Il mito - Fabrizio Antonelli - Home · Soci: Loretta Giuntoli e le gite . di Silvia Bini e Enzo...

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Numero 5 Giugno 2010 www.bancadipistoia.it Inchieste, approfondimenti, interviste, personaggi, curiosità: vi raccontiamo l’altra faccia di Pistoia Il mito Ugo Pagliai si confessa alla città I destini delle BCC I vertici della Banca di Pistoia a casa di Lapo Mazzei Marco Regni, notaio con due passioni di Marta Quilici Assemblea: bilancio approvato all’unanimità Soci: Loretta Giuntoli e le gite di Silvia Bini e Enzo Pacini

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Numero 5 Giugno 2010www.bancadipistoia.it

Inchieste, approfondimenti, interviste, personaggi, curiosità: vi raccontiamo l’altra faccia di Pistoia

Il mitoUgo Pagliai si confessa alla città

I destini delle BCCI vertici della Banca di Pistoia a casa di Lapo Mazzei

Marco Regni, notaio con due passioni di Marta Quilici

Assemblea: bilancio approvato all’unanimitàSoci: Loretta Giuntoli e le gite di Silvia Bini e Enzo Pacini

www.bancadipistoia.it

pistoiese un’unica bcc (e non sette, come al momento

sono…), e di completare l’ambizioso progetto in tempi

ragionevolmente brevi. Riflettete.

E leggete la bellissima intervista a Carla Fracci, la Divina,

per vari motivi attenta alla realtà di Pistoia, che a settan-

tacinque anni ha ancora l’energia (contagiosa) per indos-

sare i panni di assessore alla cultura della provincia di

Firenze, mettendosi al servizio dei giovani e della città che

ama. Così come ha sempre fatto Jorio Vivarelli, altro per-

sonaggio di spessore assoluto che trova ampio spazio

nelle pagine di 0573, l’artista che tutto il mondo ci invidia,

ancor oggi straordinario volano per esaltare le ricchezze

della città. La Banca di Pistoia riparte da certi valori e da

analoghi principi. L’attenzione verso qualsiasi forma di

valorizzazione del territorio ci troverà sempre pronti a

intervenire. Ne abbiamo dato dimostrazione – ultimo

esempio in ordine cronologico – nel sostenere la pubbli-

cazione di Roberto Carifi, Lezioni di filosofia, coniugando

così mondi apparentemente opposti come banca e filoso-

fia sembrerebbero essere. Questo vuol essere, la nostra

Banca: il pilastro del localismo ma anche ciò che accade

in un raggio ben più ampio, perché la crescita (individuale

e di squadra) è il prodotto finale di una condivisione di

esperienze e di idee, e non una chiusura al mondo ester-

no che toglie linfa allo sviluppo e costituisce un freno per

un futuro al passo coi tempi.

A CULTURA del territorio dove operiamo, il con-

tatto umano, la capacità (fondamentale) di ascol-

tare e successivamente tradurre in fatti concreti, il

ritorno alle origini, l’insegnamento che ci arriva dal passa-

to, il presente fatto di buonsenso e di scelte oculate, la

pianificazione di un futuro che abbia basi solide, i momen-

ti di riflessione e condivisione, il saper allargare gli oriz-

zonti, senza preclusione alcuna, né barricandosi dietro

convinzioni che oggi ti fanno forte e domani potrebbero

non sostenerti più. Il numero di 0573 che state leggendo

esce un po’ dai binari che ci hanno guidato nell’ultimo

anno. Avevamo, e continuiamo ad avere, l’ambizione di

rappresentare un focus attento sulla città – la valorizza-

zione del territorio, appunto -, cogliendone aspetti nuovi e

innovativi (la differenza c’è, e non è trascurabile), o ana-

lizzandoli sotto una lente d’ingrandimento “diversa”, mai

banale, centrando l’attenzione sul particolare più che

sull’ordinario, andando a scoprire il tesoro nascosto della

nostra città senza trascurare ciò che è già emerso. Un

unico caposaldo, imprescindibile: la qualità.

Il quarto numero di 0573 abbatte le barriere del localismo,

o meglio ne allarga i confini.

Leggete cosa suggerisce Angiolo Bianchi, uno che cono-

sce il mondo delle casse rurali (prima) e delle banche di

credito cooperativo (adesso) come gli angoli di casa.

Parla, Bianchi, della necessità di avere nella provincia

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ALLARGHIAMO I CONFINI

Andrea Amadori. Presidente Banca di Pistoia

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di Andrea Amadori

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Ugo PagliaiLo spettacolodi un uomodi Alessandra Erriquez

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Lapo Mazzei“Bcc, l’unionefa la forza”d Andrea Cabella

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Marco RegniUn notaio,due passionidi Marta Quilici

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N 22 Nick BecattiniNon servela pelle neradi Lorenzo Maffucci

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Opinione

5Direttore responsabile

Comitato di redazione

Redazionee amministrazione

Progetto grafico Art director

Fotografie

Stampa

Andrea Cabella

Andrea AmadoriPaolo GiovanniniGiorgio MazzantiEnzo Pacini

Ufficio Comunicazionee Risorse UmaneLargo Treviso, 351100 PistoiaTel. [email protected]

Dominae

Andrea Sabia

Fabrizio AntonelliCarlo Quartieri

Tipografia Toscana

è stata registrata presso il Tribunale di Pistoia al n. 6 del 2008

Finito di stampare il 10/06/2010

lascia agli autori la responsabilità delle opinioni espresse

Il valoredel territoriodi Monsignor Scatizzi

FondazioneF 60

EticamenteIl volo della farfalladi Andrea Vaccaro

E 62

Brevi & braviPillole per tutti i gustiper divertirci un po’di Franco Biagioni

B 64

In libreriaTutto sarebbetornato a postodi Renzo Castelli

R 66D

Tesori “verdi”42

La memoriadei giardini nascostidi Maria Camilla Pagnini

M

San Bartolomeo46

Un pulpito...privilegiatodi Alberto Ciullini

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L’arte del gusto

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La cioccolataè il nostro mestieredi Simone Trinci

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“Fabroniana”38

La bibliotecadel saperedi Anna Agostini

28 Antonio ForesiGiornalismoin prima lineadi Giulio Corsi

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G

Gite52

XXXXXXXXXXXXXXXXXXXdi Enzo Pacini

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L’assembleadei soci

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Bilancio 2009approvato all’unanimitàdi Giulio Corsi

S 48 LorettaGiuntoliLa solidarietàdiventa un mestieredi Silvia Bini

Giulio IozzelliNon posso viveresenza sportdi Luca Cecconi

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PAGLIAI,SI ALZIIL SIPARIO

LASSE 1937. E quando si dice classe, non è certo per indicare la sua data di nascita. Ugo Pagliai è attore di un’altra generazione. Con tutto il rispetto per gli odierni divi del cinema qui siamo, come dire, in un’altra categoria. Zero chiacchie-re, poche interviste. Tutto quel che si dice in giro su di lui riguarda gli spettacoli,

l’arte. La sua voce risuona sempre e solo nel teatro.Riservato, fermo, composto. Pagliai è un pistoiese doc. “La mia città è Roma — ammette — vivo fuori ormai da 50 anni ma le mie radici sono toscane. Qui ho parenti, molti interessi. Persino una casa. Mi piace tornarci”. Non viene spessissimo, il lavoro non glielo permette. Anche se a volte, è proprio il lavoro che lo riporta in “patria”, a recitare a casa sua, dove tutto ha avuto inizio.Non sa dire quando e come, “ho sempre saputo di voler fare l’attore. Ma non per il successo, mi piace proprio la professione, il mestiere. La mia aspirazione erano quegli attori che mi davano un senso di serietà. E sono contento di quel che ho fatto perché forse sono diventato uno di loro”. La serietà di Ugo Pagliai si è vista fin dal primo momento: studio e gavetta sono stati i primi passi del suo percorso artistico. Non uno studio qualsiasi: l’Accademia nazionale le d’arte drammatica Silvio D’Amico. Quella di Gassman, Vitti e Manfredi, per intenderci.

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Ha lasciato Pistoia per inseguire la sua passione.Vive a Roma da 50 anni ma somiglia tantoalla sua città natale: è riservato e generoso.Sposato con Paola Gassman, ha una casa sulla Sala.“Ai miei personaggi ho dato tutto quello che avevo”

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Alessandra ErriquezGiornalista

Ugo Pagliai, 73 anni,ha ottenuto il diploma

all’Accademia nazionaled’arte drammatica.Nel 1988 ha vinto

il prestigioso riconoscimentoteatrale “Flaiano”

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IVE A ROMA da una vita ma Ugo Pagliai resta pistoiese doc. Qui nasce nel 1937 e qui trascorre la sua infanzia e adolescenza. Fino a quando, nel 1958, la passione per la

recitazione non lo porta nella capitale per iscriversi all’Accademia nazionale d’arte drammati-ca, quella di Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Anna Magnani e Monica Vitti. Tanto per citare alcuni nomi che oggi costituiscono l’albo d’oro. Dal diploma in poi la sua carriera è un elenco di ruoli importanti e autori tra i più grandi: da Pirandello (Ma non è una cosa seria, Ciascuno a suo modo, Liolà, L’uomo la bestia e la virtù) a Shakespeare (Sogno di una notte di mezza esta-te, Re Lear), da Goldoni (Il bugiardo) a Italo Svevo (Scene da un matrimonio). Uno straordinario interprete teatrale, caratteristica che gli è valsa il premio speciale “Flaiano” nel 1988. Ma non c’è solo il sipario nella sua vita. Pagliai gode anche dei ciak del cinema e della televi-sione. La notorietà per il grande pubblico arriva proprio sul piccolo schermo con gli sceneggiati dove veste i panni del protagonista: Il segno del comando, Il conte di Montecristo e L’amaro caso della baronessa di Carini. Recita anche per la tv svizzera e francese. E poi il cinema, con Luigi Comencini (Mio Dio, come sono caduta in basso) e Alfredo Arciero (Family game). In alcu-ni casi mettendosi anche dall’altra parte della telecamera per sperimentare la regia, come in Giobbe tratto dal testo di un appena ventenne Karol Wojtyla, futuro Giovanni Paolo II.La vita privata porta il nome di Paola Gassman, figlia del grande Vittorio, compagna di una vita fra privato e teatro. Come dire, non c’è aspetto della sua esistenza che non sia segnato dall’arte del recitare.

Teatro, cinema, tv: protagonista, sempreCHI È

V NA MELODIA FISCHIETTATA. Carla Gravina, affascinante e misteriosa nella sua gonna lunga e nel suo scialle ricamato, corre inseguita da un Pagliai elegante, stregato, senza

fiato. Iniziava così la sigla dello sceneggiato “Il segno del comando”. Era il 1971 e circa 15 milioni di spettatori rimanevano incantati a seguire la storia di Edward Fortster.Pagliai recitava già da anni ma fu questo sceneggiato, diretto da Daniele D’Anza, a far rimbom-bare il suo nome nelle case degli italiani. Così, nei panni del professor Forster, l’attore conqui-stò il grande pubblico.Per comprenderne il successo, basti pensare che su internet c’è un sito interamente dedicato allo sceneggiato, che racconta passo passo le cinque puntate, descrive i personaggi e i luoghi del mistero. Ecco il tema della serie. Il mistero. Quello che in fase di preparazione aveva fatto esitare qualcuno (gli spettatori non erano certo abituati), lo stesso che invece li inchiodò allo schermo.Edward Fortster era un professore di letteratura inglese alle prese con la traduzione di un diario di Lord Byron. L’intrico della storia aveva inizio con l’invito a Roma da parte di un pittore, un certo Tagliaferri, che sfidava Forster a trovare una piazza indicata nel diario. Secondo il profes-sore non esisteva, secondo l’artista non era invenzione e per provarlo gli mostrava una fotografia.Magia, esoterismo, che si spieghi o no, fu un vero trionfo per Rai Uno, anzi il Programma nazionale. Replicato quattro anni dopo con L’amaro caso della baronessa di Carini. Anche qui, connubio Pagliai-D’Anza. Un altro giallo che appassionò. L’attore non sa dire in cosa siano dif-ferenti gli sceneggiati di oggi. O meglio lo sa. Ma assicura: “Sono diversi”.

Corri, corri: è “Il segno del (tele)comando”GLI SCENEGGIATI

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Gassman, un nome che tornerà nella sua vita con meravigliosa prepotenza. “Pistoia è una città che sento, fa parte del mio carattere, non mi piace apparire. Non dico che sono chiuso, ma insomma sto attento a non strafare. Come i pistoiesi”. Il suo rapporto con la città è ancora “bellissimo: torno ogni volta che posso perché non mi sono ancora stancato di saltare qua e là. Vedo che è tenuta molto bene, è piena di vita, di giovani. E poi ci sono i ristoranti”. Buongustaio ma corretto, Pagliai: “Non voglio fare nomi perché altrimenti farei pubblicità ma ce ne sono certi dove si man-gia veramente bene”. E un difetto? “Difficile dirlo, non me ne rendo conto perché nel profondo sono un pistoiese. Potrei elenca-re i miei, ma sono tanti e non vorrei coin-volgere un’intera cittadinanza per questo”. Pagliai scherza ma poi si arrende: “Certo, ce la leghiamo al dito, non dimentichiamo mai un affronto. Del resto ricordiamo sem-pre anche gli atti di generosità”.La sua casa è una mansarda sulla Sala, la

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piazza del mercato, delle botteghe degli artigiani. Nel cuore del centro storico. Perché è questo che Ugo Pagliai ama della città. È questa la prima immagine che gli viene in mente, la sua Pistoia. “Io ci sono vissuto da ragazzo. Piazza del Duomo, con i suoi stili diversi, per me è una delle più belle piazze che possano esistere. Il cam-panile, la Sala, i vicoli”. Soprattutto quelli: “Anche a Roma è così, non mi piacciono gli stradoni, amo andar per vicoli, amo gli scor-ci, certe visualizzazioni. Pistoia è una città di pietra ma è una città dolce, armoniosa”. Gli amici di un tempo non li frequenta più. “Vengo sempre per pochissimo e non posso riallacciare i rapporti, mi dispiace farlo per poi andar via di corsa. Ci sono tante cose da fare ed è una fortuna perché così mi posso dimenticare”. Una dimenti-canza perdonabile, a sentire quel che dice poi: “Però è bello avere un senso dell’ami-cizia, anche nel ricordo”. E di ricordi pisto-iesi Ugo Pagliai ne ha tanti: “Quando si andava al Passo della Futa o al mare, a

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Pagliai impegnatoin una meravigliosainterpretazione trattada “Enrico IV” di Pirandello

Si cercava di rubaredai grandi sulla scena

anche se iorubavo poco:

avevo fiducia nellemie possibilità

Un intensoprimo piano dell’attore,

tratto dalla “Mandragola”di Niccolò Machiavelli

La Dan-zatrice

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l’attenzione, l’immedesimazione. Il pensie-ro al percorso che si deve fare e alimenta-re”. L’emozione più forte la si prova quando in platea c’è qualcuno che ti giudica e non ti fa stare tranquillo, dice. “Devi pensare a quel che fai e come, e devi smussare le eccedenze”. Alla fine, l’applauso. Stavolta non c’è poetica, la definizione è più popo-lare: “E’ il cacio sui maccheroni”. Ma preci-sa: “Non bisogna fare in modo di averlo. Ci sono attori che fanno la cosiddetta carret-tella, alzano o abbassano la voce per atti-rare il pubblico, battono i passi. Questo non è giusto. L’applauso deve coronare l’inter-pretazione, non forzarla”. Il teatro, primo ma non unico amore. Il nome di Ugo Pagliai ha iniziato a girare soprattutto con gli sceneggiati anni Settanta. Anche qui, un’altra storia rispetto

alle fiction di oggi. “Una volta si lavorava in modo diverso, io preferisco quello, più pro-fondo. C’era una maggiore partecipazione, anche per chi proponeva gli spettacoli era

diverso. Non voglio dire meglio perché maga-ri adesso qualcuno ci vede la novità, ma di certo non posso tradire quel che ho fatto”. Tra le tante cose fatte, una manca all’ap-

pello. Non ha mai vestito i panni di Amleto. “Ho affrontato Re Lear nella maturità e altri grandi personaggi ma Amleto mai. Ecco, questo vorrei farlo”. Altri ruoli invece ha dovuto rifiutarli, sia in teatro che al cinema. A volte per scelta, altre per necessità, perché impegnato in altri lavori. “Ma quando una cosa ti è impossibile la dimentichi subito”.Affascinante poter vivere ogni giorno altre vite. Senza mai invidiarle però: “Mi sono sempre dedicato al massimo, ai miei personaggi ho dato tutto quel che avevo dentro ma non li ho mai invidiati. Sono storie talmente particolari, anche estreme, che non vorrei viverle. Voglio essere quello che sono — assicura Pagliai — non sogno di essere diverso. Mi piaccio così”.

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Viareggio o a Forte dei Marmi, a prendere un caffè nell’ora in cui si va a dormire. E poi le girate in macchina in montagna, all’Abe-tone”. Ricordi che si è portato dentro quan-do ha lasciato Pistoia per Roma, anzi per la recitazione. In Accademia ha potuto godere dei “maestri più bravi e importanti di allora che mi hanno saputo indirizzare bene”: da Sergio Totano a Elena Da Venezia, passando per Giorgio Bassani. “E poi ci sono stati altri maestri come Salvo Randone e mio suocero”. Vittorio Gassman, padre di Paola, sua moglie. “Uno cercava di rubare quel che poteva quando erano sulla scena — racconta — anche se io rubavo poco, devo dire che avevo fiducia nelle mie possibilità”.Il più grande insegnamento mai ricevuto resta il rispetto per il testo, per il percorso

interpretativo tracciato dall’autore: “Non mi sono mai messo al di sopra, non ho mai cercato un discorso diverso da quello che era stato immaginato al momento della

scrittura”.Pagliai, attore di un’altra generazione, que-ste generazioni però le ha attraversate. Recita ancora. Con lo stesso rispetto e la

stessa passione dei primi tempi. “Il modo di recitare non cambia o cambia conti-nuamente. E questa è una cosa che avevo assaporato già. La recitazione può cambiare da un anno all’altro, da un giorno all’altro. Se uno vedesse uno spettacolo di cinquant’anni fa potrebbe non ridere o non commuoversi come allora. Cambia seguendo la velocità dei nostri tempi, la confusione del nostro vivere”.Ciò che sembra non mutare mai è l’emo-zione del palco. E quando si apre il sipa-rio è “un insieme di cose: una parte è emozione, che tutto prosegua nel modo migliore, senza intoppi. Ed è merito del direttore di scena far funzionare ogni dettaglio affinché l’attore non venga distratto. E poi c’è la partecipazione,

“Il modo di recitarenon cambia mai

o cambia continuamente.Segue passo passo

la velocità dei nostri tempi,la confusione

del nostro vivere”

UI ERA IL BELLO della tv, lei si lanciava sul palco con “una gran-

de famiglia dietro le spalle” (titolo dell’autobiografia). L’incontro fra Ugo Pagliai e Paola Gassman (nella foto) non poteva che avvenire a teatro, precisa-mente allo Stabile dell’Aquila dove lui era già primo attore e lei faceva ingresso appena uscita dall’Accademia d’arte drammatica.“Io avevo le mie storie, Paola le sue, non belle, si divideva già dopo pochi mesi di matrimonio — racconta Pagliai —. Così ci siamo incontrati e le strade si sono intrecciate”. Per non dividersi. La loro unione è di lavoro, di passione e di vita. Semplicemente perché per loro questi tre aspetti sono una cosa sola. La maggior parte degli spettacoli portano in locandina il nome della coppia. Alla faccia di chi pensa che i matrimoni che funzionano meglio sono quelli in cui marito e moglie sono lontani, perché così si litiga meno. Il segreto della loro complicità? “Il teatro”. Eccolo che torna. Li fa incontrare, li accomuna e li tiene uniti. “Il teatro è terapeuti-co — spiega l’attore — perché quando vai sul palco ti spogli della tua personalità e hai l’oc-casione di esternare le conflittualità, anche quelle di casa”. Insomma ci si sfoga. I sentimenti negativi si portano in scena “ e così uno, come dire, è sempre vergine”. L’unico rischio è che quando si va a casa si possa parlare sempre di teatro. “Io sono un po’ egoista — ammette Pagliai —, a volte tendo a parlare di lavoro, Paola invece è una che cerca di pensare ad altro, è sempre stata una donna attenta ai rapporti con i figli, alla casa, ai parenti”.

Quanto il palco diventa terapeutico“Il teatro è la nostra complicità”

IO E PAOLA

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In scena e in recitazione:Pagliai è attore d’altri tempi.“Mi sono sempre ispiratoa quegli attori che davanoun senso di serietà”

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“L’applauso è il caciosui maccheroni.Ma non bisogna

averlo a tutti i costi:deve coronare

l’interpretazione,non forzarla”

“Alle Bcc dico: uniteviE il futuro sarà vostro”

LAPO MAZZEI, LE BANCHE E L’ECONOMIA

L’ex presidente Carifi. “Le banche di credito cooperativo hanno l’obbligodi riempire lo spazio abbandonato dalle Casse di Risparmio. Ma devonoevitare l’attuale polverizzazione: in giro ce ne sono troppe, servono fusioniper dare ancora più forza a un movimento di grandi potenzialità”

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Andrea CabellaDirettore responsabile

APO MAZZEI è nato a Firenze nel 1925. Comincia a occuparsi dell’azienda di Fonterutoli già nel 1947, quando è ancora studente alla Facoltà di Agraria di Firenze. Negli anni successivi si impegna nella ristrutturazione della proprietà sviluppando il settore viticolo e olivicolo con

importanti investimenti. Negli anni Sessanta, con l’introduzione dei vini di Fonterutoli nei principali mercati mondiali, avvia un profondo processo di razionalizzazione e modernizzazione della cantina con particolare attenzione all’innovazione tecnologica. Nel 1974 diventa Presidente del Consorzio del Chianti Classico, carica che mantiene per venti anni; sotto la sua guida il Chianti Classico valorizza i propri vini, promuovendo un processo conti-nuo di miglioramento della loro qualità e notorietà sui mercati internazionali. Ancora oggi ne è Presidente Onorario. Consigliere della Cassa di Risparmio di Firenze fin dal 1957, fonda e dirige il Centro Leasing e quindi la Findomestic, società di punta nel settore del leasing e del credito al consumo. Presidente della Cassa di Risparmio di Firenze dal 1980 al 1992, ricopre contemporaneamente numerose e prestigiose cariche nel siste-ma bancario nazionale e internazionale. Nel 1982 è nominato Cavaliere del Lavoro.

Ama banche e vini. E’ il padre di Findomestic e Centro Leasing

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CHI È

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Intervista

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Intervista

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Lapo Mazzei, ex PresidenteCassa di Risparmio di Firenze,

a colloquio con Andrea Amadori,Presidente Banca di Pistoia

APO MAZZEI è il passepartout per il futuro, entusiasmo e idee rendono un bluff gli anni stampati sulla carta d’identità, non può essere vero ciò che c’è scritto (85 anni) perché il tipo parla e ti lascia di sale, nel senso di ammirazione allo stato puro, verrebbe voglia di dirgli “continui, la prego”, cultura e poi ancora cultura

snocciolata accavallando le gambe e inforcando gli occhiali e sedendo elegantemente sul divano, passando da un argomento all’altro – dall’economia all’arte, dall’agricultura alla storia, e così via – che poco o niente sembrano avere in comune e che invece lui riesce a legare insieme con ago e (sottilissimo) filo della saggezza: sembra facile e inve-ce è dote di pochi eletti. Vietate le imitazioni, sarebbero solo volgari autogol.

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Lapo Mazzei è stato tanto di tutto, non a caso lo chiamano il “professore” anche se lui gioiosamente minimizza (“Mio padre era professore, io non sono proprio un bel niente…”), ha ricoperto una carica dopo l’altra, come pedine del risiko, per lui c’era sempre una poltrona libera, perché averlo nel proprio cda – magari da presidente – era garanzia di tutti e per tutti, in fatto di prestigio e produttività. Adesso Mazzei gioca un passo indietro, come un libero d’altri tempi, gli orizzonti cambiano e paradossalmente sono ancora più ampi, e la (nuova) prospettiva del mondo che appare davanti ai suoi occhi è curiosa e quanto mai gratificante: scusi, Lapo, lei che ne pensa di?E lui un buon consiglio lo allunga sempre,

la (sua) sapienza è un pozzo dove abbe-verarsi nel momento del dubbio, o comunque di fronte al bivio della scelta. A Mazzei il ruolo sommessamente piace, ti apre le porte della meravigliosa villa sulle colline del Galluzzo — citato dall’Alighieri nel XVI canto del Paradiso (“Oh quando fora meglio esser vicine quelle genti ch’io dico, ed al Galluzzo ed a Trespiano aver vostro confine”) —, la Certosa a un passo, le colline di Firenze che ti riempio-no gli occhi, quasi a delimitare l’infinito. Mazzei incontra la Banca di Pistoia –

Direttore Generale Gian Carlo Marradi, Presidente Andrea Amadori, Vice Presidente Giorgio Mazzanti —, non c’è motivo particolare o argomento da discu-

tere: c’è il piacere di confrontare e confrontarsi, due ore in libertà, a ruota libera, come si dice in gergo. Perché se il fulcro dell’incontro non può che essere il

mondo bancario e ciò che gli ruota attor-no, Lapo Mazzei allarga il “campo da gioco” con citazioni, aneddoti, curiosità, ricordi di quel ministro e del politico d’altri tempi, le illuminanti parole di monsignor

I

Intervista

“Sette bcc nella provinciadi Pistoia? Che errore!

Le fusioni sono un problemadi sedie e di sedi, oltre che

culturale: in quanti capiscono?”

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Intervista

Ruini, i grandi Direttori con cui ha lavorato (“Tassi, probabilmente il più grande”), il fascismo, il comunismo, l’editorialista de Il Corriere della Sera Giovanni Sartori, “amico ed ex compagno di scuola”. E natural-mente le bcc, tasto su cui Mazzei è sen-sibilissimo, nervo scoperto per chi – come lui – ha da sempre a cuore il rapporto umano, diretto, e non l’”industrializzazione” sempre più selvaggia del credito. Dici banche di credito cooperativo e Mazzei scioglie le briglie. “Le grandi banche sono sempre più distanti dal territorio: possono dare servizi

particolari, ma non seguire la quotidianità di chi – correntisti e imprese di piccole-medie dimensioni – ha bisogno di qualcu-no con cui confrontarsi in qualsiasi

momento. Non dimentichiamo che le banche sono alla base di ogni proces-so produttivo, e pro-prio per questo devono necessaria-mente prestarsi per essere ancor più

vicine alla gente: se si fermano le banche, si ferma l’economia. I grandi gruppi non danno importanza all’attività dell’uomo, questo è il vero problema. Sono macchi-ne, perfette quanto volete, ma pur sempre

macchine: e le macchine non hanno la parola. Manca il contatto diretto con la clientela, cosa che invece è prerogativa delle bcc, realtà sempre più efficienti e ben organizzate, con una conoscenza privilegiata del territorio. Qualcuno ha detto: le bcc sono le uniche banche del territorio dalla testa ai piedi. E’ una defini-zione che sposo senza se e senza ma”.Un presente, e soprattutto un futuro, instradato su binari da cui è impensabile deragliare. Continua Mazzei: “Stiamo assistendo a un cambiamento epocale: fermo restando le dimensioni esagerate delle grandi banche, le bcc hanno l’obbli-go di riempire lo spazio abbandonato dalle Casse di Risparmio. C’è solo un però…”. Che poi è il nodo (principale) da scioglie-

“Le grandi banche hannodimensioni esagerate, sono

macchine perfette senza però essere dotate di parola:

non c’è contatto con la gente”

Da sinistra: Lapo Mazzei fa gli onori di casaai vertici della Banca di Pistoia:Giorgio Mazzanti (Vice Presidente)Andrea Amadori (Presidente)e Gian Carlo Marradi (Direttore Generale)

re: “In giro ce ne sono tante, una miriade. La cosiddetta “polve-rizzazione delle bcc” è un danno, altro che un vantaggio: le banche di credito cooperativo sono di difficile individuazione, quando invece dovrebbero essere una presenza ben marcata sul territorio”.Ecco allora che Mazzei pone in primo piano – esattamente come fece Angiolo Bianchi sulle pagine dello scorso numero di 0573 – l’esigenza di fusioni e accorpamenti che renderebbero ancor più forte un movimento dalle potenzialità infinite, al momento sfruttate solo in (picco-la) parte. “Non vedo un futuro senza aggre-gazioni. So che si tratta di un argomento estremamente complesso, che le scale – usando una metafora – si salgono un gra-dino alla volta, ma c’è modo e modo di salirle: il meccanismo va messo in moto più velocemente possibile. Nella provincia di Pistoia sono presenti sette bcc? Che errore! Al massimo, per ogni provincia, ce ne dovrebbero essere due. Meglio ancora: una soltanto. Il fatto è che le fusioni rappre-sentano sempre un problema di sedie e di sedi, che difficilmente bypassa gli interessi personali. Eppoi c’è un ostacolo culturale di fondo: non tutti capiscono… Un dirigente che si rispetti, invece, deve conoscere la storia, l’arte, l’economia, con competenze generali ad ampio respiro: altrimenti come fa a mettersi al servi-zio del territorio? A questo proposito dico: è necessario organiz-zare convegni per sensibilizzare sul problema bcc, dando la

parola ai direttori – e non ai presidenti -, ovvero coloro che poi sono in prima fila e hanno la responsabilità della quotidianità”. Dall’economia locale a quella dei massimi sistemi il passo è più breve di quanto si creda: Mazzei si muove a piacimento nelle pieghe della politica internazionale, che dimostra di conoscere come gli angoli di casa. Dice: “L’Europa ha preso a modello gli Stati Uniti, e mossa peggiore non avrebbe potuto farla. Da quel momento è stata una decadenza progressiva, testimoniata da

come adesso l’Europa, quanto più colpevol-mente possibile, rinneghi le proprie origini: il cristianesimo e la civiltà romana. Non aver costituito un’unica, grande potenza europea è stato un passo falso enorme, tanto che le successive trasformazioni geopolitiche hanno portato a un indebolimento del nostro continente e dei suoi poteri”.C’è tempo anche per parlare del settore alimentare, argomento che sta particolar-

mente a cuore all’ex presidente della Cassa di Risparmio di Firenze. “Il prezzo delle materie prime agricole non è mai stato così basso, l’agricoltura potrebbe tranquillamente soddisfare l’in-tero fabbisogno mondiale, ma il vero problema è un altro: la mancanza di uomini. Quanti di loro sono disposti a lavorare, giorno dopo giorno, alla guida di un trattore? Ma è l’intera econo-mia a dover essere rivista e rivitalizzata: negli ultimi anni i pro-cessi produttivi hanno viaggiato molto più velocemente rispetto alla necessità. C’è troppo di tutto, il danno è stato enorme”.

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La foto-ricordonello splendido studiodi casa Mazzei

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Intervista

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Intervista

a storia della famiglia mazzei è fortemente connessa a politica e cultura della Toscana, oltre che alla vitivinicoltura. I primi documenti riguardanti i Mazzei — originari della zona vinicola di Carmignano — sono dell’inizio del XI secolo, epoca a cui risale lo stemma più antico della

famiglia: tre martelli di legno, arnesi tipici dell’arte dei Maestri Bottai e Dogai, sostituiti nel Trecento dalle tre mazze di ferro che figurano nello stemma attuale. Fin dalle loro origini, i Mazzei svolgono l’attività di viticoltori e produttori di vino e partecipano attivamente alla vita mercantile e professionale di Firenze occupando anche importanti cariche di governo. Ser Lapo Mazzei (1350-1412), viticoltore a Carmignano e appassionato all’arte del vino, è notaio della Signoria fiorentina, oltre che ambasciatore e proconsole dell’Arte dei Giudici e dei Notai. Anche il fratello Lionardo coltiva vigneti a Carmignano nella proprietà di Grignano, dove produce vino seguendo i consigli del più esperto Ser Lapo. Quest’ultimo è autore di un voluminoso e inte-ressantissimo epistolario con il mercante Francesco Datini, ricco di consigli giuridici, economici, ma anche agronomici ed enologici. La vinificazione, l’acquisto e la conservazione del vino costituiscono negli scritti di Ser Lapo un punto di ricorrente attenzione: “Non vi curate della spesa di quel vino, benché egli fosse caro: la bontà ristora”, scriveva al Datini nel 1394, con un invito a vincere la sua parsimonia e ad apprezzare la qualità. A Ser Lapo Mazzei si deve il primo documento sull’uso della denominazione “vino di Chianti”, apparsa per la prima volta proprio in un contratto commerciale a sua firma, datato 16 dicembre 1398. “E de’ dare, a dì 16 diciembre (1398),fiorini 3 soldi 26 denari 8 a Piero di Tino Riccio,per barili 6 di vino di Chianti; ....li detti paghamo per lettera di Ser Lapo Mazzei”. (Archivio Datini). È alla nipote di Ser Lapo Mazzei, Madonna Smeralda, andata in sposa a Piero di Agnolo da Fonterutoli, che i Mazzei devono la proprietà di Fonterutoli, trasmessa dal 1435 fina a oggi attraverso 23 generazioni. Un’altra figura storica di rilievo è Filippo Mazzei (1730-1816). Personaggio eccentrico e inquieto, “viaggiatore del mondo”, intellettuale e studioso, fu invitato alla fine del 700 dall’amico Thomas Jefferson, futuro presidente degli Stati Uniti, a piantare un vigneto nella sua residenza di Monticello in Virginia. Vi giunse con un gruppo di vignaioli toscani e realizzò i primi vigneti della Virginia. “I thank you for your obliging acct. of the culture of the vine, and am happy to hear that your plantation of them is in so prosperous a way” gli scrive George Washington il 1° luglio 1779 da New Windsor (“Ti ringrazio per il tuo gradito racconto sulla cultura della vite, sono lieto di sapere che le tue viti-colture sono così floride”). In seguito Filippo si fece coinvolgere nella Guerra di Indipendenza e nella politica del nuovo Paese, fino a partecipare alla ste-sura della Costituzione americana, tanto da essere definito “an american patriot”.

La lettera di Washington. E Filippo era “an american patriot”LA FAMIGLIA

L

“Nessuno deve dimenticarel’importanza della banche:sono alla base di qualsiasi

processo produttivo.Se si fermano, si arresta

di colpo anche l’economia”

La meravigliosa casadi Lapo Mazzei, al Galluzzocon vista panoramica su Firenze

Lapo Mazzeilegge il numerodi gennaio di 0573

George, Anish Kapoor, Nagasawa e molti altri. A essi si alternano oggetti provenienti da tutto il mondo: Africa, America Latina, ma anche Cina, India; ha viaggiato per tutta Europa e anche in America del Nord. Da molti di questi luoghi ha riportato testimonianze di artigianato

tipico, gioielleria, utensili: oggetti unici e origi-nalissimi che si sposano in modo sorprenden-temente armonico con il contesto dell’abitazio-ne. L’arredamento ha forme lineari ed essen-ziali, dal design molto moderno e non vistoso né preponderante: nella sala principale la libreria e le sedute, dal design semplice e

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AA casa di

AA casa di

Design essenziale per l’uomo dei 127 Paesi visitatiNella sua abitazione-museo, quadri, installazionie poi pentole, gioielli e bastoni delle tribù

A VISITATO 127 paesi in tutto il mondo: nel ‘93 era in Ruanda sul finire della guerra civile, è stato in Ucraina nel bel mezzo della rivolu-

zione arancione, del Brasile ricorda ancora l’odore di sapone di Marsiglia e del riso e fagioli di una favela di San Paolo. Ha una collezione di opere d’arte contemporanea che conta dai 300 ai 400 pezzi, molti dei quali di altissimo valore. Notaio di professione, ma viaggiatore e collezionista per passione, Marco Regni sposa da sempre il diritto ai suoi due grandi amori: i viaggi e le opere d’arte. La sua casa, in un quartiere residenziale di Firenze, rappresenta lo specchio di queste sue due passioni. Dagli spazi ampi e dall’arredamento minimale, la sua abitazione ha come protagonisti i qua-dri e le installazioni di arte contemporanea: pezzi di grande valore firmati da artisti del calibro di Christo e Jeanne Claude, Gilbert e

H

Marco RegniVi guido in una galleriafatta di artee souvenir di viaggio

UN NOTAIO, DUE PASSIONI

“Partire non è fuggire dalla realtào dalla quotidianità:

è scoperta, contatto con altra gente,assaporare la cucina tipica.Non amo le vacanze relax”

Marco Regni, 51 anni,laureato alla Sapienza di Roma.E’ notaio dal 1986, tre anni dopoha aperto lo studio a PistoiaLa sua collezione d’arteè appetita da molti musei

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Marta QuiliciIl Tirreno

AA casa di

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di cammello. Importante è anche la collezione di pennelli cinesi utilizzati per la calligrafia cinese. “Non ho un criterio in base a cui scelgo gli oggetti — afferma Regni —. Semplicemente li vedo e, se mi piacciono, li compro. Difficilmente li trovo nei negozi e mai in botteghe di souvenir da turisti: spesso li “pesco” in mercati o anche in gallerie d’arte”. E per quanto riguarda i tempi di perma-nenza in un Paese? “La durata del viaggio non è importante. In un luogo ci si può stare anche soltanto pochi giorni: non importa quanto ci stai, ma come ci stai: il viaggio va sicuramente prepara-to all’inizio, ma poi bisogna abbandonarsi al luogo”.E rispetto a venti o trenta anni fa, adesso è più facile o più diffici-le viaggiare? “Nonostante le tecnologie siano andate avanti anche nei trasporti – afferma Regni — non è più facile viaggiare. Forse ora ci sono un po’ più di comfort, ma non ci sono stati sostanziali cambiamenti. Magari, adesso, rispetto a qualche anno fa, eviterei di andare in Medio Oriente. Per il prossimo viaggio, invece, mi piacerebbe tornare nel Corno d’Africa, in Etiopia”. E aggiunge: “In generale cerco di evitare i luoghi e le stagioni calde e umide, come a esempio il Giappone durante il periodo estivo. Mi piacciono molto i posti freddi, soprattutto per la loro grande civiltà, da cui credo dovremmo imparare molto: sono stato al circolo polare artico, in Canada, in Islanda. Anche l’Italia è bella e l’ho visitata praticamente tutta, a parte piccole zone; del nostro paese sono affascinato molto dalla Sicilia”.Oltre ai viaggi, l’altra grande passione di Marco Regni, anch’essa

infatti l’idea del viaggio come fuga dalla realtà o dalla quotidiani-tà, come escamotage per non affrontare una certa situazione: per me non è così, anzi direi che è l’esatto contrario. Per me il viaggio è un andare-verso. Per questo prediligo i viaggi durante i quali posso entrare in contatto con le persone del posto, sco-prire altre usanze, visitare musei e luoghi d’arte, immergermi in una certa realtà e tentare di capire come vivono le persone in un luogo lontano e diverso da quello in cui quotidianamente vivo io. Mi piace anche scoprire la cucina tipica del luogo che è un’altra delle mie grandi passioni. Preferisco andare nelle città, nei paesi: non mi piacciono le cosiddette vacanze-relax, quelle in cui si sta un’intera settimana sulla spiaggia. Non fanno per me”. Per non parlare dei viaggi turistici: “Quel tipo di vacanza non è contemplata nella mia concezione di viaggio. Capisco, forse, che può essere una soluzione per chi ha famiglia, ma in ogni caso quando parlo di viaggi intendo un’altra cosa”.Tra un enorme disegno firmato Christo e Jeanne Claude, e un’opera di Gilbert e George spicca nella sala, in contrasto con la parete bianca, la collezione di grandi bastoni del comando provenienti da tribù africane: “Questi bastoni — spiega Regni — sono impugnati dal capo della tribù in segno di comando”. Accanto a essi si trovano altri oggetti africani tra cui un pestello di grandi dimensioni e una maschera proveniente dal centro Africa. A fare compagnia ai libri, su uno degli scaffali della sala, ci sono invece due scatoline nordafricane realizzate con la pelle

1918

ARCO REGNI nasce il 19 febbraio 1959 a Terni. Da studente frequenta il Liceo Classico e, dopo il diploma, si iscrive alla facoltà di Giuri-sprudenza all’Università La Sapienza di Roma. A partire dal 1986 svolge la professione di notaio. Nel 1989 si trasferisce a Pistoia. Qui apre

lo studio nel centro della città. Nell’ambito del diritto, è un esperto di trust e tiene spesso convegni inerenti al diritto transnazionale, ambito in cui vanta una specializzazione. Parla correttamente tre lingue — inglese, francese e tedesco — e conosce discretamente anche portoghese e spagnolo. Oltre alla sua professione, Regni si dedica alla passione per i viaggi e per questo è iscritto al Club Internazionale dei grandi Viaggiatori. Seguendo l’altra passione, quella per la cucina, qualche anno fa ha aperto, insieme ad alcuni soci, il locale Aoristò, sopra il cinema Globo. Il locale nel 2008 è stato inserito tra i migliori 300 ristoranti italiani. Regni ha una collezione di opere di arte contemporanea che conta centinaia di pezzi, molti dei quali richiesti da musei e gallerie internazionali.

Non solo diritto, il suo Aoristò è fra i 300 migliori ristorantiCHI E’

M

invece una scatola di legno intagliata e minuziosamente dipinta. Sul tavolo ci sono anche alcuni esemplari di una collezione di pentole provenienti da tutto il mondo: una di queste, bianca e blu, viene dal Brasile, un altra, gialla, è originaria del Mali e utilizzata per cuocere il riso. “Ho iniziato a viaggiare da piccolo, all’età di 10-12 anni — spiega Marco Regni —; prima ovviamente viaggia-vo con i miei genitori, iniziando dall’Italia, proseguendo per l’Euro-pa e poi senza smettere più. Per adesso ho visitato 127 paesi del mondo, anche attraverso l’organizzazione del Club dei viaggiato-ri”. E aggiunge: “Il viaggio per me è una ricerca. Non condivido

lineare, non si impongono allo sguardo, lasciando così il giusto spazio ai veri protagonisti: le installazioni di arte contemporanea disposte sulle pareti e ai lati della sala. Il centro della stanza, invece è occupato da un tavolino basso che accoglie i tantissimi oggetti riportati da ogni parte del mondo. Tipici di una tribù africana che abita nel Mali sono, a esempio, un paio di orecchini dorati, molto grandi, che i membri della tribù indossano appoggiandoli a cavallo dell’intero padi-glione auricolare. A essi fanno compagnia alcuni stampi che in India vengono usati per dipingere la seta. Dalla Cina proviene

La visione panoramicadel meraviglioso salonedi casa-Regni, dovetrovano spazioquadri pregiatissimie oggetti provenientida ogni parte del mondo

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AA casa di

AA casa di

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RO IN RUANDA nel 1993, quando stava finendo la guer-ra civile che ha massacrato un intero Paese”. Tra gli oltre

cento Paesi visitati, ce ne sono alcuni che Marco Regni difficilmente potrà dimenticare: “Quando arrivammo a Kigali (la capitale, ndr) — racconta —, già la prima sera, sentimmo il suono di un fischietto: era un segnale. Voleva dire che qualcuno era stato ucciso. Il suono del fischietto era l’allarme”. “Quando andai in Ruanda — continua — la guerra civile stava finendo, ma il clima era ancora di forte ten-sione. Quella del Ruanda è stata una guerra tragica ma, per così dire, silente. E’ stata portata avanti a colpi di machete: difficilmente si sentivano scoppi di armi da fuoco e non c’erano bombardamenti. Ma è stata una guerra che ha visto compiersi stragi efferate e migliaia e migliaia di vittime. I corpi delle persone venivano in gran parte gettati nei fiumi e i cadaveri finivano per essere divorati dai pesci. Eppure, quando visitammo un campo profughi, vedemmo negli occhi della gente tanta dignità. E’ stata un’esperienza intensa, indi-menticabile”. La guerra stava finendo ma le uccisioni continuarono: “Quando tornammo — chiude — ci fu detto che, tre giorni dopo la nostra partenza, la compagna di stanza della ragazza che ci aveva accompagnato nel nostro viaggio era stata uccisa”. L’ennesima tra-gedia che veniva assorbita come fosse la normalità.

Sul finire della guerra civile:un fischio per ogni vittima

IN RUANDA

“E

lentemente a casa di mia madre”. Aggiunge: “Ritengo l’arte contemporanea più immediata di quella classica che per capir-la è necessario apprendere una certa simbologia. Inoltre i pezzi antichi di valore ormai non sono più economicamente accessi-bili, mentre quelli contemporanei, anche di alto livello, lo sono di più: tra un’opera d’arte contemporanea di alto livello e un oggetto antico di nessun valore artistico, preferisco di gran lunga la prima. Mi definisco un collezionista puro, che non mischia l’affare con ciò che è arte. Difficilmente presto i miei quadri e non mi interessano le speculazioni volte a far acquisire valore ai pezzi della mia collezione. Non è il mio mestiere: l’ar-te è soltanto una mia passione, anche se adesso ho una certa esperienza e sensibilità con cui, a esempio, riesco a riconosce-re il valore e il possibile futuro di un giovane artista. In casa, infatti, ho anche qualche pezzo di artisti giovani che mi piaccio-no molto”. Uno di questi è l’opera di Chiara Camoni: ha smontato e ricom-posto il confessionale di una chiesa rigirando le assi, in modo che quello che prima era l’esterno del confessionale adesso si trova all’interno dell’opera e viceversa: “Io — afferma Regni — interpreto l’installazione come un invito all’apertura e alla chia-rezza”. La sua immensa collezione di opere d’arte contempora-nea probabilmente entrerà in un museo: “Ci sono già alcune proposte da parte di musei internazionali — spiega —. Non avendo eredi, credo che la mia collezione, che conta dai 300 ai 400 pezzi, andrà in un museo, anche perché è comunque molto impegnativo gestire così tante opere, non foss’altro per antifur-ti e assicurazioni!”.

un’altra opera di Yun-Hee Toh e una di Nagasawa. Anche l’in-gresso accoglie moltissime installazioni, tra cui una rara fotografia che ritrae l’artista Marina Abramovic durante una sua performan-ce: “Una delle fotografie di questa serie — spiega Regni — ades-so è al Moma di New York. Ritrae la Abramovic mentre ha una mano aperta su un tavolo e con l’altra cerca di colpire con un coltello gli spazi vuoti lasciati tra le sue dita stese sul tavolo. Durante la performance si è ferita più volte”. Nell’ingresso ha un Guttuso “anche se — afferma — gli artisti contemporanei figurati-vi come De Pisis, Carrà, Rosai, un po’ meno recenti, sono preva-

è quella per l’arte contemporanea: “Sono venti anni che collezio-no opere d’arte, anche se il mio primo acquisto in assoluto l’ho fatto quando avevo appena 15 anni”. La sua casa fiorentina non ha niente da invidiare a una Galleria: molti musei, infatti, spesso gli chiedono alcuni pezzi per esporli. Ha quadri, disegni, instal-lazioni in ogni stanza. Anche in cucina, dove ha esposto un’ope-ra di Michelangelo Pistoletto: uno specchio raffigurante un coniglio eviscerato. O in camera da letto, dove tiene tre opere di Mimmo Rotella, “un artista – commenta – che mi piace moltissi-mo”. In un’altra camera ha disposto un’installazione di Steiner,

L CLUB INTERNAZIONALE dei Grandi Viaggiatori nasce nel 1982 per volontà di un giornalista tunisino, Rached Trimeche, che volle riunire a livello internazionale le persone che amano viaggiare, sia per lavoro che per piacere, al di là di qualunque barriera di nazionalità, cultura, religione o colo-

re. Oggi i membri sono diverse migliaia, diffusi in oltre 167 paesi di tutto il mondo. Per farne parte bisogna avere visitato almeno 50 paesi, in una lista ufficiale di 222. Ma si può essere ammessi anche tra gli aspiranti con un minimo di 25 paesi visitati. Sotto i 30 anni basta aver viaggiato in tanti paesi quanti sono gli anni compiuti. Lo slogan del club è “Paix dans le Monde - Peace in the World”: contribuire alla “pace nel mondo” attraverso la cono-scenza del nostro pianeta, dei diversi Paesi e delle diverse culture. Il Club persegue questo scopo facilitando i rapporti di amicizia fra i suoi membri, gli scambi di informazioni e gli incontri tra i viaggiatori, e soprattutto diffondendo un’idea del viaggio inteso come momento aggregante fra gli uomini. I soci del club sono tra i più diversi: dal giramondo che viaggia all’avventura con lo zaino in spalla, al capo di stato, all’ambasciatore, all’esploratore. Sul sito italiano ( www.cigv.it) ne sono riportati alcuni: Leopoldo Senghor poeta, Patrick Baudry astronauta francese, Al Saoud astronauta del Sud Arabia, Barbara Cartland scrittrice americana, Albert Renè presidente delle Seychelles, Thomas Bata re delle scarpe, Harvé Bazin e Jean Ormesson, accademici di Francia, Franco Bassani uno dei numeri uno della fisica dei solidi, Jean Todt padre della rinata Ferrari, e tanti altri, noti e meno noti.

Avventurieri e ambasciatori, tutti per la pace nel mondoIL CLUB DEI VIAGGIATORI

I

Nel salone, pavimenti in wengèe luci di ultima generazione:

il contrasto produce magie

Una delle particolarissime camere,in cui fanno bella mostrapezzi unici di arte contemporanea

La facciata della casa di Regniin una prestigiosa via di Firenze,a due passi dalla Fortezza

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MUSICA

Nick BecattiniQui non servela pelle nera

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Il chitarrista volatonegli Usa per scoprire di cosa era capace

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Nicola Becattini, 48 anni,da tutti conosciutocome “Nick”, sul palcodel Pistoia Blus Festival 2009

campo, è la punta di un iceberg. Sotto si muove una generazione di musicisti che ci hanno creduto, che hanno fatto musica per reale bisogno e l’hanno fatto genuinamente, percorrendo la strada fino in fondo. Nel rock, nel blues, sul solco dei cantautori, nel reggae sono stati in molti anche dalle nostre parti, e oggi fanno i conti con un pre-sente in cui è difficile riconoscersi, a livello globale e anche locale. Una conversazione con Nick può essere molto istruttiva, un suo concerto è doveroso averlo visto per capire, una sua lezione di musica sarebbe utile per inquadrare l’approccio misto, rispettoso ma spregiudicato, con cui fin dagli esordi si è avvi-

N CASA ha una foto scattata in un’indi-menticabile serata sul palco di un vec-chio Pistoia Blues. Il leader della band è Albert King, buonanima, davvero uno dei più grandi, torvo ed elegante come

gli altri musicisti in scena; sulla sinistra, un personaggio che pare un imbucato a una festa, un ragazzotto jeans e maglietta, chitarra a tracolla, concentratissimo. È lui, più di vent’anni fa, invitato da King in persona a sostituire un membro della band all’ultimo minuto: cose che la musica può fare.Il chitarrista e cantante (pistoiese) Nicola Becattini, classe ‘62, detto “Nick” non per vezzo ma – diciamo – per meriti acquisiti sul

I cinato alla materia sonora, tradotto negli anni in una decina di dischi da titolare, chissà quanti da gregario (di lusso), con-certi a centinaia. Tra i maestri, il povero Maurizio Ferretti, mentore di tecnica e teo-ria e spacciatore di dischi, e il chitarrista-filosofo Motoaki Makino. La morale la mettiamo all’inizio: non la banalità di voler acchiappare un sogno, che è giusto e sacrosanto ma che non è che la base, ma serve la voglia di andare a fondo, di chiedersi perché un ragazzo bian-co europeo dovrebbe suonare musica popolare afroamericana. Non sono solo canzonette, insomma.

EL DILEMMA, un po’ come dire: è nato prima l’uovo o la gallina? «Può darsi che la nostra sia la città del blues, ma forse non per i pistoiesi. Molte persone hanno tentato

di inventare una continuità culturale, ma in realtà Pistoia non è troppo diversa dal resto d’Italia: giornali, radio, televisione, nessuno parla di blues, è una battaglia coi mulini a vento. C’è una nicchia di appassionati, fine. Ma l’ambiente musicale pistoiese è centrato su altre cose”. Dopo l’esperienza a Chicago qualcosa però è cambiato. «Nemo propheta in patria, ma quando uno torna dall’estero le porte cominciano ad aprirsi dopo un po’, mica subito. A me è servito tanto lavorare con la band in Italia: coi Serious Fun facevamo anche cento date all’anno. Ho perso il conto delle ore al telefono per organizzare le mille cose da fare…».

La città del blues. A parolePISTOA E I PISTOIESI

B

Lorenzo MaffucciGiornalista freelance

pallone; però in casa e nel gruppo scout si cantava insieme, e un po’ di lezioni le ho prese, insieme a un amico. L’insegnante ci mise subito a fare solfeggio, e chiara-mente abbiamo smesso subito». Quando

sei uno scout, comunque, un po’ di rudi-menti di chitarra ti possono risolvere più di un problema, non ultimi quelli legati all’educazione sentimentale. Girano le canzoni di Guccini, De André, Bennato, i cantautori: nel giro di un paio d’anni Nicola

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“Una sera a cena sono entratoin uno stato di coscienzaalterata. Così ho capito

che la musica è la mia vita”

Rhode Island, 1975Warwick è una cittadina vicino a Providence (nomen omen?), dalle parti di Boston per capirci. Sembra lontana dalle coordinate della musica blues, ma è solo apparenza: la zona produce, soprattutto negli anni Ottanta e anche grazie alle prestigiose scuole di musica, la Berklee in testa, per-sonaggi notevoli come Ronnie Earl, Kim Wilson, Fabulous Thunderbirds, eccetera. A Warwick vive la proverbiale zia d’Ameri-ca. Nick vola da lei con la famiglia per festeggiare il tredicesimo compleanno, e riceve in dono (grazie zia!) una chitarra andante, «di quelle comprate ai grandi magazzini Sears». Non è amore a prima vista, ma qualcosa si innesca: «Diciamo – ammette Nick – che preferivo giocare a

diventa «bravino» (dice lui) e impara un po’ di trucchi, finché, nel 1980, un amico batterista, compagno di scuola al liceo scientifico, gli chiede se ha voglia di met-ter su un gruppo. «Va bene – risponde Nick –, però si suona blues».

Pistoia, 1980Nel frattempo, infatti, Nick ha cominciato a coltivare la propria passione/ossessione per la musica nera. «A diciott’anni – ricor-da – vidi i primi concerti blues al cinema-teatro Verdi: vennero il pianista Willie Mabon e Cooper Terry, un americano molto in gamba che, via Marocco, era finito a Milano e che avrei incontrato anni dopo nel giro dei festival. Andavo spesso a casa di un amico appassionato di musi-

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HE ANNI, quegli anni americani. Nick Becattini li racconta come se, fotogramma dopo fotogramma, gli passassero davanti agli occhi. “Abbiamo suonato a New York, siamo venuti in Europa, abbiamo fatto spettacoli negli studi di Oprah Winfrey, ci hanno aperto i concerti Johnny Winter,

Lonnie Mack, Lucky Peterson. Alla vigilia del nostro ultimo tour, Son Seals era appena uscito dall’ospedale: uscì venerdì mattina e venerdì sera partim-mo per la tournée a New York. Son non era in grandissima forma, quindi tutti gli assoli toccavano a me! Dopo un paio di date il padrone del locale mi dette il biglietto da visita di un’agente della Time Warner: “Cercano nuovi talenti, chiamala”. La chiamai, le dovevo mandare una nostra registrazione ma... ero troppo disorganizzato e non se ne fece di nulla”. Alcuni paradossi colpiscono particolarmente Nick negli anni americani: “Mi faceva piacere la tranquillità della vita. E della guida, là si guida molto piano. Avevo una macchina che avevo pagato 300 dollari, tenuta insieme con lo scotch, per cui venivo preso per i fondelli ma di cui ero molto fiero. Ed è sempre partita al primo colpo, anche coi -40° che fa lì d’inverno…”.

In tournée guidando l’auto tenuta in piedi con lo scotch

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GLI ANNI AMERICANI

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ca, ascoltavamo dischi insieme, si compra-va il “Mucchio Selvaggio”, cercavamo i dischi per posta e nei negozi specializzati. Diverse volte siamo andati sul “Ciao” (in due) a Firenze, andata e ritorno per com-prare dei dischi, o a Viareggio. Una volta andammo a Reggio Emilia in autostop per andare prima a un concerto dei Byrds e poi, continuando, grazie al passaggio di un pescivendolo, arrivammo a Milano: voleva-mo andare a Gallarate, allo storico negozio “Carù”. Si arrivò alle otto e si aspettò l’aper-tura. L’ho sempre sentito dire anche dalla generazione precedente alla mia, quella che si è formata negli anni Sessanta, come Maurizio Ferretti o Roberto Carifi: per loro era ancora più complicato. È vero però che i media qualcosa facevano: “Lady

Marmalade” di Patti LaBelle la mandavano in tv, fantastico. Insomma: in città comincia-rono a venire dei concerti e noi andavamo a vederli». É anche l’anno del primo festival blues, e certe cose non si dimenticano.

Pistoia, 14 luglio 1980«Di prima mattina, io e il mio amico erava-mo già in piazza pronti a vedere il concer-to, il primo Pistoia Blues. La piazza era piena di seggiole. Arriva un tale e ci fa:

“Volete entrare gratis al concerto?”. “Certo!”. “Allora datemi una mano a spo-stare tutte queste sedie”. E ci dette il pass. Eravamo in prima fila, e quando vidi Muddy Waters mi cascò la mascella. Era roba seria. La voce, gli assoli di slide... Ti levava la pelle di dosso. Mi piacque molto più lui di B.B. King, che pure era più raffi-nato e aveva una band pazzesca: ma l’impatto di Muddy Waters, il suono Mississippi elettrificato, erano qualcosa di sconvolgente».

Una sera per casoNello stesso periodo un altro episodio lo scuote: «Eravamo a una cena con gli amici, un po’ di vino, una chitarra, e si facevano cose tipo “When The Saints Go

Un giovanissimo Becattinial Pistoia Blues Festival nel 1986:

aveva appena 24 anni

Becattini (a sinistra)insieme a Son Seals

al Chicago Blues Festival 1991

“Tornare a Pistoia dopol’esperienza americana

è stato traumatico:che fatica riprendermi”

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figura da titolare: con lui, Luca Nardi, Davide “Malito” Lenti e Keith Dunn, cantante e armonicista Usa trasferitosi in Olanda. La band va alla grande.

A casa, 2003-20...«L’età avanza», dice lui. Capirai. E allora B.B. King? «Non so come faccia a fare 300 concerti l’anno, da 50 anni». Il presente e il futuro di Nicola sono una figlia e tantissimi allievi in gamba (affermati e in via di affermazione: Giacomo Guazzini, Giacomo Ballerini, Alessandro Gonfiantini, Michele Beneforti, Francesco Biadene solo per fare qualche nome), a partire, storicamente, da Sergio Montaleni, chiamato a sostituire Nick durante il periodo chicagoano. Il Becattini artista vorrebbe ora allargare un po’ lo spettro: un progetto con un attore a cavallo tra musica e teatro, e «un trio roots, con chitarra, armonica e batteria, un po’ à la White Stripes». «Oggi — riprende — c’è la possibilità di formarsi e di preparasi meglio, e un giovane riesce a prepararsi anche molto velocemente. Ma l’appiattimento culturale italiano è una realtà, lo è sempre stato. Quando uno ha voglia di fare qualcosa lo fa, e le porte (o gli spiragli), si aprono sempre: le porte spalancate non ci sono mai state, ora come allora, e la mia storia non è tanto diversa da quella di tanti che hanno fatto musica dagli Ottanta in poi, gente che si è fatta un bel mazzo. In ogni caso faccio molta fatica a ricordare: non penso mai al passato, in realtà».

del ‘93, e in quel periodo ho sempre lavorato con Son. E mi infilavo in tutte le jam session improvvisate, ero fuori 7 sere su 7; quando mi vedevano arrivare mi chiamavano sul palco. Anche perché lì si suona dalle 21.30 alle 2.30, e i musicisti si fanno volentieri una pausa per una birra. L’idea della jam è bel-lissima, ed è tutto basato sulla fiducia».

RitornoLa decisione arriva piuttosto rapida, per quanto di sicuro non indolore. «A un certo punto trovai un sostituto e tornai in Italia. Perché ero andato anche per quello, per capire profondamente il blues e cosa c’entrassi io. Avevo scoperto che la funzione del blues è simile a quella della musica popolare, del folk, del liscio da noi. Avevo visto che ero capace, per cui, raggiunta la consa-pevolezza che quello che facevo andasse bene — ho sempre bisogno di sicurezze nella vita —, tornai in Italia per fare... non sapevo cosa. Volevo smettere di suonare blues: entrai in contat-to con il management di Ligabue, ma le cose non andarono in porto. Alla fine mi cominciarono a richiamare per fare blues, ma per 7-8 mesi non ci ho capito nulla: abitare e vivere di musica a Chicago per degli anni e tornare a Pistoia è stata un’esperienza traumatica. Mi sono serviti un paio d’anni per riprendere il filo». Per un anno o due Nick fa il turnista in infiniti giri di concerti accompagnando di volta in volta solisti blues di grido. La band della ripartenza, i Serious Fun, sono il primo gruppo in cui Nick

Milano-Palermo, andata e ritornoCon la band, Nick comincia l’attività «da “professionista”, tra vir-golette: 4 concerti a settimana, nei locali di tutta Italia. Avevamo un nome ed eravamo di Milano, cosa che a quei tempi funziona-va, anche più di oggi». Senza scordare che sempre di gavetta si trattava: «Una volta andammo a suonare in un paesino in Sicilia, una situazione indescrivibile. A Naso, in provincia di Messina, si trovò un palco di tavole inchiodate in mezzo alla piazza, e nessu-no, il vuoto, niente corrente. Una signora ci prestò una presa per l’attacco degli strumenti e si partì. I ragazzini passavano e grida-vano: “Minchia, gli americani”!».

Pistoia-Chicago, seconda parteUna band a distanza è un bell’impegno. «Ogni settimana prende-vo il treno. Dieci ore andata e ritorno, zainetto in spalla. Stavo per trasferirmi a Milano. Ma poi ci ho riflettuto: perché andare a Milano se devo suonare blues? E decisi di andare a Chicago. Vendetti un po’ di chitarre e amplificatori, misi da parte i soldi e partii, nell’ot-tobre del ‘90». L’impresario italo-americano Gino Battaglia gli dà una mano a sistemarsi nell’appartamento sopra uno dei suoi club a Chicago («Per non avere seccature col vicinato, affittava il piano superiore. Geniale»), e in capo a tre settimane Nick ha già un ingaggio con la band di Son Seals, chitarrista e grande cantante, ma non troppo fortunato. È negli Usa, ed è passato dalla porta principale. «Sono restato in America dall’ottobre del ‘90 all’aprile

Marching In”. Non so come sia successo, ma sono andato di fuori. Giuro. Sono entrato come in uno stato di coscienza altera-ta, come può succedere con la meditazione. La musica mi ha innescato qualcosa… Quella notte ho capito che la musica era la mia vita, ho capito che lo stato di “coscienza alterata” raggiun-gibile attraverso la musica era un’esperienza talmente elevata che valeva la pena di perseguirla fino in fondo. Lì ho cominciato, già ero “fiammato” per la chitarra ed evidentemente avevo una certa predisposizione, ma mi sono applicato parecchio». Tanto che nel giro di tre anni lo chiama a suonare con lui Giancarlo Crea, armonicista nei Model-T Boogie, un gruppo di Milano con cui resterà praticamente fino al ‘90.

Changer! Pistoia-Chicago, prima parte «Il nostro primo disco fu recensito benissimo: erano tutti brani originali e uno standard, e come ospite avemmo Rudi Rotta, che ai tempi non era nessuno ma che Giancarlo conosceva bene». L’album innesca un po’ di movimento: il rinnovato Pistoia Blues Festival sceglie i Model-T per rappresentare il blues italiano all’omologo festival di Chicago. È una sorta di gemellaggio/scambio: la banda prende l’aereo e vola a Chicago, con annes-so apparato di giornalisti (per la cronaca i vari Assante, Castaldo, Gentile...). Suonano sul leggendario “Muddy Waters Drive”, duettano con Phil Guy, conoscono Billy Branch, Otis Rush e Buddy Guy, rimanendo sempre «piuttosto flashati».

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Una foto storica,scattata a Chicago nel 1995: Nick (secondo da destra)con Keith Dunne i primi Serious FunBecattini d’annata sul palco di casa(Pistoia Blues, 1996)Nick con Buddy Guynel backstagedel Pistoia Blues 1989

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Pistoiesi all’estero

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Pistoiesi all’estero

Vi raccontola (mia) storia dell’Unione europea

ta dell’Europa, accompagnandola passo passo nella sua lenta, e allo stesso tempo velocissi-ma, trasformazione in Unione Europea. Oggi vive tra Parigi e Bruxelles, le due città da dove, per quasi trent’anni, ha fatto il corrispon-dente Rai, dal 1973 al 1976 per il Giornale Radio all’ombra del Louvre, dal 1976 fino al 2001 nella capitale belga per il Tg1. La sua carriera è un concentrato di storia con la S maiuscola. Lui c’era quando si celebrarono le prime elezioni a suffragio universale del Parlamento europeo, c’era quando la Grecia entrò in Europa, poi quando toccò a Portogallo e Spagna, c’era alla firma del trattato di

Maastricht, all’adesione di Finlandia, dell’Austria e della Svezia, agli accordi di Schengen. C’era e raccontava. Col suo microfono in mano e i ricci argentati che all’ora del tg sono entrati nelle case di milioni di italiani, con i suoi toni pacati, quasi delicati, in

quella squadra di corrispondenti formata da Paolo Frajese, Demetrio Volcic, Vittorio Citterich, Sandro Paternostro, entrati nel mito per le generazioni che oggi hanno dai trent’an-ni in su. Lui c’era e intervistava: la lista dei potenti della terra che ha conosciuto diretta-mente sembra tratta dall’indice analitico di un libro di storia contemporanea, Jacques Delors, Lorenzo Natali, il presidente Mitterrand, il can-celliere Schmidt e il cancelliere Kohl, Felipe Gonzalez e il presidente Soares che portarono alla democrazia europea la Spagna e il Portogallo, gli ultimi due paesi fascisti dell’Eu-ropa, Etienne Davignon.

Amici miei Lui c’era ma se gli chiedi un’intervista, un’in-tervista al “pistoiese famoso” Antonio Foresi, quasi si stupisce: “Famoso io? Non scherzia-mo. Dovete avere una concezione sentimen-tale della notorietà se considerate me un concittadino illustre. Famoso e importante è piuttosto un tipo come Roberto Poli, presiden-

UAND’ERA ragazzetto, subito dopo la fine della guerra, scorrazzava tra il chiosco che vendeva polenta fritta in via del Giglio e il caos della Sala e dei suoi cento meravigliosi profumi di

acciughe e aranci e baccalà e zucchero e salcicce e farina di castagne. Si divertiva a rubare loti dal cortile del parrocco di piazza dello Spirito Santo e si fermava affascinato in via degli Orafi, tra la vetrina di Bartolini e quel-la dell’Emporio Lavarini, e lì di fronte restava incantato dalla più bella bottega che potesse esistere di penne, inchiostri, matite colorate, lapis Fila, e gomme, quaderni con le copertine nere, fogli protocollo e fogli da disegno, compassi e righelli. Ogni mattina, prima di andare a scuola entrava nella chiesa di Sant’Andrea, si inginocchiava e pregava, pregava intensamente per-ché quel giorno non venisse interrogato, poi, per rendere il rito ancora più efficace, strofinava la cartella sulla testa del leone di marmo su cui poggia il pul-pito e di corsa ripartiva per andare a lezione.Ma certe volte a scuola, ai tempi del liceo, non c’andava neanche. “Studiare non mi piaceva. Più che altro giocavo a biliardo e a pallacane-stro. Era uno sport nuovo per quei tempi, praticato da pochi. La nostra classe ne aveva messi insieme solo sette. Per compensare io giocavo tantissimo. Passavamo ore in pale-stra, si entrava da un sentiero di piazza Mazzini, il pallone era bistondo più che sferi-co. Non che me la cavassi male sui libri, per carità, ma mi piaceva imparare, non studiare. Forse per questo ero amico dei migliori della mia classe, al glorioso Liceo Forteguerri. Speravo d’imparare per contagio”.

L’uomo della tvErano gli inizi degli anni Cinquanta e l’adole-scente Antonio Foresi non sapeva che sareb-be diventato l’uomo che avrebbe raccontato 25 anni di storia contemporanea all’Italia della tv, che avrebbe visto con i suoi occhi la nasci-

QAntonio ForesiGIORNALISMO IN PRIMA LINEA

Da piccolo mi piacevaimparare, non studiare.Per quello stavo semprecon i migliori della classe

al liceo Forteguerri:speravo d’imparare

per contagio

La macchina da scrivere“Lettera 32”, storico strumentodel giornalismo d’altri tempi:piccola e rumorosissima,viene associata a molte foto in cui viene ritratto Indro Montanelli

Giulio CorsiIl Tirreno

Qualche ragazza metteva fiori davanti all’inferriata, qualcuno accendeva torce improvvisate. I gruppi di giovani s’ingrossa-vano col passare del tempo, arrivava altra gente, i lavoratori della notte che finivano il turno, quelli che dovevano attaccare il loro”.

Giovani d’oggiMa fu soprattutto l’Europa. “Essere a Bruxelles in quegli anni — specialmente gli anni ‘80 della Commissione europea di Delors, Natali, Davignon, gli anni di Kohl e Mitterrand, dello stesso Andreotti, della stessa Thatcher, e di Felipe Gonzalez e della Spagna che usciva dal franchismo,

dei miei amici portoghesi che nascevano anche loro a nuova vita, gli anni di Altiero Spinelli al Parlamento europeo e della sua utopia ardente — era bellissimo, affascinante. Soprattutto per uno come me che aveva cominciato a interessarsi al “sogno europeo” quando non aveva ancora vent’anni. Si costruiva l’Europa, veramente, concretamente. I giovani di oggi — che attraverso l’informazione dominante, precaria e sciatta, hanno magari dell’Europa una visione tecnicisti-ca, mercantile, d’inerzia rissosa — forse non capiscono che cosa fosse, e che cosa significhi ora e sempre quella con-vivenza del tutto nuova in una unica

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Pistoiesi all’estero

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Pistoiesi all’estero

NTONIO FORESI è nato a Livorno nel 1938. Ma nella città dei Quattro Mori vive solo gli anni della primissima giovinezza. Suo padre Palmiro infatti, che a Livorno, fino al 1943, era stato professore, nel 1944 si trasferì prima a Baggio, sugli Appennini tosco-emiliani, e poi a Pistoia.

Qui Antonio Foresi fece le scuole medie e i primi anni del liceo, mentre suo padre, che in quegli anni era, oltre al resto, vice-presidente del Movimento europeo e suo Tesoriere (“Che a quei tempi — ricorda Foresi — voleva dire elemosiniere”), prima fondò la Democrazia cristiana di Pistoia, su incarico di De Gasperi, e poi ne fu deputato dalla Costituente in poi, fino al 1958. Antonio Foresi è entrato nel giornalismo nel 1958. Si è sposato con Luciana Serangeli nel 1962 (uccisa da un tumore nel 1999) e ha avuto un bimbo e una bimba. Oggi è nonno di tre splendidi nipoti. E’ stato assunto in Rai nel 1963. Carriera professionale abbastanza veloce alla redazione centrale del Giornale radio, “Senza lottizzazioni — sottolinea lui —, grazie alla benevola stima del direttore, Vittorio Chesi”. Dal 1973 è corrispondente per il GrRai a Parigi. Dal 1976 fino al 2001 è a Bruxelles per il Tg1. Ha assistito a una sessantina di vertici dei capi di stato e di governo della Comunità, a una dozzina di vertici della Nato, a un numero imprecisabile di riunioni ministeriali e sessioni parlamentari, mettendo in fila non meno di 25 mila servizi radiofonici e televisivi. Nel 2002 ha scritto il libro “Abc dell’Europa”. Suo fratello Pasquale, di nove anni più grande, è sacerdote e per il rilevante contributo da lui dato nell’attuazione del disegno concepito da Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, è stato da lei riconosciuto confondatore, insieme a Igino Giordani.

Voce e volto della Rai: una carriera da 25 mila serviziCHI E’

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Furono la tragedia di Melissa e Julie e la storia di Marc Dutroux, il pedofilo di Marcinelle. Fu la strage dell’Heysel e la morte di Re Baldovino. “La notizia si seppe solo la sera, io stavo seguendo una riunio-ne del Comitato monetario europeo, una riunione difficile, piuttosto burrascosa per la lira. Seppi di Baldovino e feci subito un servizio per il Giornale radio della mezza-notte, il primo nella mia carriera con un telefonino cellulare. Ma accadeva ben altro, quella notte. Le discoteche di Bruxelles cominciarono a chiudere i bat-tenti spontaneamente, e i ragazzi, senza nessunissima parola d’ordine, si portavano davanti al Palazzo reale, il Palazzo di città.

te dell’Eni. Anche con lui, come con Piergiorgio Caselli (ex presidente della Bcc Pistoia, ndr), ero compagno di classe alle scuole medie; dopodiché Poli, e probabil-mente anche Caselli, e di certo Vittorio Capecchi, andarono all’Istituto tecnico-commerciale, poi fecero Economia e Commercio, e poi hanno fatto una solida carriera, mentre io...”.Mentre lui dopo le scuole medie restò ancora tre anni a Pistoia, il tempo per fre-quentare il ginnasio al Forteguerri e iniziare il liceo, prima di seguire la famiglia a Roma dove il padre Palmiro, deputato della Democrazia Cristiana si era trasferito. E proprio nella città eterna il suo destino si incrociò col mondo del giornalismo. “Andai a Roma nel 1954, due anni dopo presi la maturità. E nel ‘58 facevo, svogliatamente, l’università. Mi ero iscritto a legge. Mio padre, vedendo che leggevo i giornali e soprattutto i giornali sportivi, molto più che i libri di testo, ebbe l’idea geniale e l’oppor-tunità di presentarmi al Tempo”. Sette anni dopo, nel 1963, quando Foresi compì 25 anni, arrivò l’assunzione in Rai.

Altro che sport“Era il settembre 1958 quando misi per la prima volta piede alla redazione sportiva del Tempo. Avevo 20 anni. Facevo la “bot-tega”, mi occupavo di tutto, ma soprattutto di atletica e tennis. Nel ‘60 passai a un quotidiano della sera con contratto da pra-ticante: mi fecero seguire anche le Olimpiadi

di Roma. Ero bravino e quando la Rai mi assunse, il 15 ottobre 1963, appena 6 gior-ni prima che nascesse mio figlio Simone, e venni assegnato non allo sport ma alla redazione generalista del Giornale Radio, soffrii e mi dimenai per mesi e mesi per tornare alle mie specialità professionali. Poi però mi innamorai degli Esteri, come tutti i giornalisti un po’ romantici, destinati a

fare poca carriera, o meglio una carriera laterale che raramente arriva alla vetta”.“Un giorno il direttore, Vittorio Chesi, uomo eccellente e raro, mi chiamò e mi disse che aveva scelto me per andare a Parigi. Era il gennaio 1973. Tre anni dopo, nella prima-vera del ‘76, entrò in vigore la riforma della Rai, che di fatto raddoppiava i posti e gli incarichi. Emilio Rossi del Tg1, altro gran-de Direttore, mi fece scegliere fra due sedi che rimanevano scoperte, Bruxelles e Bonn. A me interessava molto di più Bonn, la Germania, il Muro di Berlino, il confronto frontale con l’est sovietico. Ma i miei figli avevano già dovuto subire un bel cambia-mento da Roma a Parigi e quindi per loro era più facile passare a una città sostan-

zialmente francofona, e in fondo di pic-cole dimensioni, come Bruxelles. E mia moglie Luciana, donna stupenda se posso dirlo fra parentesi, a Bruxelles aveva una madrina carissima”.

Tragedie e doloriFu l’Europa, la Cee, la Nato. Non solo: furono anche gli italiani, i minatori italiani che celebrarono i 25 anni, poi i 30 anni e poi i 40 anni della catastrofe di Marcinelle, “quella povera gente — ricorda Foresi — che l’8 agosto del 1956 aveva salvato tantissimi compagni di miniera, ma tan-tissimi ne erano morti, 282, per l’esplo-sione di grisou, al pozzo del Cazier du Bois. I superstiti, sopravvissuti non solo alle tragedie minerarie ma alla quotidia-nità delle miniere di carbone, quasi tutti coi polmoni calcificati dalla silicosi, uniti sempre da una solidarietà eccezionale, fraterna, al di là della morte, venuti in Vallonia e nel Limburgo, dal ‘49 in poi, in virtù di un accordo fra il Belgio e l’Italia: il Belgio garantiva la fornitura di carbone per la nostra ricostruzione dopo la guer-ra, l’Italia garantiva braccia, gambe, pol-moni per estrarre carbone in fondo alle viscere della terra…”.

01 Antonio Foresi (a sinistra) stringe la mano a Jacques Delhors, politico ed economista francese: nell’occasione furono premiati col “Motta Editore”, uno dei riconoscimenti italiani più importanti a livello eurpeo. Foresi vinse il premio per il giornalismo televisivo.

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Assunto a 25 anni,lavora per radio e tg.

Nel 1976 viene trasferitoa Bruxelles come

corrispondente per la nascitadi “una grande casa”

Una splendida immagine “serale”della piramide di vetro del Louvre:

a Parigi, Foresi ha vissutola prima esperienza

da corrispondente Rai

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Pistoiesi all’estero

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Negli ultimi tempi è tornato a Pistoiauna o due volte all’anno,

anche se dice: “Forse non sonoa casa mia da nessuna parte,

ma sono a mio agio dappertutto”

uno si ritrova ad affacciarsi alla finestra del proprio salotto e non sapere qual è esatta-mente la sua casa, il suo panorama, i rumori, i suoni, le luci, i profumi delle sue abitudini. “E’ un mestiere difficile solo per chi non ne ha la vocazione, ma stancante sì, molto, per chiunque. Un telespettatore non ha idea di quanto lavoro ci sia alla base di quel minuto e venti secondi che gli passa davanti agli occhi. Però è un mestie-re bellissimo. Gli ho dedicato molto, a scapito della famiglia. Ma gli devo una vita, in fondo rara, di globetrotter privilegia-to. Forse non sono veramente a casa mia da nessuna parte, nemmeno a Parigi e Bruxelles, le due città dove vivo di fatto da quasi quarant’anni, però, dopo una vita così, sono a mio agio dappertutto, ormai posso dirlo con convinzione. E in certi casi perfino felice di esserci. Lisbona, per esem-pio, è una città d’incanto e le voglio bene come a una fidanzata. Lussemburgo, le graziosissime case del XIX secolo, i bastio-ni, le rive della Mosella: sembrerebbe un

paese di Lehar, se non fosse una formida-bile piazza finanziaria. L’Islanda, Reykjavik, una bellezza impressionante, l’area di scontro geologico fra la piattaforma euro-pea e il continente americano, la patria della primissima democrazia parlamentare della nostra era, e l’unico paese scandina-vo in cui si mangi decentemente (probabil-mente perché fu evangelizzato da frati irlandesi). Budapest, che ho avuto la fortu-na di conoscere prima che svendesse l’anima e il corpo. Madrid. Praga…”.

L’Accademia dei RitrovatiE poi c’è Pistoia. “Negli anni scorsi, era l’inizio di questo millennio, ho ripreso a frequentarla più spesso e così ho legato rapporti di simpatia con altri, Roberto per esempio, con cui è gradevole passeggiare parlando di olivi e politica. Una o due volte l’anno. Una riscoperta abbastanza recente è Umberto, un luminare in pensione, gastronomo e juventino: che vuoi di più da un’amicizia?! E non dimentichiamo l’Acca-

demia dei Ritrovati e il suo cenacolo che si riunisce a settembre. Curiosamente, in quei giorni, piove sempre a dirotto. E’ in un’occasione così, a Villa Groppoli, che ho rivisto il Bazzini, di cui si può fare il cognome perché è uomo di cinema, di teatro, di cabaret. Ha anche scritto un libro sulla generazione degli sfavati pistoiesi di allora, il Globo, l’inerzia, le fughe, i fal-limenti, un quadro senza ipocrisie di una certa Pistoia e di una certa genera-zione, tragico, divertente solo nella forma. Bazzini è uno di quelli con cui giocavo a biliardo, o a carte. E sa poi chi vedo regolarmente? Aligi, che nel ‘44-45 fu il mio capobranco, Akela, come si dice, quando ero lupetto negli scouts, subito dopo la guerra. E siccome è un ottico eccellente e di una grande genti-lezza, prendo l’occasione per farmi gli occhiali da lui. Adesso basta, mi tolga la parola”.Fatto. Però che spettacolo…

“grande casa” per dirla con parole di allora, fra popoli che appe-na trent’anni prima erano usciti da due millenni di guerre disa-strose, che da ultimo avevano vissuto il fascismo, il nazismo, avevano conosciuto il martirio di intere etnie. Nel 1988, a Hannover, il cancelliere Kohl lanciò il progetto della moneta unica europea e di polizia federale europea che è ancora da realizzare. Nel 1989, il muro di Berlino crollò per le spallate delle nostre democrazie occidentali, il leninismo-stalinismo, l’altro mostro del XX secolo, incarnato dall’Unione Sovietica, dovette arrendersi, e finito l’equilibrio del terrore al quale aveva costretto l’umanità si sbriciolava. Certo, era bellissimo essere giornalista, allora, a Bruxelles. Poi ci sono stati gli anni ‘90, la costruzione diventava più difficile, la demagogia dell’allargamento a tutti i costi comportava l’in-gresso prematuro nell’Unione europea di nazioni ancora estra-nee alla cultura comunitaria. Ma finalmente nel 1998-99 siamo arrivati alla nascita dell’euro. E strada facendo ho avuto la fortu-na di conoscere un altro statista di livello raro come Carlo Azeglio Ciampi, e con lui un uomo sicuramente fuori del comune come il professor Draghi”.

La mia PistoiaI ricordi di Foresi sono una pioggia di cronaca-storia-retroscena ma anche di amicizie-affetti-sogni. E così dal racconto quasi leggendario di un’intervista a Mario Soares (“La prima volta lo intervistai quando ero ancora di stanza a Parigi, prima che diventasse primo ministro, e ben prima che diventasse presi-dente della Repubblica. Fu all’indomani del 25 aprile portoghe-se, nel 1974, cioè subito dopo che il Movimento das Forças Armadas aveva rovesciato il regime fascista. Lui stesso, all’epo-ca, viveva a Parigi. Lo intervistai in aereo, una rumorosissima Caravelle delle linee interne, mentre si andava a Clermont Ferrand per il congresso del Partito socialista francese, basta un attimo per tornare a Pistoia, a compagni di classe salutati 60 anni fa ma ancora vivi nella mente: “Ho ancora un paio di foto-grafie di classe, alle medie, la classe della professoressa Chiti Santoli. Uno dei compagni era Piergiorgio Caselli, che pochi anni fa è stato presidente della Banca di Pistoia. Tanti anni prima era la Cassa Rurale e Artigiana e mio padre, diciamo dal 1945 al 1960, ne fu una specie di nume tutelare. Fu Piergiorgio, ricordo benissimo, in un pomeriggio dei primi di gennaio, a insegnarmi a mangiare il finocchio crudo, nell’orto di casa sua, sul viale Arcadia. Piergiorgio, Vittorio Capecchi, Roberto Poli e sua cugina Gabriella, ragazzina bellissima allora, di cui un po’ tutti a 12-13 anni eravamo innamorati, tutti molto bravi alle medie, anziché andare al liceo come imponeva l’abitudine della buona borghesia, presero saggiamente l’Istituto tecnico per ragionieri. Io invece seguii un’altra strada. Ho anche una foto-grafia della prima liceo, col professor Raffaello Melani che inse-gnava il greco come un bonario dio dell’Olimpo. Da qualche

parte esiste la foto di un gruppetto di noi all’Abetone. E una foto della nostra squadra di pallacanestro. Mi piacerebbe incontrarli tutti di nuovo, quelli delle fotografie. Chissà che non sia possibile, un giorno. Di alcuni ho in memoria il viso, di altri il nome. Capita che se m’incrociano, a Pistoia, mi salutino con tanta effusione. Ma spesso capita che io lì per lì non li riconosca e loro ci rimangano

male come se fossi uno snob. Se dipendesse dall’affetto che ho per loro e per quegli anni, non avrei nessuna difficoltà a ricordarmi di tutti e di ciascuno. Ma l’età impone le sue tare e comunque non ho avuto occasione di vederli in tv come loro, suppongo, per anni mi hanno visto e rivisto. Però mi piace-

rebbe riabbracciarli tutte e tutti. Di loro mi vedo ancora, anche se non spessissimo, con qualche compagno di sessant’anni fa o poco meno: Emilio, Faele e un po’ più Patrizio. Vedevo abbastan-za Vanni, poi è morto, purtroppo. D’altronde siamo alla stagione delle foglie gialle”.

Amori di una vitaRoma, Parigi, Bruxelles. Ma le origini non si dimenticano. E ogni tanto è bello tornare a casa. Anche se poi, con un mestiere così,

Il palazzo del Parlamentoa Bruxelles: dopo avercilavorato a lungo, Foresiha deciso di viverenella capitale belga

Antonio Foresicon i suoi nipoti:

da sinistra, John Paul,Francesca e Flavia

Simone TrinciLa Nazione

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01 Ormai da qualche anno, le cioccolatedella provincia vengono venduteanche in molti Paesi stranieri:Germania, Austria, Canada e Usa.Più recente lo sbarco in Australia e Cina

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Tradizioni

ricavarsi una piccola nicchia di vendita nell’ultraesigente Svizzera.In virtù di una tradizione di più lungo corso, a livello italiano, i maggiori produttori riman-gono i piemontesi. Seguono, sempre limi-tando lo sguardo quantità commerciate, gli umbri. Ancora poche lunghezze ed ecco arrivare i toscani. E’ proprio a livello regio-nale che la cioccolata pistoiese sta conqui-stando le prime file. Assicurano quelli che se ne intendono, che il “segreto” sta pro-prio in quella che apparentemente potreb-be essere vista come una debolezza del sistema. E’ la varietà, la produzione di qua-lità, rispettosa delle vecchie e buone “rego-le” di una volta, ad aver fatto la fortuna della cioccolata pistoiese. Così la bontà è assicurata: niente ogm, pasta di grassi idrogenati e lecitina.E’ anche per questo che quando, nel 2000, l’Europarlamento approvò la disposizione che ammetteva la fabbricazione con l’ag-giunta di grassi vegetali, i pistoiesi rispose-ro con una scrollata di spalle: “Tanto qua puntiamo più in alto. La battaglia per la conquista della grande distribuzione di massa ci vede fuori dalla mischia”. “In zone come il Piemonte – spiegano gli esperti –, dove in effetti esiste una tradizione di vec-chia data che da noi non abbiamo ancora maturato, vengono utilizzati sistemi indu-striali. Non così nella nostra provincia, dove ancora operano alcuni piccoli laboratori, aziende di dimensioni ridotte, con strumenti di lavorazione tradizio-nale, che malgrado tutto sono riusciti a farsi conoscere e apprezzare dentro e fuori i confini naziona-li”.Quella che viene chia-mata “chocolate valley” è una realtà ben diversa anche dai distretti artigianali “clas-sici” che hanno fatto la fortuna dell’econo-

mia toscana degli anni passati. Fra le aziende ci sono poche trasmis-sioni di conoscenze, informazioni, tecniche e addetti (poche deci-ne in tutto, in diversi casi donne, perché per l’arte della cioccolata ci si ama affidare alla delicatezza della mano femminile, “più morbi-da e leggera”). Limitate anche le occasioni di

incontro e confronto fra esperti. I diretti interessati raccontano che convegni di artigiani ce ne sono pochi. Malgrado que-

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Tradizioni

sto, in alcune occasioni sono stati organiz-zati corsi di formazione, anche grazie alle associazioni di categoria, che come inse-gnanti hanno visto proprio alcuni dei più conosciuti artigiani locali”. “Il nostro è un lavoro creativo, affidato a sapienza ed esperienza. Ciascuno è un po’ geloso dei propri segreti – ammette qualcuno –. Non esiste nemmeno un mar-chio unico, che forse servirebbe a caratte-rizzarci rispetto alle altre zone di produzio-ne. Forse è anche uno sbaglio”. Ma forse

Non siamo industrialima la cioccolataè il nostro mestiere

L’ARTE DEL GUSTO

In provincia non c’è una produzionedi vecchia data. I piccoli laboratoripuntano su qualità e varietà

A CHE c’azzecca Pistoia con la cioccolata? Domanda legittima, ma per chi conosce bene tradizioni ed economia, presente e passato della nostra provincia, la risposta è scontata: “C’entra

eccome”. Perché col derivato del cacao, i pistoiesi hanno ormai un legame consolidato da decenni di produzione di prima quali-tà. Praline, cioccolatini, fondente, al latte, bianco, ricavato da piante africane o sudamericane, amaro, amarissimo, per guarni-re dolci o da accompagnare a un buon bicchiere di rosso. A forma di conchiglia, di bastoncino, di cuore (di quelli che vanno a ruba per San Valentino), di spicchio di luna, di cucchiaino. Sculture di galeoni, fontane, pinocchi giganti. Venduto sfuso o in confezioni, al peperoncino, alla menta, al caffè, all’arancia, con mandorle, noci, ripiene di liquore, caffè o vino…La varietà della produzione locale è pressoché infinita e ben poco ha da invidiare ai maggiori, e forse ancora più conosciuti, competitori nazionali e internazionali. Tant’è che con Roberto Catinari, il “mastro cioccolataio” di Agliana, o con Andrea Slitti di Monsummano Terme, il prodotto pistoiese è perfino riuscito a

M Tra i pochi addetti(una decina)

ci sono diverse donne: spesso è meglio affidarsi

alla manofemminile,

delicata e leggera

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nosciuto ai nostri Maestri. Ma Pistoia vuole di più e punta con sempre maggiore con-vinzione all’estero. Oltre alla Confederazione elvetica, da qualche anno le cioccolate della provincia vengono vendute in botte-ghe, negozi e supermercati di Paesi come Germania, Francia, Canada, Stati Uniti e Australia. Più di recente la golosità pistoie-se è sbarcata in Cina (dove per esempio

no. Almeno a giudicare dai risultati non si direbbe. Malgrado tutti i limiti della fram-mentazione, negli ultimi anni zone come Monsummano sono diventate una sorta di piccola attrazione turistica, con visitatori da ogni parte del mondo alla ricerca delle bontà del luogo. Zaino in spalla, buongu-stai golosi passano dal ristorante alla bot-tega del cioccolataio in un battibaleno. “Si

tratta di una sorta di itinerario alternativo a quello del Chianti – dice Andrea Slitti – per turisti ormai stanchi dei soliti posti. Se que-sta realtà venisse presa sul serio – continua –, con i dovuti accorgimenti anche da parte della Regione, potrebbe rappresentare davvero un’ottima opportunità di sviluppo per il territorio”. Secondo alcune stime di Confartigianato, in Italia la produzione di

dolci e derivati a base di cacao supera le 300 mila tonnellate. Il valore delle produ-zioni cioccolatiere si aggira intorno ai 3mila milioni di euro. Ogni anno gli italia-ni (e così i pistoiesi) consumano oltre 250 mila tonnellate di prodotti a base di cioccolato per un consumo medio proca-pite di 4,26 chili ogni anno. Il mercato nostrano è succulento e certo non sco-

l’emozione quando vinsi la medaglia d’oro”. Poi tornò a Bardalone, dove si sposò e mise a frutto la sua esperienza nel settore. “Esatto. Decisi di mettermi in proprio e cominciai a racimolare soldi per comprare macchinari e strumenti: pochi mezzi, due scioglitori e

qualche stampo per coniglietti, di quelli che gli svizzeri buttavano via. Avevo pochi soldi, solo per i mobili, gli altri guadagni li avevo consegnati al babbo per pagare qualche debito. Ma anche mio padre mi aiutò. Mi fece gestire la pensione di famiglia e con quei soldi, mia moglie e io, a fine agosto ci mette-vamo a fare la cioccolata. Feci il mio bravo campionario, lo misi in una valigia e cominciai a girare per la Toscana: Pistoia, Prato, Siena. Chiudevo la porta del negozio a Bardalone e ci mettevo un cartello: “Oggi sono assente”. Durante quei giri, un giorno conobbi il Trinci, commerciante in caffè che mi convinse ad aprire un negozio in pianura”. Ad Agliana?“Proprio lì, dove la mia Cioccolateria Catinari si trova ancora oggi con otto dipendenti più tre o quattro a rinforzo durante i periodi pasquali e natalizi”. Le sue specialità?“Ne ho tante: cioccolatini al cognac, al rum, al limoncello, allo champagne,

alla torta di pan di Spagna imbevuta di cacao, tavolette di fondente. Sono anche conosciuto per il mio Pinocchio di cioccolato realizzato per le mostre di settore. Oggi mi danno grandi soddisfazioni le tavolette al gusto Sao Tomè ricavate con il seme di una pianta delle isole africane: sono fra le specialità più richieste”. Esiste un erede Catinari?“Non ho figli. Ma in questi anni ho tirato su un ragazzo molto bravo che lavora con me. Si chiama Alessandro Ratto”.

CONSIDERATO, e a buon diritto, il padre dei maestri pistoiesi della cioccolata. E’ stato lui, negli anni settanta, a portare nella nostra provin-cia i segreti appresi in anni nella terra della

lavorazione del cacao. Roberto Catinari, originario dell’Appennino pistoiese, oggi ha 73 anni, ma ancora ricorda benissimo i suoi esordi svizzeri quando venne “folgorato” dalla voca-zione. Per tanti aspetti, la sua vita ricorda una favola dolce. Come fu il primo incontro con la patria del cioccolato? “Durissimo. A soli 17 anni, dovevo sgobbare tutto il giorno per mettere insieme il pranzo con la cena. Nel forno dove lavoravo, i pasticceri facevano i dolci e io infornavo. Mi mancavano il sole, l’allegria, avevo la bocca sempre arsa. Per cinque anni ho fatto soltanto questo o il lavapentole. Poi finalmente un giorno il padrone mi chiamò, asse-gnandomi al settore della cioccolateria”. E cosa accadde?“Smisi di pulire pentole, ma continuai a sgobbare. Se gli altri lavoravano 40 ore, io ne facevo 50. Ed alla stessa paga: 150 franchi, mentre gli altri pasticceri ne prendevano 800. Poi, dopo un po’, il proprietario mi fece diventare cioccolataio e presto diven-tai caporeparto: questo lavoro ce l’avevo nel sangue. La mia situazione cominciò a migliorare, avevo una casa, comprai per-fino un’automobile”. Quando la svolta?“Nel 1973. Fu organizzato un grande concorso di cioccolatieri a Zurigo. Bisognava fare un pezzo di cioccolata. Io decisi di parte-cipare preparando un torchio toscano tutto di cioccolato. Lavoravo la sera dopo il lavoro, ci misi una settimana. Ricordo ancora

C’era una volta in Svizzera

Slitti è già presente con due negozi e un terzo prossimo a venire) e perfino negli Emirati Arabi, dove gli impianti d’aria condi-zionata sempre al massimo, nei locali di lusso che servono “il cibo degli dei”, evitano che la cioccolata mantenga forme e fre-schezza. Buona parte dell’affermazione a livello internazionale è da ricondurre pro-prio al taglio artigianale della cioccolata

pistoiese. In Piemonte l’uniformità è mag-giore e punta sulla quantità, la produzio-ne nostrana vince grazie alla diversità, alla varietà. “L’assortimento è grande, i prodotti ottimi, anche se limitati a poche tonnellate l’anno – conclude Catinari –. Non so se convenga trasformare l’arti-gianato pistoiese in industria”. E se lo dice lui, buon cacao meravigliao a tutti.

E’ Gran Prix international de la chocolaterie, che si svolge ogni due anni a Parigi. Nel 1994 sono salito sul podio parigino, grazie a una composizione che rappresentava un carrillon dove fu stata collo-cata, come nella stanza di un bambino, un’infinità di giocattoli. L’anno seguente sono stato inserito nella guida ‘The chocolate

companion’, come uno degli otto cioc-colatieri più bravi del mondo. Ancora un anno e ho vinto l’oro alle Olimpiadi culinarie a Berlino con una scultura alta un metro che raffigura lo scorcio di un galeone”. E per venire a successi più recenti?“Gold bar per il ‘best spreading cream ‘Gianera’, gold bar per il cioccolato ‘Lattenero’, e ancora gold bar per le ‘best pralines, coffee bar’. Tutto nel 2009”. Quali i progetti, oggi?“La realizzazione di un’area di 11mila metri quadri, dove troveranno spazio nuovi laboratori di produzione del ciocco-lato e del caffè su una superficie di 2mila metri quadri, nel pieno rispetto dell’am-biente e del risparmio energetico”. Altri dettagli?“E’ un percorso ideato per sviluppare i cinque sensi, che permetterà di osser-vare la produzione attraverso delle vetrate, il tutto avvolto da profumi di cacao tostato, caffè e vaniglia, mentre musiche di luoghi lontani aiuteranno a

respirare l’atmosfera dei paesi d’origine. Non mancherà una gran-de sala per degustazioni in gruppo o la ‘Camera del Gusto’, stan-za da sei posti, insonorizzata che, con effetti speciali, vi condurrà in una degustazione al cuore del prodotto. E poi ci saranno sale show room, una sala da pranzo panoramica e una terrazza sopra la torre”. Naturalmente nascerà a Monsummano.“Naturalmente. Per l’estero, abbiamo in mente progetti in Australia”.

A STORIA del cioccolato può nascere dal caffè. Ladimostrazione? Nelle fortunate vicende della Slitti di Monsummano. Quello che oggi è conosciuto da tutti come il “cuore di cacao” della Valdinievole, è infatti

nato nel 1969 dalla torrefazione di Luciano che “stanco di servi-re nel suo locale un caffè che non losoddisfaceva, pensò bene di farseloda sé”. Fu in quei locali che il figlio Andrea, assieme a suo fratello Daniele, cominciò a muovere i primi passi nelsettore che gli ha regalato tante soddi-sfazioni. Un ambito in cui si è aggiudi-cato numerosissimi premi e ottenutoriconoscimenti a livello internazionale,anche grazie alle sue sculture di cioc-colata: antichi “sveglitori” monastici con tanto di ingranaggi, fattorie, giochi, galeoni e pirati. Slitti, come inizia l’avventura?“Con l’acquisto dei primi libri per docu-mentarmi su tutto quello che riguarda il cacao: l’idea di abbinare il caffè a un altro prodotto coloniale mi affascinava e nel 1988, due anni dopo aver inaugura-to la nuova sede della torrefazione con un negozio di vendita, decisi di attrezza-re un piano dell’edificio con un laborato-rio per la lavorazione del cioccolato”. Un percorso in discesa?“In realtà sono stati necessari tanto impegno e lavoro. Ma fin da subito i nostri prodotti si sono fatti conoscere per la ricercatezza qualitativa ed estetica, e le riviste specializzate hanno cominciato a occuparsene”. Quando ha capito di aver veramente “sfondato”? Quando il suo primo successo internazionale?“Nel 1993, convinto da alcuni colleghi, ho partecipato al Concorso internazionale di Laragne, in Francia, aggiudicandomi la meda-glia d’oro e conquistando il diritto a partecipare alla finale del

Dal caffè alle scultureL

Roberto CatinariHa iniziato come lavapentole nella patria del cacao“La mia specialità è fatta con un seme africano”

Andrea SlittiTutto ha origine a Monsummano. “E ora, dopo la Cina,faccio sbarcare i miei prodotti anche in Australia”

Anna AgostiniBibliotecaria e ricercatrice

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da questo atto, forse non molti concittadini del Fabroni sanno che nella loro città è custodito uno dei più begli esempi di biblioteca settecentesca, un gioiello sia per la particolare configurazione archi-tettonica sia soprat-tutto per il ricco patrimonio librario, un luogo che sem-bra non esser stato toccato dal tempo. Sulla piazzetta trian-golare che affianca la chiesa di S. Filippo, una solenne entrata ci immette alla Fabroniana. Sulla porta un’arme in marmo, all’interno di un timpano rovesciato in pie-tra serena, ricorda la statura del fondato-

re: l’opera dello scultore carrarese Andrea Vaccà riproduce, infatti, lo stemma della nobile famiglia Fabroni con sopra un cap-pello cardinalizio, a monito della esaltante

carriera di Carlo Agostino, pistoiese di nascita, che riu-scì a ricoprire a Roma importanti incarichi fino a esse-re eletto cardinale nel 1706.Uno scalone monu-

mentale, decorato con vedute romane, conduce al secondo piano dove, dietro un’elegante porta dipinta a tromp l’oeil, si apre, al tintinnio di un campanello, l’antica sala di lettura. La sala colpisce per la sua

Offerta nel 1726 da Carlo Agostino Fabroni,la biblioteca è un gioiello della cittàper bellezza architettonica e ricchezza di patrimonio:14 mila volumi, soprattutto di materia religiosa

FabronianaDono di arte e sapere

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Ballatoio dellasala bibliotecaParticolare della solenne entrata della Fabroniana Geographie Blavianse, Amsterdam, 1662

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Noi Carlo Agostino [...] Cardinale Fabroni avendo avuto sempre in animo di lascia-re alla città di Pistoia dilettissima nostra Patria qualche sicuro argomento del nostro amore verso di lei, che potesse essere [...] di publico, ed universale vantaggio, ed onore a tutti li nostri Cittadini [...] abbiamo creduto di non poter in miglior modo giungere à fine del nostro disegno [...] che col lasciar ad universal beneficio de medesimi la nostra Libreria [...].

ueste le parole del prelato pisto-iese nella sua donazione del maggio 1726 alla Congregazione dei preti dell’Oratorio di S. Filippo Neri. Oggi, a quasi trecento anni

Ampi finestroni illuminanol’antica sala lettura:

volontà precisa del prelato che non amava

l’oscurità della Sapienza

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I LATI della porta che immette nella sala antica della Fabroniana, si trovano due importanti gruppi marmorei: La Nascita e La deposizione (nella foto) di Agostino Cornacchini da Pescia. Si tratta di due delle più poetiche

opere eseguite dall’allievo del Foggini che, trasferitosi definitivamente a Roma nel 1722, divenne uno degli scultori più apprezzati nell’Urbe. Le due opere furono eseguite a Roma tra il 1714 e il 1716 e facevano parte della collezione romana del Fabroni. Nelle sculture, realizzate da Agostino in gioventù, si rintraccia un forte legame con la cultura fio-rentina di primo Settecento, i dettagli naturalistici di piccole dimensioni, il senso intimistico che manca nella maggior parte della scultura romana, della quale, peraltro, si notano influssi. Il tono della scena della natività è dolce e familiare, la Madonna ha un bellezza mite e rivela un sorriso appena accennato, ma è ambientata architettonicamente e trae ispirazione dal presepio romano. I due gruppi, del tutto sconosciuti al pubblico pistoiese, sono stati esposti in prestigiose mostre quali “Art in Rome in the eighteenth century” svoltosi a Philadelphia e Houston nel 2000 e la recente “Il Fasto e la ragione” presso la Galleria degli Uffizi nel 2009.

Una scena dolce e familiare, sconosciuta ai pistoiesiLE SCULTURE

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e di co-estensore della Bolla Antigian-senistica Unigenitus Dei Filius. Tra le carte del cardinale si conservano lettere in origina-le delle Missioni in Cina tra la fine del XVII e gli inizi del XVIII secolo e preziosi inediti riguardanti le procedure tenute da Roma contro le proposizioni di Quesnell. Come tutte le biblioteche fondate da grandi personaggi, anche la Biblioteca Fabroniana conserva un patrimonio librario che copre tutti i rami dello scibile, costituendo un importante spaccato di un periodo storico e della sua cultura. All’originaria donazione del Fabroni consistente “in circa Due mila quattrocento volumi in folio, in mille otto-cento cinquanta in quarto, et in due mila quattrocento sessanta in altri sesti, appar-tenenti a Teologia Scolastica, Morale, e Dogmatica, Istoria si ecclesiastica, come profana, Geografia, Filosofia, Matematica, Filologia, ed ogni altra sorte di varia erudizione sacra e profana” dobbiamo aggiungere tutti i libri acquistati dal Cardinale dal 1726 alla morte (1727) e tutti quelli acquisiti per volere del donatore “secondo la scelta [...] del Bibliotecario”. Se diamo un’occhiata ai vari inventari redatti nel corso degli anni ci accorgiamo che que-sti acquisti furono mirati soprattutto a completare opere già in

possesso del cardinale.Un notevole incremento delle collezioni si ebbe invece nel corso dell’ottocento grazie soprattutto alle soppressioni di ordini; confluì così nella Fabroniana la Biblioteca dei Padri Filippini e una parte

di quella del Convento dei frati francescani di Giaccherino. Attualmente il patrimonio librario è di circa quattordicimila volumi e conserva la peculiarità voluta dallo stesso donatore: una particolare attenzione alla materia religiosa, con edizioni della sacra Bibbia di secoli diversi, storie ecclesiastiche, breviari e testi liturgici in varie lingue, regole di ordini monastici, studi agiografici, opere concernenti la Sacra Rota, il giansenismo, il Concilio di Trento, con un ampio fondo

umanistico comprendente classici latini e greci, opere di storia e storia dell’arte, testi giuridici e un più ristretto nucleo scientifico. Scorrendo i libri delle presenze, infine, si notano i nomi di grandi e rinomati studiosi, non solo italiani, che nel settecento e nell’otto-cento visitarono la Fabroniana, e una nota recente, assai curiosa, lasciata dall’assistente regista del film “Oci Cjorne” che, dopo aver girato una scena sul suggestivo ballatoio della biblioteca, scriveva: Sorpreso e meravigliato. Grazie.

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straordinaria luminosità, ottenuta grazie all’impiego di ampi finestroni che, come si rileva dalle testimonianze d’archivio, fu una scelta dettata dal Fabroni stesso, che si lamentava dell’oscurità della biblioteca della Sapienza. Lasciata la sala di consultazione ecco la biblioteca vera e propria. Lo spettacolo che si apre è suggestivo: se per un attimo igno-riamo la luce elettrica e altri piccoli conge-gni moderni, l’atmosfera è settecentesca.

Niente o quasi è cambiato da allora. I libri conservano le legature originali, nei caldi colori della pergamena e del marocchino, sprigionando un gradevole odore di carta antica: sono disposti in scaffalature di noce intagliate, sormontate da un ballatoio prati-cabile che circonda tutto l’edificio, e che contiene altri libri.Al di là della bellezza architettonica dell’edi-ficio, dei preziosi arredi e delle opere d’arte in essa contenuti, ciò che contribuisce a

fare della Fabroniana una biblioteca “unica” nel suo genere è il ricco patrimo-nio documentario che custodisce. Uno dei pregi maggiori sta nella conservazio-ne, pressoché integrale, dell’archivio personale di un eminente uomo di chie-sa. Gran parte dei manoscritti e dei volu-mi a stampa, riguardano i problemi diplo-matici e teologici alla cui soluzione aveva concorso il Fabroni in qualità di Segretario della Congregazione di Propaganda Fide

ATTO DI DONAZIONE, rogato il 26 maggio 1726, festa di S. Filippo Neri, e convalidato con Breve Apostolico del 31 maggio 1726 da Benedetto XIII, è un documento estremamente interessante:

emergono da un lato le motivazioni di ordine culturale che avevano spinto il cardinale al munifico gesto, ma soprattutto vi sono dettagliate e precise prescrizioni per la vita della biblioteca. Quello che più colpisce è la disposizione relativa alla successione della proprietà in caso di estinzione della Congregazione. Scrive il Fabroni: E perché è proprio delle cose umane l’andar col tempo, mancando, e venire a fine perciò prevedendo Noi il caso, che fossi mai per accadere che la Congregazione di S. Filippo Neri di Pistoia venis-se a mancare […] totalmente per qualsivoglia caggione […] intendiamo, che in tal caso succeda nella proprietà, e custodia di detta nostra Libreria […] il degnissimo Capitolo della Cattedrale di Pistoia. Certo, il Fabroni non poteva prevedere le soppressioni ottocentesche, ma sta di fatto che nel 1808, soppressa la Congregazione dei Filippini, il possesso della Fabroniana passò al Comune di Pistoia, che dovette però cederlo all’indomani della caduta del regime napo-leonico al Capitolo della Cattedrale, ottemperando alla volontà del Fabroni che, con la sua lungimiranza, aveva evitato lunghe e intrigate questioni di eredità. Ancora oggi grazie alle dettagliate regole imposte dal cardinale e alla generosa dote del prelato, la biblioteca vive di fondi propri ed è amministrata dal Capitolo della Cattedrale di Pistoia. Il direttore, scelto per volontà del fondatore, in ambito ecclesiastico, è attualmente il canonico Aldo Magnarelli.

Non solo generoso. Il cardinale era lungimiranteL’ATTO

L’

Atto di donazione della Biblioteca del Cardinale Fabroni

Tetravangelo GrecoMS 307, Tetravangelo greco, c. 101 r.Nella miniatura all’interno di una cornice polilobata è rappresentato l’evangelista Marco.

Manoscritto S.StefanoD. Fabroni, Viaggi fatti sopra le galere, frontespizio

AdrastoGiulio Rospigliosi, Adrasto, c.1 Si tratta dell’autografo originale della tragedia scritta dal Rospigliosi, Papa Clemente IX.

Tra i visitatori illustri,anche un assistente regista

del film “Oci Cjorne”che, girata una scena sul ballatoio, scrisse:

“Sorpreso e meravigliatoGrazie”

La facciatadella Fabroniana,

nella piazzettatriangolare che affiancala chiesa di San Filippo

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I TESORI VERDI DA SCOPRIRE

La memoria

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N EL XVIII SECOLO, all’interno della mura cittadine, erano presenti moltissime aree a verde, si stima che il numero

di giardini, orti, e “vigne murate” potesse raggiungere, includendo anche le pro-prietà ecclesiastiche, il numero di cento; elenco che dà soltanto una parziale idea della ricchezza di coltivazioni, frutti, erbe e ortaggi prodotti all’interno della città: erano un vero e proprio tesoro nasco-sto. Ciò che si legge oggi della città storica sono strade, piazze e i prospetti monumentali dei grandi palazzi, dei complessi conventuali e delle chiese; in realtà ognuno di essi aveva un ampio spazio verde che, in alcuni casi, ha con-dizionato lo sviluppo di interi comparti urbani. Ogni giardino ebbe caratteristi-che diverse e coniugò gli spazi del dilet-to a quelli dell’utile partecipando alla vita dei proprietari.L’architettura dei palazzi gentilizi è pro-fondamente legata alla storia dei loro giardini. I proprietari potevano mostrare il ruolo sociale e le capacità economiche della famiglia non solo costruendo edifi-

ci che si attestavano nei luoghi presti-giosi della città ma anche realizzando, quando possibile, preziosi giardini, com-plemento e scenario del palazzo cittadino.Ingegnose soluzioni erano attuate per sfruttare nel modo più scenografico pos-sibile spazi di terreno anche minimi,

vincolati dalla presenza di proprietà con-finanti o da condizioni particolari del terreno. Il padrone di casa come accom-pagnava i propri ospiti a visitare la qua-dreria, dove facevano mostra di sé i quadri di pittori famosi e le collezioni di anticaglie, così li conduceva in giardino

dove faceva ammirare le collezioni di agrumi, i vasi di fiori disposti lungo i percorsi e dove si poteva sostare sotto un pergolato, molto spesso costruito come una vera e propria architettura e caratterizzato da colonne o pilastri sopra i quali erano impostate coperture o strut-ture complesse costituite da rampicanti che offrivano agli ospiti fiori o frutti a seconda dei periodi dell’anno.Non soltanto le famiglie nobili potevano permettersi di allestire magnifici spazi verdi per ricevere i propri ospiti e, per-ché no, coltivare anche piante utili al fabbisogno di verdura fresca per la fami-glia; ma anche i grandi complessi con-ventuali, che hanno caratterizzato la forma urbis, “apparecchiavano” all’inter-no dell’inaccessibile muro che recinge-va la clausura, magnifici orti-giardino nei quali i religiosi non solo si recavano a pregare e meditare ma che erano anche coltivati per il sostentamento della comu-nità monastica. Si può dire che un impe-gno costante era rivolto alla cura e all’arredo degli spazi verdi al pari di quello dedicato alla manutenzione e

I proprietarimostravano

il ruolo socialerealizzando

preziosi scenariin spazi aperti,anche piccoli

dei giardini

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NA FIGURA particolarmente importante per la cura dei giardini era, ovviamente, il giardiniere, vero e proprio agente del padro-

ne di casa che aveva competenze tecniche e un certo grado di autonomia decisionale. Talvolta i giardinieri potevano discutere col Signore modifiche e ampliamenti dei giardini; i nobili più facoltosi, e quindi più in vista, non esitavano a inviare i loro giardinieri di fiducia presso i giardini più famosi e celebrati in modo da carpirne i segreti. Sono noti i viaggi effettuati da giardinieri toscani, anche pistoiesi, per osservare gli artifici d’acque messi in atto nel celeberrimo giar-dino di Villa d’Este a Tivoli. I viaggi servivano per conoscere tecniche di coltivazione innovative o apprendere la disposizione o la potatura di piante particolari; un sapere che trovava posto nei numerosi trat-tati scritti sull’argomento, ma che era trasmesso anche tramite lo scambio delle esperienze dei giardinieri. Non è raro trovare tra i documenti degli archivi delle famiglie gentili-zie i registri del “ministro del giardino” che sovrintendeva e coordi-nava l’opera di più giardinieri. In alcuni giardini di palazzi pistoiesi, al giardiniere era concesso l’uso di una abitazione autonoma, situata all’interno del giardino stesso, in modo che il controllo sullo spazio verde fosse diretto e costante: in questo modo il “signor giardiniere” poteva proteggere direttamente le collezioni vegetali del padrone di casa grazie alle quali il giardino era diventato famoso in città.

L’agente del padrone di casaANTICHE PROFESSIONI

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Maria Camilla PagniniArchitetto

(nascosti)

La “Montagnola”di Palazzo Baldinotti,

oggi Moggi

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RA I GIARDINI MONASTICI, che ancora conservano caratteristiche storiche importanti, non si può non ricordare il giardino all’italiana di palazzo Tolomei. Esso giunse in proprietà al monastero benedettino

di Santa Maria degli Angeli nel 1890. L’impianto del giardino risale ai primi anni dell’Ottocento ed è caratteriz-zato oggi da una splendida collezione di aranci amari (nella foto), disposti nei quadrati del giardino o coltivati in forma di spalliera nella zona a ovest; si tratta di un vero e proprio giardino dell’utile poiché le monache benedettine utilizzano le arance per la produzione delle loro rinomate preparazioni dolciarie e farmaceutiche. Una grande fontana ellittica caratterizza l’ampio spazio, spartito da vialetti lastricati in arenaria, impreziositi da importanti vasi in terracotta che ospitano limoni e piante fiorite. Della storia di questo giardino, appartenu-to ai nobili signori Tolomei e oggi alla monache benedettine, non restano molti documenti; al monastero va il merito di aver mantenuto lo spartito geometrico originario, l’antico sistema di irrigazione, costituito da canali di laterizio, e l’impegno nella cura costante che caratterizza l’ordine benedettino fino dalla sua fondazione.

Aranci amari per i dolci delle monache benedettinePALAZZO TOLOMEI

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della via de’ Rossi, all’altezza di oltre 6 metri, si conserva ancor oggi uno spazio verde costituito dal prato, dalla presenza di un boschetto di bambù, da alcuni pergolati con semplici sedili di pietra, alberi da frutto, rosmarini, ortensie e, nel periodo prima-verile, dalle infiorescenze azzurrine delle scille campanulate.A guardia del giardino di palazzo Gatteschi-Fiorineschi, oggi Turi, si trova la statua di un armato, in terracotta, collocata al termine del viale principale che serve da percorso distributivo

del profondo lotto a verde che abbraccia il prospetto interno del palazzo. A sinistra del viale principale, c’è un’antica magnolia, accompagnata dal calycanthus, mentre, a corona del guerriero, si trova il boschetto degli allori e quello dei bambù; diverse spalliere di gelsomini e glicini sono collocate al muro di cinta. Nella zona a sud resta lo stanzone degli agrumi, in primavera le aiole si riempiono di primule, tulipani e più tardi di peonie. La memoria dei giardini cittadini viene talvolta affidata alla sola documentazione scritta e talvolta, magari, ad alcune piantagio-ni, di cui è possibile intuire solo alcuni elementi fondamentali: i percorsi e gli spartimenti a verde. Ma di tutti resta il ruolo di segreta riserva di acqua, di profumi e verzura.

In città poche persone sannoche alle spalle di piazza Spirito Santo

sopra il muro di pietra, a 6 metri d’altezza,si conserva un prato, un boschetto di bambù

con pergolati, alberi da frutto e ortensie

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L’apside di Sant’Ignazio dal giardinoIl giardino benedettinodi S. Maria degli AngeliIl giardinodi Palazzo Turi

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dei palazzi o dei monasteri; per ambedue le realtà il giardino era segreta risorsa e necessario complemento. Molti giardini gentilizi sono andati perduti, incalzati dalla crescita urba-na e dal fraziona-mento delle proprie-tà; tuttavia restano ancor oggi splendidi superstiti che con-sentono di immagi-nare quale fosse un tempo la ricchezza dei verzieri, dell’arredo di statue o la fantasia delle soluzioni pro-gettuali, capaci di sfruttare al meglio ogni più piccola porzione di terreno. E’ questo il

caso della “Montagnola” nell’antico palaz-zo di Fabio Baoldinotti, oggi della famiglia Moggi. Si tratta di un giardino di non grandi

dimensioni che si svi-luppa molto in profon-dità: una vera e pro-pria erta che collega ed espande il salone d’ingresso del palaz-zo, superando un consistente dislivello, grazie alla presenza di un giardino-percor-

so che conduce a un’ariosa zona dove sono collocate delle sedute, “sorvegliate” da un busto in terracotta. E’ quasi una gal-leria all’aperto, caratterizzata dalle mura-

glie sulle quali si arrampicano i glicini e si nascondono tenere felci e ciuffi di cymba-laria, mentre a terra, lungo i gradoni, umbratili clivie fioriscono con le loro corolle aranciate.Esiste ancor oggi un sorprendente giar-dino pensile, che si arrampica sul retro dell’abside della chiesa di Sant’Ignazio, insospettata pausa verde, all’interno di ciò che resta dell’ampio orto-giardino dell’arcigno collegio dei Gesuiti di Pistoia, che, nel Settecento, ospitava una ricca collezione di agrumi collocati in “vasi di diversa figura tra grandi e piccoli”. Siamo alle spalle di piazza dello Spirito Santo, eppure in pochi sanno che sopra l’alto muro di pietra che caratterizza un tratto

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Con la crescita urbanamolti giardini

sono andati perduti.Ma c’è qualche superstitecome la “Montagnola”,

ora della famiglia Moggi

AN BARTOLOMEO in Pantano, uno degli splendidi esempi di roma-nico a Pistoia, porta il nome del santo cui anticamente era dedicata

un’abbazia di monaci benedettini con annessa una chiesa, fondata nell’VIII secolo dal medico longobardo Gaidoaldo dentro i confini della parrocchia e del monastero di San Silvestro. Il complesso sorgeva fuori dalla prima cerchia di mura e i documenti che ne attestano la fonda-zione forniscono importanti informazioni anche sulla storia di Pistoia.Nell’XI secolo il monastero passò alle dipendenze di quello di San Giovanni di Parma, prima di ritrovare la propria auto-nomia nella prima metà del XIII secolo, restando comunque sotto la regola bene-dettina. Nel 1443 fu trasferito da papa Eugenio IV ai Canonici Lateranensi e la chiesa, che dal secolo XIV aveva avuto funzioni di parrocchia, ancora alla fine del 1600 compariva nei documenti con l’anti-ca denominazione di “San Silvestro in Pantano alias San Bartolomeo dei Canonici Regolari Lateranensi”. Quando questi, alla fine del 1700, abbandonarono San Bartolomeo e il Granduca di Toscana soppresse il monastero, l’abbazia accol-se i Vallombrosani di San Michele in Forcole, costretti a lasciare, perché in rovina, l’edificio che li ospitava. Nel 1810, sotto l’impero napoleonico, il monastero fu definitivamente soppresso e una parte degli edifici dell’abbazia passarono al Comune di Pistoia.Importanti restauri, a partire dal periodo postbellico, hanno restituito la chiesa

all’antico splendore. Nella facciata princi-pale la solidità dell’impianto romanico è alleggerita dallo slancio verticale delle arcate sorrette da colonne in pietra sere-na. Al di sopra dei capitelli, nei quali alla decorazione classica si uniscono le figure zoomorfiche della simbologia medioeva-le, si innalzano gli archi in marmo bianco e verde di Prato.Tre porte, due piccole laterali e una cen-trale di dimensioni maggiori, immettono nell’interno. Sovrasta la porta centrale l’architrave, opera di due discepoli del maestro Guglielmo, Gruamonte e

Adeodato, che vi hanno scolpito la scena dei dodici apostoli mentre ricevono da Gesù la missione di evangelizzare il mondo. Alla bellezza dell’esterno corri-sponde la semplicità dell’interno a tre navate, dove ogni elemento architettoni-co richiama alla funzione spirituale della chiesa e rifugge da qualsiasi decorativi-smo. Le pareti delle navate, scandite da arcate e colonne, illuminate dalla luce discreta delle monofore, guidano lo sguardo verso l’alto. Il percorso della navata centrale conduce all’altare mag-giore, dietro al quale è posto l’abside che presenta un pregevole affresco raffigu-rante il Cristo Pantocratore. Altri affreschi, risalenti per lo più ai secoli XIII e XIV, sono stati portati alla luce dai restauri effettuati, fra i quali San Bartolomeo apo-

stolo, Sant’Antonio da Padova, Santa Caterina e Sant’Ubaldo Vescovo, mem-bro dell’ordine dei Canonici Lateranensi che godeva di particolare venerazione nella chiesa di San Bartolomeo.Alcuni dei pregevoli dipinti di epoca più tarda, dal XVI al XVIII secolo, sono dedi-cati ai santi venerati nella chiesa, come il martirio di San Bartolomeo, eseguito dal pittore pistoiese Alessio Geminiani; un’opera di Giovanni Maria Butteri (fine XVI secolo) rappresenta invece la Madonna in trono con il Bambino, Angeli musicanti e Santi. Da non dimenticare La Sacra Famiglia di Francesco Leoncini (secolo XVII) che rappresenta la Vergine, Gesù e San Giuseppe all’interno di un’umile casa.Non si può lasciare San Bartolomeo senza dedicare attenzione al pulpito, con cui l’abate Simone pensò di abbellire la chiesa nel 1240, dopo che il monastero fu incluso nella seconda cerchia di mura. Il pulpito, in marmo, è di forma quadrango-lare e suddiviso in otto quadri i cui basso-rilievi raffigurano quattro episodi degli inizi della vita di Gesù e quattro episodi posteriori alla crocifissione. Lo sorreggo-no tre colonne: una poggia su un leone che ha tra le zampe un drago, un’altra su una leonessa che allatta un leoncino e la terza sulla schiena di una figura umana ricurva. Agli angoli i gruppi degli evange-listi. L’opera, attribuita a Guido Bigarelli da Como, costituisce una delle più inte-ressanti attrattive per visitatori e studiosi, oltre che uno splendido esempio dei teso-ri d’arte della nostra città.

Alberto CiulliniGiornalista

San BartolomeoM

Monumenti

Da che pulpito…

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Monumenti

La solidità del romanico fuorie la semplicità nell’interno

evocano la funzione spirituale

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D on luca carlesi sottolinea come San Bartolomeo abbia salvaguardato un’autentica vocazione all’accoglienza. Zona complessa, dove non sono mai mancate situazioni socio-economiche di disagio, la parrocchia, che oggi

conta circa duemila anime, ha conosciuto la forte immigrazione dal sud Italia negli anni sessanta e, dagli inizi degli anni novanta, quella costituita essenzialmente da stranieri: albanesi, marocchini, romeni.Nato a Pistoia nel 1962, ordinato sacerdote nel 1986 dopo il compimento degli studi teologici, don Carlesi (nella foto)inizia l’anno successivo la sua attività pastorale che lo vede parroco di Chiesina Montalese prima e di Lamporecchio poi. A San Bartolomeo, dal 2003, ha attivato importanti iniziative: è vicario episcopale per la vita consacrata e delega-to vescovile per il diaconato permanente, canonico della Basilica Cattedrale di Pistoia, direttore dell’Ufficio liturgico diocesano e direttore del museo diocesano. Fra le attività più significative, il Centro di ascolto parrocchiale, aperto nel 2008 e creato per far fronte a situazioni di disagio e di povertà. Particolarmente significativo il ruolo della Caritas parrocchiale e del gruppo di gio-vani (circa una ventina fra studenti delle superiori e universitari) che si ritrova per organizzare iniziative di vario genere: fra queste, le gite sociali e la festa di San Bartolomeo, caratterizzata da attività particolarmente dedicate ai bambini. Impegnativo anche l’aggiornamento del sito, mentre l’ul-tima iniziativa, inaugurata il 20 aprile, è quella di un piccolo Centro per anziani, aperto ogni martedì.

Caritas, giovani e centro anziani (contro il disagio)IL PARROCO: DON LUCA CARLESI

La struttura perl’omelia fu costruitaper volere dell’abate

Simone: nei bassorilievi è rappresentatala vita di Gesù

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una grande cena dedicata alla sua famiglia, Loretta Giuntoli è stata il motore e vera pionie-ra della cooperazione sociale a Prato: una donna energica, combattiva e determinata, che trova la forza nei sogni, che ancora oggi ha voglia e capacità di realizzare. “Lavoro sette giorni su sette, e resisto perché ho sem-pre tanti obiettivi da raggiungere”, precisa col sorriso. Ex professoressa di lettere e filosofia, una laurea in pedagogia in tasca, la sua avventura nella cooperazione sociale è nata negli anni ’80 quando, da membro del movimento fem-minile della Dc, promosse il progetto di creare la prima cooperativa in città. Erano enti pres-soché sconosciuti, pochissime le realtà presen-

N’AGENDA fittissima di appuntamenti, il telefono che squilla in continuazione e una scrivania stracarica di fogli, appunti, giornali e libri. E’ la fotografia

dell’ufficio di Loretta Giuntoli, anima delle coo-perative della città, dal ’94 presidente del Consorzio Astir, che da sedici anni opera sui territori di Prato, Pistoia e in altre province toscane con un ruolo di promozione alla nascita e alla crescita di nuove imprese socia-li. Per avere un’idea del consorzio basta sape-re che attualmente aderiscono ad Astir 28 soci, di cui 13 cooperative di servizi alla perso-na e 15 cooperative di inserimento lavorativo.Sessantaquattro anni, due figli e sette nipoti che vede puntualmente tutti i giovedì durante

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E COOPERATIVE sociali sono una speciale categoria di cooperative, caratterizzata dal fatto di “perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini” attraverso sia la gestione di servizi socio sanitari ed educativi (per gli addetti ai lavori deno-

minate cooperative di tipo A) sia lo svolgimento di attività diverse — agricole, industriali, commerciali o di servizi — finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate (cooperative di tipo B). E’ un fenomeno in grande crescita: basti pensare che in Italia le cooperative rappresentano un’importante realtà sotto il profilo occupazionale e dell’erogazione di servizi. Secondo l’Istat a fine 2005 (anno a cui risale l’ultimo aggiornamento) le cooperative sociali erano 7.363 con una crescita di oltre il 30% rispetto al 2001. Queste imprese impiegano complessivamente oltre 210.000 addetti retribuiti e 32.000 volontari, anche se nel tempo la figura del volontario sta pian piano scomparendo a causa della necessità di una sempre maggiore professionalità e specializzazione che gli addetti devono necessariamente avere per operare nei campi dell’assistenza domiciliare e del recupero di persone con handicap. Si stima che le cooperative rivolgano i loro servizi a oltre 3 milioni di persone per un giro d’affari pari a 6,4 miliardi di euro. Nate a partire dalla seconda metà degli anni ‘70 in alcune aree del nord Italia (Lombardia soprattutto) le cooperative sociali hanno conosciuto una progressiva diffusione in tutto il territorio nazionale, legato a una molteplicità di fattori, primo fra tutti l’esternalizzazione da parte degli enti pubblici di una quota sempre crescente di servizi sociali, sanitari ed educativi.

Fenomeno in crescita, assistono oltre 3 milioni di personeLE COOPERATIVE

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Loretta Giuntoli (a sinistra),assieme a un’assistente,

intrattiene i bambinidi un asilo nido

Silvia BiniLa Nazione

Dal 1994 è presidente del consorzio Astir, si occupa di sociale fin dai primi anni ’80. In ufficio da mattina a sera ma il giovedì è d’obbligo dedicarlo alla cena di famiglia

Loretta GiuntoliSe la solidarietà diventa un lavoro

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Il Consorzio Astirorienta le proprie attivitàanche all’assistenzadegli anzianiLoretta Giuntolipresenta la nuova struttura Rsa“La Casa di Marta“, a Prato

realtà presenti in città. Il lavoro di Astir è vario: dalla contabilità, alla gestione del personale. E per capire in cosa si è trasformata la solidarietà di un gruppo di professionisti, basta citare alcuni numeri: al gruppo Astir oggi fanno capo 28 cooperative per cui lavorano oltre 800 dipendenti specializzati. Il settore si è tal-mente rafforzato da aver esteso il raggio di azione anche alle province di Pistoia e Firenze, in particolare all’empolese. Da gennaio è nato anche Astir-forma, dedicato come dice il nome stesso, alla formazione degli operatori dove vengono svolti corsi per gli operatori e i corsi di aggiornamento.

La differenza tra oggi e ieri? “E’ semplice — spiega Giuntoli —, oggi non è più possi-bile fornire servizi con volontari come accadeva negli anni ’80 per due motivi: il primo riguarda le specializzazioni che le persone che lavorano nelle cooperative devono obbligatoriamente avere; il secon-do motivo è rappresentato dal tempo che necessita per assistere anziani o ragazzi con disabilità e che svolgendo altre profes-

sioni è difficile trovare”. Non solo. “Il volontariato sta scomparendo: i ragazzi di oggi sono abituati al tutto e subito e non sognano più. Se i sogni sono realizzabili possono diventare il vero motore del fare, altrimenti restano in un cassetto”. Nel futuro di Astir ci sono tantissimi pro-getti, su tutti la realizzazione di un Rsa a Prato per accogliere anziani e l’ambizio-sissimo progetto Chiara e Francesco, una struttura per accogliere adolescenti con problematiche psichiatriche che nascerà nel comune di Vinci. In ponte anche una

cooperativa per sviluppare il turismo sostenibile: “Un turismo aperto a ricchi e poveri, normali e diversi, che sia vera-mente accessibile a tutti. Sono questi sogni che mi fanno andare avanti, con lo stesso entusiasmo del primo giorno”.

UN’ATTIVITÀ a tutto tondo quella di cui è protagonista Astir, il Consorzio di cooperative sociali Onlus che nasce a Prato nel settembre 1994 e opera sui territori di Prato, Pistoia e in altre province toscane con un ruolo di promozione alla nascita e alla crescita di nuove imprese sociali.

Loretta Giuntoli, anima e mente del consorzio dalla sua nascita, riveste la carica di presidente. Cosa fa il consorzio Astir? I campi di intervento spaziano dai servizi sociali a quelli sanitari e educativi rivolti ad anziani e ai portatori di handicap psicofisici, servizi rivolti ai minori e al recupero e assistenza dei tossicodipendenti. Non solo: Astir opera sul fronte dell’assistenza alla persona e anche dell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. In particolare il Consorzio svolge funzioni di sostegno allo sviluppo strategico dei propri soci come la promozione e lo sviluppo delle cooperative socie e delle loro attività; il general contracting; il coordinamento di attività complesse che coinvolgono più cooperative; la sperimentazione di servizi innovativi; il marketing; la formazione e sviluppo delle risorse umane; i servizi amministrativi e la consulenza per start-up, sviluppo e consolidamento dell’impresa sociale. Attualmente aderiscono ad Astir 28 soci, di cui 13 cooperative di servizi alla persona e 15 cooperative di inserimento lavorativo. In questi anni si è sviluppato un sistema di imprese a rete, in grado di fornire risposte concrete ai bisogni di lavoro, servizi e relazioni sociali delle persone attraverso progetti territoriali che promuovono lo sviluppo della comunità locale. Anche quest’anno Astir-forma metterà in campo numerosi corsi di formazione per addetti all’assistenza e al pronto soccorso e figure qualificate, avvalendosi anche di una nuova qualifica: tecnico di cooperativa decentrata e internazio-nale. Proprio nell’ambito della collaborazione e sinergia tra cooperative, Astir ha scelto la figura di San Francesco come simbolo dello spirito di solidarie-tà che anima l’attività.

Dal sostegno ai disabili alla consulenza per start upIL CONSORZIO ASTIR

E’

“I ragazzi di oggisono abituati

al tutto e subito:non sognano più”

a una festa, e dissi che sarebbe stato bello poter avere un terreno sul quale realizzare il nostro sogno. Pochi giorni dopo, questa persona mi chiamò dicendomi che aveva trovato terreno e rudere. Era un posto fatiscente, ma io me ne innamorai e così iniziò un’al-tra splendida avventura”.Giuntoli propose l’affare ai consiglieri della cooperativa Humanitas che non si tirarono indietro: “Firmammo personalmente a garan-

zia con le banche per avere un mutuo da un miliardo di lire, utile a ristrutturare il casale dove creammo la prima cooperativa dedica-ta ai ragazzi con disturbi mentali. Era un salto nel buio ma avevamo delle motivazioni talmente forti che alcuni di noi lasciarono la sicurezza, ossia il loro lavoro da professioni-sta, per buttarsi a capo fitto in questa avven-tura, che non aveva nessuna certezza. Un’estate, poi, fui contattata dalla responsa-

bile Asl di Prato che mi chiese il favore di accogliere, in agosto, ragazzi con problemi mentali. Accettai precisando che mi sarei occupata di loro solo per un mese: da allora, invece, il nostro lavoro si è indirizzato e specializzato sempre più nel settore della psichiatria”. Negli anni successivi Giuntoli fondò altre cooperative come La Ginestra o la Traccia, fino ad arrivare al 1994 quando decise di creare Astir, un consorzio in grado di gestire le varie

ti: all’epoca esistevano la Confcooperative, improntata soprat-tutto sulla solidarietà sociale che faceva capo alla Dc, e la Lega delle cooperative, vicina al Pc e formata soprattutto da coopera-tive di servizi. “Fin dagli anni ’80 sono stata impegnata in politica come delegata del movimento femminile a Prato della Dc — spiega —. Insieme al movimento ho promosso l’idea di creare una cooperativa sia per dare lavoro a chi ne aveva bisogno, visto che anche in quegli anni Prato fu attra-versata da una grande crisi, sia per dare assistenza agli anziani”. E così nel luglio del 1982 nacque la coope-rativa Humanitas, attiva ancora oggi. Da allo-ra il passo è stato breve: “Mentre insegnavo alle scuole superiori, lavoravo come volonta-ria all’Humanitas. Fu un’esperienza talmente forte e travolgente da farmi amare fin da subi-to questo mondo. Eravamo un gruppo di professionisti che ci impegnavamo per aiutare e dare lavoro ad altri, senza alcuno scopo se non quello della solidarietà”.La svolta arrivò nell’86 quando il gruppo di volontari, fino ad allora estraneo di contabilità e burocrazia, si rese conto che la cooperativa, oltre a svolgere un ruolo sociale molto importante, aveva anche un buon utile: “E così una sera proposi a un amico e collega di estendere il nostro progetto ad altri settori. Eravamo

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Era il 1982 quandopartì il primo progetto:

Humanitas.Lavoro e anziani

al centro dell’attenzione.Tutto nacque

con il volontariato

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Ecco la Turchia, fra mare e cultura

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UTTA LA TURCHIA in tredici (meravigliosi) giorni: le città, la cultura, la spiritualità, il folclore, la storia, l’ar-te, i laghi salati e, per finire in bellezza, cinque giorni di mare. Da non perdere la gita estiva proposta dalla

Banca di Pistoia: partenza (da Bologna) il 5 agosto, ritorno il 17. Questo il programma:1° giorno: trasferimento Bologna-Istanbul.2° giorno: tour della capitale, con visita alla “Moschea Azzurra”, al palazzo di Topkapi, antica residenza dei sultani trasformata in museo, e Gran Bazar finale, dove trovare i prodotti tipici dell’arti-gianato turco (tappeti, gioielli, oggetti in rame…).3° giorno: mattina culturale ancora a Istanbul, con visita a chiese

P RIMIZIA ASSOLUTA, la Banca di Pistoia vi dà la possibilità di seguire uno spettacolo unico e affasci-nante al tempo stesso come solo l’Aida può esserlo, l’opera in quattro atti di Giuseppe Verdi, basata su un

soggetto originale di Auguste Mariette. E il luogo ideale per seguirla è proprio l’Arena di Verona (dove lo spettacolo andrà in scena sabato 3 luglio), poiché – grazie all’abbondanza di spazio – è possibile creare mastodontiche e meravigliose scenografie dell’Antico Egitto: non a caso l’Aida è sempre presente nel car-tellone delle stagioni liriche areniane, oltre a esser stata il passo d’esordio assoluto eseguito in Arena nel 1913 per la sua prima stagione lirica. L’opera, per inciso, ha aperto anche la stagione lirica del Teatro della Scala a Milano del 2006-2007, quando fu diretta da Franco Zeffirelli. La prima rappresentazione in assoluto dell’Aida risale al 24 dicembre 1871: avvenne alla Khedivial Opera House de Il Cairo e fu diretta da Giovanni Bottesini. Fu

Isman Pascià, militare e politico turco, poi principe e sultano d’Egitto, a commissionare, al prezzo di 80mila franchi, l’opera a Verdi per celebrare l’apertura del Canale di Suez nel 1869, prima che la guerra franco-prussiana costringesse al ritardo per la sua messa in scena fino al 1871.Questo il programma della giornata: partenza in pullman da Pistoia alle 14; sosta lungo il percorso; arrivo a Verona con pos-sibilità di cena libera; trasferimento all’Arena per l’Aida, che avrà inizio alle 21.15; al termine ritorno in pullman a Pistoia. La quota individuale comprende, oltre ai trasferimenti in pullman, il bigliet-to d’ingresso all’Arena con posto in gradinata e assicurazione medica e del bagaglio. Informazioni e prezzi: ufficio soci (0573-974023 o 346-2414283) e sul sito www.bancadipistoia.it

C’è l’AidaChe spettacolo

Capodannoai Caraibi

e musei; nel pomeriggio trasferimento in pullman a Ankara.4° giorno: mattina in tour per le vie di Ankara, quindi partenza per la Cappadocia, costeggiando il lago salato.5° giorno: giornata dedicata alla visita della Cappadocia, straor-dinario centro di spiritualità monastica.6° giorno: partenza per Konya, l’antica Iconio. Possibilità di cele-brazione della Santa Messa nella chiesa di San Paolo e visita al mausoleo di Mevlana. Arrivo in serata a Pmukkale.7° giorno: mattina con visita alle famose “cascate pietrificate” e ai resti dell’antica Gerapoli con la grande necropoli. Quindi, par-tenza per Efeso e tour degli splendidi monumenti della città: la biblioteca di Celso, il Teatro, l’Odeon, il tempio di Adriano, la basilica del Concilio, la basilica di San Giovanni, il santuario di Maryemana.8° - 12° giorno: cinque giorni di mare a Kusadasi (trattamento di pensione completa).13° giorno: trasferimento a Istanbul, quindi volo di ritorno per Bologna.Per informazioni e prezzi rivolgersi all’Ufficio soci (0573-974023 o 346-2414283) o sul sito www.bancadipistoia.it

L A CHIUSURA d’anno è col botto, seguendo il filo conduttore di come Banca di Pistoia ha abituato soci (e loro accompagnatori) nel corso degli anni: il nuovo anno viene salutato ai Caraibi, noblesse oblige, una

splendida crociera che toccherà Fort Lauderdale (Florida), Charlotte Amelie (St. Thomas), Philipsburg (St. Martin) e Nassau (Bahamas). Partenza il 26 dicembre, rientro il 2 gennaio (arrivo in Italia alle dieci del giorno successivo), con possibilità di esten-dere la vacanza di altri quattro giorni al sole di Miami. Da sballo. In sintesi, ecco una fotografia dei luoghi che andremo a toccare.Fort Lauderdale (Florida). E’ il punto di partenza classico delle crociere caraibiche. Patria della più importante fiera mondiale della nautica, è gemellata con Venezia per l’estesa conformazione fluviale.

Charlotte Amelie (St. Thomas). Un versante costiero sull’Atlantico e uno sul Mar dei Caraibi, un lungomare (lungo due chilometri) che vanta una delle maggiori flotte di yacht e barche del mondo, viuzze strette che si inerpicano lungo tre colline, case dai colori pastello ricercatissime dai vip: benvenuti alle isole “Vergini americane”.Philipsburg (St. Martin). L’isola più piccola al mondo divisa in due stati: la parte meridionale fa parte delle Antille olandesi, quella settentrionale è una comunità dipendente dalla Francia. Sorvolando su spiagge e mare, St. Martin è rinomata per la cucina: oltre al freschissimo pesce, si mangia una carne di eccellente livello.Nassau (Bahamas). Paradise Island è la spiaggia dei vip, ma non esiste posto nell’isola che non possa essere considerato paradisiaco. Spiagge bianchissime e mare cristallino, come da migliore tradizione caraibica.Miami (Florida). Chi c’è già stato, non ha bisogno di spiegazioni. Chi non c’è mai stato, si affretti a farlo.

Sabato 3 luglio vi portiamo all’Arena di Verona ad ammirareuna delle opere più famoseal mondo, scritta da Verdi

Festeggiamo l’arrivo del 2011 con una meravigliosa crociera:Florida, St. Martin e Bahamasregalano spiagge bianchissimee acque cristalline

Tredici giorni mozzafiato alla scoperta delle bellezze del posto. Tour di Istanbul, Efeso e Cappadocia, poi Gran Bazar con i prodotti tipici. E gran finale al sole di Kusadasi

Enzo PaciniResponsabile Soci

momento di grande difficoltà per l’econo-mia internazionale, è la testimonianza di come la nostra attenzione sia rivolta prin-

cipalmente alla clien-tela, anche a costo di penalizzare i conti del nostro istituto”. Grande fiducia anche nelle parole del Direttore Generale, Gian Carlo Marradi: “Nonostante il duro lavoro che ci ha visto

impegnati nella sistemazione delle condi-zioni e delle problematiche legate al credi-to, la Banca ha marciato a passo spedito, come dimostrano i dati registrati a fine

in più), che ha totalmente condiviso la tra-sparenza e la correttezza del Cda, come sottolineato da interventi “di peso” come quelli di Angiolo Bianchi, Luca Iozzelli, Piero Becciani, Alessio Bartolomei, Paola Bellandi e Loretta Giuntoli. “Abbiamo dato segna-li estremamente importanti — ha detto il presidente Andrea Amadori —, che confermano quanto sia forte il nostro legame col territorio: la preci-sa scelta del Consiglio d’Amministrazione di non modificare i tassi, anche in un

esercizio 2009. Inoltre, dal “Piano indu-striale 2010-2012” emerge un significativo cambio di rotta, i cui principali obiettivi sono: 1) crescita della base sociale, con un occhio di riguardo ai giovani; 2) cresci-ta dei clienti, intesi come famiglie, artigia-ni, piccole e medie imprese, operatori del settore vivaistico; 3) crescita territoriale, con l’apertura di nuovi sportelli, seppur di piccole dimensioni — i cosiddetti “sportel-li leggeri”, con tre-quattro persone per filiale —, al fine di presidiare ancor meglio il territorio di riferimento e quelli limitrofi; 4) puntare a qualche aggregazione fra bcc, considerato il numero considerevole (sette, ndr) presente nella nostra provin-cia. I risultati positivi previsti per i prossimi tre esercizi, sommati a mezzi propri molto importanti (al 31 dicembre 2009 erano pari a 50 milioni), mi fanno affermare con convinzione che siamo una banca sicura

e, soprattutto, la banca locale per eccel-lenza. Chiudo con un cenno alla struttura operativa: adesso abbiamo l’assetto giu-sto per competere efficacemente sul terri-torio e rispondere a qualsiasi esigenza della clientela. A tutti i dipendenti va il mio ringraziamento per i risultati raggiunti, a cui ha decisamente contribuito anche la forte sintonia col Consiglio d’Amministra-zione”.

ILANCIO APPROvATO all’unanimità: l’assemblea dei soci della Banca di Pistoia, riunitasi domenica 25 aprile al convento di San Domenico a Pistoia, emana questa “sentenza”, una ventata di sano

ottimismo a chiusura di due esercizi difficili, figli di una congiuntura economica mai così avversa e di scelte sempre a vantaggio della clientela, anche a costo di pagare dazio. I numeri targati 2009 sono quanto mai incoraggianti: + 5,36% di raccolta (pari a oltre 24 milioni) e addirittura + 18,60% di impieghi (incremento di oltre 76 milioni). E il fatto di aver registrato, sotto il profilo red-dituale, un risultato negativo pari a 1,34 milioni è determinato principalmente da due fattori: la forte compressione del margi-ne d’interesse nonché dai necessari e dovuti accantonamenti su crediti deteriorati. Riguardo al primo fattore, si tratta di un

naturale effetto dovuto alla manovra dei tassi, in discesa dal 2008, quando fluttuavano intorno al 5% rispetto all’attuale andamento caratterizzato, invece, da riferimenti euribor intorno

all’1%: nonostante questo, la banca ha continuato a operare sul territorio appli-cando condizioni assai favorevoli, in controtendenza col resto del mercato, specie in un momento di forte e genera-le crisi economica. E proprio per le situazioni di difficoltà in cui versano numerose imprese – ecco il secondo fattore che ha inciso sul risulta-to di bilancio – sono stati stanziati

importanti accantonamenti per fronteggiare eventuali perdite su crediti, a garanzia della correttezza e della trasparenza del bilancio. Una scelta politica molto apprezzata dai soci (il cui numero continua a crescere: nel 2009 ne sono stati contati 500

Approvati all’unanimitài numeri dello scorso anno.

La compagine socialeapprezza le coraggiose

scelte del Cda a vantaggiodella clientela, anche a costo

di penalizzare l’utile

Benvenuto a 500 nuovi sociImpieghi e raccolta, è boom

BILANCIO 2009

BIl Presidente Amadori:“Segnali che rafforzanoil legame col territorio.

La decisionedi non modificare i tassiconferma l’attenzione

verso la clientela”

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LL’assemblea dei soci

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L’assemblea dei soci

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La platea di socie dipendenti all’assembleadel 25 aprile che si è svoltanel convento di San DomenicoDa sinistra: Maurizio Giusti(Presidente Collegio Sindacale),Giorgio Clementi (PresidenteFederazione Toscana),Andrea Amadori (Presidente Cda),Giorgio Mazzanti (Vice Presidente Cda),Gian Carlo Marradi (Direttore Generale)

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Il Direttore Marradi:“Il piano strategico

2010-2012 è quanto maiambizioso: i primi obiettivi

sono la forte crescitadella base sociale,

con un occhio di riguardoverso i giovani, e l’apertura

di nuove filiali”

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Luca CecconiLa Nazione

Calciatore di buon livello, frenatodagli infortuni, è stato a più riprese dirigentedi Pistoiese e Pistoia Basket. “Lavorare nella cittàin cui si è nati e cresciuti presenta pregie difetti: conosci a perfezione l’ambientema il tifo può portare a scelte sbagliate”

Giulio IozzelliNon possoviveresenza sport

PROFETA IN PATRIA

IENE DAL CALCIO ma ha sposato il basket. Non è una scelta ponderata e forse neppure definitiva. Diciamo che è capitato. Il calcio ce l’ha nel dna: ha giocato a buoni livelli (Primavera e

serie C), ha fatto per divertimento l’allenatore e per mestiere il dirigente (in C e in B), è tifoso da sempre dell’Inter. Ma il basket, piano piano, lo ha catturato. E ora gli piace di più. Giulio Iozzelli, direttore sportivo del Pistoia Basket, non lo manda a dire: «Guardo il calcio — dice — ma francamente mi diverto poco. Se togliamo qualche partita di serie A, e soprattutto di Champions, il resto è veramente poca cosa. Il livello è mediocre, spesso non ce la faccio a seguire le partite come facevo una volta. Non parliamo poi delle categorie inferiori. Un peso l’hanno avuto anche certe negatività che ruotano attorno all’ambiente: penso a quanto accade negli stadi, al compor-tamento dei tifosi ma anche degli addetti ai lavori, penso allo scanda-lo Moggi. Insomma, meglio il basket, mi diverto di più, anche nelle categorie minori”. Iozzelli, figlio d’arte — il padre Giovancarlo è stato dirigente della Pistoiese ai tempi d’oro di Marcello Melani — ha anche un altro motivo per preferire la palla a spicchi: “In Italia impera il calcio — afferma — a cui va imputata la mancanza di una vera e propria cultura sportiva. Non si accetta la sconfitta, non si sa perdere, ma neppure vincere, ogni volta è una guerra. Le istituzioni calcistiche, poi, sono un disastro. Prendiamo il recente derby Roma-Lazio: è successo di tutto, giocatori che si picchiano e si sfottono, tifosi che se le danno di santa ragione e la giustizia sportiva che fa? Interviene solo con poche multe. Assurdo”.

V Iozzelli, è passato due volte dal calcio al basket, sempre con le squadre principali della città: quali sono le differenze? E soprattutto dove è meglio lavorare?“Il calcio dà più notorietà, ha un’eco più vasta e girano più soldi. La mia esperienza con la Pistoiese, specie in B, è stata bella e gratifi-cante. Però si è perso il limite delle cose, il basket è più genuino, ancora a misura d’uo-mo. Va detto comunque che oggi fare sport a livello professionistico, soprattutto in realtà

come la nostra, è diventa-to quasi impossibile. Si può fare qualcosa unendo le forze, solo se più sog-getti formano la società, altrimenti si va avanti (nel bene o nel male) soltanto finché colui che ha investi-to — uno solo — continua ad avere una grande pas-

sione. Se svanisce la passione, o se l’unico soggetto è alle prese con la crisi economica, svanisce anche la società e addio squadra. E’ successo alla Pistoiese, è successo all’Olim-pia Basket, è successo in tante altre piazze d’Italia”.

Ogni anno scompaiono, e non solo nel calcio, tante società sportive. E la fine del tunnel non si intravede. Possibile non trovare un rimedio?

Dico graziealla famiglia Carrarae a Luciano Bozzi.Ma è a mio padre

Giovancarlo che mi sono ispirato

Giulio Iozzelli,46 anni ad agosto,Ë direttore sportivodel Pistoia Basket

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Giulio Iozzelli festeggiala promozione in A2,conquistata nel 2007,vincendo lo spareggioplayout contro Osimo

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Uno di noi

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Francesco Baiano“E’ arrivato a Pistoia non più giovanissimo, ma aveva giocate che altri nemmeno si sognavano”

Daniele Amerini“Ottimo giocatore,di grande qualità:ha ottenuto meno di quanto meritasse”

LucaVigiani“In arancioneagli inizi di carriera:pronosticargli un futuro ad alti livelliera quasi scontato”

I SUOI CAMPIONIIL PODIO

DELLA MENTE......E QUELLO DEL CUORE

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PISTOIESE

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JoeBinion“Dall’Olimpia sonopassati giocatori migliori, mache spettacolovederlo giocare”

Claudio Crippa“La bandiera,il simbolo:ci ha permessodi restare ai verticiper tanti anni”

TamarSlay“Per qualità avrebbe potuto giocare alla paricon i campionidel passato”

BASKET

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Paolo Perugi“Persona incredibile. Ha vissuto la malattia con grande dignità: la scomparsa è stato un dolore immenso”

Giannino Giannini“Ci lega un’amicizia che va ben oltre l’aspetto sportivo. Come me, ha lasciatopresto il calcio giocato”

Daniele Baldini“Estroverso e brioso, amava stare alcentro dell’attenzione pur senza perdere il senso dell’umiltà”

PISTOIESE

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MassimoMinto“E’ rimasto legato all’Olimpia e alla città. Eccellente giocatore, ma anche persona di straordinario spessore”

Claudio Crippa“Pistoiese d’adozione: non ci siamo mai persi.Era, è e resteràuno di noi”

AndreaForti “Sempre prontoallo scherzo.Leader a cui Pistoiadeve i suoi più grandi successi”

BASKET

“C’è bisogno di regole certe, di istituzioni sportive all’altezza della situazione. Purtroppo in Italia i vertici dello sport latitano, quelli del calcio non si muovono e gli altri, eventualmente, lo fanno solo dopo che si è mosso il mondo del calcio. L’unica eccezione è la pallavolo. Il problema è che nel calcio girano tanti soldi, specie in A, e questo ha portato a una generale perdita della misura. Tutti, specie nelle serie minori, hanno fatto passi più lunghi della gamba. Negli ultimi tempi c’è stato un ridimensionamento, ma non basta. Bisogna scendere anco-ra, fissare regole precise e farle rispettare. Il basket — come altre discipline — sta diventando uno sport molto povero, occorre assolutamente una rivisitazione delle norme fiscali: è assurdo averlo comparato al calcio. Ma la nostra Federazione è allo sbando. Ha avuto fortuna la pallavolo, o meglio ha avuto dirigenti capaci che tanti anni fa hanno scelto di restare tra i dilettanti. Il risultato è che, da più di dieci anni, il campionato italiano di volley è uno dei più importanti del mondo, tutti i big giocano in Italia”.

Che idea si è fatto della vicenda, per molti versi assurda e ancora misteriosa, che ha portato l’estate scorsa alla scomparsa della Pistoiese dal calcio professionistico?“Non è la prima volta che accade, non mi sono stupito più di tanto. Ripeto: fare sport professionistico, oggi, è quasi impos-sibile e c’è il rischio, per tutti, di scomparire o cadere in mano a gente poco attendibile. Ma non è solo il caso di Pistoia: per

restare nelle vicinanze pensiamo a Lucchese, Pisa, Spezia, Massese. Insomma, è veramente dura tirare avanti: bisognereb-be intervenire seriamente”.

Il Pistoia Basket come sta?«Abbiamo un consiglio con gente importante, formato da più soggetti, ma la situazione è comunque complicata. Gli sponsor hanno deciso di investire una certa cifra e non si può pretendere di più, soprattutto in un periodo dove i tagli nelle aziende sono all’ordine del giorno. Spero che il basket a Pistoia non vada, nel tempo, verso situazioni analoghe a quelle in cui si è ritrovata la Pistoiese l’estate scorsa. Più passa il tempo e più mi accorgo che le vere partite si giocano fuori dal campo, per reperire risorse”.

Quando si parla di basket in Italia si tira in ballo il declino della Nazionale e il fatto che ci sono troppi stranieri.“Io non sono d’accordo, il problema come ho detto è la mancan-za di regole certe, di norme fiscali da rivedere. La nostra Federazione ha cambiato dieci volte le norme sugli stranieri, ora ricambia i campionati: è il caos. Bisogna copiare il modello della pallavolo: anche lì ci sono tanti stranieri, ma il gioco funziona, lo spettacolo c’è e la Nazionale è forte”.

Non avrebbe voglia di lasciare Pistoia e saggiare un’altra piazza?“Fare il dirigente sportivo altrove sarebbe un’esperienza da pro-

vare. Ma da qualche anno non si muove più nessuno, o quasi, non c’è un mercato dei dirigenti. Ci si affida a persone del posto, a gente di fiducia. Fare il dirigente nella città in cui si è nati e cresciuti è per alcuni versi più facile, perché si conosce perfetta-mente l’ambiente in cui si opera, ma per altri è più difficile, per-ché subentra l’aspetto passionale: io sono tifoso di Pistoiese e Carmatic, e spesso le scelte dettate dal cuore e dal tifo non sono quelle più giuste”.

A chi deve dire grazie?“A tutti quelli che mi hanno permesso di fare questa attività: alla famiglia Carrara, a Luciano Bozzi, agli attuali dirigenti del Pistoia Basket e a quelle persone con cui ho avuto la fortuna di lavorare e che mi hanno insegnato qualcosa, come Alfredo Piperno. Penso che tutta Pistoia debba fare lo stesso, perché chi si impe-gna nello sport va sempre ringraziato al di là dei risultati, che poi nei casi citati sono stati anche raggiunti”.

Suo padre Giovancarlo è stato un grande dirigente spor- tivo: Quanto ha appreso da lui?“Mi ha trasmesso la passione per lo sport, per questo mestiere che non s’inventa da un giorno all’altro: o c’è l’hai dentro o non ce l’hai. Una frase che diceva sempre, e che mi è rimasta in mente — poi abusata in Italia, spesso fuori misura — è quella che certi risultati possono arrivare solo se regna l’armonia tra le varie componenti dello sport: società, squadra, tifosi e stampa”.

IULIO IOZZELLI, 46 anni ad agosto, è il terzo di quattro figli di Giovancarlo Iozzelli (gli altri sono Luca, Elena e Silvia), l’ex

deputato Dc e amministratore delegato della Pistoiese ai tempi di Marcello Melani, scomparso di recente in un tragico incidente stradale. Giulio, da quattro stagioni, è direttore sportivo del Pistoia Basket. Ha cominciato con il calcio giocando nella Pistoiese. Ha fatto parte, ai tempi del Faraone, di una favolosa squadra Primavera, che l’ha portato anche ad approdare in prima squadra. Un centrocampista dai piedi buoni, col fiuto del gol. Ancora giovanissimo passò alla Lucchese, in C, ma un grave infortunio gli impedì di proseguire la carriera. Da quel momento è rimasto nel calcio a livello amatoriale — per vent’anni — come giocatore ma soprattutto come allenatore del Tb Piazzetta, la squadra della compagnia di amici. Grazie alla famiglia Carrara, Massimo in particolare, è entrato nel mondo del basket facendo parte dello staff dirigenziale dell’Olimpia in serie A. In otto anni ha ricoperto vari incarichi: si è occupato dei rapporti fra giocatori e società, di segretariato spicciolo, di marketing e infine di mercato. Quindi, con la caduta dell’Olimpia, è tornato al calcio e alla Pistoiese, con Luciano Bozzi, dove è rimasto per cinque anni, anche qui con vari ruoli dirigen-ziali: due in serie C e tre stagioni in B. Poi il ritorno nel basket, con l’attuale società biancorossa, da direttore sportivo.

In Primavera ai tempi di MelaniCHI È

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Fondazione

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F

Fondazione

L

zione e coordinamento della propria azio-ne con quella altrui negli sport di squadra, dominio di sé, superamento dell’aggressi-vità negativa e del risentimento, voler vincere ma anche saper perdere); la

seconda istanza è questa: che ogni forma sportiva, che coinvolga necessa-riamente i fans, comporti un incontro previo con i genitori che, spesso, assu-mono atteggiamenti fortemente disedu-

cativi, invitando alla violenza e alla scor-rettezza relazionale. Senza queste pres-sioni ed attenzioni, si rischia di fomentare disordini e disorientamenti.Voglio esprimere, perciò, la mia stima e la mia ammirazione per un’azione, spesso a lungo termine, di carattere pedagogi-co e psico-sociale sul territorio, come preparazione alla vita delle giovani generazioni. Nel contesto dell’attuale cultura non si fa mai abbastanza per far superare, a chi si affaccia alla vita asso-ciata, ogni forma di individualismo, ogni perdita delle proprie radici culturali, ogni anarchia nel campo dei valori morali.Non posso, quindi, non congratularmi con sincero entusiasmo, con il Presidente della Fondazione, Giorgio Mazzanti, col suo Consiglio e con tutti i suoi collaborato-ri nelle Commissioni permanenti o a breve termine. In questa occasione mi sia per-messo un particolare ringraziamento alla Fondazione per aver accolto con entusia-

smo il finanziamento del libro di Guido Sardi, “Il mistero del bosco”, come itinera-rio per un’educazione alla conoscenza della vita nascosta ma intensa delle nostre boscaglie collinari e, nello stesso tempo, per formare al rispetto dell’ambiente che gli adulti, nella passeggiata domenicale, soprattutto nel periodo dell’afa estiva, hanno dimenticato, scaricando gli avanzi di merende e picnic e, talvolta, abbando-nando rifiuti di vario genere, difficili da scaricare in città. Sarebbe interessante un test conoscitivo per sapere quanto gli adulti-babbi, mamme, nonni e parentele varie, conoscono il bosco e le sue presen-ze di vita.Grazie, quindi, alla Fondazione per avere fatto del tema un concorso per le scuole elementari, finanziando anche una cartel-la con la riproduzione, in grande, dei dise-gni del libro, per aiutare i ragazzi ad aprire

gli occhi su una realtà sconosciuta, capace di suscitare emozioni e stupore.Sarebbe davvero necessario che i pistoiesi prendesse-ro sempre più coscienza come vi siano nel loro tessu-

to storico-sociale tante iniziative che pos-sono alimentare, come i vasi sanguigni, la vitalità dell’intero corpo comunitario, supe-rando il pessimismo che riconduce alla chiusura individualistica ed aiutando a superare reazioni negative che la cronaca spesso provoca ed esaspera per volontà di scoop e interesse di vendita. “Fa più rumore un albero che si schianta che una foresta che cresce!”. E non si dica che sono iniziative che non interessano alla comunità cristiana e, quindi, alla Chiesa!

affrontare con una sempre maggiore con-sapevolezza la propria vita e la propria interazione positiva nel tessuto sociale.Per questo motivo, con ampiezza di oriz-zonti, la Fondazione collabora con Enti Pubblici e Privati che abbiano le stesse finalità: attività sporti-ve e culturali, teatro,

musica, mostre, p u b b l i c a z i o n i

varie che apra-no alla cono-

scenza del territorio, ai

problemi dell’ecologia, ad una storia che sta alle spalle ma che è stata matrice di civiltà e di bellezza. Pistoia vanta,

infatti, opere di grande valore artistico ed estetico, conosciute in tutto il mondo, che richiamano, anche oggi, un turismo culturale di grande spessore, sia sul piano urbanistico ed architettonico, come sul piano archivistico e librario. Mi permetto di suggerire un ricupero di cono-scenze di personalità che sono

cadute nell’oblio del silenzio, anche se le loro opere sono sotto gli occhi di tutti. Prezioso, nella mia valutazione,

anche l’impegno per favorire lo sport giovanile soprattutto nel periodo della

preadolescenza e della adolescenza stes-sa, quando la dimensione psico-fisica della persona si va formando e la corporeità acquisisce il suo valore più pieno.Vorrei però – e non può essere solo un mio desiderio! – che quando si prendono inizia-tive per minori si tenessero presenti, in particolare, due fattori: una grande atten-zione ai contenuti che lo sport media (impegno, responsabilità, lealtà, collabora-

E FAMOSE BANCHINE! Chi è quel pistoiese che non conosce, almeno per sentito dire, la gloriosa storia delle

Banchine di Credito Cooperativo che, nel primo Novecento, fiorirono nel nostro terri-torio? Le Banchine nacquero, come è risaputo, nelle Canoniche: un prete con un gruppetto di parrocchiani che avevano l’ot-tima intenzione di aiutare piccoli artigiani, contadini, commercianti, singoli clienti e famiglie, nella morsa della crisi economica che ebbe il suo apice nel ’29. Questa atten-zione alla vita sociale dei più fragili viene da lontano, viene fino dal Medioevo, con i Monti dei Pegni, le Casse di Risparmio, le Cooperative di lavoro e d’im-presa, e le Banche di Credito Cooperativo appunto. Questa creatività sul piano operativo sociale ha il volto dello spirito evangelico: “Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un presti-to, non voltare le spalle”. (Mt.5, 42). Giovanni, nella sua prima lettera, amplia quanto detto da Gesù, partendo dalla pro-spettiva della generosità dell’amore: “Se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo suo fratello in necessità gli chiude il cuore, come dimora in lui l’Amore di Dio? Figliuoli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità”. (I Gv.3,17-18). Dunque è nel dna dei pistoiesi questa creatività caritativa che non si limita ad un gesto isolato ma ricupera una continuità,

secondo il contesto socio-economico del momento.Perché questa premessa? Per capire come viene ad attuarsi, nelle stagioni della storia, ciò che sta alla radice. Era il set-tembre del 2005, quando la Banca di Pistoia e la Banca di Vignole, entrambe Banche di Credito Cooperativo, decisero di unire gli sforzi per creare una Fondazione che, raccogliendo appunto i

valori fondativi, continuasse a operare sul territorio di competen-za per la promozione, concretamen-te, di quei valori morali, civili e cultu-rali che fanno adulta e matura una comunità. Le finalità, dunque, della Fondazione sono eminentemente promozionali in quei settori di vita che permettono ai giovani una matu-razione umana, etica e spirituale attra-verso lo sport, la cultura, l’informazione, l’impegno educativo e relazionale, per

“La creatività caritativaè nel dna dei pistoiesi,

che non si limita a un gestoisolato ma trova continuità

secondo il contesto economicoe sociale del momento”

MONSIGNOR SIMONE SCATIZZI SCRIvE PER NOI

Civiltà e bellezza

“Lodevole è l’impegnoper favorire lo sporta livello giovanile.

E giusto dare importanzaalla valorizzazione

dei tesori della città”

“Dico grazie al presidenteGiorgio Mazzanti

e ai suoi collaboratoriper il valore della finalità

che riscontrano su più campile loro iniziative”

15 settembre 1947PASSA AL SEMINARIO MAGGIORE DI PISTOIA PER GLI STUDI SUPERIORI DI LICEO E TEOLOGIA

15 settembre 1942ENTRA IN SEMINARIO A PRATO, DOVE COMPIE LE SCUOLE MEDIEE IL GINNASIO

29 giugno 1954ORDINATO SACERDOTENELLA CATTEDRALE DI PRATO

10 gennaio 1955NOMINATO VICERETTOREDEL SEMINARIO DI PRATO

15 settembre 1972NOMINATO VICARIO PER LA PASTORALE DELLA DIOCESI DI PRATO

10 settembre 1959NOMINATO RETTORE DEL SEMINARIO DOVE, NEL 1962, INIZIA L’ESPERIENZA DELLE VOCAZIONI ADULTE

1° settembre 1976NOMINATO VICARIO GENERALE

6 agosto 1977NOMINATO VESCOVO DI FIESOLE

26 maggio 2006RASSEGNA LE DIMISSIONI DA VESCOVO RESIDENZIALE PER RAGGIUNTI LIMITI DI ETÀ. VIENE, AL CONTEMPO, NOMINATO AMMINISTRATORE APOSTOLICO, CIOÈ DELEGATO DAL PAPA

25 maggio 1981TRASFERITO ALLA DIOCESI DI PISTOIA

15 dicembre 2006LASCIA DEFINITIVAMENTE LA DIOCESI DI PISTOIA

L’importanza della Fondazione

xx xxxxx 19xxNOMINATO SEGRETARIO VESCOVILE DAL VESCOVO DI PRATO, MONS. PIETRO FIORDELLI

Simone Scatizzinasce a Pratoil 26 maggio 1931.Ex Vescovo di Pistoiaattualmente è assistente nazionale dell’Oami (Opera Assistenza Malati Impediti)

E

Eticamente

Andrea VaccaroProfessore e filosofo

Dalla farfalla al tornado:ogni azione è importante

INDIvIDUALISMO E MEDIA

Era il 1961 quando lo scienziato Edward Lorenz scoprì casualmenteche ogni dettaglio può comportare differenze sostanziali: le previsionimeteorologiche elaborate dal computer erano profondamente diversedopo aver arrotondato i numeri inseriti per il calcolo. Poi anche la teologia,la letteratura e la pedagogia hanno confermato “l’effetto farfalla”

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I N UNA NUVOLOSA mattina inver-nale del 1961, lo scienziato Edward Lorenz aveva iniziato il suo con-sueto lavoro nei locali del Mit di

Boston. Eravamo agli albori degli studi sulla meteorologia e Lorenz “traduceva” nubi, venti, pressioni atmosferiche e quant’altro in equazioni matematiche, per cercare di anticipare, con l’ausilio del computer, le prossime condizioni climati-che. Inseriva dati, attendeva, controllava, ripeteva le operazioni. Anche quel giorno Lorenz prese il tabulato appena stampato e riprogrammò il calcolo per la verifica. I computer di allora erano assai differenti dai portatili di oggi: enormemente più ingombranti, energeticamente dispendio-si e – quello che Lorenz odiava di più – dannatamente rumorosi. Lo scienziato si allontanò quindi dal laboratorio per la quiete degli orecchi e per un buon caffè caldo. Al ritorno, però, lo attendeva una gran sorpresa. Le previsioni che adesso disegnava il computer erano inspiegabil-mente diverse dalla simulazione prece-dente. Lorenz pensò alla solita valvola bruciata, ma non era così. Dopo molti accertamenti, si rese conto di cosa era

davvero successo. Con l’intento di abbre-viare i tempi e risparmiare spazio nella memoria del computer, aveva immesso i dati arrotondando i decimillesimi: al posto di 0,506127 aveva digitato 0,506 e così via. Gli esiti del calcolo – aveva pensato – non ne avrebbero risentito più di tanto. Ed invece, le equa-zioni non lineari operate dalla mac-china elettronica mostrarono che quella lievissima variazione iniziale, nel lungo termine, aveva provocato un esito clamoro-so. Lorenz rifletté per un certo tempo sul significato di questa scoperta decisamente inintenzio-nale prima di pervenire all’elaborazione scientifica del principio secondo cui le piccole perturbazioni, in determinati con-testi, non rimangono per sempre piccole e le minime variazioni possono crescere fino a rendere del tutto differente il futuro del sistema in cui sono inserite. Per divul-

gare il nuovo concetto, Lorenz pensò in un primo momento – dato che si occupa-va principalmente di correnti d’aria in movimento costante – all’immagine del battito d’ala di un gabbiano, per descrive-re quanto un movimento tanto leggero possa produrre conseguenze a catena

fino alla dimensio-ne macro. Poi, dopo diverse rielabora-zioni e perfeziona-menti, al convegno dell’American As-sociation for the Advancement of Science tenuto a Washington il 29 dicembre 1979, Lorenz si presentò con l’intervento

Predictability: Does the Flap of a Butterfly Wings in Brazil Set Off a Tornado in Texas? (Possibilità di previsione: può il battito di ali di una farfalla in Brasile pro-vocare un tornado nel Texas?). E da allora, l’idea circola liberamente nella cultura contemporanea come “effetto far-falla”.

Economia, società e politicaevidenziano trame complesse,

una rete cosmica di eventiin cui però conta anche

la più piccola delle scelte.Come diceva il poetaThomas Stern Eliot:non possiamo evitare

di disturbare l’universo

I mezzi di informazione (più correttamente, i mezzi di condizionamento culturale) fanno di tutto per schiacciare a livello zero l’indi-vidualità dei cittadini. Le questioni econo-miche sono così macro-manovrate che la collocazione del proprio gruzzoletto è total-mente insignificante; le trame politiche sono a tal punto intricate che per il singolo è praticamente impossibile muoverne anche solo un filo o individuare un bando-lo; le problematiche sociali sono enorme-mente complesse e la nostra personale azione di volontariato è un fuscello al cospetto di uno tsunami. E’ questo, gene-ralmente, l’effetto di poche ore di esposi-zione ai notiziari televisivi. Senza contare, poi, che i personaggi pubblici sono com-plessivamente fedifraghi e viziati, i politici corrotti o in attesa di corruzione, egoisti e sguaiati e, recentemente, i preti sono tutti pedofili. Le persone che vediamo quotidia-namente dalla finestra (della tv) sono tutti così immorali che proprio io devo compor-tarmi onestamente?, non può fare a meno di chiedersi il telespettatore. Constatazione che potrebbe essere resa anche nella forma: essi sono tutti fantocci e mezzi-uomini che solo io devo essere uomo?Il raccontino inizial-mente proposto – che è la sintesi di una delle pagine autobio-grafiche più celebri nella storia della scienza – per fortuna indica nella direzione opposta. E’ stato pre-sentato in veste di raccontino, per l’appun-to, ma è sostanziato da una solida dimo-strazione scientifica. Una verità che enun-cia: poiché siamo tutti collegati in una rete cosmica di eventi, la più piccola delle nostre azioni non può fare a meno di allar-garsi e modificare in qualche modo (nel bene o nel male) ciò che ci circonda. Il poeta riesce sempre a trovare le parole giuste e Thomas Stern Eliot lo testimonia ancora una volta quando osserva che, anche con la scelta di vita più ritirata, asce-tica, nascosta, “non possiamo evitare di disturbare l’universo”. Alan Turing, mate-

matico ed informatico che occupa un posto fondamentale nella storia dei com-

puter, aveva espresso il concet-to nel linguaggio suo proprio ed aveva annotato in forma quasi para-dossale: “Lo spo-stamento di un sin-golo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significa-

re la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l’uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una valanga, o la sua salvezza”. E’ disorientante per certi versi, ma le conseguenze di ogni nostro atto si estendono in risonanze profonde e imprevedibili.Ancora un esempio: Benjamin Franklin per molti anni curò un almanacco con il quale nutrì l’educazione morale del popo-lo americano. Nel 1758, offrì ai lettori una filastrocca per bambini di antica saggezza che suonava: “Per colpa di un chiodo si perse il ferro / per colpa di un ferro si

E

Eticamente

perse il cavallo / per colpa di un cavallo si perse il cavaliere / per colpa del cavaliere si perse la battaglia / per colpa della bat-taglia il re perse la guerra ed il regno. / Tutta colpa di una piccola disattenzione ad un chiodo di ferro di cavallo». Cambiano le modalità di espressione, ma la verità rimane identica. In ambito teologico, agli inizi del XIV secolo, si sviluppò un dibatti-to escatologico molto acceso che neces-sitò addirittura della formulazione di un dogma per la ricomposizione della Chiesa. Si tratta del dogma di papa Benedetto XII rimasto famoso anche perché l’unica defi-nizione dogmatica ex-cathedra di un papa. La discussione riguardava la domanda sul destino delle anime nel cosiddetto “tempo intermedio”, il periodo tra la morte e la resurrezione dei corpi con conseguente Giudizio universale. Perché il defunto – si chiedeva – non è giudicato immediatamente, ma deve aspettare la fine dei tempi per avere il suo giudizio e la retribuzione (paradiso o inferno) appro-priata? Alla luce delle considerazioni emerse con il nostro “effetto farfalla” sem-bra delinearsi un altro motivo per cui il Giudizio è posto alla fine della storia. Ciò accade perché le nostre azioni non termi-nano con la nostra vita, ma si allungano, per così dire, fino al termine dello sviluppo degli eventi, hanno echi che non si placa-no, sono come sassi lanciati nello stagno che espandono onde concentriche sem-pre più vaste. Ogni nostro gesto ha que-sta potenza. Anche quello più piccolo. Anche il prossimo. E allora, tirando le somme, se il battito di ali di una farfalla può provocare tornadi, se lo spostamento di un elettrone può mutare il corso di una valanga, se un chio-do può influenzare l’esistenza di un regno, quanto più la collezione di azioni, sguardi, parole che è la nostra vita può essere importante nella storia dell’umanità? Prendere coscienza di questo dinanzi ad ogni nostra piccola o grande scelta può creare scrupoli e perplessità, ma – chec-ché ne dicano la televisione e i giornali – rende anche l’idea dell’enorme potenza che risiede in ciascuno di noi. E dell’enor-me responsabilità che da questa potenza consegue.

63

Benedetto XIIsollevò il dibattito:

perché il defunto non ègiudicato immediatamente?

Il Giudizio è alla finedei tempi poiché

tutti i gesti che compiamohanno echi che non si placano.

Ecco la nostra potenza

E SON ROSE fioriranno si dice in riferimento a situazioni

in evoluzione, chiedendosi se cor-risponderanno o meno alle aspet-tative in esse riposte. Sembra di vedere la pianta della rosa in inver-no: quattro rami spinosi e senza foglie. Che cosa ne sarà di quella

pianta? La saggezza popolare sa che da quei rami non potrà che svilupparsi la pian-ta rigogliosa e ricca di fiori che tutti ammiriamo. Questo detto ha una valenza profon-da: è indice di una mentalità serena e fiduciosa, che presuppone l’esistenza di un ordine nella realtà, secondo il quale ogni cosa tende naturalmente a passare dalla propria potenzialità alla piena realizzazione di se stessa.

UR DISTINGUENDO facilmente il bene dal male, finiamo spesso per

imboccare la strada del male. Com’è mai possibile? Succede, infatti, che la razio-

nalità ci governa ma la nostra volontà trasgredi-sce il “suo” inse-gnamento. Video bona proboque, deteriora sequor (vedo ciò che è buono e lo approvo, ma seguo le vie peg-giori), diceva il

poeta latino Ovidio.Così come ci volgiamo per istinto verso il bene, anche senza averne la consapevo-lezza, le passioni possono indurci a fare quello che sappiamo di non dover fare.Volontà e ragione sono i due elementi che guidano il nostro agire: è quindi necessario che la ragione sia in grado di indicare la via da percorrere, e al tempo stesso la volontà sia disposta ad acco-gliere docilmente la sua indicazione.La cosa non è semplice, perché volontà e ragione sono fuse in un’unica attività interiore — che potremmo definire “eser-cizio della libertà” —, e si condizionano a vicenda. Aveva ben capito Manzoni quando definiva “guazzabuglio” il cuore umano!

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Volontàe ragione:chi decide?

filosofeggiando

B

Brevi & Bravi

di Franco Biagioni

Pillole digestive

alBero della cuccagna: il gelso

L’origine della seta (e del baco)Nel Quattrocento importammo esemplari dalla Cina

ON E’ AFFATTO una rarità vedere alberi di gelso (nella foto) nella nostra campagna. La sua diffusione è legata

alla coltivazione del baco da seta, un tempo assai praticata nelle nostre zone. La sua foglia, infatti, costituiva l’alimentodel baco nella fase adulta, e proprio per rispondere a questa esigenza, l’albero fu addirittura importato dalla Cina nel Quat-trocento. Le sue foglie verde chiaro tremolano ancor oggi al vento primaverile: il morus alba fa parte del nostro paesaggio,e ci ricorda che per ogni elemento dell’ambiente possiamo trovare un motivo della sua presenza, e ricostruire un pezzo di storia, scoprendo che nulla è lì per caso.

Paradosso

Distinguiamoil benedal malema non sempreci comportiamosecondologica

modi di dire:se son rose, fioriranno

Le spinedella serenità

NP

S

N UNa SUccESSIONE di numeri naturali consecutivi si alter-nano un numero pari e uno dispari: quindi i pari sono esatta-

mente la metà del totale. Considerando, invece, la totalità dei numeri naturali, i pari devono essere in quantità uguale al totale dei numeri: per ogni numero esiste il suo doppio, che è pari!

ILa solitudine dei numeri pari

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Una libreria nella strada che un tempo ospitava le botteghe degli orafi

Prendiamoci un caffe’

AMBIENTE in cui viviamo finisce per condizionare

pesantemente molte delle nostre scelte: sta a ciascuno di noi saper accogliere gli elementi positivi e “respingere” le cose peggiori. Nevio di Marco ha cer-tamente raccolto una delle sug-gestioni più belle di Pistoia, fon-dendo la naturale inclinazione per la scultura con i suggerimenti che gli venivano da una delle ric-chezze artistiche della città: le terrecotte, e, in primis, quelle robbiane del fregio dell’Ospedale del Ceppo. Ne è nata una produ-zione di buonissimo livello, frutto della passione per le cose belle e della riproposizione di tecniche antiche.

PuBBlicazione

Se il tabernacolo si rifà il lookRestaurata “La Madonna dei Minelli” a Capostrada

UANDO le strade si percorrevano a piedi, era naturale fermarsi, di tanto

in tanto, a riprender fiato. Fra le occasioni di sosta, la presenza di tabernacoli e immagini sacre, mete finali di processioni durante le ricorrenze religiose. Suggerivano

riflessioni, attimi per elevare lo spirito. Nel nostro mondo che va di fretta, i taberna-coli sono spesso lasciati a se stessi, in rovina: questo non è accaduto alla “Madonna dei Minelli” (nella foto), in Capostrada, che, dal degrado naturale causato dagli anni, è stata perfetta-mente “recuperata” grazie all’impegno di abitanti e istituzioni. A

tal proposito, da non perdere la pubblicazione edita dalla circoscrizione 3 del Comune di Pistoia, con testi e immagini degli architetti Alessandro Baldi e Paolo Caggiano, prodotta grazie anche al contribuito della Fondazione Banche di Pistoia e Vignole.

Preziosaopera editadal Comunedi Pistoia

Ia DEGLI ORaFI, l’antica via Taberna. Il tracciato di un’antichissima strada romana, che univa Firenze a

Lucca e costituiva l’asse centrale di Pistoia. Su quella strada sorsero le prime costruzioni della città, alloggi per i soldati e ricoveri per i viaggiatori; poi, nel tardo Medioevo, le botteghe degli orafi, da cui prende il nome. Oggi gli orafi non ci sono più, ma la via, che ancor oggi conserva le caratteristiche di una strada medievale, costituisce una tappa obbligata del passeggio cittadino. Proprio qui è sorta una libreria dal carattere moderno, in un fascinoso contrasto di stili: se dopo una passeggiata avete voglia di relax, entrate alla Libreria Edison (nella foto), dove, oltre a trovare un suggerimen-to per le vostre letture, potrete gustarvi un buon caffè o un aperitivo.

In passatoanchealloggiper soldatie ricoveriper viaggiatori

V

Quel tocco di moderno nella via del Medioevo

Q

artista

Nevio di Marco,terrecotte e sculture

L’

B

Brevi & Bravi

Renzo CastelliGiornalista e scrittore

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I SONO TANTI MODI per raccontare la vita dell’uomo, il suo ‘male di vivere’. Michele Cocchi, autore

pistoiese di 31 anni, lo fa attraverso dieci racconti rac-colti nel libro ‘Tutto sarebbe tornato a posto’. Gli episodi hanno un’acuta originalità e danno il segno di una fanta-sia accesa, di una sensibili-tà del tutto particolare agli eventi che attraversano la nostra quotidianità. Lo stile è sciolto, il vocabolario ricco, il racconto piacevole seppu-re amare sono molte delle situazioni descritte. Ogni racconto dispiega vicen-de diverse, soltanto in apparenza disgiunte l’una dall’altra. Nel loro com-plesso, infatti, tutte le storie — ‘piccoli sassi raccolti tra i ciottoli del fiume’ — vanno a comporre una grande metafo-ra dell’esistenza umana, fatta di episodi che si rincorrono l’un l’altro per andare a comporre la storia di una vita, di ogni vita.Senza una critica, però, una recensio-ne sarebbe fin troppo agiografica, quin-di un appunto all’opera del giovane Michele Cocchi, autore certamente di talento, dobbiamo muoverla, e buon per l’autore che si tratti di una vera inezia, che non può influire sulla sostan-za del libro e sul suo valore complessi-vo. L’appunto è di natura storico-lingui-stica e si riferisce a un unico vocabolo usato non correttamente. Accade quan-do Cocchi usa la parola ‘bagnasciuga’ per indicare la battigia, laddove cioè le onde vengono spinte sulla riva per poi ritrarsi lasciando una traccia di umidità sulla sabbia e, qualche volta, l’ultimo respiro delle meduse. Ebbene, ‘bagna-sciuga’ è una parola impropriamente

usata, purtroppo entrata con prepotenza nell’uso comune esattamente da 67 anni, da quando, cioè, Mussolini, il duce del

fascismo, pronunciò il 24 giugno del ‘43 il discorso detto appunto ‘del bagna-sciuga’ contro il minacciato sbarco alleato in Sicilia. Benché fosse stato maestro elementare e avesse una discreta cultura, come dimo-strò anche attraverso opere giovanili, Mussolini confuse ‘bagnasciuga’ con ‘battigia’, tratto in inganno dall’imma-gine del mare che, ritraen-

dosi, asciuga l’arenile. Mussolini ignorava evidentemente che, secondo la totalità dei dizionari allora esistenti, il bagnasciu-ga è invece la linea di galleggiamento (ora asciutta ora bagnata) della nave in mare.Michele Cocchi ha dato alle stampe que-sto interessante libro di racconti dopo una primissima esperienza – un rodaggio –

OMBELICO DEL MONDO di Michele Cocchi (nella foto) è Pistoia: qui è nato nel 1979 e qui tuttora vive. Si laurea in

psicologia all’Università di Bologna, poi segue studi specialistici nell’ambito psicologico e psicoanalitico. Esercita la professione di psicoterapeuta infantile. Coltiva, da molti anni, la passione dello scrivere “con lentezza ma costanza”. Collabora, assieme ad altri giovani pistoiesi, alla rivista di arte e letteratura “Paletot”. La sua

scrittura risente della passione per la montagna, e per il bosco in particolare. L’altro grande inte-resse è il cinema, che, su di lui, ha un’influenza più stilistica che contenutistica. Le preferenze letterarie vanno alla cultura anglosassone, per le caratteristiche di asciuttezza, ritmicità, esattez-za semantica della lingua inglese: ammira Hemingway, Carver, Alice Munro, Katherine Mansfield, Cormac McCarthy. Ma anche gli scrittori italiani che narrano l’Italia montana o conta-dina, tra gli anni ‘40 e ‘60: Fenoglio, Pavese, Bilenchi, D’Arzo.

La passione di scrivere con lentezzaL’AUTORE: MICHELE COCCHI

L’

C rappresentata dal racconto “Animali” inserita nella raccolta collettiva ‘Padre’ dello stesso editore Elliot. Dopo i raccon-ti, ora però lo attende il romanzo, cioè un impegno narrativo di maggiore respiro, più compiuto e compatto, soprattutto di più faticosa realizzazione. Come infatti diceva Flaubert, ‘fra un libro di racconti e un romanzo c’è la stessa diversità che corre fra una passeggiata nel bosco e una maratona’. Ma siamo certi che que-sto giovane autore non avrà difficoltà a intraprendere questa nuova strada e che potrà farlo con gli stessi esiti di questo primo libro di racconti. Cioè, ottimi.

Michele CocchiTutto sarebbe tornato a postoElliot edizioni139 pagine, 13 euro

La storia di ogni vitaI RACCONTI DI UN GIOVANE TALENTO

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Recensione

Il territorio, la nostra forza

Filiale 0 - Chiazzano Via Pratese, 471 - 0573/93591: Barbara Cappellini, Marco Marini, Guido Baldi, Andrea Biagioni, Sara Bonacchi, Ges-sica Cappellini, Fabio Frosini, Michela Maffucci, Massimiliano Mezzani Filiale 1 - Pistoia Via Guerrazzi, 9 - 0573/3633: Paolo Giovannini, Catia Vezzosi, Stefano Bai, Cinzia Baldanzi, Giacomo Barontini, Fernando Bartoletti, Martina Bartolini, Paolo Bartolini, Paolo Becagli, Loretta Crisantini, Simona Gramigni, Massimo Roberto Puggioni, Giampaolo Turi, Riccardo Vannucchi Filiale 2 - Montale Piazza Giovanni XXIII, 1 - 0573/557313: Alfonso Senesi, Francesca Innocenti, Enrico Ajello, Pier Luigi Borelli, Luca Cappellini, Cristina Grazioso, Fiorenza Zamponi Filiale 3 - Pistoia Corso Fedi, 25 - 0573/974011: Enrico Mondani, Ada Bessi, Riccardo Barbini, Cinzia Bruni, Laura Capecchi, Elisabetta Castiglioni Filiale 4 - Montemurlo Via Montalese, 511 - 0574/680830: Emanuele Carmignani, Simone Dani, Giacomo Baldi, Sabrina Belperio, Massimiliano Ferretti, David Gai, Damiano Nincheri, Renato Vagaggini , Silvia Vivarelli Filiale 5 - Spazzavento Via Provinciale Lucchese, 404 - 0573/570053: Patrizia Bellini, Andrea Conti, Stefano Innocenti, Cristina Lomis Filiale 6 - La Colonna - Via Amendola, 21 Pieve a Nievole - 0572/954610: Stefano Melani, Alessandro Piperno, Aldo Maurizio Fagioli, Luisa Marchetti, Damiano Paolini Filiale 7 - Prato Via Mozza sul Gorone, 1-3 - 0574/461798: Marco Iafrate, Massimo Baroncelli, Andrea Giacomelli, Alessandro Ronconi, Francesco Vannucci Filiale 8 - S. Agostino Via Galvani, 9/C-D - 0573/935295: Fabiano Ammannati, Fabio Giannini, Valeria Andreini, Emilia Beato, Franco Biagioni, Olviana Ferri, Federica Salute, Elena Vettori Filiale 9, Campi Bisenzio Via Petrarca, 48 - 055/890196): Michele Buccassi,Lorenzo Nistri, Eleonora Palandri Filiale 10 - Bottegone Via Magellano, 9 - 0573/947126: Stefano Matteucci, Rachele Biagioni, Daniele Niccolai

Direzione Generale: Gian Carlo Marradi (Direttore Generale), Paolo Giovannini (Vice Direttore Generale Vicario) Centro Imprese: Cristiano Mazzei, Silvia Passini, Angelo Pieraccioli Centro mercato: Massimiliano Cecchi, Daniele Orselli Estero commerciale: Alessandro Tesi Marketing: Bernardo Capecchi Agricredito: Roberto Merildi Finanza: Daniele Bongiovanni, Silvia Guarino, Sofia Spezzano Prodotti assicurativi: Laura Tamburella Risk controller: Roberto Pierattini Ispettorato: Daniele Giacomin, Riccardo Lori Controllo andamentale del credito: Antonella Liessi, Stefano Ponsillo Fidi: Fabrizio Bellini, Stefano Tognarini, Cecilia Bani, Giuseppina Bartolini, Stefano Benesperi, Daniele Pagnini, Antonella Romiti Estero amministrativo: Lisa Papalini, Sergio Salabelle Risorse umane/Comunicazione: Andrea Cabella, Grazia Manchia Segreteria generale: Tiziano Goffo, Giuliana Capecchi Legale: Maurizio Farnesi, Raffaele Felicetti, Teresa Feola Soci: Enzo Pacini Servizi generali: Pierluigi Niccolai, Lucia Bessi, Alessandro Orlando Organizzazione tecnologie e sistemi: Alessio Fedi, Luca Franchi, Alessio Gori Contabilità: Luca Gori, Maria Elisabetta Tesi, Imelda Innocenti, Tiziano Niccolai, Fabrizio Parretti, Daniele Spinetti, Carlo Turchi

0. Chiazzano 1. Pistoia - Via Guerrazzi 2. Montale 4. Montemurlo 5. Spazzavento

6. La Colonna 7. Prato 8. Pistoia - S. Agostino 9. Campi Bisenzio 10. Bottegone

3. Pistoia - Corso Fedi

Sede DirezionaleLargo Treviso, 3 - 51100 PistoiaTel. 0573.3633

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