IL MARGINE 5 MAGGIO 2016 · Frei Betto: il Decalogo di un militante di sinistra ... Mantenere viva...

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IL MARGINE ISSN 2037-4240 Mensile dell’associazione culturale Oscar A. Romero Anno 36 (2016) n. 5 Vincenzo Passerini LA CURA DEMOCRATICA Piergiorgio Reggio IMPARARE L’IMPEGNO PER LA GIUSTIZIA. FREI BETTO: IL DECALOGO DI UN MILITANTE DI SINISTRA Pierangelo Santini IL VECCHIO TOM CHE VEDEVA LONTANO Miguel Benasayag L’UTOPIA NELL’ERA DEL «CERVELLO AUMENTATO» Piergiorgio Cattani Giovanni Straffelini SCIENZA, RELIGIONE E COMPORTAMENTO MORALE Alberto Gazzola IL LOGICO DAL VOLTO UMANO IL MARGINE 5 MAGGIO 2016 Vincenzo Passerini 3 La cura democratica Piergiorgio Reggio 8 Imparare l’impegno per la giustizia. Frei Betto: il Decalogo di un militante di sinistra Pierangelo Santini 14 Il vecchio Tom che vedeva lontano. Provocazione “utopica” 500 anni dopo Miguel Benasayag 17 L’utopia nell’era del «cervello aumentato» Piergiorgio Cattani Giovanni Straffelini 25 Scienza, religione e comportamento morale Alberto Gazzola 28 Il logico dal volto umano Dieci piani di torpidezza Si può fare della anche troppo facile ironia sul grande successo commer- ciale che negli Usa sta riscontrando la vendita della carta igienica con l’effigie di Donald Trump. Gli acquirenti sono forse fans dell’imprenditore e politico newyorkese, della cui presenza non vogliono privarsi nemmeno nel momento in cui, come universalmente si conviene, è d’obbligo restare da soli? O forse sono suoi detrattori, che realizzano con ciò un atto supremo di scherno e disprezzo? Non lo sappiamo, ma poco importa, in fondo. Quel che conta è, invece, che siamo ormai talmente intorpiditi dalla dilagante stupidi- tà da rubricare notizie del genere nel novero delle semplici curiosità di co- stume, senza più indignarci per l’imbarbarimento culturale dell’epoca nella quale ci è toccato in sorte di vivere. Mantenere viva l’indignazione è il pri- mo punto del Decalogo di Frei Betto che pubblichiamo in questo numero. Indignazione, ossia il sentimento di ripulsa verso ciò che avvertiamo non degno dell’uomo e della sua intelligenza. Prima che anche questa vada a ro- toli… (F.Gh.).

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IL MARGINE

ISSN 2037-4240

Mensile dell’associazione culturale Oscar A. Romero Anno 36 (2016) n. 5

Vincenzo Passerini LA CURA DEMOCRATICA

Piergiorgio Reggio IMPARARE L’IMPEGNO PER LA GIUSTIZIA. FREI BETTO: IL DECALOGO DI UN MILITANTE DI SINISTRA

Pierangelo Santini IL VECCHIO TOM CHE VEDEVA LONTANO

Miguel Benasayag L’UTOPIA NELL’ERA DEL «CERVELLO AUMENTATO»

Piergiorgio Cattani Giovanni Straffelini SCIENZA, RELIGIONE E COMPORTAMENTO MORALE

Alberto Gazzola IL LOGICO DAL VOLTO UMANO

IL MARGINE 5 MAGGIO 2016

Vincenzo Passerini 3 La cura democratica Piergiorgio Reggio 8 Imparare l’impegno per la giustizia. Frei Betto: il Decalogo di un militante di sinistra Pierangelo Santini 14 Il vecchio Tom che vedeva lontano. Provocazione “utopica” 500 anni dopo Miguel Benasayag 17 L’utopia nell’era del «cervello aumentato» Piergiorgio Cattani Giovanni Straffelini 25 Scienza, religione e comportamento morale Alberto Gazzola 28 Il logico dal volto umano

Dieci piani di torpidezza Si può fare della anche troppo facile ironia sul grande successo commer-

ciale che negli Usa sta riscontrando la vendita della carta igienica con l’effigie di Donald Trump. Gli acquirenti sono forse fans dell’imprenditore e politico newyorkese, della cui presenza non vogliono privarsi nemmeno nel momento in cui, come universalmente si conviene, è d’obbligo restare da soli? O forse sono suoi detrattori, che realizzano con ciò un atto supremo di scherno e disprezzo? Non lo sappiamo, ma poco importa, in fondo. Quel che conta è, invece, che siamo ormai talmente intorpiditi dalla dilagante stupidi-tà da rubricare notizie del genere nel novero delle semplici curiosità di co-stume, senza più indignarci per l’imbarbarimento culturale dell’epoca nella quale ci è toccato in sorte di vivere. Mantenere viva l’indignazione è il pri-mo punto del Decalogo di Frei Betto che pubblichiamo in questo numero. Indignazione, ossia il sentimento di ripulsa verso ciò che avvertiamo non degno dell’uomo e della sua intelligenza. Prima che anche questa vada a ro-toli… (F.Gh.).

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La cura democratica

V INCENZO PASSERINI

on avevamo mai disperato della possibilità che l’altra Austria ce la po-tesse fare. L’altra Austria, orfana di rappresentanza politica, alla fine

ce l’fatta. È riuscita a sconfiggere il quarantacinquenne estremista verniciato di moderazione Norbert Hofer, un post-nazista che gira con la pistola in ta-sca, e a mandare alla presidenza della Repubblica un “vecchietto” sempre-verde, il settantaduenne economista Alexander Van der Bellen, un democra-tico figlio di profughi fuggiti dalla dittatura comunista sovietica.

Ha vinto l’altra Austria, quella che in questi mesi è stata oscurata dall’ascesa abbagliante dell’estremista dal sorriso ingannevole che odia gli stranieri, porta all’occhiello il fiordaliso, simbolo degli austriaci filonazisti degli anni Trenta, e gira armato perché, lo dice lui, ama sparare (se avesse vinto, forse i controlli al Brennero li avremmo dovuti mettere noi…).

Ha vinto l’altra Austria, quella oscurata anche dalle clamorose ambiguità dei due partiti di governo, il socialdemocratico e il cristiano popolare, che, logorati da decenni di incontrastato potere, hanno finito per rinnegare i pro-pri valori e, scimmiottando l’estrema destra dell’ungherese Orban e del po-lacco Kaczynski, hanno ripristinato sciaguratamente la barriera del Brennero sperando di salvarsi alle elezioni. Un suicidio.

Certo, metà del paese è con Hofer, perché c’è anche un bel pezzo d’Austria che non ha mai fatto i conti col proprio passato e pensa che un post-nazista possa essere la cura per paure e insicurezze sociali ed economi-che, come se quel modello di cura non fosse già stato sinistramente speri-mentato. Non sono post-naziste le paure e le insicurezze, ma la cura Hofer sì.

Però alla fine ha vinto l’altra Austria: quella rappresentata dal variegato e tenace pezzo di società civile fatto di volontariato, associazioni, movimen-ti giovanili, parrocchie, donne, amministratori comunali che in questi anni, e anche in questi ultimi difficilissimi mesi, ha difeso a viso aperto e testimo-niato nel concreto le ragioni dell’accoglienza dei profughi. Le ragioni umane

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e politiche. Senza ambiguità, con coerenza e passione. Una grande lezione, per tutti. La politica ambigua, ondivaga, che ha smesso di credere in valori forti e cerca di adattarsi agli umori dominanti pur di sopravvivere, che non mette in campo apertamente e con coraggio le proprie ragioni, è destinata a perdere.

Se è stata scongiurata, almeno per il momento, la cura post-nazista, oc-corre che i partiti democratici europei mettano urgentemente in campo una cura democratica per le paure e le insicurezze. Un cura che, a nostro avviso, parte da almeno quattro punti fondamentali.

Il primo. La politica deve tornare a guidare i processi sociali invece di subirli. Ma bisogna essere dentro la società per guidarla, non nel palazzo, in un mondo astratto e privilegiato dove non si lascia mettere in discussione dalle sofferenze e dai problemi che ci sono nelle famiglie, tra i giovani, gli anziani, i disoccupati, nelle periferie, nei quartieri popolari, nei paesi. Sono troppi i non garantiti. Non si può contemplare la guerra tra poveri, o com-mentarla, ma bisogna affrontare seriamente il dramma delle vecchie e nuove povertà che la crisi economica ha creato tra i nostri concittadini, e quelle di coloro che le guerre e la fame hanno costretto a venire da paesi lontani a cercare rifugio da noi. I poveri, i deboli, gli infelici sono tutti uguali. E una società umana e democratica deve occuparsi innanzitutto di loro, non se avanza tempo o se avanzano soldi. La politica deve tornare a fare della giu-stizia sociale, dell’eguaglianza di opportunità, della questione del lavoro, dell’attenzione concreta e non demagogica o puramente caritatevole nei con-fronti dei più deboli, residenti o profughi che siano, il problema più impor-tante. Perché è quello che tocca il destino di tante persone, la loro vita, non un’astrazione, un’idea. La vita. E se la politica perde per strada la vita, ha perso se stessa. E finisce per perdere anche gli elettori. Ecco, io guardo con grande rispetto e attenzione all’attuale dibattito sulle riforme costituzionali. Chi ama il nostro paese non potrebbe altrimenti. Ma trasformare questo nel problema decisivo, quando il problema decisivo per milioni di persone e famiglie è la sopravvivenza quotidiana significa perdere il contatto con il mondo reale.

Il secondo punto della cura democratica alle paure e alle insicurezze: nessun paese europeo da solo può affrontare la questione dei profughi. Non lo può l’Austria e non lo possono l’Italia o la Grecia. Un problema epocale (mai così tanti profughi nel mondo dalla seconda guerra mondiale) va af-frontato al suo livello, che è almeno il livello europeo. Il regolamento di Dublino che prevede che i profughi rimangano nel paese dove approdano va

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cambiato. Perché è impensabile che, siccome i profughi per ragioni geogra-fiche arrivano per lo più in Italia o in Grecia, rimangano tutti in Italia o in Grecia. Il regolamento di Dublino è stato adottato prima che il dramma dei profughi assumesse le proporzioni di questi ultimi tre anni a causa dell’acuirsi dei conflitti e delle violenze nel Vicino Oriente e in Africa. L’Italia e la Grecia non possono fare muri nel Mediterraneo, come fa l’Austria al Brennero. Perché noi non vogliamo rimandare indietro, cioè alla morte, dei barconi precari carichi di esseri umani o stare lì a guardarli col fucile o il manganello in mano mentre affondano. Li salveremo sempre, per-ché il giorno in cui non li salveremo non saremo più degni di far parte dell’umanità. Ma anche l’Austria finisce nella disumanità quando dice che questi esseri umani che abbiamo salvato sono nostri e loro non li vogliono. E non li vogliono neanche lasciar transitare per altre mete.

Qui si innesta la questione del Brennero. L’esempio più clamoroso delle ambiguità del governo di Vienna. Che ha venduto parole rassicuranti in tutte le sedi in questi mesi, salvo in concreto procedere con la costruzione della disgraziata barriera (Vienna sta adesso rimandando in Italia più profughi di quanti ne passino dall’Italia all’Austria). La follia del centrosinistra austria-co al potere, giustamente umiliato dagli elettori sull’elezione del presidente della Repubblica, ma ostinato nell’insistere su una strada sciagurata, è stata ed è quella di avallare la tesi dell’estrema destra europea (l’estrema destra razzista, xenofoba e post nazista, di questo stiamo parlando) che il problema dei profughi va affrontato militarmente, ripristinando barriere ai confini, al-zando muri, mettendo filo spinato e truppe armate. Facendo saltare in tal modo l’Europa, il suo grande progetto pacifista e umanista post-seconda guerra mondiale, pazientemente e tenacemente costruito in questi decenni tra immense speranze e difficoltà. Mentre il centrosinistra austriaco non avrebbe mai dovuto rinunciare al principio, che è nell’essenza stessa della socialdemocrazia e del cristianesimo sociale, che un problema come quello dei profughi va affrontato politicamente. Politicamente, con i partner euro-pei a cui si è vincolati da valori e da patti, e in primo luogo con i vicini ita-liani e germanici che sono alle prese con le stesse difficoltà, e tanto più con loro visto che l’Austria è spesso solo un via di transito dall’Italia alla Ger-mania, o verso il Nord Europa, per molti migranti; e poi insieme con tutti gli altri paesi dell’Unione, la quale esiste per questo, per affrontare problemi di questa portata, e se non funziona su questo la si deve far funzionare, non af-fossare.

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Il potere non solo logora, ma alla lunga rende ciechi, e i due partiti di governo austriaci mostrano di essere stati colpiti dalla stessa cecità, dalla stessa incapacità di vedere e capire il mondo e se stessi, che aveva mortal-mente colpito i due partiti fratelli italiani a cavallo degli anni ’80 e ’90 del secolo scorso. Una perdita vera e propria del senno. Chiamiamola pure fol-lia.

Nel 2015 ci sono state 1.255.600 domande di asilo in Europa da parte dei profughi (dato Eurostat). Il doppio dell’anno precedente. Un problema im-ponente, che però l’Europa con i suoi 550 milioni di abitanti e le sue possi-bilità può affrontare dignitosamente se c’è la collaborazione di tutti i 28 pae-si dell’Unione. E solo in questo contesto può essere affrontato bene. Ma se non siamo capaci come Europa di affrontare dignitosamente un tale proble-ma, con questi numeri, che cosa dovrebbero dire il piccolo, tormentato e fragile Libano (4 milioni e mezzo di abitanti e 1.200.000 profughi), la Gior-dania (654 mila profughi), l’Iran (1 milione), l’Uganda (400 mila), il Ciad (mezzo milione), il Kenya (600 mila profughi) che ha il più vasto campo profughi al mondo, quello di Dadaab, una immensa e dolente tendo-baraccopoli con 344 mila profughi?

Terzo punto. Va affrontata con ben altra forza la questione dell’integrazione nella società dei profughi dopo la loro accoglienza. Occor-rono politiche sociali di respiro e di medio periodo. Non basta accogliere, fare qualche buon progetto, se ci si riesce, e lasciare migliaia di giovani a se stessi. Ancora una volta: bisogna passare dall’emergenza al progetto sociale se si vuole affrontare un dramma epocale all’altezza che richiede. L’Europa, non solo l’Italia, è tutta presa ancora dall’emergenza. Ma si deve andare ol-tre. La questione si intreccia a questo punto con quella più ampia dell’immigrazione, dell’integrazione (o interazione, convivenza) degli im-migrati, in un contesto europeo che vede la loro presenza indispensabile per affrontare il pauroso calo demografico e le conseguenze che questo provoca a livello economico, sociale, previdenziale. È una questione vitale per tutti: migranti, rifugiati, residenti, Europa.

Quarto punto. Se non si affrontano seriamente le cause all’origine delle guerre e delle miserie che provocano tanti profughi, non ci sarà mai soluzio-ne al dramma epocale che stiamo vivendo. Non basta cercare di curare gli effetti. Si è svolta dal 23 al 24 maggio scorsi a Istanbul la Conferenza inter-nazionale dell’Onu sulla crisi umanitaria in atto. Lodevole. Molti incontri, molte delegazioni presenti. Nessun leader del G7, però. Ma perché non una conferenza sulle cause delle vergognose diseguaglianze tra paesi ricchi e

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paesi poveri? Perché non una conferenza sulle responsabilità delle guerre in corso (Afghanistan, Iraq, Siria, Libia,..)? Su chi vende armi e alimenta i con-flitti nel Vicino Oriente e in Africa (export di armi in continua ascesa da parte dei paesi occidentali, soprattutto verso queste infelici aree)? Su chi arma il terrorismo estremista islamico che provoca morti, rovine e profughi? Un’ampia inchiesta del “New York Times” pubblicata il 21 maggio scorso ha documentato i finanziamenti dell’Arabia Saudita ai gruppi terroristici islamici affiliati all’Isis presenti e sempre più diffusi in Kosovo. Ma l’Arabia Saudita è armata totalmente dai paesi occidentali, Italia compresa. Italia che, tra l’altro, ha triplicato in un anno il suo export di armi, passato dai 2,9 miliardi di euro del 2014 agli 8,2 miliardi di euro del 2015 (come si evince dalla Relazione del governo inviata alle Camere il 18 aprile 2016). La politica però tace su tutto questo.

Lo vogliamo affrontare seriamente questo dramma epocale dei profughi? Vogliamo, sì o no, mettere in campo una cura democratica per le paure e le insicurezze? �

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Imparare l’impegno

per la giustizia Frei Betto: il Decalogo di un militante di sinistra Introduzione di PIERGIORGIO REGGIO

i sono lezioni che convincono per l’argomentazione, altre per le doti espositive del maestro, altre ancora sono testimonianze, pure lezioni di

vita. Di quest’ultimo genere è la lezione che si riceve ascoltando o leggendo le parole di frei Betto, frate domenicano brasiliano, nato a Belo Horizonte, in Mato Grosso, nel 1944. È stato esponente di punta della teologia della liberazione e sempre impegnato nei movimenti popolari e nelle comunità ecclesiali di base. Strenuo oppositore della dittatura militare, nel 1969 ven-ne imprigionato e torturato. La coerenza radicale delle sue scelte lo ha fatto amare molto nel suo Paese e conoscere – anche attraverso i suoi numerosi e apprezzati libri – in tutta l’America Latina e nel mondo. Legato al pedago-gista brasiliano Paulo Freire da amicizia e affinità ideale e di impegno so-ciale e politico, è stato consulente speciale del presidente Lula e coordina-tore della mobilitazione sociale del Programma “Fame Zero”.

Nella sua recente visita in Trentino frei Betto ha proposto alcune rifles-sioni sulla situazione socio-politica contemporanea del Brasile e, più in ge-nerale, dei Paesi latinoamericani. All’inizio dell’incontro svolto a Trento, presso il Centro per la formazione alla Solidarietà Internazionale, ha pro-posta la lettura, ad alta voce, del “Decalogo di un militante di sinistra” che, di seguito, si trova riprodotto. È interessante notare come lo stesso frei Bet-to abbia definito la lettura pubblica del decalogo, preliminare alla propria conferenza, un momento “mistico”. Nelle parole del decalogo vivono, infat-ti, ideali e aspirazioni, valori e sofferenze, ragioni e passioni. Il tutto in un concentrato di intensità della conoscenza che non è effettivamente fuori luogo avvicinare alla mistica. Che la mistica abbia a che fare con la mili-

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tanza e che questa sia stata da molti vissuta e narrata proprio come una mi-stica è fatto accertato. Nei giorni successivi all’incontro ho fotocopiato (for-se avrei dovuto più coerentemente… ciclostilarlo!) il testo del decalogo e ne ho fatto omaggio a diversi amici e amiche, colleghi e compagni di avventure di impegno sociale ed educativo. Le reazioni sono state molto legate, ov-viamente, a vari fattori: l’età delle persone, il grado di vicinanza vissuto con le vicende latinoamericane, la sensibilità religiosa. Chi ha vissuto la militanza politica degli anni Settanta ha reagito, per esempio, con un misto di sorriso nostalgico e di fascinazione per un incanto rivissuto: «Non è pos-sibile… c’è ancora chi parla di militanza!… e di sinistra!»; chi è giovane ha colto analogie con frasi di papa Francesco. L’affermazione «la testa pensa dove i piedi calpestano» fa effettivamente venire in mente l’invito del Papa ai sacerdoti a essere pastori a contatto diretto con l’odore delle proprie pe-core. Tante reazioni diverse, tanti modi di ascoltare e intendere un messag-gio, che parla di impegno e, soprattutto, di giustizia. In ogni caso, perché il messaggio a riflettere ancora sull’impegno per la giustizia costituisca anco-ra oggi una provocazione autentica, occorre uno sforzo di contestualizza-zione. Non tanto rispetto all’epoca e al clima culturale, sociale e politico degli anni Settanta in America Latina, in Europa o negli Stati Uniti, quanto – piuttosto – in riferimento al mondo odierno, globalizzato e lacerato da in-giustizie, conflitti, povertà, guerre e terrore. Frei Betto ha scritto che «oggi non viviamo un’epoca di cambiamenti, bensì un cambiamento di epoca». Questa è la nostra epoca e in essa – nelle sue contraddizioni e potenzialità – siamo chiamati a comprendere e agire. Comprensioni e azioni di un passato anche recente possono essere utilmente criticate e rivisitate, per fornirci prospettive di lettura adeguate all’oggi e, soprattutto, in grado di farci guardare al domani con speranza vera. Si tratta di imparare e coltivare la speranza non come ottimismo ingenuo, ma come la intese Paulo Freire, che a essa dedicò il testo Pedagogia della speranza, cioè come esito della consa-pevolezza critica della nostra epoca, che genera energie per il cambiamen-to. Non a caso, concludendo l’incontro a Rovereto, frei Betto, rispondendo a una domanda rivoltagli circa il che fare in epoca di crisi, ha simpaticamen-te consigliato di «assumere una dose maggiore di Paulo Freire ogni gior-no», volendo esprimere l’importanza di assumere un atteggiamento critico e di concreta speranza.

In questa prospettiva è possibile leggere il Decalogo proposto da frei Betto che adotta – sin dal titolo – due categorie storicamente segnate: mili-tanza e sinistra. Due condizioni esistenziali, si potrebbe dire, che non solo

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vengono ritenute oggi appartenenti a un passato travolto dai rivolgimenti di questi ultimi decenni e non più rigenerabili. Condizioni delle quali pare ad-dirittura impossibile parlare a chi non ha condiviso le esperienze concrete che le hanno alimentate. Eppure il decalogo ci parla, le sue parole ci rag-giungono se riescono a serpeggiare tra le incrostazioni (nostalgiche o me-no) di un passato che non c’è più, ma anche se parlano all’uomo, assetato ancora oggi – come cinquant’anni fa – di giustizia. Certamente il linguag-gio della militanza va decodificato, tradotto, compreso e reinventato. Il de-calogo sembra scritto in modo tale da richiedere esplicitamente tale sforzo rigenerativo. Può aiutare, in tal senso, cogliere e sorridere agli inviti (au-to)ironici: «verificate periodicamente se siete di sinistra… potreste essere contaminati dal virus socialdemocratico» dice al primo “comandamento”, per non dire del motto assai diffuso anche tra i militanti di cinquant’anni fa: «Apprendete la differenza fra militante e militonto». Sotto l’ironia e sottese alla forma liturgica del decalogo si incontrano però alcune verità che non hanno tempo. Innanzitutto la centralità dei poveri come categoria di reden-zione universale. Stando al loro fianco è possibile certamente commettere errori, ma si è certi di stare dalla parte giusta. Per loro, ma certamente per chi si impegna per il cambiamento. Sembra di risentire la voce profetica (oggi quanto mai attuale) di don Milani ai cappellani militari toscani: «Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri». Il valore e la pratica della giustizia costituiscono il filo conduttore che lega le azioni di chi è impegnato politicamente e, inevitabilmente, eticamente. Nella già cita-ta intervista, frei Betto leggeva l’azione pastorale di Papa Francesco come un cammino da una Chiesa che cerca di essere a fianco dei poveri a una chiesa “dei poveri”, come era alle origini.

Chi si impegna per costruire la giustizia pratica e coltiva – sia pure con i limiti della propria umanità – alcune virtù essenziali: l’indignazione di-nanzi alle ingiustizie, la condivisione concreta delle condizioni di vita, il senso critico verso il mondo e verso di sé, l’umiltà, la conoscenza, il corag-gio e la coerenza. È significativo considerare come il Decalogo inizia e co-me termina. Il primo “comandamento” è dedicato all’affermazione del va-lore dell’indignazione, che è motore per la presa di coscienza e per la scelta di schierarsi, di prendere parte. Non è un caso che il già citato Paulo Frei-re, assai vicino come sensibilità a frei Betto, scrisse un testo – Pedagogia

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dell’indignazione – ponendo la capacità di reagire attivamente e in prima persona alle ingiustizie concrete e quotidiane come fondamento essenziale per l’impegno educativo, sociale e politico. L’ultimo “comandamento” è dedicato alla preghiera: «Fai della preghiera un antidoto contro l’alienazione». Fede e laicità qui si congiungono. Chi si impegna per la giu-stizia accetta – nella preghiera – l’abbandono a una volontà non più pro-pria; accetta che la propria vita venga stravolta, sovvertita e convertita dal-la volontà del Padre. Il militante che lotta nel mondo, nella preghiera lotta contro la propria resistenza ad abbandonarsi e, così, liberarsi.

Decalogo di un militante di sinistra 1. MANTENETE VIVA L’INDIGNAZIONE. Verificate periodicamente

se siete realmente di sinistra. Adottate il criterio secondo il quale la destra considera le diseguaglianze sociali un fatto naturale, tanto quanto la diffe-renza fra giorno e notte. La sinistra le considera come aberrazioni da sradi-care. Attenzione: potreste essere contaminati dal virus socialdemocratico, i cui sintomi sono l’utilizzo di metodi di destra per ottenere conquiste di sini-stra e, in caso di conflitto, abbandonare i deboli per non dispiacere ai poten-ti.

2. LA TESTA PENSA DOVE I PIEDI CALPESTANO. Non si può es-sere di sinistra senza sporcarsi le scarpe nei luoghi dove il popolo vive, lotta e soffre. La teoria senza pratica equivale a fare il gioco della destra.

3. NON ABBIATE VERGOGNA DI CREDERE NEL SOCIALISMO. Lo scandalo dell’Inquisizione non fece si che i cristiani abbandonassero i valori e le proposte del Vangelo. Ugualmente, l’insuccesso del socialismo nell’Europa dell’Est non deve indurre a scartare il socialismo dall’orizzonte della storia umana. Il capitalismo, in vigore da 200 anni, ha fallito per la maggior parte della popolazione mondiale. Oggi siamo 6 miliardi di abitanti. Secondo la Banca mondiale, 2,8 miliardi sopravvivono con meno di 2 dolla-ri al giorno. E 1,2 miliardi, con meno di 1 dollaro al giorno.

4. SIATE CRITICI SENZA PERDERE L’AUTOCRITICA. Molti mili-tanti di sinistra cambiano sponda quando iniziano ad essere troppo pignoli ed esigenti. Allontanati dal potere, diventano amari e accusano i propri compagni di errori ed esitazioni. Come dice Gesù, cerchiamo la pagliuzza nell’occhio degli altri, ma non vediamo la trave nel nostro occhio. Tra l’altro, questi militanti non si impegnano a migliorare le cose. Se ne riman-

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gono passivi, come spettatori e giudici, ed alcuni sono captati dal sistema. L’autocritica non è solo ammettere i propri errori. È anche ammettere di es-sere criticati dai compagni.

5. APPRENDETE LA DIFFERENZA FRA MILITANTE E MILITON-TO. Il militonto è colui che si pregia di stare dappertutto, partecipare a tutti gli eventi e movimenti, operare su tutti i fronti. Il suo linguaggio è pieno di spiegazioni e gli effetti delle sue azioni sono superficiali. Il militante appro-fondisce i suoi legami con il popolo, studia, riflette, medita; valorizza la sua area di appartenenza e le relative attività, valorizza i vincoli organici ed i progetti comunitari.

6. SIATE RIGOROSI NELL’ETICA DELLA MILITANZA. La sinistra opera in base a principi. La destra in base a interessi. Un militante di sinistra può perdere tutto, il lavoro, la libertà, la vita. Meno la morale. Al perdere la propria etica, svalorizza la causa che difende e rappresenta. E presta un ine-stimabile servizio alla destra. Ci sono arrivisti mascherati da militanti di si-nistra. Sono soggetti che mirano, in primo luogo, a conquistare il potere. In nome di un interesse collettivo cercano, in primo luogo, di soddisfare il loro interesse personale. Il vero militante – come Gesù, Gandhi, Che Guevara – è un servitore, disposto a dare la sua vita affinché gli altri abbiano una vita. Non si sente umiliato se non è al potere, né orgoglioso se vi si trova. Non si identifica nella funzione che riveste.

7. ALIMENTATEVI CON LA TRADIZIONE DELLA SINISTRA. Si necessita la preghiera per alimentare la fede, l’affetto per nutrire l’amore di coppia, e il “ritorno alle fonti” per mantenere accesa la mistica della militan-za. Imparate la storia della sinistra, leggete autobiografie, come Il Diario del Che in Bolivia, e romanzi come La Madre di Gorki, o Furore di Steinbeck.

8. PREFERITE IL RISCHIO DI SBAGLIARE STANDO CON I PO-VERI CHE DI AZZECCARCI SENZA DI LORO. Convivere con i poveri non è semplice. In primo luogo, c’è la tendenza a idealizzarli. Dopodiché, si scopre che fra loro convivono gli stessi vizi riscontrati nelle altre classi so-ciali. Essi non sono né migliori né peggiori degli altri esseri umani. La diffe-renza è che sono poveri, ovvero persone private ingiustamente e involonta-riamente dei beni essenziali per una vita dignitosa. Per questo, stiamo dalla loro parte. Per una questione di giustizia. Un militante di sinistra non nego-zia mai i diritti dei poveri, e sa imparare con loro.

9. DIFENDETE SEMPRE GLI OPPRESSI. ANCHE QUANDO AP-PARENTEMENTE ESSI NON HANNO RAGIONE Sono così tante le sof-ferenze dei poveri del mondo che non ci possiamo attendere da loro compor-

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tamenti che non appaiono nemmeno nelle attitudini di coloro che hanno ri-cevuto una educazione raffinata. In tutti i settori della società vi sono corrot-ti e banditi. La differenza è che, fra le élites, la corruzione gode della prote-zione della legge, ed i banditi vengono difesi da meccanismi economici sofi-sticati, che consentono ad uno speculatore di portare alla miseria una nazio-ne intera. La vita è il dono più prezioso di Dio. L’esistenza della povertà ri-chiama i cieli. Non aspettatevi comprensione da chi favorisce l’oppressione dei poveri. Evitiamo di parlare come militanti ma vivere come borghesi, ac-comodati nella comoda posizione di giudici di chi lotta.

10. FAI DELLA PREGHIERA UN ANTIDOTO CONTRO L’ALIENAZIONE. Pregare è lasciarsi interrogare dallo Spirito di Dio. Mol-te volte evitiamo di pregare per non sentire l’appello divino che esige la no-stra conversione, cioè il cambiamento dell’indirizzo della nostra vita. Par-liamo come militanti e viviamo come borghesi, ben sistemati o nella como-da posizioni di giudici di chi lotta. Pregare è permettere che Dio sovverta la nostra esistenza, insegnandoci ad amare così come amava Gesù, in un modo che crea libertà. �

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Il vecchio Tom

che vedeva lontano Provocazione “utopica” 500 anni dopo PIERANGELO SANTINI

«Dedicano al lavoro soltanto sei ore, tre nella mattinata, prima di andare a pranzo, e poi, dopo aver riposato un paio d’ore, altre tre nel pomerig-gio, concludendo infine la giornata con la cena. ... Il tempo che rimane oltre le ore dedicate al lavoro, al sonno e ai pasti è lasciato alla libera scelta di ciascuno, ma non perché questi lo sprechi negli eccessi o nell’indolenza, ma perché, libero dall’impegno del lavoro, impieghi bene quel che resta del giorno» (Thomas More, Utopia).

paradossalmente evidente e ciò nonostante ignorato, che la causa dell’accresciuta e persistente disoccupazione non sia da attribuire alla

“crisi” economica o finanziaria attuale, bensì essenzialmente allo sviluppo tecnologico che, portando verso una sempre maggiore automazione della produzione di beni e servizi, riduce strutturalmente il fabbisogno di mano-dopera.

Del resto questo altro non è che una fase ulteriore di un processo in atto da sempre. La progressiva introduzione di tecnologie nei processi produttivi non ha fatto che ridurre progressivamente, ma costantemente la mano dell’uomo e quindi il tempo da impegnare nell’attività lavorativa. Storica-mente questo processo è avanzato gradualmente e senza controtendenze, an-che se con “balzi” marcati in conseguenza dell’introduzione di innovazioni tecnologiche rilevanti. Pensiamo all’introduzione della meccanizzazione nella produzione manifatturiera o in agricoltura e a tutte le trasformazioni sociali e occupazionali che ne sono conseguite. Dalla giornata lavorativa praticamente ininterrotta del contadino pre-industriale si è passati alle 48 e poi 40 ore settimanali delle fabbriche. La crisi della grande industria degli anni Settanta del secolo scorso ha spostato occupazione nei servizi, ma il

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relativo riequilibrio socio-economico ha richiesto di portare il tempo-lavoro in via generale sulle 36 ore. Ora, da un paio di decenni, l’introduzione dell’informatica ha consentito di mettere in atto un processo di sempre mag-giore automazione della produzione in ogni campo e il futuro la prospetta anche maggiore. È sotto gli occhi di tutti che in moltissimi e determinanti campi, ormai anche nei servizi, macchine che lavorano di più e meglio delle persone le sostituiscono e nessuno è seriamente intenzionato a rinunciarvi. Economicamente poi, investire nella tecnologia è una strada obbligata. Ma tutto questo ha la conseguenza di rendere inutile – e antieconomica – una quota molto significativa di attività umana.

Di conseguenza in questi anni si è assistito a una serie infinita di ristrut-turazioni aziendali che hanno avuto come costante, ritenuta inevitabile, la riduzione del costo del lavoro. Un fattore produttivo spesso oggettivamente reso inutile. E la scelta che quasi sempre si adotta, perché più facile dal pun-to di vista organizzativo, è quella della riduzione dei posti di lavoro. Mante-nendo così l’occupazione piena per alcuni, talvolta anche meglio retribuiti, e “liberando” gli altri, considerati “esuberi”.

Questa però in via generalizzata altro non è che la scelta, politica, di creare una spaccatura verticale nella società, divisa in due fra “chi è dentro” e “chi è fuori”. Solo secondaria è la valutazione sulla proporzione: “quanti dentro” e “quanti fuori”, maggioranza “dentro” e minoranza “fuori”, o vice-versa. L’opzione di fondo è quella di accettare, di principio, una società spaccata.

Sarà tendenziale, inerziale, ma non è necessario che sia così. È una scel-ta, una scelta politica. Che deve mettere in conto le conseguenze. Una ric-chezza complessiva maggiore – se va bene – di cui però alcuni fruiscono a pieno titolo (reddito e lavoro) e altri solo in via complementare (reddito as-sistenziale, il minimo che consenta al sistema produttivo di funzionare). Quindi, in altre parole, ben che vada, ingiustizia strutturale e conflitto per-manente, che prende poi le forme più varie: intergenerazionale, di classe, etnico, religioso, e via dicendo.

Perché invece non si apre la strada verso l’unica direzione “naturale”, cioè connaturata ai suoi fini, allo sviluppo tecnologico: la riduzione del tem-po di lavoro umano, ma in senso orizzontale? Perché non puntare a una giornata lavorativa di 6 ore massime, come in Utopia di Thomas More (ve-deva lungo, il vecchio Tom…)? Per tutti. Perché non prospettare una società che si adatta, che sa fare posto ai suoi membri? Che dà modo a tutti di trova-re un posto al suo interno? Perché il lavoro è sì fattore produttivo, ma anche

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fonte di senso per l’esistenza umana. Il modo primario di collocarsi nella società, di avere un ruolo e di dare stabilità alle relazioni. Per questo, prima di tutto, è un diritto. Non può essere sostituito con un’indennità. Con un reddito di cittadinanza che ne indennizzi la rinuncia. Senza uno scopo per alzarsi la mattina, senza una collocazione in un impianto stabile di impegni verso gli altri, anche con la pancia piena, non si è cittadini, non si è uomini. E quando il disagio non è più individuale ma strutturale l’effetto necessario è sociale, è la società che si ammala. Per questo è urgente prendere atto che la riduzione dell’orario di lavoro orizzontale è imprescindibile. Fare resi-stenza non serve. Sarà così. Si potrà solo prolungare, penosamente, la durata degli schemi istituzionali funzionali agli assetti produttivi e sociali dell’occidente pre-automazione.

Le aziende non affrontano volentieri i costi delle riorganizzazioni, i lavo-ratori occupati non vogliono mollare quote di reddito, la concorrenza a livel-lo globale scoraggia chi si apre all’innovazione. Ma lì si va. Lì si deve anda-re. Qualcuno deve aprire la strada. Forse non può farlo un’azienda da sola, forse neanche un distretto. Si può chiederlo a un Paese? Potrebbe l’Italia lanciare questa sfida alla vecchia Europa? 30 ore e tanti posti in più sul con-tinente, una scossa per riorganizzarsi e creare un modello rinnovato da pro-porre al pianeta, non sarebbe dar sangue a una società anemica che ha estremo bisogno di trovare energia per continuare il cammino? �

Il Margine 36 (2016), n. 5

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L’utopia nell’era

del «cervello aumentato» M IGUEL BENASAYAG

Conferenza tenuta a Trento, nel quadro delle iniziative “Utopia500” promosse dalla Casa Editrice Il Margine, il 17 gennaio 2016. Testo trascritto da registrazione e non rivisto dall’autore.

i inaugura oggi un ciclo di conferenze dedicate al tema dell’utopia. Dunque penso che, per contestualizzare il tema, dovremmo sforzarci di

comprendere l’Utopia di Thomas More come un vero e proprio manifesto di un momento storico di transizione dall’idea di un Dio onnipotente al proget-to dell’umanesimo che vede nell’uomo il proprio profeta e il proprio messia. L’utopia di Thomas More è davvero la possibilità di prendere sul serio la sfida di erigere una nuova torre di Babele. Questa volta siamo noi, per così dire, a essere Dio, siamo noi a dover diventare onnipotenti.

Una «de-territorializzazione del mondo». L’odio del corpo Dunque, qual è lo strumento per giungere a questa onnipotenza

dell’uomo, per detronizzare Dio? Per fare in modo che l’uomo sia del tutto onnipotente e che tutto sia possibile per l’uomo? Questo strumento è la ra-gione. La Mathesis universalis sviluppata da un Leibniz o da un Galileo, che afferma l’universo essere scritto in linguaggio matematico, aritmetico, non geometrico. Questo è il passaggio fondamentale per capire quanto sta avve-nendo oggi; come diceva Deleuze, si tratta di una de-territorializzazione fondamentale, perché la verità di tutto viene a essere spiegata e costituita da relazioni matematiche, aritmetiche, non geometriche.

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Una tale de-sostanzializzazione del mondo è sotto gli occhi di tutti. Il mondo è composto da elementi comprensibili razionalmente. Keplero scrive che l’unica differenza tra Dio e gli uomini è che Dio conosce ogni teorema fin dall’eternità, mentre l’uomo non li conosce. Perlomeno, non ancora. Ke-plero introduce qui un’idea centrale della modernità: la temporalità del compimento dell’uomo. L’uomo è in fase di completamento: può divenire onnipotente; invero, non siamo in piena eresia, perché, a ben guardare, ciò significa che rimangono ancora due o tre livelli della torre di Babele razio-nalista per arrivare all’onnipotenza dell’uomo. Dunque, questo manifesto riprende, fondamentalmente, il punto centrale dell’utopia dell’Occidente, quello che Michel Foucault presenta come l’odio dei corpi e che, parafra-sando Husserl, si potrebbe anche definire come l’odio della carne. Perché la carne? Perché la carne è ciò che è sensibile, limitato, che, al termine della vita biologica, non esisterà più con la medesima realtà. Per Michel Foucault ogni utopia si fonda sull’odio del corpo, perché è il corpo che ci impedisce di essere Dio.

Ora, c’è, come noto, una tradizione proto-utopica platonica. Segnata-mente, del Platone della Repubblica, con il celeberrimo mito della caverna, interpretabile in molti sensi. Nel mito, Platone afferma che colui che esce dalla caverna vede che i corpi sono in realtà dei simulacri e che il vero mon-do è fatto di idee, di entità anche matematiche. Si tratta del desiderio, anzi, della patologia dell’umanità, che sempre torna a dire che la nostra verità è fuori dai corpi: è nella lingua, è nello scritto, è nel mondo digitale, nella ten-denza al superamento dell’uomo: da qui, movimenti come il post-umanesimo, il trans-umanesimo ecc.

La scommessa di eliminare la negatività Io penso che una tale spinta verso la razionalità, che Thomas More con-

tribuisce a sistematizzare nella modernità, introduca nella storia dell’umanità una cesura senza pari, rappresentata dalla vera e propria scommessa di eliminare ogni negatività. È una promessa che l’uomo fa a se stesso, giacché negatività significa malattia, morte, …

La nostra è la prima società ad avere avuto questa idea. Tutte le altre so-cietà moderne o para-moderne (io sono sudamericano e da noi esistono so-cietà che non sono mai state moderne) hanno operato una integrazione per così dire organica della negatività. La negatività era incorporata (che sia

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Ying e Yang poco importa), e anche nel punto estremo del manicheismo mesopotamico, con la sua caratteristica separazione radicale fra il bene e il male, il male è assolutamente necessario per il sistema. Non esiste l’idea che il male possa essere cancellato. Un elemento fondamentale dell’utopia della modernità è l’idea di un tempo ascendente verso la pienezza: per Hegel è l’epoca dello Spirito, per Marx il comunismo scientifico, per il positivismo la conoscenza della Mathesis universalis. In modi diversi, tutti convergono verso il punto omega, che è, come diceva Teilhard de Chardin, il punto di arrivo, l’emancipazione di ogni negatività.

La negatività è sempre legata alla questione del corpo. Nella nostra epo-ca assistiamo a qualcosa di molto particolare, siamo quasi i testimoni diretti di due grandi cesure della storia: la prima è la rottura del progetto della mo-dernità che ha fatto affermare che esiste un mondo. Perché un mondo? Per i Mapuche e i Guaranì non esiste un mondo, esistono i mondi. E allora perché un mondo unificato? Perché la fisica matematizzata o le leggi della fisica sono universali. La ragione ha bisogno di una unificazione in cui la verità sia, in ogni situazione, preesistente, comprensibile e padroneggiabile con leggi fisiche e matematiche. La razionalità ascendente occidentale della mo-dernità ci dice una cosa fondamentale: è razionale ciò che è analiticamente prevedibile. Una sorta di consustanzialità tra prevedibilità e razionalità.

Nel secolo ventesimo questo non è più possibile perché la materia spari-sce dietro l’apparato di studio. Noi studiamo e scopriamo le leggi della ma-teria e della fisica e tuttavia ci avvediamo immediatamente di un problema: l’oggetto di studio non c’è più, si è dileguato. Si verifica effettivamente un terremoto per la ragione, che deve sforzarsi di pensare razionalmente quello che non è prevedibile. La razionalità moderna si trova a dover fronteggiare un problema insuperabile. La psicologia asserisce, con Freud, che l’uomo, l’uomo kantiano, non è assolutamente razionale. Tutti gli sforzi profusi per cancellare l’imprevedibilità, la negatività e l’irrazionalità si dissolvono in un istante.

Vincere la morte… Nella nostra cultura non c’è nessuna pratica ed esperienza di coabitazio-

ne reale con la negatività … l’unica cosa che ci veniva proposta era piuttosto di trovare la maniera di cancellare la negatività. Quando ho cominciato a praticare la medicina, mi ricordo che, all’entrata dell’obitorio, nella stanza

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adibita alla dissezione dei cadaveri per le autopsie, si trovava una scritta che diceva che l’obiettivo era vincere la morte. La vittoria sulla morte e sulla malattia era per noi una certezza. Non solamente per un militante politico che pensava di arrivare a un mondo di giustizia. Tutti pensavano di approda-re a un mondo di trasparenza, di sapere assoluto…

Ora tutto ciò si va dissolvendo e non sappiamo come fronteggiare il ri-torno sinistro e oscuro della negatività. Le altre società sono tutte ricorse a metodi più o meno sacrificali, perché la negatività era parte organica delle società. Noi invece non sappiamo come fare. E questo è un elemento di di-struzione di ogni legame: della cultura, delle strutture in genere. Perché la negatività è dappertutto. Tale pervasività minacciosa della negatività è una ragione sufficiente per comprendere la violenza che serpeggia nella nostra società.

Ora, proprio nel momento in cui l’umanità occidentale, dopo aver inven-tato, globalizzato e conquistato il mondo, si trova a dover sperimentare il fallimento totale del desiderio utopico di onnipotenza folle, ecco farsi strada il progresso tecnico che insinua: «volete emanciparvi dai corpi, avere una potenza senza limiti? Oggi è possibile!».

Certo, è possibile, non per tutti, non per la comunità, ma individualmen-te. Dal punto di vista antropologico, è fuor di dubbio che la digitalizzazione del mondo costituisca, dopo l’incontro della specie umana con la lingua e dopo l’invenzione della scrittura, la terza grande rivoluzione. In tutti questi tre momenti storici centrale è il ruolo del linguaggio: circa il 60% delle no-stre esperienze di vita proviene dall’esterno e non dalla nostra esperienza corporea. Si tratta di una de-territorializzazione ancora maggiore di quella a cui faceva riferimento Deleuze. La seconda grande de-territorializzazione è la scrittura. Le culture alfabetizzate detengono il 75% o l’80%, in rapporto alle tecniche che possiedono, di esperienza indiretta.

Il sapere indiretto non si aggiunge al sapere corporeo; lo sostituisce e lo cancella, come ho mostrato nel mio libro Il cervello aumentato l’uomo di-minuito (Erickson, Trento 2016). Le informazioni che arrivano dall’esterno cancellano la possibilità di avere accesso al sapere diretto. Creano una diffi-denza verso il sapere che deriva da un’esperienza diretta. Con l’avvento del-la digitalizzazione, il 95% del sapere e della conoscenza che abbiamo del mondo e di noi stessi è indiretto. Il restante 5% si manifesta sotto forma di sofferenza, malattia, dubbio…

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L’ibridazione tra uomo e macchina Questa è dunque la rivoluzione che stiamo vivendo. Non è né buona né

cattiva… È così e basta. È molto interessante leggere quello che è stato scritto in rapporto alla lettura e all’alfabetizzazione della popolazione. Nel secolo di Thomas More e poi in quello della Rivoluzione Francese esistono testi che parlano del pericolo di una alfabetizzazione generale, della diffi-denza verso la lettura a mente, perché questo significava che non si poteva più controllare le persone, sapere che cosa pensassero realmente. La diffi-denza è come sempre rivolta verso le cose che sono assolutamente nuove.

Quello che noi studiamo come ricercatori è l’assioma secondo cui il cambiamento attuale non è un cambiamento di cartografia; è un cambiamen-to materiale del territorio... In generale, la popolazione colta non conosce il problema su cui lavorano i biologi e coloro che si occupano di intelligenza artificiale. Tutto ciò sta cambiando il mondo, eppure non è granché cono-sciuto dagli intellettuali. Stiamo assistendo a una ibridazione irreversibile fra il vivente e le tecniche digitali. Io ho diretto due laboratori di biologia, cer-cando di capire le conseguenze, senza nessun giudizio morale, di questa ibridazione. È molto interessante capire per esempio che cosa succede in un ecosistema quando applichiamo una coltura transgenica.

Di per sé, io ho lavorato in neurofisiologia perché mi sono formato in biologia con Francisco Varela, ossia con colui che ha operato una vera e propria rivoluzione nella neurofisiologia della percezione. Il punto che mi interessava era l’ibridazione tra cervello e macchina. Che cosa succede con questa ibridazione? Innanzitutto, non è detto che l’ibridazione, per essere efficace, debba essere necessariamente di natura anatomica.

Abbiamo studiato il GPS, il navigatore, il telefonino, cercando di capire che cosa succede al cervello quando si utilizzino macchine ausiliarie. Tutto questo non ha niente a che vedere con l’ibridazione anatomica. L’impianto cocleare è un’ibridazione anatomica. Noi invece abbiamo lavorato in un’altra direzione, chiedendoci se un’ibridazione per promiscuità possa pro-vocare un cambiamento, prima fisiologico e poi anche anatomico.

Sono noti gli effetti della scoperta della cosiddetta plasticità cerebrale, ossia il fatto che il cervello ha sempre la facoltà di svilupparsi o di involver-si. Abbiamo così, sperimentalmente, costituito due gruppi, uno di controllo e uno che svolgeva un’azione. Un primo gruppo era costituito da autisti di taxi di Parigi che conducevano il loro mezzo con l’ausilio del GPS; un secondo gruppo era costituito da irlandesi che conducevano il taxi a Londra normal-

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mente, senza l’ausilio del navigatore elettronico. Dopo tre anni di conduzio-ne del taxi con il GPS, i giovani taxisti parigini presentavano un’atrofia lo-calizzata a livello del nucleo subcorticale, ossia dell’area cerebrale deputata all’orientamento e alla cartografia spazio-temporale. Questo non significa semplicemente sbagliare la destra con la sinistra, ma qualcosa di ben più grave: la perdita del senso di orientamento.

Plasticità cerebrale e delega di funzioni Si tratta di un meccanismo tipico del cervello: la delega di funzioni.

Quanto una funzione può essere svolta da un terzo, per esempio da un altro animale o da una macchina, il cervello la elimina da sé. Nell’evoluzione del-la specie questo processo di delega è assolutamente fondamentale. C’è sem-pre, infatti, una funzione di delega tra le specie.

Ora, quando delego la funzione cartografica spazio-temporale al GPS, attivo semplicemente la funzione ON-OFF. Non è questa, ovviamente, la funzione che può attivare un pensiero complesso. Sappiamo per esempio la molteplicità di processi che può attivare un giovane quando risolve una radi-ce quadrata, un logaritmo, quando cioè svolge operazioni più o meno com-plicate che non sono immediatamente intuitive. Si sviluppa un’intera archi-tettura cerebrale, si attivano neuroni che fanno di nuovo rete tra loro. Quan-do schiaccio un pulsante per avere la soluzione, ho sì la soluzione, ma man-ca totalmente lo sviluppo di questa complessità cerebrale. Fare una radice quadrata non è granché utile nella vita in generale, tuttavia l’architettura complessa che si attiva facendola serve per altre cose, per esempio nel mo-mento delle elezioni politiche, per uscire quindi da una semplice applicazio-ne meccanica della funzione ON-OFF.

Abbiamo poi condotto ricerche intorno alla memoria. Una memoria sana è fondata su due principi fisiologici: la dimenticanza e la modifica del ricor-do. Se una memoria non può dimenticare e non può modificare il ricordo, si ingenera una patologia grave. Dunque, se delego la funzione memoria alla macchina, insorge un problema. Siamo al cospetto di un cambiamento fon-damentale. Noi non sappiamo che cosa sia questo organismo nuovo che fun-ziona in rete per delega di funzione e per riciclaggio, rispetto a un vivente che fino a questo momento funzionava in un modo diverso.

Certo non dobbiamo vedere tutto ciò con paura, diventando tecnofobici. L’ibridazione è un dato di realtà. Un punto di vista antropologico consente

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per esempio di capire che il fatto di funzionare con un cervello in rete è una cosa che l’umanità ha fatto, più o meno, sempre. Una tribù funziona, per dir così, con il cervello in rete. Non tutti gli individui che la compongono hanno le stesse funzioni cerebrali. Il funzionamento in rete non è di per sé un pro-blema. E anche per quanto riguarda gli uomini e le donne della modernità, è un mito quello di credere che ognuno di noi abbia un cervello centralizzato che pensa tutto. Noi crediamo di pensare tutto, ma in realtà funzioniamo molto più in rete di quanto presumiamo.

Il mito dell’autonomia è un mito tipico della modernità: «io sono» – e di ciò tutti siamo convinti – «un uomo che pensa con la propria testa». Eraclito, che non conosceva Turing, diceva: «guarda questi dormienti che pensano di essere autori del loro pensiero!». Noi siamo tutti un po’ dormienti perché pensiamo di essere autori del nostro pensiero.

Di per sé, dunque, non è un problema quello di non essere gli autori del nostro pensiero, perché questo è un mito. La questione vera è la nuova rete di distribuzione. Tale rete è infatti intrappolata dalle macchine che funzio-nano senza limiti e secondo le ferree logiche della macroeconomia. È una visione macroeconomica e semplicistica del mondo quella che ci porta a credere che tutto sia quantitativo e che non sia possibile alcuna visione qua-litativa. È il “mondo Lego”, l’universo dell’uomo modulare.

Il vero problema, oggi, è che siamo al cospetto di due utopie: un’utopia che afferma essere il mondo pieno di senso, ossia l’utopia dell’integrismo religioso, delle sette; e l’utopia individuale, nichilista, che afferma il mondo essere privo di senso.

Riscoprire il limite e il suo senso Provo a formulare il concetto ricorrendo a un esempio. Una psichiatra

che fa supervisione con me mi ha raccontato una storia. Un suo paziente di 22 anni non si è presentato ai tre ultimi appuntamenti con lei, adducendo come motivazione il fatto che, siccome nel suo telefonino l’applicazione agenda non funziona, se ne era totalmente dimenticato. Se un paziente di più di 40 anni non si presenta all’appuntamento, la cosa ha un senso. Puoi ra-gionare sul motivo e sulle ragioni che lo hanno indotto a dimenticarsi. Il ventiduenne, invece, che è ibridato e che vive in un sistema di delega di fun-zioni, non ha alcuna ragione per la dimenticanza se non il fatto che l’applicazione non funzionava.

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È un piccolissimo esempio per capire come, per il momento, l’ibridazione fra il mondo digitale e il mondo della cultura e dell’uomo im-plichi una perdita di senso; perché il senso dipende assolutamente dalla limi-tazione dell’organismo. Non c’è un senso se non c’è un limite e il limite è la condizione di ogni senso e di ogni possibilità.

Quando alcuni miei colleghi vorrebbero cancellare la morte, il limite ecc. danno vita, spesso inconsapevolmente, a nuova utopia, molto pericolosa: quella del potenziamento senza limiti. Sono sinceramente convinto che dob-biamo tralasciare ogni illusione nostalgica di tornare indietro, di guardare il futuro con l’occhio fisso sullo specchietto retrovisore. Dobbiamo tuttavia anche lasciar perdere ogni fascinazione di una fuga in avanti.

Finora, l’high tech, la tecnologia avanzata ha colonizzato il mondo del vivente e della cultura; oggi la sfida è colonizzare questa alta tecnologia po-nendola al servizio del vivente e della cultura.

Allo scopo, dobbiamo incentivare una riflessione viva e vitale sui limiti, che non possono derivare né da un’autorità religiosa, né da un’autorità mo-rale o filosofica. Il limite deve essere trovato internamente, nello sviluppo della cultura e della biologia. �

Il Margine 36 (2016), n. 5

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Scienza, religione

e comportamento morale

PIERGIORGIO CATTANI GIOVANNI STRAFFELINI

metodi della scienza possono essere usati con successo anche per indaga-re il comportamento dell’uomo, compreso quello religioso. L’importante

è usarli con accortezza ed evitare – per quanto possibile – valutazioni ecces-sivamente semplificate o parziali, come quelle esposte da Girotto e Vallorti-gara nel loro recente articolo Così è nato il timor di Dio, pubblicato il 10 aprile 2016 sulla “Domenica del Sole24Ore”.

Il tema riguarda la nascita delle religioni e, in particolare, il senso morale insito in determinate credenze. La visione scientifica più diffusa sostiene che la prospettiva religiosa sarebbe scaturita da una visione fortemente antropo-morfa dei nostri progenitori, che li spingeva a interpretare ogni evento natu-rale come intenzionale, e dunque causato da una o più divinità. Naturalmen-te ciò che destava maggiore coinvolgimento e inquietudine erano soprattutto gli eventi negativi, quelli che comportavano disgrazie o sfortune. Essi dipin-gevano dunque le divinità come irascibili e vendicative, che potevano essere rabbonite solo con sacrifici, ritualità e atteggiamenti di ossequio e sottomis-sione. La concezione del divino – spiegano Girotto e Vallortigara nell’articolo citato – subì una notevolmente trasformazione nel periodo tra il 500 e il 300 a.C., con la nascita di nuove dottrine, come il confucianesimo, l’induismo e lo stoicismo, che misero in primo piano il comportamento mo-rale dell’uomo, caratterizzato da compassione verso il prossimo, moderazio-ne, vita quotidiana disciplinata. L’interpretazione classica attribuisce tale cambiamento al comportamento cooperativo all’interno dei gruppi sociali, favorito dalle prescrizioni di queste dottrine che sostenevano i comporta-menti morali; esso avrebbe reso tali gruppi più coesi, fornendo loro un note-vole vantaggio competitivo rispetto ai gruppi indeboliti da lotte intestine per il potere e l’acquisizione di vantaggi e privilegi di vario tipo.

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Girotto e Vallortigara sostengono che la “freccia causale” potrebbe però andare nell’altra direzione: «si potrebbe in effetti pensare che all’origine delle religioni morali vi sia lo sviluppo umano e non il contrario». Non fu-rono dunque i codici morali sostenuti dalle religioni (e, per il credente, in-stillati da Dio nella coscienza dell’uomo, mediante una rivelazione dall’esterno o un’intuizione interiore) a favorire comportamenti vantaggiosi per sé e per il gruppo di appartenenza, ma sarebbe stata la crescita economi-ca e la conseguente ricchezza a favorire la comparsa delle dottrine morali. Tale idea sarebbe supportata da una recente ricerca, coordinata dallo psico-logo francese Nicolas Baumard1, che ha studiato proprio i fattori economici e sociali alla base del grande cambiamento osservato nel 500/300 a.C. in di-verse regioni del mondo. Ma perché una maggiore ricchezza avrebbe favori-to la nascita di religioni morali? Girotto e Vallortigara condividono una del-le proposte di Baumard e collaboratori, e ritengono che vivere in ambienti poveri favorisce strategie a breve termine (meglio l’uovo oggi, si potrebbe dire), mentre una maggiore ricchezza stimolerebbe comportamenti a lungo termine (la cooperazione, in attesa, per esempio, della gallina domani).

Ora, è evidente che questa interpretazione, come un po’ tutte quelle pro-poste da questo tipo di studi, è abbastanza controversa, e proprio il metodo scientifico dovrebbe stimolare maggiore approfondimenti prima di trarre conclusioni troppo semplicistiche in un verso o nell’altro. Un editoriale sullo stesso numero di “Current Biology”2, la rivista che ha pubblicato il lavoro di Baumard, evidenzia come un recente lavoro di Botero e collaboratori abbia mostrato come la credenza in divinità moralizzanti sia prevalente in società povere, suggerendo dunque come le religioni a sfondo morale nascono dove la sopravvivenza è più difficile rispetto a un contesto dove ci sono maggiori agi e ricchezze. Una visione opposta a quella sponsorizzata da Girotto e Val-lortigara. Tale considerazione appare peraltro in accordo con la situazione attuale: la sensibilità religiosa è più diffusa nelle società povere che in quelle ricche. Altre valutazioni propendono per una direzione causale tra atteggia-mento morale e vantaggio economico. Per esempio, è facile mostrare come tale causalità comporti una maggiore cooperazione tra i membri del gruppo grazie ai vantaggi dovuti a soluzioni del dilemma del prigioniero promossi

1 Nicolas Baumard, Alexandre Hyafil, Ian Morris, Pascal Boyer, Increased Affluence Ex-

plains the Emergence of Ascetic Wisdoms and Moralizing Religions, in “Current Bi-ology”, 25, Issue 1, 5 January 2015, pp. 10-15.

2 Konika Banerjee, Paul Bloom, Religion, More Money, More Morals, in “Current Biolo-gy”, 25, Issue 1, 5 January 2015, pp. R37-R38.

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dalla visione religiosa e morale (in tale contesto si parla anche di “etica effi-ciente”).

Per il credente, naturalmente, tutte queste osservazioni sono interessanti, ma non decisive per quanto riguarda la sua fede. Nulla impedisce, infatti, di vedere nei meccanismi dell’evoluzione per selezione naturale – comunque si siano dispiegati nel tempo – il modo tramite il quale Dio ha indirizzato il suo Logos creativo. E nulla vieta di pensare – anzi! – che l’evoluzione cultu-rale dell’uomo abbia aiutato, e aiuti ancora, a perfezionare la comprensione di Dio (prima vendicativo, poi amorevole). Quello che desta maggiori per-plessità è però l’approccio generale di questi studi e che pure i due studiosi sembrano avere nei confronti delle religioni, in particolare dell’atteggiamento dei credenti. È abbastanza limitativo pensare – per esem-pio – che una persona di fede si comporti in un determinato modo sempli-cemente perché ha timore che Dio le infligga una punizione ora o nell’aldilà, oppure per ottenere un premio. Sottesa a questa impostazione sta un sottile pregiudizio verso i credenti, giudicati alla stregua di bambini, a fronte degli “adulti” scienziati. Ciò non fa bene al dibattito intellettuale. �

Il Margine 36 (2016), n. 5

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Il logico dal volto umano

ALBERTO GAZZOLA

l 13 marzo scorso si è spento all’età di quasi novant’anni Hilary Putnam, il grande patriarca della filosofia americana e mondiale (nel 2013 aveva ricevuto il Rolf Schock Prize, l’equivalente del Nobel per la filosofia). Poco noto (purtroppo) al grande pubblico, era considerato uno dei mag-

giori filosofi viventi, una figura monumentale della filosofia a ragione della vastità impressionante di interessi e contributi, oltre che per il ruolo ecume-nico di grande “ricucitore” delle fratture che affliggono il pensiero contem-poraneo (all’interno della filosofia, tra scienze e umanesimo, tra cultura e società). Fornì contributi rilevanti in filosofia della logica, della matematica e della fisica (e in filosofia della scienza generale) ed elaborò celebri tesi in filosofia del linguaggio e della mente. Ma si occupò anche di etica e filoso-fia morale, di filosofia della politica, di ontologia, metafisica, filosofia della religione. Un pensatore a tuttotondo, che non amava etichette e limitazioni di campo.

Di formazione analitica (la filosofia dominante nel mondo anglo-americano), era stato in gioventù un valente matematico (contribuendo alla risoluzione di uno dei celebri problemi di Hilbert), oltre che tra i pionieri delle allora nascenti scienze cognitive. Il padre era un famoso traduttore e Putnam passò l’infanzia in Francia, assorbendo precocemente una grande attenzione per la letteratura e il linguaggio (laureandosi in germanistica, ma-tematica e filosofia – tra parentesi, perché in Italia, a differenza degli altri paesi, non vengono permessi questi percorsi universitari ibridi tra scienze e humanities?), tema che poi avrebbe sviluppato in senso filosofico. Poliglot-ta, oltre all’inglese parlava correntemente francese e tedesco (e leggeva di-verse altre lingue e le relative letterature, in particolare il romanzo russo di Tolstoj e Dostoevskij). La madre era di origine ebraiche, ma la famiglia era di estrazione complessivamente laica, impegnata politicamente negli am-bienti della sinistra americana. Egli stesso in gioventù militò negli ambienti politici radicali, ma se ne staccò ben presto.

La fama filosofica, dopo il dottorato con il neopositivista Reichenbach (dissertazione in filosofia della fisica), lo raggiunse negli anni Sessanta, gra-zie a una brillante e creativa serie di lavori in filosofia del linguaggio (svi-luppando una concezione causale del riferimento) e in filosofia della mente.

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Fu uno dei promotori del funzionalismo (per poi distaccarsene in seguito), una concezione per molti aspetti anti-materialistica e anti-dualistica della mente pensata come un processo emergente, secondo la quale gli stessi stati della mente, paragonati a stati computazionali, potrebbero essere implemen-tati in modo diverso su differenti supporti, organici o inorganici che siano («ciò che importa è il software, non l’hardware»).

Celebri i suoi esperimenti mentali di “Terra gemella” e dei “Cervelli in una vasca”, esempi paradigmatici dal sapore fantascientifico volti ad argo-mentare l’esternalismo semantico («I significati non stanno nella testa», ov-vero la tesi secondo la quale esisterebbero, oltre a quella soggettiva, una componente ambientale-contestuale e una sociale del linguaggio) e a soste-nere il realismo in varie forme (nel secondo esempio, anticipando il film Matrix, uno scienziato pazzo riesce a tenere in vita dei cervelli separandoli dai corpi e facendo vivere ai soggetti l’illusione di una realtà immutata gra-zie alla connessione con dei super-computer). Putnam argomenta in sostanza che non abbiamo motivi per essere scettici riguardo alle nostre capacità co-gnitive, alla capacità del linguaggio di mettere in relazione mente e mondo (ma nel secondo esperimento mentale va ben oltre, portando solidi argomen-ti anti-scettici contro la classica tesi del dubbio metafisico per eccellenza – già discusso da Cartesio, per esempio – sulla veridicità e affidabilità dell’esperienza del mondo così come lo conosciamo intuitivamente).

Uno delle questioni centrali della riflessione di Putnam fu appunto quella del realismo, una tesi (o meglio una famiglia di concezioni) di filosofia della scienza, ma più in generale metafisica, che pone come centrale la credenza nell’esistenza degli enti postulati dal senso comune e/o dalle teorie scientifi-che, in contrasto alle posizioni fenomeniste dei neopositivisti (e in genere di scientisti e riduzionisti, specie riguardo agli enti del primo tipo) e a quelle costruttiviste degli anti-realisti, degli idealisti vecchi e nuovi, e dei relativi-sti. Conobbe a riguardo varie fasi, accogliendo in parte alcune istanze co-struttiviste quando passò dal realismo “metafisico” a quello “interno” (di ispirazione kantiana), per poi tornare a un pluralistico realismo “del senso comune” (e a quello che la critica più recente ha battezzato come “naturali-smo liberale”), avvicinandosi in questo alle idee dei pragmatisti e di Witt-genstein.

Veniva spesso bersagliato dai suoi avversari per i repentini cambiamenti di direzione, ma un’incessante autocritica era tra le virtù intellettuali che ap-prezzava e praticava maggiormente: la candida ammissione dei propri errori e l’accoglienza dei suggerimenti altrui, anche dell’ultimo dei suoi studenti, erano elementi centrali della sua pedagogia.

Era profondamente interessato alla scienza senza idolatrarla (anzi: scien-

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tismo e riduzionismo erano tra i suoi maggiori bersagli polemici), ma aveva anche una forte sensibilità etica, una delle ragioni per le quali contrastava certe tendenze relativistiche (“irresponsabili”) arrivando infine a postulare un certo grado di oggettività per i valori stessi (epistemici o morali che sia-no), nozione ritenuta compatibile con una prospettiva nel complesso plurali-sta e fallibilista, centrata sull’oltrepassamento della celebre dicotomia fat-ti/valori («senza i valori non ci sarebbero neppure i fatti»).

Rifuggiva i luoghi comuni che spesso affliggono i filosofi, in particolare l’oscurità della scrittura, le mode (ci sono mode anche tra i filosofi!) e le eti-chette di scuola (analitico, continentale, pragmatista ecc.), sentendosi libero di spaziare anche in ambiti normalmente considerati tipici dei filosofi euro-peo-continentali, come la storia della filosofia (soprattutto Kant, William James, Dewey, Wittgenstein), la filosofia morale, il pensiero politico e quel-lo religioso (Kierkegaard, Buber, Rosenzweig, Levinas).

Da un iniziale materialismo e ateismo, sentì progressivamente l’esigenza di tornare alla fede dei suoi avi, in età matura imparò l’ebraico – oltre al greco antico per studiare i testi originali di Aristotele – e all’età di 68 anni fece il bar mitzvah, l’atto liturgico ufficiale di adesione all’ebraismo.

In un’era tecnologica dominata dalla scienza, Putnam riteneva che la fi-losofia fosse ancora essenziale, nonostante lo stato di crisi interna che, per certi versi, la caratterizza attualmente. Le due correnti dominanti, la filosofia analitica e quella europeo-continentale, tendono infatti a ignorarsi, se non a contrastarsi. Mentre la prima privilegia la chiarezza logica e argomentativa, finendo però spesso per perdersi in tecnicismi o in questioni minute per rin-correre un controverso ideale di scientificità, la seconda preferisce l’analisi storica e le grandi visioni, mancando spesso però di profondità argomentati-ve, trascurando le questioni attuali e, in alcuni casi, proponendo visioni più o meno apertamente nichilistiche. Entrambe poi soffrono in genere di uno sta-to di scarsa considerazione popolare e di una certa ostilità in certi ambienti culturali, scientifici o politici.

Putnam concepiva al contrario la filosofia non solo come un’importante opera di critica e chiarificazione concettuale (in rapporto costruttivo con le scienze), ma anche esistenziale, una sorta di educazione permanente degli adulti, in un’ottica di fioritura umana, essenziale in una società autentica-mente democratica. Di certo non approvava nessuna delle varie diagnosi di “fine della filosofia”, sia interne al pensiero filosofico (Heidegger, Wittgen-stein, Rorty ecc.) che esterne (soprattutto l’idea che la filosofia non abbia più valore e debba essere abbandonata o rimpiazzata dalle scienze e da qual-che forma di retorica).

Mi permetto di concludere con una nota personale, avendolo incontrato

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un paio di volte e scambiato qualche idea per via epistolare. Putnam era molto distante da certe figure ieratiche, baronali o televisivamente saccenti di intellettuale. Dotato di un sano senso dell’umorismo (celebre la sua risata un po’ sgraziata), era una persona di grande profondità, serietà, umiltà, gen-tilezza, che non esitava a dare un consiglio o un aiuto a nessuno (al sotto-scritto aveva suggerito di spendere la borsa Fulbright a Chicago per studiare con i suoi allievi, dato che lui era andato in pensione).

Con la sua scomparsa il panorama filosofico sarà più vuoto d’ora in poi. Ma possiamo sperare che il suo grande esempio intellettuale e umano resti vivo e fecondo (chi desidera saperne di più può consultare questo sito: put-nam.altervista.org). Su queste pagine vogliamo offrire un’antologia dei suoi scritti, dedicata da un lato al rapporto tra umanesimo e scienza, dall’altro all’immagine di Dio secondo la filosofia.

Hilary Putnam: Letteratura, scienza e riflessione1 [Si] può discutere in modo razionale il problema «come vivere»? Natu-

ralmente, chi ha una moralità, almeno nel senso di essere pervenuto ad uno «stile» o ad un insieme di abitudini di vita, e anche chi ha riflettuto sul suo stile di vita, ed è cosciente di avere ciò che si chiama carattere, e accetta, o pensa che dovrebbe accettare, certe critiche che possono essere mosse al suo carattere, [...], può respingere qualsiasi critica più radicale alla sua moralità, o carattere, dicendo semplicemente «ebbene, è così che mi va di vivere», oppure «questo modo di vivere fa per me». Se la maggior parte del-le persone mettesse a tacere, in questo modo, qualsiasi critica che non fosse quella assai superficiale dei mezzi/fini, un’istituzione come la moralità non nascerebbe né potrebbe mai nascere. […] A noi, alla maggior parte di noi, interessa giustificare almeno alcuni tratti del nostro stile di vita, nel senso di darne una difesa che gli altri accettino come giustificazione. […] noi non solo vogliamo avere una moralità accettabile dai più, vogliamo allo stesso tempo che la nostra moralità ci lasci un largo margine di «spazio discrezio-nale». Una moralità che ci imponesse un obbligo in ogni circostanza imma-ginabile sarebbe intollerabile.

Tuttavia, il fatto è che una volta che ci si rende conto che il ragionamen-to morale non si svolge in un vuoto cartesiano, ma ha luogo nel contesto del

1 Estratti tratti da Literature, Science and Reflection, in “New Literary”, vol. VII, 1975-76.

Ristampato come parte II di Meaning and the Moral Sciences, Routledge & Kegan Paul, London 1978 (edizione italiana: Verità e etica, Il Saggiatore, Milano 1982).

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tentativo delle persone di rispondere alle critiche che vengono rivolte al lo-ro carattere e del tentativo di giustificare certi modi di vita di fronte ad altre persone, e di criticare i modi di vita di altre persone, ecc., adducendo ra-gioni che abbiano un qualche interesse generale, ci si rende conto che il problema dell’obiettività dell’etica si pone in un modo completamente nuo-vo o si rivela sotto una luce assolutamente diversa. La questione se vi sia una moralità obiettivamente migliore, o anche più moralità obiettivamente migliori, le quali, auspicabilmente, concordino su moltissimi principi o in moltissimi casi, si riduce alla questione se i requisiti che sorgono automati-camente una volta che ci si impegni nell’impresa di dare una giustificazione di principi di vita che sia di interesse generale, selezionino un’unica morali-tà come migliore o un complesso di moralità coincidenti su diverse questio-ni di rilievo.

[…] Si noti, incidentalmente, che la conoscenza pratica non è conoscen-za scientifica; ma ciò non vuoi dire che la conoscenza pratica sia una specie di conoscenza trascendentale. Si è perfettamente in chiaro su quello che, al presente, nel caso della conoscenza pratica, «trascende» la teorizzazione o la formalizzazione rigorosamente scientifiche. La ragione per cui la cono-scenza, diciamo, del vino o della cucina non è conoscenza scientifica è che il criterio per giudicare della buona cucina o del buon vino è un palato umano soddisfatto — per giunta non un palato qualsiasi. […] Quello che apprezzo nell’approccio di Grice e Baker è l’indicazione che quello morale può essere considerato come un vero e proprio ragionamento, che però non investe solo le capacità logiche, in senso stretto, bensì tutta la nostra capa-cità di immaginare e sentire, in breve, tutta la nostra sensibilità.

È a questo punto che vorrei parlare di letteratura. Da molto tempo or-mai la letteratura ha rifiutato di essere, o di essere principalmente, un vei-colo di diffusione di una moralità, di una filosofia, o di una ideologia. […] La pratica letteraria non coincide con quella retorica, morale o ideologica. Di solito, la letteratura non consente raffigurazioni di modi di vita ideali. La letteratura non descrive, o non descrive spesso, soluzioni. L’effetto del ro-manzo in particolare è di aiutarci a riprodurre immaginativamente perples-sità morali, nel senso più lato. […]

Ora, ritengo che se il ragionamento morale è, a livello riflessivo, la cri-tica cosciente dei modi di vita, la valutazione empatica, nell’immaginazione, delle situazioni critiche e dei dubbi non può che essere essenziale al ragio-namento morale. Romanzi e commedie non ci offrono conoscenza morale, questo è vero. Ma ci danno (spesso) qualcosa che è per noi indispensabile se vogliamo acquistare una conoscenza morale. […]

Mentre, dal punto di vista dei problemi morali e più in generale umani e

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sociali, è comprensibile il nostro atteggiamento disincantato nei confronti della scienza, mi pare fondamentalmente sbagliata una tesi contro la scien-za che ho sentito sostenere da alcuni miei colleghi umanisti.

Mi è capitato una volta di assistere, nel corso di un seminario a Prince-ton, all’intervento di un gruppo di docenti di discipline umanistiche in una discussione di scienziati. L’opinione generale era che gli scienziati sono persone zotiche, ignoranti, le cui letture letterarie non vanno mai al di là dell’ultimo numero del Reader’s Digest. Parecchi intervenuti aggiunsero che gli scienziati sono presuntuosi anche fuori (specialmente fuori) dalle loro specialità professionali, e che sono socialmente pericolosi perché cre-dono di poter autorevolmente dare consigli ai governi, è perché i governi possono lasciarsi intimidire dalle loro credenziali scientifiche e seguire i loro consigli su problemi politici. Questa pretesa [...] fu qualificata come «semplicistica».

Gli umanisti non videro nulla di strano nel presentare se stessi come «cauti», «consapevoli della complessità delle cose», ecc., anche se non po-chi intellettuali umanisti in questo secolo si sono buttati su mode come la psicanalisi, l’esistenzialismo (questo vale per gli intellettuali europei), e qualcosa descritto vagamente [...] come «rivoluzione sessuale». Quale scienziato degno del nome è stato disposto ad affermare a chiare lettere che tutti i sogni sono «appagamenti di desideri»? Che tutta la vita umana è pri-va di senso, se non nella misura in cui un senso le venga dato con un atto di «impegno» assolutamente arbitrario? Che è necessaria una «rivoluzione sessuale» totale (e totalmente non descritta)? Gli umanisti sono fin troppo disposti a ricordare che queste dichiarazioni sono le dichiarazioni di una minoranza tra loro, e a dimenticare che le dichiarazioni avventate riguardo a problemi politici fatte dagli scienziati sono le dichiarazioni di un’altrettanta esigua minoranza della comunità scientifica. Naturalmente, sia gli scienziati che gli umanisti si sono a volte resi colpevoli di aver ap-poggiato questa o quella forma dl discriminazione, questo o quel tipo di co-lonialismo ecc.; d’altra parte sia gli uni che gli altri si sono anche battuti per un mondo migliore.

Fortunatamente per i miei scopi attuali, non è necessario discutere a fondo questa tesi, fatta com’è di opinioni preconcette sugli scienziati che non avrebbero eccessivo peso sul valore o sulla natura della scienza anche se dovessero rivelarsi corrette. Interessante è invece la tesi secondo la qua-le, per così dire, Euripide, Freud, e Dostoevskij sono «tutto ciò che ci sia al mondo e tutto ciò che c’è da sapere».

Che dire al riguardo? È difficile pronunciarsi; perché, a parte la que-stione spinosa della validità della psicanalisi, indubbiamente Medea e I Fra-

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telli Karamazov sono opere d’arte grandiose e commoventi. Noi siamo es-senzialmente esseri umani, e queste opere ci commuovono in quanto esseri umani. Ma perché l’attribuire un alto valore all’arte dovrebbe essere in-compatibile con l’attribuire un alto valore alla scienza, e un alto valore ad altre cosa ancora?

Ci avviciniamo al problema reale se ci rendiamo conto che secondo al-cuni – secondo i pensatori che intendo criticare – il valore, ad esempio, di Dostoevskij non è puramente estetico come puramente estetico è invece, o si pensa a volte che sia, il valore di un quadro astratto. Questi pensatori sono dell’opinione che i drammaturghi greci, la psicologia freudiana, e il roman-zo russo rappresentino vera e propria conoscenza – conoscenza dell’uomo. Pertanto, sono e insieme non sono in conflitto con la scienza. Sono in con-flitto con la scienza in quanto rappresentano un tipo di conoscenza antago-nistica, e contestano quindi alla scienza il diritto al monopolio della cono-scenza attendibile. Ma si tratta di un tipo antagonistico di conoscenza, e perciò inaccessibile al controllo scientifico. Se aggiungiamo a questo la pre-tesa che questo tipo antagonistico di conoscenza sia in qualche modo «più alto o più importante della conoscenza scientifica», ecco che otteniamo una posizione sfacciatamente oscurantista; certamente, non la posizione dello studioso di letteratura serio o del critico letterario serio, ma la posizione della religione della letteratura. Non intendo insinuare che non vi è assolu-tamente nulla di buono in questa tesi; ma quando la tesi viene discussa ci si trova subito coinvolti in problemi spinosi e difficili. Ecco perché avanzo con una certa esitazione le considerazioni che seguono sul senso in cui, ad esempio, il romanzo rappresenta e non rappresenta «conoscenza dell’uomo».

Trovo che sia sbagliato dire che i romanzi offrono conoscenza dell’uomo; ma trovo altrettanto sbagliato affermare categoricamente il con-trario. La situazione è molto più complessa di quanto possa apparire da una semplice dichiarazione nell’uno o nell’altro senso. Per quanto profonde possano sembrare le intuizioni psicologiche di un autore di romanzi, esse non possono dirsi conoscenza se non sono state sottoposte a controllo. […] Cionondimeno, è improprio dire che non è affatto conoscenza; essere con-sapevoli di una nuova interpretazione della realtà, per quanto ripugnante essa sia, essere consapevoli di un’interpretazione, per quanto perversa essa sia, che può [...] essere data della realtà, è un tipo di conoscenza. È la co-noscenza di una possibilità. Conoscenza concettuale.

Sembrerà strano che si definisca conoscenza concettuale qualcosa di tanto reale ed «empirico» come una raffigurazione del comportamento degli esseri umani e di ciò che «li fa funzionare così»; ma non è che questo, a

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meno di un controllo; un controllo, se non scientifico, almeno nell’esperienza reale di uomini e donne razionali e sensibili.

Prendere in considerazione un’ipotesi cui non si era pensato prima è una scoperta concettuale, non una scoperta empirica, quantunque possa dar luogo a una scoperta empirica se l’ipotesi si rivela corretta. Tuttavia, la «conoscenza di una possibilità» che ci offre la letteratura non dovrebbe es-sere conoscenza di una mera possibilità. Che la possibilità che Celine ci prospetta sia una «mera» possibilità è, dopotutto, una delle ragioni per cui non stimiamo più di tanto Celine come romanziere. Così, la situazione si complica un’altra volta; sono presenti insieme elementi empirici e concet-tuali nella conoscenza che acquisiamo dalla letteratura.

Ma, si obietterà, “l’ipotesi” dello scrittore di romanzi non è suscettibile di controllo scientifico. Non è quel genere di ipotesi. Ciò è vero spesso, ma non sempre. Se Celine avesse ragione – se tutti quelli che sembrano esempi di amore fossero in realtà egoismo camuffato della peggiore specie – sono quasi certo che non sarebbe difficile trovare le prove empiriche più svariate di questo fatto. Forse il problema qui è che gli operazionisti hanno convinto troppe persone che tutto le ipotesi scientifiche portano in faccia il marchio della loro controllabilità, e quindi che qualsiasi asserzione la cui controlla-bilità non sia evidente non può assolutamente appartenere alla sfera della scienza! Ma questa è una caricatura grossolana della scienza, anche se molti scienziati sono stati abituati a darvi credito. Molto spesso, il genio di uno scienziato consiste proprio nel suggerire un modo per controllare un’asserzione che non sembrava minimamente controllabile.

[…] Pensare che il romanzo in quanto tale ci offra un qualche tipo di conoscenza non scientifica dell’uomo significa assimilarlo troppo a un in-sieme di proposizioni. Ho detto all’inizio che c’è un senso in cui si può par-lare di «conoscenza non scientifica dell’uomo»; la conoscenza morale, se non «conoscenza non scientifica dell’uomo» nel senso degli intellettuali a cui ho appena alluso, è conoscenza pratica di come vivere; e la conoscenza pratica non è «scientifica», nel senso della conoscenza teorica. Inoltre, la conoscenza pratica, come abbiamo visto prima, investe interamente le no-stre facoltà di sentire e immaginare. Su un punto credo avessero ragione le persone cui mi sono riferito sopra, e cioè, che la letteratura ha in qualche modo a che fare con un tipo di conoscenza che è vicino al nucleo dell’interesse morale e che non è «conoscenza scientifica» in nessun senso ragionevolmente standard. Ma dire che la letteratura «dà» conoscenza non scientifica dell’uomo semplifica troppo la questione.

Esattamente come alcuni pensatori tendono a considerare la letteratura come conoscenza, così altri pensatori tendono a considerare la scienza co-

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me una filosofia. Questa propensione a considerare la scienza come una fi-losofia è comprensibile. Molti problemi tradizionalmente filosofici – ad esempio, l’infinità dello spazio e del tempo, e la natura dello spazio, del tempo, e della materia – sono stati lasciati alla fisica, dalla maggior parte dei filosofi di buon senso. Al massimo, il filosofo di professione confida di poter chiarificare i risultati del fisico. Lo stato delle scienze sociali è, per molte ragioni, peggiore di quello delle scienze fisiche; ma qui c’è almeno la speranza, in larga misura non ancora realizzata – che le scienze sociali e la psicologia possano un giorno gettare vera luce sulla natura della società e dell’uomo. È certo che pochi filosofi di qualsiasi indirizzo scriverebbero og-gi sulla giustizia senta tener conto dell’economia, o sulla mente senza tener conto della psicologia. Ma se la scienza è una filosofia, finisce per essere solo metafisica e non anche etica; e la metafisica senza etica è cieca.

[…] Non sto dicendo che la scienza debba essere perseguita solamente per fini pratici o solamente per il progresso morale. Naturalmente, la cono-scenza per la conoscenza è e dovrebbe essere un «valore finale» per le per-sone di cultura. Ma temo che sia difficile non distorcere la rilevanza filoso-fica della scienza, per non parlare della sua rilevanza pratica, quando fra scienza e riflessione morale esiste una così rigida separazione come quella che si è venuta a creare nella nostra cultura.

La teoria della relatività riguarda certo la natura della materia, dello spazio, e del tempo; ma riguarda anche, ad esempio, la natura e la possibi-lità della certezza umana nella loro globalità. Il rovesciamento della geome-tria euclidea non è stato semplicemente il rovesciamento di una teoria dello spazio. La geometria euclidea era il paradigma della certezza conquistato attraverso un ragionamento a priori, ma più ancora era il paradigma con-segnato al filosofo morale da Platone e da Spinoza. Come rendere il ruolo che l’ideale della certezza ha svolto nella nostra vita morale e intellettuale per più di duemila anni e considerare attentamente le implicazioni del suo crollo per l’argomento morale (e sociale e religioso) come pure per la scienza pura non è incompatibile con l’apprezzare la Relatività «per se stes-sa» — anzi, ciò non è separabile dalla comprensione di quelle conseguenze.

[…] Ho sostenuto che l’idea che la moralità sia puramente «soggettiva» e il suo corollario che il ragionamento morale sia o meramente strumentale (interessato alla selezione di certi mezzi per il conseguimento di fini arbitra-riamente scelti) o una contraddizione in termini sono idee devastanti, non soltanto per la moralità come tale ma per la cultura tutta. La sola condizio-ne per capire da una parte com’è che l’immaginazione letteraria ci aiuti davvero a comprendere noi stessi e la vita, e dall’altra com’è che la scienza abbia veramente relazione con i problemi metafisici, è che maturiamo

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un’idea adeguata di ragionamento morale, dove, per ragionamento morale, intendo non semplicemente il ragionamento sul dovere o la virtù, bensì il ragionamento morale nel senso più ampio – il ragionamento su come vivere.

Hilary Putnam: Dio e i filosofi2

Nel ventesimo secolo molti – forse la maggioranza – dei personaggi ce-lebrati in filosofia sono stati non credenti, se non atei militanti: Bertrand Russell, i positivisti logici, John Dewey, John Austin sul versante “anglo-sassone”, Heidegger (per molta della sua vita), Sartre, Derrida sul versante “continentale”, ne sono degli esempi. Ecco due casi di tale atteggiamento:

1) In Della grammatologia [...] Jacques Derrida descrive la credenza in Dio semplicemente come parte del passato, e si interroga con grande mera-viglia sul perché la credenza nell’esistenza della verità si rifiuti di scompari-re assieme alla credenza in Dio (non intendo suggerire che Derrida stesso non creda nell’esistenza della verità; egli si ritrova incapace di rapportarvi-si, e qui sta il problema, poiché egli vede tale credenza come storicamente e metafisicamente legata alla credenza in Dio, la qual cosa non ha più alcuna presa su di lui).

2) Alcuni anni fa, al termine di una recensione di Taylor [Sources of the Self: The Making of the Modern Identity, 1989], lodevole per altri aspetti, Bernard Williams accusava l’autore di non vedere “l’importanza principa-le” di Nietzsche, che consiste, secondo Williams, nel «sottolineare in tutti i modi il pensiero che, se le nostre aspirazioni morali non significano e non possono significare alcunché di ciò che sembrano significare, allora esse non hanno l’origine che sembrano avere, e un altro genere di indagine sarà necessaria per comprendere la presa che esse hanno su di noi.» [...]

Avendo io stesso scritto sulle idee metafisiche di Williams [...] ho una certa familiarità con il sistema di pensiero che sta dietro alla dichiarazione della Morte di Dio da parte di Williams [...]. Ciò che il lettore ordinario non può sapere è che Williams crede in qualcosa che egli chiama una “conce-zione assoluta del mondo”. La sua dichiarazione che non v’è “alcun ordine metafisico di sorta” non è per nulla un rigetto dell’impresa della metafisica. Williams ha anche spiegato [...] che la sua nozione di “una concezione as-soluta del mondo”, ossia una concezione del mondo come è “indipendente-

2 Estratti tratti da God and the Philosophers, Midwest Studies in Philosophy, vol. XXI,

The Philosophy of Religion, The Notre Dame Univ.Press, 1997 (traduzione di Alberto Gazzola).

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mente dalla prospettiva”, non è un semplice “assegno in bianco” in favore di qualche futura metafisica, poiché noi possediamo già nella “fisica attua-le” una specie di abbozzo o progetto dettagliato (sebbene con qualche det-taglio sbagliato qua e là) di tale definitiva concezione del mondo. In breve, tutto ciò che intende Williams nel rifiutare un “ordine metafisico” è il riget-to di ogni metafisica che vada oltre il materialismo. Nella visione di Wil-liams abbiamo già la metafisica finale: il materialismo. Noi sappiamo che non v’è un Dio; che è semplicemente una questione di scienza, o della sola conclusione ragionevole ricavabile dai fatti della scienza. E per quanto ri-guarda l’etica, le verità etiche, ci dice Williams, sono vere solamente secon-do la prospettiva di “questo o quel mondo sociale”; esse non possono esse-re affatto parte della concezione assoluta del mondo.

Se Williams ritiene che tale miscuglio di materialismo e relativismo cul-turale sia ciò al quale Nietzsche tendeva, il suo è un errore macroscopico; ma non intendo occuparmi di Nietzsche, bensì di due modi di pensare le questioni religiose ed etiche. Il primo, del quale Williams è stato un acutis-simo e assai sofisticato portavoce, poggia sulla convinzione che la scienza moderna ha risposto, o almeno abbia fornito un abbozzo soddisfacente di risposta, a tutti i problemi tradizionalmente trattati dalla metafisica, e la risposta semplicemente non lascia spazio alcuno alla religione (o a valori assoluti di alcun genere, per tale ragione) ad eccezione di un’ importante forma di evasione.

[...] Naturalmente se si trovano assurde le pretese dei pensatori riduzio-nisti – non importa se la pretesa che la stessa idea che i nostri pensieri ab-biano un determinato contenuto sia un’illusione, o la pretesa che le proprie-tà di riferimento e verità che fanno i pensieri essere pensieri possano essere ridotte a fatti di materia e causazione efficiente; se si pensa che la possibili-tà della conoscenza logica o matematica non possa mai avere senso in quanto si suppone che gli unici fatti genuini che ci possano essere sono fatti concernenti la materia e la causazione efficiente; se si ritiene insensata l’idea che la giustificazione o la conferma di una credenza possa essere solo una questione di causazione efficiente – allora questo impianto materialista dietro la dichiarazione di Williams della Morte di Dio può sembrare un po-co ingenuo. Nietzsche stesso non parlava come un filosofo che stava traendo conclusioni dalla “fisica attuale”, ma come un pensatore il cui senso della propria autonomia non gli permetteva di tollerare un Dio trascendente. L’atteggiamento provocante di Nietzsche è una posizione di impegno esi-stenziale tanto quanto quella religiosa di Kierkegaard; entrambi i pensatori avrebbero considerato un appello alla “fisica attuale” come la peggior forma di cattiva fede – non solamente perché ci si appella alla “fisica”, ma

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anche più per il fatto che ci si richiama a quella “attuale”. Credo che un atteggiamento assai differente possa essere trovato negli

scritti di Ludwig Wittgenstein. [Contrariamente a certe interpretazioni] il vero Wittgenstein disprezzava le istanze riduzioniste. E quando Wittgenstein, come tutti sanno, diceva che molto spesso è meglio pensare il significato di una parola come il suo uso nel linguaggio, egli certamente non intendeva l’uso di una parola come il seguire un’abitudine nel senso comportamenti-sta del termine, o come il seguire un programma nel cervello nello stile dell’attuale “IA” (Intelligenza Artificiale).

[…] Quando Wittgenstein parla nelle Ricerche Filosofiche (§25) della nostra “storia naturale”, egli parla del comandare, domandare, raccontare come parti di tale storia; non cerca di ridurre il comandare, il domandare, il raccontare a nozioni non normative come vorrebbero psicologi skinneriani e funzionalisti.

[…] Né Wittgenstein pensava che la verità sia determinata dalle regole, o dal verdetto dell’intera comunità. Per esempio, quando discute l’imparare a riconoscere se un’altra persona sta simulando un sentimento che non ha, Wittgenstein insiste che non si tratta qui di seguire delle regole, ma di per-cepire e apprezzare l’importanza delle “evidenze imponderabili”; e aggiun-ge che non tutti possono imparare a farlo. Niente potrebbe essere più lonta-no dall’idea che ciò che è giusto e sbagliato in un gioco linguistico sia me-ramente ciò che la comunità ritiene esserlo. […] è importante notare che, secondo tale interpretazione, qualcuno non in grado di vedere il “punto” di un gioco linguistico, e non in grado di porre sé stesso con l’immaginazione nella posizione di un giocatore impegnato, non può giudicare se i “criteri” siano applicati ragionevolmente o irragionevolmente in tale gioco. Com-prendere un gioco linguistico è condividere una forma di vita. E le forme di vita non possono essere descritte in un fissato meta-linguaggio positivistico, siano esse scientifiche, etico-religiose, storiche, politiche, critico-letterarie o quant’altro.

[…] Naturalmente non è solo l’intellettuale scientista a confondere i giochi linguistici scientifico e religioso; anche il fondamentalista che si at-tiene alla lettera quando deduce l’età della terra, o la falsità della teoria dell’evoluzione, o qualunque altra cosa, dalla sua lettura della Scrittura, confonde gli ambiti, e a discapito di entrambi. Ma questa confusione non è nuova: l’ammonizione di non prendere alla lettera, in termini di una descri-zione di fatti cosmologici, il passo biblico della creazione in sette giorni, non è un recente esempio di “teologia liberale”, ma qualcosa che risale si-no ai saggi del Talmud. I saggi insegnavano che la Bibbia non è un manuale di astronomia, storia o geografia. Essi scrivevano: “La Torah parla il lin-

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guaggio degli essere umani”. Per la stessa ragione, posso aggiungere, quando un pensatore ateo, co-

me Nietzsche o Rudolf Carnap, nega l’esistenza di Dio, ciò che asserisce non è parimenti da accertarsi sulla base della scienza empirica. Proprio come il serio pensatore religioso ritiene che l’esistenza di Dio sia necessa-ria, e per nulla una questione di contingenza empirica, l’ateo serio ritiene che l’esistenza di Dio sia, in un certo senso, impossibile, o come Carnap avrebbe detto “insensata cognitivamente”. Naturalmente anche molti atei oggi lo direbbero; infatti, molti atei parlano come se l’esistenza di Dio fosse insensata e falsificata empiricamente dalla scienza naturale! Ma ciò rivela la profondità della loro confusione.

[…] Per intendere cosa sto dicendo, si metta a contrasto l’insieme delle tre posizioni “esistenziali” che ho menzionato finora – la posizione di un credente come Kierkegaard, la posizione di Nietzsche (che combatte la reli-gione nel nome di una visione esistenziale), e la posizione di Wittgenstein [...] – con la posizione di Bernard Williams che ho citato all’inizio del sag-gio. Williams intende dire che dal punto di vista dell’Universo, non v’è Dio. Ma l’universo fisico non ha un “punto di vista”. E, come ho già notato, quella di Williams è sicuramente un’erronea interpretazione di Nietzsche; come molti dei miei lettori sanno, Nietzsche denunciava instancabilmente i filosofi che immaginavano che le loro prospettive, tutte troppo umane, fosse-ro “il punto di vista dell’universo”. La questione di quale debba essere il proprio atteggiamento nei confronti della credenza religiosa è una questione semplice se si è in grado di rimanere indifferenti al fatto che molti dei propri amici, e certamente molti dei nostri simili esseri umani – incluse le persone che si amano e rispettano – abbiano un diverso atteggiamento dal proprio, non importa quale esso possa essere. [...] Quando le persone che ami e ri-spetti differiscono da te per una questione che entrambi considerate della massima importanza, tu hai una profonda responsabilità, se vuoi fare giusti-zia a ciò che tu sei e a ciò che loro sono. E non c’è un “punto di vista dell’Universo” al quale cedere la responsabilità con una scrollata di spalle. Tale questione è una questione fondamentale, in quanto non solo la risposta ma anche i mezzi per rispondervi, e le risorse che vi apporti, devono essere scelte da te.

[…] Il grande timore di Wittgenstein […] è un certo tipo di scientismo. Quando le persone criticano i modi di vita religiosi, o i modi di vita di popo-li senza scrittura, o le scelte esistenziali che abbiamo discusso, dal punto di vista di ciò che essi chiamano “ragione”, Wittgenstein [...] ritiene che esse stiano identificando la ragione con il genere di razionalità tecnico-strumentale che gli era familiare data la sua originaria formazione di inge-

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gnere. Tale genere di scientismo era qualcosa che Wittgenstein riteneva es-sere il nemico della filosofia e il nemico della vita. Ma è significativo come Wittgenstein fallisca nel vedere che non c’è bisogno di consegnare sempli-cemente la parola “ragione” agli scientisti tra di noi.

[…] Nella tradizione pragmatista c’è, credo, una risposta migliore. Di certo non è un genere di risposta che possa convincere il dogmatico; ma questo non è un obiettivo ragionevole per noi in ogni caso. […] espressa con le mie parole, è che, sebbene non ci sia alcun algoritmo per decidere cosa sia ragionevole e cosa sia irragionevole credere (e James, in particola-re, era conscio dell’importanza dell’impegno esistenziale e citava con ap-provazione il motto di Kierkegaard “noi viviamo in avanti ma comprendia-mo all’indietro”), ciononostante noi abbiamo imparato qualcosa su come condurre la ricerca in generale, e ciò che si applica ad una ricerca condotta intelligentemente in generale si applica alla ricerca etica e religiosa in parti-colare. Ciò che distingue maggiormente gli scrittori pragmatisti di etica e religione dagli altri è, infatti, proprio la loro fiducia in questo principio chiave.

Ho, in effetti, esposto la tesi negativamente – evitare la fiducia dogmati-ca nell’autorità, la cieca ostinazione, e l’apriorismo – ma essa può essere espressa positivamente. Per fare ciò, è meglio spezzarla in tre principi, tutti familiari ai lettori dei grandi pragmatisti:

(I) Il principio dell’Esperimento. Le idee devono essere testate in pratica. Ciò che salva tale affermazione dal divenire un ristretto positivismo è la ge-nerosa concezione pragmatista del testare. Non tutti i test possono essere realizzati in laboratorio […].

(II) Il principio del Fallibilismo. Nessun essere umano e nessun corpo di opinioni umane è infallibile. Applicato alla religione, ciò significa che dob-biamo ammettere che l’ispirazione religiosa (qualora ammettiamo esservi qualcosa di simile) coinvolge l’intera personalità di un essere umano, il quale è legato al suo tempo e alla sua cultura ed esprime ciò che ritiene es-sere vero in un linguaggio carico di assunzioni culturali e idiosincrasie per-sonali. L’ingenuo modello di rivelazione “come dettato” è respinto. Noi ab-biamo imparato dall’esperienza che le pretese di infallibilità confliggono sempre (persino le pretese di infallibilità fatte da una singola comunità reli-giosa confliggono sempre tra di loro), e conducono a conseguenze orribili.

(III) Il Principio della Comunicazione. […] La verità per sua stessa na-tura aspira ad essere pubblica. Qualunque possa essere il proprio impegno esistenziale, rivendicandone la verità, bisogna essere disponibile a discuter-lo. [...]

Ogni “impegno esistenziale”, religioso o secolare che sia, che rifiuti o

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snobbi tali principi, viene a cozzare contro ciò che io, come altri, sono di-sposto a chiamare ragione. Al contrario, ogni serio impegno che accetti tali principi e che viva in conformità ad essi, è un tipo di impegno che non do-vrebbe entrare in conflitto con un giudizio morale autonomo.

[…] Il teologo, sia egli “liberale” o no, sia egli contemporaneo o no, ha spesso concepito il suo compito come un reinterpretare la nozione di Dio. I teologi islamici medievali che suggerivano che Dio non avesse conoscenza dei particolari, e i teologi medievali ebrei e cristiani che spiegavano Dio in termini di un apparato neo-aristotelico di “essenze”, “sostanze” ecc. erano già coinvolti, per esempio, nell’attività di trovare una nozione di Dio meno “letterale” e più “sofisticata”. Io sospetto che la critica stia assumendo che Wittgenstein, Kierkegaard e Maimonide nella sua cosiddetta “teologia ne-gativa”, siano impegnati in una simile impresa [Putnam allude all’accusa di elitarismo fatta da certi teologi a Kierkegaard e Wittgenstein].

Come l’ateo, un simile teologo pensa che il credere “in modo letterale” che Dio sia personale o che Dio ami i singoli sia una questione di “credere ad una proposizione”. Se Wittgenstein o Kierkegaard suggeriscono che ciò che è in gioco non è una credenza in una forma linguistica ma piuttosto in una forma di vita […] essi stanno dicendo che il credere ad un Dio persona-le e che ama i singoli dipende da ciò che si è globalmente e da come si vive complessivamente (essi stanno anche dicendo che la nozione di descrivere “alla lettera” Dio non ha senso; il che non significa dire che non possiamo parlare di Dio). Wittgenstein e Kierkegaard, come io li leggo […] stanno rigettando, non approvando, il gioco di reinterpretare filosoficamente la no-zione di Dio. Tentare di assimilare Dio all’una o all’altra costruzione filoso-fica, sia essa platonica, aristotelica, kantiana, alla Whitehead, o qualsivo-glia altra, è come cercare di migliorare l’aspetto dell’oro ricoprendolo di stagno. Non che ciò significhi che la nozione di “Dio” sia auto-esplicativa; piuttosto significa che il come si comprende tale nozione può essere mostra-to solamente da come si vive. La Metafisica è, per dire, troppo superficiale per essere d’aiuto qui.

[…] Questo tema solleva il punto veramente importante; per questi pen-satori, la propria religione non è solo una questione di cosa si dice o di cosa si fa pubblicamente, ma una questione dello spirito complessivo nel quale si vive la propria vita. Se vi è qui una concezione dell’esperienza religiosa, non è l’epifania, o il miracolo tradizionale. Come scrisse Kierkegaard, l’“incertezza” è “il segno e la forma della fede”, e nel nostro tempo vedere con i propri occhi accadere un “miracolo” tradizionale sarebbe una ragio-ne non autentica per la credenza religiosa, che creerebbe l’illusione di esse-re esentato da tale “segno e forma della fede” […]. �

editore della rivista: ASSOCIAZIONE

OSCAR ROMERO

Fondata nel 1980 e già presieduta da Agostino Bitteleri, Vincenzo Passe-rini, Silvano Zucal, Paolo Ghezzi, Paolo Faes, Alber-to Conci, Piergiorgio Cat-tani.

Presidente: Silvano Zu-cal. Vicepresidente: Al-berto Gazzola. Segreta-ria: Veronica Salvetti

IL MARGINE Mensile

dell’associazione culturale

Oscar A. Romero

Fondato nel 1981 e già diretto da Paolo Ghezzi, Giampiero Girardi, Miche-le Nicoletti.

Direttore: Emanuele Curzel. Vicedirettore: Francesco Ghia. Re-sponsabile a norma di legge: Paolo Ghezzi. Amministrazione: Pie-rangelo Santini. In re-dazione vi sono anche: Celestina Antonacci, Piergiorgio Cattani, Fa-bio Olivetti, Leonardo Paris, Silvano Zucal.

Altri collaboratori: Rober-to Antolini, Anita Bertol-di, Dario Betti, Omar Bri-no, Fabio Caneri, Monica Cianciullo, Giovanni Co-lombo, Francesco Comina, Mattia Coser, Daniela Dalmeri, Fulvio De Gior-gi, Mirco Elena, Claudio Fontanari, Eugen Galasso, Lucia Galvagni, Giampie-ro Girardi, Paolo Grigolli, Alberto Mandreoli, Paolo Marangon, Milena Maria-ni, Silvio Mengotto, Giu-seppe Morotti, Walter Nardon, Michele Nicoletti, Vincenzo Passerini, Lo-renzo Perego, Stefano Pezzè, Matteo Prodi, Ema-nuele Rossi, Mauro Stenico, Urbano Tocci, Grazia Villa, Antonio Zecca.

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l compito principale, e quasi unico, dei sifogranti consiste nel sorvegliare che nessuno resti in ozio e nel fare invece in modo che ciascuno si dedichi con

impegno al proprio mestiere senza peraltro sfinirsi lavo-rando come una bestia da soma dalle prime luci dell’alba fino a notte fonda, perché questa sarebbe una fatica da non imporre nemmeno a uno schiavo (anche se, tranne appunto che per gli Utopiani, in quasi ogni altro posto questa è la condizione di vita comune a chi lavora). Essi dividono il giorno in ventiquattro ore uguali, contando an-che la notte; dedicano al lavoro soltanto sei ore, tre nella mattinata, prima di andare a pranzo, e poi, dopo aver ri-posato un paio d’ore, altre tre nel pomeriggio, concluden-do infine la giornata con la cena. ... Il tempo che rimane oltre le ore dedicate al lavoro, al sonno e ai pasti è lascia-to alla libera scelta di ciascuno, ma non perché questi lo sprechi negli eccessi o nell’indolenza, ma perché, libero dall’impegno del lavoro, impieghi bene quel che resta del giorno in qualche attività.

Thomas More, Utopia (1516)

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