Il pallone non entra mai per caso

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I segreti del Barcellona raccontati da Ferran Soriano

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Antonio Vallardi Editore s.u.r.l. Gruppo editoriale Mauri Spagnol

www.vallardi.it

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Titolo originale: La pelota no entra por azar. Ideas de management desde el mundo del fútbolCopyright © Ferran Soriano 2009

Copyright © 2012 Antonio Vallardi Editore, Milano

Traduzione di Alberto Orlando

Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, archiviata in sistemi server o trasmessa in nessuna forma e con nessun mezzo elettronico o meccanico, su cassetta, né fotocopiata, registrata o altro, senza il permesso scritto dell’editore.

Ristampe 2016 2015 2014 2013 2012 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

ISBN 978-88-7887-809-9

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Ringraziamenti 3

CAPITOLO 1 Non è un caso 7Il caso a Mosca. Anno 2008, p. 7; Il caso a Barcellona. Anno 2003, p. 9; Logiche visibili e occulte, p. 9; Reinterpretare la logica per dominare, p. 12; Questo libro, p. 13

CAPITOLO 2 Il terreno di gioco: di cosa ti occupi? 15Il settore: scegliere una giungla, p. 16; Che prodotto vendi?, p. 17; La forma e la grandezza della torta, p. 21; La catena del valore: chi fa i soldi, p. 26; La concorrenza, p. 28; Gua-statori pericolosi, p. 31; Le tre fonti di entrate, p. 37; Le spe-se e il rapporto magico, p. 42; Il regolatore che fa concorrenza, p. 44; Il modello americano: la teoria dell’equilibrio competi-tivo, p. 47; Nel calcio è diverso, p. 49

CAPITOLO 3 Strategie: come giochiamo? 53Asterix e Obelix giocano a calcio?, p. 53; Strategie di club: da Manchester a  Soria, p. 54; Il circolo virtuoso: una strategia per  il  Barcellona, p. 60; Alla ricerca di vantaggi competitivi, p. 73; Globalizzare l’essenza, p. 77; Posizionamento: teatri, galácticos y més que un club, p. 88; La realizzazione. Da associa-zioni locali a multinazionali, p. 94

Sommario

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CAPITOLO 4 La squadra vincente 97La formula vincente, p. 97; Archetipi nella squadra vincente, p. 109; La formazione e lo sviluppo di una squadra, p. 115

CAPITOLO 5 Leadership: il dr. House, Rijkaard, Guardiola e Mourinho 125

Leadership e carisma, p. 125; La formazione della squadra, p. 126; Scegliere lo stile di leadership adatto alla squadra, p. 138; Tipologie di leader, p. 144; Leadership condivise, p. 149

CAPITOLO 6 Risorse umane: buon criterio e igiene 153L’incubo del dirigente, p. 153; Reclutare con criterio, p. 157; Criteri e fonti d’informazioni, p. 160; Reclutare un leader, p. 166; Formare vincitori, p. 172; Remunerazioni equilibrate, p. 180

CAPITOLO 7 Ragioni ed emozioni al tavolo della trattativa 193La preparazione della trattativa, p. 194; La trattativa diretta, p. 208; Emozioni al tavolo della trattativa, p. 214; Culture e comunicazione, p. 217

CAPITOLO 8 Innovazione: la scienza e l’arte 223Innovare nel XV secolo, p. 223; Innovare nel XXI secolo, p. 226; Definiamo, quindi, l’innovazione, p. 228; Innovare o copiare?, p. 230; Sorprendere senza chiedere, p. 232; Movi-mento contro giudizio, p. 235; Semplicità: l’innovativo rasoio di Occam, p. 237; Limitare i rischi, p. 239; Marketing o arte?, p. 241

CAPITOLO 9 Ritorno al futuro 245Il buon senso sì che ha senso, p. 247; Cambiare adesso o mai più, p. 248; È il prodotto, stupido!, p. 250; Agire prima della curva e dimenticarsi dell’ultimo euro, p. 252; La vanità è il mio peccato preferito, p. 255; L’intenzione, l’impegno e l’atti-tudine positiva, p. 257

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Il caso a Mosca. Anno 2008

Erano le undici di notte del 21 maggio 2008. Nello stadio Luzhniki di Mosca, John Terry, capitano del Chelsea, si accingeva a battere un rigore, il quinto e ultimo della serie con la quale si decideva la finale di Champions League contro il Manchester United. I novanta minuti regolamen-tari erano terminati uno pari e i trenta minuti supplemen-tari non avevano influito sul tabellone. La finale sarebbe stata decisa ai rigori. Quando John Terry s’incamminò dal centrocampo verso l’area di rigore per tirare, ne erano già stati calciati nove. L’ultimo della serie spettava a lui. Il Man-chester United ne aveva tirati cinque segnandone quattro e sbagliandone uno, con Cristiano Ronaldo. Il Chelsea aveva segnato i suoi quattro. La Champions League era nei piedi di Terry.

Per il Chelsea, il rigore era importantissimo. Era la prima finale di Champions League della sua storia. Erano passati alcuni anni da quando il miliardario russo Roman Abramo-vich aveva comprato il club londinese e investito molto de-naro per ingaggiare i migliori giocatori del mondo alle cifre più elevate per raggiungere quell’obiettivo ora così a portata

CAPITOLO 1

Non è un caso

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di mano. Già nel 2005, a cinquant’anni dall’ultima volta, il Chelsea aveva vinto il campionato inglese, e aveva conqui-stato il titolo anche l’anno successivo confermando il suo ritorno nell’élite del calcio inglese. Ora voleva la consacra-zione europea. Era una squadra piena di giocatori stranieri. Solo John Terry, il capitano, veniva dal settore giovanile del club. Sapeva, più di chiunque altro in quella squadra, cosa significasse quel rigore per i suoi tifosi. Terry era uno di loro e aveva l’occasione di realizzare un desiderio che covava da molti anni.

John Terry iniziò la rincorsa e, con le sue finte, riuscì a ingannare il portiere del Manchester United. L’olandese Van der Saar si tuffò alla sua destra. A Terry non restava che in-dirizzare il pallone a sinistra, cosa che fece. Tuttavia, appena prima di colpire il pallone, al momento di appoggiare il pie-de sinistro scivolò, perdendo l’equilibrio fondamentale per piazzare il tiro. Colpì il pallone con il destro, riuscì a mante-nersi dritto abbastanza per calciarlo dove voleva, verso il lato opposto rispetto a dove si era tuffato il portiere, ma senza la precisione necessaria, così il pallone, dopo avere colpito il palo, uscì.

Ma la finale non si era ancora conclusa. Bisognava calcia-re altri rigori. Anelka, tuttavia, sbagliò il settimo penalty per i londinesi e il Manchester United sollevò la sua terza Coppa dei Campioni. Il Chelsea aveva avuto la Champions League sulla punta delle dita, sui piedi del suo giocatore più rappre-sentativo, nonché quello che maggiormente sentiva i colori del club, però quei piedi avevano sbagliato nel momento più inopportuno. Aveva perso il titolo e quasi 30 milioni di euro... in un secondo.

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Il modello americano: la teoria dell’equilibrio competitivo

Propongo adesso di dedicare un po’ di spazio all’esame di un diverso modello di struttura del settore, un altro terreno di gioco: lo sport professionistico negli Stati Uniti.

L’organizzazione dei grandi campionati nordamericani è pensata a partire dalla teoria dell’equilibrio competitivo. Secon-do questo modello, l’interesse degli spettatori e, quindi, le entrate generate, è proporzionale all’incertezza del risultato, e l’incertezza è tanto maggiore quanto più simile è il livello tecnico tra le squadre concorrenti. L’incertezza massimizza le entrate della competizione. Di conseguenza, l’azione del re-golatore della competizione (la Major League Soccer, MLS, nel caso del calcio) consiste nell’applicare regole che tendo-no a livellare le squadre.

Ci sono tre meccanismi fondamentali.

draft. La politica degli ingaggi dei club sottostà a criteri molto rigidi che ogni stagione favoriscono le squadre che hanno ottenuto i risultati peggiori in quella precedente. Innanzitutto, si compila una lista dei nuovi giocatori pronti a passare allo sport professionistico, in ordine di qualità o preferenze. Sceglie per prima l’ultima qualifica-ta, fino ad arrivare alla vincitrice della stagione, che è l’ul-tima a poter ingaggiare.

-micamente, hanno un tetto massimo al totale degli stipen-di che possono pagare ai loro giocatori (nella MLS, nel 2011 è di 2.675.000 dollari annuali per tutta la formazio-ne, con un massimo di 335.000 dollari l’anno a giocatore e con l’eccezione fino a due giocatori «designati» che han-

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no stipendio libero). In questo modo si pone un freno agli ingaggi dei giocatori tra i club o all’inflazione dei salari basati sulla differenza di capacità economica. Anche se non si riesce a evitarli del tutto.

compensi generati dalla competizione sono collettivizza-ti e gestiti dalla MLS. È il caso dei diritti televisivi, del merchandising o del marchio (Adidas) delle magliette delle squadre.

Questa stessa logica, con alcune variazioni, è applicata al ba-seball, alla pallacanestro, all’hockey su ghiaccio e al football americano. È evidente che un’organizzazione di questo tipo sarebbe molto difficile nel calcio europeo. Un americano, noto dirigente sportivo, mi disse: «Non comprendo come mai non capite che quello che dovreste fare è potenziare squadre come il Sevilla o il Villarreal affinché il campionato spagnolo sia più emozionante e si massimizzino le entrate». Mentre lo ascoltavo, non mi sforzavo di massimizzare nessu-na entrata di qualsiasi genere, però avevo bene in mente che volevo che il Barcellona vincesse tutte le partite; vincere, vin-cere e ancora vincere, indipendentemente dalle «entrate to-tali della competizione» o da qualche altro concetto simile.

Questi fattori, e l’interesse ancora acerbo per il soccer ne-gli Stati Uniti, fanno sì che vedere una partita sia un’espe-rienza molto diversa che in Europa. Ricordo di avere assisti-to a Dallas, invitato dalla MLS, alla finale del campionato del 2007. Si affrontavano le squadre di Boston e di Los Angeles. Quando la partita iniziò, gran parte degli spettatori era an-cora in coda per comprare hot dog. Niente a che vedere con una finale di Champions League, ad esempio, dove un’ora prima lo stadio è già pieno, con i tifosi ai propri posti che

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intonano i cori a sostegno dei giocatori. Nemmeno l’am-biente in tribuna assomiglia a quello che si vive sulle tribune degli stadi europei. I dirigenti delle due squadre vivevano la finale senza troppa emozione né ansia, o almeno non lo da-vano a vedere.

I tempi regolamentari finirono 0 a 0. Poco prima del termi-ne dei tempi supplementari, i Galaxy di Los Angeles segna-rono il gol della vittoria. Io ripensai alla finale di Wembley, tra il Barcellona e la Sampdoria. Ricordavo le scene di gioia e di emozione incontenibile nel settore azulgrana, e l’esatto op-posto in quello italiano, la magia vissuta in quel giorno di maggio del 1992. Lo ricordavo, però non riuscivo a trovare nessun parallelo in quella finale della MLS. Nessuna scena sfrenata da parte dei vincitori, nessuna scena drammatica da parte degli sconfitti. Neanche una lacrima. Soltanto una par-tita di calcio, un intrattenimento, un modo come un altro di passare il tempo. Niente di più.

Nel calcio è diverso

Giunti a questo punto, per concludere il capitolo e, prima che il lettore me lo rimproveri, propongo di smettere di appellar-ci al buon senso imprenditoriale e di concedere che, effettiva-mente, il calcio è diverso. Già si capisce, infatti, che un settore le cui imprese principali non hanno come primo scopo quello di guadagnare soldi deve essere abbastanza particolare.

Propongo di soffermarci su cinque differenze fonda-mentali:

1. Bisogna vincere sul campo. E bisogna vincere sempre, ma non sempre si può vincere. Inoltre, non ci sono sfu-

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mature possibili: se uno vince, l’altro perde. Nella mag-gior parte degli altri settori il gioco non è sempre «Se io vinco, tu perdi» e il risultato non è così netto. Può esserci una settimana di vendite più o meno buone, ma non si dovrà sempre definirla come una vittoria o una sconfitta.

2. Il giudizio è settimanale. In un’impresa privata, i giudizi si danno di solito alla fine dell’anno. In un’impresa quota-ta in borsa, la verifica dinnanzi al consiglio di amministra-zione e al mercato azionario è trimestrale, con ogni tipo d’informazioni e di dettagli. Nel calcio, invece, la verifica avviene partita dopo partita, sicché ogni settimana vinci o perdi.

3. Il giudizio è pubblico. In inglese lo definiscono ammini-strare dentro l’acquario. Cioè, lavorare davanti all’occhio inquisitore di migliaia di persone che, in molti casi, pen-sano di avere il diritto, l’obbligo e le competenze suffi-cienti per dare giudizi continui sul lavoro svolto.

4. I lavoratori. I calciatori sono giovani, molto costosi e guadagnano parecchi soldi, circostanze che li rendono difficili da gestire. Rappresentano l’attivo principale del club e bisogna gestirli allo stesso tempo come persone e anche come attivi che possono essere venduti e possono essere comprati, e hanno un valore di mercato suscettibile di salire e scendere.

5. La valutazione del successo. O, in altre parole, qual è l’interesse dei proprietari e dei dirigenti. In generale, in un’impresa questo interesse si concretizza nel calcolo dei risultati, nel conseguire dei guadagni. Nel calcio non è proprio così. Generalmente, la valutazione del successo la danno i risultati sportivi e, in alcuni casi, i risultati politi-ci, nel senso che molti dirigenti sottostanno al giudizio dei

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tifosi che li votano. I risultati economici e finanziari pos-sono essere in sé stessi più un mezzo che un fine.

Se vogliamo farci un’idea più divertente di cosa possono arri-vare a rappresentare queste differenze, potremmo provare a trasferirle di nuovo al caso della panetteria, per continuare con l’esempio precedente. Immaginiamo come sarebbe la vita im-prenditoriale di un panettiere se il pane messo in vendita ogni mattina, alcuni giorni più tenero, altri giorni più croccante op-pure più spugnoso, fosse analizzato quotidianamente dalla Gazzetta delle Panetterie, con interviste ai consumatori, ai forni-tori..., e con analisi da parte di presunti esperti di pane. Se dovesse rivedere ogni sei mesi lo stipendio dei propri lavorato-ri, quelli che si occupano del forno e quelli che stanno dietro il bancone, perché la panetteria due strade più in là ha promesso loro uno stipendio molto più alto... E se esistesse un panettiere concorrente che perde denaro con la panetteria per il piacere di fare il migliore pane del mondo e tutti lo elogiassero per questo. È difficile da immaginare, perché già si vede molto chiaramente che quello del calcio è un mondo a sé stante.

Di cosa ti occupi?

È questa la giungla che vogliamo esplorare? Prima di entrare in un settore studiamolo in ogni dettaglio per capire se è un campo in cui vogliamo competere e in che modo, se si tratta o meno di una giun-gla che possiamo esplorare con successo.

Che prodotto vendi? Fermiamoci periodicamente a riflettere su qua-le necessità dei nostri clienti stiamo soddisfacendo e confrontiamoci con i nostri concorrenti reali, quelli che possono soddisfare questa necessità nello stesso o in altri modi.

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Come si guadagna denaro in questo settore? Nell’analisi del terreno di gioco, dopo avere valutato le dimensioni del mercato, studiamo anche i modelli di azienda che si configurano, cosa fanno per avere successo quelli che vi partecipano. L’evoluzione del mercato ci può indicare opportunità e minacce future.

Chi guadagna il denaro? Analizziamo la catena del valore del nostro settore o attività. Studiamo in quale parte della catena (disegno, produzione, distribuzione...) si genera più valore e guadagno con l’obiettivo di parteciparvi.

Chi sono i concorrenti e come si comportano? Studiamo i concor-renti, i migliori e i peggiori del settore. Capiamo che cos’è che li fa trionfare o fallire.

Che cosa vuole il regolatore? In che modo possiamo influenzarlo? Per quanto piccola la nostra attività, vale la pena capire bene gli obiettivi e il comportamento del regolatore e cercare di influenzarlo direttamente o attraverso associazioni.

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