Il grande spettacolo della vita quotidiana In una mostra a Bologna i ...

14
%* 3&16##-*$" %0.&/*$" (*6(/0 /6.&30 $JOFNB BDBTB -VNJÒSF -BDPQFSUJOB -BNFOUFHMPCBMF 4USBQBSMBOEP 0OHBSP*NJFJWJBHHJDPO1SBUU *UBCáEFMNPOEP -BWJUBOPOÒGBUUBEJTDBSUJ BOLOGNA j( IOVANOTTO», disse il pa- triarca della famiglia con la luce nel cogno- me, «la nostra invenzio- ne non è in vendita, ma mi ringrazi: per lei sarebbe la rovina. Il cine- matografo non può avere alcun avvenire commerciale». Centovent’anni dopo i cinefi- li si accapigliano ancora su questa profezia di sventura clamorosamente smentita dalla storia. Come poteva Antoine Lumière, quel- la sera del 28 dicembre 1895, proprio quella che passò alla storia come il Natale del cine- ma (per Claude Lelouche fu «la sera in cui ini- ziò la storia del mondo»), come poteva esse- re così pessimista nei confronti della grande idea dei suoi due figli? O ingenuo, o imprevi- dente? Probabilmente non lo era. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE .*$)&-&4."3(*"44* $VMU * ERI SONO STATO nel regno delle ombre. Sapeste quanto è strano. È un mondo privo di suoni e di colori. Un mondo in cui tutto — terra, alberi, persone, ac- qua, aria — è dipinto di un grigio mo- notono. Grigi sono i raggi del sole nel cielo grigio; grigi gli occhi sui volti grigi, e anche le foglie sono grigie come cenere. Questa non è vita, ma ombra di vita; non è movi- mento, ma silenziosa ombra di movimento. Mi spiego, per non essere sospettato di simbolismo o di follia. Sono stato da Au- mont e ho visto il cinematografo Lumière, le fotografie animate. Lo spettacolo suscita un’impressione così straordinaria, così ori- ginale e complessa, che dubito della mia abi- lità di descriverlo in tutte le sue sfumature, ma ci proverò. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE .",4*.(03,*+ -BUUVBMJUË 6OTPMPDPODFSUPQFSJNVTJDJTUJEJ%BNBTDP -BTUPSJB 1FSDIÏ1JOPDDIJPOPOÒJOOPDFOUF -JOFEJUP &EPBSEP"MCJOBUJ VOBQJDDPMBMF[JPOFEJWJUB 4QFUUBDPMJ 1BPMP7JS[ÖFMBQB[[BHJPJBEJGBSFMFDBSJDBUVSF -JODPOUSP .BUT&Li-BTDJBUFNJCBMMBSFw *MHSBOEFTQFUUBDPMPEFMMBWJUBRVPUJEJBOB *OVOBNPTUSBB#PMPHOB JQSJNJTTJNJQBTTJEFMMBTFUUJNBBSUF "/50*/&-6.*μ3&1"%3&%*"6(645&&-06*4$0/*-460."5&3*"-&'050(3"'*$0ª$0--&;*0/&*/45*565-6.*μ3&

Transcript of Il grande spettacolo della vita quotidiana In una mostra a Bologna i ...

Page 1: Il grande spettacolo della vita quotidiana In una mostra a Bologna i ...

%*3&16##-*$"%0.&/*$" �� (*6(/0 ����/6.&30���

$JOFNBB�DBTB-VNJÒSF

-B�DPQFSUJOB��-B�NFOUF�HMPCBMF4USBQBSMBOEP��0OHBSP �*�NJFJ�WJBHHJ�DPO�1SBUU*�UBCá�EFM�NPOEP��-B�WJUB�OPO�Ò�GBUUB�EJ�TDBSUJ

BOLOGNA

j(IOVANOTTO», disse il pa-triarca della famiglia con la luce nel cogno-me, «la nostra invenzio-ne non è in vendita, ma

mi ringrazi: per lei sarebbe la rovina. Il cine-matografo non può avere alcun avvenire commerciale». Centovent’anni dopo i cinefi-li si accapigliano ancora su questa profezia di sventura clamorosamente smentita dalla storia. Come poteva Antoine Lumière, quel-la sera del 28 dicembre 1895, proprio quella che passò alla storia come il Natale del cine-ma (per Claude Lelouche fu «la sera in cui ini-ziò la storia del mondo»), come poteva esse-re così pessimista nei confronti della grande idea dei suoi due figli? O ingenuo, o imprevi-dente? Probabilmente non lo era.

>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

. *$)&-&�4."3( * " 4 4 *

$VMU

*ERI SONO STATO nel regno delle ombre. Sapeste quanto è strano. È un mondo privo di suoni e di colori. Un mondo in cui tutto — terra, alberi, persone, ac-qua, aria — è dipinto di un grigio mo-

notono. Grigi sono i raggi del sole nel cielo grigio; grigi gli occhi sui volti grigi, e anche le foglie sono grigie come cenere. Questa non è vita, ma ombra di vita; non è movi-mento, ma silenziosa ombra di movimento.

Mi spiego, per non essere sospettato di simbolismo o di follia. Sono stato da Au-mont e ho visto il cinematografo Lumière, le fotografie animate. Lo spettacolo suscita un’impressione così straordinaria, così ori-ginale e complessa, che dubito della mia abi-lità di descriverlo in tutte le sue sfumature, ma ci proverò.

>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

.",4 *.�(03, * +

-�BUUVBMJU��6O�TPMP�DPODFSUP�QFS�J�NVTJDJTUJ�EJ�%BNBTDP�-B�TUPSJB��1FSDI�1JOPDDIJP�OPO��JOOPDFOUF�-�JOFEJUP��&EPBSEP�"MCJOBUJ �VOB�QJDDPMB�MF[JPOF�EJ�WJUB�4QFUUBDPMJ��1BPMP�7JS[�F�MB�QB[[B�HJPJB�EJ�GBSF�MF�DBSJDBUVSF�-�JODPOUSP��.BUT�&L��i-BTDJBUFNJ�CBMMBSFw�

*M�HSBOEF�TQFUUBDPMP�EFMMB�WJUB�RVPUJEJBOB

*O�VOB�NPTUSB�B�#PMPHOB�

J�QSJNJTTJNJ�QBTTJ�EFMMB�TFUUJNB�BSUF�

"/50*/&�-6.*µ3& �1"%3&�%*�"6(645&�&�-06*4 �$0/�*-�460�."5&3*"-&�'050(3"'*$0�������ª�$0--&;*0/&�*/45*565�-6.*µ3&

Page 2: Il grande spettacolo della vita quotidiana In una mostra a Bologna i ...

laRepubblica%0.&/*$" �� (*6(/0 ���� ��-"%0.&/*$"

-B�WJUB

F�OJFOU�BMUSP

JO

-B�DPMB[JPOF�EFJ�CFC�JO�HJBSEJOP �J�SBHB[[J�JO�WBDBO[B�

BM�NBSF �MB�HJUB�JO�CBSDB��4FNCSBOP�J�OPTUSJ�WFDDIJ�TVQFS��

F�JOWFDF�TPOP�J�QSJNJ�FTQFSJNFOUJ�EFJ�GSBUFMMJ�EFM�DJOFNB

0SB�SFTUBVSBUJ�F�DFMFCSBUJ�B�#PMPHOB�EB�VOB�HSBOEF�NPTUSB�

BVUPDISPNF

-&�*.."(*/*��

/&-�'050(3".."�"�4*/*453"�%"--�"-50��i3&1"4�%&�#²#²w�'*-.�%&-����� �-06*4�-6.*µ3&�&�-"�."%3&�/&-�(*"3%*/0�%&--"�7*--"�%*�-"�$*05"5�&�-"�'".*(-*"�-6.*µ3&�*/�41*"((*"��������26*�40550 �'050(3".."�%"�i4035*&�%�64*/&w �13*.0�'*-.�%&*�-6.*µ3&�������"�%&453"�"/%3µ&�-6.*µ3& �'*(-*"�%*�"6(645& �$0/�-&�$6(*/&55&�&�-"�5"5"�ª3*130%6;*0/&�3*4&37"5"

-B�DPQFSUJOB��$BTB�-VNJÒSF

<SEGUE DALLA COPERTINA

. *$)&-&�4."3( * " 4 4 *

j2UESTA IDEA DEI LUMIÈRE COME GENIALI ma un po’ sprovveduti padri di una creatura di cui non avreb-bero intuito le potenzialità, è il più colossale errore d’interpretazione nella storia del cinema», s’inalbe-ra Gian Luca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna. La mostra che aprirà il 24 giugno nei sotto-passi di piazza Maggiore, trasformati in “tunnel del cinema”, sarà la la confutazione di quella calun-nia: «Al contrario, intuirono per-fettamente il valore della loro in. Proprio per questo non la voleva-no vendere».

L’uomo che quella sera voleva comprare il cinematografo si chiamava Georges Méliès. Che invece, nel canone della cultura cinematografica, è esaltato come il vi-sionario che prese in mano una curiosità tecnica e la trasformò nella più grande av-ventura dell’immaginario del secolo breve. Fondata da guru come Sadoul e Godard, la grande opposizione Lumière-Méliès, due genealogie e due ideologie del cinema, tecnica contro fantasia, realtà contro fiction, documento contro arte, è diventata un classico. Che forse è giunta l’ora di discutere, o forse solo riformattare.

Che cosa cercavano dunque i due figli di Antoine, ossia Auguste e Louis Lumière, il ricciolino e il biondino, inseparabili come Bouvard e Pécuchet, inventori fino all’ul-tima goccia di sangue, cosa pensavano di aver inventato con quel «macinino di im-magini» che dava vita alle fotografie? «Desideravo solo riprodurre la vita», scrisse cinquant’anni dopo l’anziano Louis proprio a Georges Sadoul, «i soggetti che ho scel-to per i miei film ne sono la prova». Conosciamo il contenuto di quei 1440 “corti” che in parte (120 rulli, ora raccolti in un prezioso dvd) l’Institut Lumière di Lione presie-duto da Bertrand Tavernier ha affidato alle sapienti mani della Cineteca Bolognese per un restauro splendente.

Di vita, lì ce n’è a volontà. Ma è quasi sempre la vita quotidiana, più ordinaria e fa-miliare. L’Arrivo del treno in stazione, la sequenza che tutti ricordano, quella che si dice (con qualche esagerazione) facesse scappare gli spettatori dalla sala, in realtà fu girata abbastanza tardi e non voleva avere quell’effetto. Scorriamo l’elenco: la co-lazione del bebè in giardino, ragazzi che fanno il bagno in mare, papà Antoine che si accende il si-garo, bambini che si tirano i capelli… Sì, certo, proprio così, sembrano i soggetti dei filmini di fa-miglia, i super8 del benessere di sessant’anni do-po. Il proto-cinema non voleva stupire con quel che mostrava, ma per come lo mostrava: l’album delle foto di famiglia, sorpresa, si muoveva.

Era dunque questa la vocazione del cinema, nei pensieri dei Lumière? Quella di medium pri-vato, giocattolo domestico, accessorio per l’au-to-rispecchiamento compiaciuto della famiglia borghese? Del resto, quella dei Lumière era una grande famiglia patriarcale che amava auto-rap-presentare il proprio bonheur con le invenzioni tecnologiche più avanzate della ditta, per esem-pio l’Autochrome, primo procedimento fotogra-fico a colori utilizzabile da qualsiasi padre di fa-miglia. Anche il cinema forse era stato inventato per questo? La stampa dell’epoca sembrò pen-sarlo: “Quando tutti potranno riprendere i loro cari, non più fissandoli immobili, neanche la mor-te sarà più assoluta”, declamò La Poste all’indo-mani della prima proiezione.

Ora però tocca a noi non fare gli ingenui. Lo sguardo dei Lumière registi è documentario, cer-to: ma c’è sapienza dietro la cinepresa. L’Uscita dalle officine, il primo film Lumière, fu girato tre

volte, e qualcosa nella sequen-za tradisce un copione nasco-sto. Che del resto era esplicito nelle scenette umoristiche, tutt’altro che colte al volo: quel-la del giardiniere che annaffia i bambini ebbe un vero e pro-prio script, tanto che il suo pro-tagonista, François Clerc, ri-vendicò poi con qualche ragio-ne di essere stato «il primo at-tore mondiale del cinema». Che fosse davvero il giardinie-re di casa Lumière, così come del resto familiari e amici recitavano se stessi in altre scenette, non cambia. «I Lumière inventarono il quadro, lo spa-zio scenico con cui il cinema racconta il mondo», insiste Farinelli. Del resto, il catalogo della ditta comprendeva anche piccoli film di fiction a sog-getto storico (Nerone che avvelena le schiave, la firma del trattato di Campoformio) o religioso (un’ambiziosa Passione in tredici quadri).

Dunque anche per i Lumière il cinema era spettacolo. Ma era spettacolo del mondo. Nei soli quindici mesi in cui i due fratelli (prima di ren-dersi conto che quello di imprenditori teatrali «non era il nostro mestiere» e di vendere tutto a

Pathè e Gaumont) cercarono di sfruttare la loro invenzione come spettacolo di sala, istruirono cinquanta operatori e li spedirono a tutte le lati-tudini (per l’Italia Vittorio Calcina) a raccogliere vedute animate delle esotiche meraviglie del pia-neta. Inventando, tra l’altro, il panorama come piano-sequenza, croce e delizia del cineamatore in vacanza. Insomma, mentre Méliès, dopo es-sersi procurato altrimenti le sue cineprese, in-ventava fantasmagorici mondi di cartapesta e pi-rotecnie nella sua serra-teatro di Montreuil, i Lu-mière collezionavano il mondo reale come mera-viglia in sé. Lasciamolo dire ancora a Godard: «Méliès era l’ordinario dello straordinario e Lu-mière lo straordinario dell’ordinario».

Sta di fatto che i Lumière non riuscirono ad es-sere, come scrisse Henri Langlois, «assieme Mo-zart, Stradivari e Paganini», e il cinema diventò la settima arte, o la decima musa, dopo che loro furono tornati negli abiti che si sentivano più co-modi, quelli degli inventori per in quali il cinema era stato soprattutto «uno splendido problema da risolvere». Eppure, per il modo in cui lo risolse-ro, il cinema che conosciamo oggi deve tutto ai due fratelli di Lione. La lotta per la primogenitu-ra fu in effetti feroce, molti i pretendenti, molte le macchine animate prima della loro, ma nella sua bonaria sicurezza Louis ne fece piazza pulita con una frase: «Qualcuno può dire, prima di noi, di essere andato al cinema?». Anche Edison, fer-rigno nel difendere i brevetti del suo Kinetosco-pio, aveva inventato in realtà solo uno scatolone dove il movimento si poteva sbirciare uno alla volta, da soli, quasi dal buco della serratura.

A chi pensa che vinse Méliès bisognerà però ri-cordare che in milioni di cassetti di comò, dentro milioni di bobine private che qualche benemeri-ta istituzione (sempre a Bologna, Home Movies) raccoglie e salva, un’altra storia del cinema ha continuato a vivere: lo spettacolo della vita quoti-diana in movimento, del bacio degli sposi, dei bambini che rincorrono le onde, che spengono le candeline sulla torta. Il cinema-specchio della vi-ta quotidiana oggi viene catturato dagli occhiet-ti di quelle cineprese ultra-performanti che conti-nuiamo a chiamare telefonini. La differenza è che la sala cinematografica dove i fratelli rapiva-no le emozioni collettive della gente comune per lo spettacolo della vita comune, oggi si è frantu-mata in miliardi di minuscoli schermi individua-li e tascabili. Che alla fine abbia vinto Edison?

Page 3: Il grande spettacolo della vita quotidiana In una mostra a Bologna i ...

laRepubblica%0.&/*$" �� (*6(/0 ���� ��

-&�*.."(*/*��

/&-�'050(3".."�26*�"�4*/*453"�%"--�"-50��-06*4�-6.*µ3&�&�-0�;*0�&%06"3%�"33*7"/0�"-�10350�%*�-"�$*05"5��"6(645&�-6/(0�-"�41*"((*"�$0/�*�'*(-*��-"�'".*(-*"�-6.*µ3&�*/�"650.0#*-&��40550 -"�4*(/03"�-6.*µ3&�$0/�*�'*(-*�*/�41*"((*"�&�*/�#"440�*�%6&�'3"5&--*�-6.*µ3&�"����"6(645&�&����"//*�-06*4��*(/05&�-&�%6&�%0//&�3*53"55&�"�$0-03*�

-"�.0453"

i-6.*µ3&��-�*/7&/;*0/&�%&-�$*/&."50(3"'0w�µ�-�&7&/50�%&--"�999�&%*;*0/&�%&-�'&45*7"-�i*-�$*/&."�3*5307"50w�130.0440�%"--"�$*/&5&$"�%*�#0-0(/"�%"-����(*6(/0�"-���-6(-*0��"�$63"�%*�5)*&33:�'3&."69 �3&"-*;;"5"%"--"�$*/&5&$"�&�%"--�*/45*565�-6.*µ3&�%*�-*0/& �*/�$0--"#03";*0/&�$0-�.64&0�%&-�$*/&."�%*�503*/0�&�-"�$*/²."5)µ26&�30:"-&�%&�#&-(*26& �4"3®�"1&35"�%"-����(*6(/0�"-����(&//"*0�405501"440�1*";;"�3&�&/;0 �#0-0(/"�1&3�-�0$$"4*0/& �-"�$*/&5&$"16##-*$"�*-�$0'"/&550�i-6.*µ3&��*�'*-.�$)&�)"//0�*/7&/5"50�*-�$*/&."50(3"'0����������w�

4QFOUF�MF�MVDJTVMMP�TDIFSNPUVUUP�TJ�NVPWFNB�TFO[B�WJUB

2UANDO SI SPENGONO le luci,

sullo schermo

all’improvviso appare

una grande immagine

grigia, una Via di Parigi

che è l’ombra di una mediocre incisione.

Osservandola si vedono carrozze,

palazzi, persone pietrificate in diverse

pose; è tutto grigio, e pure il cielo che lo

sovrasta è grigio. Non è certo la prima

volta che vediamo un’immagine delle

strade di Parigi. Ma a un tratto lo

schermo sussulta, e l’immagine si

anima. Le carrozze emergono dallo

sfondo per puntare dritte verso di noi

che sediamo nell’oscurità. E tutto

questo è stranamente silenzioso e muto.

Non si sentono il rumore delle ruote sul

selciato, il fruscio dei passi, le voci,

niente, neppure una nota di quella

complessa sinfonia che sempre

accompagna il movimento della folla. In

silenzio il fogliame grigio come la

cenere si agita al vento, senza un solo

suono scorrono sul grigiore della terra

grigie figure umane condannate alla

maledizione del silenzio e crudelmente

punite con la privazione di tutti i colori,

di tutte le sfumature della vita.

Tornano alla mente storie di

fantasmi, di sortilegi, di maghi malvagi

capaci di sprofondare nel sonno intere

città, e sembra di assistere a un brutto

tiro di Merlino. Dev’essere lui che ha

stregato tutta una via di Parigi.

Poi di colpo si ode uno schiocco, tutto

svanisce, e sullo schermo appare un

treno. Punta verso di noi come una

freccia, attenti! Sembra che si precipiti

nell’oscurità in cui ci troviamo, per fare

di noi un informe involucro riempito di

carne dilaniata e di ossa frantumate, e

ridurre in polvere la sala e tutto questo

edificio pieno di vino, donne, musica e

vizio.

-�BSUJDPMP�EFMMP�TDSJUUPSF�SVTTP�

BQQBSWF�TVM�RVPUJEJBOP

Nižegorodskij Listok JM���MVHMJP������

B�GJSNB�*��.��1BDBUVT�

ª3*130%6;*0/&�3*4&37"5"

<SEGUE DALLA COPERTINA

.",4 *.�(03, * +

ª�$0--&;*0/&�*/45*565�-6.*μ3&

Page 4: Il grande spettacolo della vita quotidiana In una mostra a Bologna i ...

laRepubblica%0.&/*$" �� (*6(/0 ���� ��-"%0.&/*$"

1SPWB

&/3 * $0�' 3"/$&4$) * / *

E�PSDIFTUSB

-�BUUVBMJU��#BDDIFUUF�NBHJDIF

TJSJBOB

LONDRA

*L PRIMO violino si era rifu-giato in Turchia. Il clari-netto basso era scappato in Canada. Fagotto e contro-fagotto sono finiti in Dani-marca. Una tromba era in Li-bano. Il contrabbasso, due violoncelli, l’arpa, l’oboe e le percussioni avevano trovato una sistemazione in Germa-nia. Il flauto traverso era in Olanda. La tuba in Svezia. Del

resto dell’orchestra si sono perdute le tracce. Quan-to a Issam Rafea, il direttore, era andato esule in America, a Chicago, dove si guadagnava da vivere come lettore di musica araba presso la North Illi-nois University.

Hanno tutti la stessa nazionalità, la stessa pro-fessione e la medesima sorte. Per anni, hanno suo-nato al Teatro dell’Opera di Damasco con l’Orche-stra nazionale siriana. Poi la guerra civile li ha tra-volti, separati e sparpagliati ai quattro angoli del mondo. Ma fra qualche giorno si ritroveranno insie-me, a Londra, per la prima volta da quando la loro patria è dilaniata da un conflitto intestino e ormai internazionale, con le forze del presidente dittato-

re Assad da una parte, quelle di varie forma-zioni ribelli da un’altra, entrambe schierate contro i militanti dell’Is, lo Stato Islamico che

ancora non è scomparso, e tutti quanti bombar-dati da russi, americani, britannici, francesi e

paesi del Golfo Persico. S’intitola semplicemen-te “The Orchestra of Syrian Musicians”, il con-certo in programma sabato prossimo al South-Bank Centre, il grande centro multiculturale sulla riva meridionale del Tamigi: una serata per celebrare la musica di un paese medio-rientale, ma anche e soprattutto per esorta-

re alla pace le parti in causa e le potenze mon-diali coinvolte nella guerra. Quello che il cartellone del teatro londinese non

dice è che ci è voluto un miracolo per riunire questi musicisti sul podio: un’impresa così delicata e com-plessa che fino all’ultimo viene mantenuta la riser-vatezza sui nomi degli artisti, per il timore di osta-coli politici che ne compromettano la presenza o — peggio ancora — di rappresaglie sui loro familiari rimasti in Siria da parte di una o dell’altra fazione in lotta. L’unico a parlare è il direttore: «A Dama-sco avevo un’orchestra di novanta musicisti e a un certo punto non sapevo più dove fossero andati a fi-nire a causa del conflitto», dice Rafea. «Ma sono riu-scito, da quando è balenata l’idea di riunirci a Lon-dra, a rintracciarne una cinquantina, fra orchestra-li e coristi. Alcuni sono nascosti in Siria, altri vivono

in Europa, in America, in Medio Oriente. Sono co-munque abbastanza per esibirci in un concerto».

L’idea iniziale non è stata sua ma di Damon Al-barn, quarantottenne musicista, cantautore e pro-duttore inglese, cantante solista dei Blur, oltre che fondatore, principale vocalista e strumentista del-la rock band virtuale Gorillaz, i cui componenti so-no dei cartoni animati che esistono soltanto digital-mente. Albarn conobbe Rafea nel 2008 a Dama-sco, dove hanno suonato e composto musica insie-me, incluso un brano per un album dei Gorillaz. Ne è venuta fuori un’amicizia personale che ha porta-to l’Orchestra nazionale siriana a fare un tour di

concerti all’estero con Albarn e il suo gruppo, in Gran Bretagna, in Libano, a Hong Kong, in Nuova Zelanda e in Australia. Quando, nel 2011, in Siria è scoppiata la guerra, i tour sono terminati, il Teatro dell’Opera ha chiuso e l’Orchestra di Damasco si è dissolta nel nulla. Ritrovarne i componenti cinque anni dopo non è stato facile. Ottenere i fondi per in-vitarli a Londra neppure. Convincere il Foreign Of-fice a fornire loro un visto per il concerto è stato an-cora più complicato: il governo britannico, come del resto molti altri paesi occidentali, teme un’inva-sione di rifugiati e non sarebbe la prima volta che un permesso temporaneo per motivi artistici vie-

*M�GBHPUUP�JO�%BOJNBSDB��6OB�USPNCB�JO�-JCBOP�

-�BSQB�JO�(FSNBOJB��%PQP�DJORVF�BOOJ�

EJ�HVFSSB�TFNCSBWB�JNQPTTJCJMF�SJVOJSF�J�NVTJDJTUJ�

EFMM�0SDIFTUSB�EJ�%BNBTDP��-�JNQSFTB��SJVTDJUB�

&�TBCBUP�B�-POESB�TVPOFSBOOP�JOTJFNF

Page 5: Il grande spettacolo della vita quotidiana In una mostra a Bologna i ...

laRepubblica%0.&/*$" �� (*6(/0 ���� ��

ª3*130%6;*0/&�3*4&37"5"

ne trasformato in una richiesta d’asilo politico per-manente. Non meno difficile, per Rafea, è stato convincere i musicisti ad apparire di nuovo insie-me, dimenticando per una sera le ferite e le cicatri-ci della guerra. «I miei orchestrali sono divisi sul conflitto come è divisa la popolazione siriana», rac-conta. «Hanno diverse opinioni su chi dovrebbe co-mandare a Damasco. Qualcuno parteggia per As-sad, qualcuno per i ribelli. Ma tutti desiderano la pace. I politici hanno detto un sacco di cose su que-sta guerra. Penso che sia venuto il momento di dire qualcosa con la musica». A chi gli domanda da che parte sta, nemmeno lui vuole rispondere. «Sono un

musicista e preferisco limitarmi a parlare di musi-ca», afferma. «Dico soltanto che questa guerra ha fatto soffrire tutti ed è ora di finirla. Si può essere per Assad o contro Assad, ma l’importante è che in Siria non muoia più nessuno».

Il concerto di Londra fa parte delle celebrazioni organizzate in tutta Europa per il centenario della Prima guerra mondiale. Coincide in particolare con l’anniversario del controverso Sykes-Picot Agreement, l’accordo tra Francia e Gran Bretagna che nel 1916 fece nascere le odierne nazioni medio-rientali, tracciando i confini con un righello su un pezzo di carta, senza tenere conto di storia, tradi-zioni, etnie, bensì soltanto degli interessi delle po-tenze coloniali. E tradendo tutte le promesse fatte dal colonnello T.E. Lawrence, meglio noto come La-wrence d’Arabia, il leggendario leader della rivol-ta araba, per indurre i beduini a combattere al fian-co degli alleati occidentali contro l’impero ottoma-no. La storia che si ripete: in un modo o nell’altro, usando arbitrariamente un segno di penna su una mappa o la forza dei propri cannoni (che oggi si chiamano missili e droni), dall’11 settembre 2001 l’Occidente cerca di ridisegnare il Medio Oriente, forse in qualche caso con nobili intenti, come nella pur tardiva battaglia per stroncare l’Is, comunque con risultati tragici o deludenti. «Forse anche un concerto può aiutare a spingere verso la riconcilia-zione nazionale e un futuro migliore», conclude

perciò Issam Rafea. Può darsi che ci voglia una bacchetta magica,

non la bacchetta di un direttore d’orchestra, per ri-portare la pace in Siria. Ma non sarebbe la prima volta che la musica tenta di fare o dire qualcosa do-ve hanno fallito le parole, la politica e le armi. Vie-ne in mente *M�DPODFSUP, il film del 2009 del regista rumeno-francese Radu Mihaileanu, ispirato da un gruppo di musicisti ebrei russi, licenziati dal Tea-tro Bolscioj di Mosca, che si danno appuntamento a Parigi per riprendere il concerto di Cajkowskij in-terrotto a metà al momento dell’epurazione con-tro di loro. O l’episodio del “pianoforte di Yarmuk”, sopravvissuto alla distruzione di un campo profu-ghi alla periferia di Damasco, diventato un simbo-lo di speranza universale dopo che il video di qual-cuno che lo suonava è apparso su YouTube. E il “tour dei concerti dell’esilio” suonati dai membri della giovane rock band Khebez Dawle, fuggita dal-la Siria durante la guerra, sbarcata sull’isola di Le-sbos su un canotto e arrivata in Germania con i fon-di raccolti suonando per strada, attraverso Grecia, Slovenia e Croazia.

I musicisti dell’Orchestra Nazionale siriana spe-rano che la loro “prova d’orchestra” a Londra colpi-sca l’immaginazione del mondo con altrettanta for-za. E sognano di potersi riunire in un teatro, la pros-sima volta, a Damasco.

$ONSERVO il ricordo di un

incontro prezioso con i

musicisti dell’Orchestra

nazionale siriana.

Andai in Siria nel luglio

del 2004 per la manifestazione “Le Vie

dell’Amicizia”, ponte ideale di musica e

cultura che dal Ravenna Festival ha

toccato le zone più “calde” del mondo.

Tenemmo un concerto nel deserto

intorno a Damasco, dentro l’antico

Teatro Romano di Bosra, possente

arena di pietra dove all’Orchestra

Filarmonica e al Coro della Scala si

unirono elementi del complesso

sinfonico siriano e del Coro del

Conservatorio di Damasco.

Serata memorabile: quando nell’aria

si levò il canto del muezzin sospesi

l’esecuzione in segno di rispetto,

riprendendola solo al termine della

preghiera. Omaggio a un’altra religione

che venne accolto dagli applausi.

Il giorno prima ero stato invitato a

dirigere una lunga prova con l’orchestra

siriana nella sala da millecinquecento

posti del Teatro dell’Opera di Damasco,

inaugurato nel maggio di quell’anno e

molto voluto dall’allora presidente

Hafel Al Assad. Rammento una

struttura meravigliosa per razionalità di

spazi e nitidezza dell’acustica, capace di

modernità internazionale nei mezzi

tecnici ma anche in grado di

salvaguardare la cultura locale. Il nuovo

teatro stava organizzando con

entusiasmo il suo futuro e progettava di

ospitare artisti di provenienze diverse.

Provammo la “Quinta Sinfonia” di

Ciaikovskij ed era impressionante la

qualità di quei giovani musicisti siriani.

Affiorava con evidenza la loro grande

volontà di migliorarsi per diventare

competitivi rispetto alle realtà musicali

di altri paesi e cercare d’impossessarsi

della tradizione europea. Esprimevano

un anelito alla cultura nel senso più

ampio del termine.

Lavorando insieme, nonostante le

differenze, potevamo riconoscerci in un

medesimo linguaggio, sentimento e

obiettivo. Un’intesa che dimostrava

ancora una volta quello che io sostengo

da sempre: la musica è un legame forte,

necessario e vitale che stabilisce

rapporti creativi e pacifici tra i popoli.

5FTUP�SBDDPMUP�

EB�-FPOFUUB�#FOUJWPHMJP

$JBJLPWTLJKF�JM�NVF[[JOQBSMBOPMB�TUFTTB�MJOHVB

-&�*.."(*/*

6/�7*0-*/0�

%&--�03$)&453"�

/";*0/"-&�4*3*"/"�

%"7"/5*�"�6/�3*53"550�

%&-�13&4*%&/5&�"44"%

*/�6/"�1"64"�

%"�6/�$0/$&350�

"-�5&"530�"-�)".3"�

%*�%"."4$0�/&-������

/&--"�'050�1*$$0-"�

-�03$)&453"�

"-�5&"530�%&--�01&3"�

%*�%"."4$0�

*-����0550#3&������

1&3�6/�$0/$&350�

453"03%*/"3*0�

*/�3*$03%0�

%&-�(&/0$*%*0�"3.&/0

3 * $$"3%0�.65 *

Page 6: Il grande spettacolo della vita quotidiana In una mostra a Bologna i ...

laRepubblica%0.&/*$" �� (*6(/0 ���� ��-"%0.&/*$"

1SPDFTTPBMMBMFUUFSBUVSB

*NGANNATO E DERUBATO DA DUE PERFIDI MALANDRINI che rispondono ai nomi di Gatto e Volpe, il povero Pinoc-chio chiede giustizia. Il giudice è un Gorilla, vecchio e saggio: dopo aver ascoltato attentamente il raccon-to di Pinocchio, pur non mettendo minimamente in dubbio che il burattino dica la verità e che il Gatto e la Volpe siano autentici lestofanti, lo condanna alla prigione, perché innocente. E soltanto alcuni mesi dopo, in virtù di un indulto, Pinocchio sarà liberato: ma a condizione di riconoscersi, lui che era parte lesa, colpe-vole.

Per generazioni di lettori e di esegeti (incluso chi scrive), l’apologo collodiano ha rappresentato una delle tante variazioni sull’antico tema della “giustizia cieca”, ennesima espressione della diffidenza, se si vuole del pregiudizio popolare, contro una macchina percepita come oscura, indecifrabile, sovente biz-zarra, talora crudele. Per Bruno Cavallone, autorevole studioso del diritto processuale civile ora consegna-to — parole sue — alla «rilassante» condizione di professore in pensione, le cose non stanno proprio così. Stanno, anzi, all’opposto. E non tanto perché il Gorilla di Collodi è molto diverso da quello immortalato da

Georges Brassens nell’atto di soddisfare la propria libidine contro un giovane magistrato responsabile di una originale condanna a morte. No. Il fatto è che Pinocchio è sicuramente vittima. Ma, fondamentalmente, di se stesso. E della pro-pria avidità. Nonostante i reiterati avvisi ricevuti da saggi consiglieri, infatti, egli non solo si è fidato dei malfattori (peccato lieve) ma, seminando gli zecchini nel Campo dei Miracoli, si è illuso che la ricchezza possa auto-generarsi. Pi-nocchio, ed è questo il peccato grave, ha sognato di diventare ricco senza alcun merito, per opera e virtù del potere del denaro in sè: ma una ricchezza autogenerata, senza alcun rapporto con la fatica e il merito, è farina del diavolo. Pinoc-chio, nota Cavallone, ha creduto alla lanterna magica dell’illusionista, al pari di tanti sventurati che si sono lasciati ab-bindolare, nei nostri Paesi di capitalismo avanzato, da «prodotti finanziari solo poco più credibili di quelli della Volpe e del Gatto». E si trattava non di sprovveduti burattini, ma di persone «bene informate, e talvolta persino investite di fun-zioni pubbliche». Degli abbindolati dai derivati tossici e affini si discute quotidianamente: che possano considerarsi epigoni del burattino è affermazione davvero originale. Tanto più che Pinocchio viene «giustamente» punito, ed è scar-cerato soltanto quando riconosce la propria colpa: quella di aver creduto in una distorsione della ricchezza. E, dunque, non solo Collodi figura come antesignano della contestazione anti neo-liberista ma, considerato il meccanismo di puni-zione virtuosa seguita da autocritica, potrebbe figurare degnamente nel Pantheon maoista come esegeta della Rivolu-zione culturale.

Ecco uno dei tanti paradossi che costellano -B�CPSTB�EJ�NJTT�'MJUF, il volume che Bruno Cavallone ha dedicato al rap-porto fra arte e diritto, sotto il particolare profilo dello studio del processo — civile e penale — alla luce di una serie di contributi letterari, drammatici, iconografici che spaziano dalla #JCCJB al $PSSJFSF�EFJ�1JDDPMJ, passando per Shakespea-re, Rabelais, Kafka, Brecht e Ettore Scola. Per quanto il rapporto, reciproco, fra artisti e mondo del diritto risalga prati-camente alla notte dei tempi, soltanto in epoca relativamente recente gli anglosassoni, notoriamente maniaci delle eti-

chette, hanno classificato la materia sotto la dicitura di MBX�BOE�MJUFSBUVSF, originando interessanti studi e isti-tuendo appositi corsi di studio. Materia peculiare e singo-lare, che forse farà arricciare il naso ai tanti teorici del tec-nicismo puro, ma che offre spunti di grande interesse. Ca-vallone, che ci appare dai suoi scritti in egual misura tecni-co della materia e apertamente umanista — spassosa e pienamente condivisibile la sua difesa dell’interdiscipli-narietà culturale, massacrata dal mutevole «ma sempre ottuso e dissennato» regolamento dei concorsi universita-ri — adotta, per ognuno degli argomenti trattati, la linea di un’eccentricità che può lasciare (e talora lascia) per-plessi. Mai, però, indifferenti.

A volte, il paradosso è dichiaratamente umoristico. Da quando il genere umano ha deciso di consegnare a uno spazio neutro, sorretto da regole condivise, la risoluzione di controversie che, altrimenti, si sarebbero sviluppate in chiave cruenta, intorno al concetto di processo si sono spe-se le più svariate definizioni: rito, azione scenica, cerimo-nia religiosa, alienazione, mistero. Che il processo potes-se paragonarsi a un prosciutto, però, è venuto in mente solo a Cavallone. E con fondamento, visto che in secoli lon-tani la produzione documentale con la quale le parti liti-ganti affliggevano i giudicanti era tale da riempire interi sacchi ridondanti di materiale cartaceo, sacchi che, appe-si per il collo, proprio a dei grassi prosciutti finivano per as-somigliare. Altre volte, il paradosso illumina di sinistra ironia la sentenza, l’atto finale nel quale è, o dovrebbe es-

-B�TUPSJB��*O�QSJHJPOF �JO�QSJHJPOF

"MJDF

*M�$POJHMJP�EJ�USF�TRVJMMJ�EJ�USPNCB �QPJ�TQJFH�JM�SPUPMP�EFMMB�QFSHBNFOB �F�MFTTF�DPT��i-B�3FHJOB�EJ�DVPSJ�GFDF�MF�UPSUF�JO�UVUUP�VO�E�E�FTUBUF�5SJTUP �JM�'BOUF�EJ�DVPSJ�EJ�OBTDPTUP�MF�UPSUF�IB�USBGVHBUF�w��i1POEFSBUF�JM�WPTUSP�WFSEFUUP�w���EJTTF�JM�3F�BJ�HJVSBUJ��i/PO�BODPSB �OPO�BODPSB�w�JOUFSSVQQF�WJWBNFOUF�JM�$POJHMJP��i7J�TPO�NPMUF�DPTF�EB�GBSF�QSJNB�w�i$IJBNBUF�JM�QSJNP�UFTUJNPOFw �EJTTF�JM�3F��F�JM�$POJHMJP�CJBODP�EJ�USF�TRVJMMJ�EJ�USPNCB �F�DIJBN��i*M�QSJNP�UFTUJNPOF�w�

%"�i"-*$&�/&-�1"&4&�%&--&�.&3"7*(-*&w�%*�-&8*4�$"330--

( * "/$"3-0�%&�$"5" -%0

%B�i1JOPDDIJPw�BE�i"MJDFw �EB�3BCFMBJT�B�,BGLB

VO�MJCSP�SBDDPOUB�MB�HJVTUJ[JB�F�MF�JOHJVTUJ[JF�

BUUSBWFSTP�J�SPNBO[J��*M�SJTVMUBUP �6O�QP��JORVJFUBOUF�

1BSPMB�EJ�VO�NBHJTUSBUP�DIF�Ò�BODIF�TDSJUUPSF�

AA

Page 7: Il grande spettacolo della vita quotidiana In una mostra a Bologna i ...

laRepubblica%0.&/*$" �� (*6(/0 ���� ��

ª3*130%6;*0/&�3*4&37"5"

1JOPDDIJP*M�HJVEJDF�FSB�VOP�TDJNNJPOF�EFMMB�SB[[B�EFJ�(PSJMMB��1JOPDDIJP �BMMB�TVB�QSFTFO[B�SBDDPOUÛ�QFS�GJMP�F�QFS�TFHOP�M�JOJRVB�GSPEF �EJ�DVJ�FSB�TUBUP�WJUUJNB��EÒUUF�JM�OPNF �JM�DPHOPNF�F�J�DPOOPUBUJ�EFJ�NBMBOESJOJ �F�GJOÓ�DIJFEFOEP�HJVTUJ[JB��*M�HJVEJDF�MP�BTDPMUÛ�DPO�NPMUB�CFOJHOJUË��QSFTF�WJWJTTJNB�QBSUF�BM�SBDDPOUP��T�JOUFOFSÓ �TJ�DPNNPTTF��F�RVBOEP�JM�CVSBUUJOP�OPO�FCCF�QJÞ�OVMMB�EB�EJSF �BMMVOHÛ�MB�NBOP�F�TPOÛ�JM�DBNQBOFMMP��"�RVFMMB�TDBNQBOFMMBUB�DPNQBSWFSP�TVCJUP�EVF�DBO�NBTUJOJ�WFTUJUJ�EB�HJBOEBSNJ��"MMPSB�JM�HJVEJDF �BDDFOOBOEP�1JOPDDIJP�BJ�HJBOEBSNJ �EJTTF�MPSP��i2VFM�QPWFSP�EJBWPMP�Ò�TUBUP�EFSVCBUP�EJ�RVBUUSP�NPOFUF�E�PSP��QJHMJBUFMP�EVORVF �F�NFUUFUFMP�TVCJUP�JO�QSJHJPOFw�

sere, racchiuso il senso stesso del decidere. Il giudice Bridoye, il Briglialoca di Rabelais, che per tut-

ta la vita ha reso giustizia gettando i dadi, e più la causa era controversa, più piccoli erano i dadi, finisce sotto pro-cesso in vecchiaia perché una volta, ma una sola, ha sba-gliato la decisione. Lo abbiamo sempre considerato una fi-gura umoristica. Cavallone lo rivaluta. Bridoye lancia i da-di soltanto dopo aver approfonditamente istruito la cau-sa. Non li getta a caso, ma a ragion veduta. Le parti, dun-que, confidano in un giudizio meditato. Nulla sanno del metodo certo non ortodosso usato dal loro giudice. E dun-que, non hanno motivo di diffidare. Cavallone perfida-mente si chiede se non sia tutto sommato accettabile una giustizia casuale (il paragrafo s’intitola "QPMPHJB�EFM�HJV�EJ[JP�QFS�TPSUF) ove sorretta da un serio rispetto delle re-gole procedurali. Se pensiamo alle reiterate proposte di introduzione del sorteggio come metodo di scelta di rap-presentanze qualificate, il plauso per l’arguzia dello scrit-tore cede il passo all’inquietudine. Dove il paradosso riful-ge, però, è quando lascia intuire sfondi di insondabile pro-fondità. La miss Flite del titolo del volume è una figura che compare nella $BTB�EFTPMBUB di Charles Dickens. È una signora ossessionata da un’annosa causa civile che trascinerà nel suo delirio il protagonista del romanzo. Per Cavallone, Miss Flite è una fata malvagia, un’untrice. Sparge il contagio del morbo processuale, inducendo il po-vero protagonista a perdere la ragione pur di proseguire la causa.

Saltando agilmente da Dickens a Carroll, Cavallone ci precipita nell’angoscioso abbraccio di Josef K., vittima de-signata del 1SPDFTTP kafkiano. Come Alice, quando è sotto giudizio, manda (letteralmente) all’aria le carte da gio-co, di fatto disconoscendo la legittimità e l’esistenza stes-sa del processo, così Josef K. — e gli viene ripetutamente spiegato — potrebbe far finire il processo in qualunque momento, se solo decidesse di farlo. Ma non lo fa. Corre consapevolmente incontro alla rovina perché preda di un morbo che affonda radici nel proprio senso di colpa. Josef K. non è dunque un omuncolo schiacciato da una sovra-stante e ingovernabile mostruosità monitoria, nè colui che ha confusamente intuito l’imminente Olocausto. Egli è vittima del processo come contagio: oscura malattia eterna che colpisce soltanto «coloro che — per debolezza, per insicurezza, per vanità, o più in generale per carenza di adeguate difese immunitarie — vogliono far dipende-re dal processo il proprio destino». Terribile. Come il pro-cesso.

AA

(BSHBOUVB�B�1BOUBHSVFMF�i%J�DIF�EBEJ�JOUFOEFUF�QBSMBSF �BNJDP�NJP �EPNBOE�5SJODBNFMMB �HSBO�QSFTJEFOUF�EFMMB�$PSUF�i*�EBEJ�EFMMF�TFOUFO[Fw �SJTQPTF�#SJHMJBEPDB��iEFJ�RVBMJ�EBEJ�WPJBMUSJ �4JHOPSJ �VTBUF�DPNVOFNFOUF�JO�RVFTUB�$PSUF�4PWSBOB��DPT�GBOOP�BODIF�UVUUJ�HMJ�BMUSJ�HJVEJDJ�QFS�EFDJEFSF�J�QSPDFTTJ��&�PTTFSWBOP�DIF�MB�EFDJTJPOF��FDDFMMFOUF �POFTUB �VUJMF�F�OFDFTTBSJB�BMMB�SJTPMV[JPOF�EFJ�QSPDFTTJ�F�EFMMF�EJTTFOTJPOJw��

.JTT�'MJUFi.J�POPSP�EJ�GSFRVFOUBSFMB�$PSUF�DPO�BTTJEVJU��$PO�J�NJFJ�EPDVNFOUJ�"TQFUUP�VO�HJVEJ[JP��5SB�CSFWF��*M�(JPSOP�EFM�(JVEJ[JP���w�

+PTFG�,�i-B�TFOUFO[B�OPO�WJFOF�B�VO�USBUUP ��JM�QSPDFTTP�DIF�TJ�USBTGPSNB�B�QPDP�B�QPDP�JO�TFOUFO[Bw��

%"�i-&�"77&/563&�%*�1*/0$$)*0w�%*�$"3-0�$0--0%*

%"�i("3("/56"�&�1"/5"(36&-&w�%*�'3"/±0*4�3"#&-"*4

*-�-*#30�&�(-*�"6503*

i-"�#034"�%*�.*44�'-*5&��4503*&�&�*.."(*/*�%&-�130$&440w"%&-1)* �����1"(*/& ����&630µ�03"�*/�-*#3&3*"��-�"6503& �#36/0�$"7"--0/& µ�45"50�130'&4403&�03%*/"3*0�%*�%*3*550�130$&446"-&�$*7*-&�/&--&�6/*7&34*5®�%*�1"3."�&�.*-"/0�(*"/$"3-0�%&�$"5"-%0 "6503&�%&--�"35*$0-0 ."(*453"50 �)"�4$3*550%*7&34*�30."/;*��-�6-5*.0 �$0/�$"3-0�#0/*/* �4*�*/5*50-"i-"�/055&�%*�30."w�&*/"6%*�����

%"�i$"4"�%&40-"5"w�%*�$)"3-&4�%*$,&/4�

%"�i*-�130$&440w�%*�'3"/;�,"',"

AA

AA

AA

Page 8: Il grande spettacolo della vita quotidiana In una mostra a Bologna i ...

laRepubblica%0.&/*$" �� (*6(/0 ���� ��-"%0.&/*$"

4PESSO SI ESITA SENZA MOTIVO prima di procedere alla scelta dei gu-sti con cui comporre un cono gelato, sbirciando oltre la vetrina al-la ricerca di chissà quale novità. Su quattro che eravamo quella se-ra, solo Arbus rispose senza incertezza, «Crema e cioccolato», «Con un po’ di panna?» «No, senza». Oltretutto, fino all’epoca in cui accadde l’episodio che mi accingo a narrare malgrado la sua quasi assoluta insignificanza, le gelaterie anche le più rinomate disponevano di pochi gusti-base, sempre quelli, sempre gli stessi, sette-otto al massimo, nascosti nel frigo di acciaio inossidabile: so-lo il gelataio sapeva quali fossero e per cavarli fuori a cucchiaiate stappava in sequenza rapidissima i coperchi tondi, chiudendone uno mentre ne apriva un altro con gesti professionali e gelosi, de-

stinati a non lasciar fuoriuscire il freddo, ma anche a celare quale delle vaschette interne coi diversi gusti fosse piena e quale vuota o quasi vuota, il che era dato intuire solo quando ci spro-fondava dentro il braccio.

Oggi l’offerta è di una varietà tale da dare il capogiro: Pistacchio selvaggio di Bronte, Ma-scarpone e pere allo zenzero, poi Dulce de leche salato, Cioccolato alle mandorle d’Avola… Ma-racuja…

«La scelta provoca angoscia», disse Arbus, cominciando a leccare il gelato, mentre Marco Lodoli ed io, appunto, esitavamo, e Rummo si teneva in disparte, per educazione. Sapere at-tendere, lasciare il passo agli altri, servirsi ultimo era la morale praticata a casa Rummo, nella sua numerosa famiglia.

y�QFSDI�QPSUJBNP�MB�DBNJDJB�OFSBIBOOP�EFUUP�DIF�TJBNP�EB�DBUFOF IBOOP�EFUUP�DIF�TJBNP�EB�HBMFSB�

Girammo tutti la testa verso l’angolo di via Alessandria.

Provenienti da Corso Trieste, lo stavano svoltando proprio in quel momento tre perso-ne, e venivano diritte verso di noi. Facevano risuonare la suola degli scarponcini sul mar-ciapiedi. Non camminavano, marciavano, proprio come soldati, battendo il passo, e co-me soldati indossavano divise. Due erano uo-mini grandi e grossi, dalle spalle quadre e le maniche della camicia arrotolate sugli avam-bracci. L’altra era una ragazza anch’essa tar-chiata, che spingeva in fuori i taschini cuciti sulla camicia cantando a squarciagola, come se volesse essere udita fino agli ultimi piani delle case di via Alessandria. Tutti e tre calza-vano fieramente di traverso baschi neri. Ca-pelli corti la donna, cortissimi gli altri due.

Arbus, Lodoli ed io eravamo sul marciapie-di fuori dalla gelateria mentre Rummo si at-tardava a pagare il suo cono, estraendo gli

spiccioli dal fondo di una tasca. La paghetta a casa Rummo veniva distribuita in monete. «Anvedi questi…» mormorò Lodoli e scosse la testa riccia quando la ronda si trovava ancora a una ventina di passi da noi, poi si chinò sul suo gelato, che, a differenza di Arbus, aveva voluto alla fragola e pistacchio, con guarnitu-ra di panna, e gli diede una leccata. Arbus sta-va studiando il suo cono e lo scolpiva con la lin-gua in modo che mantenesse, man man ridu-cendosi di dimensioni, l’originale forma geo-metrica. Solo io non leccavo il gelato ma guar-

davo il gruppetto avvicinarsi. Il modo in cui oscillavano le braccia rigide avanti e dietro era marziale e al tempo stesso surreale.

Ci scansammo per lasciarli passare. Pro-prio alla nostra altezza, batterono forte il pas-so in terra, e mi guardarono negli occhi tutti e tre. Sono sicuro ancora adesso, quarantacin-que anni dopo, che guardarono soltanto me, dritto negli occhi, forse perché ero il solo che non fosse concentrato sul suo cono, o che mo-strasse curiosità e stupore nei loro confronti.

6OB�

-�JOFEJUP��4DVPMF�EJ�WJUB�

CSJDJPMB

3PNB�BOOJ��� �RVBUUSP�DPNQBHOJ�EJ�MJDFP�

F�MB�WJPMFO[B�EJ�VO�HFMBUP�TQJBDDJDBUP�

JO�GBDDJB��6O�SBDDPOUP�BVUPCJPHSBGJDP

EBMM�BVUPSF�EF�i-B�TDVPMB�DBUUPMJDBw

&%0"3%0�" -# * /"5 *

EJ�DPSBHHJP

Page 9: Il grande spettacolo della vita quotidiana In una mostra a Bologna i ...

laRepubblica%0.&/*$" �� (*6(/0 ���� ��

O forse perché di noi quattro compagni di quarta ginnasio ero quello appena un poco sviluppato, che appariva grandicello insom-ma, dato che Arbus e Lodoli erano alti ma molto esili, mentre Gioacchino Rummo, che ci aveva finalmente raggiunto sul marciapie-di, pur avendo compiuto i quattordici anni sembrava ancora un bambino, con il taglio dei capelli biondi fatto in casa, le guance colo-rite, allegro, innocente.

Fatti altri tre o quattro passi e dato un pe-stone in terra per segnare il passo, uno della ronda girò la testa e mi squadrò di nuovo. I no-stri occhi si incrociarono. Non feci in tempo a distogliere lo sguardo che lui stava tornando indietro. Mi venne vicino. I suoi camerati assi-stevano con le mani sui fianchi. Era appena più alto di me. Sorrise.

«Perché non canti anche tu con noi?»«Non so la canzone», mi venne da dire. Era

una risposta buttata lì, una risposta ridicola, e infatti la donna scoppiò a ridere rovescian-do la testa in modo teatrale.

«Vuoi che te la insegni?»Restai zitto. Qualsiasi cosa avessi detto,

era sbagliata. Avrei voluto girarmi e cercare il sostegno dei miei compagni di classe, ma lo sguardo dello sconosciuto, i suoi occhi neri, le folte sopracciglia, la barba rasata che preme-va sotto la pelle lustra, esercitavano su di me un controllo totale.

«Dai su, cantiamo insieme», e intonò:«$F�OF�GSFHIJBNP��-B�4JHOPSB�.PSUF��GB�

MB�DJWFUUB�JO�NF[[P�BMMB�CBUUBHMJB��TJ�GB�CBDJB�SF�TPMP�EBJ�TPMEBUJy�%BJ �SJQFUJ��DF�OF�GSFHIJB�NP �MB�4JHOPSB�.PSUFy».

Rimasi zitto. Lui come se niente fosse conti-nuò:

«4PUUP�SBHB[[J �GBDDJBNPMF�MB�DPSUF�%JBNPMF�VO�CBDJP�TPUUP�MB�NJUSBHMJB�»

Se non avessi avuto il cuore che batteva all’impazzata avrei staccato una per una quel-le parole, “morte”, battaglia”, “bacio”, “mitra-glia”, e le avrei ricomposte in un ordine diver-so, che ne avrebbe cambiato il significato. Ma non potevo. Ero in apnea.

«Allora?»Scossi la testa e così vidi i miei compagni,

che io pensavo lontanissimi come se una ven-tata lì avesse fatti rotolare giù per via Ales-

sandria, come se il canto di guerra intonato dalla ronda li avesse spazzati via dalla scena, e invece erano lì, accanto a me: ma non face-vano nulla. Forse negli occhi di Lodoli si pote-va leggere un disperato, e impotente, deside-rio di intervenire in mia difesa, forse in quelli di Arbus c’era il suo consueto glaciale distac-co…. mentre sembrava che Rummo, incredu-lo o ingenuo, non avesse ancora capito bene in che frangente ci trovavamo, anzi, in cui mi trovavo. Perché era proprio con me, era solo con me, che i camerati avevano deciso di prendersela, i miei compagni di scuola non si dovevano impicciare, la faccenda non li ri-guardava.

«Allora, non canti?»Tacqui.«Ma sei fascista o no?»«No»La breve mia risposta anticipò come un

lampo ogni pensiero. Non avevo fatto in tem-po a calcolare l’opportunità di quella dichiara-zione che essa, spontaneamente, uscì dalle mie labbra. Potrei dire che mi sfuggì e che cor-rispondeva al vero, ma potrei aggiungere che, se anche fossi stato fascista, gli avrei det-to lo stesso di no. No. No. Il no è la risposta in cui si concentra la forza di un ragazzo specie quando è poca. Si può persino dire di no a se stessi.

Nel nostro quartiere, il quartiere Trieste, il QT, evidentemente si dava per scontato che i ragazzini di buona famiglia fossero camerati. %PWFWBOP�FTTFSMP. Ma non era così.

«Ah, capisco…», esclamò l’uomo in divisa, e delicatamente sfilò il cono dalle mie dita, co-me fa il gelataio quando ne prende uno dalla pila, «Peccato!», e iniziò a spiaccicarmelo in faccia. Fece questo, lo ripeto, con una certa delicatezza, tanto che il cono di ostia sottile non si spezzò, finché ebbi tutte le guance co-perte di crema e cioccolato, cioè i gusti da me scelti per imitare Arbus. Se spesso faccio cose per distinguermi, più spesso ancora le faccio ricopiando qualcuno, prendendolo a model-lo, e a quei tempi il mio era Arbus, il genio del-la classe. Lo imitavo quasi senza accorgerme-ne, per questo avevo preso un gelato uguale al suo così come leggevo i libri che leggeva lui e ascoltavo affascinato la /PUUF�USBTGJHVSBUB

di Schönberg senza distinguerne una sola fra-se musicale, solo perché la ascoltava lui.

Quando il gelato fu quasi per intero sparso sul mio viso, e cominciò a colarne giù, «ecco qui», disse l’uomo in divisa e premette il cono in modo che s’incastrasse sul mio naso. «Pi-nocchio!», rise, «Pinocchio, non dire più bu-gie…». Fu quello il momento più umiliante, perché io, paralizzato, non osai scollarmi il na-so finto e attesi che cadesse da solo per terra. I camerati risero, quello che mi aveva punito mi diede una pacca sulla spalla, e insieme si riavviarono, con la ragazza in mezzo, verso piazza Regina Margherita, stavolta tenendo-si a braccetto come si fa nei cordoni delle sfila-te. Una punizione dolce, molto zuccherata, quella che avevo ricevuto…

Lodoli affettuosamente mi aiutò a pulirmi la faccia con vari tovagliolini di carta. Arbus mormorò: «Sono dei poveri coglioni».

Come ho già chiarito si tratta di un episo-dio alquanto trascurabile della vita mia, della vita di quegli anni, della vita di quegli anni nel nostro quartiere, percorso da ben altri bri-vidi di violenza, che mi sono deciso a rendere pubblico, sfacciatamente, solo perché una certa persona, solo perché una certa persona a me molto cara, a cui l’avevo raccontato anni fa per farci insieme due risate, mi ha più volte chiesto perché mai non l’avessi inserito in un mio recente libro, che in effetti è zeppo di aneddoti del genere, di epoca scolastica, e di grandi o piccole o infinitesimali avventure di quartiere. Questa cara persona, che è convin-ta di conoscermi come le sue tasche, e forse in effetti è vero, insinuava che io avessi tenuto fuori la storiella del gelato dal mio stermina-to libro perché io, a conti fatti, non è che ci fac-cia una gran bella figura… insomma, che mi vergognavo allora e ancora mi vergogno di quel gelato spiaccicato in faccia dai fascisti senza muovere un dito. Senza reagire.

Inutile ammettere che lei ha fondamental-mente ragione. Eravamo noi compagni di classe in superiorità numerica, e tra quegli al-tri una donna, per quanto torva e atletica. Avrei potuto almeno resistere allo spiaccica-mento del gelato in faccia e guadagnarmi in cambio un paio di cazzotti, sarebbe stato

senz’altro più onorevole. È altrettanto inutile invocare le attenuanti: noi eravamo ragazzi-ni e loro uomini fatti (quello che mi spalmò il cono in faccia aveva forse trent’anni) e di si-curo bene allenati in palestra a darle e a pren-derle. Inoltre ci avevano colto di sorpresa, mentre loro facendo la ronda per il QT anda-vano apposta in cerca dello scontro. Ma è inu-tile, le attenuanti sono processi intellettuali che intervengono a posteriori quando la scon-fitta è irreversibile e la vergogna… la vergo-gna resta intatta.

E il nostro dopotutto non si elevava nem-meno al rango di uno scontro vero e proprio: piuttosto di una lezione, di una lezioncina im-partita da un adulto a un ragazzino abbastan-za orgoglioso da dire di no, ma non abbastan-za da sopportare virilmente le conseguenze di quel “no”. Orgoglioso solo a parole, con le parole…

Rummo fu l’unico tra noi a mostrare un sentimento diverso sia dalla paura sia dalla vergogna, sia dalla stizza. Rummo fu il solo a dimostrare una qualità che di rado si manife-sta in forma pura e disinteressata: almeno un briciolo di essa, e cioè, un briciolo di coraggio. Raccattò da terra il mio cono, corse dietro al terzetto, che aveva tranquillamente ripreso a marciare e cantare, e gli tirò addosso il co-no. Il quale cadde tra i piedi della ragazza, che lo sbriciolò col tallone dell’anfibio, senza nemmeno darsi la pena di girare la testa per manifestare scherno o disprezzo. E dire che Rummo sì era davvero un bambino, ancora lu-petto agli scout o poco più, e solo l’anno se-guente avrebbe cominciato a crescere, a cre-scere una spanna dopo l’altra, diventando grande e grosso come tutti i Rummo, genito-ri, fratelli e sorelle. Tutti alti, biondi, e bravi.

$F�OF�GSFHIJBNP��-B�TJHOPSB�.PSUF'B�MB�DJWFUUB�JO�NF[[P�BMMB�CBUUBHMJBy

Non so se sia interamente vero, ma voglio affermarlo lo stesso: preferisco sbagliarmi su questo che avere mille volte ragione in altre faccende: il vero coraggio si sprigiona TPMP�RVBOEP�TJ�Ò�EBMMB�QBSUF�EFM�HJVTUP.

ª3*130%6;*0/&�3*4&37"5"

%*4&(/0�%*�1*&3-6*(*�-0/(0�1&3�i3&16##-*$"w

-�"6503&

&%0"3%0�"-#*/"5*30." ������µ�$"/%*%"50�/&--"�$*/26*/"�'*/"-&�%&-�13&.*0�453&("�$0/�i-"�4$60-"�$"550-*$"w �30."/;0�%*�'03.";*0/&�".#*&/5"50�/&--"�30."�%&(-*�"//*�4&55"/5"3*;;0-* ������1"(*/& ����&630���."35&%¹��� �"--&����13&440�-"�#"4*-*$"�%*�."44&/;*0 �"�30." �/&--�".#*50�%*�i-&55&3"563&w�-&((&3®�*-�5&450�*/&%*50�$)&�26*�"/5*$*1*".0��/&-�$0340�%&--"�4&3"5"�"/$)&�&4),0-�/&70�&�(*"/$"3-0�%&�$"5"-%0�-&((&3"//0�"-$6/*�#3"/*

Page 10: Il grande spettacolo della vita quotidiana In una mostra a Bologna i ...

laRepubblica%0.&/*$" �� (*6(/0 ���� ��-"%0.&/*$"

MB�NBUJUB

7JS[Ö

ROMA

j7EDO CHE LEI È UNO DIFFICILE». Osservando lo stupore sincero del giovane ar-tista, lo sconosciuto prese il libretto degli assegni e vi scrisse sopra “un milione di lire”. Paolo Virzì aveva diciannove anni, e quella tavola di com-pensato dipinta coi pastelli a olio sul lungomare della sua Livorno, mare in tempesta dietro a un signore che legge il giornale, fu l’unico dipinto mai venduto in tutta la sua vita. «Era un gallerista importante di Roma, ma io non lo sapevo. Forse pensava volessi tirare sul prezzo, o forse vole-va solo fare il gradasso. Fatto sta che mi si affacciò alle spalle, guardò il quadretto e fece l’offerta. Io, con quell’assegno in mano, mi sentii come il signor Bonaventura». Il disegno è compagno quotidiano di vita e di set per il regista toscano. Ma sulle pareti dell’ufficio minuscolo e colorato del-la sua “Motorino Amaranto”, nel quartiere romano dell’Ostiense, ci sono

solo i suoi ritratti più cari. La madre Franca, un “selfie” di famiglia, un Pinocchio dal volto umanissimo. Nessuna traccia dei bozzetti fatti sui tanti set. -B�QB[[B�HJPJB, *M�DBQJUBMF�VNBOP, 5VUUJ�J�TBOUJ�HJPSOJ sono solo fogli sparsi. «Non li custo-disco. Quelli che vede sono gli scarti, i migliori se li portano via durante la lavorazione. Non esistono storyboard ordina-ti, solo schizzi estemporanei ad uso assolutamente pratico».

Cinema e disegno, disegno e cinema: come si sono intrecciate le sue due costanti artistiche?

«Credo di essere stato preso al Centro Sperimentale di cinematografia proprio perché sapevo scarabocchiare carica-ture. Durante una delle prove scritte di ammissione — eravamo in duemila nell’aula magna — mentre stò lì a rimugina-re sul testo, faccio il ritrattino di un membro della commissione che intravedo laggiù. Alto, una figura da antico roma-no. Non lo so ancora, ma è lo sceneggiatore Leo Benvenuti. Dietro le mie spalle arriva un signore con gli occhialetti e la giacca di tweed. Mi prende la penna, corregge il naso — “è più piccolo” mi fa. Poi mi strappa il disegno, lo porta al docen-te e li vedo da lontano che se la ridacchiano insieme. Passo all’orale e solo allora capisco che il signore in tweed è Furio Scarpelli. Beh, ancora oggi sono convinto che se mi hanno preso è per quel disegnetto, il testo era una vera stronzata».

Quando ha iniziato a scarabocchiare?

«Da piccolissimo ero un viscerale di fumetti, ci dormivo abbracciato. Topolino e Alan Ford, e poi il trio Intrepido-Mo-nello-Lanciostory. Mia madre me li comprava quando ero malato e passavo giornate meravigliose a leggerli a letto».

E il disegno “cinematografico”? Dopo aver passato l’ammissione al Centro sperimentale, poi come ha coltivato la

sua passione per lo scarabocchio?

«Proprio crescendo accanto a quel signore con la giacca di tweed! Perché Scarpelli non è stato solo uno dei più grandi sceneggiatori italiani, ma an-che un grandissimo illustratore. Per non parlare di un altro mio maestro al Centro, Ettore Scola. Ricor-do ancora due suoi disegni sul tema “commedia ita-liana”. Erano due varianti del volto stilizzato di una signora. Uno pieno di ombre, l’altro brillante. Sotto il primo c’era scritto “commedia con dramma”, sot-to l’altro “commedia leggera”. Per dire che già nel proporre l’immagine di un personaggio c’era da por-si il problema del tono, il timbro, la regia, il sottofon-do. Quanto a me, i miei sono disegni tendenzialmen-te comici e ne faccio un uso esclusivamente funziona-le. Sono vere e proprie comunicazioni ai costumisti, ai truccatori, a quelli che si occupano degli effetti spe-ciali. E agli attori: li incoraggio così a dare una chiave canzonatoria al proprio personaggio, a guardarlo da tanti lati diversi, in quell’equilibrio tra tragedia e iro-nia che cerco di dare sempre ai miei film».

E come reagiscono gli attori? C’è una caricatura

buffissima di Fabrizio Bentivoglio ne “Il capitale

umano”...

«Lui ne era entusiasta, e credo sia partito pro-prio da quei disegni per costruire il suo personag-gio. Voleva somigliargli. È uno che adora trasfor-marsi, si diverte e camuffare la voce, il portamen-to. Non è della scuola Mastroianni, e cioé quel ti-po di attori che portano in dote, perennemen-te, la propria natura e indolenza, e di cui è allie-vo illustre Valerio Mastandrea. Bentivoglio, come anche Gifuni, è della scuola Volonté, quelli che in ogni film devono trasformarsi in qualcos’altro».

E Valeria Bruni Tedeschi? Come ha pre-

so gli schizzi della signora Bernaschi, la

ricca e filantropica signora de “Il capi-

tale umano”?

«Valeria in particolare non ricordo, ma in generale credo che le donne amino meno

essere trasformate in caricature. Io faccio scaraboc-chi, ritrattini e caricature in continuazione, ovunque mi trovi. A volte può capitare che una signora mi chieda di ri-

trarla. La vedo molto contenta mentre disegno, ma il sor-riso si spegne quando glielo porgo. Credo che dovrei an-darci un po’ più cauto con l’ironia».

Anche con sua moglie, Micaela Ramazzotti?

«Mah, forse no, a me pare che lei invece si diverta mol-to ad essere trasformata in fumetto comico dalle espres-sioni esagerate, le caricature che le ho fatto le appende dappertutto. E comunque non è la mia unica vittima in fa-miglia. Disegno molto anche i miei figli. E poi c’è la mia pri-mogenita, Ottavia, designer, costumista e scenografa che vive a Londra da quattro anni e che a sua volta mi prende in giro con le sue caricature. E pure Jacopo, l’altro mio figlio, disegna».

Però lei non usa sempre lo stesso stile, perché?

«Dipende dall’uso che devo farne. A volte disegno a ma-tita, a pennarello, altre volte sul tablet con certe bellissi-me “app” che mi ha fatto scoprire Gipi: lui adora gli acque-relli ma quando è in viaggio, o la moglie si stufa dello spor-co, anche lui usa le tavolette digitali. Quando sono sul set invece mi capita di dover fare uno storyboard veloce. Per la scena de -B�QB[[B�HJPJB�in cui madre e figlio si buttano dal ponte, ho dovuto spiegare con un disegno quel che vo-levo al reparto degli effetti speciali. La stessa cosa è suc-cessa per�5VUUJ�J�TBOUJ�HJPSOJ nella scena con i neonati nel-la grotta. Più accurato, invece, il disegno dell’incontro tra la madre e il figlio sulla spiaggia: serviva a trasmettere a quelli della fotografia e dei costumi i toni e i colori, ragio-navamo su come dovesse essere vestita Donatella, una sorta di lacera principessa da fiaba, e del tipo di luce».

Tra i registi-disegnatori c’è anche Marco Bellocchio...

«E no eh, non mi può paragonare ai maestri! Lui dipin-geva anche prima di fare cinema. Si sente il suo stile fatto di impeti, dolore, sarcasmo».

E Scola?

«Ettore disegnatore era figlio, come Furio, delle riviste umoristiche del dopoguerra. Sono stupendi i suoi ritratti-ni malinconici e ironici dell’umanità anni ‘30 e ‘40, senti l’influenza di illustratori come Saul Steinberg. Le mie in-fluenze sono invece tutte fumettistiche, soprattutto di quella stagione straordinaria dalla fine degli anni Settan-ta a metà anni Ottanta: Liberatore, Scozzari, Milo Mana-ra, il tecnicamente più dotato, Crepax, il più antonionia-no ed esistenzialista. Il maestro però è Andrea Pazienza, con il suo mondo comico e tragico, la forma del monologo interiore joyciano. A pensarci bene anche oggi, per me, i narratori—registi più grandi sono fumettari come Zero-calcare e Gipi».

E lei, dipinge?

«Sono un pittore della domenica, a casa. Non ho prete-se, arrossisco solo a parlarne. Lascerò scritto di non tirarli fuori nemmeno dopo morto...Per -B�QB[[B�HJPJB ho dipin-to parecchio. I murales dallo stile naif, certi quadri nella casa di cura Villa Biondi, i paesaggi, le donne sdraiate...».

Qualcosa però conserva. I ritratti di sua madre, della

sua famiglia, di Scarpelli. E poi Pinocchio. Perché?

«È uno dei miei sogni. Un mese fa mi sono ritrovato in treno con Matteo Garrone. Parlavamo dei nostri progetti, mi ha detto “farò Pinocchio”. Ho fatto un sospiro di sollie-vo e una telefonata al mio ufficio: “Va disdetta la riunione di mercoledì, se dio vuole Pinocchio lo fa Matteo”».

Perché il sospiro di sollievo?

«È un progetto che mi porto dietro da quasi vent’anni. Nel ‘97 mi convocarono i vertici Rai per un Pinocchio con un pupazzetto animato da Carlo Rambaldi. Poi non se ne fece nulla».

Perché tutti vogliono fare Pinocchio?

«Perché è una fiaba dolorosa, piena di amarezza e di-sperazione. Perché racconta l’impossibilità di essere feli-ci e liberi, ci dice che il nostro destino è di essere schiavi e lavoratori. Credo che Matteo abbia perfettamente com-preso l’animo nerissimo di Collodi».

E il suo di Pinocchio?

«L’appuntamento è solo rimandato. Magari tra dieci anni, magari quindici».

JM�SFHJTUB

"3 * "//"�' * /04

i4POP�VO�QJUUPSF�EFMMB�EPNFOJDB �TF�TDBSBCPDDIJP

Ò�TPMP�QFS�TQJFHBSF�BMMB�USPVQF�RVFMMP�DIF�WPHMJPw

-�BVUPSF�MJWPSOFTF�DJ�NPTUSB�J�TVPJ�CP[[FUUJ�EJ�MBWPSP�

$PO�VO�BWWFSUFO[B��i/PO�QBSBHPOBUFNJ�BJ�NBFTUSJw�

ª3*130%6;*0/&�3*4&37"5"

F

4QFUUBDPMJ��1B[[F�HJPJF

Page 11: Il grande spettacolo della vita quotidiana In una mostra a Bologna i ...

laRepubblica%0.&/*$" �� (*6(/0 ���� ��

AA

4E SI VOLESSE CERCARE un simbolo della

doppia anima del cinema moderno in

Italia, la si potrebbe sintetizzare così:

Antonioni dipingeva quadri astratti,

Fellini per tutta la vita ha schizzato

migliaia di disegni, vignette, caricature. In questo

modo il cinema italiano ha aperto la strada alla

modernità. In un caso in maniera “alta” e seria,

confrontandosi con la psicanalisi, la modernità, il

nouveau roman ecc. Dall’altro lato, guardando

all’arrivo fracassone di una modernità “bassa”,

capendo che il cinema poteva ingoiare e

riutilizzare la radio, l’avanspettacolo, il circo,

il fumetto.

La radice del disegno felliniano sta nella

caricatura, termine di solito limitante ma

che molti teorici dell’arte, da Gombrich a

Baudelaire, hanno rivalutato. E lo stesso

regista lo dirà con chiarezza: «La caricatura

ha in sé una forza essenziale, cioè

di sintesi, che mi sembra sia uno

degli aspetti fondamentali

dell’arte, e quindi non sono affatto

seccato che qualche volta la critica

definisca certi aspetti deformanti o

deformati dei miei personaggi o dei

miei arredamenti “caricaturali”. No, è

una visione che ha in sé, che presume

in sé già un giudizio morale sulle cose».

Certo, negli anni non sono mancati

registi-pittori, da Bellocchio a Pasolini,

ad autori più recenti come Matteo

Garrone o Michelangelo Frammartino

(che ha fatto anche un bellissimo corto

animato, “Via Aretusa 19”). E spesso, se si

guarda la loro attività di pittori e

disegnatori, si capisce qualcosa in più anche

del loro cinema. Ma resta il fatto che la

grande tradizione italiana dei

registi-disegnatori è quella delle riviste

umoristiche, dalle quali è passato il meglio del

nostro cinema, e non solo della commedia. Un

esempio di autentico poligrafo, grafico, pittore

e collezionista è stato Cesare Zavattini. Dalle

pagine del “Marc’Aurelio” vengono Fellini, Steno,

Ettore Scola e il maestro diretto di Virzì, Furio

Scarpelli (ma anche, pochi lo sanno, un “pittore” di

altro genere, il maestro dell’horror Mario Bava). A

guardare i disegni del regista livornese, si ha la

conferma della sua lucida volontà di proseguire

quella tradizione di scrittori e registi, che

dall’osservazione minuta della realtà, e anche dai

tratti deformanti, si allarga a una visione sociale e

storica esemplare. Come nel suo cinema, però,

anche nel suo tratto sembra di avvertire una

maggior morbidezza, un segno più indulgente,

una maggior tenerezza verso i personaggi.

ª3*130%6;*0/&�3*4&37"5"

%"�1*$$0-0�&30�6/�1"5*50�7*4$&3"-&�%*�'6.&55* �$*�%03.*70�"##3"$$*"50�5010-*/0 �"-"/�'03% �-�*/53&1*%0 �-"/$*04503:�.*"�."%3&�.&�-*�$0.13"7"�26"/%0�&30�."-"50��1"44"70�$04¹�.&3"7*(-*04&�(*03/"5&�"�-&550�

&. * - * "/0�.033&"-&

%B�'FMMJOJ�F�4DPMBMB�WJB�JUBMJBOB�BM�GJMN�EJTFHOBUP

*�%*4&(/*

%"�4*/*453"�6/�#0;;&550�1&3�i5655*�*�4"/5*�(*03/*w�&�40550 �*/�1*$$0-0 �6/"�$"3*$"563"�%&--�"653*$&�%*�26&45"�*/5&37*45" �"3*"//"�'*/04��*/�"-50�53&�1&340/"((*�53"�$6*�-"�.0(-*&�%*�1"0-0�7*3;¹ �-�"553*$&�.*$"&-"�3".";;055*�%"�i-"�1";;"�(*0*"w��7"-&3*"�#36/*�5&%&4$)*�"/$03"�%"-�4&5�%&�i-"�1";;"�(*0*"w��'"#3*;*0�#&/5*70(-*0 �7"-&3*"�(0-*/0�&�."5*-%&�(*0-*�%"�i*-�$"1*5"-&�6."/0w��26*�"$$"/50�6/�(3"/%&�"6503*53"550�%*�'".*(-*"

Page 12: Il grande spettacolo della vita quotidiana In una mostra a Bologna i ...

laRepubblica%0.&/*$" �� (*6(/0 ���� ��-"%0.&/*$"

#0-0(/"#BODP���.FSDBUP�EFMMF�&SCF7JB�4BO�(FSWBTJP��"5FM������������

503*/0*M�1SPGFTTJPOJTUB�EFMMB�'SVUUB�4FDDB1JB[[B�.BEBNB�$SJTUJOB5FM�������������

-B�SJDFUUB�*�NJFJ�HBNCFSJ�SPTTJ�BMMB�QJ[[BJPMBDPO�EBUUFSJOJ �DBQQFSJ�F�PMJWF�UBHHJBTDIF

*M�MJCSPµ�JO�VTDJUB�QFS�5FDOJDIF�/VPWF�i$PDLUBJM�4BGBSJw �EJ�4UFGBOP�

/JODFWJDI�#BSHJPSOBMF�F�"OEZ�'MVPO �JMMVTUSBUPSF�F�NVTJDJTUB�#MV�7FSUJHP��/FM�MJCSP �J�QJá�GBNPTJ�ESJOL�EFM�NPOEP�TPOP�SBDDPOUBUJ�F�DPOUFTUVBMJ[[BUJ�USB�TUPSJB �MFUUFSBUVSB�F�NVTJDB

4BQPSJ��4UV[[JDBOUJ

6NA TIRA L’ALTRA, come le ciliegie. Grandi e piccole, di tutti i colori e di tut-te le fattezze, dolci e asprigne, morbide e croccanti, crude o cotte, senza limiti geografici se non quelli connaturati alla sopravvivenza dell’albe-ro-madre. Tante varietà (cultivar) e due grandi famiglie a segnarne il destino: da olio e da mensa, a eccezione di quelle che assommano en-trambe le attitudini.

Le olive sono figlie della terra, dal Friuli a scendere per tutto il Medi-terraneo, madrine benigne di mille preparazioni estive. Se la materia prima (e unica) dell’olio extravergine entra in varia misura nei ricettari di qualsiasi latitudine e tradizione, l’elenco rischia di allungarsi in ma-niera imbarazzante quando le temperature salgono e l’appetito — in maniera inversamente proporzionale — si riduce.

È questo il momento di maggior gloria di Taggiasche e Belle di Cerignola, chiamate a rendere appe-titosi i piatti più diversi, facili come sono da gestire, conservare, far sgattaiolare in pentola per rivita-lizzare una cottura. Perché se in versione “nature”, le olive sono di semplice supporto all’aperitivo, una volta trasformate in ingrediente diventano decisive. Siamo così abituati a usarle, che nemmeno ce ne rendiamo conto. Eppure, senza di loro le pause-pranzo sarebbero insipide, le cene meno stuzzi-canti, i panini banali e le pizze meno pizze.

Guai a pensare che un’oliva valga l’altra. Le violacee di Gaeta, citate da Virgilio nell’&OFJEF, sono insostituibili compagne di teglia alle verdure della cianfotta sorrentina. Le olive ripiene sarebbero meno morbide e carnali senza le Tenere Ascola-ne, che col nome di Picene erano glorificate già da Plinio. Il coniglio alla ligure sarebbe un norma-lissimo arrosto senza le piccole e saporitissime Taggiasche, note per la loro bontà ben prima dell’anno mille grazie ai frati del monastero be-nedettino di Taggia.

Ma il carattere delle cultivar non può prescin-dere dai metodi di coltivazione e preparazione. Colte sulle piante, le olive sono immangiabili per-ché amarissime. Tutta colpa dell’oleuropeina, che viene neutralizzata con lunghe immersioni in acqua e sale o acqua e soda (metodo decisa-mente più rapido).

Il rischio è quello di perdere l’originale bel ver-de brillante. Allo stesso modo, una raccolta non tempestiva — olive cadute a terra — la mosca olearia o la semplice vecchiezza incidono su inte-grità e colore. Il trucco più comune è “verniciare” le olive con immersioni nella clorofilla ramata

(E141), colorante vietato dall’Unione Europea, e solfato di rame, sostanza a rischio di tossicità che viene sì usata in agricoltura biologica (tampona-ta con calce per farne la cosiddetta poltiglia bor-dolese), ma lontano dalla fruttagione e in quanti-tà misuratissime. Appena qualche mese fa, gli agenti della Forestale hanno sequestrato in Pu-glia quasi centomila chili di olive — soprattutto le tonde, carnali Nocellara del Belice — fraudo-lentemente colorate.

Per evitare di comprare le olive truccate, diffi-date dai colori troppo lucidi e sgargianti, che mai trovereste sugli ulivi. Cercate il commerciante che venda quelle giuste: colore sano, consistenza naturalmente croccante, sapore dolce e non me-tallico. Tolto il nocciolo e tagliate a rondelle, ac-cenderanno salse e insalate. Se siete viziosi, l’ulti-ma, annegatela nel gin.

INGREDIENTI PER QUATTRO PERSONE

12 GAMBERI ROSSI O VIOLETTI

2 POMODORI DATTERINI

100 GR DI OLIVE TAGGIASCHE

GERMOGLI (O CIMETTE) DI BASILICO

20 GR DI OLIO EXTRAVERGINE

LE ZAMPETTE DEI GAMBERI

FIORI EDULI

50 GR DI CAPPERI

3 FETTINE DI PANE RAFFERMO TOSTATO

1ulire i gamberi, conservando con cura le zam-pette che dovremo fare essiccare e, in seguito, friggere. Infornare le olive e i capperi a 70° per

quattro ore, dopodiché tritare il tutto.Spellare i pomodori passandoli un attimo in acqua

bollente, raffreddare e tagliare in piccoli pezzi.Condire in modo molto semplice i gamberi con

olio, sale, pomodoro e il trito di olive e capperi.Servire infine il tutto accompagnando con crosti-

ni di pane, germogli di basilico, olive e capperi disi-dratati e i fiori eduli.

%"-�'3*6-*�*/�(*�5"((*"4$)&�

0�#&--&�%*�$&3*(/0-"�

%0-$*�0�$"3/04&�4*".0�$04¹�"#*56"5*�"�64"3-&�

$)&�"�70-5&�/0/�$*�3*$03%*".0�

/&1163&�1*�26"/50�40/0�*.1035"/5*

-�"QQVOUBNFOUP�1FS�HBTUSPOPNJ�BQQBTTJPOBUJ�NBSUFEÖ�QSFTTP�-B�$BOUBMVQB�EJ�#SVTBQPSUP �#FSHBNP �

EPWF�MB�GBNJHMJB�$FSFB�PTQJUB�MB�UFS[B�FEJ[JPOF�EF�i(MJ�"SUJTUJ�

EFMMP�4USFFU�'PPEw �DPO�USFOUB�USB�J�NJHMJPSJ�JOUFSQSFUJ�

EFMMB�DVDJOB�EJ�TUSBEB

-B�EFHVTUB[JPOF4BCBUP��� �MB�WJUJDPMUVSB�TJDJMJBOB�EFEJDB�VO�HJPSOP�EJ�EFHVTUB[JPOJ�

F�DPOWFHOJ�BM�(SJMMP �WJUJHOP�BVUPDUPOP�TJDJMJBOP �F�BMMB�TVB�EFDMJOB[JPOF�QJá�QBSUJDPMBSF �

OFM�UFSSPJS�EJ�.P[JB �M�BGGBTDJOBOUF�JTPMFUUB�EFMMB�-BHVOB�EFMMP�

4UBHOPOF �USB�MF�TBMJOF�EJ�5SBQBOJ

3JQJFOF/FMMB�SJDFUUB�BTDPMBOB �PMJWF�TCVDDJBUF�JO�NBOJFSB�FMMJUUJDB �SJDPNQPTUF�JOUPSOP�BM�SJQJFOP�EJ�DBSOF�F�JNQBOBUF��*O�4QBHOB �EPQQJB�JNQBOBUVSBEFMMF�PMJWF�WFSEJ�GBSDJUF�DPO�M�BDDJVHB

*OTBMBUB�EJ�BSBODF.BEF�JO�4JDJMJB �JM�NJY�GSFTDIJTTJNP�EJ�GJOPDDIJ�UBHMJBUJ�TPUUJMJ�QFS�MVOHP �BSBODF�QFMBUF�B�WJWP�F�PMJWF�OFSF�B�SPOEFMMF��4PQSB �PMJP�FYUSBWFSHJOF�F�QFQF�OFSP�NBDJOBUP�BM�NPNFOUP

ª3*130%6;*0/&�3*4&37"5"

-0�$)&'�

/*/0�%*�$045"/;0 �(&/*"-&�%6&�45&--&�.*$)&-*/�%*�*4$)*" �)"�*/"6(63"50�*-�460�3*4503"/5&���%"/¹�."*40/���/&-�$603&�%&--�*40-"��1*"55*�%*�(3"/%&�&26*-*#3*0�53"�4"103* �$0-03*�&�130'6.* �%07&�53*0/'"/0�(-*�*/(3&%*&/5*�.&%*5&33"/&*

*OEJSJ[[J

- * $ * "�(3"/&- -0

%*4&(/0�%*�"//"-*4"�7"3-055"

$PO�MF�PMJWF��*OTBMBUF QBTUF �DPDLUBJM �QJ[[F �QBUÏ/PO�DIJBNBUFDJ�BQFSJUJWP

Page 13: Il grande spettacolo della vita quotidiana In una mostra a Bologna i ...

laRepubblica%0.&/*$" �� (*6(/0 ���� ��

"4$0-*�1*$&/0.JHMJPSJ�'SJUUJ��(BTUSPOPNJB1JB[[B�"SSJOHP��5FM�������������

-*703/0*M�$IJPTDP�EFM�.BOBMá.FSDBUP�$FOUSBMF�$PQFSUP4DBMJ�"VSFMJP�4BGGJ

30."5VUUP�(IJPUUP�DIJPTDP����.FSDBUP�(JBOJDPMFOTF1[B�4��(JPWBOOJ�EJ�%JP�5FM�������������

10/5&%"44*0�*.'SBOUPJP�#JBODP7JB�/B[JPOBMF���3FHJPOF�4BOUB�-VDJB5FM��������������

/"10-*-B�.BTBSEPOB7JB�(JVMJP�$FTBSF�$BQBDDJP���5FM������������

1"-&3.0'SJHHJUPSJB�EFM�NFSDBUP�4BO�-PSFO[P7JB�4��-PSFO[P����5FM�������������

1VUUBOFTDB*M�TVHP�QJá�USBTHSFTTJWP�OPO�QVÛ�QSFTDJOEFSF�EBMMF�PMJWF�OFSF �UBHMJBUF�B�SPOEFMMF�F�VOJUF�BJ�DBQQFSJ�OFMM�PMJP�CPMMFOUF�JO�DVJ�TPOP�TUBUF�EJTDJPMUF�MF�BDDJVHIF��1PNPEPSP�B�TFHVJSF

1JO[JNPOJP-B�TBMTB�GSFEEB�QJá�TUV[[JDBOUF�EFMM�FTUBUF��PMJWF�WFSEJ �VPWB�TPEF�F�BDDJVHIF �BNNPSCJEJUF�DPO�QBOOB�BODIF�WFHFUBMF�F�GSVMMBUF�DPO�PMJP�FYUSBWFSHJOF��1FSGFUUP�DPO�MF�WFSEVSF�DSVEF

4QBEB�BMMB�TJDJMJBOB*M�USJPOGP�EFM�.FEJUFSSBOFP�OFM�QFTDF�JOGBSJOBUP �TQBEFMMBUP�F�JOGPSOBUP�DPO�VO�TVHP�B�CBTF�EJ�DJQPMMB �BHMJP �TFEBOP �PMJP�EJ�GSJUUVSB �QPJ�QJOPMJ �VWFUUB �PMJWF �DBQQFSJ�F�QPNPEPSP

1BUÏ-B�SJDFUUB�EJGGVTB�USB�1SPWFO[B�F�$PTUB�"[[VSSB�F�MÖ�DIJBNBUB�iUBQFOBEFw�QSFWFEF�PMJWF�OFSF �BDDJVHIF�F�DBQQFSJ �UVUUP�GJOFNFOUF�TNJOV[[BUP�F�NFTDPMBUP�DPO�PMJP�FYUSBWFSHJOF�%B�TQBMNBSF�TVM�QBOF�UPTUBUP

.BSUJOJ�DPDLUBJM4IBLFO�OPU�TUJSSFE �DPNBOEB�+BNFT�#POE�JO�i(PMEGJOHFSw��"HJUBUB�F�OPO�NFTDPMBUB �MB�7PELB�iCBUUF[[BUBw�DPO�JM�WFSNPVUI�F�WFSTBUB�OFMMB�DPQQFUUB�HFMBUB��*NNBODBCJMF �M�PMJWB�WFSEF

1J[[B�EJ�TDBSPMB"M�GPSOP�P�GSJUUB ��VOB�GPDBDDJB�CJBODB�F�HPMPTBNFOUF�JNCPUUJUB��"MM�JOUFSOP �TDBSPMB�TCPMMFOUBUB�F�QPJ�TUVGBUB�DPO�PMJP �BHMJP �PMJWF�OFSF�EFOPDDJPMBUF�JOUFSF �DBQQFSJ �QJOPMJ�F�VWFUUB

.I RICORDO che i nonni

avevano gli ulivi, mio

nonno aveva un

frantoio di famiglia e io

avevo solo sette anni.

Era prima della guerra, quella che

ammazzò gli ebrei e pure una famiglia di

zingari che veniva due volte l’anno in

paese ad aggiustare le pentole. In quel

periodo la cosa più divertente, a parte

andare a tuffarsi nel fiume per pescare le

rane che poi mangiavamo a casa, era

andare al frantoio del nonno durante la

frangitura. Era di venerdì. Uscivo da

scuola e senza nemmeno passare da casa,

correvo al frantoio. Che il venerdì il

nonno, laggiù, ci faceva lo stoccafisso.

Quando arrivavo entravo di corsa e quel

cambio improvviso tra la luce forte del

sole e l’oscurità del frantoio, mi faceva

cieco. Per un attimo non vedevo niente,

ma all’odore sentivo che anche quel

venerdì lo stoccafisso del nonno non mi

aveva tradito. Era sempre lì, in quella

teglia enorme, sempre la stessa, posata

sui sacchi di olive trasformati in tavolino.

E gli uomini intorno a mangiare dalla

stessa teglia. Le posate non c’erano. Le

fabbricava il nonno ogni volta. Nuove. Per

tutti. Usciva dal frantoio, prendeva delle

canne, le tagliava, ci faceva la punta e le

distribuiva. Anche a me, che ero il più

piccolo. Con quelle specie di forchette ci

infilzavi un pezzo di pane, lo inzuppavi in

quelle quattro dita d’olio e con lo stesso

movimento tiravi su un pezzo di

stoccafisso e un pezzo di patata. Mi

piaceva quel frantoio sporco e mezzo buio.

Quegli uomini tutti pieni di olio e di

sudore. Mi sembrava di essere “Giovanin

senza paura” che entrava in un castello

pieno di orchi sporchi e puzzolenti. Mi

ricordo uno, Chichin si chiamava, avrei

tanto voluto essere come lui. Era

gigantesco, con una pancia gigantesca

che spuntava da una maglia che un tempo

doveva essere stata bianca. Collo pieno

zeppo di peli neri, ricci e unti. Gli occhi poi

erano due fessure strette strette, e per

tutta l’infanzia ho creduto che Chichin

fosse arrivato in paese dalla Cina. Mi

ricordo nel frantoio, dopo aver divorato lo

stoccafisso, iniziava a infilarsi in bocca

un’oliva dietro l’altra: mangiava la polpa,

e dopo aver conservato il nocciolo tra i

denti e la guancia, prendeva il fiasco di

rosso, ci si attaccava e tracannava.

L’ultimo sorso lo conservava in bocca per

centrifugare i noccioli e spararli fuori uno

a uno, come proiettili da una

mitragliatrice. Chichin aveva una gittata

potentissima e riusciva a tirarli almeno

dieci metri fuori della porta del frantoio.

Ricordo la risata e il buffetto che mi dava

sulla guancia quando restavo a guardarlo

ammirato a bocca aperta. “Ti piacerebbe

fare il contadino da grande?”, chiedeva.

“Sì”. “Allora devi mangiare tanto, ché devi

diventare forte: la terra è fatica, spacca la

schiena. Lo sai tu, che la terra è bassa?”.

“Sì”. “E vuoi sempre fare il contadino?”.

“Sì”, gli dicevo.

(Pietro Petruzzelli, genovese,

è scrittore e autore di testi teatrali.

Questo brano è tratto dal suo monologo

“Storie di uomini e di vini”)

"NBWP�RVFM�GSBOUPJPTQPSDPF�NF[[P�CVJP

1 * /0�1 & 536;;& - - *

ª3*130%6;*0/&�3*4&37"5"

Page 14: Il grande spettacolo della vita quotidiana In una mostra a Bologna i ...

laRepubblica%0.&/*$" �� (*6(/0 ���� ��-"%0.&/*$"

ª�$"3-�5)03#03(

CRAIOVA

4ONO UNA RARITÀ gli artisti sanciti dal successo in grado di evitare gli antipatici “ismi” collegati al genio: divismo, narcisismo, ego-centrismo. Uno sparuto drappello di creatori opta per l’understa-tement, nascondendo il proprio io dentro l’altrove delle rispetti-ve opere. Del gruppo fa parte Mats Ek, coreografo e regista sve-

dese che ha ricevuto a Craiova, in Romania, il Premio Europa per il Teatro, già preso da Peter Brook, Luca Ronconi, Pina Bausch e Robert Wilson. Come dire i campioni delle arti teatrali d’Occidente. «Questo riconoscimento mi onora», confessa. «Mi piace che abbia il nome dell’Europa, entità potente nell’eterogeneità delle culture ma anche fragile nella difficoltà di con-tenere tradizioni e lingue diverse. Il crollo dell’idea unita-ria, oggi a rischio, porterebbe a un collasso generale». In tale panorama scivoloso «è importante aggrapparsi al-la cultura», osserva Mats, perché «il teatro è uno stru-mento di dialogo, un motore di rapporti, uno stimolo alla circolazione di pensieri e sentimenti».

Durante il nostro incontro appare timido e introver-so, e afferma addirittura che la sua vita è del tutto «pri-va d’interesse». Naturalmente non è così, e il suo talento, come vedremo, si è sviluppato anche grazie a una storia fami-liare e artistica avventurosa, condizionata da una figura ma-

terna così massacrante nel suo ingombro da assumere dimensioni mitologiche. Ma il suo sincero riserbo non gli consente troppe divagazioni personali.

Nato a Malmö nel 1945, Ek ha segnato la scena con-temporanea coi suoi lavori intensi ed espressivi, ed è sta-to profondo e capillare il suo influsso sugli autori più gio-vani. Estraneo alla “danza pura”, astratta e formalistica, può essere definito artefice di una “danza umanista” (termine coniato dal bel saggio monografico su di lui scritto da Ada D’Adamo e pubblicato in Italia da L’E-pos). Dunque protesa verso lo scavo psicologico, la ricer-ca degli aspetti inconsci, l’indagine sulle nevrosi celate sotto i quadretti di famiglia, la proposta del gesto come materiale denso di emozioni. Spinto da un apprendista-

to giovanile con Ingmar Bergman, Mats ha fatto alcune notevoli incursioni nel campo della prosa, e si è visto anche in Italia il suo %PO�+VBO (Molière), dove il protagonista, più che un seduttore, è un tipaccio decadente e droga-to «che forse un tempo è stato un grande amante», spiega, «e che ancora vorrebbe esserlo, o vorrebbe far credere di esserlo. In realtà è disperata-mente solo perché non riesce ad essere all’altezza dell’amore». A parte espe-rimenti come questo, il catalogo di Ek è ricco soprattutto di balletti, e sono note le sue riletture scioccanti dei classici di repertorio. Vedi la sua (JTFMMF, la cui eroina è una ragazza strampalata e “diversa”, troppo autentica per adattarsi alla società, e catturata senza complimenti dall’amore erotico. «Quando è con Albrecht, oggetto del suo desiderio, Giselle lo annusa, lo toc-ca, lo spoglia e gli si offre», avverte il coreografo. «È ignara delle ipocrisie che la circondano, è innocente».

Qualche anno fa il critico inglese Clement Crisp giudicò «disgustoso» que-sto suo balletto, e non è stato il solo. Eppure in molti lo considerano un capo-lavoro per l’efficacia passionale e la magnetica fisicità restituita a un perso-naggio iper-romantico. Con la stessa determinazione il biondo Mats, tor-mentato e pensoso come possono esserlo gli scandinavi, ha allestito un -B�HP�EFJ�DJHOJ pieno di sottotesti edipici e una #FMMB�"EEPSNFOUBUB dove la principessa Aurora s’innamora di uno spacciatore pronto a sostituire con una siringa d’eroina il fuso caro alla convenzione fiabesca, mentre la narra-zione si apre e chiude con un parto sottolineato dall’immagine di un uovo gi-gante.

Perché usare gli schemi delle fiabe per i suoi viaggi psicoanalitici? «Mi piace smontarne il meccanismo e attualizzarle», risponde Ek, «ma senza tradirne il senso né il nucleo simbolico. L’eredità culturale è un vaso che rompo e ricompongo, attaccandone i pezzi con coerenza drammaturgica e la mia logica interpretativa. Non sento di snaturare gli originali».

Mats è figlio di Birgit Cullberg, una delle massime figure della coreogra-fia moderna. Allieva del capofila della danza espressionista tedesca Kurt Jooss, lo stesso maestro che allevò Pina Bausch, Birgit studiò in Inghilterra, dove Jooss si era rifugiato in fuga dal nazismo. Tornata in Svezia, dove avrebbe fondato il Cullberg Ballet, realtà di riferimento per decenni in Nord Europa, sposa nel ’42 il grande attore bergmaniano Anders Ek. Dall’u-nione nascono Niklas (poi divenuto un acclamato danzatore) e i gemelli Ma-ts e Malin (attrice). Nel ’49 Anders e Birgit si separano, e lei affida la cresci-ta dei tre figli piccoli a un progetto di casa-famiglia concepito dall’intellet-tuale social-democratica Alva Myrdal. Educato alla danza controvoglia, Ma-ts approda da giovane al mestiere di regista nel Teatro delle Marionette di Stoccolma e nell’istituzione del Dramaten, dominata dal gigante Bergman. Ha ventotto anni, cioè troppi per il balletto, quando decide di rimettersi a danzare: «Dopo aver fatto una ventina di regie in sei anni», rammenta, «vo-levo essere io a interpretare qualcosa, e percepivo la danza come più sponta-nea e istintiva per me della recitazione». Nel ’67 entra nella compagnia del-la madre, di cui in seguito prenderà la guida fino al ’93: «In Svezia, negli an-ni ‘70, l’impegno sociale si respirava nell’aria. Feci pezzi politici come 4PXF�

UP, sui conflitti razziali, e -B�DBTB�EJ�#FSOBSEB�"MCB, tratto da Garcia Lorca, dove la rivolta contro l’autorità avviene in ambito familiare». È all’inter-

no del Cullberg che Mats trova la compagna della sua vita, la spagnola Ana Laguna, prima interprete della sua (JTFMMF, ispiratrice di una vi-brante $BSNFO e ancora oggi sua musa inseparabile.

Mats Ek ha annunciato di voler chiudere la sua carriera di coreo-grafo, lasciando aperta la possibilità di danzare ancora con la Lagu-na. Entrambi più che maturi, sono capaci di una sintonia strug-gente nei movimenti che riflettono le peripezie e gli sprazzi di fu-sione che possono scandire un legame pluriennale. Adorati dal pubblico della danza contemporanea, sono stati applauditissi-mi, pochi mesi fa, al Teatro Argentina di Roma. Lui afferma te-merario che «non c’è alcun rapporto fra la bellezza e l’età», e che «nel carino o nel grazioso ci può essere qualcosa di orrendo. De-testo ciò che è sdolcinato e mistificatorio». Quando sua madre aveva ottantatré anni, montò per lei -B�WFD�DIJB�F�MB�QPSUB, video-creazione macabra, crudele e scabrosissima.

In quel video Birgit si cibava avidamente di se stessa, si mostrava completamente nuda e si lasciava sfiorare l’in-tero corpo dal pene di un danzatore. Proiettato in Francia a un concorso, il filmato provocò reazioni tumultuose fra i giurati e fu bandito per sempre dalla televisione svedese. Ora è una ricercatezza prelibata per gli aficionados. «Mia madre lesse lo TDSJQU prima delle riprese», racconta serafi-co Ek, «e volle qualche spiegazione sui contenuti. Poi docil-mente accettò». Può dirli anche a noi, quei contenuti? «Peccato analizzare troppo quel che faccio. Se si apre la macchina fotografica, non si potrà più usare la pellicola», conclude Mats regalando la luce di un sorriso al suo faccio-ne malinconico.

.*�1*"$&�4.0/5"3&�*-�.&$$"/*4.0�%&--&�'*"#&�&�"556"-*;;"3-&�."�4&/;"�53"%*3/&�*-�4&/40�/²�*-�/6$-&0�4*.#0-*$0��-�&3&%*5®�$6-563"-&�μ�6/�7"40�$)&�30.10�&�3*$0.10/(0��/0/�4/"5630�(-*�03*(*/"-*

Ha appena ricevuto il Premio Europa già vinto in passato dai cam-

pioni delle arti teatrali d’Occidente, da Peter Brooke a Pina Bau-

sch: “Mi piace il nostro Vecchio continente, il suo essere forte

nell’eterogeneità delle sue culture e proprio per questo anche tan-

to fragile, come si vede”. Svedese, settantuno anni, dopo aver se-

gnato la scena contemporanea come coreografo e come regista,

ha deciso di chiudere qui la sua carriera lasciandosi aperta la pos-

sibilità di danzare ancora. Ma so-

lo con la spagnola Ana Laguna,

sua inseparabile moglie e musa:

“Non c’è alcun rapporto tra bel-

lezza e età. Detesto lo sdolcina-

to. Nel carino si cela l’orrendo”

-"�.*"�7*5"�.*�"11"3&�$0.&�13*7"�%*�0(/*�*/5&3&44&��&�/0/�#*40(/"�/&1163&�"/"-*;;"3&�530110�26&--0�$)&�'"$$*0��μ�$0.&�6/"�."$$)*/"�'050(3"'*$"��4&�4*�"13&�-"�."$$)*/"�'050(3"'*$"�10*�/0/�4*�1053®�1*Ä�64"3&�-"�1&--*$0-"

AA

.BUT

ª3*130%6;*0/&�3*4&37"5"

μ�*.1035"/5&�"((3"11"34*�"--"�

$6-563"*-�5&"530�

μ�6/0�4536.&/50�%*�%*"-0(0 �6/�.0503&�%*�3"11035*�6/0�45*.0-0�

"--"�$*3$0-";*0/&�%*�1&/4*&3*�

&�4&/5*.&/5*

-&0/&55"�#&/5 * 70(- * 0

&L

AA

AA

-�JODPOUSP��(SBOEJ�OPSEJDJ