Il flânare impacciato, in picchiata, dell'impiccato

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  • 7/31/2019 Il flnare impacciato, in picchiata, dell'impiccato

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    ILFLNAREIMPACCIATO, INPICCHIATA, DELL'IMPICCATO

    Un mezzogiorno d'estate al suo picco, i miei occhi non avevan visto mai buio pi fitto. Deportato

    dagli elementi al confine della realt, sedevo a cavalcioni, tra la fine del mondo e quella dei miei

    giorni. Un pensiero passeggero portava il senso della vita, lo sgridai con voce di tuono e misbarazzai d'ogni domanda: non era questa la mia partita. Cercai d'assopire i sensi come strappando

    ad uno ad uno petali dalla corolla: restai con lo stelo divorato dal di dentro, corteccia della mia pelle

    dalla malattia crepata. Pungiglione dorato, zanna adamantina, chela di cristallo, artiglio serico...

    dove sei fuggita, mostro mio?

    Allungo le mani a casaccio, ficco in corpo quel che trovo, e per impagliarmi per bene mi svuoto di

    organi intravisti in appendici d'anatomia: quello che liquefaceva le paure in cancrena, l'atto a

    sintetizzare gli ormoni dell'invecchiamento tutto un tumore, si moltiplica ed ingigantisce. Avendo

    smesso d'invecchiare e d'aver paura, comincio a nuotare tra le spighe alte di un campo di grano. La

    paglia cos buona e ligia che si vuole immolare ad imbottitura. Io son troppo sazio e stanco,

    propongo un patto: invertiamo i ruoli. Cerco in tutto il covone la pula pi grande, lei si sveste e mi

    concede del chicco il posto. Riposo nel giallo, tanto che le stelle ed il cielo sono un colore.

    La pioggia plana ordinatamente, danza tra noi fino a sfinirsi e s'accascia al suolo: talpe ed altri

    animaletti forano il terreno, provetti alberganti rimboccano la terra sul loro capo. Galvanizzati

    tuffatori, si gettano consenzienti i chicchi nelle ceste: seguo l'onda e mi trovo a rotolare sulla

    terracotta dell'argilla gratinata al sole, solleticato e solleticando i miei dorati compagni. La macina

    ci bacia come labbra inesperte e delicate di bambini, la dolcezza ci sbriciola. Mi addormento. Sogno

    di essere pane rituale, offerta per il ritorno della primavera in un mondo che soffro e prega. Una

    sacerdotessa mi stringe al petto, poi m'innalza con mano ed avvicinando l'altra, strappa.

    Mi sveglio e sono ancora nella distesa di grano, una gazza irrompe col suo nero manto, nero becco;

    da un lato occhio e dall'altro mistero nero. A bordo del loco oculare, sorvoliamo uno scenario su cui

    non volevo sorvolare: scarti di mattatoio s'imbrigliavano in vincoli di eterno dolore, per

    fronteggiare un vento che disperdeva chi, solo su una gamba o aggrappato con una sola mano,

    veniva spazzato. E gli occhi, naturalmente strabici, puntavano in direzione non-so-dove. Ma non ero

    forse impantanato nello stesso melmoso compromesso, a ibridare malvolentieri nel resistere ai

    venti? Ecco atterra su una pozza di lacrime dal colore scuro, la consistenza viscosa e ciononostante

    trasparente, ultimo lascito dei caduti in solitudine. Nell'inchinare il becco al bere, vedo l'artiglio e

    intravedo le zanne: ma non sar colpa del vento il mio colmare le sue falle, sorreggere e correggere

    il volo. Il riflesso si distorce al cadere di una lacrima d'oro, lacrime dall'occhio che ero e che non

    sono pi: riemergo colombo. Stentato e slanciato, imperfetto e impettito.

    E se vuoi venire, inseguimi! Io mi ribello e dirigo controvento. Muori sola o annientati, unita a

    qualcosa cui non appartieni! Oppure vivi in lotta contro un cappio mio gemello, in ostilit alla legge

    della catena che lega per maglie di debolezza... viviamo da ribelli! La mia rotta non conosce

    rimorsi, n peccato, e verr spiccata: sull'amore e sulla vita, il flnare impacciato, in picchiata,

    dell'impiccato che s' salvato.