Il medico e l’altro: storie bresciane di cooperazione ... · Francesco CastelliDott.ssa Adriana...

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ORDINE MEDICI CHIRURGHI E ODONTOIATRI DELLA PROVINCIA DI BRESCIA B RESCIA M EDICA Inserto Redazionale del Notiziario Brescia Medica n° 360 Maggio-Giugno-Luglio 2012 Poste italiane S.P.A spedizione in abbonamento postale 70% - Filiale di Brescia Autorizzazione del Tribunale di Brescia n. 195 I.R. Primo Piano Così lontani… così vicini Novità Spazio giovani medici Testimonianze Esperienze professionali e umane Il medico e l’altro: storie bresciane di cooperazione internazionale e di migranti

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ORDINEMEDICI CHIRURGHIE ODONTOIATRIDELLA PROVINCIADI BRESCIA

Brescia MedicaInserto Redazionale del Notiziario Brescia Medica n° 360

Maggio-Giugno-Luglio 2012Poste italiane S.P.A spedizione in abbonamento postale 70% - Filiale di Brescia

Autorizzazione del Tribunale di Brescia n. 195 I.R.

Primo PianoCosì lontani…così vicini

NovitàSpazio giovani medici

TestimonianzeEsperienze professionali e umane

Il medico e l’altro:storie bresciane di cooperazione

internazionale e di migranti

2 MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

| IN QUESTO NUMERO |

Direzione-reDazione-amministrazione: Via Lamarmora, 167, Brescia, tel. 030 2429537, Fax 030 2429530, e-mail: [email protected], www.ordinemedici.brescia.it Direttore responsabile: Dott. Gianpaolo Balestrieri, Comitato di redazione: Dott. Angelo Bianchetti, Dott. Luciano Corda, Dott.ssa Silvia Martinazzi, Dott. Piergiorgio Muffolini, Dott. Raffaele Spiazzi, Dott. Roberto Stellini, Dott. Erminio Tabaglio.

ConsigLio DeLL’orDine 2012-2014: PresiDente: Dott. Ottavio Di Stefano, ViCe PresiDente: Dott.ssa Luisa Antonini, segretario: Dott. Bruno Platto, tesoriere: Dott.ssa Graziella Iacono, ConsigLieri: Dott. Gianpaolo Balestrieri; Dott. Germano Bettoncelli; Dott. Angelo Bianchetti; Dott. Marco Brianza; Dott. Ovidio Brignoli; Prof. Francesco Castelli; Dott.ssa Adriana Loglio; Dott. Diego Misoni; Prof. Francesco Puccio; Dott. Cesare Spedini; Dott. Roberto Stellini; Dott. Aldo Francesconi (Odontoiatra); Dott. Luigi Veronesi (Odontoiatra), CoLLegio reVisore Dei Conti: PresiDente: Dott. Raffaello Mancini, ComPonenti: Dott.ssa Costanza Gregorini; Dott.ssa Analia Perini; Dott.ssa Edda Simoncini (Supplente), Commissione aLBo oDontoiatri: PresiDente: Dott. Luigi Veronesi, segretario: Dott. Pierantonio Bortolami, ComPo-nenti: Dott. Claudio Dato; Dott. Aldo Francesconi; Dott.ssa Paola Sottini, UFFiCio Di PresiDenza: Dott. Ottavio Di Stefano; Dott.ssa Luisa Antonini; Dott. Bruno Platto; Dott.ssa Graziella Iacono; Dott. Gianpaolo Balestrieri (Direttore Responsabile BresciaMedica); Dott. Roberto Stellini (Coordinatore Commissione interazione professionale).

stamPa: Com&Print srl - BresciaProgetto eDitoriaLe: a cura di Luca Vitale e Associati

EDITORIALE

L’altro, il diverso 3

Un saluto dal Presidente ottavio Di stefano 3

PRIMO PIANO

Così lontani…così vicini 4

PROGETTI

il Progetto esther in Burkina Faso 11

ospedale Pediatrico a Bor 20

TESTIMONIANZE

Diario da Kabul 24

Un medico in guerra 31

Bambini soldato 33

Chirurgia a tutto campo 35

ospedale di Kalongo, Uganda 37

associazione amici per l’africa 40

Una settimana di volontariato a sakatia, madagascar 42

“niente è più come prima. L’africa mi ha ricaricato” 43

IMMIGRATI E SANITÀ BRESCIANA

Le famiglie dei migranti e il volto dei servizi socio-sanitari 45

L’assistenza sanitaria al migrante irregolare 49

PAGINA DELL’ODONTOIATRA

relazione di Luigi Veronesi 53

SPAZIO GIOVANI MEDICI

giovani medici: tra teoria e pratica 56

essere medici 58

PILLOLE DI STORIA

L’assistenza ai profughi dopo la seconda guerra mondiale 59

RICORDI

Dott. giacomo Corvini 65

Dott. Dario monzeglio 66

Dott. gianguido Battioni 67

Dott. giuseppe gatti 67

ORDINEMEDICI CHIRURGHI

E ODONTOIATRI

DELLA PROVINCIA

DI BRESCIA

Brescia MedicaInserto Redazionale del Notiziario Brescia Medica n° 360

Maggio-Giugno-Luglio 2012

Poste italiane S.P.A spedizione in abbonamento postale 70% - Filiale di Brescia

Autorizzazione del Tribunale di Brescia n. 195 I.R.

Primo Piano

Così lontani…

così vicini

Novità

Spazio giovani medici Testimonianze

Esperienze professionali

e umane

Il medico e l’altro:

storie bresciane di cooperazione

internazionale e di migranti

3MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

L’altro, il diversoPuò apparire una scelta poco comprensibile, lon-tana dall’attualità, dedicare questo numero del giornale al confronto con l’altro da noi, dalle espe-rienze di cooperazione internazionale ai migranti di casa nostra. Incalzano urgenze diverse.Tuttavia proprio in un momento di crisi può essere preziosa la ricerca delle motivazioni più alte della nostra professione.Il prendersi cura dell’altro con “compassione” ca-pacità di “partecipare all’altrui sofferenza”, come ci ricorda Giorgio Cosmacini storico della medicina nel suo ultimo testo. Compassione fondamento dell’etica, non solo dell’etica medica secondo la psicoanalista Melanie Klein.Le testimonianze ospitate sono numerose, varie per tipologia e scenari. Testimonianze che naturalmente, data la ricchezza della tradizione bresciana in questo campo, non possono dar conto se non parzialmente (e ce ne scusiamo) di una realtà molto articolata.Un elemento comune si rintraccia, tuttavia. Alla radice di tutte le esperienze vi sono le ragio-ni della medicina, ragioni indipendenti, spesso in contrasto con quelle dell’economia, della politica, della guerra. Ragioni che fanno sì che la medicina, con il suo in-tervenire in aiuto delle persone, indipendentemente da diversità etniche, culturali, ideologiche, religio-

se, si ponga come ponte, come pratica che tende a superare le contrapposizioni e gli scontri in nome di un valore umanistico più alto.L’altro, il diverso è anche e sempre più tra noi. Ne sorgono problemi che tutti viviamo nella quotidia-nità. La risposta che la sanità bresciana ha dato al problema degli immigrati, sia a livello istituzionale sia nel comportamento degli operatori, mi pare co-munque complessivamente adeguata.Ci auguriamo che, anche nella crisi attuale, conti-nui ad esserlo, nella fedeltà ai principi fondanti la professione medica.

| EDITORIALE |

il Direttore Gianpaolo Balestrieri il Presidente

Ottavio Di Stefano

Dopo la “medicina ai tempi della crisi” vi pro-poniamo un altro tema non usuale “il medico e l’altro: storie bresciane di cooperazione interna-zionale e di migranti”.sono molti i medici bresciani che, lontani dai clamori dei media, da anni si dedicano alla pra-tica della medicina in quello che una volta chia-mavamo il terzo mondo. Vorremmo presentarvi questa realtà coniugandola con la realtà dei migranti. Questa è una componente del tutto si-gnificativa della società italiana ed in particolare della nostra città e provincia.insomma la medicina deve confrontarsi sempre di più con l’altro a volte ritenuto, del tutto im-propriamente, diverso.Vorremmo però non dare una lettura sentimen-tale dei due aspetti. Vi proponiamo infatti dati di epidemiologia accanto a racconti di esperien-za professionale ed umana.il miglioramento dei livelli di salute nel terzo mondo e l’integrazione determinano crescita economica. Può stupire ma è così. (Bradford Kelly V. et al. new engl J med 2010; 363: 1199-1211.)

Un caro saluto

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Così lontani… così vicinidi Francesco CastelliProfessore ordinario di malattie infettive e Direttore della Clinica di malattie infettive e tropicali e 2° U.o. di malattie infettive, Uni-versità di Brescia e spedali Civili di Brescia. Past-President, medicus mundi italia

La cooperazione sanitaria interna-zionale, nella moderna accezione del termine, ha storia relativamente recente e nasce dalla constatazione dell’insufficienza dei sistemi sani-

tari dei Paesi ex-coloniali, soprattutto africani, che hanno in larga misura ottenuto l’indipendenza nel corso degli anni’60. In numerosi Paesi, preceden-temente, l’assistenza sanitaria era infatti sostanzial-mente gestita dagli espatriati europei ed era indiriz-zata a soddisfare le esigenze degli stessi (funzionari, militari, insegnanti, commercianti, etc.) oltre che di quella parte della popolazione locale che aveva rapporti di servizio con la potenza occupante. Al resto della popolazione, più spesso confinata nelle aree rurali dei Paesi, rimaneva l’accesso, nella mi-gliore delle ipotesi, alla sola medicina tradizionale o ai dispensari medici delle missioni delle varie confessioni, tra le quali la religione cattolica era certamente ben rappresentata soprattutto nelle ex-colonie portoghesi, spagnole, francesi, belghe e italiane.Si parlava infatti allora di “medicina tropicale” o di “medicina coloniale”. Il primo testo di riferimento

di patologie che si potevano riscontrare in questi Paesi (Patrick Manson, 1898) portava come titolo “Manuale delle malattie dei climi caldi”. Era dun-que un concetto di medicina geografica, riservato a proteggere gli espatriati e coloro i quali erano a questi funzionali. Solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (Parigi, 1948), viene affermato il principio inalienabile del diritto alla salute che troverà successiva e definitiva consacrazione nella Dichiarazione di Alma Ata nel 1978 e nella filosofia delle Cure Primarie (Primary Health Care), quale strategia per rispondere ai bisogni sanitari essenziali delle popolazioni con tecniche scientificamente appropriate, ma nel rispetto dei vincoli economici di sostenibilità.

Cooperazione e solidarietà

Erano intanto nate spontaneamente, espressione della società civile, numerose associazioni di medi-ci volontari che, spinti dal sentimento di solidarietà insito nella professione medica e mossi dalle prime

Ieri

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| La curiosità dei nostri piccoli vicini di casa in Burkina Faso

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immagini di sofferenza che venivano portate nelle nostre case sugli schermi televisivi in bianco e nero, avevano deciso di mettersi al servizio delle popola-zioni povere. Al momento della Dichiarazione di Alma Ata, cui partecipò anche una delegazione di Medicus Mun-di Internazionale, anche io avevo già intrapreso il mio personale percorso professionale ed umano iniziato nel 1975 nella missione comboniana di Vi-che, in Ecuador, alla ricerca del modo in cui poter soddisfare il mio giovanile desiderio di solidarietà.In ambito sia religioso sia laico si assiste dunque a un fermento di cooperazione e solidarietà. Nascono in Italia le prime Organizzazioni Non Governative (ONG) a impronta sanitaria. Per quanto riguarda Brescia, viene fondato nel 1968 il nucleo di Medicus Mundi Italia, branca ita-liana di Medicus Mundi Internazionale, a sostegno delle attività dell’Ospedale di Kiremba in Burundi, sin da allora sostenuto dalla Diocesi di Brescia.

“Medicina tropicale”

Nel frattempo, con il progressivo sviluppo econo-mico del mondo occidentale, il concetto di “me-dicina tropicale” si è progressivamente evoluto a includere tutte le patologie, in larga misura ma non esclusivamente infettive, connesse ad un contesto di insufficiente sviluppo economico e sociale.In altre parole, le malattie della povertà.Che possono essere riscontrate con maggior preva-lenza nei paesi tropicali, ma che sempre più spesso si presentano anche nelle strade italiane.E di Brescia.Si parla dunque oggi con maggior appropriatezza di Salute Globale, a significare la necessità di indi-viduare e assistere le nuove fragilità sociali che si verificano anche vicino a noi e che spesso assumo-no le sembianze di un anziano solo e malato o di un migrante irregolare o ancora di chi è preda delle nuove schiavitù del mercato del sesso.

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Cooperazione bresciana

Brescia può a buon diritto rivendicare un ruolo di primogenitura nella storia della cooperazione in-ternazionale in Italia, sia laica sia religiosa. Capita spesso a chi ha a lungo viaggiato in Paesi poveri sentir risuonare frasi in dialetto bresciano. Ed al-lora ci si accorge con gioia che quella suora, quel missionario, quel volontario viene da casa tua. Forse non è un caso che anche Daniele Comboni, seppure cresciuto in Verona, è nato sulla sponda bresciana del Garda. Ma anche in ambito laico il contributo di Brescia alla cooperazione Internazio-nale è stato ed è di assoluto rilievo.Fu infatti l’Onorevole bresciano Mario Pedini a presentare nel 1964 la prima proposta di legge fi-nalizzata a regolamentare la partenza di volontari italiani nel mondo nell’ambito di attività di coope-razione in sostituzione degli obblighi militari. La legge, dopo un lungo iter parlamentare, fu approva-ta l’8 novembre del 1966 (legge 1033) e può essere considerata la base di partenza di tutta la legislazio-ne successiva in materia. I primi volontari bresciani partirono nel 1968 per Mogadiscio, nell’ambito di

un progetto educativo promosso dalla Fondazione Tovini.Dopo oltre un decennio, le attività di cooperazio-ne internazionale in Italia trovano una sistematiz-zazione legislativa nella legge n. 38 del 9 febbraio 1979, che ancor oggi costituisce il quadro di riferi-mento normativo. Tale legge, considerando l’attività di cooperazione internazionale uno strumento essenziale di politica estera, affidava il ruolo di regia di tale attività alla costituenda Direzione Generale Cooperazione allo Sviluppo (DGCS). La normativa più recente, pur mantenendo al Ministero degli Affari Esteri ed al ne-onato Ministero per la Cooperazione Internazionale e per la Integrazione la responsabilità della coope-razione internazionale, ha introdotto la possibilità per gli Enti locali (Regioni, Provincie e Comuni) di finanziare progetti di intervento nei Paesi in via di sviluppo. In tale contesto è da riconoscere lo sfor-zo sistematico compiuto da tempo dal Comune di Brescia negli interventi di cooperazione, con l’es-senziale aiuto tecnico della Consulta per la Coope-razione e la Pace, la Solidarietà Internazionale e i Diritti Umani del Comune di Brescia.

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| i Paesi poveri hanno spesso una società giovane, con elevati tassi di mortalità infantile e tanto analfabetismo, vera piaga sociale

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Negli ultimi anni, la riflessio-ne su quale debba essere oggi la strada migliore da percorre-re da parte della cooperazione sanitaria internazionale è stata

ricca e articolata, a testimonianza della passione e del fermento che hanno fornito linfa vitale a questa attività. Certamente appare trascorso il periodo del puro

assistenzialismo sanitario, pur nobilissimo nel suo intento umanitario durante il quale il personale medico e infermieristico occidentale tentava di porre rimedio a una carenza di personale e strutture locali.Oggi gli interventi di cooperazione sanitaria inter-nazionale possono essere grossolanamente distinti in interventi di sviluppo e interventi di emergenza, tra di loro complementari e non contrapposti.

Oggi

Interventi di sviluppo

Gli interventi di sviluppo si pongono come obiettivo un accompagnamento di lungo periodo delle po-polazioni locali per promuovere, nel rispetto della dignità degli individui, lo sviluppo globale delle professionalità e delle infrastrutture nell’ottica di favorirne la futura autonomia.Evidentemente, le attività di formazione assumono in tali progetti una rilevanza affatto particolare e la fidelizzazione delle due comunità rispettivamente promotrice e beneficiaria dell’intervento. Tali pro-getti sono spesso integrati coinvolgendo il settore sanitario a fianco del settore educativo, agrario, professionale, etc.

Interventi di emergenza

Gli interventi di emergenza, complementari e non sostitutivi dei precedenti, rispondono alle esigenze delle calamità naturali (terremoti, epidemie, tsu-nami, etc.) o belliche e richiedono una imponente capacità logistica e tecnica, più spesso appannag-gio di grandi organizzazioni non governative (in Italia particolarmente attivi in questo settore Medici senza Frontiere ed Emergency) o della Croce Rossa Internazionale. Sempre più spesso, tuttavia, tali interventi di emergenza, si protraggono nel lungo periodo necessario alle attività di ricostruzione o consolidamento e contribuiscono così anche agli aspetti di sviluppo più sopra richiamati.

Carenza di personale

Elemento essenziale in ambito sanitario è la ca-

renza di personale locale, soprattutto nelle aree

rurali dei Paesi poveri. Se il numero minimo di

personale sanitario (medici, infermieri, ostetriche,

etc.) ritenuto indispensabile dalla Organizzazione

Mondiale della Sanità (OMS) è di 23 per una po-

polazione di 10.000 persone, si segnalano ancora

Paesi dove questo valore è di 2-3/10.000 persone

(Castelli et al., 2010)!

Il fenomeno della fuga del personale sanitario

dai Paesi poveri verso Paesi che possano offrire

una migliore prospettiva sociale ed economica è

considerato una vera e propria piaga anche dalla

OMS. Nel corso della Assemblea Mondiale della

Sanità del 2010 l’OMS ha approvato il Codice

di condotta per il reclutamento internazionale di

personale sanitario, che la stessa Federazione Na-

zionale degli Ordini dei Medici Chirurgi e Odon-

toiatri (FNOMCEO) ha attivamente fatto suo assi-

curando il suo sostegno ufficiale al manifesto per

il rafforzamento del personale sanitario di recente

promosso da AMREF Onlus.

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8 MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

Cooperazione Internazionale bresciana

Oggi Brescia è una realtà con una rilevante attività in tema di cooperazione internazionale, con ben 5

organizzazioni non governative (ONG) ufficialmente riconosciute dal Ministero degli Affari Esteri oltre a

numerosissime associazioni di volontariato ed altrettanto numerosi medici ed operatori sanitari bre-

sciani che operano anche in ONG con sede in altre Provincia. Le ONG bresciane operano nel settore

educativo (Fondazione Tovini), nel settore agricolo integrato (Servizio Volontario Internazionale – SVI),

nel settore artigianale (Servizio Collaborazione Assistenza Internazionale Piamartino – SCAIP), nella

cooperazione tecnica (Fondazione SIPEC) e, per quanto più direttamente riguarda la nostra professione,

nella cooperazione sanitaria internazionale (Medicus Mundi Italia).

Università

La Facoltà medica dell’Università di Brescia offre ben 4 livelli di formazione post-laurea per il medico che desidera un approfondi-mento in tema di cooperazione sanitaria internazionale:

• Corso di Perfezionamento in Medicina Tropicale e Salute Internazionale, ricono-sciuto in ambito europeo quale Modulo Base del Master in Salute Internazionale TropEdEurop;

• Master in Medicina Tropicale e Salute Glo-bale, con sede amministrativa alternativa-mente presso le Università di Brescia e di Firenze;

• Scuola di Specializzazione in Medicina Tropicale (attualmente aggregata alla Uni-versità di Milano);

• Dottorato di Ricerca in Metodologie e Tecniche appropriate nella Cooperazione Internazionale allo Sviluppo, organizzato congiuntamente dalle Facoltà di Medicina e di Ingegneria.

L’Università di Brescia promuove anche pe-riodi di permanenza su progetti sanitari in Pa-esi poveri nell’ambito del percorso formativo di alcune Scuole di Specializzazione.

Ospedali

Gli Spedali Civili di Brescia hanno collabora-to con Medicus Mundi Italia in Burkina Faso fino a quando la situazione economica lo ha consentito. La Fondazione Poliambulanza è ancora attiva a fianco dell’Ospedale di Kiremba, che di re-cente è stato teatro di tragiche vicende. Così come attivi sono progetti in Africa Oc-cidentale condotti dal personale sanitario della Casa di Cura San Camillo e certamente molte altre ancora che solo motivi di spazio e forse di mia stessa inconsapevolezza mi im-pediscono di menzionare come pure sarebbe doveroso.Per quanto riguarda più specificamente Me-dicus Mundi Italia, essa conduce oggi, in collaborazione con numerose altre realtà del nostro territorio, interventi sanitari in Africa (Burkina Faso, Sud Sudan, Etiopia, Mozam-bico), in America Latina (Ecuador, Brasile, Bolivia) e in prospettiva futura in Asia (India) lavorando con i colleghi locali per il rag-giungimento degli obiettivi di sviluppo del Millennio ed in particolare nei progetti di pre-venzione della mortalità materno-infantile e di lotta all’AIDS, alla tubercolosi, alla malaria e ad altre malattie endemiche.

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Le criticità

Brescia città solidale, dunque. Certamente Brescia è luogo dove la solidarietà è di casa e dove la dimen-sione dell’aiuto ha radici profonde. Ma questo non deve far dimenticare che anche a Brescia, terra sto-ricamente sede di produzione di armi che nel pas-sato hanno anche giocato un ruolo in scenari bellici di terre lontane e martoriate pur oggetto della stessa solidarietà bresciana, esistono criticità sociali pro-fonde che in qualche modo contrastano almeno apparentemente con questo paradigma. Brescia è infatti anche terra dove quasi il 15% della popolazione residente è di origine straniera. A tale fenomeno conseguono tensioni sociali soprattutto in momenti, quali quelli attuali, nei quali gli aspetti di crisi economica rendono più difficili gli aspetti dell’accoglienza disinteressata delle persone fragili ed in difficoltà. Forse perché ciò ci interroga più profondamente e più da vicino, toccando le nostre convinzioni e abi-tudini quotidiane. Costringendoci a uno sforzo di cambiamento e di adattamento tra le mura dome-stiche e nelle strade di una terra che consideriamo nostra.

La condivisione del proprio ci disturba. Il paziente straniero, portatore di modelli di vita e di salute così lontani dai nostri, ci richiede uno sforzo tal-volta insuperabile che rischia di divenire fastidio e respingimento del diverso.

Le barriere medico/paziente

Lo sforzo comunicativo tra medico e paziente è rilevante, dovendo superare numerose barriere:

• pre-linguistica: difficoltà ad esprimere i propri vissuti interiori spesso inconsapevoli e quindi non verbalizzabili;

• linguistica: difficoltà legate alla mancata co-noscenza della lingua;

• meta-linguistica: difficoltà di comunicazione, anche in presenza di conoscenza della lin-gua, connessa a simbolizzazioni o concezio-ni di salute e malattia che non sono condivi-se dai due dialoganti;

• culturale: incomprensioni causate da conven-zioni sociali (apprese dall’individuo nell’am-biente culturale attraverso un processo in parte inconsapevole) non condivise;

• meta-culturale: difficoltà legate a differenze ideologiche, filosofiche e religiose.

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10 MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

| PRIMO PIANO |

Risulta talora più facile indirizzare i nostri sforzi di solidarietà lontano, verso qualcuno che non ri-schia di turbare la nostra quotidianità.

La povertà e l’emarginazione adesso più di un tempo bussano alle nostre porte ed anche il medico deve sapere trovare le risorse per offrire il suo aiuto.La professione medica è solidale per sua stessa natura, finalizzata al sollievo delle sofferenze. Nel quotidiano esercizio della professione medica, an-che in Italia, l’insegnamento di Ippocrate “di cu-rare ogni paziente con eguale scrupolo e impegno, prescindendo da etnia, religione, nazionalità, con-dizione sociale e ideologia politica e promuovendo l’eliminazione di ogni forma di discriminazione in campo sanitario” dovrebbe guidare l’operato di chi l’ha scelta come ragione di vita e sottende implici-tamente il rispetto della persona umana sofferenteQuesto è un impegno che prescinde in realtà dal luogo in cui si esercita la professione, ma che certamente trova massima espressione quando si innesta in un tessuto sociale di povertà estrema, di analfabetismo e di debolezza sociale quale quello

di numerosi Paesi poveri.E allora anche il mondo accademico deve fare la sua parte. La responsabilità di chi è chiamato anche ad un ruolo di insegnamento e formazione delle future generazioni di medici è grande. Oltre all’in-dispensabile insegnamento tecnico-scientifico, base della moderna medicina basata sull’evidenza deve, a mio modo di pensare, trovare spazio anche la sensibilizzazione degli studenti alle problematiche umane e sociali, a quei determinanti sociali della salute che l’Organizzazione Mondiale della Salute oggi considera elementi essenziale per il controllo delle malattie e che sono alla base della dichiara-zione di Rio de Janeiro del 2011.

E allora anche l’Ordine dei Medici e degli Odonto-iatri deve fare la sua parte ed io sono davvero lieto che l’Ordine di Brescia abbia voluto dedicare que-sto numero di Brescia Medica alle problematiche della cooperazione sanitaria “internazionale”.Per confermare la nostra attenzione ai più poveri, sofferenti e bisognosi. Siano essi lontani. Siano essi vicini.

Riferimenti bibliografici essenziali

• Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, Parigi, 10 dicembre 1948 http://www.interlex.it/testi/dichuniv.htm

• Dichiarazione di Alma Ata sul Diritto alla Salute, Alma Ata, 1978. http://www.aifo.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/528

• Legge 9 febbraio 1979, n. 38 - Cooperazione dell’Italia con i Paesi in via di sviluppo, pubblicata sul-la Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 44 del 14 febbraio 1979.

http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1979-02-09;38@originale

• Codice di condotta per il reclutamento internazionale di personale sanitario, OMS, 2010. http://www.who.int/hrh/migration/en/index.html

• Medicus Mundia Italia. 40 anni di impegno nella Cooperazione Sanitaria internazionale, 2010. http://www.medicusmundi.it/it/comunicazione/libreria/237-40-anni-di-medicus-mundi-italia.html

• Castelli F., Rodari P., De Nardi S. Salute e Risorse Umane. Atti del 7° Convegno internazionale Valo-rizzazione delle risorse locali nei progetti di cooperazione con i Paesi in via di sviluppo. Brescia, 17 dicembre 2010.

• Rio Political Declaration on Social Determinants of Health, Rio de Janeiro, 2011. http://www.who.int/sdhconference/declaration/en/

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| PROGETTI |

Il Progetto ESTHER in Burkina Fasodi Richard Fabian Schumacher(Dirigente medico di i° livello, Uo di oncoematologia Pediatrica, Presidio ospedaliero ospedale dei Bambini, a.o. spedali Civili di Brescia)

e di Francesco Castelli (Professore ordinario di malattie infettive e Direttore della Clinica di malattie infettive e tropicali e 2° U.o. di malattie infettive, Università di Brescia e spedali Civili di Brescia, Consigliere, ordine dei medici Chirurghi e degli odontoiatri, Provincia di Brescia, responsabile scientifico, Progetto estHer-Brescia)

Tanti non ne conoscono nemmeno

l’esistenza: il Burkina Faso

è uno Stato dell’Africa Occidentale dal nome affascinante:

“patria degli uomini integri”,

uno dei paesi più poveri al mondo,

una terra avara, ma con una grande ricchezza umana.

Nell’ambito della European ES-THER Alliance, che attraverso un network di ospedali del Sud e del Nord del mondo cerca di migliorare tutti gli aspetti della lotta contro HIV/AIDS, i Dipar-timenti di Pediatria e di Malat-tie Infettive degli Spedali Civili di Brescia collaborano sin dal 2003 con le strutture sanitarie della Vice-Provincia Camilliana a Ouagadougou (Burkina Faso), dirette dal medico camilliano Padre Salvatore Pignatelli, pedia-tra e per molti anni unica figura medica delle strutture stesse.

Il progetto ESTHER (Ensemble pour une Solidarité Thérapeu-

tique en Réseau) è supportato dai Ministeri della Salute di Au-stria, Belgio, Francia, Germania, Grecia, Lussemburgo, Norvegia, Portogallo, Spagna e natural-mente Italia che ne ha affidato il coordinamento tecnico all’Istitu-to Superiore di Sanità.

Questa collaborazione è ulte-riormente rafforzata istituzio-nalmente dal gemellaggio tra l’Università di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso e quel-la di Brescia. La complicata logistica del pro-getto invece è affidata alla ONG Medicus Mundi Italia, fortemen-te radicata in terra bresciana.

| nella stagione delle pioggie nel sahel, l’acqua si raccoglie in preziose conche, che assicurano il raccolto. nel corso del 2011, una importante siccità ha caratterizzato questa area geografica

12 MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

| PROGETTI |

ll progetto pediatricoLa parte pediatrica del partena-riato è affidata al Dipartimento di Pediatria degli Spedali Civili con la Scuola di Specializzazione in Pediatria dell’Università di Brescia (Direttore: Prof. A. Plebani) che ha raccolto l’invito del Prof. Castelli, Direttore della Scuola di Medici-na Tropicale e allora Presidente di Medicus Mundi Italia, a colla-borare nel programma di preven-zione della trasmissione verticale dell’infezione HIV presso i Padri Camilliani e nella cura dei piccoli che purtroppo risultavano infetti.

Spesso i bambini HIV-infetti sono orfani o le famiglie si sgretolano di fronte alla diagnosi di un’infe-zione HIV, accompagnata - come in Europa - da uno stigma sociale fortissimo.Abbiamo allora cominciato la nostra attività in un piccolo ambulatorio ricavato a fianco a quello delle ostetriche con un’in-fermiera presa a prestito da un altro servizio.

Ci siamoben presto resi

conto chenon era possibileoccuparsi solodi HIV senzacurare anche

la malariae la malnutrizione,

due tra i killermaggiori presente

nel paese.

Ma se è difficile in un Paesecosì povero garantire agli adulti malati

delle cure dignitose, garantirle ai piccoliè un’impresa disperata.

| aiDs e malnutrizione mietono ancora troppe vittime, adulti e bambini, nei Paesi poveri dell’africa sub-sahariana

13MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

Così, grazie anche all’aiuto del CIAI (Centro Italiano Aiuto all’Infanzia), è stato ristrutturato un vecchio edificio (Nouvelle Pédiatrie) all’interno della cinta ospedaliera del Centro Medico San Camillo (CMSC) di Ouaga-dougou, dove era possibile rico-verare i bambini che ne avessero bisogno con anche maggior di-sponibilità di spazio per seguire ambulatorialmente il crescente numero di bambini nati da ma-dre HIV infetta. Nello spirito di una formazione di personale locale che un gior-no potesse portare avanti lapediatria senza apporto esterno fu assunto personale infermie-ristico ed ausiliario dedicato ed una dottoressa locale.

La progressiva disponibilità di farmaci antiretrovirali in prepa-razioni pediatriche insieme a una diagnosi molecolare e non più sierologica dell’infezione, ci ha permesso di poter aumentare l’efficacia e la precocità del no-stro intervento terapeutico, seb-bene con molte difficoltà. Infatti, molti sciroppi sono for-niti sotto forma di polvere che richiedono la sospensione in acqua pulita (non semplice da trovare!) e la conservazione a temperatura inferiore a 25°C (per alcuni addirittura in-feriore a 12°C), condizione im-possibile in un Paese dove la temperatura ambientale può rag-giungere i 50°.

Come precaria solu-zione “refrigerante”, le famiglie utilizzano

grandi vasi di terracot-ta riempiti di acqua,

all’interno dei quali la temperatura non supe-ra solitamente i 25°C.

A complicare la situazione, mol-te persone abitano nelle cam-pagne e non hanno mezzi di trasporto per giungere con rego-larità ai controlli. Per poter ga-rantire un trasporto adeguato dei preziosi farmaci, abbiamo fornito ad ogni famiglia una borsa ter-mica con un panetto di ghiaccio

| PROGETTI |

14 MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

fornito fresco ad ogni visita, che permette di portare gli scirop-pi salvavita a casa senza esporli per ore alle temperature inferna-li nelle quali spesso si svolge il viaggio – a volte di una giornata – negli autobus locali. Purtrop-po non è stato possibile contare sulla presenza stabile della dotto-ressa inizialmente assunta e degli altri che si sono succeduti nel tempo, cosi che ad oggi abbiamo formato 5 medici locali nella ge-stione del bambino HIV-infetto, ma il loro turnover frequente non ci permette per ora di passare il progetto completamente in mani burkinabé.

| PROGETTI |

Con terapiaantiretrovirale oltrel’80% dei bambini

sopravvive!

| La mortalità infantile è ancora elevata nei Paesi del sahel, con particolare riferimento al Burkina Faso dove malaria, tubercolosi e meningite si aggiungono alle classiche malattie pediatriche

| L’attesa di fronte ad un Centro per la riabilitazione nutrizionale. molti bambini sono alimentati con il sondino

15MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

I numeri aumentano e aumenta anche la sopravvivenza dei bam-bini HIV-positivi: mentre senza terapia oltre il 30% dei bambini infetti dalla madre non raggiun-ge il 1° anno e l’80% non arri-va a compiere i 5 anni di vita, con la terapia antiretrovirale ol-tre l’80% dei bambini sopravvi-ve! Finalmente arrivano anche in Burkina le fixed dose combi-nations pediatriche, che tramite compresse dispersibili permet-tono una gestione più semplice: infatti, al posto di tre sciroppi di-versi da assumere ciascuno con il suo dosaggio individuale due volte al giorno, adesso è possibi-le somministrare delle semplici compresse contenenti tutti e tre i principi attivi! E questa formulazione, più leg-gera, più piccola e più facile da

somministrare, non teme nean-che il caldo. Il numero dei bam-bini seguiti aumenta ancora e l’ambulatorio diventa di nuovo troppo piccolo. Inoltre sentiamo la necessità di ricoverare bambi-ni con patologie che richiedono isolamento, come il tifo, morbillo e non ultimo, la tubercolosi.Attualmente la Pediatria del CMSC segue i bambini affetti da HIV sia dal punto di vista ambu-latoriale (oltre 200 pazienti) sia per quanto riguarda i ricoveri e la terapia antiretrovirale. Inoltre svolge l’ambulatorio generale di tutti i bambini nati al centro (ca. 5000/anno) con particolare atten-zione ai bambini che fanno parte del programma della prevenzio-ne della trasmissione verticale dell’HIV.In ambito pediatrico sono stati

coinvolti anche i Colleghi neo-natologi, che in 5 anni sono riu-sciti ad abbattere la mortalità nel reparto dei prematuri del 50%, nonché - per ora in missione esplorativa - i chirurghi pediatri.Sicuramente l’Africa ha bisogno di scuole e di pozzi e noi pos-siamo soltanto dare un po’ più di salute ad alcuni bambini, ma certamente sono loro il futuro.

Curare i bambini èil nostro talento da far fruttare, e magari tra

i nostri piccoli pazienti oggi ci sono quei

leader, che potranno domani cambiare

il mondo in meglio!

| PROGETTI |

Il progetto adultiSin dall’inizio del progetto nel 2003, l’equipe costituita dai Me-dici Specializzandi delle Scuole di Specializzazione in Medici-na Tropicale e Malattie Infettive dell’Università di Brescia hanno preso in carico la gestione cli-nica dei pazienti adulti con pa-tologie AIDS-correlate ricoverati presso il Centro camilliano Nôtre Dame de Fatima – CANDAF in collaborazione con il persona-le infermieristico della struttura camilliana, che ha consentito il ricovero dei pazienti fino al feb-braio 2008. Nonostante le limitazioni delle possibilità diagnostiche disponi-bili presso il Centro (che impon-

16 MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

gono di riferire altrove gli esami microbiologici e radiologici), la sufficiente disponibilità di presi-di antibiotici e antiretrovirali ha consentito - non senza problemi - la gestione di oltre 1.600 rico-veri in pazienti AIDS. Questo sino a quando il CAN-DAF è rimasto operativo, sebbe-ne in oltre 500 casi (29.9%) il ricovero sia esitato in decesso per le condizioni avanzate nelle quali i pazienti pervenivano al Centro. L’assistenza ambulatoriale ai pa-zienti HIV sieropositivi si è svolta sia presso il Centre de Recherche Bio-moleculaire Pietro Arrigo-ni (CERBA) che presso il Centre Médical Saint Camille (CMSC) di Ouagadougou ed è prosegui-ta sino alla primavera del 2012, quando il progetto di assistenza adulti è stato affidato alla gestio-ne dei medici locali. Il monitoraggio clinico e labora-toristico (conta linfocitaria CD4+ ad intervalli semestrali) ha con-sentito di includere i Pazienti nei protocolli di terapia antiretrovira-le in accordo con i criteri stabiliti dalla Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e di segui-re in costante monitoraggio oltre 1.200 pazienti in terapia anti-retrovirale sia nella capitale sia nell’Ospedale rurale di Distretto di Nanoro, a circa 80 chilometri da Ouagadougou.

Grazie alla sempre maggiore di-sponibilità della triplice terapia in gravidanza, la trasmissione si è significativamente ridotta pas-sando da 35-40% iniziale agli attuali tassi inferiori al 2%, so-stanzialmente in linea con gli standard occidentali. Inoltre, nel momento in cui veniva identi-ficata una gestante HIV infetta, veniva contattato il partner e gli eventuali altri figli per consentire la fruizione della terapia agli al-tri membri del nucleo familiare eventualmente infetti. Nell’ambi-

to di questo programma vengono garantiti ulteriori servizi sociali quali un supporto alimentare ed economico per le famiglie indi-genti (incluso il sostegno all’istru-zione per i bambini HIV positivi o figli di genitori HIV positivi ed i corsi di alfabetizzazione per i pazienti), il counselling sessuale e la pianificazione familiare. Il supporto psico-sociale si effettua principalmente tramite l’associa-zione “Aide moi à être mère”, costituita nel 2005 dalle pazienti arruolate in PTME.

| PROGETTI |

Oltre alla terapia dei pazientiHIV infetti in regime

ambulatoriale, un’attenzioneparticolare è stata rivolta allestrategie di prevenzione della

trasmissione verticaledell’infezione da HIV

Prevention de la TransmissionMère-Enfant – PTME).

| L’equipe infermieristica locale con il supporto tecnico bresciano

17MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

Le difficoltà

Le difficoltà incontrate nello svolgimento del progetto sono numerosissime e non esclusi-vamente legate alla ricerca di risorse materiali, pur assoluta-mente necessarie, per garantir-ne il funzionamento.

La terapia antiretrovirale

I farmaci per la cura dell’in-fezione da HIV/AIDS sono efficaci soli se assunti con quotidiana regolarità. Ciò è evidentemente difficile in una popolazione di malati in larga misura analfabeti e comunque quasi sempre privi di orologi o calendari.Per risolvere questo problema ci siamo avvalsi di semplici pittogrammi che ricordino visivamente come e quando il farmaco va assunto. Anche gli esami di laboratorio, persino i più semplici, sono un lusso li-mitato dalla rarità dei laborato-ri e dall’insostenibilità dei costi – da qui la scelta di offrire nei limiti del possibile, le nostre cure gratuitamente alla popo-lazione, mediante campagne di autofinanziamento sostenute da Medica Mundi Italia quali il calendario dei “Pediatri in Africa” che nel 2012 ha rag-giunto la sua ottava edizione o la campagna di “Adozione Terapeutica” realizzata in collaborazione con gli Spedali Civili di Brescia.

La formazione del personale sanitario locale

In un’ottica di cooperazione allo sviluppo, la formazione del personale locale è obiettivo prioritario al fine di affidare la cura della popolazione ai me-dici locali. Il rilevante turn over, la difficoltà di assicurare salari dignitosi e la specifica patologia curata, anche in Burkina Faso oggetto di discriminazione, ha reso difficile questo compito. Tuttavia, tra un anno un nuovo Medico camilliano burkinabé specializzatosi in Pediatria a Brescia raggiungerà il suo Paese e potrà essere segno vivente della forte sinergia di collabo-razione stabilitasi tra la nostra città e la “terra degli uomini integri”. Un medico locale già lavora con profitto nella cura dei malati adulti.

Il sostegno economico nel ungo periodo

La realizzazione di un program-ma quale quello descritto è onerosa e richiede un costante supporto anche economico. Il segreto del successo del programma stesso risiede nella molteplicità degli attori che sono intervenuti (Medicus Mun-di, Spedali Civili, Università) fornendo ognuno un contributo specifico in risorse umane e materiali e nella molteplicità

dei finanziatori, sia Ministeriali (Ministero Affari Esteri) sia della Cooperazione decentrata (Re-gione, Provincia, Comune), sia cittadini ed Enti privati. Purtrop-po, tuttavia, le attuali ristrettez-ze economiche generali hanno costretto l’Azienda Ospedaliera Spedali Civili di Brescia, che aveva supportato l’iniziativa sin dal 2003 con l’invio di medici strutturati in missioni di supervisione del lavoro degli specializzandi, ad interrompere nel 2011 il proprio prezioso contributo al progetto.

Stigma sociale dell’infezione da HIV

Occuparsi di infezione da HIV in Burkina Faso, con un’atten-zione particolare alla coppia madre-figlio non è stato sem-plice anche per il forte stigma tuttora connesso all’infezione ed al limitato ruolo sociale del genere femminile nella società burkinabé. La libertà della don-na di sottoporsi al test è limitata ed il ruolo preponderante del partner maschile nelle decisioni che riguardano la salute della donna e dei figli è stato sovente ostacolo ad una più efficace azione preventiva e curativa, anche se bisogna sottolineare che progressivamente è cresciu-ta nella popolazione la fiducia nell’équipe medica, ciò che ha consentito una sempre mag-giore opera anche preventiva all’interno delle coppie.

| PROGETTI |

18 MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

Il ruolo dei giovani medici di BresciaLa partecipazione attiva dei gio-vani medici specializzandi sia in Pediatria che Malattie Infet-tive ed in Medicina Tropicale si è rivelata una delle componenti essenziali per il successo del pro-gramma.Sin dal primo giorno, infatti, gli specializzandi, con la supervi-sione dei colleghi strutturati più anziani, hanno portato avanti in prima persona il progetto ope-rando da veri protagonisti che si sono dovuti confrontare con gli innumerevoli problemi sanitari e logistici di questa realtà e af-frontarli con le poche risorse di-sponibili in termini di possibilità diagnostica terapeutica.Si realizza così un vantaggio bidirezionale che consente da un lato un arricchimento profes-sionale ed umano inestimabile e dall’altro una preziosa ope-ra medica a favore degli ultimi nell’ambito di una staffetta in cui ogni anello diventa essenziale ed irrinunciabile. La loro rotazione garantisce una continua presen-za di specializzandi esperti, che dopo una formazione pre-par-tenza, continuano la formazione intensiva durante un periodo più o meno lungo di sovrapposizio-ne in loco e infine, dopo la loro esperienza di per sé formativa, diventano a loro volta formatori dei colleghi prossimi alla par-tenza sia su tematiche tecnico-

scientifiche, che socio-culturali nonché antropologiche del Paese ospitante.

Questi giovanimedici portano con sé una grande voglia di

fare, un entusiasmo per aiutare il prossimo

- anche se sta lontano -e le loro competenze

mediche maturatein Italia.

Ma soprattutto imparano in que-sto modo che cosa vuol dire es-sere medico (e non solo “fare il medico”), capiscono così quel che hanno studiato, riscoprono il ragionamento clinico semeiologi-co in sostituzione degli inesisten-

ti presidi diagnostici sofisticati ed il faticoso approccio olistico e non specialistico al posto del blocco di richiesta consulenza. Ma per fortuna, grazie ad Internet ed alla disponibilità dei colleghi a casa, possono comunque con-tare su un supporto a distanza. Fondamentale è la loro sicurezza non soltanto in termini di salu-te “fisica” (vaccinazioni e profi-lassi varie sono indispensabili) ma anche in termini di sicurezza “ambientale”. È infatti importante conoscere i rischi che l’habitat

| PROGETTI |

| L’assistenza ai piccoli pazienti nel Centro medico san Camillo di ouagadougou

La partecipazioneattiva dei giovani

medici si è rivelatauna delle componenti

essenziali per ilsuccesso

del programma

19MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

naturale - flora e fauna - può ri-servare, le norme comportamen-tali, il traffico stradale e il contat-to con le autorità.

Dall’inizio della nostra collabo-razione ad oggi, hanno operato in Burkina Faso oltre 50 medi-ci specializzandi della Pediatria,

delle Malattie Infettive e della Medicina Tropicale. Tutto questo ha fatto della col-laborazione tra queste Scuole di Specializzazione ed i Camillia-ni in Burkina Faso una realtà di eccellenza ed ambita anche in ambito nazionale.Da una recente indagine svolta tra gli specializzandi che sono stati in Burkina, emerge che tut-ti affermano di essere soddisfat-ti dell’esperienza vissuta, la cui valutazione, espressa da loro su una scala da 1 a 10, era in media 9,26 (range da 8 a 11).

| PROGETTI |

Affrontata così questa esperienzaha dimostrato di essere anche un’opportunità

imparagonabile di imparare la gestionedei molteplici problemi tipici del bambino e dell’adulto extracomunitario, popolazione

in crescita a Brescia e non ancora integratoabbastanza nei normali programmi delle varie

Scuole di Specializzazione.

Formazione e ricercaInfine il progetto ha certamente avuto anche una valenza for-mativa e scientifica di rilievo, in linea con le nostre convinzioni profonde che il problema delle diseguaglianze in salute debba-no essere oggetto di ricerca ri-

gorosa e scientifica che possano aiutare ad identificare soluzioni e orientare politiche sanitarie.Oltre ai numerosi articoli scien-tifici, l’efficacia del lavoro svol-to ha attirato anche l’attenzione dell’Organizzazione Mondiale

della Sanità che ha richiesto la collaborazione dei nostri pedia-tri nella redazione di linee-guida e ha indotto l’Istituto Superiore di Sanità a rinnovare la fiducia al progetto per quasi 10 anni.Inoltre, nel corso del suo svolgi-mento, presso il progetto hanno elaborato il proprio progetto di tesi ben 29 tesisti di 3 diverse Università italiane (oltre a Bre-scia, anche Firenze e Bologna), dell’Università di Ouagadou-gou e dell’Università di Tolosa in Francia, 11 specializzandi, 2 dottorandi e anche 1 tesi di Master presso l’Università di Ba-silea.

Sono attualmente in corso ricerchein tema di infezione da HIV, malaria, tubercolosi

ed in tema di nuove formulazionipediatriche anti retrovirali.

Considerazioni conclusive Progetto Esther

il progetto estHer ha rappresentato un’esperienza collaborativa eccezionale ed in qualche misura unica nel panorama nazionale, proprio in virtù delle sue caratteristiche di multidisciplinarietà e di pluralità di attori coinvolti. Ha consentito di raggiungere risultati in qualche misura insperati in termini assistenziali,di ricerca, di formazione professionale ed umana. La sinergia virtuosa del mondo assistenziale pubblico (spedali Civili di Brescia), accademico(Università di Brescia), del volontariato (medicus mundi italia), oltre che l’entusiasmo dei molti giovanimedici coinvolti e la appassionata collaborazione dei nostri partners ed amici del Burkina Fasohanno scritto una bella pagina di solidarietà. È nostra speranza che presto si possa superare le difficoltà attuali e lavorare ancora insiemeed a favore dei pazienti più poveri e bisognosi, in Burkina Faso o altrove.

20 MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

Ospedale Pediatrico a BorUn sogno per la Guinea Bissaudi Giovanni MorandiDirettore del Dipartimento Chirurgico Fondazione Poliambulanza

La missione

Il progetto nasce da un’iniziativa di un missionario italiano del PIME (Pontificio Istituto Missioni Este-re), in sintonia con il programma della Diocesi di Bissau per la nascita sul territorio di una struttura pediatrica e chirurgica, ad integrazione delle realtà sanitarie già esistenti, che costituiscono l’ossatura sanitaria del paese.La Guinea Bissau, o Guinea portoghese, è un pic-colo stato dell’Africa nord-occidentale, ex colonia portoghese divenuta indipendente nel 1974; ge-ograficamente si pone tra l’equatore ed il tropico del cancro; confina a nord-ovest con il Senegal, a sud-est con la Guinea Conakry (ex colonia france-se) e ad ovest è bagnata dall’oceano Atlantico. Il territorio ha un’estensione di poco superiore a quel-la della Lombardia, circa 36.120 Km quadrati ed è suddiviso in nove regioni. La popolazione è stimata all’incirca sui 3 milioni di abitanti, di cui almeno la metà non censiti ed è suddivisa in 20 tribù. La Ca-pitale è Bissau con circa 400.000 abitanti.La situazione igienico-sanitaria in Guinea Bissau è cronicamente critica e periodicamente scoppiano in città epidemie di colera e tifo. Forte è il proble-

ma del controllo della malaria e dell’AIDS, malattia quest’ultima che colpisce il 20% circa della popo-lazione, soprattutto giovani; alta è l’incidenza nei nuovi nati da madri sieropositive. Saltuariamente si presentano ancora oggi casi di tubercolosi e lebbra. La malaria, o paludismo, resta comunque la malat-tia più diffusa nel Paese, soprattutto nella stagione delle piogge. La rete sanitaria è fatiscente e mancano strutture, risorse umane ed economiche e la volontà da parte del governo di investire nel settore. A fronte della drammatica situazione pubblica, la Diocesi con i suoi missionari ha sopperito in modo straordinaria-mente eroico ed efficace alla grave inadempienza dello Stato, mettendo in campo volontariato e pro-fessionalità.

L’Ospedale pediatrico di Bor

L’ospedale sorge nella zona sud-ovest della capita-le, zona ad elevata densità di popolazione e priva di altre realtà sanitarie, sul terreno della diocesi ed è parte del progetto sociale voluto dal Vescovo locale e che comprende scuole, laboratori, campi

| PROGETTI |

21MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

sportivi, centri di accoglienza, etc. L’edificio è stato costruito circa 15 anni fa e consta di una struttura centrale con due padiglioni su due piani; a pochi metri dalla struttura centrale è stato successivamen-te costruito ed inaugurato il 1 giugno 2010, grazie ai finanziamenti bresciani, il blocco operatorio, edi-ficio su un piano unico che, oltre alla sala operato-ria con relativi locali adibiti, ospita la radiologia. Nel cortile antistante al futuro pronto soccorso è stata edificata una struttura in muratura che servirà da sala di attesa ed in prossimità è stata realizzata l’ala comprendente la farmacia, il laboratorio con relativo punto prelievi, i magazzini, gli studi medi-ci, la lavanderia, la cucina ed il refettorio. Sul retro c’è la casa per ospiti a disposizione per il soggiorno dei volontari.

Ma facciamo un passo indie-tro, alla fine del 2006, il no-stro coinvolgimento è stato come quasi sempre succede

casuale, frutto della richiesta di un nostro collega guineano, Augusto Barbosa, chirurgo dell’equipe del Dottor Morandi che opera in Poliambulanza a Brescia. Il Dottor Barbosa con entusiasmo ci ha fatto partecipi delle sofferenze, soprattutto sanita-rie del suo Paese di origine e ci ha coinvolto con racconti e richieste e da subito il Dott. Morandi ed io abbiamo capito l’importanza del progetto e così con entusiasmo siamo partiti per Bissau, carichi di incognite e speranze. Nel diario di quei giorni ho appuntato:

«Il viaggio è faticoso ed affascinante ed accende i nostri cuori; è una terra meravigliosa, affascinan-te e verde, con tanti occhi che implorano e tanti bambini ovunque. Non c’è fame o sete, c’è però ovunque miseria , assenza di progetti, in poche parole non c’è un passato e nemmeno un futuro, ci sono tanti piccoli attimi che trascorrono lenti e subito si dimenticano».Appena rientrati in Italia coinvolgiamo da subito i nostri famigliari, l’Ospedale, associazioni vicine,

| PROGETTI |

Finedel 2006

22 MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

club, amici, insomma tutti quelli che possono darci una mano.Si decide di presentare un ambizioso progetto: la realizzazione di un nuovo blocco operatorio a completamento della Clinica Bor. E’ evidente però che l’impresa è ardua, quasi impossibile e che per affrontarla occorrerà necessariamente una profusio-ne di energie e denaro che si otterrà solo grazie alla sinergia tra persone e associazioni particolarmente sensibili. In un anno si crea una rete tra l’Italia e l’Africa sot-to l’ala entusiasta del vescovo di Bissau Dom Cam-nate e dei tanti amici bresciani che si sono uniti ora in un gruppo di coordinamento costituito da 4 onlus: Brescia PCO, Rho ProgettoAnna, Vigevano Prabis e Milano PIME, fiancheggiate da ospedali, università, club, associazioni, tra le quali si distin-guono prima il Rotary club Vittoria alata di Brescia ed in seguito la PCO, ovvero la onlus Charitatis opera di Poliambulanza.

Il 27 gennaio 2011 è sta-to finalmente firmato il Protocollo di Coopera-zione tra il Ministero del-la Sanità e le due Diocesi

di Bissau e Bafatá. Questo avvenimento rappresenta un’importante passo dal punto di vista del ricono-scimento politico dello Stato della Guinea Bissau al nostro Ospedale, insieme ad altre nuove strutture sanitarie delle due Diocesi. Siamo convinti che grazie all’entusiasmo contagioso di tutti i sostenitori del progetto, il blocco operatorio continuerà la sua opera, in questo spicchio d’Africa così bisognoso. Sono già in atto numerosi programmi di formazio-ne sia in Europa che in Africa. Sicuramente questo progetto così unico ed importante deve essere un imprescindibile punto di partenza per una collabo-razione socio-sanitaria che negli anni a venire deve diventare sempre più fitta ed operativa, tra l’Italia e l’Africa.

| PROGETTI |

27 gennaio 2011

23MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

Oggi l’organizzazione dei progetti sanitaria Bissau è realtà: quattro ospedali (Padova, Brescia, Valen-

cia, Porto) concorrono con due missioni l’anno, curando la formazione in loco, l’attività chirurgi-ca e la gestione dell’ospedale.Si eseguono circa 300-350 interventi l’anno, tra bambini e adulti, più di 2500 visite e 100 radio-grafie al mese, mentre i casi più delicati vengo-no trasferiti in Europa; sono stati completati e/o realizzati i nuovi ambulatori, i locali prelievi, la farmacia, il laboratorio analisi, gli studi medici e sono stati completati i lavori di bonifica e ristruttu-razione.Sono in fase di completamento dei lavori i progetti di ristrutturazione del secondo piano dell’Ospeda-le che sarà dotato dei servizi e degli allestimenti che mancano.

| PROGETTI |

Nota

È proprio di questi giorni la richiesta di un pro-getto “energetico” che garantisca la copertura totale dei fabbisogni energetici dell’ospedale. Ad oggi purtroppo la copertura della corrente pubblica è intermittente e soprattutto serale o notturna, mentre il 90% del fabbisogno elettri-co è garantito dai generatori alimentati a gaso-lio con consumi enormi. Il nostro intento, sti-molato anche dalle sollecitazioni e dai possibili contributi internazionali, sarebbe quello di va-lutare la possibilità di sostituire i generatori con il fotovoltaico o similari. Abbiamo ovviamente bisogno di tecnici di professionalità specifica che valutino la fattibilità del progetto a Bissau.

Oggi

24 MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

| TESTIMONIANZE |

Diarioda Kabuldi Katuscia Vettoretto

Come tutte le mattine an-

che oggi attraverso la stra-

da che divide la casa dall’Ospedale di Emergency

qui a Kabul e oltrepasso il cancello bianco, insie-

me a Luca, Tyana, Vesna, Maria, Alberto, Aridia-

no, Emanuele, Giacomo e Germana, il personale

internazionale che ho trovato qui al mio arrivo

e che da un mese e mezzo mi accompagna in

questa missione. Come tutte le mattine guardo il

cartello che è bene in vista vicino al cancello: NO

WEAPONS (oltre quel cancello non possono entrare

armi, di nessun tipo). Emergency ha aperto que-

sto Centro Chirurgico per vittime di guerra a Ka-

bul nel 2001. Un ex asilo bombardato, nel centro

della città, è diventato il nucleo dell’Ospedale, che

offre assistenza chirurgica gratuita e di alta quali-

tà a tutte le vittime di questa guerra. Nell’agosto

del 2003 è stato aperto un Reparto di Rianima-

zione e Terapia intensiva dotato di 6 posti letto e

nell’agosto del 2005 è stato installato un apparec-

chio per Tomografie Computerizzate, il solo dispo-

nibile gratuitamente in tutto l’Afghanistan. Que-

sto ospedale è anche il centro di riferimento per

i pazienti visitati presso i Centri Sanitari e i Posti

di Primo Soccorso di Emergency di Azra, Ghazni,

Chark-Logar, Maydan Shahr, Mirbachakot, Said

Khil, Sayad, le cliniche di Emergency all’interno

degli orfanotrofi maschile e femminile, il riforma-

torio Juvenile Rehabilitation Center di Kabul e le

principali prigioni della città. Questo ospedale,

oggi il più importante centro di Chirurgia di

Guerra del Paese, ha accolto più di 102 mila

persone, e ha formato e continua a formare

personale sanitario nazionale.

Anche oggi per prima cosa vado a vedere come so-

no andate queste ultime ore a M. Akbar, Eid Mo-

hammed, Gul Mohammed, Rahingull e Zaher, i

pazienti della Rianimazione. Tutto bene questa

notte. Eid Mohammed e Mohammed, due feriti

da proiettile arrivati il 16 Aprile, all’addome Eid

e all’addome e al torace Mohammed, si stanno

riprendendo bene. Trovo Rahingull, 18 anni, con

lesioni multiple da scheggia all’addome, al tora-

ce, agli arti inferiori, al collo e cerebrali (ha perso

un occhio e una scheggia è penetrata nell’encefalo

procurandogli un ematoma intraparenchimale),

sveglio e neurologicamente migliorato rispetto

alla sera precedente. Questa mattina risponde

prontamente alle domande, è orientato, e si la-

menta persino della medicazione al collo. Sorrido

fra me e me. E mentre gli infermieri della notte

stanno dando le consegne al turno del mattino,

mi fermo al letto di M. Akbar. E’ in Rianimazione

dal primo di Aprile per ferite multiple da fucile a

pallettoni al torace e all’addome, e ormai salu-

tarlo al mattino è diventato un appuntamento

fisso. Ieri sera è finalmente riuscito a mangiare del

pane, lo desiderava da tanto tempo, e oggi lo ve-

do finalmente sorridere. Poi mi spiega con l’aiuto

di Shakiba, un’infermiera, che oggi, il giorno di

19 aprile 2012

25MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

| TESTIMONIANZE |

visita dei parenti, non vede l’ora di vedere qualche

famigliare. Zaher, dal letto di fronte si mette una

mano sul petto, Salam Aleikum. Ieri ho saputo

che ha otto bambini che lo aspettano a casa, e

che “proprio deve farcela a tornare, perché la sua

famiglia come fa senza di lui?”.

La giornata inizia poi con la presentazione di

tutti i pazienti ammessi in ospedale durante le

ultime 24 ore e con il giro quotidiano in tutti i

reparti.

Nel reparto delle donne e dei bambini rivedo

Basira. Ha 10 anni, è sempre sorridente, fin dal

primo giorno quando si è svegliata in Riani-

mazione, e con un atteggiamento da bambina

grande e matura. Era vicina a casa con la sorella

più grande di 13 anni quando l’esplosione di una

mina ha fatto cadere dei massi proprio su di lei.

La sorella sta bene, ma lei è stata meno fortunata.

E’ stata in sala operatoria per una laparotomia

(aveva una perforazione duodenale, una lesione

epatica e una contusione renale), ha una frattura

ulnare e del metacarpo di destra e un’amputazio-

ne traumatica delle dita del piede. Eppure sorride

e dice che deve andare perché vuole tornare a scuo-

la, è la più brava della classe e non può perdere

tanti giorni di lezione. E quando Alberto e Heda-

yat, i due chirurghi, decidono che può finalmente

essere dimessa e tornare per i controlli e la fisiote-

rapia, allora le spunta un altro splendido sorriso.

Mentre mi avvio di nuovo verso l’ICU trovo Has-

sib e Fazel seduti a parlare su una panchina

in giardino. Fa ancora freddo qui a Kabul, ma

i pochi giorni di sole e di temperatura mite so-

no riusciti a colorare di primavera il giardino

dell’ospedale. Ed è una gioia ogni volta vedere i

pazienti che camminano insieme e che parlano

seduti sotto gli alberi fioriti, nel prato e sulle

panchine. Mi piace sapere che uomini, donne e

bambini che sono ricoverati trovano tra queste

mura non solo le cure necessarie per la salute fisica

ma anche l’opportunità di conoscersi, di parlarsi e

di stringere dei legami. Vedere Hassib, un ragazzo

di 16 anni, giorno dopo giorno ritornare alla vita

è una soddisfazione immensa. Hassib è arrivato

in shock emorragico per una ferita da proiettile

all’addome che ha lacerato la vena cava, la vena

iliaca di sinistra e l’intestino tenue in più punti.

Ha superato il primo intervento di Damage Con-

trol Surgery e anche i due successivi. Ora è quasi

pronto per la dimissione. Mentre ripenso ai giorni

che ha passato in Rianimazione, in Pronto Soccor-

| Basira

26 MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

so arrivano Saifullah, Emamjan e Khiyal. Vengo-

no dal distretto di Ghorband, nella provincia di

Parwan, dopo 11 ore di viaggio. Tutti e tre hanno

ferite multiple da scheggia. Non riesco nemmeno

a immaginare come abbiano passato queste ore

mentre, attraverso il distretto di Charikar, arriva-

vano finalmente a Kabul. Stavano andando ad

aprire l’irrigazione dei loro campi quando si sono

trovati coinvolti in un combattimento. Un razzo è

atterrato proprio su di loro. Saifullah, 18 anni, ha

ferite all’addome, alla schiena, al torace, al brac-

cio di sinistra. Di quel momento ricorda solo che è

stato sbalzato ad alcuni metri di distanza. La sala

operatoria interrompe gli interventi in elezione per

queste emergenze. Saifullah è il primo a entrare

in sala, seguito da Emamjan, un omone di 50

anni con la barba bianca, e da Khiyal, 35 anni,

con una frattura esposta e pluriframmentaria

del gomito di destra, e molteplici ferite dei tessuti

molli alla gamba e al braccio di destra. Mi sem-

bra di vederli lì tutti insieme mentre un razzo in-

telligentemente sconvolge la loro vita quotidiana.

Emamjan e Khijal possono andare in reparto do-

po l’intervento, Safiullah rimane in Rianimazione.

Nel pomeriggio è già sveglio, non riesce a smettere

di piangere e appena chiude gli occhi si lamenta,

rivive ogni volta la stessa scena.

Trascorre rapidamente anche questa giornata, al-

tre persone vengono ricoverate nel pomeriggio e in

ospedale si lavora ininterrottamente.

Dopo il giro serale mi preparo ad andare a casa.

Ma mi ferma la chiamata “Emergenza in Pronto

Soccorso”. Ziawudin ha 35 anni e gli hanno spa-

rato al viso da distanza ravvicinata. Il proiettile è

entrato nella regione sottomentoniera a sinistra

ed è uscito nella regione posteriore destra del collo.

Non riusciamo a valutarlo neurologicamente, le

condizioni generali non sono tali da poterlo fare,

anche se il sospetto di una lesione midollare è il

primo pensiero di tutti quanti. Insieme al persona-

le del Pronto Soccorso, a Tyana, a Shukoor, il chi-

rurgo nazionale e a Niaz, l’anestesista nazionale,

prepariamo il paziente per la sala operatoria, già

allertata e pronta a riceverlo. Ognuno sa benissi-

mo cosa e come farlo, nelle situazioni di emergen-

za tutto il personale ha un suo ruolo ben preciso, e

dopo pochi minuti Ziawudin è già sul lettino della

sala operatoria, e inizia l’intervento. L’esplorazione

del collo mostra una lesione esofagea e della carti-

lagine tiroidea, e una frattura del processo trasver-

so di C5. La frattura è confermata dalla TAC posto-

peratoria, non ci sono evidenti lesioni midollari,

valuteremo al risveglio del paziente. Gli infermieri

in Rianimazione sono già pronti, Ziawudin questa

notte viene da noi.

Per stasera non posso fare niente altro. Indosso la

mia sciarpa e mi avvio verso casa.

E’ tardi, la giornata è stata lunga per tutti, ma

la mia “famiglia”qui a Kabul mi aspetta co-

munque intorno al tavolo della sala da pranzo,

e mi accoglie con un piatto caldo e un sorriso.

Anche in questa missione sono stata molto

fortunata. Lo staff internazionale è a dir poco

eccezionale. Si vive insieme giorno dopo giorno

in ospedale e a casa (non ci si può muovere per

motivi di sicurezza), si condividono lavoro, preoc-

cupazioni, gioie, paure, pensieri. E con loro tutto

diventa più facile.

| TESTIMONIANZE |

New York Times Magazine

La dottoressa Vettoretto presta servizio nel reparto di anestesia e rianimazione dell’ospedale di Manerbio, diretto dal dottor Ben-venuto Antonini. Da tre mesi lavora nell’ospedale di Emergency a Kabul.

Il New York Times magazine ha recentemente dedicato un re-portage che illustra l’esperienza quotidiana di questo ospedale e degli altri presidi dell’organizzazione italiana di cooperazione in Afghanistan.

27MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

Oggi giornata di pioggia.

Mentre a casa sorseggio

il primo caffè della gior-

nata, penso che finalmente oggi Mahajer potrà

essere trasferito dall’ICU in reparto, magari nel

letto accanto a Samim. Mahajer e Samim sono

due cugini di 10 anni arrivati qualche giorno fa

da Salang. Stavano giocando insieme ad altri tre

amici, che non ce l’hanno fatta a raggiungere un

ospedale, sono deceduti sul posto. Entrambi han-

no ferite multiple da scheggia per lo scoppio di

una mina. Mahajer ha un ematoma cerebrale in-

traparenchimale e ha perso l’occhio di sinistra. Ha

altre lesioni alle gambe e alle braccia, ma fortuna-

tamente superficiali. Lo vedo ancora al suo arrivo

in Pronto Soccorso, agitatissimo e con le lacrime

agli occhi. Le schegge non hanno risparmiato

nemmeno Samim, causandogli ferite penetranti

agli arti inferiori, all’addome, al viso e al torace.

Entrambi sono andati in sala operatoria. Maha-

jer per la pulizia chirurgica (debridement) delle

ferite e per l’enucleazione del bulbo oculare di sini-

stra. Samim ha fatto una laparotomia (aveva per-

forazioni multiple dell’intestino tenue, una lesione

della vena iliaca e dell’arteria femorale di destra),

e un debridement di tutte le altre lesioni. Mahajer

è stato intubato e sedato per 48 ore. Ora è sveglio

da un paio di giorni, ha una emiplegia sinistra,

ma spero riesca con un’adeguata fisioterapia a

recuperare. Mi saluta porgendomi la mano destra

e me la stritola quasi tutte le volte. Quel suo visino

sempre imbronciato ieri si è aperto in un sorriso

quando ha visto arrivare gli zii. Samim è già in

reparto da un paio di giorni, sta andando bene,

ma richiederà altri interventi di chirurgia plastica

e ortopedica ad entrambi gli arti inferiori, e la sua

degenza sarà sicuramente più lunga e complicata.

Ora però in reparto con altri bambini ha un viso

più sereno, tranne che quando al giro del mattino

vede avvicinarsi tutte quelle persone in insieme …

allora trattiene le lacrime a forza.

In ospedale la giornata inizia con l’arrivo di tre

donne da Wardak, a circa trenta minuti da Ka-

bul. Un razzo è entrato nella loro casa. Khawro, 50

anni, Sabrina, 16 e sua sorella Asiya, 18 sono ar-

rivate con ferite da schegge. I genitori di Sabrina e

Asiya non ce l’hanno fatta. A Khawro hanno inse-

rito i drenaggi toracici per un emo-pneumotorace

a destra, e ha schegge superficiali nella regione pe-

rineale. Sabrina ha ferite al torace e ad entrambi

gli arti inferiori, e una scheggia penetrante all’ad-

dome. Asiya ha lesioni dei tessuti molli al piede

sinistro, alla gamba, al viso, alla parete addomi-

nale, e ha fatto un estensivo debridement di tutte

| TESTIMONIANZE |

26 aprile 2012

| mahajer | samim

28 MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

le lesioni. Anche questa volta provo a immaginare

cosa stessero facendo quando la guerra è entrata

prepotentemente nella loro casa. Khawro stava

cucinando, Sabrina stava preparando il tè mentre

parlava con Asiya, che sorrideva tra sé e sé delle

chiacchiere della sorella... “..Qui non si sente/ Altro

che il caldo buono/ Sto con le quattro/ Capriole di

fumo/ Del focolare” scrive Giuseppe Ungaretti. Ma

qui in Afghanistan nemmeno le mura di casa rie-

scono a proteggerti e a farti sentire al sicuro.

L’attività della sala prosegue, urgenze e interventi

in elezione. Molti sono interventi ortopedici. I pro-

iettili e lo scoppio di ordigni di vario tipo procura-

no fratture molto invalidanti. Molti sono anche

gli interventi di chirurgia plastica, come gli innesti

cutanei, necessari per le profonde ed estese ferite.

In ogni ospedale di Emergency qui in Afghani-

stan ci sono degli infermieri Tecnici di Anestesia. E

insieme si lavora in sala operatoria e nell’attività

quotidiana in Pronto Soccorso e nei reparti. Tra

loro qui a Kabul c’è anche Shakiba, già infermie-

ra della Rianimazione, che sta frequentando la

scuola di Anestesia, e che spesso si ferma in sala

per la sua formazione dopo il suo turno di lavoro.

Le mancano pochi giorni prima dell’esame finale,

ma sono certa che ce la farà benissimo. Non rima-

ne molto tempo per delle vere e proprie lezioni, e

ogni intervento e ogni momento libero diventano

il pretesto per approfondire qualche argomento

con lei e con tutti loro. Oggi ci sono nella lista

operatoria un Chiodo Intramidollare Femorale e

un Fissatore Esterno. Ne approfitto per parlare dei

problemi legati al posizionamento del paziente e

delle trasfusioni di sangue. E’ una soddisfazione

vederli sempre così interessati e partecipi. Lavorare

insieme a loro è uno dei motivi che mi ha spinto

a ritornare di nuovo qui in Afghanistan. Negli

ospedali di Emergency lavora, oltre al team dello

staff internazionale, tutto personale locale. Qui

a Kabul ci sono 130 tra chirurghi, infermieri e

personale sanitario, e altrettante persone addette

all’amministrazione e ai servizi. L’ospedale conta

95 posti letto, il Pronto Soccorso, un Ambulatorio,

un Laboratorio e una Banca del Sangue, la Radio-

logia (Sala Radiologica e TAC), 2 Sale Operatorie,

la Sterilizzazione,la Terapia Intensiva, un reparto

di Terapia Subintensiva, 3 reparti di degenza ma-

schile, 1 di degenza femminile e pediatrica, la

Fisioterapia, la Farmacia, l’Amministrazione e vari

locali di servizio. Da quest’anno inoltre quattro

giovani medici iniziano proprio in questo ospeda-

le il loro percorso di specializzazione in Chirurgia

Traumatologica, la prima in Afghanistan, sotto la

supervisione dei tre chirurghi nazionali e del perso-

nale internazionale.

Mentre sto uscendo dalla sala operatoria (ormai

gli interventi sono finiti, e per ora tutto è tranquil-

lo) davanti al Pronto Soccorso rivedo Mina. E’ stata

dimessa una decina di giorni prima, è solo torna-

ta con il padre per un controllo. Mina è arrivata

all’ospedale il 17 Marzo. Stava giocando nel prato

vicino a casa sua quando è scoppiata una mina.

Ricordo di aver pensato che il suo nome, Mina,

sembrava uno scherzo del destino … poi ho saputo

che qui il significato è molto bello, simile ad Amo-

re. E’ proprio adatto a lei. E ricordo i genitori, che

sono entrati in Rianimazione a vederla dopo l’in-

tervento in sala, il papà preoccupatissimo, magro

e allampanato, la madre giovanissima, pallida e

con gli occhi tristi. E lei stesa lì sul letto, una bim-

ba di 20 kg fasciata da capo a piedi. e con le la-

crime agli occhi. Mina è tornata in Rianimazione

una seconda volta per complicazioni polmonari.

E finalmente a zonzo per i viali dell’ospedale gli

ultimi giorni prima della dimissione. Ora sta be-

nissimo e finalmente la vedo raggiante. Anche per

questo vale la pena di essere qui.

| TESTIMONIANZE |

| mina

29MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

Quais è un bambino di

12 anni che è in ospeda-

le da molti giorni per un

empiema polmonare. Viene da un orfanatrofio

di Kabul, dove Emergency fornisce assistenza me-

dica con una sua Clinica interna. Ormai è stato

adottato da tutti, e in particolare dagli infer-

mieri del reparto dove è ricoverato, e da Vesna,

infermiera del personale internazionale che ne

è responsabile. I parenti durante i giorni di visita

portano sempre qualche cosa ai pazienti, e Vesna

non ha mai fatto mancare niente a Quais, che

non ha parenti e visite, per non farlo sentire di-

verso dagli altri. Il suo contenitore sul comodino è

sempre pieno di biscotti, succhi e matite colorate.

All’inizio Quais non sorrideva mai, ora i suoi sor-

risi illuminano il reparto e i viali dell’ospedale.

Questa mattina molla un sorriso persino durante

il giro di visita del mattino. La sua degenza sarà

ancora lunga, anche se per ora sta molto meglio.

Nel letto accanto c’è Sultan Aziz, 23 anni. E’ arri-

vato tre giorni fa. Una singola scheggia è entrata

nel canale midollare, a livello di T1. Sultan è pa-

raplegico.

Mentre stiamo passan-

do al reparto successi-

vo chiamano in Pronto

Soccorso. Najibullah è

un insegnante di 39 an-

ni, una granata è stata

gettata nella sua classe

mentre faceva lezione.

Viene portato subito in

sala operatoria per una

laparotomia (ha perfo-

razioni multiple all’in-

testino tenue) e per il

debridement di tutte le

altre ferite. Spero possa

e voglia presto tornare a

insegnare.

Dopo essere stata in sa-

la con Najibullah va-

do in Rianimazione. Al

letto 1 c’è Mushtaq, 39

anni. E’ arrivato da noi dopo alcune ore per una

lesione da arma da taglio all’addome, in shock

emorragico. Al primo intervento di Damage Con-

trol Surgery ne è seguito un secondo a distanza

di 48 ore. Oggi, il giorno dopo, è sveglio, stabi-

le, ha già iniziato la fisioterapia respiratoria e

motoria. È pronto per essere trasferito in reparto.

Al letto 2 c’è Ziawudin, tetraplegico per una pal-

lottola. Da ieri ha cominciato a respirare senza

l’aiuto del ventilatore e inizia ad alimentarsi per

os. È completamente sveglio e cosciente della sua

situazione, eppure tutte le mattine, Ciuturasti?

Come stai? Gli chiedo, Cubasti. Bene. Mi risponde

muovendo le labbra. Ha una forza d’animo am-

mirevole. Nel letto al suo fianco trovo Haroon già

seduto su una sedia con la bottiglia della fisiote-

rapia respiratoria in mano, anche lui con ferite

da arma da fuoco all’addome e al torace, e an-

che lui pronto per essere trasferito in reparto. E al

letto 6 da ieri c’è Eman Jan, 15 anni. Ieri mattina

ci sono stati una serie di attentati ed esplosioni

a Kabul. Eman Jan stava andando a scuola alle

6.30 e si è trovato proprio nel luogo di una esplo-

sione. E’ arrivato alle

12.45 in shock emorragi-

co. Ha una ferita profon-

da con emorragia ester-

na alla coscia di destra

e varie lesioni da schegge

dei tessuti molli. E’ sta-

to subito portato in sala

operatoria per il graft ve-

noso dell’arteria femora-

le di destra ,la legatura

della vena femorale, e il

debridement delle mul-

tiple lesioni alle gambe,

al collo, al torace, alla

schiena. Sembra molto

più giovane della sua

età.

Oggi di turno in riani-

mazione c’è Zabiullah.

E’ uno dei migliori in-

fermieri che abbia mai

| TESTIMONIANZE |

3 maggio 2012

| Quais e Vesna

30 MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

conosciuto, favoloso con i pazienti, oltre che una

persona veramente straordinaria.

Lavora nell’ospedale di Emergency da parecchi

anni. Una sera del mese scorso stavamo par-

lando dopo il giro serale, gli avevo chiesto come

stavano la moglie e la sua famiglia. Erano tra-

scorsi un paio di giorni dal 15 Aprile, quando

a Kabul ci sono state parecchie ore di combatti-

menti, anche nelle strade vicine all’ospedale di

Emergency. Quella notte Zabiullah era di turno

in rianimazione. Un frammento di razzo RPG

aveva sfondato la finestra di casa sua. La moglie

era riuscita a proteggere con il suo corpo i bam-

bini dalle schegge del vetro, e fortunatamente

era rimasta illesa. Ho immaginato la preoccu-

pazione e la pena di Zabiullah, in ospedale, sen-

za poter tornare a casa fino al mattino, le strade

erano bloccate ed era impossibile muoversi con

quello che stava succedendo. “Mia moglie e i

bambini stanno bene, grazie” ...e poi ha iniziato

a raccontare..

Per una bomba sganciata da un aereo dentro

casa sua, quando era giovane ha perso due so-

relle e un fratello (“all in one time”), i genitori

sono stati feriti e lui, unico illeso, ha portato

tutti in ospedale e ha messo suo fratello e le

sue sorelle in una bara, ha usato proprio que-

ste parole, “my younger sisters and brother

in a grave all together”. “At that time it was

different, there was the war”. E mi sono sentita

una stupida perchè per me la guerra è questa,

ora. E poi ancora mentre andava a scuola è sta-

to ferito da una scheggia di un’esplosione alla

testa ed è stato per sei mesi in ospedale. Io sono

rimasta basita, non sapevo realmente cosa dire,

non riesco nemmeno ad immaginare cosa si pro-

va. “Preferirei morire io piuttosto che sapere che è

successo qualcosa a mio fratello”. Alle mie parole

Zabiullah ha annuito e ha detto “So do I”.

Ancora una volta non riesco a pensare a nien-

te, se non a quanto sono stata e sono fortuna-

ta. E non riesco proprio a trovare un senso a

questa guerra, che prosegue da anni e lascia

solo vuoti e mancanze.

Alle sei riusciamo a tornare a casa. È l’ultima se-

ra di Vesna a Kabul, domani finisce la sua mis-

sione, e vorremmo almeno cenare tutti insieme.

Ma proprio mentre ci stiamo mettendo a tavola

chiamano dal Pronto Soccorso per due bambini.

Jamillah ha 10 anni, un proiettile è entrato dal-

la parte posteriore del collo a destra ed è uscito

nella parte anteriore del collo a sinistra. E’ para-

plegico. Aridiano, il tecnico radiologo, alla TAC

vede una frattura della lamina posteriore di C6

e di C7 e una frattura del corpo di C7 e di T1, con

il canale midollare attraversato dal proiettile.

“... l’immagine di un proiettile in corsa: è la me-

tafora esatta del destino. Il proiettile corre e non

sa se ammazzerà qualcuno o finirà nel nulla,

ma intanto corre e nella sua corsa è già scritto

se finirà a spappolare il cuore di un uomo o a

scheggiare un muro qualunque…”. Mi vengono

in mente queste parole di Baricco mentre penso

a Jamillah. Si è trovato in mezzo a due fronti di

un combattimento con il padre, che ha perso la

vita. E in ospedale ora sono in tre. Jamillah, Sul-

tan Aziz e Ziawudin. Non posso fare a meno di

pensarci. Destino?! Insieme a Jamillah è arrivato

da Gardiz dopo 6 ore anche Hekmat, 14 anni,

con lesioni multiple per lo scoppio di una mina

al viso, ad entrambi gli occhi, all’addome, al

torace, agli arti inferiori, con frattura esposta di

ulna e radio. Hekmat e Jamillah entrano in sa-

la operatoria. Stanotte si ritroveranno in reparto

uno di fianco all’altro.

| TESTIMONIANZE |

| iamillah

31MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

UN MEDICO

IN GUERRA

di Marco GarattiChirurgia generale Fondazione Poliambulanza

È strano sentirsiinadeguati dopo aver fatto

un bel po’ di chirurgia in giro per il mondo in

centri non male (Houston, Mount Sinai New York).

Eppure questo è il sentimen-to che mi ha assalito, preso alla sprovvista la prima volta che in-coscientemente mi sono azzar-dato ad affrontare la medicina o meglio la chirurgia in un paese che definiamo in via di sviluppo.

Era la Cambogia, anno 1999.

La curiosità di vedere quanto va-levo io e quanto valeva la struttu-ra che mi ospitava mi ha spinto a fare questo balzo di qualche migliaia di chilometri, che niente sono, a confronto della distanza tra la nostra medicina e la medi-cina che si pratica là.

Il primo impatto l’ho avuto appe-na arrivato, ancora stanco delle 26 ore di viaggio che allora ci vo-levano per raggiungere l’ospedale di Emergency a Battambang, nel-la parte nord est della Cambogia. Un uomo giovane con un trauma toracico, curato inizialmente in una delle innumerevoli “cliniche private” che come imparerò più tardi sono una costante di tutti i paesi dove la sanità fa più schifo.Aveva un emotorace, lo si vedeva e lo si sentiva anche senza biso-gno di fargli una lastra ed aveva bisogno di un drenaggio toraci-co. Era da un giorno “ricoverato” nella clinica privata e gli avevano fatto di tutto tranne quello che serviva: antibiotici, trasfusioni, ferro in vena, plasma, expander, ma non un semplice tubo.

L’hanno trasferito sul retro di un pickup,

come una bestia,più morto che vivo.

Messo il drenaggio ed evacuato un paio di litri di sangue, il pa-ziente è stato subito meglio; lo abbiamo dimesso un paio di gior-ni dopo (la capacità di resistere e recuperare in questi pazienti ha del miracoloso) e da allora è diventato il rifornitore ufficiale di ananas che coltiva nel suo campo per il nostro ospedale.Tutto quindi era andato per il me-glio, per lo meno per quanto mi riguardava, tranne forse il fatto che ovviamente ad un certo pun-to avevo pensato di fargli una toracotomia vista l’entità della perdita (e quando l’ho detto ho fatto la figura del fesso), mi disse-ro che lo avrei tenuto ricoverato di più (e chi gli curava il cam-po?).

Quando l’ho dimessol’ho pregato di non fare sforzi eccessivi per un

mesetto (ricordo ancorale sghignazzate).

| TESTIMONIANZE |

32 MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

Un po’ meno bene è andata qual-che giorno dopo. Come mio se-nior surgeon avevo un chirurgo iracheno, Affan, che tra guerra e mine ne aveva viste di tutti i co-lori. Dopo una settimana dal mio arrivo aveva colto l’occasione e si era recato in visita ad uno dei nostri posti di pronto soccorso distante un giorno di macchina. Due ore dopo la sua partenza è arrivata in ospedale la mia prima vittima da mina antiuomo (leg-ge di Murphy, of course). Lesioni traumatiche ne avevo viste, così mai. Per di più il paziente rifiutava di essere amputato e al mio arrivo in pronto soccorso lo staff medico locale stava usando uno specchio per fargli vedere quanto devastato fosse il suo piede.

Ho fatto così la miaprima amputazioneda mina, sfruttando

tutto quello che prima di partire mi ero studiato e

sudando comeun forsennato,

non per il clima,ma perché avevo paura

di sbagliare.

Alla fine l’intervento si era rive-lato “quasi ok” (come mi dis-se il mio collega) e ai controlli successivi, 5 giorni dopo in sala operatoria (procedura standard) Affan non aveva dovuto mettere a posto troppo di quello che ave-vo fatto.

Alla Cambogia sonoseguite poi altre

innumerevoli missioni, con un impegno che è diventato sempre piùrilevante all’interno

della mia professione.

Il perché me lo sono chiesto mol-te volte e la risposta che mi sono dato era perché sapevo che ce n’era bisogno.

In Eritrea ed Afghanistan, sempre con Emergencyho conosciuto da vicinola guerra, quella attiva quotidiana, incessante.

E qui se il sensodi inadeguatezza si

andava un po’ attenuando con l’esperienza,era il sentimento

di sgomento che prendeva il sopravvento.

Sgomento di fronte alla barbarie, alla sofferenza ed al contempo dignità di chi veniva ferito, al do-lore di pazienti e di parenti. In Afghanistan le guerre le ho viste tutte. Dalla guerra civile tra ta-lebani ed alleanza del nord fat-ta con armi, residuo di conflit-ti precedenti (ignorata dai più e non per questo meno letale); la guerra con l’occidente, fatta con armi molto tecnologiche e quindi

molto più efficaci nell’ammaz-zare e l’ultima fase della guer-ra, quella che ormai va avanti da qualche anno, che ha ripreso i caratteri della guerra civile, fatta di bombardamenti indiscriminati e di attentati suicidi che mietono sempre più vittime civili che con questo conflitto non hanno niente a che fare.Mi è toccato amputare bambini, aprire e riaprire pazienti che non andavano bene, affrontare mass casualties con più di cento pa-zienti alla volta. Non l’ho mai fat-to da solo: con me tante altre per-sone, italiani e non, tanti afghani che nel momento del bisogno si trovavano uniti per un obiettivo. Di tutti questi anni rimane l’or-rore per la guerra, rimane l’ami-cizia forte con i colleghi, soprat-tutto afghani, che con me hanno condiviso le lunghe ore di lavoro, la faccia di alcuni pazienti che ce l’hanno fatta a dispetto di tut-to e di tutti e la faccia di alcuni che invece purtroppo non ci so-no più.

Rimane l’orgogliodi aver cercato sempre di fare tutto il possibile

anche in situazionidi estremo disagioe di aver esercitato

la medicina per quello che è, un tentativo onesto

fatto da un uomo su un uomo per alleviargli

le sofferenze della vita.

| TESTIMONIANZE |

33MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

BAMBINI SOLDATOdi Antonella Bertolottimedico Psichiatria intermed onLUs Cooperazione sanitaria internazionale www. intermed-onlus.it

Se chiedessimoa Joshua che fucile

usava quando militavanel LRA

(lord resistance army), resteremmo sorpresi.

Un mitra di marca italiana era il suo compagno di viaggio. Jo-shua, 15 anni, è un ex bambino soldato, ora nel centro di recu-pero gestito dalle Canossiane. Pochi giorni fa mi trovavo a far lezione di anatomia in un liceo di Entebbe, in Uganda. Mi avevano chiesto di parlare dell’apparato respiratorio e ho chiesto a Joshua di spiegare con parole sue cosa aveva compreso della mia mini lezione.Mentre lo ascoltavo mi stupivo della precisione con cui descri-veva la gabbia toracica. Ricor-do che, quando mi disse che i polmoni, inferiormente, sono a contatto con il diaframma, non utilizzò il termine “contact”, ma usò il termine “touch”.Disse letteralmente: “Below the

lungs we touch the diaphragm”. Mi resi conto che aveva visto ciò che descriveva, non l’aveva sem-plicemente letto.Gli chiesi se volesse disegnare sul muro con i gessetti colorati quello che mi aveva appena de-scritto. Il muro era color ocra e fungeva da lavagna. Non aveva-mo banchi e i ragazzi erano se-duti sull’erba, verdissima perchè ora, in Uganda, è la stagione delle piogge. Fece un disegno agghiacciante: nessuna interez-za, nessun margine di lobi pol-monari.

Disegnò quel cheaveva visto e toccato

del suo compagnodi guerra ferito,

disegnòun’esplosione.

Non so se disegnare abbia avuto su Joshua un effetto catartico. Sta di fatto che, il giorno dopo, mi chiese di potere studiare su

un libro di anatomia. Uno vero, mi disse.Parlammo ancora, dei suoi fratelli che non lo aspettavano più.

Parlammo di una ziache lui aveva ucciso

con il suo fucile,sotto effetto delladroga che il suo

comandantegli dava ogni sera

“per averepiù coraggio”,

quando era nel nord dell’Uganda, dove Kony,

capo dell’LRA,l’aveva reclutato.

Capita,in Congo

e in Uganda,di fare

la psichiatra.

| TESTIMONIANZE |

34 MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

Capitadi lavorare

con i bambinisoldato.

Magari mentre stai facendo un lavoro completamente diver-so. Come alcune settimane fa, in Congo, presso l’ospedale di Alti dove Intermed onlus, l’or-ganizzazione di cooperazione internazionale per cui opero, sta realizzando un laboratorio di analisi, formando personale locale. Con il tecnico Osvaldo Martelli siamo più volte andati in questa zona, ad est del Con-go, dove vi sono miniere e ric-chezze per cui, da 12 anni, è in corso una guerra civile. Osvaldo è, oltre che un tecnico eccezio-nale, anche un amico carissimo, pronto a supportarmi (ed anche a sopportarmi). Stavolta a lui è affidata la formazione di due tec-nici di laboratorio locali a cui Intermed ha finanziato due an-ni di studi preparatori a Bunia, una città non lontana da Arù.

Oggi ho deciso che non andrò all’ospedale in jeep: una suora mi ha prestato

una bici e, il mattinopresto, è bellissimoarrivare in cima alla

collina da cui si domina l’altopiano.

Il nostro ospedale è lì, circondato da flamboyer rosso carminio.Arrivo col camice che ha un bel colore rosso polvere e la suora, appena mi vede, mi manda a cambiarlo immediatamente...la mia caposala, in Congo, è uguale a quella che ho in Italia...Le voglio molto bene, la conosco da dieci anni, ci diciamo tutto.Comincio a visitare due bambini che vengono da un villaggio vi-cino: sono venuti a piedi, accom-pagnati dalla madre che aspetta il terzo figlio. Le chiedo il mese di gestazione. Mi sorride. il giorno dopo arriva con in braccio il terzo figlio. Sempre sorridente.Riescono a sorprendermi cer-te persone temerarie, per la loro concretezza. Questa donna ha perso il marito sei mesi prima. Era un soldato dell’esercito rego-lare, di guardia a una delle tante miniere di coltan che sono privi-legio e condanna di questo splen-dido paese che è il Congo.La mamma è in ambulatorio per-chè i due bimbi più grandi hanno la malaria. Distribuisco loro i far-maci dopo avere letto la “goccia

| TESTIMONIANZE |

35MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

spessa”. Potrei congedarli, ma la deformazione professionale della psichiatra e, forse, ancor più la curiosità, mi inducono a farle al-tre domande. Lei ha voglia di rac-contare. Io di ascoltare. Continua, dunque, spiegandomi che il mari-to è stato colpito dai proiettili dei ribelli che volevano impossessarsi della miniera. Per gestirla e ven-dere il coltan alle multinazionali occidentali che non chiedono al-tro che di comprare. Di comprare questo “oro”, questo coltan che si usa nell’assemblaggio dei telefoni cellulari.

Penso a quanto siagrottesco preoccuparci di

guardare la marcadi un telefonino, quando

il coltan che serve per

assemblarlo è cosìinsanguinato...

Discorsi paradossali che vorreb-bero essere supportati da spiega-zioni plausibili.

L’occidente è all’iniziodi una crisi da cui

l’Africa potrebbe salvarci con le sue mille risorse. Ma a noi resta il dovere morale di lottare perchè

queste risorse sianoamministrate

correttamente.

Questo è un mondo capovolto dove chi ha già vuole di più e chi non ha, dà ancora di più. Pochi sono i congolesi che trag-

gono profitto da queste miniere.Questa paziente è qui, ora, me lo sta dicendo. Le chiedo cosa le serve, mi dice che vorrebbe costruirsi una casa vicino all’o-spedale, così, quando i bambini si ammalano, possono essere cu-rati. Chiedo al consiglio di am-ministrazione dell’ospedale se si possa fare una piccola casa ap-pena fuori dal compound. Tre giorni dopo due muratori vanno e vengono con carriole e cemento. Due settimane dopo la casetta è pronta.

Davanti alla finestrac’è un albero

di frangipane rosa.Riesco a sentirneil profumo anche

dal mio ambulatorio.

| TESTIMONIANZE |

Chirurgia a tutto campodi Gualtiero Danielichirurgo in Burkina Faso

sono passati otto anni da quando durante un viaggio in un piccolo stato dell’africa, il Burkina Faso, fui sconvolto dalle condizioni di estrema povertà in cui viveva la popolazione: fame, carestie, epidemie, analfabetizzazione ovunque. mi venne spontaneo domandarmi: perché ancora oggi tanta miseria? e trovai subito tanti colpevoli e tante spiegazioni: gli aiuti che non giungono a destinazione, le risorse mal distribuite, i governi che non fanno nulla. Poi pensai: ma io cosa faccio? Questo pensiero si fece sentire sempre di più. rientrai in italia, ma un chiodo fisso mi perseguitava: mettere a disposizione il mio bisturi dove c’era più bisogno. | gualtiero Danieli

36 MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

Con i miei racconti riusciia sensibilizzare un buon numero

di medici e infermieri, ora sono più di cinquanta, che utilizzano le loro ferie

per mettersi a disposizione.

Mi raggiungono in Burkina Faso per fermarsi 15-20 giorni, io ci resto per 6-8 mesi l’anno. Si lavora tutto il giorno in due Ospedali pubblici, Koupèla e tenkodogo, in stretta collaborazione con il perso-nale medico del luogo. La nostra finalità è infatti di prepararli a gestire il loro Ospedale in maniera autonoma. Le patologie più frequenti interessano l’ortopedia-traumatologia, con esiti di fratture non trattate, malformazioni ossee ed osteomieliti. All’o-stetrico-ginecologo è richiesto un grande impegno per i numerosi casi di fistole urogenitali, esiti di parti difficili a causa della pratica ancora diffusa dell’infibulazione. Ma non manca il lavoro al chi-rurgo plastico, al chirurgo generale e all’urologo, spesso impegnati in interventi resi difficili dallo stadio avanzato dalla malattia e dalla mancanza di supporti tecnologici.

Da novembre 2011 all’aprile 2012abbiamo eseguito 103 interventi

chirurgici di varie specialitàcon risultati analoghi

allo standard europeo, nonostantele notevoli difficoltà logistiche.

Abbiamo inoltre allestito un servizio di ecografia e gestito un ambulatorio per le consultazioni, sempre in collaborazione con un medico Burkinabe: sono state eseguite 343 ecografie e 495 consultazioni. È stato un lavoro intenso, duro soprattutto per le condizioni ambientali e le notevoli difficoltà logisti-che (la struttura dell’Ospedale è fatiscente) ma che esperienza, che arricchimento interiore!

Emozioni difficili da descrivere, forse un racconto riesce meglioa coinvolgere chi non ha ancoravissuto un’esperienza in Africa.

Marie-Lydie ha nove anni, pesa 11 kg. perché da sei mesi fa fatica a mangiare e non dorme a causa di forti dolori addominali. Decidemmo di operar-

la, un’emicolectomia destra per un’invaginazione ileo-cecale, ma dopo 40 giorni, quando sembrava ormai guarita, una complicazione ci costringeva ad un disperato re-intervento. Ricordo ancora la nostra preoccupazione nel dare alla mamma la notizia della gravità della situazione, ma sarà proprio lei ad infonderci coraggio, ci dirà nel suo idioma: grazie per quello che fate, affidiamoci alla volontà di Dio.

Appena deceduta, la mamma è venuta per dirmi “barka“ (grazie) per l’amore

che lei ha saputo dare alla mia bambina.

Che grande lezione di vita da una donna analfabe-ta, che vive in una capanna in mezzo alla savana! Ancora oggi è la prima che viene a darci il benve-nuto ogni volta che arriviamo a Koupèla. Una rifles-sione s’impone: dobbiamo certamente perseguire il miglior risultato possibile con i nostri interventi,ma non dimentichiamo di fare tutto con amore.

Come ci ha insegnato quella mamma, l’amore sconfigge anche la morte.

Quanti ricordi! Che esperienzaper un medico lavorare in Africa!

Quanti interventi che cambiano la vita di chi senza il nostro aiuto non avrebbe mai potuto essere cura-to. Bambini con gravi handicap motori che possono correre dopo una delicata chirurgia ortopedica o plastica, una donna emarginata per la perdita di urina da una fistola che può ritornare nella sua capanna e così via… ed allora ti prende il ”mal d’Africa“. Non sei stregato dai suoi spazi immensi né dai suoi tramonti né dalle notti stellate che pur sono di una bellezza mozzafiato; il mal d’Africa è la sua gente, quel popolo dignitoso che ha bisogno di tutto ma non ti chiede mai niente.Sogno del nostro gruppo è migliorare la struttura dell’Ospedale di Koupèla e fornirlo di servizi idonei a garantire un’assistenza dignitosa alla sua popola-zione.• Stiamo costruendo un reparto di degenza (28

posti letto),per poter accettare i numerosi malati che chiedono il nostro aiuto.

• Stiamo raccogliendo i fondi per costruire la sa-la di radiologia (la radiologia più vicina è a 50 km.)

• Siamo alla ricerca di attrezzature dismesse per allestire un servizio di oculistica e odontoiatria.

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37MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

OSPEDALE DI KALONGO, UGANDAdi Myriam Brunellimedico Laboratorista ed ematologa già dirigente di Laboratorio dell’ospedale Bambini Co-fondatrice ong medicus mundi

Nel 1953, quando ero assistente volontaria nel laboratorio di analisi nella vecchia sede dell’O-spedale Civile di Brescia, il prof. Balestrieri, (di cui conservo sempre un devoto e grato ricordo) che da poco era nel nuovo (attuale) Ospedale come Primario del terzo reparto d medicina, chiese al mio Primario, il Prof Pancotto, di staccarmi alla 3° medicina, dove desiderava avviare un piccolo labo-ratorio di reparto. Fu l’inizio, per me, degli anni più belli passati in Ospedale, perché vedevo attuarsi quello per cui mi ero avviata alla specialità di oncologia, e poi di Laboratorio e di ematologia: affiancare l’attività di laboratorio all’ammalato, sapere per chi e per quale motivo svolgevo le mie indagini. Fu anche l’inizio di quanto, prima, non avrei mai immaginato: trasmettere ad altri le mie conoscenze e le mie capacità. Iniziai infatti in quel piccolo laboratorio a insegnare ad un medico (il dott. Luigi Bordoni) e ad una suora (Suor Teresa) ad eseguire gli esami essenziali, di cui poteva essere utile avere il risultato con particolare urgenza.Dopo anni da quella mia prima esperienza, ebbi modo di preparare operatori in laboratori di vari pic-coli ospedali o dispensari, specialmente in Africa.Erano anni in cui, finito il mio impegno in 3° me-dicina, mi era possibile e molto gradito potervi ritornare e vedere qualche ammalato pur avendo l’impegno fisso in laboratorio.E proprio in 3° medicina ebbi modo di conoscere

Don Donini, medico e sacerdote, che veniva in reparto per rinfrescare le sue nozioni di medicina prima di partire per una missione in Uganda.

Fu don Donini che mi proposedi recarmi in Uganda, all’ospedale

di Kalongo, dove si intendevaincrementare l’attività di laboratorio.

L’ospedale, fondato nel 1956,era diretto dal dott. Giuseppe Ambrosoli,

medico e Missionario Comboniano.

L’ospedale era, per le capacità di Padre Ambrosoli, noto e apprezzato in tutta l’Uganda. Il Padre era pe-rò il solo medico in un ospedale di un centinaio di letti e centinaia di pazienti ambulatoriali.Attendeva quindi con gioia l’aiuto di Don Donini, che però era preoccupato per il laboratorio.

Accettai con entusiasmo l’invito. Era un ambiente del tutto nuovo per me, ma mi trovai subito a mio agio, anche perché ricevetti, dai Padri alle Suore e al personale dell’ospedale, un’accoglienza ed una collaborazione cosi calorose, che mi misi subito a lavorare come fosse sempre stata la mia sede e, quasi, la mia casa.Mio primo allievo fu un giovane che aveva frequen-tato solo la scuola elementare. Allora a Kalongo

| TESTIMONIANZE |

38 MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

c’era solo la scuola primaria: c’era però una scuola per infermiere da poco avviata da Padre Ambrosoli. Inoltre un Fratello Comboniano addestrava ragazzi in lavori artigianali (muratori, falegnami, meccanici) per le necessità della Missione.

E a Kalongo ritrovai la Medicinache avevo desiderato: aiutavo in

ambulatorio, vedevo alcuni malatiricoverati e insegnavo ad eseguire

le indagini di laboratorio essenziali.Era una gioia per me e per i miei allievi vedere ogni giorno qualche progresso.

Il più anziano, nel corso degli anni, era diventato uno...specialista in parassitologia. Era orgoglioso di mostrarmi che individuava parassiti col microscopio a piccolissimo ingrandimento: io non li avrei visti!

In cambio di quel poco che ho potuto dare ho ricevuto moltissimo.

In particolare l’esempio di tutti, da padre Ambrosoli e Don Donini, alle suore (una fu mia allieva prima e valido aiuto anni dopo), ai Padri: spirito di sacrifi-cio, di adattamento, disponibilità a tutte le ore del giorno e della notte, collaborazione reciproca, pa-zienza (dote indispensabile!).E il tutto spesso in situazioni critiche per la Missio-ne e per la gente. Basti pensare alla tensione causa-ta da guerriglia, lotte tribali, carestia, epidemie.A Kalongo mi recai molte volte. Ricordo in partico-lare quando tornai per la riapertura dell’ospedale.Era stato chiuso per circa due anni. Nell’1987, infatti, fu evacuato per la guerra.Una lunga carovana di malati, suore, missionari, personale dell’ospedale e gente del paese seguita da una colonna militare dovette abbandonare il frutto di tanto lavoro e il luogo dove tanta gente aveva avuto aiuto e conforto. In quell’occasione perse la vita Padre Ambrosoli, che, già sofferente, aveva voluto accompagnare tutti in un luogo sicuro e portò le allieve infermiere nella missione di Angal dove avrebbero potuto continuare la loro prepara-zione.

Tornai a Kalongo nel novembre dell’1989 in occasione della riapertura

dell’ospedale.

Per circa un mese sono stata il solo medico pri-ma dell’arrivo di Padre Egidio Tocalli, pure medi-co Comboniano, destinato ad assumere l’oneroso compito di sostituire Padre Ambrosoli.Mi tranquillizzava la presenza dei Padri Combonia-ni che già erano tornati. Il Superiore, vedendomi preoccupata perché mi rendevo conto di non essere in grado di affrontare le più varie situazione mi dis-se subito: “se hai problemi per qualche ammalato, non preoccuparti: lo porto io a Lira” (dove pure c’è una missione Comboniana con ospedale).In quattro mesi vidi l’ospedale rinascere, la gente veniva contenta di ritrovare un medico. Il mio mag-gior lavoro in quel periodo fu di preparare la sala operatoria in efficienza per quando sarebbe arrivato il medico-chirurgo. E fui strabiliata costatando quanto le suore erano riuscite a fare prima del forzato precipitoso esodo. In particolare trovai nascosti, avvolti in carta da giornale, molti ferri chirurgici. Con i miei giovani collaboratori (di anni prima) riuscimmo a lavare e a sterilizzare tutto quello che poteva essere utile per i primi interventi urgenti ed anche a preparare flaconi di soluzione fisiologica e glucosata (fortuna-

| TESTIMONIANZE |

| Padre giuseppe ambrosoli con i pazienti

tamente era rimasto quanto poteva servire per l’al-lestimento di fleboclisi e anche dei più elementari e utili reagenti per il laboratorio).Fu difficile ma utilissima anche la cernita dei me-dicinali rimasti nel magazzino: ne recuperammo molti non ancora scaduti.Nel primo mese, quando ero sola, ho avuto la fortuna di non avere avuto casi gravi; appena arri-vato padre Egidio venne in ospedale una donna a cui una pallottola aveva trapassato la mandibola e asportato parte della lingua.In quel caso ho fatto l’anestesia dietro....dettatura del Padre che stava operando. Dopo una decina di giorni l’ammalata girava sorridente per l’ospedale, anche se con un sorriso non esteticamente perfetto.A coronamento di mesi di lavoro veramente pesan-te ma entusiasmante sono arrivate le Suore Com-boniane con le ragazze della scuola per infermiere e ostetriche. Padre Ambrosoli aveva sacrificato gli ultimi giorni della sua vita, accompagnandole in una missione dove hanno potuto proseguire i loro studi e tornare a Kalongo in grado di continuare a far vivere l’Ospedale. Arrivarono, Suore e ragazze, su due camion, che alla missione di Patongo, da cui erano passate pri-ma di arrivare a Kalongo, la gente aveva ornato di boughenville. Le precedeva un gruppo di ragazze ballando, mentre sugli alberi lungo la strada grap-poli di ragazzini ne annunciavano l’arrivo battendo le mani e cantando.Sono tornata spesso in Uganda e in altri zone in cui potevo essere utile. Ricordo in particolare i campi profughi in Rwanda, dove mi sono recata con la

nostra ONG Medicus Mundi.Ultimo nel tempo, ma non ultimo nel ricordo il Sud Sudan, dove un Padre con cui ero stata in Uganda (Padre Mattia Bizzarro) mi aveva chiesto di recarmi per poter diagnosticare la tubercolosi che affliggeva la zona e dove non c’era modo di fare un’esatta diagnosi. In una capanna abbiamo allestito un pic-colo laboratorio per la ricerca del bacillo di Koch, unico mezzo in quella sede, per poter fare la dia-gnosi. Miei allievi erano quattro giovani di 20-25 anni, di cui il più istruito era riuscito a frequentare le tre prime classi della scuola primaria: prima in Etiopia, poi in Uganda e finalmente in Sud Sudan man mano fuggiva dalle zone di guerra. I missionari erano potuti tornare in Sud Sudan, se pur con molti rischi, da appena tre anni.

Anche qui è stata per quei giovaniuna grande gioia acquisire nuovecapacità con le quali poter essereutili alla propria gente e, per me,

nel vedersi prospettare la possibilitàdi curare molti ammalati.

Questo avveniva 14-15 anni fa. Ora, fortunatamente, all’interno di alcune unità sa-nitarie c’è il centro per la tubercolosi. Qui vengono indirizzati i casi di tubercolosi individuati nei vari dispensari.L’UNDP (organismo dell’ONU) si fa carico della diagnosi e della terapia in base allo standard inter-nazionale.

| TESTIMONIANZE |

| Padre egigio tocalli

40 MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

ASSOCIAZIONE AMICI PER L’AFRICAdi Giancarlo Nervimmg Concesio Presidente aPa onlus www.amiciperafrica.it

L’A.P.A. Onlus

L’associazione nasce nel 1990 da un gruppo di amici medici che, con l’appoggio dei padri missionari della Consolata di Torino, iniziano a frequentare assiduamen-te e ad operare nei dispensari del Kenya. Nel volgere di breve tempo il piccolo gruppo si struttura in associazio-ne di volontariato e quindi in ONLUS, coinvolgendo non solo medici-odontoiatri, infermieri, assistenti alla poltrona, ma anche odontotecnici. La vocazione prima-ria dell’associazione, inizialmente, è stata quella di for-nire prestazioni odontoiatriche alle popolazioni disagia-te a titolo completamente gratuito. Da qualche tempo si è però ampliato l’intervento, comprendendo anche ambiti propri della medicina generale e dell’infettivo-logia, con particolare attenzione ai problemi emergenti individuati essenzialmente in ipertensione arteriosa, diabete mellito, parassitologia intestinale e malaria. Non meno importante, negli ultimi anni, è stata anche l’attività dell’associazione a livello educativo, con cam-pagne di prevenzione per la malaria infantile e per la diffusione di corrette norme igieniche, in particolare per quanto riguarda l’apparato odontostomatologico, che si sono tenute presso le scuole di primo e secondo grado, i dispensari e le missioni. L’Associazione APA Onlus ha struttura “democratica” (le cariche sono elettive) e non ha scopo di lucro. Essa persegue esclusivamente finalità di solidarietà sociale, nel campo dell’assistenza sanita-ria e sociale, della ricerca scientifica, della formazione degli operatori, della tutela dei diritti civili e del miglio-ramento della qualità di vita a favore delle popolazioni dell’Africa, per garantire loro il diritto inalienabile ad usufruire di cure odontoiatriche e mediche. Ho accen-

nato alla ricerca scientifica non a sproposito, anche se parlare di ricerca in un’associazione di volontari che opera in un paese del terzo mondo con scopi umanitari potrebbe sembrare fuori luogo. In realtà, e faccio un esempio, attualmente è attivo uno studio in collabo-razione con l’Università di Odontoiatria di Ravenna avente come oggetto la “Fluorosi dentale nelle popo-lazioni del Kenya”. Un’associazione, quindi, che opera sul territorio e che al tempo stesso raccoglie dati, infor-mazioni, bisogni per formulare nel futuro programmi di intervento utili ad affrontare le problematica dell’assi-stenza odontoiatrica e medica, con la strutturazione di ambulatori odontoiatrici inseriti nei dispensari esistenti, in collaborazione con istituti religiosi missionari. Tali ambulatori sono attualmente direttamente gestiti dall’ associazione, ma il programma futuro è quello di ce-derli ad una gestione esclusivamente locale, non appe-na avranno raggiunto lo standard dell’autosufficienza. L’APA Onlus continuerà ad offrire, nei tempi e modi fattibili, il proprio appoggio e, in caso di difficoltà o di fallimento gestionale, riprenderà la direzione degli am-bulatori. Inoltre, per due anni e/o per il periodo neces-sario al raggiungimento dell’autogestione, l’associazio-ne si assume l’onere degli stipendi dei professionisti del loco, individuati e scelti dalla controparte missionaria. I volontari, compreso il consiglio direttivo, si autofinan-ziano provvedendo al pagamento del proprio viaggio e adoperandosi nella ricerca di fondi da destinare ai progetti menzionati ed all’acquisto di attrezzature spe-cifiche. Tengo a precisare che le attrezzature vengono acquistate in loco, in modo da coinvolgere direttamente i Dental Officer (coloro che hanno conseguito questo titolo di studio) e contribuire all’economia Kenyota.

| TESTIMONIANZE |

Da circa dieci anni dedico parte del mio tempo

libero e le mie vacanze per

seguire alcuni progetti

sanitari in africa, soprattutto in

Kenya. Da sempre desideroso

di fare queste esperienze sono

entrato a far parte di

un’associazione di volontariato

(di cui attualmente sono

presidente), che si chiama aPa

onlus (amici per l’africa).

41MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

| TESTIMONIANZE |

La mia esperienza

Ho lavorato molto con questi meravigliosi volontari colleghi, assistenti, infermiere, odontotec-nici e molto abbiamo creato in quel paese noto ai più per le sue famose località turistiche.Ma al di fuori di questi centri la povertà e la sofferenza costitui-scono ancora la realtà quotidia-na.

Quando dico che lamaggior parte

del nostro lavororiguarda

l’odontoiatria, vedosempre visi stupiti,

quasi increduli.

Forse perché noi occidentali sia-mo abituati a ben altri standard di vita: ma il dolore è dolore ovunque e quando non hai la possibilità di curarti allora, per disperazione, ricorri a tutti gli espedienti possibili.

Ho visto gente disperata togliersi il dentecon un machete,

tagliandosi quasi fino all’orecchio, oppure

applicare al dente malato l’acido della batteria,

con il risultato di perdere altri 4/5 dentie ustionarsi.

In una delle molteplici missioni della durata di quaranta giorni abbiamo effettuato 440 interven-ti odontoiatrici, di cui più di 350 hanno riguardato avulsioni den-tali (a volte molto complicate!), mentre i restanti sono consistiti

in cure di carie, cure canalari e protesi rimovibili.Durante la stessa missione, oltre agli interventi odontoiatrici, mi sono occupato di visite mediche riguardanti alcuni casi di iper-tensione severa, diabete scom-pensato, medicazione e suture di ferite.

Ho visto ancora tanta dignitosa sofferenzae sguardi lucidi di

gratitudine quando,al termine di un

intervento,il dolore non c’è più

e la vita, seppur misera, pare riprendere vigore.

Embul-bul, Kahawa west, Saga-na, Giakaibeji, Chaharia, Isiolo, Wamba sono i centri in cui ab-biamo operato in collaborazione con altre associazioni, integran-do risorse economiche e umane, senza dimenticare l’indispensa-bile appoggio logistico dei Padri e Sorelle missionarie.Ovunque e con tutti le esperien-ze sono state e lo sono tuttora, meravigliose.Lo scorso anno ho dato il via al progetto Giakaibeji: in col-laborazione con le Suore Cap-puccine stiamo riorganizzando un piccolo ospedale, appunto a Giakaibeji, villaggio sperso nella foresta ai piedi del monte Kenya, a circa 2700 metri di altezza, lontano più di cento chilometri di strade disagevoli dal più vi-cino ospedale, nella cittadina di Nyeri.A Giakaibeji ha già preso vita uno studio odontoiatrico ben at-trezzato.Un Dental Officer locale, sti-pendiato dall’APA, provvede a

mantenere attivo l’ambulatorio tutto l’anno.Accanto allo studio odontoiatri-co abbiamo creato un ambula-torio medico, con un laborato-rio di analisi in grado di fornire, in tempi molto brevi, i risultati dei principali esami riguardanti malaria, ameba, parassiti intesti-nali, diabete, infezioni veneree. Prossimamente, credo, saremo in grado di aprire anche il repar-to di maternità, grazie all’aiuto di amici, colleghi e di qualche sponsor (i soldi sono sempre ne-cessari, anche in queste attività di volontariato, per fare del bene ad altri meno fortunati di noi).

Durante questi anni di attività in Africaho avuto modo

di mettere a fruttotutte le mie conoscenze mediche e odontoiatri-che, convinto, almeno

inizialmente, di essere io a donare agli altri.

Ma alla fine di ogni missione mi sentivo sempre più umanamen-te ricco ed ho capito che nulla può essere più gratificante del donare, anche solo un poco di attenzione, a chi, dimenticato dal mondo, non ha nemmeno la forza di chiedere.

La mia presunzione di “medico bianco”

onnisciente è miseramen-te crollata davanti alla

dignitosa e mutasofferenza di queste

popolazioni: io non ho dato, ho ricevuto.

42 MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

UNA SETTIMANA DI VOLONTARIATO A SAKATIA, MADAGASCAR

di Aldo Francesconiodontoiatra, componente della commissione albo odontoiatri e consigliere dell’ordine

Nella settimana dal 26/03/12 al 03/04/12 sono stato su un’isoletta del Madagascar, al centro di un piccolo arcipelago dove esiste una struttura sanita-ria di nome CHANGE, allestita da una delle tante organizzazioni sanitarie, composta da volontari. L’impatto con l’Africa è stato il solito “pugno nello stomaco”. Anche se lì la natura mostra i suoi aspet-ti più belli e prepotenti (vegetazione e mare sicura-mente indimenticabili) le condizioni di vita della popolazione sono proprio come ci si immagina: capanne fatiscenti, promiscuità con animali, nien-te elettricità, livello di igiene inesistente. In uno

di questi villaggi, tutti uguali, sorge l’ambulatorio dove ho operato e che viene mantenuto costante-mente in funzione da un infermiere del luogo che praticamente esaudisce tutte le richieste sanitarie della popolazione: dal piccolo trauma, alla vacci-nazione, al parto.Poiché circa due anni fa è stato attrezzato dalla ONLUS sopracitata anche un ambulatorio odon-toiatrico, qualche collega a turno decide di andare ad esercitare la professione in condizioni diame-tralmente opposte alla realtà in cui opera normal-mente.

| TESTIMONIANZE |

io ho lavorato per cinque giorni e l’afflusso della popolazione, che era stata precedentemente avvisata, è stato costante. Le prestazioni richieste si limitano ad una odontoiatria di base (molte estrazioni, qualche otturazione, qualche devitalizzazione) ma ho avuto comunque l’impressione che la gente gradisca molto affidarsi a qualcuno che si prenda cura di loro poiché in un ambiente dove praticamente la sanità non esiste l’unico atteggiamento di fronte alla malattia è la rassegnazione. Discorso diverso per i bambini che sono accorsi numerosi, attratti dalla curiosità e dagli spazzolini e dentifrici che regalavo. soprattutto con loro ho cercato di stabilire un rapporto che andasse al di là della mia prestazione tecnica e ho cercato di coinvolgerli anche nel mantenimento dell’igiene orale. alla fine della settimana ho riflettuto sul nome dell’associazione di volontari che mi ha permesso questa esperienza: CHange. Certo, c’è proprio tanto da cambiare, tanto da chiedersi se valga la pena di fare tutto questo per dare un aiuto che a prima vista appare quasi insignificante o comunque inadeguato a modificare una realtà tanto difficile.

Ma se mi chiedeste di ripetere l’esperienza direi sicuramente di sì e consiglio a tutti i colleghi di fare altrettanto: poi quando tornate ne parliamo.

43MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

“Niente è più come prima. L’Africa mi ha ricaricato”di Gemma Cattaneospecializzanda in Pediatria

Nel 2007, subito dopo l’inizio del mio primo anno di specializza-zione in Pediatria, decisi di par-tecipare al progetto di presa in carico dei bambini sieropositivi in Burkina Faso. Tale progetto è atti-vo sin dal 2004 presso l’Ospedale S. Camille di Oagadougou ed è gestito dai Padri Camilliani con il sostegno dalla Clinica Pediatri-ca degli Spedali Civili di Brescia. L’idea di partire per l’Africa, in realtà, era già nella mia mente dai tempi dell’Università, ma ritenevo che la preparazione pratica come medico e non solo nozionistica fosse essenziale prima di compie-re un tale passo. Il mio turno giunse nel 2010.

ll Burkina Fasoll Burkina Faso è uno dei cinque paesi più poveri della Terra; il suo nome è spesso associato alla siccità del Sahel, alle carestie, ai bambini che muoiono di fame. In questo paese il numero di figli per ogni donna è in media 6.7, la mortalità materna è di 930 ogni 100.000 parti, la mortalità infanti-le è di 86 su 1000, il tasso di alfabetizzazione è del 19% e l’aspettativa media di vita è al di sotto dei 50 anni. Fa parte dell’Africa Sub-sahariana, regione in cui l’UNAIDS stima

che vivano 22,9 milioni di perso-ne affette da HIV (che corrisponde al 68% degli affetti al mondo), di cui ben 1,8 milioni hanno un’età inferiore ai 15 anni. In un Paese

dove le risorse per la sopravvi-venza sono spesso sotto la soglia di povertà assoluta, dove il tasso di alfabetizzazione è basso, dove l’accesso alle strutture sanitarie è

| TESTIMONIANZE |

44 MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

spesso ostacolato da fattori di na-tura culturale, l’infezione da HIV trova terreno fertile per la sua dif-fusione. In Burkina su una popo-lazione di poco più di 14 milioni di abitanti si calcola che quasi 500.000 siano sieropositivi. Quasi il 3% delle gestanti sono HIV positive; ogni anno nascono tra i 5.000 ed i 9.000 bambini infetti da HIV e circa 18.000 neo-nati sono a rischio di trasmissione dell’HIV. Eppure i bambini co-stituiscono una grande speranza, nel mondo ma in particolare in Africa.Si può e si deve interrompere questo circolo vizioso.La terapia antiretrovirale alle don-ne in gravidanza ed ai neonati subito dopo il parto può ridurre drasticamente la trasmissione del virus da madre a bambino. Nei paesi a risorse limitate, oltre alla disponibilità dei farmaci, è neces-sario garantire l’accesso a regi-mi di terapia efficaci ed al tempo stesso il più possibile semplificati per poter ottenere una buona ade-renza alla terapia; ma la cura non si può limitare alla terapia anti-retrovirale: comprende anche un supporto nutrizionale, la profilassi farmacologia e vaccinale e soprat-tutto un sostegno psicologico e umano alle famiglie.

L’arrivoCome spesso succede con le esperienze belle della vita, all’i-nizio da parte mia ci fu paura. Emozioni pre-partenza: terrore, angoscia, ansia ed immensa ecci-tazione. Stavo per cominciare un’ “avven-tura” africana, in uno dei paesi più poveri e più... sconosciuti del mondo: il Burkina Faso. La quasi totalità delle persone (amici e familiari ad eccezione di mia madre) con cui avevo parlato nei mesi che hanno preceduto il

mio viaggio spalancava gli occhi e chiedeva dove fosse! Non appe-na scesi dall’aereo sentii un caldo soffocante…Proprio come teme-vo! Dopo aver recuperato i baga-gli con difficoltà, uscii in strada e ai miei occhi si aprì un altro mondo! Tante persone vestite di tutti colori che attendevano i viag-giatori arrivati in aereo, ambulanti dall’atteggiamento bizzarro che volevano vendermi qualunque cosa: una vera e propria nuvola di polvere tra terra rossa, sacchetti di plastica neri e gas di scarico dei centomila motorini! Però da subi-to fui molto contenta di mescolar-mi alla gente. Il vero spettacolo, quello che toglie il fiato, arrivò il giorno dopo quando giunsi per la prima volta al Saint Camille. Lo spettacolo erano i bambini che corsero ad accogliermi all’in-gresso dell’Ospedale. Loro non mi conoscevano anco-ra, ma io ero una “bianca” e per questo motivo da subito al centro della loro attenzione. I bambini in Burkina sono curiosi riguardo al fatto che noi abbiamo la pelle bianca, amano starci intorno, sal-tellare e cercare di toccarci quasi fosse una conquista. Alla bellezza dei bambini si contrappose subito anche l’angoscia per la povertà e per la sofferenza visibili ad ogni angolo.

Il contatto con il doloreMi ritrovai a gestire piccoli pa-zienti che giungevano a me in condizioni cliniche disperate; le madri li conducevano in ospedale in extremis ed apparentemente sembravano distaccate nei loro confronti. Con il tempo imparai a com-prendere che in Africa le donne soffrono in silenzio, perché per cultura non si può esternare il dolore di fronte agli altri, nem-meno il dolore più grande: quello

della perdita di un figlio. Le madri del Burkina hanno la ca-pacità di ringraziarti infinitamente e con il cuore sia quando hai suc-cesso sia quando il tuo aiuto non è stato sufficiente. In quest’ultimo caso, sono queste donne fortissi-me a sostenerti facendoti capire che c’è bravura anche nell’accet-tare la sconfitta e che loro non ti giudicheranno mai per il tuo fallimento ma solo per il tuo im-pegno. Quando vogliamo aiutare gli altri è sempre difficile capire il perché lo facciamo; se ci ponessi-mo questa domanda quale sareb-be la risposta? E’ proprio sicuro lo facciamo per vero altruismo? Non credibile! Probabilmente lo facciamo per metterci alla prova, oppure semplicemente per spirito di avventura! In ogni caso andare in Africa fa bene a noi sia professionalmen-te come medici sia e soprattutto spiritualmente come persone. Io credo che, seppur in maniera mi-nore, la nostra presenza faccia be-ne anche a loro; ai nostri colleghi, per lo scambio di conoscenze re-ciproco, e ai nostri piccoli pazien-ti e alle loro mamme per il bene-ficio in salute e per i momenti di gioco e gentilezza condivisi. In Burkina si nota subito la gioia di vivere, le persone manifesta-no felicità nonostante la difficoltà della vita quotidiana. Il perenne sorriso della gente mi ha disorientata quasi più della povertà che ho visto. Nei me-si trascorsi laggiù tanti sorrisi mi hanno trafitto e mi hanno scom-bussolato l’esistenza. Sono tornata con una gran voglia di stringere la mano a tutti, con il desiderio di abbandonare l’individualismo estremo che caratterizza noi “oc-cidentali”, con l’esigenza di in-contrare ancora visi sorridenti e disponibili. Niente è più come prima. L’Africa mi ha ricaricato.

| TESTIMONIANZE |

45MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

Le famiglie dei migranti e il volto dei servizi socio-sanitaridi Fausta Podavitte Direttore Dipartimento assi – asL di Brescia

Il tema dell’immigrazione a Brescia è attuale e rile-vante. La nostra città infatti è il terzo polo nazionale per numero assoluto di immigrati (al 30.06.2011 il 13,7% su una popolazione di 1.598.818). Se negli anni passati la loro presenza ha riguardato priorita-riamente il mondo del lavoro e i servizi sanitari di emergenza e di base, la progressiva ricongiunzione familiare ha modificato il sistema sociale oltre che numero e tipologia di servizi di cui essi fruiscono.

Il Consultorio Familiare

Il primo fenomeno eclatante determinato dall’im-migrazione è stato l’aumento del numero di nascite e di bambini stranieri frequentanti la scuola di va-rio ordine e grado. Il Consultorio Familiare è stato pertanto il primo Servizio della rete socio-sanitaria a risentire profondamente della presenza di donne straniere, che lo hanno individuato quale luogo

| IMMIGRATI E SANITÀ BRESCIANA |

46 MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

privilegiato in cui chiedere assistenza durante la gravidanza ed a sostegno della maternità e della genitorialità. Proprio nei Consultori si sono speri-mentati i mediatori linguistici e culturali per meglio comprendere nuove concezioni della crescita dei figli, visioni della salute e della malattia e diverse modalità di cura.

Tab. 1 - Utenza straniera nei ConsultoriFamiliari anni 2005 - 2010

AnnoUtenza complessiva

(italiani,stranierie non rilevati)

di cuiutenti

stranieri

%utenza

straniera

2005 47.728 6.338 13,3%

2006 49.747 7.210 14,5%

2007 50.078 8.415 16,8%

2008 48.741 9.719 19,9%

2009 45.270 9.914 21,9%

2010 44.414 10.327 23,3%

Uno studio longitudinale dell’ASL di Brescia sull’an-damento dell’utenza straniera nei Consultori Fa-miliari dal 2005 al 2010 evidenzia un incremento significativo, da 6.338 persone nel 2005 a 10.327 nel 2.010, di cui 9.759 donne.

La tabella 1 mostra la distribuzione per anno in rapporto all’utenza totale, evidenziando un incre-mento costante, passando dal 13,3% del 2005 al 23,3% del 2010. Interessante è anche il dato relativo ai principali pa-esi di provenienza, come da tabella 2.

Le donne straniere

Le donne straniere richiedono prevalentemente pre-stazioni nell’area del percorso nascita, dalla gravi-danza al puerperio, accompagnate dal marito o dal partner, per il particolare rapporto con l’altro sesso, con l’esigenza di presenza di personale femminile (ginecologhe) e di mediatori donne della medesima etnia. La familiarizzazione con il servizio, avvenuta da parte delle donne straniere, e la maggior fiducia nelle risposte hanno reso possibile l’avvio anche di interventi di prevenzione, quali gli screening. In questa “espansione” delle attività rientra anche il supporto nella gestione dei conflitti di valore fra la famiglia immigrata e la società di accoglienza.

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Tab. 2 - Anno 2005 -2010

AnnoPaesi Est Europa

Altri paesi europei

CentroSud-America

Nord-America

AfricaAsia

OceaniaTotale

stranieri

2005 1.884 637 445 39 2.062 1.271 6.338

2006 2.106 719 601 27 2.332 1.425 7.210

2007 2.556 729 606 36 2.694 1.794 8.415

2008 3.006 753 629 79 3.251 2.001 9.719

2009 2.714 1.048 636 44 3.301 2.171 9.914

2010 3.161 402 584 17 3.615 2.548 10.327

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I minori

La gestione di utenza straniera è divenuta in un secondo momento di grande significato anche nell’ambito della tutela minorile. Il numero elevato di casistica straniera in carico al settore è segnale di disagio sociale e familiare determinato da vari fattori, fra cui le difficoltà di inserimento in una so-cietà con regole chiare di tutela dei soggetti minori, considerati invece “proprietà privata della famiglia” nella cultura di altri popoli.Lo studio longitudinale effettuato dall’ASL di Bre-scia dal 2003 al 2010 evidenzia che il costante in-cremento della casistica totale in carico al Servizio Tutela Minori vede un corrispettivo aumento anche della casistica di minori stranieri: da 1.739 casi, di cui 321 stranieri nel 2003, a 3.245 casi, di cui 801 stranieri, nel 2010. La tabella 3 evidenzia l’evoluzione in otto anni di attività, con percentuale in crescita dell’utenza stra-niera dal 18,46% al 24,68%.

Tab. 3 - Evoluzione dell’utenza stranieraTutela Minori

Anni Utenti totaliUtenti

stranieri totali

%

2003 1.739 321 18,46%

2004 1.531 355 23,19%

2005 2.106 428 20,32%

2006 2.320 506 21,81%

2007 2.506 566 22,59%

2008 2.805 672 23,96%

2009 2.975 702 23,60%

2010 3.245 801 24,68%

Anche nella popolazione straniera come in quella italiana, i minori con provvedimento dell’autorità giudiziaria sono in prevalenza maschi (nel 2010 n. 440 maschi a fronte di 361 femmine), mentre i provvedimenti preponderanti sono quelli civili, ri-feriti alla capacità di tutela genitoriale nei confronti dei minori. Fra le situazioni di pregiudizio in cui si trovano i minori si citano grave trascuratezza, maltrattamento fisico o psicologico, violenza assi-stita. Per il 30% dei minori sono stati effettuati in-terventi sostitutivi del nucleo familiare: nel 14% dei

casi un affido eterofamiliare e nel 16% la comunità alloggio. Si evidenzia comunque un incremento anche nel numero di provvedimenti penali, segnale sempre di pesante disagio sociale quando riguarda-no la popolazione minorenne, in quanto autori di reato (tabella 4 - dati rilevati dal 2006).

Tab. 4 - Provvedimenti T.O e T.Mper i minori stranieri

AnniN.

minori

N. minorinon

accompagnati

di cuiprovvedimenti

Civili Penali

2006 506 18 578 21

2007 566 29 535 26

2008 672 42 633 30

2009 702 32 651 34

2010 801 29 713 44

La disabilità

Una terza area in cui oggi si evidenzia una signi-ficativa presenza di stranieri riguarda la disabilità, fenomeno emergente in età evolutiva e registrato di recente attraverso le certificazioni di Handicap per l’inserimento scolastico, a cura dei Collegi di Accertamento dell’handicap, in capo alle ASL. La presenza elevata si ipotizza sia dovuta a mancanza di iniziative preventive prenatali, matrimoni fra consanguinei, oltre che alla tendenza a portare in Italia minori bisognosi di cure e assistenza, ciò an-che per le Malattie rare.Nel 2010 a fronte di 682 certificazioni di Handi-cap, ben n. 247 hanno riguardato minori stranieri, di cui 138 nati in Italia e 109 nati all’estero. Nel 2011 si evidenzia un incremento, con 731 certificazioni, di cui 301 relative a minori stranieri. Il raffronto fra i due anni mostra, a fronte di una riduzione dei minori italiani, un aumento significa-tivo del numero di minori stranieri. Di questi ultimi, quelli nati in Italia presentano una crescita del 15% e del 28% quelli nati all’estero (tab. 5) L’incremento di minori stranieri portatori di di-sabilità ha evidenziato l’opportunità di realizzare iniziative formative rivolte agli operatori, appro-fondendo in particolare l’incidenza della cultura sulla percezione genitoriale della presenza di diffi-coltà di apprendimento nei figli e l’inadeguatezza

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48 MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

sia linguistica che culturale dei test attitudinali per sondare i limiti intellettivi e le difficoltà di appren-dimento nel minore. Si pone pertanto la necessità di revisione degli strumenti in uso, per adeguarli al contesto culturale delle persone sottoposte a valuta-zione con fini diagnostici.

Tab. 5 - Confronto tra certificazioni2010 e 2011

Anno Italiano StranieroStraniero nato in Italia

Straniero nato all’e-

steroTotale

2010 435 247 138 109 682

2011 430 301 175 126 731

Anche nell’ambito delle Malattie rare il numero di stranieri esenti per patologia è di tutto rispetto: dei 4.935 assistiti affetti da Malattie rare presi in carico nell’ASL di Brescia, 325 casi, pari al 6,6%, sono di nazionalità straniera.La maggior parte proviene dall’Africa, n. 170 (3,4%), seguono 71 (1,4%) dai Paesi UE, i 67 asiati-ci (1,4%), gli 11 Sud Americani (0,2%) ed i 5 Nord Americani (0,08%). L’età media degli stranieri esen-ti per Malattie rare è 23,1 anni, significativamente più bassa rispetto a quella degli italiani (41,4 anni).

Gli anziani

L’ultima area, sia in termini cronologici sia nume-rici, ad essere coinvolta dal fenomeno dell’immi-grazione è quella relativa agli anziani – malati non autosufficienti, poiché ricongiunzione più difficile da effettuare, visto che l’immigrazione ha riguar-dato prevalentemente persone giovani, adulte e in buona salute.Sono stati 317 (0,91% sul totale assistiti italiani) gli

utenti stranieri che nel 2010 hanno avuto accesso ad alcune tipologie di servizi/prestazioni per non autosufficienti, di cui 137 in cure domiciliari.Se essi rappresentano l’1,03% degli assistiti in cure domiciliari, la percentuale aumenta notevolmente nella fascia 0-4 anni (il 34,29% del totale dei mi-nori di 0-4 anni in carico). Ad ulteriore conferma della prevalenza di casistica di minori, l’ADP (ac-cessi domiciliari del MMG) riguarda, nel 40% dei casi, situazioni di minori della fascia 0-4 anni. Si registrano alcune presenze nell’ambito della non autosufficienza che, seppur di minime dimensioni, sono di alto impatto assistenziale: tre persone in SV (stato vegetativo) a seguito di incidenti sul lavoro, di cui una con contributo al caregiver per la gestione a domicilio (su 15 pazienti italiani) e due inserite in RSA -Residenza sanitaria assistita - (su 17 pazienti italiani). Un ultimo dato che pone alcune riflessioni rispetto al futuro riguarda la presenza di 6 persone straniere in lista di attesa per l’ingresso in RSA.

Appare evidente che il fenomeno dell’immigra-zione ha avuto un forte impatto anche sui Servizi socio-sanitari, sia ampliando l’utenza in modo considerevole, sia richiedendo uno stile specifico di approccio da parte degli operatori.

A loro volta i Servizi divengono un potente stru-mento di facilitazione per un’integrazione effettiva, stimolo per gli stranieri verso una crescita culturale e verso il raggiungimento di una consapevolezza non solo dei propri diritti, ma anche dei bisogni per i quali è possibile avere risposte. Per il prossimo futuro ci si deve attendere un au-mento della presenza di stranieri anche in settori, ad es. della non autosufficienza, oggi ancora poco fruiti. Certamente gli operatori del mondo socio-sanitario devono essere formati per un approccio adeguato ad una società in grande trasformazione.

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49MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

L’assistenza sanitaria al migrante irregolare

L’esperienza bresciana

di Issa El-Hamadservizio medicina del Disagio asL di Brescia Dipartimento infettivi Università degli studi di Brescia

flussi migratori rappre-sentano un fenomeno planetario che sotto

diverse spinte sta caratterizzando la nostra epoca. Non esiste attual-mente un paese al mondo che non sia coinvolto da movimenti migratori, che l’attuale contesto socio-economico e demografico mondiale alimenta continuamen-te.Secondo i dati ufficiali gli stra-nieri attualmente soggiornanti in Italia sono circa 5 milioni; ai quali deve essere aggiunta una quota, variabile da 500.000 a 700.000 unità a seconda delle diverse stime, di migranti non in regola con le norme relati-ve all’ingresso e al rilascio del permesso di soggiorno. Comples-sivamente gli immigrati presenti a qualsiasi titolo in Italia rappresen-tano circa l’8% della popolazione totale, con costante tendenza all’aumento nel prossimo futuro.La Provincia di Brescia è consi-derata una delle aree a più alta pressione migratoria a livello nazionale. Si calcola, infatti, che oltre 160.000 immigrati siano presenti sul territorio provinciale, di cui una parte non trascurabile

è rappresentata da migranti in condizioni di irregolarità oppure in fase di regolarizzazione della propria posizione giuridica. È noto che movimenti migratori producono continuamente grandi modificazioni che si riflettono anche sul piano della salute. I Sistemi Sanitari dei Paesi di ap-prodo dei migranti hanno dovuto affrontare la sfida dell’assisten-za sanitaria alla popolazione migrante e del potenziale trasfe-rimento internazionale dei rischi sanitari. Sebbene in Italia l’assistenza sa-nitaria agli immigrati sia regolari che irregolari sia ben definita dal punto di vista legislativo, continua a persistere nel nostro paese una situazione di limitato e/o inappropriato accesso alle strutture sanitarie. Infatti, oltre ad una realtà di bassa iscrizione al Sistema Sanitario Nazionale (SSN) da parte degli immigrati regolari, si assiste continuamente ad una parziale e, in alcuni casi, discrezionale applicazione della normativa per quanto concerne gli immigrati irregolari. Se a que-sto si aggiungono le difficoltà per l’espletamento delle pratiche

di primo rilascio o di rinnovo del permesso di soggiorno (condizio-ne necessaria per avere la tessera sanitaria), si comprende come un’ampia proporzione (stimabile intorno al 40%) del totale degli immigrati attualmente presenti in Italia non goda di fatto di una regolare e continuativa iscrizione al SSN e di un normale accesso ai percorsi di prevenzione e cura nel nostro paese. Tale anoma-lia ha determinato uno stato di “clandestinità sanitaria”, che oltre ad essere una chiara lesione del diritto alla salute dell’individuo, secondo i principi costituzionali e la normativa vigente in materia, può rappresentare un potenziale rischio dal punto di vista di Sanità pubblica. Negli ultimi trent’anni, l’assi-stenza sanitaria agli immigrati irregolari è stata fornita preva-lentemente dalle strutture del vo-lontariato sociale e solo in pochi casi è stata la struttura pubblica ad assumersi in toto il compito di garantire il diritto alla salute degli immigrati non altrimenti assistiti, secondo quanto stabili-to dalla normativa attualmente vigente in materia.

I

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50 MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

l’ASL di Brescia ha da oltre 22 anni istituito una strut-tura ambulatoriale specifica rivolta agli immigrati irrego-

lari con l’obiettivo di tutelare la salute individuale e della collettività.

L’Ambulatorio Migranti, attivo sul territorio bre-

sciano dal 1990, nasce come “ambulatorio per la

prevenzione e cura dei soggetti extracomunitari”

per poi diventare “Centro di salute internaziona-

le” (Csi) nel 2003 ed infine l’attuale Ambulatorio

Migranti inserito nella U.o. medicina transcultu-

rale e malattie a trasmissione sessuale, nell’ambi-

to del Servizio di Medicina del Disagio dell’ASL

di Brescia.

L’orario di apertura al pubblico è nel pomerig-

gio dalle 13.30 alle 16.00 dal lunedì al venerdì;

l’accesso è diretto, libero, senza prenotazione

e le prestazioni sanitarie di primo livello sono

gratuite.

Datoil contesto

Le principali attività dell’ambulatorio migranti sono:• l’accoglienza e l’orientamento al corretto uso delle strutture socio-sanitarie;

• l’informazione sulla normativa in tema di assistenza sanitaria al migrante e l’educazione sanitaria;

• l’assistenza sanitaria di base con visita medica e eventuali prescrizioni diagnostico-terapeutiche, prelievi ematici di routine, medicazioni e vaccinazione antinfluenzale;

• l’implementazione di una rete territoriale con altri soggetti od organizzazioni che si occupano delle problematiche socio-sanitarie connesse al fenomeno migratorio;

• l’azione di filtro per evitare l’accesso inappropriato alle strutture sanitarie di secondo livello;

• la formazione e l’aggiornamento degli operatori sanitari in tema di Medicina delle Migrazioni;

• la sorveglianza e il controllo delle patologie potenzialmente diffusibili attraverso lo screening mirato sulle infezioni potenzialmente trasmissibili quali tubercolosi, infezioni sessualmente trasmesse, HIV ed epatiti virali;

• la creazione di una banca dati informatizzata di tipo demografico-epidemiologico mediante uno specifico programma informatizzato “CSI medical record”, che contiene una dettagliata scheda nosologica ambulatoriale. La scheda è costituita da una prima sezione per la raccolta dei dati gene-rali (età; sesso; paese di provenienza; posizione giuridica; situazione lavorativa familiare e abitativa; stato civile; epoca migratoria e domicilio) ed una seconda sezione nella quale vengono inserite le informazioni sanitarie e viene effettuata periodicamente la codifica delle diagnosi secondo la In-ternational Classification of Diseases 1997 – 9° revision (ICD-9-CM). L’insieme delle informazioni raccolte (Figura1) consentono alla struttura di assumere la funzione di un osservatorio epidemiologi-co sul fenomeno migratorio e di effettuare analisi periodiche di natura demografica e sanitaria sulla popolazione migrante irregolare presente nella nostra area.

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51MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

Uno sguardo da vicino

Alcuni dati

Le principali caratteristiche della popolazione mi-grante osservata sono l’estrema diversificazione et-nica, l’età media giovane, pari a 31,5 anni e la prevalenza del sesso maschile. Il continente di pro-venienza maggiormente rappresentato è stato l’Africa (47,2%), seguito da Europa (29,1%), Asia (20,0%) e Centro-sud America (3,7%); in particolare, i primi 10 paesi di provenienza sono stati, nell’ordine: Senegal (14%), Pakistan (9%), Marocco (8,2%), Moldavia (8%), Ucraina (7%), Nigeria (7%), Egitto (6%), Cina (5%), Albania (4%), Romania (4%) e Ghana (4%). Poco più della metà dei pazienti è di fede cristiana (55%), mentre il 37% è di religione islamica, il 3,7% di religioni orientali, mentre il 4% non appartiene a nessun credo religioso. Per quanto riguarda l’attività lavorativa, il 55% dei pazienti risulta essere disoccu-

pato, mentre il 28% dei soggetti ha un’occupazione fissa e l’11% un’occupazione precaria. Circa il 52% dei soggetti non è coniugato ed il 41% è coniugato. La maggior parte dei pazienti (66%) è domiciliato nella Città di Brescia, mentre il 30% dei soggetti proviene da altri luoghi della Provincia di Brescia e solo nel 2% dei casi gli immigrati sono domiciliati fuori Provincia (Tabella 1). Dal punto vista clinico, le forme patologiche maggiormente presenti sono state i “sintomi e segni mal definiti” (15%), dato proba-bilmente riconducibile all’eziologia aspecifica delle patologie in esame e alla natura ambulatoriale delle procedure diagnostico-cliniche (che non consentono di stabilire una precisa eziologia in una buona per-centuale di casi). Di seguito troviamo le patologie a carico dell’apparato digerente (10,2%), del sistema osteo-muscolare (10,1%), dell’apparato respiratorio (10,1%), le malattie infettive e parassitarie (9,2%), i traumatismi e gli avvelenamenti (8,2%) e le affezioni del sistema genito-urinario (8,1%) (Tabella 2).Meno rappresentati sono stati i disturbi della sfera psi-chica (1,6%) e poco presenti sono risultate le patolo-gie tumorali (1%) e le affezioni di natura metabolica e degenerativa (1,6%), in rapporto verosimilmente alla giovane età della maggioranza dei pazienti.

Tabella 1 - Le principali caratteristche degli utenti dell’Ambulatorio migranti dal 1990 al 2011

Caratteristichesocio-demografiche Numero (%)

Numero pazienti 33.500

Numero visite 111.200

Età (in anni) Media 31,5 - Mediana 29,3 - Range 0,1 – 95,4

Sesso Maschi 20.669 (61,7%) - Femmine 12.831 (38,3%)

Continentedi provenienza

Africa 16.614 (47,2%) – Europa 9.661 (29,1%) - Asia 6.700 (20%) America Latina 1239 (3,7%) - Oceania + Nord America 6 (0%)

Paese di origine (primi 10 Paesi)

Senegal 4.690 (14%) - Pakistan 3.015 (9%) - Marocco 2.747 (8,2%) - Moldavia 2.680 (8%)Ucraina 2.345 (7%) - Nigeria 2.345 (7%) - Egitto 2.010 (6%) - Cina 1.675 (5%)

Albania 1.335 (4%) Romania 1.321 (4%) Ghana 1.317 (4%)

Religione Cristiana 18.425 (55%) - Islamica 12.395 (37%) Religioni orientali 1.239 (3,7%) - Nessuna 1.340 (4%) - Altro 109 (0,3%)

Occupazione Disoccupato 18.425 (55%) - Occupazione fissa 9.380 (28%)Occupazione precaria 3.685 (11%) - Altro 2.010 (6%)

Stato civile Celibe/nubile 17.420 (52%) - Coniugato/a 13.735 (41%)Divorziato/separato 1.005 (3%) - Vedovo/a 670 (2%) - Non noto 652 (2%)

Domicilio Città di Brescia 22.170 (66,2%) - Provincia di Brescia 10.184 (30,4%)Fuori Brescia e Provincia 675 (2,1%) - Non noto 435 (1,3%)

Occupazione Disoccupato 18.425 (55%) - Occupazione fissa 9.380 (28%)Occupazione precaria 3.685 (11%) - Altro 2.010 (6%)

Occupazione Disoccupato 18.425 (55%) - Occupazione fissa 9.380 (28%)Occupazione precaria 3.685 (11%) - Altro 2.010 (6%)

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52 MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

Tabella 2 - Classificazione delle malattie International Classification of Diseases - 9° revisionClinical Modification-1997 (ICD-9-CM) (1990-2011) – Tot. pazienti: 33.500

Maschi % Femmine % Totale %

Sintomi, segni e stati morbosi mal definiti 5.738 15,5 3.854 14,0 9.592 15,0

Mal. dell’app. digerente 4.102 11,1 2.470 9,0 6.572 10,2

Mal. del sistema osteo-muscolare e del tess. connettivo 4.273 11,5 2.232 8,2 6.505 10,1

Mal. dell’app. respiratorio 4.675 12,6 1.800 6,6 6.475 10,1

Mal. Infettive e parassitarie 4.307 11,6 1.636 6,0 5.943 9,2

Traumatismi e avvelenamenti 4.177 11,3 1.095 4,0 5.272 8,2

Mal. del sistema genito-urinario 1.251 3,4 3.975 14,5 5.226 8,1

Classificazione supplementare 1.226 3,3 3.335 12,2 4.561 7,1

Mal. della cute e del tess. sottocutaneo 2.772 7,5 1.159 4,2 3.931 6,1

Mal del Sistema Nervoso e degli organi di senso 2.020 5,5 1.342 4,9 3.362 5,2

Mal. del sistema circolatorio 1.021 2,8 910 3,3 1.931 3,0

Complicanze di gravidanza, parto e puerperio 0 0 1.428 5,2 1.428 2,3

Mal. Endocrine, nutrizionali, metabolichee immunitarie 423 1,1 630 2,3 1.053 1,6

Disturbi psichici 499 1,3 516 1,9 1.015 1,6

Mal. del sangue e degli organi ematopoietici 251 0,7 481 1,8 732 1,1

Tumori 176 0,5 460 1,7 636 1,0

Malformazioni congenite 118 0,3 61 0,2 179 0,3

Morbosità perinatali 3 0,0 2 0,0 5 0,0

Totale 37.032 100,0 27.386 100,0 64.418 100,0

Conclusioni

Sulla base della

nostra esperienza

possiamo concludere

che nonostante la

maggior parte degli

immigrati siano per-

sone sostanzialmente

in buona salute all’ar-

rivo, in ragione di una

naturale selezione

al momento della

partenza, l’assistenza

sanitaria è un bisogno

che non tarda a ma-

nifestarsi così che gli immigrati, dopo un “intervallo di benes-sere” relativamente lungo, diventano un gruppo di popolazio-ne più vulnerabile dal punto di vista sanita-rio per il concentrarsi di numerosi fattori di rischio per la salute. I dati disponibili met-tono in evidenza un profilo sanitario del migrante in cui la pa-tologia più frequente è quella acquisita nel

paese ospite, legata essenzialmente alle condizioni di disagio climatico, abitativo, lavorativo e psicolo-gico che gli immigrati possono vivere nel nostro paese. Tuttavia, il riscontro di alcune patologie infettive di rilievo come in parti-colare la tubercolosi, la malaria e le infe-zioni sessualmente trasmesse sottolinea la necessità di attuare misure

concrete nel settore

della prevenzione e

dell’assistenza sanita-

ria, che non possono

essere lasciate esclu-

sivamente all’iniziati-

va di organizzazioni

non governative o

strutture di volonta-

riato, ma dovrebbero

essere decisamente

assunte dalla struttura

pubblica e coordinate

da osservatori epide-

miologici regionali e

nazionali.

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53MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

Relazione di Luigi VeronesiPresidente Commissione Albo OdontoiatriAssemblea Annuale dell’Ordine domenica 22 aprile 2012

Buongiorno, buona domenica a tutti i presenti. Senatori della professione, giovani laureati, autorità, forze dell’or-dine, rappresentanti dei media ed, al solito, ultimi, ma non ultimi, rappresentanti del sindacato di categoria ANDI Brescia. Grazie per la presenza, per il sostegno, per le critiche, positive, ma ancor più quando negative se fatte con cognizione di causa e volontà migliorative. L’inusuale postazione assunta, a latere della cattedra, è il retaggio di un’educazione che vuole deferente chi rin-grazia per l’onore ricevuto. Essere riconfermati per la terza volta, privilegio mai concesso nell’Albo odontoiatri, fa del sottoscritto una figura che, forse immeritatamente, entra nelle pagine di questa realtà nata nel 1985 ed ancora in cammino nella sua diaspora senza definita meta. L’essere in piedi, inoltre, sarà utile per chi vi parla, perché sopraffatto dall’euforia potrebbe non sentire il peso della prolissità, saranno le gambe a segnalare il momento di accelerare. Permettetemi, senza retorica, di dedicare un breve pen-siero al mio mentore, il maestro che ha saputo smussare in me la giovanile tracotanza trasformandola, mi augu-ro, in una ragionevole ed equilibrata capacità di spinta in avanti, il dott. Raffaello Mancini, caposcuola della longevità ordinistica bresciana. Il giusto e sentito abbraccio, al nuovo Presidente, Otta-vio Di Stefano, la miglior scelta che si potesse operare, al quale rinnovo la mia personale stima e quella della CAO, un saluto a tutto il gruppo dei Consiglieri, vecchi e nuovi ed a quest’ultimi un benvenuto pubblico e l’au-spicio di continuare in quel solco di parallela conver-genza che ha segnato il cammino degli ultimi sei anni nella congiunta gestione ordinistica. Tutti per uno, uno per tutti. In occasione dell’Assem-blea annuale viene data al Presidente la facoltà di aprire le porte dell’attività svolta nell’anno precedente e quanto ci si prefissa di fare in quello in corso. Quest’an-no ho ritenuto opportuno sottolineare e contestualiz-zare la posizione della nostra professione in ambito economico, politico e gestionale. 1200 odontoiatri, un rapporto di 1 dentista ogni 800 abitanti, più del doppio stabilito dall’OMS in anni non di crisieconomica mondiale, la totale assenza di contributi statali alle cure odontoiatriche, le elevate aspettative dei

pazienti verso una categoria che occupa i primi posti al mondo per qualità, la demonizzazione culturale quali evasori fiscali, l’impietosa valutazione di aver prodotto ricchezze sulle disgrazie di salute altrui e non ultima essere esecutori di prestazioni inutili quando non dan-nose: titolo comparso sul giornale Repubblica del 6 gennaio. Questo il quadro ad oggi di una specialità e dei suoi specialisti. Lecito domandarsi dove fossero gli attenti osservatori di Stato e dei media quando dal dopo guerra ad oggi la patologia cariosa, prodromo di tutte o quasi le pato-logie orali veniva praticamente distrutta. Quale il ruolo riconosciuto all’odontoiatria che privatamente, con le proprie risorse finanziava la ricerca per distruggere il suo naturale alleato economico: la carie. Come giudi-care il risultato della prevenzione se paragonato ai ri-sultati ottenuti nelle altre specialità mediche? Abbiamo avuto il coraggio di uscire dall’ambito dentale ed oltre a dedicarci alla cosmesi, come accusatoci, abbiamo investito risorse nella prevenzione degli stili di vita e del carcinoma orale. Tutto questo non solo per mancanza d’altro, per inventare un lavoro che non esiste o che sta scomparendo, ma per seguire i naturali bisogni che si modificano con il cambiare delle realtà economiche. In un paese a rischio di epidemie o di guerre la ricerca della prevenzione delle carie o dell’estetica dentale ha il sapore dell’offerta di brioche al popolo che non ha pane, ma il benessere porta, fortunatamente, a potersi preoccupare di cose più lievi ed è per questo che ab-biamo sofisticato la nostra offerta professionale. Oggi tutto questo cambia, ma il sistema non segue tali modifiche. Le frontiere europee sono aperte ed a fronte di 700 nuovi laureati italiani l’anno, ci troviamo 1500 iscritti agli Ordini professionali, la mancata programma-zione dei numeri europei e la concomitante libera cir-colazione dei professionisti, provocano la schiacciante pletora, insostenibile per la categoria. L’aumento del numero degli iscritti alla facoltà di odontoiatria italiane,

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“1200 odontoiatri,un rapporto di 1 dentista ogni 800

abitanti”

54 MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

a mio avviso, collide con le esigenze professionali e se pur consapevoli delle difficoltà economiche patite dalle nostre valide università, dall’osservatorio Ordinistico non possono arrivare segni di continuità con tale scelta. Mentre combattiamo per frenare almeno le false lau-ree passate con il teatrino dei riconoscimenti dei paesi sovrani, vedi quelle attraverso la Romania, l’Università italiana stipula una joint venture con Tirana e fonda, in Albania, un Ateneo riconosciuto dal nostro paese. La Spagna sforna, attraverso le facoltà private, un nu-mero di odontoiatri italiani sovrapponibile a quello annualmente prodotto nel nostro paese e per fortuna il Ministero, ancora in lotta legale, boccia l’Università Ferdinando Pessoa che cerca di stabilire una succursale in Italia. Studenti tutti, evidentemente, molto preparati a giudicare dagli esiti degli esami di stato, che da sempre, alla faccia della lobby e delle seguenti richieste di libe-ralizzazione, bocciano circa lo 0,8 per mille dei candi-dati. Numero chiuso? Per fortuna!Nel decreto “liberalizzazioni” si fa riferimento alla necessità di istituire nuove aperture per rilanciare l’e-conomia. Lungi dal voler fare considerazioni su altre categorie professionali, credo, comunque che la nostra, odontoiatrica, ma medica in generale poco abbia a che vedere con forme di freno o limitazione all’accesso professionale e differenti devono essere le impostazioni da adottare a seconda della professione presa in esame. Regole uguali per tutti perdono di vista le profonde distanze che la realtà propone. Il numero chiuso a me-dicina, scelta universitaria, forse non condivisa con le parti tecniche si è rivelata, poi, un fallimento organiz-zativo con la rincorsa oggi alle dovute variazioni e neri presagi di mancanza di medici, sia quali operatori sani-tari che contribuenti salva ENPAM. L’odontoiatria inve-ce vara un corso di laurea più lungo di un anno, stagna per un altro anno, in veste di studenti, i futuri profes-sionisti della disoccupazione o, al meglio della sotto occupazione ed in entrambi i casi non si produce alcun effetto realmente utile a ricaduta sulle due professioni. L’avvento di società di capitali nella realtà odontoia-trica, talune poco trasparenti, per ammissione dell’A-genzia delle Entrate, il libero mercato privo di minimi professionali, l’accettata assenza di contratti di lavoro, unitamente alla scarsa incisività dei sindacati di cate-goria ha portato il contributo salariale medio al di sotto, spesso molto al di sotto, dei 20 euro lordi l’ora.L’Ordine pur non avendo fra le sue mansioni precipue l’attività di tutela degli interessi di categoria, ha l’obbli-go, da Giano bifronte, di garantire, in veste di stakehol-

der, che le prestazioni mediche abbiano dei connotati minimi; la preoccupazione oggi è se, con emolumenti di siffatta portata, venga sostenuto un ambiente psicolo-gico, motivazionale ed economico sufficiente a garanti-re prestazioni serene, dignitose ed efficaci. Liberalizzare è rimuovere gli ostacoli che frenano l’e-conomia, che la fanno stagnare, che la vessano con sanzioni figlie di regole non chiare o lasciate all’inter-pretazione dei vari funzionari locali e non la rimozione tout court di regole, che quando chiare ed uguali per tutti sono espressione di democrazia, buon senso e misura civica. Per tanto liberalizzazioni, sì, ma a patto che tutelino le piccole e medie realtà di categoria e non favoriscano la grande distribuzione. Società fra professionisti: ho sentito molti commenti negativi ed il più sostenuto è sulla presenza di soci di capitale. Ma cosa cambia rispetto ad oggi con società di ser-vizio? Il medico può essere totalmente estraneo alla conduzione di tali realtà, ben venga a mio personale parere la centralizzazione dell’odontoiatra che vede così l’opportunità di scegliere il partner, sia esso di capitali o collega a sua volta, sfruttando, finalmente, i benefit fiscali riconosciuti alle società, rimanendo nel proprio settore specialistico. Leggo in questo passaggio normativo un’opportunità da valutare con attenzione, ma principalmente da normare con attenzione. Se la trovata è di costituire società che facciano perno sul solo capitale, come stava accadendo sino ad oggi, ap-poggiate da un governo connivente con Confindustria, dando di fatto spazio alla sola imprenditoria, mai! Ma se il socio di capitali potrà essere di sola minoranza, così come stabilito nel Decreto legge da poco ratificato dalle Camere, allora porte aperte. Agganciandomi al validissimo sondaggio della “medici-na al tempo della crisi” proposto dal nostro Ordine, se l’85% dei medici di famiglia ritiene che sia necessaria una profonda modifica nell’organizzazione della pro-pria attività a maggior ragione questa necessità si fa an-cor più cogente per noi odontoiatri. L’unica possibilità di salvezza per il futuro della nostra professione, sarà la riconversione in società, fondendo le realtà organiz-zative in studi a più professionisti. Verrà sicuramente penalizzata la capillarizzazione sul territorio, ma ci per-metterà di sopravvivere. Parola d’ordine per il futuro è unità. Unità di intenti, unità di vedute e fondamentalmente unità d’iniziativa. La troppa individualità è stata la vera causa di perdita di terreno ed opportunità di crescita. Il coltivare il pro-prio orticello ci ha lasciati deboli ed incapaci di resiste-re al vero attacco alla professione, voluto e pensato non solo nei confronti di noi dentisti, ma nei confronti delle professioni tutte, che finalmente stanno iniziando, mol-to tardivamente, a fondere le proprie iniziative. Il Pro-fessional Day del 1 marzo ne è stato il primo esempio.

| PAGINA DELL’ODONTOIATRIA |

A fronte di 700 nuovi laureatiitaliani l’anno, ci troviamo 1500 iscritti agli Ordini professionali

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Occorre comprendere che la libera professione è la spina dorsale di questo paese, è costituita da milioni di persone, intelligenti, pensanti e contribuenti di tutto ri-spetto, vista la terza posizione che occupano per gettito fiscale. Un urlo unico e non tanti piccoli echi. Sindaca-ti, società scientifiche, Ordini professionali, Università convergano il proprio know-how dirigendo gli iscritti alla consapevolezza dei diritti, ma anche della forza che disponiamo, a tutt’oggi mai usata, per rilanciare l’autonomia etica e legale della libera professione. L’at-tacco ad una lobby, così come inopportunamente è sta-ta definita la libera professione, spesso, attenti bene, è il segno del favoreggiamento di un’altra. L’eliminazione delle tariffe di riferimento è l’espressione della volontà di svuotamento dall’interno della funzione degli Ordini professionali. Come possiamo valutare la congruità delle parcelle se non abbiamo termini di riferimento? Come il tribunale potrà compensare nelle spese proces-suali agli avvocati?La stessa, tanta sbandierata Europa, sostiene con la sen-tenza della sua Corte di Giustizia (n.94 del 5/12/2006): tariffe che non garantiscono la sicurezza e tutela della salute dei pazienti devono esser denunciate all’autorità garante sulla concorrenza. Quindi si parla ancora di tariffe! La liberalizzazione senza vincoli sulla pubbli-cità non può essere sostenuta nel mondo della sanità al pari di quello del commercio. I rischi di indurre inutili bisogni, così come false aspettative devono essere mo-dulati e frenati da un governo che, seriamente, intenda proteggere i cittadini e non solo quelli più deboli o disperati. Auspico una revisione sulle proprie esternazioni, da parte del Garante sulla concorrenza, dott. Pitruzzella, favorevole a pubblicità libere anche se ingannevoli, perché poi frenate dal mercato. Troppo rischioso per i cittadini, troppo lento il processo di freno in un paese dove la giustizia si misura in quantità di processi che vanno in prescrizione.

Ben vengano le ultime sentenze della Suprema Corte di Cassazione, la 10868, la 174117 e la 3717 tutte di marzo che, se pur contestando alcuni strascichi della 175/95 e la seguente abrogazione per le società di ca-pitali, ribadiscono il ruolo centrale degli Ordini profes-sionali in capo al Codice Deontologico e la sua lecita applicabilità in materia disciplinare. Come rappresentante di una categoria fondamental-mente libero professionale accolgo positivamente, an-che se in parziale contrasto con il Consiglio dell’Ordi-ne, (qualche volta accade) la decisione della Regione Lombardia, in merito alla visibilità dei costi all’atto della dimissione del paziente ospedalizzato. Questo non certo per mortificare lo stesso e/o far sentire in modo negativo l’impegno economico per la sua salute, ma piuttosto per rendere edotto il cittadino su quali siano realmente i costi gestionali della salute e poter rapportare, con cognizione di causa, le tariffe alla libera professione, valutando nella giusta prospettiva la fortu-na di vivere in un paese che si faccia carico della salute pubblica. Ultimo e non ultimo, in una possibile estensione di tale iniziativa alle altre regioni, domandarsi il perché in Lombardia una prestazione analoga a quella erogata altrove venga a costare molto meno e con risultati molto migliori. Siamo in tempo di bufera, economica e professionale e con il vento che sferza, due sono le possibili soluzioni a nostra scelta: nascondersi dietro l’angolo in attesa che smetta, o sfruttarlo per far girare le pale dei mulini e produrre energie, ergo, lavoro. In conclusione, para-frasando le parole di Darwin, che in modo profondo ed intelligente sintetizzano quanto, forse prolissamente, ho tentato di dire: “Non è la più forte delle specie che sopravvive e nem-meno la più intelligente, ma quella più reattiva ai cam-biamenti”.Viva l’Italia ed i suoi professionisti.

| PAGINA DELL’ODONTOIATRIA |

La CAO informaAi sensi della legge n. 214 (Decreto Monti) del 22/11/2011 articolo 33 già previsto con il DPR n. 138 del 13/8/2011, convertito in legge n. 248 del 14/9/2011, entro la data del 13 di agosto del 2012 gli Ordini dei medici chirurghi e quelli degli Ordini non sanitari, dovranno stabilire le sanzioni per coloro che non avranno soddisfatto gli obblighi in tema di formazione, con i crediti ECM stabiliti. Si ricorda che da sempre l’Ordine di Brescia e la CAO in testa, hanno raccomandato agli iscritti di non consi-derare sterili minacce quelle che volevano obbligatorio l’aggiornamento professionale, essere il primo Ordi-ne in Italia a divenire Provider nazionale è l’espressione, tangibile, di quanto sopra detto. Raccomandiamo, quindi, di organizzarsi attraverso le possibili proposte presenti sul tavolo: e-learning, con-gressi, corsi e riviste con test di apprendimento inclusi, perché ancora ampiamente in tempo. La normativa ECM prevede un numero di crediti pari a 150 in tre anni con 50 crediti l’anno, variabili da un massimo di 75 ed un minimo di 25, recuperabili dall’anno prima o da quello seguente.

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Da questo numero inauguriamo una rubrica periodica dedicata ai giovani medici.Vorremmo che diventasse luogo aperto di confronto e di proposta.Un invito dunque a partecipare con tante voci.Noi fin d’ora garantiamo, non solo considerazione ed ascolto,ma anche impegno realizzativo.

Il Presidente Ottavio Di Stefano

| SPAZIO GIOVANI MEDICI |

Giovani medici: tra teoria e praticadi Silvia Martinazzispecializzanda in Pediatria

La condizione dello specializzando

L’obiettivo di questa breve rifles-sione è delineare la figura dello specializzando ed il suo ruolo all’interno della complessa strut-tura ospedaliera, senza cedere alla tentazione di argomentare sulle tante, legittime, rivendi-cazioni legate alle criticità che pongono in aperta contraddizio-ne la sua posizione contrattuale con la pratica quotidiana. Riflettendo, si tratta di una con-dizione che noi giovani medici condividiamo con altri giovani laureati che, freschi di studi te-orici, devono misurarsi con un mondo del lavoro che richiede esperienza e autonomia. Ma, al di là di tutto questo, può essere interessante soffermarsi sul significato di questo lungo percorso che abbiamo intrapre-so, ovvero la specializzazione,

che teoricamente dovrebbe es-sere – e fortunatamente spesso è – una preziosa opportunità for-mativa per un giovane medico. L’occasione di iniziare, dopo an-ni di studio, a lavorare in modo “protetto”, accumulando/matu-rando un’esperienza che solo sul campo si può guadagnare. L’oc-casione di impegnarsi in prima persona a visitare, studiare i casi clinici, prendere decisioni, cor-reggere i propri errori, per dare sostanza e valore al futuro titolo di “specialista”. Il tutto, come dicevo, in forma “protetta”, cioè con la supervisione e la guida di un medico strutturato a cui com-pete il compito non semplice di promuovere la crescita professio-nale del giovane seguendolo con discrezione in modo da favorirne la progressiva autonomia e in-tervenendo in caso di dubbi o difficoltà. Solo così può essere garantita la

tutela del giovane medico, an-cora inesperto e insicuro, ma soprattutto quella del paziente, che il diritto di avere un’assi-stenza migliore possibile.

Difficoltà

E proprio qui sta il punto critico della figura dello specializzando, che si trova ad operare tra due posizioni estreme: da un lato, data la scarsità di personale spe-cializzato in molti reparti esso deve sostituire lo strutturato gra-vandosi di eccessive responsabi-lità e sottraendo tempo alla parte più propriamente formativa (le-zioni, seminari, studio..); dall’al-tro lato, soprattutto in alcune scuole, è caricato di mansioni poco pertinenti e inutili per la sua crescita professionale men-tre è poco coinvolto nell’attività operativa del suo reparto.

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| SPAZIO GIOVANI MEDICI |

L’acquisizione di progressiva di sicurezza, competenza, autono-mia è dunque il problema fonda-mentale.Un problema che non è contin-gente, perché si pone già – sot-to aspetti diversi – lungo tutto il curriculum studiorum, e non so-lo nella facoltà di medicina. Gli esempi sarebbero infiniti. A partire dal tirocinio, sposta-to di anno in anno sempre più avanti; qualche anno fa il volen-teroso studente del terzo anno si vedeva finalmente “gratificato” da ben due settimane di tiroci-nio nei reparti; oggi attende un ulteriore anno, prima di indossa-re camice e fonendoscopio (in-dossare, non sempre usare!) che magari ha ricevuto in dono al primo esame. Per non parlare della priorità riconosciuta alle nozioni rispetto alla pratica: al-cuni esami cardine sono affidati a “test a crocette” – pratica del tutto discutibile importata dagli States – e perfino l’esame di stato abilitante alla professione, anzi-ché svolgersi in corsia, si riduce ancora una volta ad una serie di quiz a risposta multipla.

All’estero

Esiste un modo per far compe-netrare teoria e pratica lungo tutto il percorso formativo?Se volgiamo lo sguardo oltral-pe scopriamo, in Europa, real-tà diverse e probabilmente più gratificanti per un giovane. In In-ghilterra, ad esempio, complice un sistema scolastico più snello, accade che gli studenti di medi-cina, appena ventenni, possano frequentare ogni giorno i reparti ed appropriarsi progressivamen-te di un’esperienza clinica che, oltre a renderli più consapevoli del loro futuro professionale, svi-

luppa in loro quell’autonomia che noi riusciamo a conseguire molto più tardi. Il fascino del sistema “nordico” non deve però creare illusioni; c’è anche chi, come me, crede ancora che i primi anni, con-centrati sullo studio, siano fon-damentali per costruire a poco a poco quel bagaglio culturale che consentirà un approccio più sicuro e competente alla clinica. Ne trovo conferma nella testi-monianza di colleghi che hanno scelto di specializzarsi in Ger-mania – dove l’ammissione al-le scuole si esaurisce in un col-loquio e in un breve periodi di prova – e dove i giovani laureati italiani sono accolti a braccia aperte proprio per la loro solida preparazione di base.

Tra studente e lavoratore

Come sbrogliare, in definitiva, l’intricata matassa del diffuso scontento nei confronti di un ruolo che non sempre risponde alle aspettative?Forse dovremmo cercare un equi-

librio tra le due figure contrappo-ste che devono “convivere” nel ruolo dello specializzando: quel-la dello studente (lezioni, corsi di aggiornamento, convegni, espe-rienze all’estero) e quella del la-voratore, che, pur ricevendo un compenso “dignitoso”, si sente poco riconosciuto, poco autono-mo, spesso sfruttato. E questo equilibrio si può rag-giungere, a mio parere, senza troppe frustrazioni, se non si per-de mai di vista l’obiettivo fonda-mentale di questo percorso, che è quello di cogliere e sfruttare al meglio l’opportunità di diventare medici specialisti capaci e com-petenti.

L’acquisizionedi progressiva

sicurezza,competenza,autonomia, è dunque

il problemafondamentale

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Essere MediciDiscorso di Clara PintossiAssemblea Annuale dell’Ordine domenica 22 aprile 2012

Mi è stato chiesto di parlare oggi davanti a voi, nel gior-no del nostro giuramento ed il contenuto del mio discor-so doveva essere più o meno questo: cosa mi aspetto dalla mia professione, cosa vorrei dalla medicina, qual è il significato dell’essere medico. Un giorno ho scritto queste poche righe, infatti parlerò per cinque minuti e lo faccio con tutta l’emozione e l’imbarazzo che potete immaginare, per dire solo tre cose a cui tengo particolar-mente.La prima cosa è il rispetto per la vita.Sto parlando della vita di cui noi ci occupiamo, la vita della persona che si presenta a noi. Nel corso dei nostri studi, tanti hanno tentato di parlarci del corretto rapporto medico-paziente, l’ascolto, la compliance, l’alleanza terapeutica. Non voglio parlare di carità, amore, pietà, forse non so neanche cosa sono, quello che vorrei è il rispetto tra due uomini: io, il medico, (e mi fa ancora un certo effetto dirlo) e tu, il paziente, che in questo rappor-to diventiamo un noi. Tu sei chi soffre e io sono chi può mitigare la tua sofferenza. Tu mi affidi il tuo dolore, io cerco di restituire un sollievo. Il tuo dolore non resta solo a me, non è solo tuo, questo dolore diventerà anche conoscenza per il futuro e per altri pazienti. E’ qui che io ti rispetto. Tutto questo vorrei impararlo grazie alla competenza, data dallo studio e dal continuo aggiorna-mento, dovere e necessità per noi, che facciano di me un professionista, ma non può bastare, vorrei imparare il rispetto grazie all’umiltà e all’onestà, che facciano di me un medico.La seconda cosa a cui tengo è il rispetto per i colleghi. Per fare bene questo lavoro, non puoi essere solo, devi pensare alla tua squadra. Siamo medici sulla base del nostro bagaglio tecnico e culturale, che deve essere ar-ricchito dall’esperienza quotidiana e dalla relazione con i colleghi: alcuni sono i compagni e gli amici di sempre, alcuni, compagni lo diventeranno, perché saranno quelli con cui ricorderai gli errori e dimenticherai i successi, sa-ranno quelli che avrai di fianco perché a volte la malattia fa quello che le pare. Alcuni colleghi saranno i professio-nisti, i più grandi, i più esperti, a cui chiederai aiuto, che ti aiuteranno a cambiare marcia e a stratificare il rischio, perché una cosa che ho capito è che la medicina non funziona solo per flow-chart, non è solo “definizione, epidemiologia, eziologia, diagnosi e terapia”, non è solo

quella bella, pulita e vera dei libri di testo e delle linee guida; a volte devi sporcarti le mani, uscire dal protocol-lo e seguire un’altra via. Nella tua squadra ci sono anche i maestri, quelli a cui devi “il rispetto e la riconoscenza che loro sono dovuti”, tanto per citare Ippocrate. Il ma-estro è chiunque abbia voglia e sappia accoglierti nella sua conoscenza, chi ti dona il suo sapere e la sua espe-rienza e in cambio forse non vuole niente, ma avrà te, la tua mente giovane e il tuo entusiasmo.L’ultimo pensiero che vorrei condividere con voi oggi è il rispetto per la nostra professione. Fare il medico è un lavoro di responsabilità. Una responsabilità civile? Contrattuale o extracontrattuale? Penale? Amministrativa? Roba che non si è capita mai, nemmeno dopo l’esame di economia sanitaria, perché in fondo, spero che quella non sia roba per me, che adesso ho solo voglia di met-termi in gioco e di mettere in pratica uno dei consigli più belli che mi sono sentita dire, da chi ti parla da me-dico, ma potrebbe essere tuo padre: “state sereni”, mi ripeteva quel medico.Parlava a noi ancora tirocinanti, con il camicino bello bianco e stirato, ma ce lo diceva come se fossimo già grandi, come se potessimo già capire il segreto.Fare il medico è un mestiere duro, non esistono notti, giorni o feste comandate, e questo l’abbiamo capito. Ma in fondo a noi piace. Scegliamo medicina perché vogliamo salvare vite uma-ne? Scegliamo medicina perché vogliamo fare del bene? Sì, certo, ma anche per l’euforia, per l’emozione, per l’impegno che ci richiede, per il sacrificio e per la sod-disfazione.Essere medici è la nostra vita e “professionale” lo scrivo tra parentesi nella bozza di questo discorso. Scegliamo di essere medici perché è il lavoro più bello del mondo. Forse è un concetto banale, l’ha detto anche mio cugino di dieci anni, lui sogna di fare il calciatore, ma fa lo stes-so. Mi auguro di pensarla sempre così. Oggi giuriamo, ma l’abbiamo fatto tante volte, certo non solennemente, l’abbiamo fatto quando ci siamo iscritti alla facoltà, nel silenzio dei nostri appunti, nella fatica dei nostri tiroci-ni, nei piccoli successi di ogni esame superato, quando entriamo in reparto tutti i giorni e fuori c’è il sole. Per questo la nostra non può essere solo una professione, ma qualsiasi cosa sia io voglio giurare così tutti i giorni.

| SPAZIO GIOVANI MEDICI |

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| PILLOLE DI STORIA |

L’assistenza ai profughi dopo la secondaguerra mondialeOspedale Civile di Bresciadi Chiara Benedettiresponsabile Biblioteca medica spedali Civili

La seconda guerra mondiale fe-ce sì che un altissimo numero di persone dovette lasciare il pro-prio paese: le vittime dei regimi nazi-fascisti, le persone di origine ebraica, gli stranieri o gli apolidi e tutti coloro che erano perseguitati prima dello scoppio della guerra per motivi di religione, razza, na-zionalità o opinione politica.

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Nel febbraio 1945

L’onorevole Lodovico Montini, fratello maggiore del futuro Papa Paolo VI, nel febbraio del 1945, su indicazione del ministro degli esteri Alcide De Gasperi, ven-ne inviato dal governo italiano

alla Conferenza di Londra per sostenere la candidatura dell’Ita-lia agli aiuti dell’UNRRA (United nations relief and rehabilitation agency). Quest’ultima era un’or-ganizzazione delle Nazioni Uni-te che aveva i compiti di inviare aiuti economici e materiali alle nazioni coinvolte nel conflitto mondiale per favorirne la rico-struzione e rimpatriare i profughi.

La missione italiana dell’UNRRA aveva il compito di fornire vitto, indumenti, assistenza medico-sanitaria e alloggio ai profughi, di rispettarne le tradizioni culturali, religiose e anche alimentari, di organizzare corsi professionali (sarto, fabbro, elettricista, mecca-nico) e di istituire centri di ricrea-zione come biblioteche e cinema ambulanti.

| arrivo dei profughi, con i loro pochi averi, presso l’ingresso principale

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| PILLOLE DI STORIA |

Il 30 giugno 1974

dopo l’annuncio del segretario di Stato George Marshall dell’avvio del programma di aiuti per le na-zioni dell’Europa Occidentale (il piano marshall), l’UNRRA cessò di operare e le sue funzioni di assistenza ai profughi (le “displa-ced-persons”) vennero trasferite all’IRO (international refugees organization) un’agenzia specia-lizzata non permanente delle Na-zioni Unite.L’IRO si occupò innanzi tutto della protezione politica e giu-ridica e poi dell’identificazione, della registrazione, dell’assisten-za anche sanitaria, del rimpatrio, del trasporto, del reinsediamen-to dai paesi di prima accoglien-za verso paesi terzi e quindi del reinserimento dei profughi.

Dal 1 luglio 1947al 14 novembre 1950

aveva registrato in Italia circa 90.000 profughi e aveva predi-sposto l’emigrazione di 65.000 persone, dirette principalmente in Australia, Canada, Stati Uniti, Nuova Zelanda e America Latina.La missione IRO in Italia era con-siderata dalle autorità americane un modello, essendo la prima a funzionare in un Paese ex-nemi-co tornato sovrano e, per questa ragione, il nuovo capo dell’orga-nizzazione, l’Ammiraglio Mentz, intendeva «ricorrere sempre più a personale italiano anche per mansioni direttive e valorizzare il Comitato misto facendone un parlamento al di sopra del capo della missione che è da conside-rarsi potere esecutivo».

Il 14 novembre 1950

il governo italiano e l’IRO firma-rono un accordo supplementa-re, che stabiliva il proseguimento delle operazioni di assistenza ai profughi dell’IRO oltre il termi-ne previsto inizialmente del 31 marzo 1951 e trasferiva i compiti svolti dal Comitato misto all’am-ministrazione per le attività assi-stenziali italiane ed internaziona-li (AAI), che avrebbe iniziato a operare a partire dal 23 novem-bre 1951.Lodovico Montini fu promotore e per trentadue anni Presidente dell’AAI. L’AAI diveniva l’unico organismo cui veniva affidato il ruolo di assistere i profughi sul territorio italiano e la distribuzio-ne degli aiuti internazionali desti-nati all’assistenza (alloggio, viveri ed assistenza sanitaria).

I compiti dell’Enteerano di tre tipi:

assistenza nei campi,assistenza fuori dai campi

ed emigrazione.

Nel primo caso l’AAI si impegnò a gestire quattro campi ex-IRO situati nel Meridione: a Carinaro, Capua, Mercatello e San Antonio Pontecagnano, nei quali erano sistemati circa 3.370 profughi di diverse nazionalità, tra i quali 1.018 jugoslavi e 1.323 veneto-giuliani.Per i casi difficili da ospedaliz-zare (circa 650) l’AAI stipulò ac-cordi con l’Ospedale Civile di Brescia, l’Ospedale di Teramo e l’Associazione Missionarie della Pace, che garantivano l’assisten-za ai profughi bisognosi di cure mediche particolari, dietro versa-mento di 850 dollari pro capite a copertura delle spese mediche.| i profughi vengono accolti nella “galleria dei quadri”.

1.600.000 rifugiati europei vennero accolti nei campi, venne favorito il rimpatrio di 73.000

e il reinserimento di oltre un milione di persone.

61MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

Il 24 agosto 1951

l’Ospedale Civile di Brescia decise di sottoscrive-re un accordo con l’IRO per l’ospedalizzazione temporanea di un certo numero di malati profughi stranieri (denominati “casi difficili ospedalizzati”) che non potevano essere risistemati all’estero per ragioni di salute.La proposta presentava grande interesse per gli Spe-dali, oltre che per l’aspetto assistenziale ed umani-tario, per la possibilità che essa offriva di finanziare le opere di ultimazione dell’Ospedale nuovo: infatti l’Ospedale si era appena trasferito dal centro della città a Mompiano.

L’inaugurazione era avvenutail 10 dicembre 1950 e i primi malati

erano stati ricoverati il 5 marzo 1951.

La carenza di capitali, però, aveva ritardato l’ese-cuzione e l’ultimazione dei Padiglioni B e C del

nuovo edificio.La convenzione contemplava l’anticipazione del corrispettivo per l’ospedalizzazione mediante un capitale pro capite (dollari 850) a fondo perduto, che l’IRO avrebbe versato all’Ospedale (per i casi di tubercolosi attiva il contributo poteva essere aumentato fino a 1000 dollari) e tale versamento sarebbe stato integrato da una diaria di 350 lire, corrisposta dal Governo Italiano, per giornata di presenza.L’Ospedale fece i calcoli e si rese conto che

“per quanto riguardava la durata delleospedalizzazioni, aspetto essenziale della convenien-za dell’accordo, la somma anticipata di $ 850, pari al cambio di 650= a L. 552.500) e il contributo di L.350 per giornata di presenza, consentiva di fron-teggiare, con le rette di spedalità attuali, una degen-za media di giornate 667, largamentesuperiore alla degenza media individuale calcolata, in via di riferimento, con criteri prudenziali, per i ricoverati del sanatorio C. golgi, gestito dall’amministrazione, degenza che risultavadi giornate 562”.

| PILLOLE DI STORIA |

I profughi stranieri a Brescia

| L’arrivo del treno con i profughi alla stazione ferroviaria di Brescia

62 MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

L’AAI, a titolo di concorso, di incoraggiamento e di stimolo alla sollecita esecuzione delle opere, versò all’Ospedale un contributo straordinario di 175 mi-lioni di lire destinato al completamento del reparto per accogliere i circa 200 profughi. Gli Spedali Civili si assumevano l’obbligo di corrispondere il completo mantenimento e assistenza, compresa quella medi-ca, ai malati tubercolotici fino alla loro guarigione e fino a che essi fossero in vita. Inoltre l’Ospedale si impegnava ad accettare i profughi in questione senza discriminazione di razza, religione o nazionalità.

a • b

Il 7 settembre 1951

a Roma l’IRO ufficializzò l’accordo con l’Ammini-strazione dell’Ospedale che assicurava che i posti letto sarebbero stati disponibili entro il 31 ottobre.Considerati i tempi brevissimi l’Amministrazione deliberò senza indugio l’esecuzione delle opere murarie per l’apprestamento e l’arredamento dei locali necessari dell’apposito reparto in uno dei pa-diglioni non finiti del nuovo ospedale.L’incarico del progetto venne affidato all’Ing. Angelo Bordoni. La spesa complessiva era di L.104.443.000: per le opere di ultimazione del fab-bricato (72.000.000), per l’arredamento e il mobilio (9.400.000), per il corredo di biancheria, di mate-rasseria e di piatti (21.543.000) e per un apparec-chio radioscopico (1.500.000).

L’Ospedale riuscì in pochissimo tempo a “mettere in piedi” il reparto profughi

stranieri ospedalizzati, diretto dall’illustremedico bresciano Federico Balestrieri.

Balestrieri, durante la guerra, era stato prigioniero per oltre 5 anni. Questa sua esperienza personale lo rese molto capace di organizzare il reparto e di prestare le cure, perché – secondo le sue paro-le – esse “valgono a trarre a riva qualcuno fra tanti naufraghi affidatimi”. Il suo Assistente medico era Antenore Dusi.

a • b

Il 15 novembre 1951

alle 12.15 arrivò alla stazione di Brescia un treno speciale proveniente da Milano: su tre vetture vi erano 59 profughi di nazionalità varia che erano partiti dal campo di Bagnoli (Napoli). Oltre all’assistenza sanitaria l’Ospedale assegnava una somma mensile di denaro ad ogni profugo per far fronte alle piccole necessità personali. Venivano concessi permessi di qualche giorno per poter andare a trovare i parenti. In occasione delle festività natalizie l’Ospedale distribuiva generi di conforto a queste sventurate persone, malate, lon-tane dalla Patria e dagli affetti. Il vestiario (paltò, ve-stiti, camicie, maglioni, biancheria intima e scarpe)

| PILLOLE DI STORIA |

| i profughi malati vengono fatti scendere dal treno

63MAGGIO-GIUGNO-LUGLIO 2012

erano fornite dall’AAI. All’interno del reparto ven-nero allestiti tre laboratori per rieducare al lavoro gli ammalati: uno di pelletteria, uno di radiotecnica ed uno di manufatti femminili. Diversi profughi era-no insofferenti alla disciplina e alle regole ospeda-liere, creando scompiglio nelle corsie.

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Il 4 aprile 1953

vigilia di Pasqua, verso le ore 21 un profugo croato Sime Pavelic uccise con un colpo di trincetto, per rancori politici, il compaesano Milan Dosen.

“Un’altra Pasqua di sangue pesa sul destino

di gente esiliata dalla terra natia”(Dal giornale di Brescia, 5 aprile 1953).“non è assolutamente possibile mantenerela disciplina in un reparto ospedaliero per malati ormai guariti e che non hanno bisogno di cureed è inumano obbligarli a vivere in reclusionequando sono ormai guariti” (Da una lettera del 7 luglio 1953 del direttore del Consorzio Provinciale Antitubercolare di Brescia).

Quando un malato guariva, come da certificazione del primario e da accertamento del Consorzio Pro-vinciale Antitubercolare di Brescia, l’Ospedale atte-stava la sopravvenuta guarigione clinica e univa a tali documenti la richiesta di dimissione del profugo

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che doveva dichiarare dove egli si sarebbe trasferi-to. Inoltre l’Ospedale si impegnava, in caso del ri-presentarsi della malattia, a ricoverare nuovamente i profughi dimessi.I documenti venivano spediti a Roma all’aai. servizio Profughi stranieri-Casi Diffici-li iro che doveva autorizzare la dimissione.I profughi così potevano trasferirsi in altre città o nei campi AAI allestiti in Meridione. Le loro spese di trasporto erano a carico dell’Ospedale.

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Nel 1955

quando alcuni profughi in dimissione pronti a la-sciare Brescia o l’Italia chiesero, per far fronte ai primi bisogni una volta fuori, sussidi straordinari l’Ospedale assegnò, secondo i casi, tra le 8.000 e le 10.000 lire ciascuno. Alcuni profughi chiedeva-no di poter avere il letto con materasso e lenzuola; o la macchina da scrivere “Imperial” che “servirà a scrivere lettere commerciali in tedesco alle ditte, dovendo lavorare in qualche modo per guadagnare la vita”. O “la piccola radio che con molti sacrifici sono riuscito a mettere in funzione”.

Con il tempo, il numero dei profughi diminuì: nel 1953 erano 38.

Alcuni erano stati trasferiti in strutture sanitarie in Brescia e provincia: oltre al Sanatorio Golgi (di-venuto poi noto con il nome di S. Antonino), alla clinica “Villa Bianca” o a Leno. Le rette di degenza erano sempre a carico dell’Ospedale.

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Al 24 ottobre 1955

erano 10 i profughi presenti e ricoverati: quattro al reparto IRO; quattro al Sanatorio e due in reparti dell’Ospedale (dermatologia e terza medicina). Gli ultimi cinque ricoverati cronici vennero trasferiti al Sanatorio Golgi.

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Nell’ottobre 1955

quattro profughi decisero di sistemarsi in Norvegia: si trattava del sarto Laszlo Juhasz ungherese di 28 anni; del polacco Blazej Straszak meccanico di 55

anni; del trentanovenne commesso jugoslavo Nikola Pijevac e della guardia di finanza jugoslava Andrea Dyordyevic di 42 anni. L’Ospedale preparò le prati-che dei profughi ricostruendo il curriculum, il loro stato di famiglia, la documentazione medica e decise di erogare, a fondo perduto, 300 dollari a ciascuno.

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Il 19 novembre 1955

Ma l’AAI il 19 novembre 1955 “rende noto che la Commissione norvegese ha considerato i casi pre-sentati come “non integrabili” nella vita nazionale norvegese e, pertanto, non li ha accettati”. Il Repar-to Profughi “Casi Difficili I.R.O” degli Spedali Civili di Brescia fu giudicato dai Dirigenti dell’IRO e dai Rappresentanti delle Organizzazioni nazionali ed internazionali che si occuparono degli interessi e dell’assistenza dei profughi, in occasione delle nu-merose visite ed ispezioni che vennero eseguite,

“veramente ottimo, sotto ogni aspetto.offrì ai malati un ambiente moderno, moltodecoroso, luminoso e confortevole, che soddisfece alle esigenze particolari dei profughi”. “La sistemazione, il trattamento, le cure el’alimentazione dei ricoverati rispondono in modo eccellente ai migliori requisiti desiderabili”.

Riferimenti bibliografici:

Fonti a stampaBenedetti C. “I nostri grandi medici. Il calendario 2002 de-gli Spedali Civili. Federico Balestrieri”. Civile 2002;58:19-21

Ciampiani A (a cura di). L’amministrazione per gli aiuti internazionali. La ricostruzione dell’italia tra dinamiche inter-nazionali e attività assistenziali. Milano, Franco Angeli, 2002

giornale di Brescia, 16 novembre 1951

giornale di Brescia, 5 aprile 1953

Fonti archivistichesezione separata d’archivio degli Spedali Civili di Brescia

Fonti elettronicheUN High Commissioner for Refugees. report of the Uni-ted nations High Commissioner for refugees, 1 January 1954, A/2394.

Fonti fotograficheFototeca storica degli Spedali Civili di Brescia

Desidero ringraziare il Dottor antonio De gennaro re-sponsabile dell’emeroteca Queriniana e la Dr.ssa maura Cassamali responsabile della Biblioteca scientifica del “Centro san giovanni di Dio - Fatebenefratelli” di Brescia.

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Dott. Giacomo CorviniVittima (dimenticata?) della strage di Piazza Loggia

di Mario Zorzi

All’epoca del tragico evento ero in servizio presso l’Ospedale Civile nella qualità di primario dell’istitu-to di Anatomia patologica ed ebbi l’incarico dall’autorità giudiziaria di eseguire riscontri necroscopici su alcune delle vittime della strage. Appresi dalla stampa che fra i feriti più gravi vi era anche il dr. Corvini noto professionista, allievo e aiuto del primario Gaetano Ferroni. Non ebbi modo di seguire l’iter anamne-stico e clinico del Collega che nel frattempo si era trasferito nel me-ridione a svolgere la sua attività di medico. La morte è avvenuta dopo circa due anni all’Ospedale FateBe-neFratelli di Brescia per emorragia acuta e massiva gastro-duodenale, la cui origine dagli accertamenti all’epoca eseguiti venne ritenuta non collegabile con il grave evento traumatico subito nel maggio del 1974. Per tale motivo il collega Corvini non è mai figurato negli elenchi delle vittime della strage.Le due lettere al direttore pubblicate nel Giornale di Brescia del 14/03/’12 (a firma del giornalista Ser-gio Castelletti), del 17/03/’12 (siglata dalla figlia del dr. Corvini Elisabetta) e l’articolo del Corriere della Sera del 7/04/’12 a firma del giornalista Costanzo Gatta ripropongono il medesimo quesito: vi è sta-ta una nona vittima della strage? Gli accertamenti medico-legali eseguiti postmortem sono stati suffi-cientemente accurati ed esaustivi? Ma a prescindere dagli aspetti medico-legali (che non mi competono) nella mia veste di “decano” dei medici ospedalieri viventi mi preme segnalare ai colleghi giovani e non più giovani un breve curriculum vitae del dr. Corvini che può essere così sintetizzato:Nato a Soncino in una delle famiglie storiche e più note della cittadina cremonese, dopo la lau-rea in medicina e chirurgia intraprese la carriera ospedaliera e fu allievo e aiuto del primario chi-rurgo Gaetano Ferroni nel vecchio ospedale di Via

Moretto. Come altri giovani colle-ghi all’epoca operanti nelle corsie ospedaliere, Corvini è stato per noi neolaureati un significativo punto di riferimento per l’acutezza dell’in-gegno e la particolare sensibilità ed adesione alle nuove frontiere della medicina.Conseguì con ottima votazione ben quattro diplomi di specializzazione: chirurgia generale, ostetricia e gine-cologia, ortopedia e traumatologia e idrologia.Animato da spirito di avventura, si trasferì nel meridione (Ischia e Lac-co Ameno) ove con alcuni colleghi avviò attività di assistenza e cura

in un piccolo Ospedale privato e diresse per un periodo uno stabilimento termale a Casamicciola (Ischia). Nello stesso periodo si dedicò anche come medico di bordo su prestigiose navi da crociera. Negli anni ’70 è rientrato a Brescia, dove ha conti-nuato la libera professione anche presso la Casa di Cura Poliambulanza fino all’epoca della strage di Piazza Loggia, che diede inizio a lungo “calvario” ospedaliero protrattosi per circa due anni fino alla morte (3 novembre 1976).Il Collegio medico (Prof. Mario Peretti, Prof. Franco Bonetti, Prof. Leonardo Lojacono, Dott. Giuseppe Crasso-Caprioli) nominato dalla Direzione Sanitaria degli Spedali Civili per una valutazione medico-le-gale sui feriti della strage, in data 17 febbraio 1975 ho steso una relazione medico-legale, che com-prende l’elenco di 40 persone disposte in ordine di gravità, delle lesioni riportate e dei postumi in-validanti permanenti. L’elenco inizia con i seguenti primi tre nominativi: Giacomo Corvini, (danno 35%) – Vassallo Fioravante (danno 35%) - Elisabetta Corvini (danno 30-35%). A seguito di una somma-ria indagine necroscopica probabilmente disposta dall’Autorità giudiziaria, i cui risultati sono stati confermati dal Consiglio di Stato nell’Adunanza

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della Sezione I del 2/07/1997 (come si evince dalla lettera della Presidenza della Repubblica in data 27/06/1998), venne escluso qualsiasi rapporto di causalità e massiccia emorragia gastro-duodenale su probabile base ulcerosa.Non risulta che la parte ricorrente sia stata rappre-sentata durante le indagini medico-legali. Mi rendo conto che può sembrare un inutile esercizio di me-moria storica cercare di ricostruire dopo tanti anni l’eventuale rapporto di causalità fra la morte del Corvini e l’evento criminoso, del quale tra l’altro dopo ripetute inchieste e prolungati processi non è dato ancora annoverare mandanti ed esecutori.

Ho ritenuto doveroso fare memoria ai medici bre-sciani, anche se la presenza di Corvini in quella fa-tale mattina era fortuita e non programmata; il che non sminuisce ne annulla le tristi conseguenze che ha dovuto subire.Preso atto della lodevole iniziativa programmata dalla Casa della Memoria e dalla Giunta del Comu-ne di Brescia per realizzare un percorso lapideo da Piazza Loggia al Castello in memoria delle vittime della strage (vedi Giornale di Brescia del 20 aprile 2012 (pag. 14) ), mi permetto di suggerire al consi-glio dell’Ordine dei Medici di adottare una formella intestata a “Giacomo Corvini medico”.

Dott. Dario Monzegliodi Claudio Ascolti

Nei giorni di San Valentino, quando il mondo crede di celebrare l’amore, si spezzava l’immenso rappor-to di Dario e di Betty, uniti nella vita e nel ballo, di cui furono ammirati Campioni Italiani, che hanno vissuto costruendo rapporti di autentica solidarietà, amati da tutti per l’esempio di schietta amicizia.E nei giorni dei Santi Faustino e Giovita, la Città perdeva un esempio di Brescianità laboriosa, co-stante, sempre presente al bisogno, senza clamore.Dario Monzeglio fu Psichiatra di grande formazione culturale e di profonda sensibilità.Per lunghi ed intensi anni (1985-2001) ricoprì l’in-carico di Responsabile dell’Unità Operativa Ospe-daliera e Territoriale di una zona vasta come la Bassa Bresciana, assumendo funzioni di Primario e lasciando dietro di sé organizzazione del lavoro ancor oggi valida, considerazione degli Ammini-stratori, intensa riconoscenza dei Pazienti e dei loro familiari.Proseguì poi con dedizione l’attività libero profes-sionale e fu molto apprezzato Direttore dell’Istituto Cremonesini di Pontevico per nove anni. Diceva: “I Pazienti: coloro che patiscono”. Il suo rapporto con loro fu quanto mai improntato alla declinazione quotidiana della “pietas”, della soffe-renza psichica, riuscendo a renderla almeno accet-tabile e gestibile, se non comprensibile.La sua grandezza fu di essere capace di trovare una parola intimamente toccante per ognuno che anda-

va da lui, diversa da caso a caso. Mai rapporti me-dico-paziente standardizzati, secondo linee guida impersonali, ma autentica Medicina della Persona. Mai farmaci e farmaci, ma farmaci e parole, mai giudizi, ma accoglienza. Non routine di visite su visite,ma invenzione di nuovi motivi e di nuove vie di sopravvivenza, fino al sollievo o alla libera-zione. Questo ho sentito dai suoi Pazienti e qui ne rendo testimonianza, così come del vuoto lasciato dentro di loro dalla sua morte. In lui avevano trovato il Medico capace di portare fuori dalla confusione, di giustificare le cadute,di lenire l’ansia e la paura di non farcela. O il fratello che ti spiegava di non ave-re paura degli “scherzi della mente” e che li avresti vinti. O il padre che ti guidava quando perdevi l’orientamento e riusciva a farti rinascere dentro il concetto di autodeterminazione e di dignità.Quale Medico migliore di questo?E, da medico, vorrei sottolineare come con i Col-leghi non fu mai supponente o professorale, come fu invece capace di impostare sul serio paritetica-mente il percorso di cura del Paziente, così che tu potessi sentirti non “ a latere”, ma coinvolto nella cura, nella crescita professionale ed anche nella sensibilità personale.Quale Collega migliore di questo?Difficile colmare un vuoto simile, ma sono certo

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che il ricordo del privilegio di averlo avuto per ami-co ci guiderà con i suoi significati.La Moglie e i figli, Enrico, Marco, Michele, cui va il nostro ammirato affetto, hanno disposto l’estrema generosità della donazione dei suoi organi.

E bello intensamente fu il gesto del figlio Michele, terzo anno di Medicina, di ritirare di persona la me-daglia dei 40 anni di Laurea di suo Padre.

Dario Monzeglio non è morto.

Dott. Gianguido Battionidi Piergiorgio Muffolini

Si è spento nei giorni scorsi il dott. Gianguido Bat-tioni, uomo di medicina e di profonda fede, a causa di una malattia che ha segnato profondamente nei suoi ultimi giorni l’uomo e la sua famiglia. Nasce nel 1929 a Milano e si specializza in cardiologia nel 1958 a Torino.E’ stato primario del reparto di Medicina dell’Ospe-dale di Iseo per 25 anni. Il dott. Battioni, il dott. Bicci e la dott.ssa Badinelli, hanno organizzato e reso effi-ciente questo nosocomio. Promosse un’ unità coro-narica che già negli anni Settanta permetteva cure di avanguardia alla popolazione residente nell’area del Sebino – Franciacorta.“Maestro di vita e di medicina”: così lo ricorda il dott. Claudio Cuccia, attuale primario di Cardiologia alla Fondazione Poliambulanza, e così lo ricordiamo tutti. La sua vita professionale si caratterizza per la con-tinua e profonda attenzione al rapporto medico – paziente, all’alleanza terapeutica con lo stesso. Affermava infatti che si doveva prestare attenzione alla malattia e non al sintomo, al malato nella sua interezza, al vissuto, alle esigenze, alla storia dello

stesso. Già trent’anni or sono insegnava a tutti come la medicina basata sui bisogni si stesse trasformando in quella attuale basata sui desideri, meditando sui pro e i contro di tale trasformazione. Alla base della sua apertura e capacità diagnostica c’era una prepa-razione tecnica di eccellenza che portava lui e la sua equipe ad ottenere risultati e successi significativi. Il suo metodo clinico prefigurava la modernità. Il dott. Gianpaolo Balestrieri (attuale primario del re-parto di Medicina dell’Ospedale di Manerbio) fre-quentò come studente il reparto del dott. Battioni e riferisce che il metodo che apprese lo verificò anni dopo nei reparti di eccellenza delle cliniche univer-sitarie.Terminata l’esperienza presso l’Ospedale di Iseo si dedica con passione all’assistenza dei disabili al Centro Tonini-Boninsegna di Brescia, di cui è stato direttore sanitario e poi presidente.Il calibro dell’uomo, del medico, dello scienziato ci inducono a constatare come la comunità medica ab-bia un debito di riconoscenza nei confronti del dott. Battioni, che potrà onorare dando valore e spazio a quanto lui ha costruito e prefigurato.

Dott. Giuseppe Gattidi Francesco Gatti

L’8 aprile 2012 u.s. è mancato il dottor Giuseppe Gatti. E’ stato a lungo medico condotto. Ed ha cura-to le persone ancor più che le malattie.Lo ricordiamo preparato, curioso ed appassionato;

affezionato al ruolo del medico e fedele al giura-mento prestato.

Ci mancherà.

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