I famigliari non vogliono che si

speculi su questa tragedia, ma non chiudono la porta a chi decide di andare a rendere

l’estremo saluto al loro caro. Guzzanti racconta della cerimonia funebre, della presenza

imponente di personaggi del calibro di Ayala e Caponnetto che sono sempre più acclamati

e benvenuti, e conclude il suo articolo con un invito che è anche una promessa.

Insieme non li faremo mai dimenticare

riferendosi ovviamente alle vittime del 19 luglio e rivolgendosi a chi vorrà continuare, con

sincerità e senza ipocrisia, a tenere vivo il ricordo di Paolo Emanuele Borsellino.49

4 LA TELEVISIONE SEMPRE PIÙ TEMPESTIVA

Rispetto alla notizia dell’omicidio di Giovanni Falcone, l’annuncio della strage di

via D’Amelio è giunta nelle case degli italiani in maniera ancora più puntuale. Questa volta

non sono comparsi sottopancia né la notizia è stata data durante le edizioni notturne dei

diversi telegiornali, ma è stato deciso di improntare dei servizi giornalistici che andassero

in onda poco meno di un’ora dopo l’attentato, avvenuto alle 17 del pomeriggio. Le

immagini proposte in quel frangente sono eloquenti: una strada divelta, vigili del fuoco

intenti a placare gli incendi, sirene di ambulanza e forze dell’ordine in sottofondo. Anche

per quanto riguarda la morte di Borsellino, sono questi i ricordi che meccanicamente

riaffiorano alla mente quando si pensa alla figura del magistrato. I quotidiani i giorni

seguenti hanno invece pubblicato diverse fotografie che ritraevano il procuratore di

Marsala in compagnia del giudice Falcone; e in più di un articolo la figura di Borsellino è

stata accostata a quella dell’amico e collega morto il 23 maggio 1992. Questo ha

sicuramente contribuito in maniera significativa a sviluppare nella collettività una sorta di

duplice memoria: quando si commemora Falcone, infatti, la maggior parte delle volte si

ricorda anche Borsellino. Ciò accade sia nelle manifestazioni pubbliche sia in trasmissioni

48 P.GUZZANTI, Con i Borsellino nella casa del dolore, «La Stampa», 23 luglio 1992, pag.1. 49 P.GUZZANTI, Fiammetta, una chiave per andare da papà, «La Stampa», 24 luglio 1992, pag. 3.

25

televisive, conferenze e dibattiti, e tutto quanto possa essere afferente al mondo della

comunicazione.

Analizzando il “come è stata data la notizia” delle tre diverse morti, si evince che

l’evolversi dei mass-media ha permesso, anche per quanto attiene quest’argomento, una

diffusione più puntuale delle notizie: si è infatti passati dal sottopancia trasmesso il 3

settembre 1982 (omicidio Dalla Chiesa) all’interruzione immediata dei telegiornali per

dare la notizia della strage di via D’Amelio del 19 luglio di dieci anni dopo.

26

CAPITOLO II

UN ANNO DOPO

In diverse occasioni i mass-media sono stati tacciati di superficialità. Nello

specifico, mi riferisco a quando i critici del genere accusano il mondo dell’informazione di

seguire con accanimento un avvenimento per poi farlo cadere nell’oblio, non menzionarlo

più.

Nel caso delle stragi di mafia, per quanto riguarda i primi dodici mesi successivi alle morti

di Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i mass-media hanno

ricordato in maniera puntuale quanto accaduto, riportando le notizie di commemorazioni e

cerimonie pubbliche volte alla memoria di questi tre personaggi. Ovviamente l’intento non

era solo quello di informare ma anche e soprattutto quello di tenere viva la loro memoria.

1

LE COMMEMORAZIONI DI CARLO ALBERTO DALLA CHIESA…

La prima manifestazione dopo l’assassinio del generale dei carabinieri avviene a

distanza di un mese e mezzo dal tragico 3 settembre: il 16 ottobre 1982, presso il Teatro

Politeama, settantamila persone prendono parte alla conferenza presieduta da Rita Dalla

Chiesa e da Giovanni Spadolini, a conclusione del Consiglio generale delle confederazioni

sindacali, svoltosi nell’arco di due giornate. L’appuntamento viene vissuto dalla figlia del

prefetto come un momento di ringraziamento, di riconoscimento verso quanti, anche in

quel giorno, abbiano dimostrato affetto nei confronti di suo padre. «Grazie a tutti voi, a

nome della mia famiglia, a nome di mio padre», afferma. E nonostante le parole di

Spadolini siano tanto realistiche quanto poco confortanti - «non batteremo la criminalità

organizzata in pochi giorni», Rita Dalla Chiesa precisa: «Facciamo in modo che quanto

accaduto a mio padre, a Emmanuela, all’agente Russo non sia stato inutile».

27

Il quotidiano piemontese “La Stampa” dedica all’argomento la prima pagina con una foto

del tavolo dei partecipanti alla conferenza, e un ampio articolo di Giuseppe Zaccaria in

seconda pagina.1

Una fotonotizia, il giorno dell’Immacolata dello stesso anno, rende nota la consegna della

medaglia d’oro alla memoria del generale Dalla Chiesa ritirata da Nando e Romolo,

rispettivamente figlio e fratello dello scomparso.2

Per avere una strada capitolina intestata al prefetto bisogna attendere la primavera del

1983: “La Stampa” ne dà notizia il 26 aprile di quell’anno, pubblicando la fotografia che

ritrae l’anziana madre del commemorato sorretta dal sindaco di allora Vetere e dalla nipote

Rita; alle loro spalle figurano il fratello del generale e il ministro degli Interni Rognoni.3

Dopo pochi giorni, la primogenita Rita partecipa al corteo promosso in ricordo del

segretario generale del partito comunista Pio La Torre e del suo autista Rosario Di Salvo,

ucciso il 30 aprile 1982. La manifestazione, alla quale partecipano soprattutto migliaia di

giovani, si snoda lungo le vie principali del capoluogo siciliano per giungere in via Turba,

ove si consumò l’omicidio. In quella zona Enrico Berlinguer ricorda l’impegno di La Torre

contro la mafia, e rammenta alla folla l’incrocio dei destini dell’esponente del partito

comunista e del generale dei carabinieri.4

Quest’ultimo fu nuovamente ed ufficialmente commemorato nel corso della Festa della

Polizia, celebrata a livello nazionale. In prima pagina, il 12 luglio 1983, “La Stampa”

pubblica la foto del Presidente della Repubblica Sandro Pertini in procinto di consegnare a

Rita Dalla Chiesa la medaglia d’oro alla memoria del padre. Gli approfondimenti

all’interno raccontano delle celebrazioni dedicate al corpo della Polizia, oltre a un

avvenimento di cronaca giudiziaria: il giudice Giovanni Falcone ha firmato 14 mandati di

cattura proprio per l’omicidio del generale dei carabinieri.5

Il passato si fonde dunque appieno con il presente, si ha quasi la sensazione che qualcosa si

stia muovendo, e che quanto svolto dal generale non sia stato vano. Viene raccolta

un’ideale ma soprattutto morale eredità del prefetto di Palermo, da un personaggio che avrà

un destino analogo.

1 G.ZACCARIA, «Grazie a tutti, anche a nome di mio padre» Poi un applauso sommerge Rita Dalla Chiesa, «La Stampa», 17 ottobre 1982, p.2. 2 Medaglia d’oro a Dalla Chiesa, «La Stampa», 8 dicembre 1982, p.7. 3 Una via intitolata a Dalla Chiesa, «La Stampa», 26 aprile 1983, p.7. 4 Palermo ricorda le vittime della mafia, «La Stampa», 1 maggio 1983, p.7. 5 A.RAVIDA’, Palermo, 14 nuovi mandate di cattura per l’omicidio del gen.Dalla Chiesa, «La Stampa», 12 luglio 1983, p.7.

28

Come si è potuto desumere da quanto scritto, le commemorazioni rivolte alla memoria del

carabiniere «dalla punta dei piedi alla cima dei capelli»6 si sono avvicendate nel tempo,

partendo dal primo mese dall’omicidio di via Isidoro Carini. Tuttavia, com’era d’altronde

presumibile, la maggior parte delle cerimonie si sono svolte a ridosso del 3 settembre, a

distanza di un anno dalla morte del generale e della moglie.

Bettino Craxi ha presieduto alla prima, il 2 settembre ‘83, rendendo omaggio alla tomba

della famiglia Dalla Chiesa, dove ovviamente è sepolto anche il generale, a Parma. Il

politico ha dichiarato:

È con grande commozione che io ricordo un amico che avevo imparato a conoscere nei primi anni

delle mie responsabilità politiche e negli anni difficili del fanatismo e terrorismo dilaganti e della

cui amicizia conservo e conserverò sempre cara memoria.7

Le celebrazioni in ricordo dell’agguato di via Carini, a un anno preciso di distanza, quindi

il 3 settembre 1983, si susseguono. Nel corso della giornata sono tre le commemorazioni

ufficiali. La prima, indetta dalla Prefettura palermitana, si svolge di mattina, e le fa seguito

un coro di polemiche. I figli del generale sono infatti indignati in quanto non sono stati

invitati alle commemorazioni ufficiali del loro padre, e di conseguenza, come atto di

denuncia, disertano le stesse. Alla messa di cui sopra partecipa solamente il figlio Nando,

che tuttavia preferisce occupare un posto a sedere tra le vedove delle vittime di mafia

piuttosto che vicino ai politici.

In tarda mattinata, il sindaco si reca in via Carini, sede dell’attentato nel quale persero la

vita il generale, la moglie e l’agente di scorta, per scoprire una lapide dedicata ai martiri di

mafia. La gente presente è poca, poco prima della celebrazione ufficiale sopraggiunge Rita

Dalla Chiesa, che si limita a deporre sull’asfalto tre rose, per poi andarsene subito dopo.

Infine, la terza delle celebrazioni ufficiali avviene presso il Municipio, nel pomeriggio:

anche in questo caso, non sono presenti i famigliari delle vittime della strage del 3

settembre.8

Un’ultima messa viene infine celebrata a Roma, presso la cappella della scuola allievi

Carabinieri della capitale, il 5 settembre 1983.9

6 P.SAPEGNO e M.VENTURA, Generale, Città di Castello, Limina, 1997, p.13. 7 Parma, Craxi rende omaggio alla tomba di Dalla Chiesa, «La Stampa», 2 settembre 1983, p.1. 8 G.RAMPOLDI, Solo Nando Dalla Chiesa alla messa ma seduto tra le vedove della mafia, «La Stampa», 4 settembre 1983, p.2. 9 G.RAMPOLDI, Una messa a Roma per Dalla Chiesa, «La Stampa», 6 settembre 1983, p.6.

29

I figli Nando, Rita e Simona Dalla Chiesa sono invece in testa al corteo che parte da Villa

Whitaker, per raggiungere via Isidoro Carini, luogo dell’omicidio. La gente comune ha

indetto un corteo che percorre a ritroso il percorso che avrebbero dovuto compiere il

generale e la moglie anche quel venerdì di settembre: una fiaccolata per non dimenticare,

in mezzo alle persone che hanno apprezzato l’operato del generale Dalla Chiesa. E molto

probabilmente tra quello stuolo di cittadini, quella sera, c’era anche chi, all’indomani della

strage, scrisse: «Qui e’ morta la speranza dei siciliani onesti».

…E LE POLEMICHE

I mesi intercorsi tra la strage di via Carini e il primo anniversario della stessa, e

quindi della morte di Dalla Chiesa, sono stati caratterizzati tanto dalle commemorazioni

quanto dai veleni. Le pagine dei giornali hanno evidenziato come i figli del generale

provassero ostilità nei confronti dei politici e delle autorità che esaltavano la volontà di

ricordare il sacrificio del prefetto di Palermo ma che quando era in vita avevano lasciato da

solo. Partecipano quindi ai cortei ma spesso disertano le celebrazioni ufficiali, e questo si

deduce proprio dalla lettura dei giornali. Per quanto attiene la divulgazione delle notizie di

tali commemorazioni, si nota che la maggior parte delle manifestazioni sono state trattate

in prima pagina, ma sottoforma di fotonotizia. In altre parole, una fotografia e una breve

didascalia esplicavano quanto avvenuto il giorno prima in ricordo di Dalla Chiesa: la

consegna della medaglia al valore civile ai figli piuttosto che la visita di un noto

personaggio alla loro tomba di famiglia. I lettori, leggendo la prima pagina, probabilmente

credevano di trovare all’interno del quotidiano degli approfondimenti o degli altri articoli

inerenti all’argomento, ma nella maggior parte dei casi ciò non è avvenuto. Solo in

occasione del primo anniversario, quindi il 3 settembre del 1983, la testata piemontese

dedica maggiore spazio a quanto accaduto a Palermo l’anno prima: vi sono fotografie in

prima pagina ma anche notizie all’interno, che spesso riportavano il programma delle

diverse manifestazioni e l’elenco delle autorità che vi avevano partecipato. Per un servizio

più completo al lettore ritengo che “La Stampa” avrebbe potuto pubblicare tali dati il

giorno precedente alla commemorazione stessa, per dare l’opportunità agli interessati di

prendervi parte.

Si può inoltre notare che nell’arco di dodici mesi la figura del generale è stata la maggior

parte delle volte ricordata attraverso quelle del figlio Nando e della figlia Rita, mentre non

30

compaiono, sicuramente per richiesta della diretta interessata, foto della terzogenita

Simona. Sono i primi due figli a partecipare nel numero maggiore di volte alle cerimonie

pubbliche e ai cortei, ma a seconda del figlio del generale di cui si parla i toni cambiano.

Quando infatti si analizza un appuntamento legato alla commemorazione di Carlo Alberto

Dalla Chiesa, e si interpella il figlio Nando, puntualmente “La Stampa” cade

nell’argomento politico, dando notizia di polemiche verificatesi tra il sociologo e altri

esponenti politici. Nel momento in cui, invece, si informano i lettori che il generale Dalla

Chiesa è stato ricordato nel corso di una conferenza piuttosto che di una fiaccolata, ecco

comparire il nome, spesso corredato dalla pubblicazione di una fotografia, della figlia Rita.

In qualche modo, almeno secondo la mia personale chiave interpretativa, è come se il

giornale analizzato volesse trasmettere il messaggio secondo il quale il figlio Nando non si

limita a ricordare ma continua, certamente non in maniera velata, a puntare il dito contro

quelle persone ree di aver abbandonato suo padre durante i cento giorni di permanenza a

Palermo in veste di prefetto. Come se le commemorazioni, per il figlio, fossero sempre

degli atti d’accusa e di denuncia.

Rita Dalla Chiesa, da quanto emerge dalle letture degli articoli di quel periodo (settembre

1982-settembre 1983), cerca invece di esporsi meno, e apprezza maggiormente le

manifestazioni della gente comune: “La Stampa” ha pubblicato alcune fotonotizie che la

ritraevano in testa a cortei per le vie di Palermo, vicina ai semplici cittadini.

Il giornale dunque ha dato notizia puntuale degli avvenimenti intercorsi in questo lasso di

tempo, ma la maggior parte delle volte si è limitato a un breve annuncio, come se non

valesse la pena dedicare ulteriore spazio, nel corso del primo anno successivo alla strage

del 3 settembre 1982, alle manifestazioni atte a non dimenticare quanto accaduto in questa

data. Bisogna tuttavia dare atto a “La Stampa” che le notizie relative all’argomento sono

sempre state pubblicate in prima pagina, quindi sicuramente ben visibili anche dai lettori

distratti.

31

2

FALCONE E BORSELLINO, ANCORA INSIEME

La prima commemorazione del magistrato ucciso il 23 maggio 1992 avviene proprio

per bocca del suo amico Paolo Borsellino, che presenzia alla fiaccolata indetta dai

palermitani la sera del 23 giugno dello stesso anno. Vale la pena riportare il discorso di

Borsellino.

Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un

giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe

condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che

sarebbero stati partecipi della sua sorte. Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone

l’estremo pericolo che egli correva perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e di suoi amici

sono state stroncate sullo stesso percorso che egli imponeva. Perché non è fuggito, perché ha

accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a

rispondere a chiunque della speranza che era in lui?

Per amore!

La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato, che

tanto non gli piaceva. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro

che gli siamo stati accanto in questa meravigliosa avventura, amore verso Palermo e la sua gente ha

avuto ed ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare dalle

nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la Patria cui essa

appartiene […].

La lotta alla mafia non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un

movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire

la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, della

indifferenza, della contiguità, e, quindi, della complicità. Ricordo la felicità di Falcone, quando in

un breve periodo di entusiasmo conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di

Buscetta, egli mi disse: «La gente fa il tifo per noi». E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al

conforto che l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice. Significava soprattutto

che il nostro lavoro, il suo lavoro stava anche smuovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di

accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la vera forza di essa […].

Occorre dare un senso alla morte di Giovanni, della dolcissima Francesca, dei valorosi uomini della

sua scorta. Sono morti tutti per noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e

dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera. Facendo il nostro dovere; rispettando le

leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici; rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i

32

benefici che possiamo trarne; collaborando con la giustizia; testimoniando i valori in cui crediamo,

in cui dobbiamo credere, anche dentro le aule di giustizia. Troncando immediatamente ogni legame

di interesse, anche quelli ci sembrano innocui, con qualsiasi persona portatrice di interessi mafiosi,

grossi o piccoli; accettando in pieno questa gravosa e bellissima eredità di spirito; dimostrando a

noi stessi e al mondo che Falcone è VIVO.

Una vera e propria premonizione quella del magistrato, conscio di essere, dopo la morte

dell’amico Falcone, ulteriormente esposto, maggiormente un bersaglio della mafia.

Come sopra riportato, tale discorso era stato pronunciato la sera del 23 maggio 1992, a

conclusione di una serie di commemorazioni del primo mese della strage di Capaci.

La giornata del 23 maggio era infatti iniziata con una messa celebrata nella chiesa del

quartiere di nascita di Giovanni Falcone, una celebrazione alla quale avevano preso parte

sia i parenti del giudice che quelli della moglie Francesca Morvillo

Il culmine dell’anniversario si è avuto nel pomeriggio, quando ha preso il via una

manifestazione cittadina: un serpentone umano lungo tre chilometri che dal Palazzo di

Giustizia ha raggiunto via Notarbartolo, domicilio dei giudici Falcone, ove campeggia una

magnolia ribattezzata “l’albero Falcone” (e poi rinominata aggiungendo anche il nome di

Borsellino). Alle 17.58, ora in cui un anno prima fu fatta saltare in aria il raccordo

autostradale percorso in quel momento dalla Fiat Croma di Giovanni Falcone, la folla si è

stretta in un minuto di silenzio e di raccoglimento, seguito da un avvicendarsi di slogan

contro la mafia e pro Falcone.

Il Comune di Palermo ha invece affisso dei manifesti per le vie del capoluogo, ricordando

che:

Il 23 maggio e’ una data che purtroppo rimarrà scolpita nella memoria dei palermitani onesti che

gridano giustizia e invocano quel riscatto che, per questa martoriata città, da troppi anni chiedono

allo Stato insieme al loro amato pastore cardinale Pappalardo.

Dall’articolo, tuttavia, si evince che proprio il cardinale si è inspiegabilmente rifiutato,

poco prima delle 18, di suonare le campane a morto.10

Anche le organizzazioni sindacali hanno organizzato una manifestazione per non

dimenticare quanto avvenuto il 23 maggio. Centocinquantamila persone hanno preso parte

a un corteo che si è snodato lungo le vie palermitane, e che ha raggiunto l’apice con la 10 A.RAVIDA’, Palermo grida per Falcone: “Boss Mafiosi, in ginocchio”, «La Stampa», 24 giugno 1992, p.12.

33

dichiarazione di Rosalia Schifani. La vedova di Vito, uno degli agenti di scorta di Falcone,

non ha abbandonato il suo cipiglio e la sua grinta che l’avevano contraddistinta già in

occasione dei funerali celebrati il 25 maggio, e lancia un monito: «Io voglio giustizia. La

pretendo». A curare il reportage Francesco La Licata: quasi un’intera pagina, la numero 7

dell’edizione del quotidiano torinese del 28 giugno, con a corredo delle immagini della

folla che ha dato vita alla manifestazione.11

I giornali non si occupano più della mafia e dell’omicidio Falcone fino al 19 luglio 1992,

giorno della strage di via D’Amelio. Dal punto di vista delle commemorazioni, a partire da

quella data sempre più spesso Falcone, la moglie e gli agenti della scorta saranno ricordati

insieme a Paolo Borsellino e ai suoi poliziotti. .

Il primo esempio è fornito dalla decisione dell’amministrazione comunale di intitolare due

vie rispettivamente a Falcone e Borsellino. La prima strada che porterà il nome del

magistrato ucciso il 23 maggio 1992 sarà quella in cui sorgeva la sua abitazione, via

Notarbartolo, partendo dall’ingresso della palazzina stessa. La via in cui abitava Borsellino

con la famiglia porterà invece il suo nome.

Tutto questo è stato tra l’altro reso possibile grazie alla deroga di una legge relativa alla

toponomastica che stabiliva che vie e piazze non possono essere intitolate a personaggi

famosi fino a quando non siano trascorsi dieci anni dalla loro morte.12

Nel maggio del 1993 Papa Paolo Giovanni Paolo II intraprende un viaggio in alcune

province siciliane. Tocca Caltanissetta, Trapani e Agrigento, e proprio in questa città grida

il suo sfogo nei confronti di quanto accaduto l’anno prima. Chiede ai mafiosi di convertirsi

e dichiara martiri della fede i giudici siciliani uccisi dai boss.13

Contestualmente, ad Amelia, in provincia di Terni, presso la sede della comunità incontro

vengono inaugurate cinque campane recanti i nomi delle altrettanti vittime della strage di

Capaci. Ognuna di loro riporta uno dei nomi dei periti, con la dicitura:

Che il suono di queste campane porti la voce del vostro sacrificio agli uomini che facilmente

dimenticano.

11 F.LA LICATA, La riscossa antimafia ha 150 mila voci, «La Stampa», 28 giugno 1992, p.7. 12 A.RAVIDA’, Blitz a Palermo, a vuoto. Vie dedicate a Falcone e Borsellino, «La Stampa», 8 agosto 1992, p.9. 13 M.TOSATTI, Il Papa grida: “Mafiosi, convertitevi”, «La Stampa», 10 maggio 1993, p.5.

34

La cerimonia si à svolta alla presenza del vicepresidente del Consiglio Superiore della

Magistratura Giovanni Galloni e di Maria Falcone, sorella del defunto Giovanni.14

Sulle pagine de “La Stampa” spetta in prima persona ad Antonino Caponnetto il compito di

ricordare l’amico e collega Giovanni Falcone: è a sua firma una sorta di editoriale in prima

pagina, pubblicato proprio il 23 maggio 1993, a un anno esatto dalla scomparsa del giudice

palermitano15.

Il giudice Caponnetto viene nuovamente chiamato a scrivere sulle pagine de “La Stampa”

in occasione dell’anniversario della strage di via D’Amelio. Il magistrato si trova

sull’aereo che lo condurrà a Palermo proprio per partecipare alle commemorazioni ufficiali

dedicate a Borsellino e ai suoi uomini della scorta. Sulla scia dei ricordi, rievoca il primo

incontro avuto con il procuratore di Marsala, «la reciproca stima, l’amicizia affettuosa, la

collaborazione entusiasta» che si erano instaurate tra lui e il suo collega. Rammenta

dell’ultima volta che ha visto vivo Borsellino, all’aeroporto di Palermo quando egli l’aveva

accompagnato dopo che avevano partecipato ai funerali di Falcone. Caponnetto gli aveva

promesso che si sarebbero rivisti presto, e Borsellino profeticamente aveva risposto che

non era così sicuro che ciò sarebbe avvenuto. Purtroppo aveva ragione.16

Anche in occasione del primo anniversario della strage di via D’Amelio, si sono

annoverate diverse manifestazioni. Oltre al discordo del giudice Antonino Caponnetto,

intervenuto presso la biblioteca comunale palermitana, vanno menzionati il corteo partito

dal luogo della strage e giunto a piazza Magione, inglobata nel quartiere nativo del

magistrato, la lapide eretta a Palazzo d’Orléans e la posa di un ulivo in via D’Amelio,

simbolo della vita e della voglia di rinascere. Nel corso della serata del 18 luglio del 1993,

la vedova ed i figli di Borsellino avevano presenziato a una veglia celebrata nella chiesa di

Santa Maria di Marillac; contestualmente, il cantautore Sting, in concerto nello stadio

comunale di Marsala (cittadina in cui Borsellino aveva professato il ruolo di procuratore),

ha dedicato alle vittime di mafia la canzone Fragile.17

14 Strage di Capaci. Per i martiri 5 campane. «La Stampa», 10 maggio 1993 p.5. 15 A.CAPONNETTO, Un anno senza Falcone, «La Stampa», 23 maggio 1993, pp.1-2. 16 A.CAPONNETTO, Borsellino, il ricordo di Caponnetto, 19 luglio 1993, pp.1-2. 17 A.RAVIDA’, La Sicilia scende in piazza a un anno da via D’Amelio, 19 luglio 1993, p.5.

35

3

LA TELEVISIONE

Come avvenne per la notizia relativa alle morti di Dalla Chiesa, Falcone e

Borsellino, anche per quanto riguarda le commemorazioni non sono stati solo i giornali a

giocare un ruolo preponderante nella divulgazione dei fatti. Anzi, potremmo affermare che,

con il passare del tempo, è evidente che l’impronta più significativa è stata impressa dalla

televisione. Tutto questo emerge non tanto per quanto attiene l’omicidio del generale Dalla

Chiesa, ma soprattutto per le stragi del 1992. Se è vero che i giornali hanno curato il primo

anniversario dei singoli assassini in maniera puntuale, è altrettanto vero che, nel caso di

Falcone e Borsellino, sono arrivati in ritardo, se mi è concesso il termine.

Le celebrazioni relative al primo anniversario della morte di Carlo Alberto Dalla Chiesa

non sono state seguite dalla televisione, ma la stessa tesi non può essere applicata alle

commemorazioni in ricordo dei due giudici siciliani. A loro sono infatti stati dedicati ampi

servizi ai telegiornali, trasmissioni televisive in prima e seconda serata, speciali su

entrambe le reti. Quello che gli italiani apprendevano dalle pagine dei quotidiani certe

volte era già conosciuto; d’altronde, i giornali erano fruibili il giorno dopo degli

anniversari, mentre la televisione raccontava quello stesso giorno quanto avvenuto l’anno

precedente, magari alla stessa ora in cui si erano consumate le stragi.

Un esempio di quanto appena affermato è dato dalla lettera scritta da Agnese Borsellino:

pubblicata da “La Stampa” del 19 luglio 1993, era stata letta integralmente dalla stessa

vedova nel corso di uno speciale del Tg1 andato in onda la sera precedente. Nessuna

persona più di questa donna poteva commemorare nel modo migliore Paolo Borsellino,

rendendo partecipe l’Italia intera del loro dolore. Ecco il testo:

Anche per noi è giunto così il momento di ricordare che è trascorso un anno, da quando nostro

marito e padre è stato crudelmente sottratto a questa vita, solo per essere stato un uomo onesto e

leale anche con coloro che egli sapeva non avessero fatto la sua stessa scelta.

Ma lui è ancora così vicino alle persone che ama che per noi un anno sembra solo un lungo giorno

che non giunge mai al tramonto. È triste pensare che per coloro che gli hanno voluto e che

continueranno a volergli male, questo sia invece un lungo anno di una “non vita” fatta di paure,

rimorsi e tentativi di nascondersi; pertanto non vivremo questo 19 luglio come un giorno di morte

ma come un giorno in cui riflettere sul vero significato della vita.

36

Se una sola persona fra tante accoglierà questo messaggio, allora ciò basterà perché nostro padre

continui a vivere non da eroe ma da uomo normale, padre, marito, amico, magistrato. Non ci

consola sentire nostro padre chiamato eroe, perché è un modo per continuare ad attribuire ad un

uomo solo le responsabilità che dovrebbero essere di migliaia di uomini. È triste pensare che il

fuoco di quel 19 luglio non abbia distrutto con sé il male dell’animo umano. Esso tuttavia ha

alimentato la bontà e l’amore di tanti uomini, che hanno il merito di avere reso il nostro dolore

sopportabile, condividendolo e riempiendoci d’affetto.

Grazie a questi “nuovi amici”, a cui spesso non abbiamo potuto dire quanto eravamo loro grati e

quanto una loro parola, una lettera, un gesto, ci abbiano fatte recuperare anni di vita che in un

attimo credevamo di avere perso. Grazie a tutti coloro che con il loro vivere semplice ed onesto

portano alto il nome di Paolo, incarnandone l’essenza. Grazie a tutti coloro che veramente ci

vogliono bene e che desiderano tendere la loro mano alla nostra, non lasciandoci soli, in questo

lungo cammino verso la “vera” luce, verso la “vera” vita.18

La prima trasmissione televisiva che ha commemorato Giovanni Falcone e Paolo

Borsellino è stata Telefono Giallo attraverso la puntata trasmessa il 24 novembre del 1992

sulle reti Rai. Il conduttore Corrado Augias aveva ospitato in studio Antonino Caponnetto,

allora capo della Procura di Palermo, Giuseppe Ayala, deputato del Partito Repubblicano

Italiano, oltre a Claudio Martelli, che all’epoca era a capo del dicastero della Giustizia, e al

giornalista Francesco La Licata. Gli ospiti erano stati chiamati a disquisire sullo

svolgimento delle indagini, sull’iter processuale per i delitti di mafia, sui motivi degli

omicidi e sull’operato del pool antimafia. A corredo degli interventi in studio furono

trasmesse delle fotografie che ritraevano Borsellino e Falcone e dei filmati riguardanti le

stragi e le ricostruzioni dei preparativi degli attentati.19

A distanza di quasi una settimana dal primo anniversario della strage di Capaci, Maurizio

Costanzo ricorda le vittime del 23 maggio 1992 attraverso una puntata speciale del suo

show condotto in sinergia con Michele Santoro. Di fatto si era trattato di una trasmissione

staffetta tra il Maurizio Costanzo Show e Samarcanda. La puntata era stata presentata

anche dai maggiori quotidiani italiani che avevano posto l’accento sul fatto che,

all’indomani dell’attentato al Parioli, il giornalista aveva trovato la forza di tornare in video

per trattare nuovamente l’argomento scottante della mafia.20

18 La vedova: “Lo sentiamo ancora vicino”, «La Stampa», 19 luglio 1993, p.5. 19 Le stragi di Palermo, Telefono Giallo, trasmissione del 24 novembre 1992, Archivio Rai Torino, identificazione teca: G70258. 20 Costanzo ricorda Falcone, «La Stampa», 17 maggio 1993, p.2.

37

Giovanni Falcone era stato successivamente commemorato dalle reti Rai per mezzo della

trasmissione Mixer condotta da Giovanni Minoli. In quell’occasione il giornalista aveva

analizzato il tema della criminalità organizzata, e più specificatamente l’attentato nel quale

avrebbero dovuto perire Costanzo e la moglie Maria De Filippi, e la strage di Capaci.21

Tutte le edizioni principali dei telegiornali hanno ovviamente rammentato le tre diverse

ricorrenze, riproponendo, nella maggior parte dei casi, filmati di repertorio inerenti al

momento delle rispettive stragi. Anche in quest’occasione la televisione si dimostra più

puntuale rispetto alla carta stampata per ovvi vantaggi logistici, e permette agli italiani un

costante aggiornamento relativo alle manifestazioni di commemorazione; i giornali invece

possono solo presentare quanto avverrà nel corso della giornata per poi raccontarlo il

giorno successivo, anche se spesso celebrano l’anniversario avvalendosi del ricordo di chi

ha conosciuto bene le persone suffragate, come nel caso delle lettere scritte da Antonino

Caponnetto.

Ritengo inoltre che la televisione, attraverso le immagini, abbia il potere di imprimere nella

memoria dei suoi fruitori i fatti raccontati: spesso tendiamo a dimenticare quanto appena

letto sulle pagine dei giornali, ma è molto più semplice ricordare determinati fotogrammi

che ritornano alla mente non appena si parla di quel determinato argomento.

Carta stampata o televisione, l’importante è che eccidi di simili natura non siano

dimenticati ma costantemente raccontati e ricordati alla popolazione, per evitare che simili

sacrifici non risultino vani. Ricostruzioni puntuali, fotografie toccanti, interviste e

inchieste. Tutto ricopre un ruolo importante se l’obiettivo primario è quello della memoria

collettiva e del non oblio.

Tuttavia, bisogna sottolineare che ai tre diversi anniversari sono stati riservati trattamenti

diversi. Per quanto attiene Carlo Alberto Dalla Chiesa, la maggior parte delle

commemorazioni è avvenuta nel corso dei primi dodici mesi che intercorrevano tra la sua

morte e il primo suffragio della stessa. Falcone e Borsellino sono invece stati ricordati

soprattutto allo scadere del primo anniversario, con ampi servizi giornalistici e

approfondimenti, al contrario di quanto avveniva per il generale dei carabinieri, troppo

spesso commemorato solo attraverso delle fotonotizie. Inoltre, la televisione non ha

celebrato la strage di via Carini, al contrario di quanto avvenuto per le stragi di Capaci e di

via D’Amelio, nella maggior parte dei casi ricordate all’unisono. Si può quindi dedurre che

la televisione e la carta stampata non sempre operano nello stesso modo anche quando si

21 Realtà inchieste, Mixer, trasmissione del 24 maggio 1993, Archivio Rai Torino, identificazione teca: F148471.

38

tratta del medesimo argomento (la mafia) e delle stesse finalità, cioè ricordare chi ha perso

la vita per combattere la criminalità organizzata.

39

CAPITOLO III

LA COSTRUZIONE DELLA MEMORIA

Dopo aver ricostruito la rappresentazione delle commemorazioni riguardo alle

morti del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e dei giudici Paolo Borsellino e Giovanni

Falcone nel corso dei primi mesi della loro scomparsa, fino a giungere alle date dei primi

anniversari, rispettivamente 3 settembre, 19 luglio e 23 maggio, proviamo a scendere più

nel dettaglio..

Dall’analisi dei diversi documenti raccolti, si evince una diversità di agire nei confronti dei

singoli personaggi. Le notizie relative alle cerimonie svolte per onorare la memoria del

prefetto di Palermo, di sua moglie e del loro agente sono state pubblicate sino al 1991, a

eccezione del 1986 e del 1989; a partire dall’anno successivo, ovvero dal 1992, i quotidiani

non hanno più diramato notizie attinenti a tali ricorrenze. Si presume che comunque siano

state celebrate per esempio messe di suffragio di carattere privato, ma i mass-media non ne

hanno dato notizia.

Si tratta di una particolarità a mio giudizio molto importante, in quanto il 1992 è l’anno

delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, avvenute, dal punto di vista temporale, prima del

3 settembre. Si ha dunque l’impressione che tali drammatici eventi abbiano oscurato

quanto avvenuto dieci anni prima; è come se da quel momento fosse più corretto e attuale

ricordare Falcone e Borsellino tralasciando Dalla Chiesa, come se la memoria collettiva

legata alle vittime di mafia fosse da ricondurre solo ai due magistrati palermitani e agli

avvenimenti più contemporanei. Da sottolineare inoltre il fatto che questa circostanza si è

verificata l’anno in cui cadeva il decennale della morte del generale dei carabinieri,

ricorrenza che tuttavia non è stata trattata.

Un altro aspetto emerso dall’analisi del materiale messo insieme, è che la figura che

maggiormente viene menzionata e ricordata è quella del giudice Giovanni Falcone. Ogni

anno – escluso il 2003 - si sono susseguite diverse manifestazioni e cerimonie pubbliche

per onorare il sacrificio suo, della moglie e dei cinque agenti della scorta. Al contrario, la

memoria collettiva rivolta al suo amico e collega Paolo Borsellino non si può definire

altrettanto puntuale: nel 1995, nel 2000 e nel 2003 “La Stampa” non menziona

l’anniversario e di conseguenza non ricorda alla popolazione quanto avvenne

40

rispettivamente tre, otto e undici anni prima. Inoltre, bisogna sottolineare il fatto che spesso

le commemorazioni rivolte a uno dei due personaggi inglobano anche il nome dell’altro: in

diverse occasioni risulta facile notare come le manifestazioni siano contro una mafia che

ha ucciso non solo Falcone ma anche Borsellino, indipendentemente dal fatto che le stesse

si celebrino il 23 maggio o il 19 luglio. Gli striscioni in diversi momenti riportano il nome

di entrambi, ed è sicuramente parte della memoria collettiva la foto che ritrae Falcone e

Borsellino seduti fianco a fianco, intenti a parlottare fra di loro in maniera confidenziale.

Questo è legato anche al fatto che le vite dei due giudici si sono spesso intersecate tra loro,

fin dai tempi dell’infanzia, e quindi risulta meccanico ricordarli insieme; difficile cercare

invece un parallelismo con la biografia di Carlo Alberto Dalla Chiesa, in quanto le tre

personalità, pur avendo lo stesso obiettivo, cercavano di raggiungerlo con mezzi diversi,

attaccando su fronti distinti.

1

DIECI ANNI NEL RICORDO DI CARLO ALBERTO DALLA CHIESA

Il 3 settembre 1984, a due anni esatti dall’eccidio, si svolsero diverse celebrazioni

per ricordare quanto accaduto nel 1982.

La cattedrale palermitana ospitò infatti la messa di suffragio, officiata alla presenza dei

figli e del fratello del generale, della madre di Emmanuela Setti Carraro, e della vedova

dell’autista Russo. Il ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro, seduto accanto a loro,

improvvisamente si alzò e raggiunse l’altare, per dichiarare:

Il pericolo più grande è che il tempo lasci chi soffre immerso nella solitudine. Per noi, il miglior

modo di ricordare le vittime deve essere quello di compiere ogni giorno il nostro dovere ad ogni

livello, senza incertezze1.

Una frase che, a mio giudizio, può essere applicata a qualsiasi personaggio caduto vittima

della mafia o di altri attentati, oppure mentre svolgeva le proprie funzioni lavorative.

1 G.ZACCARIA, Palermo ricorda Dalla Chiesa. Tante autorità ma poca gente, «La Stampa», 4 settembre 1984, p.7.

41

Leggendo una simile affermazione infatti, il pensiero può correre anche a persone come

Falcone e Borsellino, senza dimenticare i loro agenti della scorta.

Alla fine della messa, i presenti raggiunsero via Carini, luogo dell’attentato: le autorità

deposero corone e mazzi di fiori ma i figli del generale, quasi per protesta di fronte a tanta

ipocrisia da parte di chi aveva abbandonato il loro padre e poi lo ricorda nel corso delle

commemorazioni ufficiali, giunsero a cerimonia terminata.

La manifestazione conclusiva della giornata fu promossa dal coordinamento antimafia, che

diede vita a un corteo composto da migliaia di giovani2.

Molto più raccolto invece l’omaggio che il presidente della Repubblica aveva voluto fare

sulla tomba di famiglia dei Dalla Chiesa, a Parma. In visita nella città, il capo dello Stato si

era recato presso la cappella, aveva deposto un mazzo di rose rosse, che con cura aveva

sistemato lui personalmente, per «i miei amici». All’avvenimento erano presenti sia i figli

del generale sia la madre della signora Dalla Chiesa3.

La ferita, mai rimarginata, che si acuisce in occasione degli anniversari si unisce al dolore

per la morte di Ninnì Cassarà, il vicequestore di Palermo assassinato dalla mafia il 6 agosto

1985. Non è trascorso dunque nemmeno un mese dalla sua crudele scomparsa quando

l’Italia, ma in maniera particolare Palermo, vuole ricordare quanto avvenne il 3 settembre

di tre anni prima in via Isidoro Carini. E lo fa unendo il ricordo del generale dei carabinieri

a quello del vicequestore: il corteo infatti, partito dal luogo della strage, per la prima volta

non ha come meta Villa Whitaker, sede della prefettura, ma la questura, per ricordare che

la stessa è stata privata di un uomo valoroso che credeva nel suo dovere e che per questo è

stato punito dalla criminalità organizzata. In prima fila Nando, Rita e Simona Dalla Chiesa,

il fratello del generale, Romolo, la madre e la fidanzata dell’agente di scorta di Cassarà,

anch’egli perito nell’attentato del 6 agosto.

Leoluca Orlando, sindaco di Palermo, ha tenuto un breve discorso, focalizzando

l’attenzione sull’importanza del ricordo per quanto accaduto

un ricordo che è ferma, continua condanna per la barbarie mafiosa che insanguina la nostra città

[…]. Il 3 settembre, i tanti 3 settembre, sono giorni di sconfitta per lo Stato, per l’intera comunità

nazionale; il generale Dalla Chiesa, le tante vittime della violenza mafiosa sono i caduti di questa

nuova guerra che lo Stato, che è tutti noi, deve vincere4.

2 Ibidem. 3 Pertini a Parma ha reso omaggio ai Dalla Chiesa, «La Stampa», 8 giugno 1984, p.6. 4 A.RAVIDA’, Dalla Chiesa ricordato dagli studenti siciliani, «La Stampa», 4 settembre 1984, p.6.

42

Quel giorno non fu solamente il capoluogo siciliano a rendere omaggio al generale dei

carabinieri. Altre manifestazioni si tennero nel capoluogo lombardo: fu infatti celebrata la

messa a Santa Maria delle Grazie, mentre il corteo formatosi davanti al Comune ha

continuato la sua marcia fino a raggiungere il monumento al Carabiniere di Piazza Diaz,

davanti al quale è stata deposta una corona di fiori sotto lo sguardo del picchetto d’onore,

delle autorità e di Antonia Setti Carraro, suocera del generale5.

Con il volgere al termine del 1985, ci si avvicina in maniera prepotente all’anno del

maxiprocesso, che si svolgerà a partire dal mese di febbraio del 1986 per volontà dei

giudici Falcone e Borsellino. Si tratta del primo processo rivolto alla mafia in quanto

organizzazione di carattere criminale. Ottomila pagine di requisitoria, oltre 500 afferenti

alla figura di Carlo Alberto Dalla Chiesa: si parla delle indagini che stava conducendo ma

anche del suo isolamento e del suo omicidio6. Secondo i magistrati, infatti

Il coraggioso impegno civile del singolo funzionario o uomo politico, unito al disimpegno e al

disinteresse delle istituzioni, costituisce un vero dito puntato sulla sua persona come ostacolo da

eliminare7.

Roberto Martinelli, nel suo articolo prende in esame in modo particolare l’aspetto

dell’isolamento vissuto dal prefetto di Palermo, condizione che l’ha reso obiettivamente

più vulnerabile. Questo è un dato riconosciuto in prima istanza dai figli del generale, e in

seguito da tutte le persone che hanno seguito tale caso con occhio critico.

IL 1986: L’ANNO DEL NON RICORDO E DEL MAXIPROCESSO

Come accennato poco prima, il 1986 è l’anno del maxiprocesso. I mass-media seguono

l’evento da vicino: la carta stampata offre quotidianamente la cronaca di quanto avviene

nell’aula bunker, e la stessa è sotto il controllo delle telecamere, pronte a registrare

immagini che saranno riproposte all’interno dei telegiornali8.

5 Anche Milano ha ricordato il generale, «La Stampa», 4 settembre 1984, p.6. 6 R.MARTINELLI, Il “Grande Fratello” antimafia, «La Stampa», 5 novembre 1985, p.7. 7 R.MARTINELLI, Dalla Chiesa, solo, fu facile bersaglio, «La Stampa», 9 novembre 1985, p.7. 8 Per ulteriori informazioni sul maxiprocesso vedi libro Mafia, l’atto d’accusa dei giudici di Palermo, di C. Stajano, Roma, Editori Riuniti, 1986.

43

Paradossalmente, nell’arco di tutto l’anno, ma in maniera particolare nel mese di

settembre, non sono celebrate alcune commemorazioni in ricordo del generale Dalla

Chiesa, della moglie e dell’autista. Certo, il nome del prefetto compare molto spesso sulle

pagine dei giornali, soprattutto considerato l’avvenimento che si sta svolgendo a Palermo,

cioè il maxiprocesso. Ma nessuna menzione legata alla memoria collettiva della strage del

3 settembre. Solamente a ridosso dell’inizio del maxiprocesso, cinquemila studenti

scendono in piazza manifestando il loro sdegno verso la mafia e la loro solidarietà verso i

magistrati e gli inquirenti impegnati in questo lavoro certosino volto a migliorare in

qualche modo la società9.

Si tratta a mio giudizio, se mi è concesso il termine, di una stranezza. Il 1986 è l’anno in

cui si processano i mandanti e gli esecutori degli attentati mafiosi, le braccia e le menti

della criminalità organizzata, e non si pensa a commemorare chi è morto per mano e

volontà loro. Ritengo infatti che mai come in quell’anno i giornali avrebbero potuto e

dovuto trattare la biografia di personaggi quali il generale Dalla Chiesa, per rafforzare il

suo ricordo e per contrapporre, ancora una volta, la sua figura a quella dei boss mafiosi.

Forse la scelta editoriale, almeno per quanto concerne la testata torinese, è stata quella di

concentrarsi solamente sull’attualità tralasciando il passato ed evitando di farlo riaffiorare

con commemorazioni e manifestazioni; eppure lo stesso processo è una celebrazione del

passato, visto che i capi d’accusa riguardano omicidi avvenuti diversi anni prima, uno su

tutti proprio quello del prefetto di Palermo. Oppure, si è deciso di non parlare del quarto

anniversario della strage di via Carini per non fomentare ulteriormente gli animi, già accesi

per l’avvio del processo: Palermo era già scossa e per diversi mesi ha vissuto blindata,

ricordare quanto accaduto il 3 settembre 1982 forse avrebbe aggravato la situazione, o

avrebbe istigato i malavitosi a un nuovo attentato.

Si tratta di mere e personali supposizioni, ma sorgono naturali nel momento in cui si

leggono decine di articoli riguardanti la mafia e il maxiprocesso per poi giungere al 3

settembre e ai giorni successivi scoprendo che non viene fatta alcuna menzione relativa a

tale data.

9 5000 studenti per battere la mafia, «La Stampa», 8 febbraio 1986, p.1.

44

PROSEGUONO LE COMMEMORAZIONI

Nel 1987, l’attenzione è ancora giustamente rivolta al maxiprocesso, data

l’importanza e la vastità dell’evento. Ripercussioni legate a tale avvenimento si riscontrano

anche in occasione del quinto anniversario della morte dei coniugi Dalla Chiesa, che

tuttavia, al contrario del 1986, tornano ad essere ricordati. “La Stampa”, per l’occasione,

analizza i “buchi neri” dell’inchiesta sul generale, zone d’ombra che nemmeno i giudici

Falcone e Borsellino sono riusciti a rischiarare. Tuttavia, nello stesso articolo viene data la

notizia che quella sera migliaia di persone si sarebbero unite in corteo per la consueta

fiaccolata che da via Carini termina a Villa Whitaker10.

L’anno successivo, il 1988, vi sono ancora degli strascichi legati al processo del 1986. Le

commemorazioni ufficiali per il generale, infatti, annoverano l’assenza dei principali

giudici antimafia, da Falcone a Borsellino, da Ayala a Caponnetto, consci che non molto è

cambiato da quel 3 settembre di sei anni prima. I magistrati disertano la messa celebrata

alle 9 del mattino presso la chiesa di Santa Maria di Monferrato, mentre nel pomeriggio il

Coordinamento Antimafia ha dato vita al rituale corteo conclusosi questa volta in via

Carini, dove sull’asfalto sono state deposte delle corone di fiori11. Significativo il

messaggio riportato su un volantino affisso dagli operai dei cantieri navali, scritto che

recita:

Caro generale, il 3 settembre politici onesti e presunti sfileranno davanti alla tua lapide e per le vie

del centro […]. Ma sono pochi i palermitani che oggi lottano onestamente a rischio della propria

vita come il sindaco Orlando, Falcone, Borsellino e altri.

Una dichiarazione dura, che aiuta a comprendere il clima siciliano di quegli anni: la

popolazione è disincantata, non crede nella politica ma in un manipolo di uomini che a

volto scoperto e senza mezzi tenta di combattere una piaga sociale che devasta l’isola da

ormai troppo tempo, a costo di perdere la vita.

Come nel 1986, anche nel 1989 non si verificano commemorazioni ufficiali rivolte al

generale dei carabinieri. E l’anno dopo, il 1990, settembre si apre all’insegna dei veleni. A

scendere in campo i tre figli del prefetto, stanchi di cerimonie ipocrite nel corso delle quali

10 G.ZACCARIA, I “buchi neri” dell’inchiesta sull’uccisione di Dalla Chiesa, «La Stampa», 3 settembre 1987, p.7. 11 F.N., Palermo divisa in piazza ha ricordato Dalla Chiesa, «La Stampa», 4 settembre 1988, p.7.

45

loro in qualche modo si sentono costretti a mettere in vetrina il proprio dolore e i propri

sentimenti, davanti magari a persone che durante i cento giorni di mandato del loro padre

avevano persino tentato di osteggiarlo. Le cerimonie si svolgeranno comunque, dalla

messa alla fiaccolata, ma senza i Dalla Chiesa. Tutto ciò si evince dalla lettura dell’articolo

La famiglia Dalla Chiesa non va a Palermo, pubblicato il primo settembre da “La Stampa”

all’interno del quale vengono anche spiegate le motivazioni di tale gesto, e la volontà dei

figli di ricordare i propri cari in forma privata, a Parma. Un chiarimento della situazione lo

si ottiene attraverso un’intervista rilasciata da Rita Dalla Chiesa, che si domanda in

maniera retorica se la morte del padre non sia in realtà una morte inutile, che in qualche

modo va a rafforzare una situazione che lui stesso aveva tentato di sbloccare12.

Il 1991, almeno per quanto riguarda “La Stampa”, è l’ultimo anno in cui il generale viene

commemorato sulle pagine della carta stampata. Il 3 settembre di quell’anno si svolsero tre

manifestazioni, in luoghi diversi. La prima ebbe luogo partendo da via Isidoro Carini: un

corteo che raggiunse la fabbrica Sigma, di proprietà dell’imprenditore Libero Grassi,

ucciso una settimana prima (il 29 agosto) poiché si era ribellato al cappio del pizzo e aveva

manifestato in pubblico la sua scelta di non pagare13. Un atto di solidarietà nei confronti di

un’altra persona che aveva osteggiato in maniera manifesta la malavita. In testa al corteo

sfilavano, oltre alla vedova Grassi, Nando Dalla Chiesa, figlio del prefetto, accompagnato

dalla moglie e dal figlio tredicenne. Nel pomeriggio il giardino di Villa Whitaker era stato

teatro della celebrazione di una messa, mentre alle ore 21 ci fu la rituale fiaccolata, indetta

questa volta non dal coordinamento antimafia ma dalle organizzazioni sindacali della Cgil,

Cisl e Uil14.

DALLA CARTA STAMPATA ALLA TELEVISIONE

Per quanto attiene le commemorazioni televisive legate alla figura del generale

Carlo Alberto Dalla Chiesa, bisogna ravvisare una puntata di Emozioni tv, una trasmissione

delle reti Rai, in cui, alla presenza di Rita Dalla Chiesa, si è ricordata la figura del generale.

Era il 14 giugno 1995, la trasmissione era condotta da Arrigo Levi e da Alba Parietti. In

studio, la primogenita del prefetto viene esortata a raccontare i ricordi familiari che la

legano al padre, ma anche le affermazioni dello stesso riguardo all’ambiente ostile che

12 ST.P., Una morte inutile?, «La Stampa», 3 settembre 1988, p.6. 13 S.LODATO, Trent’anni di mafia, Bergamo, Bur, 2006, p.283. 14 A.RAVIDA’, Divisi in nome di Dalla Chiesa, «La Stampa», 4 settembre 1991, p.11.

46

l’aveva accolto a Palermo, una situazione che l’avrebbe portato all’isolamento e alla

conseguente morte. L’intervista è seguita da immagini di repertorio riguardanti cerimonie

pubbliche alle quali Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva preso parte, come per esempio la

festa dell’Arma dei Carabinieri. Si tratta di immagini inedite, come ammette la stessa

figlia, visibilmente commossa dalla visione, avvenuta per la prima volta, di simili scene.

Nel corso della trasmissione sono inoltre riproposte le immagini della strage e il servizio

trasmesso per la prima volta dal telegiornale di Rai Uno nell’edizione notturna15.

La trasmissione ha trattato l’argomento in maniera seria e approfondita, facendo emergere

non solo la figura professionale del generale Dalla Chiesa, ma anche quella personale. Il

pubblico e il privato, come era ammirato e temuto nella sfera pubblica e come era

conosciuto e amato dai suoi famigliari e amici. Questo risultato è stato ottenuto sia

attraverso l’intervista avuta con Rita Dalla Chiesa sia visionando i filmati proposti

all’interno della trasmissione.

Termina in questo modo l’excursus storico relativo alle commemorazioni legate al

generale Dalla Chiesa, alla moglie Setti Carraro e all’autista Russo. Ricorrenze che a

partire dal 1992 saranno in qualche modo sostituite con quelle dedicate ai giudici Giovanni

Falcone e Paolo Borsellino.

15 Emozioni Tv, 14 giugno 1995, Archivio Rai Torino, identificazione teca: F193817.

47

2

GIOVANNI FALCONE COMMEMORATO DA QUATTORDICI ANNI

Passato il momento iniziale fatti e persone si dimenticano, restano solo le parole per quello che

valgono16.

Ad affermare ciò è Alfredo Morvillo, fratello di Francesca, e dunque cognato di

Giovanni Falcone, in occasione della messa celebrata per il secondo anniversario della

strage di Capaci. Ma è realmente così? A mio giudizio la risposta, almeno per quanto

riguarda il caso specifico del magistrato, è no. Una simile frase la si potrebbe applicare al

caso Dalla Chiesa, considerato il fatto che non tutti gli anni la sua morte è stata

commemorata, ma per Falcone il discorso è diverso. Sono trascorsi quasi tre lustri da

quando è stato ucciso, eppure, fortunatamente, la gente e i mass-media continuano a

ricordarlo: attraverso cortei e manifestazioni, articoli e trasmissioni televisive.

Per qualche strana alchimia, Giovanni Falcone incarna l’uomo anti-mafia per eccellenza,

più di quanto non lo facciano Dalla Chiesa e persino Borsellino, che per un paio di anni

non viene ricordato, a differenza del suo amico e collega. Solamente un anno, il 2003,

trascorre senza che venga ricordato nello specifico Giovanni Falcone, ma la stessa sorte

tocca a Borsellino.

A eccezione di questa brevissima parentesi negativa, come accennato poc’anzi tutti gli altri

anni, a partire dal 1994 (data di partenza dell’analisi svolta in questo capitolo) sono

all’insegna dei ricordi legati al magistrato palermitano.

Il primo è affidato, attraverso “La Stampa”, a Giancarlo Caselli, procuratore capo di

Palermo, che firma l’editoriale (con seguito nella seconda pagina) del 23 maggio 1994. Nel

suo intervento si legge:

ricordarsi di questi morti soltanto in occasioni di ricorrenze e cerimonie pubbliche può persino

divenire un inganno, uno scherno dietro il quale nascondere le nostre passate responsabilità17.

Si tratta dunque di un monito rivolto alla popolazione, un invito a non dimenticare persone

come Falcone, e a ricordarle non solamente il giorno dell’anniversario della sua morte.

16 A.MORVILLO, Quanti vuoti nei banchi delle autorità, «La Stampa», 24 maggio 1994, pag.7. 17 G.CASELLI, Falcone 2 anni dopo, «La Stampa», 23 maggio 1994, pp.1-2.

48

Il giorno preciso della seconda ricorrenza della strage di Capaci, dal punto di vista della

carta stampata, viene celebrato solo attraverso questo scritto di Caselli. Diversa invece la

situazione del giorno dopo, 24 maggio: anche in questo caso, come è accaduto per Dalla

Chiesa, il giornale ha preferito non anticipare le notizie riguardanti le diverse

commemorazioni che si sarebbero tenute nel corso del 23 maggio, raccontandone la

cronaca il giorno successivo.

Catene umane, momenti di raccoglimento, fiaccolate: soprattutto in questo modo la gente

comune ha voluto ricordare l’eccidio di Capaci, fin dalla mattinata del 23 maggio 1994. I

cittadini hanno manifestato il loro sdegno verso la mafia raccogliendosi davanti alla

magnolia piantata in via Notarbartolo (dove abitavano il giudice e la moglie), e formando

una catena umana lunga tre chilometri; alle finestre sono state appese delle lenzuola

bianche per esprimere la purezza di Palermo, città intaccata da troppi anni dalla mafia. Le

commemorazioni legate alla presenza di autorità si possono ricondurre alla messa celebrata

nella mattina presso la basilica di san Francesco d’Assisi, alla quale hanno partecipato

anche i famigliari delle vittime18.

Nel 1995 l’anniversario della morte di Falcone torna a occupare la prima pagina

dell’edizione del 23 maggio. Il magistrato Alessandro Galante Garrone esorta i lettori a

rispondere al proprio

obbligo morale di non dimenticare le atrocità gravissime di quel delitto, si tratta di un impegno

inesorabile contro il male19.

Credo che si tratti di una frase significativa che può essere applicata non solamente alla

strage di Capaci, ma anche alle occasioni durante le quali sono ricordati altri personaggi

caduti per mano della mafia come Falcone; ovviamente il pensiero non può non correre a

Borsellino e a Dalla Chiesa.

L’anno successivo, il 1996, il boss mafioso Giovanni Brusca viene arrestato. Era il 22

maggio, il giorno prima del quarto anniversario della strage di Capaci. Il latitante è reo di

aver materialmente provocato la morte del giudice Falcone, della moglie e degli agenti

della scorta, in quanto è stato lui, alle 17.58, a premere il bottone del detonatore che ha

fatto deflagrare il tratto di autostrada Palermo-Capaci che le vittime stavano percorrendo.

Logico dunque che il giorno successivo all’arresto, il 23 maggio, i quotidiani si siano

18 A.RAVIDA’, Questa terra si è svegliata, «La Stampa», 24 maggio 1994, pag.7. 19 A.GALANTE GARRONE, Mafia, nessuna distrazione, «La Stampa», 23 maggio 1995, pag.1.

49

occupati principalmente di tale evento e non delle commemorazioni legate alla figura del

giudice palermitano. Le notizie dell’arresto e di quanto accaduto dopo campeggiano in

prima pagina, per quanto riguarda “La Stampa”, e poi nell’intera pagina 14, con la cronaca

e le riflessioni dell’allora ministro dell’Interno Giorgio Napolitano20.

Per leggere le notizie relative alle celebrazioni per il quarto anniversario della strage,

bisognerà arrivare a pagina 15: il giornalista Francesco La Licata annuncia che in quella

giornata (23 maggio) si svolgeranno 5 cortei organizzati dal comitato delle lenzuola. La

criminalità organizzata, orfana di uno dei suoi uomini più importanti, non attende a

manifestare il proprio sdegno per l’arresto di Brusca, e proprio il 23 maggio, a San

Giuseppe Jato, cittadina limitrofa a Palermo, dove l’attentatore è nato e cresciuto, brucia

delle lenzuola sulle quali erano state stampate le immagini di Falcone e Borsellino21.

La soddisfazione frutto del colpo inferto alla mafia con l’arresto di Brusca è quindi

offuscata dalla sensazione tangibile che purtroppo le cose sono migliorate ma non cambiate

del tutto, e che la piaga della mafia sicuramente continua a minare e insidiare in modo

particolare Palermo.

La cronaca di eventi di carattere mafioso affianca il ricordo della strage di Capaci anche

nel 1997. Proprio il 23 maggio di quell’anno, infatti, è data notizia che sono stati inflitti gli

ergastoli ai mandanti e agli esecutori materiali dell’eccidio di cinque anni prima22.

Il ricordo vero e proprio dell’evento luttuoso è affidato al giornalista Francesco La Licata,

che nel suo articolo smette i panni dell’inviato per ricordare Falcone da amico. E lo fa non

solamente evocando la figura del magistrato, ma ammonendo i cittadini e le autorità del

fatto che il passato ricompare nel presente solo in occasione del 23 maggio: durante il resto

dell’anno Falcone (ma lo stesso si potrebbe affermare per Borsellino e Dalla Chiesa) sono

solamente dei nomi legati alla lotta alla mafia, ma le loro personalità non sono

commemorate all’infuori della data precisa degli attentati23.

In verità, quanto affermato da La Licata trova riscontro nella mia indagine. Fatta eccezione

per il primo anno trascorso dalle stragi, gli anni successivi i tre personaggi sono ricordati

solamente con celebrazioni e cerimonie ufficiali nel giorno preciso in cui sono morti, e

nemmeno a scadenza regolare, come si è notato analizzando le commemorazioni in onore

di Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie. Ovvio, non sarebbe possibile organizzare

quotidianamente degli appuntamenti a ricordo di queste persone, ma sicuramente non 20 Napolitano: la mafia non è ancora sconfitta, «La Stampa», 23 maggio 1996, pag.14. 21 F.LA LICATA Palermo, una gioia a metà, «La Stampa», 23 maggio 1996, pag.15. 22 G.BIANCONI, Ergastolo per gli assassini di Falcone, «La Stampa», 23 maggio 1997, pag.16. 23 F.LA LICATA, Un Paese malato di amnesie, «La Stampa», 23 maggio 1997, pag.16.

50

bisognerebbe aspettare quella data precisa, e soprattutto bisognerebbe evitare che

trascorressero dodici mesi tra una celebrazione e l’altra dedicate entrambe allo stesso

personaggio.

Qualcosa cambia nel 1998. Per la prima volta, la strage di Capaci è commemorata non

solamente a Palermo. Nello specifico, è Venezia il teatro di alcune manifestazioni legate

all’evento: alle 17.58 del 23 maggio si accende la prima fiaccola per dare il via a un corteo

che toccherà buona parte della zona lagunare24.

Nel 1999 “La Stampa” commemora Giovanni Falcone pubblicando un articolo che proprio

il magistrato aveva redatto pochi mesi prima della sua morte, e che fu pubblicato come

editoriale25. Ma non solo. Al giornalista Antonio Ravidà è affidata la cronaca delle

manifestazioni programmate per rendere omaggio al magistrato e a chi con lui ha perso la

vita sei anni prima. Si parla di cortei, di una gara ciclistica non competitiva, di una partita

di calcio disputata allo stadio Favorita tra la Nazionale magistrati e la Dinamo Rock

composta da cantanti italiani tra i quali Jovanotti e Ligabue; inoltre, si dà notizia che il

convitto nazionale di Palermo viene intitolata proprio in questa data a Giovanni Falcone.

Le manifestazioni del 2000 ricalcano quelle dell’anno precedente. E’ tuttavia degno di nota

il messaggio del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi:

Il ricordo di Giovanni e Francesca Falcone e delle vittime della scorta è sempre vivo nella

coscienza dei cittadini onesti e coraggiosi26.

Nel 2001 il magistrato viene ricordato in maniera indiretta. Sulle pagine de “La Stampa”

non sono menzionate commemorazioni e celebrazioni svoltesi nella giornata del 23

maggio, però viene pubblicata un’intervista che il procuratore Piero Grasso, addentro alla

piaga della mafia, rilascia a Francesco La Licata. Due personaggi che dunque conoscono il

problema della criminalità organizzata ma che soprattutto hanno conosciuto e apprezzato

Falcone non solo come professionista ma anche e soprattutto come persona27.

24 A.RAVIDA’, Falcone e Caselli uniti dall’antimafia, «La Stampa», 23 maggio 1998, pag.13. 25 G.FALCONE, Lo Stato non vince solo con la forza, «La Stampa», 23 maggio 1999, pag.11. 26 A.RAVIDA’, Debole impegno antimafia, «La Stampa», 23 maggio 2000, pag.12. 27 F.LA LICATA, Troppi i predatori su Falcone, «La Stampa», 23 maggio 2001, pag.13.

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La medesima linea editoriale viene seguita da “La Stampa” tre anni dopo. Siamo nel 2004

e il quotidiano propone un’intervista al procuratore Grasso, rilasciata, come allora, al

giornalista La Licata28.

L’anno prima, il 2003, non compaiono notizie legate alle commemorazioni per il giudice

Falcone, mentre in occasione del suo decimo anniversario, celebrato nel 2002, il ricordo

del magistrato è affidato al colonnello Pellegrini che aveva lavorato per anni al suo

fianco29.

Al giornalista La Licata spetta il compito, ingrato e difficile, l’anno successivo, cioè il

2005, di tracciare un bilancio della situazione mafia a Palermo. Considerati la sua

esperienza nel trattare tali argomenti e il suo rapporto di amicizia con Falcone, “La

Stampa” ha ritenuto opportuno affidare al giornalista palermitano il compito di scrivere un

articolo sulla criminalità organizzata, su quello che è stato fatto per contrastarla e su quanto

ancora bisogna fare.

La Licata si chiede se

Basta la memoria di un uomo giusto per far passare in secondo piano il solito copione di ostilità

sotterranea consolidata palermitana?

Ovviamente il riferimento è palesemente rivolto a Falcone30.

Siamo così giunti al 2006. In questo caso si può azzardare un parallelismo con il 1996: in

quell’anno la commemorazione di Falcone era passata in secondo piano poiché il giorno

prima era stato arrestato il boss Giovanni Brusca. A distanza di un decennio l’episodio si

ripete, ma questa volta si tratta del latitante Bernardo Provenzano, arrestato proprio a

ridosso del quattordicesimo anniversario della morte di Falcone. Oggi come allora, dunque,

i ricordi della strage di Capaci sono offuscati dalla notizia più attuale dell’arresto di un

potente mafioso che aveva fatto perdere le tracce di sé da un trentennio. L’intera pagina 11

dell’edizione del 23 maggio 2006 de “La Stampa” è dedicata alla figura di Provenzano,

dalla sua infanzia alla sua latitanza, alla cronaca del suo arresto e al ritrovamento dei

famosi “pizzini”.

28 F.LA LICATA, Grasso: è cambiata la strategia ma la mafia non è meno forte, «La Stampa», 23 maggio 2004, pag.10. 29 F.LA LICATA, Falcone: “Giovanni, Don Masino e l’avvocato Marx”, «La Stampa», 24 maggio 2002, pag.9. 30 F. LA LICATA, “La lotta alla mafia? Con le nuove norme è tutto più difficile, «La Stampa», 23 maggio 2005, pag.13.

52

Per quanto attiene le commemorazioni ufficiali, si dà notizia solo di una manifestazione

organizzata dalla fondazione “Falcone Morvillo”, dal titolo “Giovanni Falcone, il suo

lavoro, il nostro presente, i suoi sogni, il nostro futuro”.

Analizzando questi ultimi due casi, ritengo tuttavia che gli stessi siano comunque un modo

efficace per commemorare le vittime di mafia. Gli arresti di personaggi come Provenzano e

Brusca sono il minimo epilogo della lotta alla mafia intrapresa da Falcone, Borsellino e

Dalla Chiesa e da tante altre persone. Annunciare l’arresto di tali boss a ridosso delle

commemorazioni legate alle vittime della mafia significa in qualche modo dare un ulteriore

senso al loro sacrificio.

LE COMMEMORAZIONI TELEVISIVE SU FALCONE

Nell’arco di tredici anni – dal 1993 al 2006 – sono state diverse le trasmissioni

televisive trasmesse dalle reti Rai atte a ricordare la strage di Capaci. Non si tratta di

approfondimenti con cadenza annuale, ma sicuramente se ne annoverano parecchi.

Il primo fu mandato in onda a un anno esatto dalla morte di Falcone, della moglie e degli

agenti della scorta. All’interno della trasmissione Mixer, condotta da Giovanni Minoli,

furono trasmessi immagini della strage di Capaci e quelle collegate alle prime

commemorazioni ufficiali, il tutto messo in relazione con l’attentato dinamitardo al

quartiere Parioli nel quale il giornalista Maurizio Costanzo avrebbe dovuto trovare la

morte31.

Due anni più tardi, nel 1995, è la trasmissione di Rai Uno Quel Giorno, condotta da

Michele Cucuzza, a celebrare il terzo anniversario della strage di Capaci. L’argomento

viene introdotto attraverso un collegamento in diretta da Palermo, dove l’inviata Rita

Mattei racconta e dimostra con il supporto delle immagini quanta gente stia affollando la

via per commemorare Falcone. Subito dopo un servizio ricorda quanto avvenuto il 23

maggio 1993, le inchieste sulla mafia condotte dal giudice palermitano e gli evidenti

motivi per cui la criminalità organizzata ha voluto eliminarlo: questi ultimi sono delucidati

in due interviste fatte a Giovanni Tinebra, procuratore della Repubblica a Caltanissetta e a

Roberto Scarpinato, magistrato a Palermo32.

31 Mixer, il piacere di saperne di più, 23 maggio 1993, Archivio Rai Torino, Identificazione teca: F148471. 32 Quel giorno, 23 maggio 1995, Archivio Rai Torino, Identificazione teca: M95143/001.

53

Una scaletta simile viene applicata alla trasmissione Cronaca in diretta del 1997. L’inviato

Guido Torlai da Palermo parla delle commemorazioni per il 23 maggio; in studio David

Sassoli lancia un servizio per raccontare quanto accaduto in quella data; in seguito il

giornalista inviato in Sicilia intervista sull’argomento Pierluigi Vigna, procuratore

nazionale Antimafia, e la cantautrice Carmen Consoli33. In entrambi i prodotti televisivi,

quindi, si è deciso di raccontare del presente ricordando il passato, attraverso testimonianze

e filmati: ai telespettatori era data la possibilità di sapere quanto stava accadendo a Palermo

e in che modo il capoluogo siciliano ricordava Falcone, e come egli stesso fosse morto

alcuni anni prima.

Nel 2002 è nuovamente la trasmissione di Giovanni Minoli, Mixer, a occuparsi della figura

del magistrato ucciso dalla mafia, ma questa volta lo fa in maniera diversa. La puntata

monografica infatti ripercorre l’intera vita di Giovanni Falcone, dando molta importanza

alla sua figura professionale, ai suoi rapporti con la magistratura e con i giornalisti, mentre

l’attentato vero e proprio è posto in secondo piano, ma non viene trattato in maniera ampia.

Diverso invece il discorso relativo ai funerali: sono riproposti spezzoni degli stessi, con

particolare attenzione al discorso della vedova dell’agente Schifani. Ospiti di Minoli sono

soprattutto giornalisti: Felice Cavallaro, giornalista de “Il Corriere della Sera”, Attilio

Bolzoni de “La Repubblica” ma soprattutto Francesco La Licata, autore della biografia di

Giovanni Falcone nonché suo amico; a questi si affiancano Maria Falcone, sorella del

giudice e Liliana Ferraro, membro del ministero di Grazia e Giustizia34.

Questa volta non si è dunque commemorato il giudice attraverso le solite immagini di

repertorio inerenti al tratto autostradale Palermo-Capaci ridotto in macerie, ma avvalendosi

delle testimonianze di chi lo ha conosciuto bene, facendo emergere il suo lato meno noto.

Tale linea viene condotta anche l’anno successivo, nell’ambito della trasmissione

Unomattina. In occasione dell’undicesimo anniversario della strage del 23 maggio – siamo

nel 2003 – Luca Giurato e Roberta Capua ospitano in studio Maria Falcone e Rosaria

Schifani, sorelle rispettivamente del giudice e del suo agente di scorta: ancora una volta

sono i ricordi personali di chi ha conosciuto bene le vittime in oggetto a commemorare le

stesse nel modo più consono. In quell’occasione è solamente il giornalista de “Il giornale

di Sicilia” Umberto Lucentini (che poi curerà la biografia di Paolo Borsellino) a ricordare

33 Cronaca in diretta, 23 maggio 1997, Archivio Rai Torino, Identificazione teca: F212453. 34 Mixer, 23 maggio 2002, Archivio Rai Torino, Identificazione teca: F353593.

54

la cronaca della strage del 23 maggio: il viaggio dall’aeroporto a Palermo, il tratto

autostradale fatto esplodere, il tentativo estremo di salvare i coniugi Falcone35.

Il 23 maggio 2006 è la trasmissione Ballarò a occuparsi della commemorazione del

magistrato ucciso dalla mafia quattordici anni prima, e lo fa attraverso filmati di repertorio

che lo ritraggono insieme a Borsellino, oltre a un servizio in cui è lo stesso procuratore di

Marsala a ricordare la figura del suo amico e collega morto per mano della criminalità

organizzata. La trasmissione in oggetto propone anche delle interviste fatte agli studenti di

una scuola palermitana intitolata proprio a Falcone e Borsellino, ma sicuramente la parte

più toccante della puntata è quella relativa al discorso pronunciato da Borsellino36.

Come avvenuto per la carta stampata, anche la televisione, in diverse occasioni, ha ritenuto

maggiormente opportuno ricordare Giovanni Falcone non attraverso la cronaca di messe e

manifestazioni a lui dedicate ma con testimonianze di parenti, amici e colleghi. Un modo

sicuramente meno asettico e più umano, oltre che più comunicativo, per far comprendere ai

fruitori di tali servizi chi era veramente Falcone e perché è ancora giusto e doveroso

continuare a commemorarlo.

35 Unomattina, 23 maggio 2003, Archivio Rai Torino, Identificazione teca: T03143/121. 36 Ballarò, 23 maggio 2006, Archivio Rai Torino, Identificazione teca: F494119.

55

3

LA STAMPA RICORDA PAOLO BORSELLINO

La cronaca delle celebrazioni di suffragio in ricordo di Paolo Borsellino e dei suoi

cinque uomini della scorta è, almeno per quanto attiene le pagine de “La Stampa”, meno

puntuale e dettagliata rispetto a quella in memoria di Giovanni Falcone. Il procuratore di

Marsala non viene ricordato tutti gli anni, e spesso gli articoli dedicati alla strage di via

D’Amelio sono meri racconti delle cerimonie ufficiali che si sono svolte a Palermo: un

elenco di date, ore e luoghi dove si sono celebrate, affiancato da una lista di personalità che

vi hanno partecipato.

Il parallelismo tra le commemorazioni del 23 maggio e quelle del 19 luglio è naturale:

Borsellino passa in secondo piano rispetto a Falcone. Si ripete in qualche modo il

fenomeno verificatosi con Dalla Chiesa e le stragi del 1992: dopo che le stesse avvennero,

sui giornali nazionali cessarono di comparire notizie relative a messe e celebrazioni in sua

memoria; anche in questo caso un evento in qualche misura offusca l’altro, ma, al contrario

di quanto avvenne per il generale e i due magistrati, in questo caso non è l’evento più

recente dal punto di vista cronologico che ha maggior risalto, bensì il contrario.

Il primo anniversario è accompagnato da una serie di polemiche. Agnese, vedova del

giudice Borsellino, diserta qualsiasi cerimonia pubblica poiché presenti note personalità

politiche: una dura presa di posizione nei confronti di chi ella reputa reo di aver

abbandonato il marito al suo destino, di averlo lasciato solo a combattere una battaglia ad

armi impari37.

Se ben si ricorda, la stessa rimostranza era stata fatta dai figli del generale Dalla Chiesa,

che in diverse occasioni avevano evitato di apparire alle cerimonie pubbliche che

pullulavano di persone note e potenti che però a loro tempo ben poco avevano fatto per

aiutare il prefetto di Palermo a raggiungere il suo obiettivo.

Nel 1995 “La Stampa” non fornisce alcuna notizia circa eventuali celebrazioni pubbliche

in ricordo della strage di via d’Amelio, mentre l’anno dopo a pagina 13 compare una

piccola notizia con la quale si annuncia che alle commemorazioni si attendono esponenti

della politica quali il presidente del Senato Nicola Mancino e il ministro Giorgio

Napolitano38.

37 Paolo, un uomo scomodo, «La Stampa», 20 luglio 1994, pag.5. 38 A.RAVIDA’, Ecco l’uomo dei boss che spiò Falcone, 19 luglio 1996, pag.13.

56

Spetta a Luciano Violante, nel 1997 presidente della Camera, ricordare quell’anno

l’eccidio del 19 luglio, e lo fa inviando un messaggio a Rita e Agnese Borsellino,

rispettivamente sorella e vedova del magistrato.

Nel testo si legge:

l’impegno rigoroso e preziosissimo che egli ha saputo offrire, al prezzo della sua vita, alla sua terra

e al suo Paese, ci ha accompagnato in questi anni e ha permesso di raggiungere risultati tanto

importanti quanto inimmaginabili nella lotta alla mafia. Proseguire con forza lungo questa strada è

il modo migliore per rendergli giustizia39.

Al procuratore Giancarlo Caselli è invece affidato il ricordo del giudice nel giorno del suo

sesto anniversario di morte. Nel suo articolo, riportato in prima pagina, Caselli rammenta il

lavoro del pool antimafia e le ostilità alle quali andavano incontro quotidianamente i

membri che vi appartenevano, primi tra tutti ovviamente Falcone e Borsellino.

Retoricamente, il procuratore si rammenta se il loro sacrificio sia stato vano o se sia servito

a qualcosa, anche perché a suo giudizio «non resteranno i Falcone e i Borsellino ma la

mafia resterà»40.

Il 1999 è un anno anomalo. Per volontà della vedova di Paolo Borsellino, sono sospese

tutte le manifestazioni e le celebrazioni ufficiali in ricordo di suo marito. A rigor di logica i

mass-media, per rispettare la volontà della vedova che vorrebbe far calare il silenzio su un

giorno così triste e doloroso per lei e la sua famiglia, avrebbero dovuto soprassedere ed

evitare di affrontare l’argomento. Non sarebbe stata la prima volta, come è stato dimostrato

in precedenza. Invece, “La Stampa” dà ampio risalto alla decisione resa nota dalla vedova,

e comunica tutte le cerimonie che sono state annullate41.

Per altri due anni Paolo Borsellino non viene commemorato pubblicamente né i quotidiani

ricordano ai propri lettori quanto accaduto il 19 luglio di alcuni anni prima a Palermo,

intorno alle 17 in via D’Amelio.

Arriviamo in questo modo al 2001, ma le cose non cambiano. Tant’è vero che esattamente

in quell’anno il giornalista Francesco La Licata rende pubblico il suo sdegno perché non si

39 Borsellino, un messaggio di Violante «La Stampa», 20 luglio 1997, pag.14. 40 G.CASELLI, Sei anni come un secolo, «La Stampa», 19 luglio 1998, pagg.1-2. 41 A.RAVIDA’, Palermo sceglie il raccoglimento per volontà della vedova, «La Stampa», 19 luglio 1999, pag.11.

57

stanno più svolgendo manifestazioni in ricordo di Borsellino, e, episodio ancor più grave,

alcuna testata dà rilievo al fatto che il magistrato non viene più commemorato42.

Nel 2002 il ricordo dell’autobomba riaffiora più vivo che mai grazie all’intervento dello

scrittore Michele Perriera, che si trovava nella sua casa, in via D’Amelio, quando fecero

scoppiare l’autobomba per uccidere il giudice Borsellino. Il racconto di quella tragedia

vissuta in prima persona l’artista ha deciso di pubblicarlo su “La Stampa”, in occasione del

decimo anniversario della strage43.

Nel 2003, come accadde per Giovanni Falcone, non vi sono celebrazioni in onore di

Borsellino. Destino comune quindi anche dopo la morte, anche se per il primo si è trattato

di un unico caso, mentre per quanto attiene il procuratore di Marsala non si tratta del primo

e unico anno in cui non viene data notizia e non si celebrano manifestazioni per onorare la

sua memoria.

Quando si ritorna a parlare di Borsellino, nel 2004, non lo si fa in maniera efficace,

attraverso cioè le testimonianze di chi gli ha vissuto accanto, ma in maniera neutra,

raccontando le manifestazioni organizzate per il 19 luglio. A fianco dei classici cortei,

troviamo un’iniziativa dell’Unione Cronisti e dell’Associazione Magistrati, che in sinergia

hanno deciso di piantare un albero sulla piazza XIII vittime44.

Nel 2005 il ricordo di Borsellino si fonde con quello di Falcone. In occasione del

tredicesimo anniversario della morte del procuratore, “La Stampa” ripropone il discorso

recitato in occasione del trigesimo di Giovanni Falcone proprio dal suo amico Borsellino45.

In ultima analisi, il 2006. In quest’occasione è il neo presidente della Repubblica Giorgio

Napolitano a ricordare il sacrificio di Paolo Borsellino e della sua scorta, attraverso queste

parole:

Il sacrificio di Paolo Borsellino resta di monito a non abbassare mai la guardia nella lotta per

debellare le insidie, ovunque si annidino, di questo gravissimo fenomeno criminoso. Il 19 luglio

1992 l’arroganza spietata della criminalità mafiosa stroncava la vita di Paolo Borsellino e degli

agenti della scorta […]. Resta indelebile nella memoria l’angoscia e il dolore dei giorni in cui il

delirio di onnipotenza della cupola mafiosa, già abbattutosi contro Giovanni Falcone, sua moglie e

altri coscienziosi agenti di polizia, culminò nel tentativo di scardinare, colpendo le sue più ferme e

intransigenti espressioni, l’ordinamento dello Stato e delle sue istituzioni […].

42 F.LA LICATA, All’amico Paolo, «La Stampa», 20 luglio 2001, pag.15. 43 M-PERRIERA, La maledizione di Palermo, «La Stampa», 20 luglio 2002, pag.12. 44 L.SIRIGNANO, Borsellino, memoria e polemiche, «La Stampa», 20 luglio 2004, pag.14. 45 L’ipocrisia che uccide, «La Stampa», 19 luglio 2005, pag.1.

58

CAPITOLO IV

QUANDO FILM E FICTION TRATTANO DI MAFIA

L’argomento vasto che può in qualche modo essere incluso nell’insieme “mafia”

non è stato trattato solamente dalla carta stampata e dalla televisione, come è stato

analizzato fino a questo momento. Certo, i due media in oggetto sono i più puntuali e

precisi, e per ovvi motivi logistici hanno il potere di raccontare praticamente in tempo reale

(soprattutto per quanto attiene il tubo catodico) quanto avvenuto in un preciso momento

della giornata. Così è accaduto per le stragi in cui hanno perso la vita Carlo Alberto Dalla

Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, con consorti (a eccezione del terzo) e scorte

al seguito: la televisione e i giornali hanno non solo comunicato la notizia degli attentati,

ma seguito la vicenda passo passo, fornendo ai fruitori del servizio il numero maggiore di

informazioni relative a tali eventi. Gli stessi media hanno giocato un ruolo primario per

quanto attiene le commemorazioni delle morti di questi tre personaggi: non si sono infatti

limitati a diffondere le notizie delle celebrazioni in loro memoria, ma hanno contribuito

loro stessi a ricordarli, attraverso articoli e lettere oltre che tramite interviste a persone che

li avevano conosciuti bene.

Tuttavia, anche la produzione italiana di film e fiction ha dato il suo contributo nel tenere

vivo il ricordo di queste tre personalità. Si tratta esclusivamente di produzioni biografiche:

ogni pellicola infatti racconta la vita privata e professionale del protagonista del film, dal

culmine delle rispettive carriere fino a giungere al giorno delle loro morti.

La filmografia italiana, in merito all’argomento, annovera due film e altrettante fiction. Il

primo, Cento giorni a Palermo, uscì nelle sale a distanza di quasi due anni dalla morte del

prefetto Dalla Chiesa, girato dal regista Giuseppe Ferrara. Fu lui stesso che, quasi un

decennio dopo, per l’esattezza nel 1993, si mise nuovamente dietro la macchina da presa

per dirigere un secondo film biografico di mafia, questa volta sulla vita di Giovanni

Falcone. Da qui l’omonimo titolo della pellicola. Per quanto attiene invece le fiction

trasmesse dalla televisione, bisognerà aspettare il 2004, quando la Taodue Film trasmetterà

la fiction Paolo Borsellino. Nel 2006, infine, la Rai ha mandato in onda un prodotto

analogo basato nuovamente sulla vita di Giovanni Falcone.

Anche per quanto riguarda il piccolo e il grande schermo, dunque, il magistrato

palermitano risulta essere quello più ricordato e sul quale si è lavorato più a lungo, senza

59

dimenticare tuttavia che nelle creazioni cinematografiche a egli legate si ricorda in

automatico anche la figura di Borsellino (e viceversa), essendo i due uomini colleghi e

amici.

A Giovanni Falcone sono quindi stati dedicati sia un film che una fiction, mentre per

quanto riguarda il procuratore di Marsala si annovera un’unica fiction a distanza di quasi

un decennio dalla sua morte. Per quanto riguarda invece Dalla Chiesa, conosciamo

un’unica pellicola, anche se dovrebbe essere in lavorazione una fiction a lui dedicata che

dovrebbe essere trasmessa dalle reti Mediaset nell’autunno del 2007. In questo caso

tuttavia il condizionale è d’obbligo.

Compare quindi nuovamente il fenomeno che si era verificato per la carta stampata e la

televisione in occasione delle diverse commemorazioni: Giovanni Falcone è il personaggio

più ricordato, maggiormente menzionato, quello che più di ogni altro sembra incarnare la

lotta alla mafia, l’uomo anti mafia per eccellenza

1 GIUSEPPE FERRARA, CINEASTA SENSIBILE ALLA MAFIA Entrambe le pellicole che hanno analizzato le vite rispettivamente di Carlo Alberto

Dalla Chiesa e Giovanni Falcone sono frutto del lavoro di Giuseppe Ferrara. Ritengo

questo un aspetto molto importante, in quanto significa che lo stesso cineasta si è

dimostrato in diverse occasioni sensibile al problema della mafia e tenace nel voler

ricordare chi ha trovato la morte per volontà della stessa. Inoltre, credo che sia possibile

azzardare un parallelismo tra le due produzioni, analizzando se e come il modo di lavorare

del regista sia cambiato, se è mutato il suo approccio nei confronti dell’argomento mafia,

quali aspetti delle due diverse persone – Dalla Chiesa e Falcone – ha voluto far conoscere

ed emergere attraverso i propri lavori1.

1 Per informazioni biografiche cfr pag 89.

60

2 I FILM

Visionando la pellicola Cento giorni a Palermo si ha l’impressione che il regista

Ferrara non abbia voluto raccontare solamente gli ultimi mesi di vita del generale Carlo

Alberto Dalla Chiesa vissuti nel capoluogo siciliano, ma abbia voluto lanciare un vero e

proprio atto d’accusa. Senza alcuna remora, infatti, il cineasta dimostra le ostilità

fronteggiate dal prefetto dal giorno del suo insediamento fino al tragico 3 settembre 1982,

il clima di terrore che ha trovato al suo arrivo, i complotti alle sue spalle anche da persone

che erano ritenute insospettabili. Il lungometraggio dunque offre uno spaccato della Sicilia

anni ’80, tanto crudo quanto realistico.

I primi minuti dell’opera cinematografica sono rappresentati da scene relative a quattro

omicidi eccellenti intercorsi tra il 1979 e il 1980: Boris Giuliano, capo della squadra

mobile; Cesare Terranova, giudice; Piersanti Mattarella, presidente della Regione; Gaetano

Costa, giudice. Tutte persone che avevano apertamente espresso la propria volontà di

contrastare la mafia, e che da essa sono stati uccisi.

Alla lista si aggiunge Pio La Torre, democristiano ucciso il 30 aprile 1982, il giorno prima

dell’insediamento del generale in qualità di prefetto.

Ferrara risalta quindi il clima ostile che il carabiniere ha dovuto fronteggiare al suo arrivo,

clima in netto contrasto con il calore dimostrato dalla gente. Carlo Alberto Dalla Chiesa è

acclamato per strada, partecipa alle manifestazioni pubbliche quasi a voler rassicurare i

cittadini, e presenzia numerosi incontri sociali: con i genitori di ragazzi tossicodipendenti,

nei licei, presso i cantieri navali. Tutti episodi riproposti nel film e realmente accaduti,

sottolineati per far comprendere quanto il generale combattesse sul campo e non seduto

dietro a una scrivania.

Il regista ha inoltre posto l’accento sulla vita privata del generale e della sua giovane

moglie, Emmanuela Setti Carraro: la decisione di accettare la nomina a prefetto li avrebbe

allontanati, e quindi la crocerossina decide di seguire a Palermo colui che di lì a breve

sarebbe diventato suo marito. L’aspetto maggiormente importante tuttavia è legato alla

paura provata dalla giovane moglie, che teme per l’incolumità sua e del marito.

Emmanuela Setti Carraro è ossessionata, legge i giornali con avidità e timore al tempo

stesso, quando esce di casa si sente osservata e sembra che qualsiasi cosa evochi sangue e

morte. Queste particolarità sono ben delineate all’interno della pellicola, e a mio giudizio il

regista è stato abile nel trasmettere tale messaggio senza scadere nel melodrammatico: i

61

fruitori comprendono l’angoscia provata dai protagonisti del film, e si capacitano che si

tratta di timori motivati che purtroppo troveranno ben presto un riscontro.

Giuseppe Ferrara evidenzia inoltre il modo di lavorare del generale Dalla Chiesa, ormai

prefetto. La sua paura di essere sotto osservazione lo conduce a cambiare la disposizione

della mobilia del suo ufficio, a mettere sotto controllo i telefoni, a chiedere i curricula dei

suoi collaboratori e dei rispettivi famigliari oltre che di tutti i dipendenti della Prefettura.

Una mossa che lo condurrà alla scoperta di intrighi tra esponenti di Villa Whitaker e la

mafia: per esempio scopre che il banchiere Michele Sindona, per rimanere a Palermo a

operare in tutta tranquillità evitando la reclusione, si è fatto sparare al ginocchio da un suo

complice, fratello di un impiegato della prefettura. Dalla Chiesa chiede che vengano

monitorati tutti i movimenti bancari delle più importanti personalità palermitane, oltre alle

principali gare d’appalto. Tutti episodi realmente accaduti che trovano fedele riscontro

all’interno della pellicola, e che il regista ha messo in luce in modo che si evincesse la

metodologia di lavoro del generale.

Le scene finali del film sono incentrate sull’agguato di via Isidoro Carini, ma non solo. Il

cineasta sottolinea senza reticenze l’omertà che in quell’occasione si era venuta a creare: le

finestre spalancate per il caldo che improvvisamente si chiudono, una donna che scende in

strada ma che viene trascinata via dal marito, e tutt’intorno il silenzio e la strada deserta.

Nessuno ha sentito o visto qualcosa. Eppure la stessa via, poco dopo, pullulerà di forze

dell’ordine ma soprattutto di giornalisti, pronti a immortalare la A112 ferma davanti al

marciapiede, con i corpi straziati del prefetto e della moglie al suo interno. In maniera

cruda si manifesta come i due cadaveri siano stati ritrovati, e anche in questo caso si tratta

di una fedele trasposizione della realtà.

Diversa invece la scelta stilistica adoperata per realizzare il film Giovanni Falcone del

1993.

In questo caso Giuseppe Ferrara ha incentrato quasi tutta la pellicola sull’aspetto

professionale del magistrato di Palermo, con un occhio di riguardo sul tema del pentitismo;

Falcone infatti diede molta importanza alle dichiarazioni dei pentiti di mafia, che secondo

lui costituivano un valido tramite tra la giustizia e la criminalità organizzata, e tutto questo

emerge dalla visione del film. Il regista ha inoltre evidenziato il rapporto tra Falcone e gli

altri membri del pool, in special modo Paolo Borsellino e Rocco Chinnici, sottolineando il

rapporto di amicizia che si era venuto a instaurare tra i vari colleghi.

A supporto del racconto di svariati avvenimenti raccontati all’interno del film, Giuseppe

Ferrara si è avvalso di scene di repertorio o sequenze di altri sui film. E’ il caso

62

dell’attentato del 3 settembre 1982: la morte del generale Dalla Chiesa e della consorte

viene raccontata all’interno del film su Giovanni Falcone riproponendo le stesse scene che

concludevano Cento giorni a Palermo.

Per quanto invece riguarda le scene di repertorio, un esempio è dato dal maxiprocesso: le

riprese all’interno dell’aula bunker e la notizia degli ergastoli inflitti ai boss e ai diversi

collaboratori sono reali immagini trasmesse dai telegiornali. Le stesse scene dei funerali

del magistrato, della moglie e degli agenti della scorta sono quelle che furono trasmesse in

diretta televisiva dalla prima rete di Stato: il regista inserisce non solamente le riprese dei

feretri, ma anche il discorso della vedova Schifani (uno degli agenti), la folla che si accalca

all’esterno della chiesa e che grida il suo disprezzo verso i politici che tentano di farsi largo

per entrare all’interno della cattedrale.

Paradossalmente, non vengono utilizzate scene di repertorio per raccontare la strage di

Capaci, al contrario di quanto accaduto per quella di via D’Amelio, che costituisce la

sequenza finale del film Giovanni Falcone.

Rispetto alla pellicola dedicata al generale Dalla Chiesa, con la quale si metteva in risalto

anche l’aspetto privato della vita del prefetto, quella relativa al magistrato palermitano dà

poco spazio alla sua sfera intima. Ovviamente la figura della moglie è presente, ma in

maniera meno preponderante, e anche le paure che può umanamente provare sono in

qualche modo meno accentuate se paragonate a quelle espresse da Giuliana De Sio nel

ruolo di Emmanuela Setti Carraro. Non bisogna tuttavia dimenticare che i periodi delle due

biografie sono sicuramente diversi: poco più di cento giorni nel primo caso, oltre un

decennio nel secondo. E’ chiaro che nella prima opera si è reso necessario condensare tutti

gli aspetti salienti della vita del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, mentre per quanto

attiene la biografia cinematografica di Falcone i tempi sono notevolmente dilatati, e quindi

si è dato maggior risalto all’aspetto professionale, anche per far comprendere ai fruitori chi

era il magistrato di Palermo e perché è stato ucciso dalla mafia.

Anche nella pellicola del 1993 ritorna comunque il tema dell’omertà: un esempio è fornito

dalla scena dell’omicidio di Ninnì Cassarà, membro del pool antimafia che viene ucciso

sotto casa, davanti agli occhi della moglie affacciata al balcone che correndo giù per le

scale comincia a bussare alle porte dei vicini invocando il loro aiuto, ma invano. Riaffiora

inoltre, anche in questo caso senza veli, l’accusa di complicità tra Palazzo di Giustizia e la

mafia: nella pellicola inerente a Falcone l’ultima scena dimostra un uomo, che in diverse

occasioni era apparso al magistrato, sempre in silenzio e in abito scuro, presente in via

63

D’Amelio, che chiede a un poliziotto di cancellare il suo nome dalla relazione di servizio

che stava redigendo.

Diverso infine il ruolo dei giornalisti all’interno delle due vicende. In Cento giorni a

Palermo i cronisti assediano di continuo il generale Dalla Chiesa, tempestandolo di

domande che lui puntualmente nicchia; tuttavia, più di una scena è girata all’interno di una

redazione giornalistica, dove un cronista riceve telefonate anonime che lo informano prima

del fatto che Dalla Chiesa sia un personaggio scomodo, e successivamente che

l’operazione a lui dedicata è praticamente conclusa. Non solo. Nel film del 1984 vengono

riproposti degli stralci dell’intervista che Giorgio Bocca fece al generale Dalla Chiesa

nell’agosto del 1982. Nello specifico, il giornalista, che conobbe il generale nel 19672, gli

chiese se si sentisse maggiormente un proconsole o un prefetto nei guai. Dalla Chiesa

rispose:

Sono venuto qui per dirigere la lotta alla mafia, non per discutere di competenze e di precedenze

[…]. Non chiedo leggi speciali, chiedo chiarezza […]. Chiunque pensasse di combattere la mafia

nel “pascolo” palermitano e non nel resto d’Italia non farebbe che perdere tempo3.

E successivamente il generale rilascia una dichiarazione che costituisce una sorta di

presagio, detta con cognizione di causa:

Credo aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questa

combinazione fatale: è diventato troppo pericoloso ma si può ucciderlo perché isolato4.

Non sono fatti nomi specifici, ma confrontando quanto sopra con lo scritto Trent’anni di

mafia di Saverio Lodato, si potrebbe azzardare la dichiarazione che il giornalista in

questione potrebbe essere lui ai tempi della sua collaborazione con “L’Unità”.

Niente assedi giornalistici invece in Giovanni Falcone; tuttavia, viene riproposta l’edizione

ufficiale de “L’Ora”, quando Falcone, in auto, legge il giornale per sincerarsi della

situazione venutasi a creare a Palermo dopo l’arrivo del generale Dalla Chiesa.

Temi che ritornano dunque, ma anche argomenti trattati in maniera differente, anche se il

coraggio e la voglia di denuncia sociale del regista sono immutati.

2 P.SAPEGNO, M.VENTURA, Generale, Città del Castello, Lumina, p.28. 3 N.DALLA CHIESA, In nome del popolo italiano, pp.358-361. 4 Ibidem.

64

Diverso invece il taglio biografico approntato ai due lungometraggi, e diversa anche la

fruizione e la divulgazione degli stessi.

3 I FRUITORI DEI FILM SU DALLA CHIESA E FALCONE L’anteprima della pellicola Cento giorni a Palermo avvenne nel marzo del 1984, presso la

facoltà di Ingegneria dell’ateneo palermitano, alla presenza delle più alte cariche comunali

e regionali, oltre che dei maggiori esponenti del mondo del giornalismo e della

magistratura. Mancavano invece sicuramente le persone maggiormente coinvolte nella

vicenda, ovvero i famigliari delle vittime: le poltrone assegnate ai figli del generale e alla

madre di sua moglie sono rimaste vuote. Un assenza giustificata per mezzo di un

telegramma, come dichiara lo stesso regista alla fine della proiezione: «Hanno preferito

restare lontani per “evidenti motivi psicologici”. Li capisco, la ferita è troppo recente»5.

Presente alla prima anche la vedova Giuliano, il cui marito fu assassinato dalla mafia alla

fine degli anni Settanta, e il giudice Falcone, che commenta: «Una ricostruzione fedele, un

grosso sforzo». Dello stesso parere anche Emanuele De Francesco, nominato Prefetto di

Palermo dopo l’assassinio di Dalla Chiesa6.

Dopo l’anteprima proiettata a Palermo, il regista Giuseppe Ferrara decide di far conoscere

la propria opera in giro per l’Italia. A Roma, per esempio, dove la sua pellicola viene

trasmessa a conclusione di una manifestazione promossa da quindicimila giovani

provenienti soprattutto dalla Campania, dalla Calabria e dalla Sicilia per protestare contro

la mafia, la camorra e la droga. Una delegazione di studenti fu persino ricevuta dall’allora

presidente della Repubblica Sandro Pertini: tutti uniti per dimostrare che l’Italia non è

solamente malavita, e che regioni come la Sicilia non possono essere identificate in toto

con il termine mafia7.

L’appuntamento si rinnova, ma questa volta ad Asti, per un convegno-dibattito sulla

criminalità organizzata, al quale prendono parte, oltre al regista Ferrara, il figlio del

prefetto in qualità di sociologo e il giudice Caselli. E mentre Nando Dalla Chiesa

ammonisce che «chi difende le istituzioni subisce attacchi brutali».

5 F.SANTINI, Palermo, le poltrone vuote al film su Dalla Chiesa, «La Stampa», 22 marzo 1984, p.1. 6 Ibidem. 7 G.ZACCARIA, Roma, 15 mila giovani in corteo contro mafia, camorra e droga, «La Stampa», 6 maggio 1984, p.6.

65

Il cineasta racconta i tentativi adottati per far naufragare il suo lavoro biografico sul

generale Dalla Chiesa, come quando l’Alitalia diffidò la troupe a riprendere la scena in cui

l’attore che interpretava il prefetto scendeva da uno dei suoi aerei, mentre fu abolita la

scena relativa all’incontro tra il prefetto e gli operai dei cantieri navali, in quanto la

direzione temeva di offrire un’immagine mafiosa della loro azienda8.

Il film su Giovanni Falcone non fu pubblicizzato con la stessa foga. In una nota che

accompagna la scheda del film a supporto della visione, tuttavia, Giuseppe Ferrara dichiara

che

Se poeti, cantanti, scrittori dedicano le loro opere alla strage di Capaci, nessuno batte

ciglio. Così mandare in onda ore e ore di filmati televisivi sulle stragi siciliane va

benissimo. Invece fare un film, anzi esprimere l’intenzione di fare un film su falcone

suscita indignazione”E’ troppo presto, è sciacallaggio”[…]. Mai come oggi sento che

portando a conoscenza i meccanismi di una criminalità occulta attraverso la ricostruzione

dell’opera giudiziaria svolta da Falcone sia possibile fare una spinta allo smascheramento

di questo contropotere chiamato mafia e insieme un contributo alla difesa e al

rafforzamento dei valori democratici9.

Attraverso questa affermazione, almeno secondo la mia chiave di lettura, è stato spiegato il

motivo per il quale il film, a suo tempo, non è stato adeguatamente recensito e

pubblicizzato.

8 V.TESSANDORI, “La mafia si può sconfiggere non dimentichiamo che esiste”, «La Stampa», 3 giugno 1984, p.7. 9 http://giuseppe-ferrara.aitek.org/falcone.htm.

66

4 LE FICTION Dal 1982 al 2006, sono state prodotte solamente due film per il piccolo schermo relativi

alle biografie di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, mentre non si annoverano

produzioni di tale genere inerenti alla vita di Carlo Alberto Dalla Chiesa. I lavori in oggetto

sono peraltro molto recenti: la fiction Paolo Borsellino fu trasmessa da Canale 5 nel

novembre del 2004, mentre è datata ottobre 2006 la fiction di Rai Uno Giovanni Falcone.

La prima è figlia della casa di produzione “Taodue Film” fondata nel 1991 da Pietro

Valsecchi. A lui si devono miniserie quali Uno bianca, Ultimo e Distretto di Polizia10, tutte

trasmesse dalla rete ammiraglia della Mediaset.

Vita privata e rapporti interpersonali: sono questi i due aspetti sui quali la fiction dedicata

al procuratore di Marsala è stata maggiormente improntata. Paolo Borsellino è stato dipinto

come un marito e un padre esemplare da chi lo conosceva bene, e regista e produttore

hanno deciso di far emergere tali peculiarità. In Paolo Borsellino sono quindi diverse le

scene che ritraggono il magistrato in teneri atteggiamenti con la moglie, o intento ad

aiutare i figli con i loro studi universitari; qualsiasi scelta lavorativa che potesse avere delle

ripercussioni sulla famiglia veniva intrapresa di comune accordo tra Borsellino e i suoi

cari, e anche quest’aspetto è messo in evidenza all’interno della pellicola.

Per quanto attiene ai rapporti interpersonali, è posta in risalto l’amicizia tra Paolo

Borsellino e Giovanni Falcone, ma anche del magistrato e gli altri membri del pool;

amicizie, come nel caso dei due giudici palermitani, nate già ai tempi delle rispettive

infanzie, e maturate nel corso degli anni, complice anche i medesimi luoghi di lavoro.

Anche quando si racconta del loro modo di lavorare, il regista ha sempre cercato di far

trapelare il rapporto di amicizia intercorso tra i due magistrati: erano colleghi, ma

soprattutto amici.

Ovviamente la fiction trasmessa da Canale 5 ha dato risalto anche alla vita lavorativa del

giudice, partendo dal 1980, anno dell’omicidio di Emanuele Basile, capitano dei

carabinieri che sarà barbaramente ucciso dalla mafia e che aveva reso Borsellino partecipe

di quanto aveva scoperto a seguito delle indagini condotte. Il dovere morale e professionale

del giudice lo induce quindi a continuare la pista battuta dal carabiniere; gli viene

assegnata la scorta, e subito dopo entra a far parte del pool antimafia voluto da Rocco

Chinnici. Ogni scena legata al racconto del lavoro del giudice è correlata a scene di vita 10 www.taoduefilm.it

67

famigliare del giudice, o a momenti di relax in compagnia dei colleghi-amici. Anche

quando viene raccontato il trasferimento di Borsellino e Falcone all’Asinara per permettere

la stesura della requisitoria ai fini del maxiprocesso, si parla anche della malattia della

figlia del primo, affetta da anoressia legata proprio alle preoccupazioni relative alla

situazione lavorativa del padre. La strage di Capaci, per esempio, viene raccontata

attraverso gli occhi di Borsellino, vicino tra l’altro all’amico Falcone quando egli esala

l’ultimo respiro; viene dato quindi poco spazio alle scene tradizionali legate all’eccidio del

23 maggio ad appannaggio del racconto di come il procuratore ha vissuto la notizia: la

corsa disperata all’ospedale, le ultime parole rivolte all’amico, l’abbraccio con la figlia che

lo aveva raggiunto presso il nosocomio.

Per raccontare invece della strage di via D’Amelio, che costituisce il tema delle scene

finali della miniserie, sono utilizzate sequenze tratte dai telegiornali dell’epoca; lo stesso

procedimento viene effettuato per raccontare dei funerali di Borsellino, processo già

applicato anche quando si parla delle esequie di Falcone.

Il lavoro della Taodue è stato dunque incentrato molto sui sentimenti e sui valori, non solo

sulla vita lavorativa di Paolo Borsellino. Probabilmente tale scelta stilistica è stata decisa

per andare incontro ai desideri dei fruitori della fiction, che sicuramente hanno apprezzato

una produzione non asettica e non meramente legata al lavoro legislativo del giudice e alla

sua lotta contro la mafia.

Lo stesso filone è stato seguito anche dai produttori della fiction su Giovanni Falcone.

L’omonima fiction, prodotta da Carlo Degli Esposti – realizzatore, in ultimo, della

miniserie Perlasca – è stata molto incentrata sul rapporto tra il giudice e la sua seconda

moglie, Francesca Morvillo, che perirà con lui nella strage del 23 maggio. Si parte dal loro

incontro per arrivare alle nozze, il tutto a corredo della descrizione della vita lavorativa di

Giovanni Falcone. Ampio risalto è inoltre dato alle amicizie con Rocco Chinnici, Paolo

Borsellino e Claudio Martelli. Proprio quest’ultimo, che all’epoca dei fatti era ministro di

Grazia e Giustizia ma soprattutto era per l’appunto amico del giudice siciliano, ha espresso

un giudizio poco favorevole nei confronti della fiction. Egli infatti ha affermato che la

realizzazione manca di alcuni passi importanti della vita di Falcone, come la rottura con la

sinistra politica che bocciò la sua candidatura al Consiglio Superiore della Magistratura,

l’istituzione della Super Procura Antimafia e la possibilità che Falcone ne divenisse il

capo11.

11 C.MARTELLI, A Falcone, eroe scomodo, la tv non fa giustizia, «Oggi», 16 ottobre 2006, pag.25.

68

Effettivamente, bisogna prendere atto che quanto sopra espresso dal politico corrisponde al

vero; la fiction non tratta tali argomenti, nonostante siano rilevanti per la biografia di

Giovanni Falcone. Credo che la motivazione di tacciare tali episodi sia legata alla volontà

di rendere più “umana” e meno asettica la fiction: secondo il mio parere, infatti, anche in

questo caso il regista e il produttore del lavoro hanno tenuto conto dei destinatari del loro

prodotto, e hanno preferito rendere più sentimentale e meno fredda il racconto della vita

del giudice, omettendo fatti importanti ma legati solo alla sua vita professionale. Si è

preferito quindi risaltare la figura del marito premuroso, dell’uomo innamorato, dell’uomo

anche fragile consapevole dei rischi che correva .

Un’altra chiave di lettura potrebbe invece essere questa: si è evitato il discorso politico per

evitare ulteriori polemiche, già scaturite prima della messa in onda dello stesso film.

La pellicola infatti sarebbe dovuta essere trasmessa in occasione del quattordicesimo

anniversario della morte di Falcone, quindi il 23 maggio 2006. Tuttavia, si trattava di

periodo elettorale, e Rita Borsellino, sorella del magistrato ucciso dalla mafia che

ovviamente compare nella fiction di Rai Uno, era candidata alla presidenza della Regione

Sicilia. Per par condicio fu quindi bloccata la messa in onda della fiction, che avrebbe

potuto in qualche modo, tramite messaggi subliminali, indurre la popolazione a votare per

la sorella del magistrato12.

La messa in onda della fiction su Falcone fu accompagnata inoltre da un’ulteriore

polemica, sollevata dal magistrato Vincenzo Geraci, che a suo giudizio si rispecchiava nel

giudice colluso con la mafia Rosario Lo Monaco, tra l’altro personaggio inventato dalla

produzione con il solo intento di personificare tutti gli antagonisti di Giovanni Falcone.

Geraci chiese la sospensione della trasmissione e fece ricorso, ma non vi furono gli estremi

per procedere in quanto il fatto non sussisteva13.

12 F.BATTISTINI, La Rai ferma il film su Falcone: «Par condicio»,« Corriere della Sera», 12 maggio 2006, pag.23. 13 E.COSTANTINI, Bloccate la fiction sul giudice Falcone, «Corriere della Sera», 25 maggio 2006, pag.35.

69

5 I DATI AUDITEL DELLE DUE FICTION

Sia Paolo Borsellino che Giovanni Falcone sono state riconosciute opere di

impegno civile, ed entrambe hanno registrato ascolti record.

Secondo i dati Auditel, la fiction sul giudice siciliano ucciso il 19 luglio 1992 in via

D’Amelio registrò uno share pari al 42% relativo alla prima puntata, trasmessa il 12

novembre 2004, con una media superiore ai dieci milioni di telespettatori; la seconda

puntata, mandata in onda da Canale 5 il giorno successivo, il 13 novembre, registrò uno

share del 55%, con picchi d’ascolto di tredici milioni di telespettatori sintonizzatisi sul

canale nelle scene conclusive della fiction.

Meno alti, ma altrettanto ragguardevoli, gli ascolti della fiction Giovanni Falcone,

trasmessa il 1 e 2 ottobre 2006. La prima puntata ha registrato 7 milioni e 195 mila

spettatori, saliti a 8 milioni per la seconda puntata; la percentuale di share è pari a 27,60

per la prima puntata, e 27,01 per la seconda e conclusiva puntata14.

6 LE RECENSIONI Abbiamo analizzato nelle pagine precedenti il punto di vista dei diversi cineasti

realizzatori dei film e delle fiction, e il successo di pubblico che le stesse hanno ottenuto.

Ma qual è il commento della critica? Questi prodotti del piccolo e del grande schermo sono

stati apprezzati anche da chi ha visionato le pellicole in maniera analitica oppure sono stati

riscontrati dei difetti nella ricostruzione dei fatti che hanno raccontato?

Per rispondere a tali domande ritengo opportuno dare spazio a due recensioni relative

rispettivamente al film di Giuseppe Ferrara sulla vita di Giovanni Falcone e alla fiction su

Paolo Borsellino.

Di seguito riporto la recensione che Lietta Tornabuoni, giornalista de “La Stampa”, scrisse

a proposito del film di cui sopra

Un sufficiente compito di scuola, questo di Ferrara. Una sorta di documento di ciò che è accaduto al giudice Falcone, alla moglie e agli uomini che dovevano proteggerlo. Una strage architettata con

14 www.siaenews.it.

70

diabolica precisione dalla mafia. Dal punto di vista storico possiamo trovare delle motivazioni alla realizzazione del film, ma i risultati cinematografici sono insignificanti. L'invecchiamento è precoce per questi istant-movies, tesi a raccontare il presente per approfittare del momentaneo interesse della gente. La televisione sa far di meglio. Le musiche sono di Pino Donaggio. Successo di pubblico.

Claudio Martelli non ha i boccoli neri ma capelli grigi, non ha la faccia da cherubino gualcito ma energici lineamenti squadrati; e di lui, allora ministro di Grazia e Giustizia, rimproverando l’amico Falcone per aver accettato l’incarico offertogli a Roma, il giudice Borsellino dice: “Ti sei dimenticato che nell’87 Martelli è stato eletto coi voti della mafia?“. Andreotti si vede soltanto di spalle. Lima e Ciancimino sono quasi dei sosia, perché il regista Ferrara ricerca le somiglianze fisiche: “Come Chaplin, che quando fa Hitler lo fa somigliante a Hitler, quando fa Mussolini lo fa somigliante a Mussolini”. Michele Placido però non somiglia a Giovanni Falcone, non ne ha la consapevole calma intelligente e per di più recita davvero male, mentre Giancarlo Giannini è bravo nella parte di Paolo Borsellino. Si vedono nel film Chinnici, Geraci, Cassarà e i Salvo, si citano i Bontade, gli Inzirillo e Totuccio Contorno, Buscetta ha il molle viso ambiguo di Gianni Musy, Anna Bonaiuto interpreta bene Francesca Morvillo, la moglie di Falcone che venne uccisa con lui e con gli uomini della scorta: alternando conversazioni o conciliaboli e ammazzamenti crudeli, il film ricostruisce parte della vita e la morte del giudice Falcone e oltre dieci anni terribili a Palermo, proprio nel momento in cui la magistratura siciliana è più discussa. I misteri d’Italia senza vero mistero hanno anche questo di particolare: durano da tanto tempo e per tanto tempo, vengono periodicamente e strumentalmente resuscitati da rivelazioni talmente contraddittorie, sono nutriti da notizie melodrammatiche così incerte e confuse, che nella memoria dei cittadini restano come un guazzabuglio faticoso e scoraggiante, inestricabile al punto da indurre a rinunciare a capire. Alcuni registi (Giuseppe Ferrara, Pasquale Squitieri, Marco Risi) hanno tentato con i loro film (Cento giorni a Palermo e Il caso Moro, Il pentito, Il muro di gomma) di riassumere e chiarire, sintetizzare e far capire, condensare all’essenziale alcuni eventi o momenti cruciali del Grand Guignol italiano. Lo hanno fatto, naturalmente, dal proprio punto di vista: suscitando sempre reazioni violente, polemiche, proteste e azioni giudiziarie dei protagonisti o coprotagonisti di quegli episodi, dei parenti o degli amici gelosi della memoria di quei personaggi così vicini nel tempo, dei politici, giornalisti o specialisti più esperti sul tema pronti a condannare inesattezze magari inessenziali. Lo hanno fatto, naturalmente, nel proprio stile, che non è precisamente quello del docudrama all’americana, piuttosto quello della narrazione popolare: suscitando sempre la deplorazione o anche l’orrore della critica cinematografica ma anche successi di pubblico, se sono esatte le cifre fornite dal regista Ferrara secondo il quale Cento giorni a Palermo (sull’assassinio del generale Dalla Chiesa e di sua moglie) e Il caso Moro (sul rapimento e l’uccisione del presidente democristiano da parte delle Brigate Rosse) hanno raccolto circa un milione di spettatori e circa 10 milioni di telespettatori al primo passaggio televisivo seguito poi da diverse repliche tv. Magari bruttissimi, Giovanni Falcone e i suoi simili sono insomma film anomali. Appartengono a quel genere più contemporaneo di film politico che, partendo da un preciso punto di vista, tenta abbastanza disperatamente di mettere ordine e fare chiarezza nella sanguinosa cronaca italiana recente: sarà anche per questo che dispiacciono a tanti e si attirano tanti guai15. Come si evince dalla lettura di quest’articolo, il film di Ferrara sembra non aver registrato i consensi della critica: si parla di una buono ricostruzione storica, ma per il resto sembra che la pellicola sia insignificante e destinata a non essere ricordata nel tempo. Decisamente diversa invece la recensione sulla fiction trasmessa da Canale 5 nel 2004. Si tratta del primo prodotto televisivo realizzato su un personaggio anti mafia: prima di allora

15 L.TORNABUONI, Il film sulla vita di Falcone «La Stampa», 29 ottobre 1993.

71

il piccolo schermo aveva solamente trasmesso documentari, immagini di repertorio e i film proiettati tempo prima al cinema. Il commento questa volta è decisamente più benevolo. Liberamente ispirato alla vita del giudice Paolo Borsellino, il film, narra gli avvenimenti che portarono alla sua uccisione in un attentato nel luglio del 1992. L'epilogo del film è già noto e la narrazione segue uno schema pressappoco lineare, ma il regista riesce comunque a creare suspense e interesse nello spettatore. Il film è ben diretto, come del resto molti film italiani su argomenti simili (Uno bianca, Il sequestro Soffiantini). Le vicende narrate, e il messaggio a esse collegato, troveranno in alcuni spettatori terreno fertile, mentre lasceranno indifferenti molti altri anche a causa della notorietà degli avvenimenti a cui esso fa riferimento. Gli attori recitano bene, anche se a volte faticano nelle scene più impegnative. Le musiche sono all'altezza del resto della pellicola. Insomma, un film ben costruito, ma basato su un argomento molto inflazionato. Incapace quindi di dare reali motivazioni alla sua visione, a meno che, ovviamente, non si sia appassionati di questo genere. In definitiva, un film interessante da vedere quando lo trasmettono in televisione16. Purtroppo non sono invece presenti recensioni su Cento giorni a Palermo e a proposito della fiction trasmessa da Rai Uno sul magistrato Falcone. Tuttavia, da entrambi i commenti di cui sopra credo si possa desumere che questi prodotti sono apprezzati soprattutto dagli “addetti ai lavori” e dagli estimatori del genere. Ottengono ottimo riscontro di pubblico ma non sempre la critica è favorevole. Il fatto che in ventiquattro anni siano stati prodotti solamente due film e altrettante fiction sulla vita di questi tre personaggi credo sia significativo: sicuramente si tratta di un impegno lavorativo e civile non indifferente, ma soprattutto nuove produzioni in qualche modo rischierebbero di inflazionare quelle già esistenti. Il fatto che il pubblico continua tuttavia a vedere queste pellicole e ad apprezzarle è un dato sicuramente positivo, sintomo della sensibilità della popolazione verso tali argomenti.

16 www.spaziofilm.it.

72

CAPITOLO V PAGINE DI MAFIA

L’editoria si è occupata di mafia in diversi modi e analizzandone diversi aspetti . Vi

sono state pubblicazioni monografiche, oppure biografie scritte da giornalisti o da

famigliari delle vittime. L’obiettivo è sicuramente quello di non dimenticare quanto

accaduto, ma anche di aiutare a riflettere: le immagini di un film sono di forte impatto ma

vengono subito accantonate per lasciare spazio ad altre sequenze; la lettura, come è ovvio,

si presta a maggiori riflessioni.

La bibliografia sulla mafia è sicuramente vasta, ma lo stesso non si può affermare per

quanto riguarda le biografie: sono riconosciute come ufficiali solamente una biografia per

il generale Dalla Chiesa e altrettante, una ciascuna, per i giudici Falcone e Borsellino. Nel

primo caso è stata realizzata dal figlio Nando, mentre negli altri due casi è stata affidata a

due giornalisti che conoscevano bene chi avrebbero dovuto descrivere: Francesco La

Licata ha dunque redatto la biografia su Falcone, e Umberto Lucentini quella su

Borsellino; entrambi tuttavia si sono avvalsi della collaborazione della famiglia delle

vittime.

1

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Nando Dalla Chiesa, figlio del generale, ha scritto molti libri inerenti all’argomento

mafia, ma riguardo alla figura del padre se ne annoverano solamente due.

La vera e propria biografia si intitola In nome del popolo italiano e fu pubblicata nel 1997.

Attraverso la sua lettura, si ha come l’impressione di conoscere meglio la figura del

prefetto, che in quelle pagine viene proposta meno austera e più umana e affettuosa; ampio

spazio viene infatti dedicato alla vita privata del generale: a come ha conosciuto la prima

moglie, Dora, al suo rapporto con i tre figli (Nando, Rita e Simona), e a come cercava di

essere vicino al proprio nucleo famigliare nonostante il lavoro lo portasse a cambiare

spesso città senza dargli la possibilità, in molte occasioni, di essere seguito da consorte e

prole.

Nando Dalla Chiesa ripercorre le tappe della carriera militare del padre, già figlio di

carabinieri. Racconta dell’educazione rigida che era stata imposta a Carlo Alberto Dalla

73

Chiesa e che lui, una volta divenuto padre, ha trasmesso ai figli. Ampio spazio è dato al

rapporto tra il generale e la moglie: viene presentato un uomo profondamente innamorato

della propria donna, consapevole che a causa del suo lavoro lei era costantemente sotto

pressione, vittima di ansie e con il peso di crescere da sola tre figli.

Un intero capitolo viene dedicato al rapporto epistolare intercorso tra i coniugi Dalla

Chiesa: credo che si tratti di una scelta stilistica dell’autore atta a far meglio conoscere il

lato umano legato alla vita privata e affettiva del generale. Ritengo infatti che la biografia

di un personaggio così importante non potesse essere limitata alla sua vita professionale;

inoltre, l’aspetto della vita privata, proprio perché trattato dal figlio, è proposto in maniera

molto delicata, quasi in punta di piedi per non ledere l’intimità di una persona che non c’è

più. Credo infine molto utile la scelta di raccontare alcuni passaggi della vita del generale

tramite lettere di diario personale che egli aveva redatto nel corso degli anni; scritture

intime e sentite che meglio di qualsiasi altro racconto potrebbero descrivere la reale figura

del prefetto di Palermo.

Il libro è corredato da una serie di fotografie accompagnate dalle relative didascalie; tali

istantanee sono suddivise in due gruppi: quelle legate alla sfera privata, e quelle relative

all’ambiente pubblico e professionale; un’ulteriore scelta idonea atta a coinvolgere

ulteriormente il lettore.

In nome del popolo italiano risulta essere la biografia ufficiale del generale Carlo Alberto

Dalla Chiesa. Tuttavia, vi è un altro libro, sempre scritto dal figlio, che si pone l’obiettivo

di raccontare quantomeno gli ultimi mesi di vita dell’uomo, quelli che l’hanno visto

prefetto a Palermo. Delitto imperfetto, questo il titolo, fu pubblicato nel 1985, quindi

dodici anni prima della biografia e a distanza di due anni dall’assassinio del generale,

avvenuto il 3 settembre 1982.

Il taglio adottato per quest’opera letteraria è decisamente diverso: Nando Dalla Chiesa

parla in prima persona, e leggendolo si ha l’impressione che egli abbia cercato uno sfogo

attraverso la scrittura di tale libro. Sono raccontati gli ultimi mesi di vita del prefetto, ma

sempre visti attraverso gli occhi del figlio: che cosa stava facendo in quel periodo mentre il

padre era impegnato a Palermo, i pensieri che aveva quando leggeva le prime pagine dei

quotidiani o quando accendeva il televisore, il suo ultimo ricordo del padre. Insomma,

tramite la lettura di tale pubblicazione si viene più che altro a conoscenza dei sentimenti

del figlio del generale, e non si conosce la sua figura, il suo modo di lottare contro la mafia

e il suo lavoro svolto per raggiungere tale obiettivo. E’ vero che la biografia ufficiale è il

libro edito nel 1997 e non quello del 1985, ma è altrettanto vero che, approcciandosi alla

74

lettura del secondo, si presuppone di poter conoscere qualche ulteriore aspetto del prefetto

di Palermo fino a quel momento sconosciuto o perlomeno poco noto. Tuttavia, sono

toccanti le pagine in cui Nando Dalla Chiesa racconta del dolore personale per la perdita

del genitore, di come ha appreso la notizia, delle reazioni e di come abbia vissuto quei

giorni; ai figli, concetto che sarà ribadito più e più volte, è stata negata la possibilità di

piangere liberamente e di sfogare la loro rabbia, in quanto erano sotto i riflettori e gli

obiettivi delle macchine fotografiche.

Una curiosità. I giornali, quando avevano annunciato la morte di Carlo Alberto Dalla

Chiesa, avevano diramato la notizia secondo la quale anche il figlio del generale aveva

appreso della strage di via Carini attraverso la televisione. In realtà, è stato un cugino dello

stesso a informarlo dell’accaduto, e solo in un secondo momento Nando Dalla Chiesa,

come lui stesso racconta nel libro, ha acceso il televisore e ha letto la scritta che era

trasmessa in sovrimpressione1. Difficile entrare nel merito della questione per comprendere

se allora i quotidiani diedero tale notizia per far passare un messaggio di importanza dei

mass-media o se semplicemente vi fu un errore di trasmissione di tale notizia. Rimane

tuttavia evidente una discrepanza tra la verità e quanto affermato dai giornali…

2

STORIA DI GIOVANNI FALCONE

L’unica biografia autorizzata dalla famiglia d’origine del giudice Giovanni Falcone,

costituita dalle sue due sorelle Anna e Maria, è stata redatta da un giornalista, ma

soprattutto da un amico del magistrato. Si tratta di Francesco La Licata, che da sempre ha

scritto di mafia e che con Falcone aveva instaurato un vero e proprio rapporto di amicizia;

è per volontà delle sorelle che il giornalista ha potuto prendere in mano carta e penna e

scrivere della vita privata e pubblica del giudice ucciso il 23 maggio 1992, avvalendosi

proprio della loro testimonianza. Il libro fu edito nel maggio 1993, in occasione del primo

anniversario della strage di Capaci, e fu recensito sulle pagine dei maggiori quotidiani,

compreso “La Stampa”. La testata piemontese, nella sezione “Società&Cultura”, dedicò al

libro, in uscita il giorno successivo, un’intera pagina a firma di Francesco La Licata,

all’interno della quale venivano riproposti i passi più importanti del libro, divisi in quattro

1 N.DALLA CHIESA, Delitto imperfetto, Cles, Mondadori, 1985, pag.122.

75

macro settori: il rapporto con il padre, la vita blindata, l’isolamento a Palermo, la notizia

dell’attentato appresa dalle sorelle2.

In effetti si può sintetizzare secondo gli argomenti sopraccitati la biografia sul giudice

palermitano. Una cronaca avvincente che miscela magistralmente aspetti della vita privata

con lati della vita pubblica, la personalità carismatica e forte del personaggio del foro con

quella fragile dell’uomo innamorato che cercava di non coinvolgere la moglie nelle sue

vicende lavorative e nei rischi ad esse correlate. Tutti gli episodi della sua vita che sono

stati narrati sulle pagine del libro in oggetto sono raccontate in modo più asettico (come se

fosse un articolo di cronaca) dal giornalista, e in maniera più soggettiva dalle due sorelle di

Falcone, che parlano in prima persona. Il risultato è un lavoro coinvolgente che permette di

apprezzare ulteriormente la figura del giudice antimafia: gli aspetti famigliari sono trattati

dalle sorelle, i rapporti interpersonali raccontati da chi, come La Licata, l’ha conosciuto in

maniera profonda, il tutto però senza tralasciare l’aspetto professionale della vita del

magistrato, anzi.

Il senso del libro è riassunto in queste parole della sorella Maria: «Credo sia giusto far

sapere come si sono svolti certi fatti. La gente è abituata all’idea del supergiudice,

onnipotente, forse un po’ arrogante. Che ne sa, la gente, delle piccole frustrazioni

quotidiane, delle delusioni, degli smarrimenti di un uomo che inspiegabilmente è stato

osteggiato proprio da chi avrebbe dovuto amarlo di più. Che ne sa, la gente, della vita triste

di Giovanni Falcone?»3.

I lettori, al termine della lettura, avranno l’impressione di aver saputo qualcosa in più sulla

vita di Falcone, non solo privata, ma anche professionale, e per questo lo apprezzeranno

ulteriormente. Ritengo infine che affidare la stesura del libro a Francesco La Licata sia

stata una scelta strategica volta a far raccontare la figura di Falcone da chi lo aveva

conosciuto bene e poteva attingere dai propri ricordi personali ai fini delle descrizioni. Il

modo migliore per commemorare le persone che non ci sono più è infatti quello di affidarsi

al ricordo, quando e se possibile, di chi le ha conosciute e amate in vita; in questo modo si

otterrà una descrizione puntuale, sentita e veritiera di quel personaggio.

2 F.LA LICATA, Falcone, appuntamento con la Piovra, «La Stampa», 18 maggio 1993, pag.15. 3 F.LA LICATA, Storia di Giovanni Falcone, Bergamo, Mondadori, 1993, pag.1.

76

3

IL VALORE DI UNA VITA

Il meccanismo adottato per la realizzazione del libro sulla vita di Giovanni Falcone

fu ripreso anche per la stesura della biografia di Paolo Emanuele Borsellino. Il libro Paolo

Borsellino, il valore di una vita, fu nelle librerie alla fine del 1993, ad un anno e qualche

mese di distanza dal primo anniversario della strage di via D’Amelio. A scrivere tale

biografia il giornalista Umberto Lucentini, amico del procuratore di Marsala, insieme alla

vedova Borsellino e ai suoi tre figli Lucia, Manfredi e Fiammetta.

Le tappe toccate nel libro sono simili a quelle delle biografia su Giovanni Falcone:

l’infanzia, il rapporto con i genitori; gli studi universitari;i primi lavori presso il tribunale

per poi approdare alle prime, importanti inchieste; il suo amore verso la moglie e i figli; il

suo rapporto di amicizia con Giovanni Falcone e la consapevolezza di essere rimasto da

solo a combattere la mafia dopo la morte di quest’ultimo. L’obiettivo del libro non è

solamente raccontare Paolo Borsellino, ma cercare Paolo Borsellino, come spiega lo stesso

autore dello scritto: cercare di comprendere l’uomo che realmente era, così attaccato al

lavoro e ai suoi affetti, così scrupoloso e meticoloso. L’unico modo per far emergere tali e

altre caratteristiche è quello di provare a ricordarlo attraverso le pagine di questo libro, con

le testimonianze di chi lo ha amato più di tutti: la moglie e i figli.

L’intento riesce perfettamente. Alla fine del libro non solo si pensa di conoscere qualcosa

in più di Paolo Borsellino, ma è come se si fosse riusciti a entrare in punta di piedi

nell’ambito della sua sfera famigliare, grazie ai racconti dei suoi cari, che lo ritraggono

come marito e padre esemplare.

Il tutto in maniera dignitosa, senza cadere nel vittimismo o nel pietismo, e questo rende il

libro ancora più apprezzabile. Dalle prime pagine si evince inoltre che in qualche modo la

stesura del libro è stata terapeutica per la vedova e i figli, che ricostruendo la vita del loro

caro sono riusciti a far trasparire «una piccola goccia di quel mare di rabbia e di sconforto

da cui eravamo inondati nell’immediatezza del tuo distacco»4, rivolgendosi ipoteticamente

proprio a Paolo Borsellino.

4 Ibidem.

77

4

CONFRONTI

Le tre diverse biografie riportano delle differenze ma al tempo stesso delle analogie

tra di loro. Tutti i libri analizzati sono stati scritti dai famigliari delle vittime, ma in due

casi su tre la stesura vera e propria è stata affidata a giornalisti, per raccontare anche in

maniera oggettiva gli aspetti della vita di questi personaggi.

Le biografie di Falcone e Borsellino sono uscite a un anno dalle loro morti: un ulteriore

modo per commemorarli, con testimonianze e ricordi di chi li ha conosciuti e amati;

diversa invece la questione attinente a Dalla Chiesa, considerato il fatto che In nome del

popolo italiano fu pubblicato a distanza di quindici anni dalla morte del generale; certo,

solo tre anni dopo la sua morte apparve il primo libro, ma come accennato in precedenza,

Delitto imperfetto ha più il sapore di uno sfogo figliale.

La veridicità degli scritti non è solamente data dalle fonti dei racconti, ma anche dagli atti

pubblici che sono stati pubblicati al loro interno: discorsi ufficiali pronunciati in diverse

occasioni, che trovano riscontro anche all’interno delle pellicole, come i discordi di Carlo

Alberto Dalla Chiesa ai genitori dei tossicodipendenti o agli operai dei cantieri navali,

oppure le conferenze presiedute da Giovanni Falcone presso i licei, o ancora il discorso di

commemorazione proprio in memoria di Falcone pronunciato da Paolo Borsellino

(riportato sia sulle pagine del libro che nella fiction omonima).

Simile invece l’indice dei tre libri: si parte dall’infanzia dei personaggi per giungere alla

loro maturità professionale, culminata a Palazzo di Giustizia per quanto attiene i due

giudici, presso le caserme dell’intera Italia per quanto riguarda il generale, che rimarrà tale

fino alla sua nomina da Prefetto, quattro mesi prima di morire.

Le testimonianze dei famigliari sono invece proposte in maniera diversa: nelle biografie

dei due magistrati si alternano con il racconto dei giornalisti autori dei libri, mentre in

quella del generale emerge in contemporanea con la descrizione della vita stessa del

prefetto: l’autore ricorda la vita del prefetto, ma essendone il figlio si lascia trasportare dai

ricordi personali.

Il supporto fornito dai giornalisti è stato molto importante, in quanto ha permesso una

scrematura dei ricordi che dovevano rimanere personali ad appannaggio di quelli che

potevano divenire di dominio pubblico, una selezione che non è stata effettuata nell’ambito

della biografia sul generale Dalla Chiesa, mettendo in qualche modo il lettore in condizioni

di disagio, come se si sentisse reo di ledere l’intimità di una persona che non c’è più; un

78

sentimento che personalmente ho provato durante la visione delle lettere che il generale

inviava alla moglie, dense di amore ma ininfluenti ai fini della biografia.

Credo inoltre sia significativo il fatto che in tutti questi anni siano state scritte solo tre

biografie su questi personaggi: un lavoro certosino e impegnativo, ma soprattutto sinonimo

di sofferenza se svolto da chi era vicino a queste personalità. Infine, ritengo che scrivere

ulteriori libri sulla loro vita significherebbe in qualche modo screditare quelli già esistenti,

che invece sono prodotti editoriali ben confezionati e destinati, come si è visto, a durare nel

tempo.

79

BIOGRAFIE

CARLO ALBERTO DALLA CHIESA

Il generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa nasce a Saluzzo, in provincia

di Cuneo, nel 1922, da padre parmigiano e madre piacentina. Intraprende la carriera

militare a partire dal 1941 quale allievo ufficiale volontario, per poi entrare ufficialmente

nel corpo l’anno successivo in seguito al superamento del concorso. I suoi primi successi

personali sono legati alla sua reggenza come comandante a San Benedetto del Tronto, per

poi passare alla guida di bande partigiane all’indomani della sigla dell’armistizio.

L’incarico gli vale la cittadinanza onoraria a San Benedetto ma soprattutto la promozione a

ufficiale di complemento, oltre alla medaglia per meriti di guerra. Contemporaneamente, si

laurea in Giurisprudenza presso l’università di Bari con la votazione di 110 e lode, la stessa

che ottenne pochi anni più tardi con la seconda laurea, questa volta in scienze politiche.

Con la liberazione di Roma viene destinato al comando della tenenza di Parioli che resse

fino al 12 aprile 1945, quando viene inviato al seguito della Quinta armata americana al

fine di organizzare il gruppo carabinieri di Parma; l’anno dopo il trasferimento a Casoria,

in provincia di Napoli, con il compito di dirigere il settore antibrigataggio. Erano gli anni

della banda Giuliano, e per Carlo Alberto Dalla Chiesa si trattò di una sorta di “battesimo”

alla lotta contro la criminalità organizzata1.

La prima vera e propria sfida contro la stessa il Generale però l’ha avuta in seguito

all’omicidio di un giovane sindacalista, Placido Rizzotto, assassinato per conto di Luciano

1 R.S., Le battaglie di Dalla Chiesa contro il terrorismo, «La Stampa», 4 settembre 1982, pag.5.

80

Liggio, astro nascente della criminalità organizzata. Era il 1948, e l’allora capitano Dalla

Chiesa pose per la prima volta piede sulla terra di cui si innamorò profondamente, tanto

che spesse volte ripeteva di essere afflitto dal “mal di Sicilia”. Le indagini minuziose del

militare conducono ai nomi dei mandanti dell’assassinio, ma il processo si conclude con

una totale assoluzione2.

Nel 1964, cinque mesi dopo il suo arrivo nella Capitale, Carlo Alberto Dalla Chiesa viene

trasferito all’ufficio addestramento della Legione allievi carabinieri di leva di Torino. Nel

luglio del 1966, in attesa della promozione a colonnello, deve scegliere se porsi al

comando della Legione di Palermo o Trento: Dalla Chiesa sceglie il capoluogo siciliano,

catapultandosi suo malgrado per la prima volta verso la notorietà nazionale ma soprattutto

rispondendo al suo amore verso l’isola3.

Siamo nel 1974, e in qualità di generale di brigata il carabiniere viene trasferito a Torino,

dove diventa il nemico per antonomasia delle Brigate Rosse, impiegandosi in prima

persona per debellare il terrorismo e per arrestare Renato Curcio; un incarico sicuramente

non facile nel clima di terrore di quegli anni, culminati con il sequestro e la morte di Aldo

Moro nel 19784.

Proprio quest’ultimo fu, dal punto di vista personale, un anno devastante per Dalla Chiesa.

Il 19 febbraio muore d’infarto sua moglie Dora: un’unione matrimoniale felice iniziata il

19 luglio 1946 e dalla quale erano nati Rita, nota giornalista e conduttrice televisiva;

Nando, esponente politico e docente presso l’università Bocconi di Milano, e Simona. Un

lutto che lo costringerà mai quanto prima a riflettere su quanto il suo lavoro abbia fatto

«soffrire in silenzio i miei cari» come lui stesso dichiarò nell’intervista rilasciata a Giorgio

Bocca venti giorni prima – era il 10 agosto - dell’attentato. Uno sconforto e uno stato

d’animo che si riescono ad evincere anche attraverso le lettere inviate alla moglie durante i

lunghi periodi di lontananza e le pagine di diari personali tenuti dallo stesso Dalla Chiesa,

documenti resi pubblici dal figlio nel volume biografico In nome del popolo italiano5.

Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta la Sicilia è funestata da una serie

di omicidi di matrice mafiosa: il 21 luglio 1979 fu ucciso Boris Giuliano, il 25 settembre

2 N.DALLA CHIESA, In nome del popolo italiano, Bergamo, Nuovo Istituto Italiano di Arti Grafiche, pag.60. 3 N.DALLA CHIESA, In nome del popolo italiano, Bergamo, Nuovo Istituto Italiano di Arti Grafiche, pag.104. 4 Cfr. nota n.1 pag 79. 5 N.DALLA CHIESA, In nome del popolo italiano, Bergamo, Nuovo Istituto Italiano di Arti Grafiche, pagg.358-363.

81

dello stesso anno Cesare Terranova, mentre il 6 gennaio ed il 6 agosto del 1980 trovarono

la morte rispettivamente Piersanti Mattarella e Gaetano Costa.

Alla fine dell’aprile del 1982, Carlo Alberto Dalla Chiesa fu nominato prefetto di Palermo.

Il suo insediamento avvenne il 2 maggio, lo stesso giorno dei funerali di Pio La Torre,

parlamentare comunista assassinato il 30 aprile. A posteriori l’impressione comune è che il

generale sia stato mandato lì per essere allontanato, in quanto personaggio scomodo non

solamente alla mafia ma anche alla politica e all’imprenditoria italiana; un modo elegante

per isolarlo, per impedirgli di svolgere al meglio il proprio lavoro. Il Prefetto sapeva di

combattere da solo una battaglia difficile, e continuava a ripetere che «muore solo chi

viene lasciato solo». Una sorta di premonizione.

Nel corso del suo mandato, Carlo Alberto Dalla Chiesa dovette scontrarsi con

l’ostruzionismo di molte personalità, reticenti di fronte alle sue richieste di accesso a

determinate tipologie di documenti a scopo investigativo. In cento giorni il militare riuscì a

conquistare la fiducia dei siciliani e dei palermitani in modo particolare, e stava ponendo le

basi per lavorare al meglio anche a Palermo.

Numerosi gli interventi in veste di oratore del generale Dalla Chiesa: oltre che quelli

avvenuti nell’ambito delle cerimonie ufficiali in occasione dei diversi anniversari per la

fondazione dell’Arma, vanno menzionati anche quelli avvenuti all’interno delle scuole e

delle comunità di recupero per tossicodipendenti.

Il 10 luglio del 1982 sposò in seconde nozze Emanuela Setti Carraro, una trentaduenne

crocerossina che con lui trovò la morte la sera del 3 settembre 1982. I due coniugi erano

seguiti dall’auto di scorta guidata dall’agente Domenico Russo, il quale, trasportato

all’ospedale, spirò dopo pochi giorni.

82

GIOVANNI FALCONE

Giovanni Falcone nasce a Palermo, al primo piano di un palazzo antico di via

Castrofilippo, il 18 maggio 1939, terzogenito preceduto da due sorelle, Anna e Maria. La

sua era una famiglia appartenente al ceto medio alto, che tuttavia visse tempi duri

uniformemente agli altri con lo scoppio della seconda guerra mondiale ed il correlato

pericolo di bombardamenti, che costrinse la famiglia Falcone a trasferirsi a Corleone6.

Il futuro giudice del pool antimafia si diplomò al liceo classico con il massimo dei voti, e

scelse come prosecuzione agli studi l’Accademia Navale, che offriva una duplice

possibilità di sbocco: la laurea in ingegneria o la carriera militare. La sua propensione era

maggiormente legata alla prima eventualità, ma il giovane Falcone, che dimostrava di

avere attitudine al comando, fu inviato allo Stato maggiore. Ne conseguì il suo immediato

allontanamento per sua sponte dall’Accademia livornese, il suo ritorno a Palermo e

l’iscrizione alla facoltà di legge. Nel 1961 conseguì la laurea con lode esponendo una tesi

dal titolo Istruzione probatoria in diritto amministrativo7.

L’anno dopo, dopo aver vinto il concorso in magistratura, ottenne il suo primo incarico

come pretore a Lentini. Contestualmente, conobbe ad una festa Rita Bonnici, che sarebbe 6 F.LA LICATA, Storia di Giovanni Falcone, Milano, Rizzoli, 1993, pag.23. 7 F.LA LICATA, Storia di Giovanni Falcone, Milano, Rizzoli, 1993, pagg.33-42.

83

diventata sua moglie. Quattordici anni di matrimonio senza figli, sfociati in una

separazione che il giudice visse con dolore anche a causa del clima di maldicenze dei

salotti trapanesi, colmi di chiacchiere dopo la notizia che l’addio definitivo della moglie

era legato alla sua scelta per un altro magistrato che era stato il capo dello stesso Falcone.

Già, salotti trapanesi, perché nel frattempo il pretore era stato trasferito a Trapani, con

soddisfazione da parte del diretto interessato che non ricordò mai con piacere il periodo

trascorso a Lentini8.

Il vero impatto con Cosa Nostra Giovanni Falcone l’ebbe quando si confrontò contro le

cosche del Trapanese, in modo particolare con il boss Mariano Licari; tuttavia il processo

contro i mafiosi non ebbe l’esito sperato dai legali dell’accusa, e questo fu vissuto da

Falcone come un’importante sconfitta non solo personale ma dell’intera giustizia9.

Nel 1978, Rocco Chinnici, consigliere istruttore palermitano, contatta Giovanni Falcone

per domandargli di trasferirsi all’ufficio istruzione di Palermo. Si stavano ponendo le basi

per il pool antimafia del quale sarebbero entrati a far parte anche Paolo Borsellino, Ninni

Cassarà e Beppe Montana, ma di questo i diretti interessati ne erano per il momento del

tutto ignari. Falcone accettò l’incarico ed approdò al palazzo di giustizia palermitano e alla

magistratura penale.

La prima inchiesta verteva sui traffici illeciti, quelli che costituiscono la nuova mafia,

l’altra faccia della medaglia della criminalità organizzata: droga, armi, contrabbando,

banconote contraffatte. Giovanni Falcone si imbatté nel clan di Sindona: per sua mano

avevano già trovato la morte il vicequestore Boris Giuliano e il capitano dei carabinieri

Emanuele Basile, oltre al procuratore Gaetano Costa. Si era intuito che si trattava di

un’inchiesta scottante che andava a minare l’incolumità dello stesso Falcone, al quale

proprio in quell’occasione fu assegnata la scorta. Era il 1980. Da allora per lui nulla fu più

come prima. Il magistrato si muoveva con quattro auto al seguito, con le sirene e i

lampeggianti azionati, e un nugolo di poliziotti armati di mitragliette e con indosso i

giubbotti antiproiettili: una situazione che non passava sicuramente inosservata nella realtà

palermitana che viveva attonita un simile evento. In tali circostante, con una vita blindata e

un nuovo incarico presso il Palazzo del capoluogo piemontese, Giovanni Falcone conosce

Francesca Morvillo, anche lei separata, magistrato in forze alla Procura dei minorenni,

figlia e sorella d’arte: diventerà la sua seconda moglie nel 1986, che lo affiancherà fino al

tragico 23 maggio 1992, trovando anche lei la morte nella strage di Capaci.

8 F.LA LICATA, Storia di Giovanni Falcone, Milano, Rizzoli, pag.43. 9 F.LA LICATA, Storia di Giovanni Falcone, Milano, Rizzoli, 1993, pag.51.

84

Il 29 luglio 1983 un’autobomba uccise Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta. Un

monito per far comprendere che gli uomini che lottavano contro la mafia non erano

intoccabili anche se erano seguiti da degli angeli custodi, e che soprattutto i magistrati

avevano toccato aspetti importanti e scottanti legati alla criminalità organizzata di Palermo.

I “superuomini” come sono stati apostrofati da molti continuano il loro lavoro, e pongono

le basi per il maxiprocesso dell’8 novembre 1985. A Ninni Cassarà, poliziotto, non è data

la possibilità di vederlo concretizzato nell’aula bunker: il 6 agosto 1985 un attentato lo

uccide. Rimangono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, poiché il 28 luglio dello stesso

anno era stato massacrato anche Beppe Montana, collega di Cassarà.

Da quel momento fino al 16 dicembre del 1987, data in cui fu letta la sentenza del

maxiprocesso, i due superstiti si buttarono a capofitto nella requisitoria dello stesso:

l’ordinanza prevedeva il rinvio a giudizio per 475 imputati; fu il più imponente processo

alla mafia che si fosse mai sviluppato. Falcone e Borsellino furono invitati a proseguire il

loro lavoro in vista dell’evento all’Asinara, lontani da tutti, attorniati solo dalle loro

rispettive famiglie e scorte. Paradossalmente, a sentenza avvenuta, i due magistrati si

videro recapitare il conto dallo Stato per aver usufruito di bevande extra durante la loro

permanenza sull’isola10.

La ghettizzazione vera e propria di Giovanni Falcone avvenne però nel 1988, all’indomani

delle dimissioni di Antonino Caponnetto, consigliere istruttore subentrato a Chinnici. Molti

davano il magistrato come naturale successore del consigliere, ma non fu così. La nomina

fu per Antonino Meli.

Nell’estate del 1989, alla villa dell’Adduara, esplose una bomba con il chiaro intento di

uccidere Giovanni Falcone e sua moglie. In quell’occasione l’uomo fu pienamente

consapevole che la sua vita e quella di chi gli stava accanto erano in serio pericolo. Alla

famiglia e agli amici intimi ripeteva che forse una separazione sarebbe stata la cosa

migliore per preservare l’incolumità della sua signora, e riflettendo sul fatto di non essere

diventato padre sentenziava «Non voglio mettere al mondo degli orfani».

Poi il trasferimento da Palermo a Roma. Il 13 marzo 1991 Giovanni Falcone iniziò a

lavorare al ministero di Grazia e Giustizia, alla direzione dell’ufficio Affari Penali su

richiesta dello stesso ministro Claudio Martelli. Si tratta di un periodo sereno per il

magistrato, lontano da Palermo e sempre più vicino al posto tanto ambito da capo della

Superprocura11.

10 S.LUPO, Storia della mafia, Roma, Donzelli, 1994. 11 F. LA LICATA, Storia di Giovanni Falcone, Rizzoli, 1993, pag.173.

85

Il 30 gennaio dell’anno dopo la Cassazione conferma la sentenza del maxiprocesso e gli

ergastoli inflitti agli imputati. Per Falcone si tratta di una vera e propria vittoria, ma per

Cosa Nostra è una sconfitta troppo bruciante per non vendicarla…E si consumò il 23

maggio 1992.

Giunto a Palermo da Roma a Punta Raisi intorno alle 17, Giovanni Falcone sale alla guida

della Fiat Croma bianca con a fianco la moglie Francesca Morvillo e seguito dagli uomini

della scorta. Sull’autostrada all’altezza dello svincolo per Capaci, un’autobomba fa saltare

in aria l’auto del magistrato e quelle della sua scorta. Giovanni Falcone e la moglie

vengono trasportati d’urgenza all’ospedale di Palermo, dove periranno nel corso della

serata.

86

PAOLO EMANUELE BORSELLINO

«Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla, perché il vero amore

consiste nell’amare ciò che non piace per poterlo cambiare». Ha lavorato una vita Paolo

Borsellino per portare a termine il suo obiettivo di cambiare ciò che non gli piaceva,

ovvero il lato criminale, omertoso del capoluogo siciliano. Rischiando in prima persona.

Fino alla morte12.

Figlio di farmacisti, il magistrato siciliano nacque il 19 gennaio 1940 nel quartiere

“Magione” di Palermo. La sua carriera scolastica lo condusse a conseguire la maturità

classica prima e la laurea in giurisprudenza poi: Il fine dell’azione delittuosa il titolo della

12 U.LUCENTINI, Paolo Borsellino, il valore di una vita, Cles, Mondadori, 1993, pag.3.

87

tesi, 110 e lode la votazione finale. L’anno successivo, il 1963, superò il concorso per

entrare in magistratura e dopo pochi anni fu destinato alla Pretura di Mazara del Vallo.

Il 14 settembre 1965 Paolo Borsellino inizia la sua vera vita da magistrato, presso la

sezione civile del tribunale di Enna: in forze dal lunedì al venerdì, i fine settimana trascorsi

con la famiglia d’origine a Palermo. L’incarico fu effimero, seguito dal trasferimento a

Mazara del Vallo. Nel frattempo, nel dicembre del 1968 si sposa con Agnese Piratino,

dalla cui unione nasceranno, nell’ordine, Lucia, Manfredi e Fiammetta. Nel 1969, in

contemporanea con la strage di Piazza Fontana a Milano, a Borsellino è affidato l’incarico

presso la pretura di Monreale.

Il primo vero approccio con la mafia lo ebbe a fianco del capitano dei carabinieri

Emanuele Basile, agli inizi degli anni Ottanta. Un rapporto di rispetto, stima e fiducia: il

militare stava indagando sulla morte di Boris Giuliano, capo della squadra mobile di

Palermo, e si confrontava sempre con il magistrato. Basile viene ucciso il 4 maggio del

1980 durante una festa di paese. Da quel momento la vita di Paolo Borsellino e della sua

famiglia cambia: all’uomo e ai suoi cari viene assegnata una scorta. Una situazione che il

magistrato vive in maniera angosciata, si sente privo di compiere qualsiasi gesto normale,

di passare delle ore serene con i suoi figli e sua moglie, senza dimenticare che Paolo

Borsellino, come Giovanni Falcone e Carlo Alberto Dalla Chiesa, ritenevano inutile la

scorta, solamente un modo per far morire un numero maggiore di persone.

Fu in quel periodo che le vite dei due magistrati che morirono nel 1992 si intrecciarono in

maniera inossidabile. Fu fondato il Pool antimafia, ma i suoi componenti furono uccisi uno

ad uno. L’intera famiglia Borsellino ricorda con maggior dispiacere e affetto la figura di

Rocco Chinnici, il consigliere istruttore membro fondatore del pool che per primo trovò la

morte per mano di Cosa Nostra, in quanto a lui legata da un profondo affetto di amicizia.

In questo clima di solitudine e paura si arriva all’estate del 1985, quando Falcone e

Borsellino vengono mandati sull’Asinara per lavorare in sicurezza al maxiprocesso, dopo

aver assistito inermi agli omicidi di Cassarà e Montana. Un periodo non facile per

Borsellino, che oltre agli oneri lavorativi deve combattere con le preoccupazioni famigliari,

legate in special modo alla salute cagionevole della figlia Lucia, che risente maggiormente

del clima pesante nel quale è costretta a vivere.

Nel novembre 1985 un’istruttoria da 8.632 pagine, corredata da 610 mila documenti

concretizza il maxiprocesso a Palermo, per il quale fu allestita un’apposita aula bunker.

Il 4 agosto 1986 Paolo Borsellino si insedia come procuratore a Marsala. Con questo

incarico il magistrato indaga su un omicidio di mafia che lo sconvolge: il 21 settembre il

88

giudice ragazzino, come sarà da tutti ricordato a causa della sua giovane età (38 anni),

Rosario Livatino, viene trucidato nelle campagne dell’agrigentino mentre si reca a lavoro.

Per qualche anno le vite professionali del procuratore di Marsala e di Giovanni Falcone

diventano parallele, fino a quando, nel 1991, il primo viene dichiarato procuratore aggiunto

di Palermo, mentre il secondo attende con impazienza la nomina che lo porterebbe a capo

della Superprocura13.

All’epoca apparve evidente che nella lotta alla mafia erano Paolo Borsellino e Giovanni

Falcone i magistrati esposti in prima linea. Borsellino non risparmiava i discorsi pubblici,

soprattutto all’interno delle scuole e delle università, convinto che «verso la mafia i

giovani, siciliani e non, hanno oggi un’attenzione ben diversa da quella colpevole

indifferenza che io mantenni sino ai quarant’anni, quando questi giovani saranno adulti

avranno più forza di reagire di quanta io e la mia generazione ne abbiamo avuta»14.

Il 23 maggio 1992 un attentato fermò definitivamente il magistrato Falcone. Da allora

Borsellino visse con la consapevolezza che presto sarebbe toccato a lui, e sempre più

spesso ripeteva una frase che gli disse il suo amico Ninnì Cassarà quando si recarono sul

luogo del delitto dell’altro loro collega Beppe Montana, «Dobbiamo ormai convincerci che

siamo morti che camminano».

Domenica 19 luglio 1992. Dopo una mattina trascorsa a scrivere una lettera indirizzata a

una scuola di Padova che l’aveva invitato per un dibattito al quale lui non aveva

presenziato non certo per mancanza di volontà ma in quanto l’invito per posta non era mai

arrivato, Borsellino decide di trascorrere la giornata a Villagrazia, sua residenza vicino al

mare, in compagnia della famiglia. All’appello manca solo la figlia maggiore Fiammetta,

partita per l’Indonesia pochi giorni prima. Nel pomeriggio il giudice lascia l’abitazione per

passare a prendere la madre che si sarebbe dovuta sottoporre ad una visita medica. Ore 17,

via d’Amelio: una 126 carica di tritolo viene fatta esplodere. Muoiono Paolo Emanuele

Borsellino insieme ai 5 agenti della scorta Emanuel ClaudioClaudio Traina, Agostino

Catalano (capo scorta), Walter Cosina e Vicenzo Li Muli.

13 U.LUCENTINI, Paolo Borsellino, il valore di una vita, Cles, Mondadori, 1993, pag.215. 14 L.ZINGALES, Paolo Borsellino, una vita contro la mafia, Città di Castello, Limina, 2005.

89

ROBERTO MARTINELLI

Il giornalista, firma nota dei maggiori quotidiani italiani, ha seguito l’intero

svolgersi del maxiprocesso di mafia del 1986. All’epoca dei fatti era inviato speciale del

quotidiano piemontese, dopo un’esperienza ventennale (dal 1964 al 1985) presso il

“Corriere della Sera” in qualità di redattore, capo redattore della redazione romana e infine

vice direttore. Tali mansioni facevano seguito a quella di redattore de “Il Giorno”,

quotidiano per il quale Roberto Martinelli scrisse fin dalla sua fondazione, avvenuta nel

1956. Dopo aver lavorato per “La Stampa”, il giornalista approda a “L’Espresso”, mentre

dal 1996 è editorialista per il quotidiano romano “Il Messaggero”15.

GIUSEPPE FERRARA

Nato nel 1932 e diplomatosi nel 1959 in regia al Centro Sperimentale di

Cinematografia di Roma, Ferrara esordì dirigendo uno degli episodi in I misteri di Roma

del 1963, ma il pubblico iniziò a conoscerlo e apprezzarlo dopo la visione de Il sasso in

bocca del 1970, all’interno del quale sviluppa il tema della mafia siciliana collusa con la

realtà statunitense. Sue anche le recenti pellicole Donne di mafia (2005) e Il caso Moro del

2006. Attualmente è docente di regia e presidente della Nuova Cooperativa di doppiaggio16.

15 www.agendadelgiornalista.it. 16 www.larepubblica.it/trovacinema.

90

SAVERIO LODATO

Il giornalista nasce nel 1951 a Palermo e in quella città cresce e comincia a

muovere i primi passi all’interno delle testate siciliane. Divenuto giornalista professionista

nel 1982, diviene responsabile della redazione siciliana del quotidiano “L’Unità”. Proprio a

causa della sua caparbietà e del suo coraggio dimostrati nel trattare simili argomenti

all’interno dei suoi articoli e delle sue inchieste giornalistiche, nel 1988 Saverio Lodato fu

accusato di peculato, accusa dalla quale fu definitivamente prosciolto nel 1990. In realtà il

giornalista non si era appropriato indebitamente di un bene mobile appartenente alla

pubblica amministrazione, ma aveva pubblicato dei documenti giudiziari coperti da segreto

istruttorio17.

Suoi i libri considerati la “bibbia” sulla mafia: Dieci anni di mafia e Venti anni di mafia,

che nel 2006 sono stati inglobati nel libro Trent’anni di mafia aggiornato sino all’arresto

del boss Bernardo Provenzano.

17 www.agendadelgiornalista.it

91

FRANCESCO LA LICATA

Il giornalista siciliano non solo ha scritto di mafia, ma ha instaurato un ottimo

rapporto di amicizia con Giovanni Falcone. Per lui la mafia non era solo un argomento sul

quale scrivere, ma anche quel qualcosa che gli aveva portato via un carissimo affetto.

Affacciatosi al mondo del giornalismo nel 1970 come collaboratore del quotidiano

siciliano “L’Ora”, diretto allora da Vittorio Nisticò, approda nel 1976 al “Giornale di

Sicilia” di Fausto De Luca; successivamente iniziano anche le collaborazioni con i

settimanali “L’Espresso” ed “Epoca”. Nell’arco di tutta la sua carriera, Francesco La

Licata vive da vicino e in modo coinvolgente le strage di Capaci e di via D’Amelio, gli

arresti dei boss Totò Riina e Nitti Santapaola, e ne racconta le cronache sulle pagine de “La

Stampa”, quotidiano con il quale inizia a collaborare nel 1986. Contestualmente, Francesco

La Licata approda al mondo della televisione attraverso delle inchieste curate per la

trasmissione Mixer, oltre a quello dell’editoria. Fra i titoli più famosi dei suoi libri, oltre

alla biografia di Giovanni Falcone, Rapporto sulla mafia degli anni Ottanta e Falcone

vive18.

18 Ibidem.

92

ELENCO MATERIALI «LA STAMPA», 1982-2006, articoli citati

P.BENEDETTO, La famiglia di Emmanuela apprende dalla tv la notizia del tragico

agguato di Palermo, 5 settembre 1982, pag.1.

Assassinati Dalla Chiesa e la moglie, 4 settembre 1982, pag.1.

Pertini, Una sfida non più tollerabile, 4 settembre 1982, pag.1.

P.BENEDETTO, Fece parlare Peci, il primo pentito, 4 settembre 1982, pag.2.

Un giorno di collera e di lacrime, 5 settembre 1982, pag.1.

G.CERRUTI, Interminabile applauso alle due bare ma fischi e monetine contro i politici, 5

settembre 1982, pag.1.

R.S., Nel 1948 in Sicilia, poi al Nord. Catturò Curcio e i capi delle Br, 4 settembre 1982,

pag.2.

M.G. BRIZZONE, Il TG1 attacca lo show di Frizzi, 25 maggio 1992, pag.5.

F.LA LICATA, Mi uccideranno a costo di una strage. Il presagio dell’agguato nella sua

vita sotto tiro, 24 maggio 1992, pag.3.

G.BIANCONI, Superprocura, una corsa tra i veleni, 24 maggio 1992, pag.3.

M.SORGI, Svelò il patto mafia-politica e tentarono di emarginarlo, 24 maggio 1992,

pag.5.

L.SUGLIANO, Il mio conto con i boss è aperto e lo salderò soltanto con la morte, 24

maggio 1992, pag.5.

Una bomba vicino a casa, 24 maggio 1992, pag.5.

G.ZACCARIA, Basta, tornatevene a Roma, 25 maggio 1992, pag.3.

F.LA LICATA, A terra (troppo caro), l’elicottero di scorta, 25 maggio 1992, pag.3.

T.ATTINO, Martirio di uomini del Sud, 25 maggio 1992, pag.5.

Oggi l’Italia si ferma, 25 maggio 1992, pag.5.

L.TORNABUONI, Quando il dolore si ribella, 26 maggio 1992, pag.1.

Mafiosi, vi perdono, ma inginocchiatevi, 26 maggio 1992, pag.9.

Funerali in TV, 27 maggio 1992, pag.7.

A.RAVIDÀ, Scalfaro prega sulle tombe di Palermo, 27 maggio 1992, pag.1.

A.RAVIDÀ, Elisabetta commossa, che atrocità, 28 maggio 1992, pag.3.

F.LA LICATA, Condannato a morte da tre anni, 28 maggio 1992, pag.3.

93

F.LA LICATA, L’ultimo simbolo dell’antimafia, 20 luglio 1992, p.2.

F. LA LICATA, Ai funerali non vogliamo lo Stato, 21 luglio 1992, pag.3.

C. MARTINELLI, E la figlia del giudice non sa ancora niente, 21 luglio 1992, pag.7.

P. GUZZANTI, Paolo, quel cadavere eri tu, 21 luglio 1992, pag. 5.

Tv oscurate per dieci minuti, 21 luglio 1992, pag. 5.

P. SAPEGNO, La rabbia delle scorte travolge Parisi, 21 luglio 1992, pag. 7.

A.R.,Mille braccia sorreggono Agnese, 21 luglio 1992, pag. 7.

P. GUZZANTI, A Palermo la Norimberga dello Stato, 22 luglio 1992, pag. 3.

L.SUGLIANO, Ore 11, l’Italia si ferma, 22 luglio 1992, pag.3.

F. LA LICATA, Adesso il tritolo è pronto per me, 22 luglio 1992, pag. 5.

P.GUZZANTI, Con I Borsellino nella casa del dolore, 23 luglio 1992, pag.1.

P.GUZZANTI, Fiammetta, una chiave per andare da papà, 24 luglio 1992, pag. 3.

G.ZACCARIA, «Grazie a tutti, anche a nome di mio padre» Poi un applauso sommerge

Rita Dalla Chiesa, 17 ottobre 1982, p.2.

Medaglia d’oro a Dalla Chiesa, 8 dicembre 1982, p.7.

Una via intitolata a Dalla Chiesa, 26 aprile 1983, p.7.

Palermo ricorda le vittime della mafia, 1 maggio 1983, p.7.

A.RAVIDA’, Palermo, 14 nuovi mandate di cattura per l’omicidio del gen. Dalla Chiesa,

12 luglio 1983, p.7.

Parma, Craxi rende omaggio alla tomba di Dalla Chiesa, 2 settembre 1983, p.1.

G.RAMPOLDI, Solo Nando Dalla Chiesa alla messa ma seduto tra le vedove della mafia,

4 settembre 1983, p.2.

G.RAMPOLDI, Una messa a Roma per Dalla Chiesa, 6 settembre 1983, p.6. A.RAVIDA’, Palermo grida per Falcone: “Boss Mafiosi, in ginocchio”, 24 giugno 1992,

p.12.

F.LA LICATA, La riscossa antimafia ha 150 mila voci, 28 giugno 1992, p.7.

A.RAVIDA’, Blitz a Palermo, a vuoto. Vie dedicate a Falcone e Borsellino, 8 agosto

1992, p.9.

M.TOSATTI, Il Papa grida: “Mafiosi, convertitevi”, 10 maggio 1993, p.5.

Strage di Capaci. Per i martiri 5 campane, 10 maggio 1993 p.5.

Costanzo ricorda Falcone, 17 maggio 1993, p.2.

A.CAPONNETTO, Un anno senza Falcone, 23 maggio 1993, pp.1-2.

A.CAPONNETTO, Borsellino, il ricordo di Caponnetto, 19 luglio 1993, pp.1-2.

A.RAVIDA’, La Sicilia scende in piazza a un anno da via D’Amelio, 19 luglio 1993, p.5.

94

G.ZACCARIA, Palermo ricorda Dalla Chiesa. Tante autorità ma poca gente, 4 settembre

1984, p.7.

Pertini a Parma ha reso omaggio ai Dalla Chiesa, 8 giugno 1984, p.6.

A.RAVIDA’, Dalla Chiesa ricordato dagli studenti siciliani, 4 settembre 1984, p.6.

Anche Milano ha ricordato il generale, 4 settembre 1984, p.6.

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