Il neocolbertismo - Aspen Institute · 2020-02-02 · massa dei produttori – soprattutto...

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Tra i mercatisti si collocano i liberali tradizionali; gran parte degli ex comunisti, della ex destra interventista e degli ex de- mocristiani; la quasi totalità della classe intellettuale. Tra i colbertisti si annoverano i movimenti “originali”, come la Le- ga; i settori di Forza Italia che appoggiano l’operato del mini- stro dell’Economia (proprio in relazione alle cui posizioni è stato coniato il termine “neocolbertismo”) e, ovviamente, la massa dei produttori – soprattutto imprenditori e lavoratori di- pendenti – che vedono compromessa la loro attività economi- ca dall’invadenza cinese. I mercatisti hanno dalla loro parte, in apparenza, la teoria eco- nomica, mentre i colbertisti sembrano mossi da un approccio pragmatico. In realtà, esistono ottimi argomenti di natura teo- rica a sostegno della posizione pragmatica. Di conseguenza, è la posizione mercatista a essere ispirata dall’ideologia più che fondarsi su solide basi scientifiche. Gli argomenti di natura scientifica che si possono portare a so- stegno della posizione “colbertista” sono in particolare tre: di ti- po legale, microeconomico e macroeconomico. Le spalle di Atlante. L’argomento di tipo legale è quello tra- dizionale. Il mercato vive necessariamente dentro un sistema di regole giuridiche: diritto commerciale (tutela dei marchi, della qualità dei prodotti, e così via); diritto privato (tutela dei con- sumatori); diritto ambientale; diritto del lavoro e previdenziale (minimi contrattuali, lavoro minorile, salvaguardia della previ- denza di base). La differenza tra ambienti giuridici può incide- re in maniera decisiva sul costo unitario del prodotto, per cui la vera competitività tra Paesi si misura dopo avere livellato il più possibile le differenze tra regole, e non a prescindere dalle re- Il neocolbertismo Mercatisti e colbertisti. Inaspettata- mente, sulla questione Cina, sono emerse in chiaro antagonismo due posizioni di politica economica preot- tocentesche, che da tempo si confron- tavano in maniera sotterranea. An- che gli schieramenti sono inediti. Giuseppe Vitaletti e Mariateresa Fiocca

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Tra i mercatisti si collocano i liberali tradizionali; gran partedegli ex comunisti, della ex destra interventista e degli ex de-mocristiani; la quasi totalità della classe intellettuale. Tra icolbertisti si annoverano i movimenti “originali”, come la Le-ga; i settori di Forza Italia che appoggiano l’operato del mini-stro dell’Economia (proprio in relazione alle cui posizioni èstato coniato il termine “neocolbertismo”) e, ovviamente, lamassa dei produttori – soprattutto imprenditori e lavoratori di-pendenti – che vedono compromessa la loro attività economi-ca dall’invadenza cinese.I mercatisti hanno dalla loro parte, in apparenza, la teoria eco-nomica, mentre i colbertisti sembrano mossi da un approcciopragmatico. In realtà, esistono ottimi argomenti di natura teo-rica a sostegno della posizione pragmatica. Di conseguenza, èla posizione mercatista a essere ispirata dall’ideologia più chefondarsi su solide basi scientifiche. Gli argomenti di natura scientifica che si possono portare a so-stegno della posizione “colbertista” sono in particolare tre: di ti-po legale, microeconomico e macroeconomico.

Le spalle di Atlante. L’argomento di tipo legale è quello tra-dizionale. Il mercato vive necessariamente dentro un sistema diregole giuridiche: diritto commerciale (tutela dei marchi, dellaqualità dei prodotti, e così via); diritto privato (tutela dei con-sumatori); diritto ambientale; diritto del lavoro e previdenziale(minimi contrattuali, lavoro minorile, salvaguardia della previ-denza di base). La differenza tra ambienti giuridici può incide-re in maniera decisiva sul costo unitario del prodotto, per cui lavera competitività tra Paesi si misura dopo avere livellato il piùpossibile le differenze tra regole, e non a prescindere dalle re-

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o Mercatisti e colbertisti. Inaspettata-mente, sulla questione Cina, sonoemerse in chiaro antagonismo dueposizioni di politica economica preot-tocentesche, che da tempo si confron-tavano in maniera sotterranea. An-che gli schieramenti sono inediti.

Giuseppe Vitalettie MariateresaFiocca

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gole. Il livellamento può essere perseguito globalmente, oppu-re considerando il singolo Paese svantaggiato (controlli di qua-lità, misure contro la contraffazione e così via).L’argomento di tipo microeconomico si applica quando vengo-no intrecciate relazioni commerciali tra Paesi che non siano ri-usciti a livellare in maniera soddisfacente le regole giuridiche.Si può anche applicare quando ciò sia avvenuto in generale,ma continuino comunque a mancare alcuni requisiti essenzia-li, quali: un sistema informativo pienamente efficiente; eleva-ta mobilità del lavoro; fluidità nel mercato delle abitazioni; fa-cilità di apertura di nuove imprese. Entrambe le situazionipossono determinare un aumento del cosiddetto “tasso di dis-occupazione naturale” quando accelerano gli interscambi in-ternazionali. Si pone dunque un problema di trade-off tra au-mento degli scambi e aumento della disoccupazione, ed è perquesto che vanno valutati positivamente gli interventi pubbli-ci (quali le quote e i negoziati diplomatici bilaterali) in gradodi collocare il punto di equilibrio del trade-off in posizione mi-gliore rispetto a quanto non avvenga con un mercato non benfunzionante.L’argomento di tipo macroeconomico – che è quello sollevatocon maggior forza in questo intervento – muove dalla consta-tazione che, soprattutto a partire dalla metà degli anni Ottan-ta, l’espansione economica degli Stati Uniti ha fatto da traino,tramite il deficit commerciale, alle altre economie avanzate. Inparticolare, alle economie con alta propensione al risparmio,quali il Giappone, la Germania e l’Italia, che in precedenza

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Giuseppe Vitaletti è

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erano state sostenute in varie forme da alti investimenti e dal deficit pubblico. Que-sta situazione anomala ma in qualche modo funzionante – un equilibrio di squilibri,si potrebbe dire – è stata sconvolta alla metà degli anni Novanta da due fattori nuo-vi: la maggiore difficoltà, per Germania e Italia, di ricorrere all’indebitamento pub-blico per l’assorbimento dell’extrarisparmio privato; l’entrata in campo della Cina co-me Paese ad alta propensione al risparmio, e come fonte di una parte consistente deldeficit commerciale statunitense. Le spalle di Atlante sono rimaste larghe, ma introppi hanno cercato di accomodarvisi, per cui qualcuno è stato sbalzato fuori. A li-vello globale, i rimedi principali possibili sono il riaggiustamento dei cambi, o inter-venti fiscali da parte della Cina (ad esempio, dazi sulle proprie esportazioni). A li-vello dell’iniziativa di un singolo Paese – che voglia scendere dalle spalle di Atlan-te senza farsi troppo male – i rimedi possibili, e che ricevono piena legittimazioneteorica, sono misure quali le una tantum, i sostegni selettivi agli investimenti, gli in-centivi ai consumi, i già menzionati accordi bilaterali.

L’effetto Cina sul mercato del prodotto. Le esportazioni cinesi hanno effetti sulmercato del prodotto e su quello del lavoro italiano, come risultato sia del differen-ziale giuridico tra i due Paesi (quantità, qualità e applicazione delle regole), sia del-le specificità delle produzioni nazionali e della struttura del mercato del lavoro.Analizziamo anzitutto il mercato del prodotto. La notevole specializzazione produtti-va dell’Italia nei settori ad alta intensità di lavoro, creatività e cura del design rendeil “made in Italy” particolarmente esposto alla concorrenza di quelle economie chetrasferiscono nelle politiche di prezzo i loro bassi costi di produzione. Anche quan-do godono di un significativo potere di mercato nei Paesi di destinazione, gli espor-tatori italiani del manifatturiero tradizionale sono in qualche misura vincolati nelledecisioni sul prezzo dalla competizione delle economie emergenti1. Tra queste ap-punto la Cina, la cui specializzazione settoriale è del tutto simile alla nostra e il cui

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deficit istituzionale contribuisce ai bassi costi della produzione, al suo sostegno tra-mite gli aiuti di Stato e alla diffusa contraffazione (sul marchio di fabbrica e/o sul luo-go di produzione dei beni esportati).Le “barriere qualitative” di cui si avvale l’industria manifatturiera italiana non ri-escono a contenere le distorsioni incorporate nei prezzi dei concorrenti cinesi. Ne ri-sulta: a) un effetto prezzo, per la diffusione di prodotti a buon mercato e, quindi, uneffetto di spiazzamento dell’industria nazionale; b) un effetto “reputazionale” dellenostre produzioni, poiché i consumatori (italiani e stranieri) potrebbero percepirneun decadimento permanente. In entrambi i casi, può verificarsi un fenomeno di “se-lezione avversa” sul mercato del “made in Italy” e, quindi, un market failure sul pia-no internazionale delle nostre produzioni.Il divario di “tutele” economiche e sociali tra Paesi (ad esempio, la Cina è all’ultimoposto tra i PVS per gli standard lavorativi2) sta giocando un indubbio ruolo nel deter-minare la geografia dei flussi commerciali e le scelte di localizzazione. Ciò è evidente dall’analisi dell’interscambio commerciale tra Italia e Cina: nella gra-duatoria delle voci3, al primo posto delle nostre esportazioni vi sono le “macchine perle industrie tessili, dell’abbigliamento e del cuoio”. Questo marcato orientamento set-toriale costituisce un effetto sia della “scelta all’uscita” del “made in Italy” versopiazze meno costose e/o meno regolamentate (in altri termini, il divario delle condi-zioni d’ambiente economico, legale e sociale costituisce un fattore di attrazione del-le imprese straniere), sia dell’estrema convenienza di certe forme contrattuali preva-lenti in Cina. Tra queste, l’accordo “tre forniture e uno scambio” volto a promuoverela diffusione di produzioni “conto terzi”, realizzate per mezzo di macchinari fornitidagli stessi committenti stranieri.Il vantaggio comparato di una produzione parzialmente o totalmente delocalizzata èprovato indirettamente anche dalla disaggregazione settoriale delle importazionicomplessive cinesi, in cui è preponderante il peso dei macchinari (che, nei dati invalore dell’OCSE, costituiscono quasi il 44% dell’import totale del 2001, contro appe-na il 17% della quota di manufatti). Se non sufficientemente monitorate, queste“frantumazioni” geografiche della filiera produttiva possono provocare effetti desta-bilizzanti sul mercato dei beni e su quello del lavoro nazionali. Inoltre, la stretta con-nessione che viene a determinarsi fra import ed export fa sì che l’evasione daziariacinese si trasformi in ulteriore fattore distorsivo della concorrenza. Altri spunti interpretativi derivano dal progressivo riorientamento settoriale dell’ex-port cinese, che vede una crescente incidenza dei “macchinari e mezzi di trasporto”a partire dalla metà degli anni Novanta. Oggi la quota dell’export di macchinari è dioltre il doppio di quella dei manufatti (rispettivamente il 35,7 e il 16,5% delle espor-tazioni complessive del 2001, secondo i dati OCSE).Questa decisa ricomposizione settoriale segnala nuove e importanti tendenze di fon-

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do che: a) rendono desueto il luogo comune secondo cui la concorrenza cinese si gio-ca esclusivamente su merci labor-intensive e/o di basso valore (giocattoli, tessili, cal-zature ecc.); b) mettono sotto pressione economie europee finora rimaste sostanzial-mente immuni alla concorrenza cinese per la loro specializzazione produttiva in set-tori a maggiore contenuto tecnologico e per la più elevata dotazione di capitale uma-no della forza lavoro (Germania e Francia)4; c) dimostrano la competitività dell’exporttecnologico cinese persino in mercati di sbocco avanzati quali Europa e Stati Uniti,destinatari nel 2001 rispettivamente del 20 e del 21% delle esportazioni cinesi inmacchinari e mezzi di trasporto (tabella 1).Di conseguenza, i necessari interventi dell’operatore pubblico possono essere arti-colati rispetto: a) al prodotto (standard qualitativi, contraffazione, salute del consu-matore, ecc.); b) ai metodi di produzione (dumping sociale, dumping ecologico ecc.);c) ai fattori pregiudizievoli al funzionamento del mercato dei prodotti (dumping “isti-tuzionale” e dumping daziario); d) al recente riorientamento settoriale delle esporta-zioni cinesi.

La lezione di Cancun. Nel quadro delle misure anti-dumping contro i divari nellegaranzie, vanno citate quella per la tutela dei diritti umani e dei diritti fondamentalisul lavoro5. Nella fase preparatoria della Conferenza del WTO a Cancun, l’Italia ave-va sostenuto la rilevanza dell’inserimento di una specifica clausola sociale nel nego-ziato, contribuendo a definire in questo senso, in qualità di presidente di turno del-l’Unione, il mandato alla Commissione europea6. Nel corso dei lavori della Confe-renza, l’Italia aveva chiesto un maggiore legame tra WTO e core labor standard (se-condo l’Agenda di Doha), ma la stessa Commissione decideva di accantonare rapi-damente la questione per evitare di appesantire un’agenda già molto complessa e incui questo punto specifico trovava la forte resistenza dei Paesi in via di sviluppo (Ci-na e India in testa). Anche a prescindere dal fallimento di Cancun, non sarebbe toccata una sorte mi-gliore, per la diffusa opposizione incontrata, alle indicazioni geografiche, centralinella piattaforma dell’Unione Europea per la conferenza, e volte a raggiungere unaserie di obiettivi: assicurare una tutela obbligatoria e generalizzata contro la contraf-fazione di 41 prodotti agroalimentari (di cui 14 italiani) contenuti in una lista UE;chiudere il negoziato avviato a Doha affinché il registro vino e alcolici diventassestrumento giuridico coercitivo di tutela; estendere il registro ad altri prodotti (ali-mentari e non) legati alla tradizione e alla cultura del territorio.L’andamento di Cancun dimostra come sia difficile riassorbire i divari tra Occidentee “resto del mondo” nella tutela dei diritti – per arrivare a scambi basati su regolecomuni – e come tali difficoltà aumentino enormemente negli assetti multilaterali.

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Concorrenza e disoccupazione. Esaminiamo adesso gli effetti sul mercato dellavoro. Le ricadute dell’interscambio commerciale sul mercato del lavoro italianosono ricollegabili sia ai diversi fattori di competizione con la Cina – dalla deloca-lizzazione di fasi produttive (subforniture) o delle imprese (investimenti direttiesteri)7 alla specializzazione settoriale – sia ad alcuni aspetti strutturali del nostromercato del lavoro. Esiste un trade-off tra livello dell’occupazione e livello degliscambi, ed esso è duplice, in quanto creano disoccupazione sia ritmi tumultuosi disviluppo dell’interscambio sia tassi di crescita bassi. I necessari aggiustamentipossono trovare vischiosità nella capacità e nei tempi di risposta del mercato dellavoro; vischiosità o attriti che a loro volta provocano un aumento del tasso natura-le di disoccupazione. Gli effetti dell’elevato interscambio in termini di disoccupa-zione dipendono dall’eventuale divario fra i livelli qualitativi della manodoperadisponibile sul mercato e quelli richiesti dalle dinamiche del commercio; dalla ca-pacità di eventuali riconversioni della forza lavoro; dalla sua mobilità intersetto-riale e geografica; dalla diffusione dell’informazione, che condiziona i tempi diadeguamento della domanda e offerta di lavoro, e dai vari altri aspetti della rego-lamentazione. In sintesi: tanto maggiori gli attriti che condizionano i processi diadeguamento del mercato, tanto maggiori gli effetti sul tasso naturale di disoccu-pazione di un interscambio a ritmi troppo veloci.A livelli modesti di interscambio, invece, le ricadute negative sul mercato del la-voro derivano dalle interazioni tra domanda e offerta (esportazioni nette di ciascunPaese), quando non si inneschi il circolo virtuoso “esportazioni-PIL-domanda di im-portazioni”, che accresce i livelli di attività di entrambe le economie.Per ammortizzare la caduta dei livelli occupazionali legati al commercio con la Ci-na, gli Stati Uniti beneficiano dei vantaggi comparati dovuti alla maggiore flessibi-lità del mercato del lavoro. Per l’Italia il problema è molto più complesso e richie-de un duplice livello di intervento: governare il flusso degli scambi e ridurre gli at-triti del mercato. I costi sociali dell’aggiustamento ai ritmi dell’interscambio dipen-dono, di conseguenza, dalla capacità dell’operatore pubblico di investire in forma-zione della forza lavoro, secondo le riallocazioni indotte dall’interscambio e al suoprogredire verso produzioni a maggiore contenuto tecnologico; dalla capacità di pre-servare alcuni elementi di nicchia, quale il patrimonio di know-how associato allavocazione artigianale di alcune nostre produzioni; dalla possibilità di determinarecondizioni di ambiente economico-normativo che costituiscano fattori di attrazionedelle attività produttive (come controspinta ai fenomeni di delocalizzazione); dallacapacità di governare il flusso dell’interscambio per evitare gli effetti destabilizzan-ti degli “eccessi” verso l’alto e verso il basso; dalla possibilità, infine, di “trasfor-mare” la minore domanda estera in maggiore domanda interna, quando il livello de-gli scambi è insoddisfacente.

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I molti fronti su cui intervenire. A prescindere che si ponga l’enfasi sugli effettidella concorrenza cinese nel mercato del prodotto o in quello del lavoro, gli interventidi policy devono muoversi secondo intenti e direzioni comuni: verso la Cina, poichéil suo export sfrutta e si espande attraverso queste asimmetrie nella regolamentazio-ne; sul fronte interno, per rimuovere gli attriti dei mercati che ostacolo la nostra ca-pacità di adeguamento alle nuove strutture del commercio mondiale e per potenzia-re le capacità dell’Italia di parteciparvi.È importante che gli interventi sul piano internazionale:• non mettano a rischio l’intero sudest asiatico, innescando effetti di propagazione fraeconomie con strette interdipendenze e forte vocazione regionale del commercio. Ciòcoinvolgerebbe, peraltro, anche le imprese straniere che hanno delocalizzato le loroproduzioni;• inducano il governo cinese a cooperare per accelerare le riforme del sistema eco-nomico-legale, così da fondare gli scambi sulla certezza del diritto (rule of law)8. Ilsostegno dell’Unione Europea a programmi di assistenza tecnico-finanziari di insti-tution building permetterebbe una difesa dei nostri mercati – oltre che mediante bar-riere nelle forme previste dalla regolamentazione internazionale – anche attraversoun anti-dumping “istituzionale” cooperativo;• si basino su una cooperazione concertata in ambito europeo o su scala più ampia,per sfruttare le “economie di scala” dell’azione congiunta, in presenza di minacce co-muni. Ad esempio, il livello di contraffazione – 5-7% del commercio mondiale (cir-ca 250 miliardi di euro all’anno) secondo i dati OCSE per il 1998 e quelli della Ca-mera di Commercio internazionale per il 1997 – ha provocato la perdita di 200.000posti di lavoro nella sola Europa. Ovviamente questi dati non riguardano solo l’exportdella Cina; tuttavia, la contraffazione a opera di quest’ultima danneggia gravementeil sistema delle PMI italiane e quello dei distretti industriali in settori tipici del “ma-de in Italy” con produzioni di alta gamma e qualità.

Lo shock è asimmetrico. Tali azioni congiunte – assumendo il peso di una pres-sione generalizzata – stanno in effetti già dando risultati positivi, con i nuovi impe-gni assunti da Pechino per una più rapida convergenza verso gli obiettivi stabiliti insede di adesione al WTO. Ciò non toglie la necessità di interventi che possano esserepromossi anche a livello di singolo Paese, quando esso risulti particolarmente colpi-to dalla concorrenza cinese. Fra le economie europee, lo shock “da Cina” è infattiasimmetrico: l’impatto incide maggiormente nei Paesi che concentrano la propriaproduzione nei settori tradizionali e a dotazione di capitale medio-basso della forzalavoro9. Solo successivamente – e con l’ampliamento del numero dei settori interes-sati dalle esportazioni cinesi – l’impatto dello shock tende a redistribuirsi e a riallo-carsi geograficamente all’interno della UE. Nella misura in cui – e fin tanto che – es-

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so rimane asimmetrico, come per la massiccia contraffazione legata alla specializza-zione produttiva, l’iniziativa comunitaria può risultare insufficiente e non sostitutivadi quella del singolo Paese svantaggiato. Da qui la necessità di attivare anche stru-menti di difesa “endogeni” al sistema-Paese per neutralizzare forme di concorrenzasleale (e non): per esempio, più stringenti controlli alle dogane, o processi di inno-vazione che innalzino le nostre barriere qualitative delle produzioni e del capitaleumano della forza lavoro – oggi medio-bassa – e lo stock infrastrutturale.La manovra di finanza pubblica per il 2004 tiene conto di tali esigenze, con misurevolte a rafforzare l’attività antifrode, a combattere le pratiche di contraffazione, a tu-telare le specificità dei prodotti italiani, a rilanciare gli investimenti (infrastrutture,ricerca e innovazione), ad agevolare le piccole e medie imprese (come previsto daldecreto legge 269/2003, cosiddetto TecnoTremonti). La Cina è in un certo senso equiparabile al Giappone di trenta anni fa e, in pocotempo, l’Europa dovrà confrontarsi con un competitore dalla capacità tecnologicae dal capitale umano estremamente accresciuti. L’attuale riorientamento a caratte-re tecnologico dell’export cinese non è che una conferma dell’urgenza dello sforzoinnovativo da intraprendere.

Accordi bilaterali e quote. Una politica mirata in questo senso deve potersi ba-sare su un mix fra interventi anti-dumping di tipo microeconomico e negoziati di-plomatici bilaterali. Gli accordi bilaterali appaiono in effetti la via negoziale piùrealistica dopo l’ultima conferenza del WTO, i cui esiti fanno prospettare una nuo-va geografia della globalizzazione: crescita del “regionalismo” competitivo e quin-di progressivo ricorso al bilateralismo fra aree regionali/coalizioni o con singoliPaesi, in un contesto in cui i partner potranno esercitare il loro peso effettivo ri-spetto all’assetto multilaterale. Gli accordi a livello di singolo Paese hanno, in par-ticolare, il vantaggio di rispondere con maggiore flessibilità alle reciproche neces-sità e realtà produttive.In sintesi, gli accordi bilaterali possono essere usati come strumenti complementari e raf-forzativi delle barriere qualitative/innovative, dei controlli alle frontiere, nonché delle mi-sure – anche nelle forme più tradizionali di difesa – previste in ambito europeo e di WTO10.Fra queste, è indubbia la superiorità delle quote che – senza indurre un artificioso au-mento dei prezzi alle importazioni, che avrebbe inevitabili ricadute sui prezzi finali – han-no un impatto immediato sulle quantità, consentendo di regolare immediatamente il “ru-binetto” delle importazioni e garantendone un flusso più governabile e ordinato.

Le ragioni macroeconomiche del neocolbertismo. Gli attuali ritmi e modalitàdi crescita della Cina l’allontanano progressivamente dal gruppo dei Paesi meno svi-luppati: per la rilevanza della componente degli investimenti fissi alla formazione del

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PIL (costituiscono il 40% del prodotto), cui si sommano i sostenuti tassi di crescitadelle esportazioni (regionali ed extra-asiatiche); per l’afflusso di risorse che vengonodall’esterno, non a titolo di prestito – come per i Paesi arretrati – ma dall’export e da-gli investimenti diretti esteri; per le elevate riserve valutarie (384 miliardi di dollaria fine settembre 2003)11, utilizzate anche per l’acquisto di titoli del debito pubblicoUSA, che pongono la Cina in una situazione di Paese creditore (al contrario dei Pae-si in via di Sviluppo).Qui consideriamo il suo avanzo nell’interscambio commerciale con gli Stati Uniti apartire dagli anni Ottanta, che hanno inaugurato un ventennio di continui e crescen-ti disavanzi della bilancia commerciale statunitense. Come si notava all’inizio, l’espansione commerciale della Cina – con il suo peso neldisavanzo commerciale degli Stati Uniti – si è inserita e ha scompaginato un conte-sto in cui già importanti economie export-led (Giappone, Germania e anche Italia)usufruivano dell’enorme e crescente disavanzo commerciale statunitense a sostegnodella propria domanda aggregata. La tabella 2 documenta il modificarsi delle posi-zioni relative dei principali partner commerciali degli Stati Uniti, ripercorrendo l’e-voluzione dei loro avanzi bilaterali e delle rispettive quote di assorbimento del dis-avanzo commerciale USA (la somma delle quali oggi ne determina oltre il 70%). Nella competizione per la “rendita” americana, emerge la crescente forza della Cina.La sua corsa all’accaparramento si è bruciata a ritmi velocissimi: l’incidenza sul PIL

del suo avanzo verso gli USA, insignificante all’inizio degli anni Ottanta, è più cheraddoppiata nel solo decennio 1990-2000, passando dal 3 a oltre il 7%, pur in pre-senza di ritmi elevatissimi di espansione del prodotto. Questo ha permesso alla Cina,nel 2000, di scalzare il Giappone quale principale fornitore asiatico del mercato sta-tunitense, e di lasciare a distanza ormai lontanissima Taiwan, importante esportatoredegli anni Ottanta. Ma la lotta ingaggiata dalla Cina per il migliore posizionamentosulle spalle di Atlante non ha risparmiato nessuno; con una quota di assorbimentodel disavanzo USA che non ha eguali (20% circa), essa vanta il surplus commercialebilaterale più elevato (circa 110 miliardi di dollari nel 2002, secondo i dati del di-partimento del Commercio americano e oltre 130 nel 2003).

La Cina non è un rosa. Non si può sostenere, dunque, che la Cina – pur con ilsuo grado di apertura, con le dimensioni del suo mercato interno, con i suoi ritmidi crescita e di importazioni, con le sue opportunità di investimento – prefiguri ef-fettivamente una storia di globalizzazione e liberalizzazione dal finale rosa, un fi-nale che le nostre economie, un po’ asfittiche, andavano cercando. La conclusioneè diversa: la Cina è anche la storia dello spiazzamento delle nostre economie sulprimo mercato mondiale, il mercato americano.Per cogliere fino in fondo la portata di questo effetto spiazzamento, bisogna fare dei

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passi indietro, ricordando che, nei Paesi a elevata propensione al risparmio – qualiGiappone, Germania e Italia – l’eccesso di offerta sulla componenti private della do-manda aggregata è stato in passato principalmente assorbito dall’indebitamento pub-blico e dal saldo positivo della bilancia dei pagamenti commerciale, sostenuto in par-ticolare dal crescente disavanzo commerciale americano12.Da quando hanno cominciato a operare i vincoli del Trattato di Maastricht, le econo-mie europee a elevato risparmio non hanno più potuto assicurarsi la possibilità di unassorbimento tramite il canale pubblico. Il vincolo “endogeno” (a livello europeo) siè combinato a quello “esogeno”, derivante dalla rapida crescita dell’avanzo commer-ciale della Cina, e cioè di un Paese caratterizzato anch’esso da un’elevatissima pro-pensione al risparmio, e dunque accomunato alle altre economie dalla stessa esigen-za di smaltire l’eccesso di offerta. Per le economie europee, segnatamente Italia eGermania, l’interazione del duplice vincolo di assorbimento – creando un eccesso dirisorse sulla domanda – ha determinato un vuoto deflazionistico e, quindi, la reces-sione di questi anni. Per la loro portata deflattiva – ulteriormente indotta dall’immissione massiccia di be-ni cinesi a basso prezzo nei settori di mercato più esposti alla concorrenza – i rap-porti commerciali Stati Uniti-Cina hanno assunto, quindi, la forma di un “moderno”beggar-thy-neighbor (di uno spostamento su altri dei costi di aggiustamento).Le azioni di policy devono perciò, da un lato, gestire l’irrompere della Cina sui mer-cati di sbocco; dall’altro, “trasformare” in maggiore domanda interna il minore ap-porto alla crescita di quella estera.Le politiche di intervento macroeconomico adottate su iniziativa internazionale de-vono tener conto della crescente discrasia fra il dinamismo della Cina e le condizio-ni di vantaggio che le sono concesse quale Paese in via di sviluppo (fra cui l’anco-raggio del renmimbi al dollaro). Se è indubbio che la Cina stia sempre più consoli-dando la sua posizione di grande economia mondiale, deve anche rispettarne le re-gole, senza pretendere di continuare a sfruttare i vantaggi tipici dei PVS. Qualsiasi ti-po di resistenza o inerzia – al di là del livello da ritenersi fisiologico perché connes-so alle riforme in atto (e quindi decrescente nel tempo) – va insomma considerato unaforma generalizzata di dumping macroeconomico. In altri termini, i limiti di tolle-ranza macro possono essere giustificati solo di fronte a un soddisfacente ritmo di ag-giustamento del sistema economico e legale del Paese.La questione va posta in una prospettiva di governance più ampia: va ormai richiestoche ciascuna area valutaria – fra cui è individuabile l’Asia emergente, per la forte vo-cazione regionale del suo interscambio – tenda all’equilibrio della bilancia dei pa-gamenti. Deviazioni potranno essere solo temporanee. Il governo cinese – di frontealle crescenti pressioni USA-UE – sta apparentemente assimilando la lezione, dati irecenti impegni assunti per rallentare i ritmi di crescita delle esportazioni (come la

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riduzione delle agevolazioni concesse agli esportatori in materia di IVA, che costitui-scono un evidente aiuto di Stato). È evidente che, con l’aumento del grado di apertura di Paesi e regioni, la stabilitàdell’economia mondiale passa sempre più per le dinamiche del commercio interna-zionale. È necessario quindi che il WTO contribuisca a stabilire nuovi equilibri, defi-nendo – in stretta collaborazione con il FMI e con la Banca mondiale, con gli StatiUniti e con l’Unione Europea – regole che garantiscano la stabilità di medio-lungoperiodo all’interno di ciascuna area valutaria.

L’opzione di dazi cinesi sul proprio export. Per le economie forti, un elemen-to essenziale della liberalizzazione è che i movimenti dei cambi non siano regolatiper via amministrativa, bensì dalle libere forze di mercato. Questa indicazione, seb-bene largamente scontata, trova un’importante quanto ingiustificata eccezione nellaCina. Proprio perché non giustificato dai fondamentali macroeconomici, il regime di“fluttuazione controllata” va considerato una forma surrettizia di sussidio alle espor-tazioni e di tassazione alle importazioni – in un mondo dove le svalutazioni competi-tive non sono più accettate.Non volendo d’altra parte trascurare i rischi (interni e internazionali, secondo partedegli analisti) di una rivalutazione del renmimbi, esistono opzioni alternative del tut-to plausibili: in particolare, un prelievo da parte della Cina sulle sue esportazioni,senz’altro più “digeribile” per quest’ultima e meno conflittuale delle forme di tutelaclassiche, quali i dazi all’import (che riducono i livelli dell’interscambio apportando,al tempo stesso, un beneficio al Paese importatore in termini di gettito). Potrebbequindi essere negoziato un set di misure, costituito da quote fissate sulle importazio-ni provenienti dalla Cina e dazi fissati da quest’ultima sul suo export: la riduzionedelle prime sarebbe funzionale e commisurata ai secondi. Un prelievo cinese sulle proprie esportazioni potrebbe inoltre innescare un circolo vir-tuoso, che finirebbe per riequilibrare la bilancia commerciale e il rapporto fra do-manda estera e interna: a parità di gettito complessivo prelevato dalle autorità cinesi,quello originato dalle esportazioni potrebbe finanziare la riduzione delle imposte gra-vanti sulle persone fisiche. Il maggior reddito disponibile, alimentando la domanda in-terna (nella componente dei consumi privati), determinerebbe un ulteriore aumentodelle importazioni e, quindi, una riduzione dell’avanzo commerciale. In altri termini,la crescita del Paese sarebbe compatibile con un minore effetto di spiazzamento pergli altri e, più in generale, con minori spillover negativi sul resto del mondo.

Politiche nazionali. Riguardo alla seconda categoria di policy, quelle nazionali, larisposta individuale dovrà tener conto – oltre che dell’asimmetria dello shock, che ri-duce la capacità delle economie più colpite di generare avanzi commerciali – del vin-

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colo di risorse finalizzabili alle misure di controshock. Per l’Italia, importante è ilruolo delle una tantum e dei loro effetti anche di natura permanente. Esse13 risulta-no interventi particolarmente utili in periodi di congiuntura sfavorevole, e non solo.Consentono di non incidere negativamente sul reddito disponibile delle famiglie e dinon andare, dunque, a detrimento della domanda interna in fasi cicliche sfavorevoli:ciò non avverrebbe, viceversa, con azioni correttive del deficit pubblico riguardantil’imposizione corrente o il contenimento di spese correnti. Inoltre, alcune di esse, co-me le cartolarizzazioni, costituiscono manifestazioni di efficienza. Permettono, poi, dinon sacrificare le componenti di natura discrezionale della spesa pubblica, quella inconto capitale (come è invece avvenuto negli altri stati europei sottoposti ai criteri diMaastricht prima e del Patto di Stabilità e Crescita successivamente) e, quindi, di ac-crescere la dotazione infrastrutturale del Paese. In sintesi, la capacità di tali provvedimenti di operare sia in funzione anticiclica, siasul piano strutturale aiuta ad assorbire i cambiamenti di fondo del commercio mon-diale (attori, circuiti, merci, regole), quando essi costringono a fare un minor affida-mento sul traino della domanda estera per il contributo alla crescita.

1 Sergio de Nardis e Cristina Pensa, Misure di potere di mercato degli esportatori italiani di beni tradi-zionali, CSC Working Paper n. 37, Roma, giugno 2003.2 Keith E. Maskus, “Trade and Competitiveness Aspects of Environmental and Labor Standards in EastAsia”, in Kathie Krumm e Homi Kharas (a cura di), East Asia Integrates, The World Bank, WashingtonDC 2003.3 Rapporto ICE 2002-2003, L’Italia nell’economia internazionale, Roma.4 Un’analisi dei modelli di specializzazione all’interno dell’area euro è in Matteo Bugamelli, Il modellodi specializzazione internazionale dell’area dell’euro e dei principali Paesi europei: omogeneità e conver-genza, Banca d’Italia, Temi di discussione n. 402, Roma 2001.5 Si ricorda che i presupposti per la formulazione di regole che collegano il commercio con la tutela de-gli standard lavorativi – e che quindi consentirebbero restrizioni commerciali a difesa di queste tutele– si ritrovano in almeno due articoli del GATT: art. XX, che consente ai membri della WTO di effettuarerestrizioni al commercio per ragioni di “morale pubblica” e di “vita e salute umana”; art. XXIII sul dum-ping, a cui si fa riferimento nei casi di inadeguata tutela dei diritti del lavoro, riconosciuta come unaforma di dumping sociale. Per un approfondimento, si rinvia all’analisi di Alberto Santa Maria, conte-nuta ne Il Sole 24 Ore del 18 novembre 2003.6 Consiglio affari generali relazioni esterne del 23 luglio.7 Secondo i dati delle Nazioni Unite (Rapporto UNCTAD, 2003), nel 2002 erano presenti in Cina quasi370.000 imprese a partecipazione (almeno parziale) straniera.8 Nell’ultimo Rapporto del WTO (agosto 2003), la progressiva espansione commerciale della Cina è rav-visata soprattutto nell’afflusso di investimenti diretti esteri (di cui oggi è il principale percettore mon-diale), destinati prevalentemente ai settori dell’export. Il Rapporto sembra invece scettico nell’asserireun reale collegamento tra il progressivo avvicinamento del paese alle regole del WTO e la sua espansio-ne commerciale. Tali valutazioni vengono condivise nel Rapporto 2002 al Congresso On China’s WTO

Compliance dell’United States Trade Representative, soprattutto alla luce degli scarsi progressi nella li-beralizzazione dei settori agricolo e terziario, e nella tutela dei diritti sulla proprietà intellettuale: ne so-no attribuite le cause – più che allo scarso coordinamento interno e tra poteri centrali e locali – all’esi-genza di proteggere le produzioni nazionali dalla concorrenza.9 Bugamelli, op. cit.10 Facciamo riferimento agli interventi fiscali (dazi e sussidi), alle restrizioni quantitative (contingenta-menti e quote) e alle regole amministrative (barriere non tariffarie). Il WTO vincola l’autonomia della UE

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sul ricorso a tali misure; tuttavia, l’art. XIX del GATT prevede, anche per un singolo Paese e sulla base diuna determinata procedura, misure “contenitive” di salvaguardia per proteggere una specifica industrianazionale da un imprevisto aumento delle importazioni di qualsiasi prodotto che causa notevole dannoall’industria stessa. Per un’analisi, si rinvia a Prometeia, Rapporto di previsione, Bologna ottobre 2003.Ricordiamo, inoltre, il recente strumento provvisorio di salvaguardia ad hoc per la Cina, approvato dalConsiglio UE nello scorso gennaio (reg. CE 427/2003) che, sotto il controllo della Commissione, consentedi difendere il “mercato comunitario” attraverso l’introduzione di dazi di salvaguardia e quote, ovvero al-tri tipi di soluzioni con la Cina, quali per esempio restrizioni volontarie alle esportazioni. Tuttavia, nel di-battito, sono state evidenziate le non poche difficoltà di applicazione (cfr. Santa Maria, cit.).11 Bollettino economico n. 41, Banca d’Italia, Roma novembre 2003.12 L’assorbimento del risparmio tramite avanzo commerciale è comunque preferibile a quello tramite fi-nanziamento della spesa pubblica in disavanzo: il primo accresce le riserve valutarie e la credibilità delpaese; il secondo il debito pubblico. 13 Ricordiamo i condoni fiscali (scudo fiscale, L. 409/2001); sanatorie varie (contenute nella Finanzia-ria per il 2003, L. 289/2002); i condoni edilizi (D.L. 269/2003); le cartolarizzazioni di attività finanzia-rie (ad esempio, dei crediti contributivi dell’INPS o dei prestiti personali erogati dall’INPDAP, recente-mente proposti) e di attività reali (degli immobili pubblici, L. 410/2001).

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